collana di narrativa breve 2
a cura di Federica D'Amato
Giuseppe Rosato Abitare un foglio
Editore: Mario Ianieri Illustratrice: Michela Tobiolo Progetto grafico: Federica Di Pasquale Promozione e diritti: Rosamaria Ianieri Redattore: Federica D’Amato
Š 2014 Ianieri Edizioni www.ianieriedizioni.it
Tutti i diritti riservati Prima edizione giugno 2014 ISBN: 978-88-974-1772-9
La collana Bartleby nasce da un’idea di Federica D’Amato. “Bartleby lo scrivano” (Bartleby the Scrivener) è un racconto di Herman Melville pubblicato nel 1853 sulla rivista americana Putnam’s Magazine. L’opera è apparsa per la prima volta in Italia nel 1946, in appendice a Le isole incantate, traduzione di Giuliana Beltrami (Gentili, Milano).
Di stanza in stanza di Massimo Del Pizzo* Le mie buone intenzioni non erano andate oltre le prime pagine; nelle altre c’erano i labirinti. J.L. Borges
Giuseppe Rosato, cultore delle forme brevi o anche brevissime della scrittura, a buon diritto entra in questa nuova collana che, come dichiarato nei progetti di chi la pubblica e di chi la cura, intende esplorare i chilometrici labirinti del non detto. Ci sono autori che hanno privilegiato, forse con enormi aspettative, il romanzo; altri che, contemporaneamente, si sono dedicati anche alla novella e al racconto, altri ancora che un romanzo non lo hanno mai scritto. Lasciamo alla memoria e alle conoscenze di altri il piacere di redigerne eventualmente un elenco. Io preferirei di no‌ Insomma, mentre alcuni hanno elaborato ambiziosi progetti narrativi, molti si sono arrestati sulle soglie del narrare e per i motivi piÚ diversi. Non necessariamente poi le forme brevi della scrittura sono contro il romanzo; diciamo che sono una alternativa e rispondono ad altre volontà . A progettualità diverse.
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Se si escludono Un regno è un regno (Edikon 1969), divenuto poi Il regno di boccuccia (Manni 1998) e Le storie di Ofelia (Carabba 2007), che sono romanzi brevi, Rosato ha scritto, oltre a poesie, soprattutto moltissimi racconti e microracconti, epigrammi, aforismi, appunti e pagine di diario in pubblico.1 Leggendo i testi qui raccolti, mi torna in mente che, in altri tempi, sono stato un abile e appassionato giocatore di Lego, i mitici mattoncini commercializzati ancor oggi, coi quali si costruiscono case, palazzi, città intere. Casette già progettate, complete di porticine e finestrelle, erano contenute in scatoline ad hoc, vuotate le quali un architetto bambino imbastiva la trama delle sue città miniaturizzate, e dunque dominabili con la fantasia. Alla fine del gioco, il tutto confluiva in una scatola più grande (una volta aveva ospitato biscotti…) che alla rinfusa conteneva i pezzi utilizzati, ora mescolati fra loro nel disordine più completo. Ricordo ancora l’inebriante senso di onnipotenza nell’aprire quel contenitore di cui mi illudevo di dominare il contenuto. Ed era quasi così. Infatti, ogni mattoncino riconduceva alla propria origine, cioè la casa per cui era stato progettato: bisognava dunque ______________ 1. Il lettore curioso ne troverebbe i riferimenti bibliografici nel mio Un libro d’occasione per Giuseppe Rosato (Carabba, 2014).
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ricomporre invece che inventare. Poi, sapientemente manipolato, estrapolato ed “estraniato”, ogni pezzo fungeva da materiale anche per altre costruzioni non previste dal Piano regolatore della Città degli Adulti, ma già lievitante nel Piano Sregolato della Città del Sogno. Sorvegliato quel mondo disfatto, sicuro di saperlo ricostruire a mio piacimento anche, e direi soprattutto, violando le originarie architetture, mi avventuravo nell’invenzione. Ne venivano fuori città contraddittorie, cioè espropriate della propria funzione e dimentiche della propria origine; dimore incongrue, incoerenti, che così tanto alimentavano e soddisfacevano la fantasia del loro progettista, un bambino ignorantissimo di misure, calcoli e prospettive, ma dotato di salutare incoscienza e aggressiva fanciullezza. Dunque: ordine e progetto (le scatoline), disordine e disorientamento (il contenitore) e poi ordine e disordine coniugati, cioè una nuova costruzione ma senza un vero paradigma, quindi finalmente una invenzione. Non c’era dietro un Grande Progetto, non volevo cioè costruire la Città delle Città, ma ne nasceva un mondo nuovo. Con pazienza, e giocando, nelle sue prose brevi o brevissime (siano apologhi, aforismi, epigrammi, uniche pagine sparse), Rosato smonta e rimonta, scarta, esclude, elude e torna a selezionare, a cancellare per costruire ciò che prima non c’era.
