TEATROMONDO Mao II (foto: Simon Gosselin)
Parigi, una finestra sul mondo nella Babele delle lingue Il Festival d’Automne conferma la vocazione cosmopolita e l’attenzione al contemporaneo con un ritratto di Claude Vivier, la trionfale accoglienza a Tiago Rodrigues, l’ampio spazio alla cultura giapponese e la potenza visionaria di Julien Gosselin. di Giuseppe Montemagno
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arole come pietre. È sul mistero delle parole – sull’effetto che producono nell’immaginario collettivo e nella società civile – che punta i riflettori l’edizione numero 47 del Festival d’Automne di Parigi, firmata da Emmanuel Demarcy-Mota: sempre fedele alla sua vocazione d’origine (orizzonte di caratura internazionale, attenzione alla creazione contemporanea, dislocazione degli spettacoli non solo nella capitale ma nell’intera regione) ma sempre più alla ricerca di un’apertura di dialogo, indispensabile in una città messa a ferro e fuoco dai gilets jaunes. Il pubblico del Festival è abituato alle sfide: affrontate zaino in spalla, con un kit di sopravvivenza per le maratone. Tra queste la più avvincente è stata quella proposta da Julien Gosselin, che all’Odéon-Berthier si sofferma su una trilogia di romanzi di Don De Lillo, Giocatori, Mao II e I nomi, per una durata che sfiora le dieci ore di spettacolo. Proprio la
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dimensione temporale assume tratti romanzeschi, in una potente saga alla Coppola, ambientata nell’ultimo quarto del Novecento, per illustrare il legame tra l’insorgere del terrorismo e la forza manipolatrice del discorso. Dagli Stati Uniti al lontano Oriente, passando per il bacino mediterraneo, i tre pannelli ripercorrono vicende parallele: la crisi di una coppia qualunque, quando un atto terroristico ne sconvolge la quotidianità, tanto da spingere il protagonista Lyle, gelido lupo di Wall Street, ad aderire a una cellula di estrema sinistra; la crisi degli artisti – uno scrittore, un editore, una fotografa, un archivista – alle prese con la violenza dei grandi predicatori, da Mao a Khomeini; e infine l’itinerario esistenziale di un uomo d’affari statunitense, un nuovo nomade del capitalismo, che viene coinvolto in un thriller internazionale, alla ricerca di una setta che uccide persone con le medesime iniziali. Vent’anni prima dell’11 settembre, tratteggia
un mosaico sfaccettato che cerca di spiegare come gli Americani vedono il mondo: facendo affidamento su una pluralità di linguaggi visionaria, a partire dai primi novanta minuti, occupati da un film che poi scivola nella rappresentazione teatrale. L’isteria collettiva diventa la chiave di volta per disvelare l’ambiguità del linguaggio, fino alla celebrazione della glossolalia, lingua che fa deflagrare la Babele dell’incomprensione, in un finale ansiogeno, attanagliante. L’origine del mondo Parole da tutto il mondo. Dall’Italia, le parole scaturiscono dal mito nel nuovo spettacolo di Silvia Costa, Nel paese dell’inverno, tratto dal testamento spirituale di Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò. L’artista imposta un’imagoturgia che indaga l’associazione tra forma e rappresentazione, spazio scenico e corporeità di tre artiste, depositarie dell’antico e del suo