Hystrio 2019 1 gennaio-marzo

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VETRINA

Andrey Moguchy: se il teatro non ti piace, cambialo A San Pietroburgo, nelle giornate del Premio Europa per il Teatro, incontriamo il regista russo, sperimentatore sfrenato al tempo della glasnost’, capitano oggi di uno dei più raffinati teatri della metropoli. di Roberto Canziani

E

ra affascinante – quando lo conobbi nel 2011 – quella sua aria da lupo di mare. Quasi fosse sbarcato da una battuta di pesca nelle acque del Baltico. Andrey Moguchy: folta barba selvaggia, sguardo penetrante, un berretto blu navy da cui non si separa mai. Cinquantenne in quei giorni, nella sua San Pietroburgo riceveva il Premio Europa Realtà Teatrali. E per il pubblico internazionale convenuto nell’antica capitale degli zar, allestiva sul palcoscenico enorme del Teatr Alexandrinsky uno dei suoi spettacoli più belli. L’indimenticabile Uccellino azzurro di Maeterlinck, da lui ribattezzato Schast’e (Felicità). L’immagine da Capitan Findus e il sentore di mari settentrionali che si percepivano allora conversando con lui, contrastavano decisamente con la sua pratica di regista sfrenato, caotico, estroverso e – in quel Maeterlinck – perfino burattinesco. Pance spropositate, nasi finti, testoni di legno, un mondo da circo. Non fu facile far-

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gli confessare che prima di dedicarsi al teatro aveva studiato seriamente ingegneria aeronautica, e che tutta quella scienza gli era tornata, tutto sommato, utile. Per esempio: per rinnovare con un colpo d’ala la tradizione della regia russa. Nel 1990 lui e alcuni compagni d’avventura, spinti dalla glasnost’ che aveva cominciato a sciogliere anche il sistema rigido dei Teatri di Stato, decisero di fondare il Formal’ny Teatr, compagnia indipendente d’avanguardia. «Avevamo tutti l’impressione – racconta – che da quella scuola aeronautica, più che ingegneri ben equipaggiati, uscissero compositori, scrittori, registi, attori: gente devota all’arte». Gente come lui che, incasellato dai primi giudizi critici tra i post-moderni, si era quasi quasi convinto di far parte di quella combriccola emergente. Trentenne, era partito da Ionesco, La cantatrice calva, aveva poi inventato un suo Orlando Furioso, e si era cimentato pure con Hamlet-Machine di Heiner Müller. «Ho scoperto più tardi – ricorda – che

il post-modern somiglia molto a una frittata bulgara: ci metti certo le uova, la pancetta, la cipolla, i pomodori, le spezie, tutto quello che ti capita sottomano. Ma finché non trovi il fornello per cucinarla, resta una poltiglia cruda, immangiabile». Diventava quindi importante, per lui, lasciarsi alle spalle il formalismo giovanile del Formal’ny Teatr. Un teatro verde confetto Con Moguchy ci si rivede adesso, di nuovo a San Pietroburgo, dato che il Premio Europa 2018 ha predisposto una sezione intitolata I Ritorni (dedicata a lui e a Lev Dodin). Sul suo orizzonte ci sono ora i sessant’anni, ma l’aria da lupo di mare è sempre la stessa, berretto blu compreso. Per celebrarlo, al Tovstonogov Bolshoi Drama Teatr, sulle rive della Fontanka, il teatro gioiello dipinto di verde confetto che lui dirige, torna di nuovo in scena Groza (La tempesta). Non quella di Shakespeare, ma quella di Ostrovsky, che mette in subbuglio ani-


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