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Come è noto a qualcuno, se non a tutti, cancellare è più difficile che scrivere, non progettare è più difficile che progettare, non imparare è più difficile che imparare; e ci vuole più tempo a comporre una sola pagina che un intero romanzo. Mettendo da parte progetti faraonici, opere definitive e falsamente salvifiche, di frammento in frammento si erige con le parole, invece che coi mattoncini di plastica, una costruzione dove non c’è spazio per l’ovvio e il luogo comune, che Rosato da sempre aggredisce e demolisce. Una casa elegante e sobria, di dieci stanze (tante sono, da Abitare un foglio a La gallina esemplare) visitando le quali, tra un mobilio essenziale, si trovano i segni della presenza del suo abitatore, i temi e le figure che più gli stanno a cuore, da sempre: siano scale a forbice, partite ancora da giocare o che non si giocheranno mai più, eternità da spendere o già spese, parole in esubero, meteorologie fantastiche, uomini in frantumi, guerre perse o da perdere, viaggi da non viaggiare e perfino una gallina metropolitana, ignara di tutto, a spasso, un po’ spaesata forse, fra l’uscio semiaperto di una casa e il cancelletto del cortile.
* Si ringrazia il professore Massimo Del Pizzo che, all’insegna della lunga amicizia e del vivo sodalizio intellettuale intrattenuto con Giuseppe Rosato, ha provveduto all’organizzazione in “stanze” di questi fogli, e dei loro approdi nella casa del pensiero.
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Abitare un foglio
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Dopo case abitate per troppi anni, e decenni, scoprire adesso che il solo ultimo approdo sia abitare un foglio. Case, nel tempo, che svelavano poi mani preste ad afferrarci, tanto che non farsene preda era fatica immane e puntualmente sterile. E lo strappo, ogni volta poi lo strappo, le pareti così cariche da dismettere, da lasciare nude di ogni cosa delle tante che ne avevano con cura preso possesso, pronte per chi sarebbe venuto ad abitarle. Le case così pronte ad aduncare, a rompere l’ipotesi (o il sogno) del viaggio all’improvviso libero, all’improvviso sgombro dalla pena di radicarsi, ancora e ancora, per abitare altre case, abitarle e riempirne le pareti fino all’ultimo lembo, mano a mano negli anni… Oppure abitare un qualcosa che si dissolva a un punto finalmente, farsi senza peso abitanti di un foglio, una casa di nulla ma enormemente estesa, e metterci ogni tanto arredi di vanità ma leggeri, e un letto per dormirci infine il sonno non più dormito di bambino, e ogni lieve cosa 13
da farsene minuscole ragioni di vita. Abitare una casa senza confini grande come un foglio, che basterĂ domani bruciare o disperdere a un colpo di vento e non sia peso di sbaraccamento, nĂŠ pena di spartizione, o di vendita.
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La scala a forbice
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La scala a forbice resta ormai sempre aperta, nello studio, davanti alle alte scaffalature che circondano le pareti. Da quando la vista s’è fatta debole, è diventata operazione indispensabile salire almeno sui primi due o tre pioli per poter identificare e leggere i titoli sul dorso dei volumi collocati più in alto. La pigrizia, e la stanchezza crescente, sconfortano dal richiuderla ogni volta e riporla dietro l’uscio dell’adiacente stanzino. Viene da pensare alla scala che nei cimiteri sta ai piedi dei grandi colombari dai quali si affacciano i riquadri di marmo con i nomi e le date. Il visitatore deve solo spostarla, aggiustandosela in modo che possa salire a deporre fiori e lumini davanti al nome della persona cara. Nello studio vado spesso a tentoni, quando devo cercare un titolo o un autore che sembrano divertirsi a nascondersi. Muovo allora la scala, provo dal primo, poi dal secondo gradino e se la ricerca non dà esito mi avventuro più in alto. Come per il parente o l’amico povero, al quale 17
non sia stato possibile dare più accessibile collocazione nei costosi loculi delle prime file, così per il libro meno importante o meno usato lo scaffale riserva i suoi impraticabili posti a contatto con il soffitto. La ricerca conduce intanto a incontrare, a caso, nomi e titoli dimenticati. Ritrovarli è proprio come scorgere di passaggio, al cimitero, il malinconico ovale con l’immagine di un volto noto, e dire: guarda, c’è anche lui. E si va allora più vicino, a leggere la data del suo arrivo. Nello scaffale c’è dunque anche quel libro che da tempo immemorabile s’era perduto di vista, sicché ci si era dimenticati di possederlo. Quanti altri ce ne staranno, sepolti da anni e forse destinati a rimanere tali fino all’alienazione che qualcuno dovrà poi pur provvedere a operare. Poveri libri morti, o peggio dimenticati, ai quali tuttavia la scala a forbice sempre aperta parrebbe dare la speranza che una mano un giorno salga a riprenderli, che un soffio li spolveri, che un’occhiata affettuosa li faccia rivivere un poco, come accendendo per ricordo un lumino o depositando un fiore.
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