Andrea Pazienza il mio nome è Pentothal

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ianieri editore

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saggi


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Nella testa di Andrea Pazienza vivevano mille personaggi in grado di vivere in mille modi diversi. Alcuni li ha raccontati con i suoi disegni, altri se li è portati con sé, e li ha fatti entrare in scena nella sua vita quotidiana. Ma in ogni caso era sempre lui il protagonista, Andrea Pazienza: il volto tagliente di Zanardi, quello stanco di Pompeo, il ghigno sagace di Pertini erano tante facce della sua personalità, del suo modo di rapportarsi con il mondo. Per questo non è sempre facile, nella miriade di tavole, scritti, interviste e testimonianze trovare il Pentothal, la chiave che permetta di capire come stanno realmente le cose. Così ha usato il suo corpo come modello sempre a portata di mano per disegnare («Quando disegno un corpo, io disegno o il mio antenato Arcadio Paz, o un corpo degradato, o migliorato, o flamenchizzato, o insensualito, ma sempre il mio corpo»), così aveva trasformato la sua vita in una continua narrazione, dalla quale per attingere all’occorrenza per le sue storie a fumetti. Diviso tra realtà e rappresentazione, poteva rievocare un ricordo materno e dire di aver disegnato un orso a 18 mesi («testimonia quanto era forte in me il bisogno di disegnare»), quando magari anni prima aveva confessato che quell’orso se lo ricordava benissimo anche lui e che quindi

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non poteva averlo disegnato così giovane. Non deve sorprendere quindi che il protagonista delle straordinarie avventure di Pentothal si chiami proprio Andrea Pazienza, e sia uno studente meridionale del Dams di Bologna che si paga le spese disegnando fumetti. Una vera e propria autobiografia a fumetti, la «prima, splendida e insuperata opera d’arte di Andrea Pazienza», come la definì Oreste Del Buono, direttore delle riviste Linus e Alter, che dal numero di aprile 1977 iniziò la pubblicazione delle prime diciotto tavole di Pentothal. Il successo fu immediato. Pazienza venne acclamato come il caposcuola del nuovo fumetto italiano e Pentothal, oltre a diventare un’icona del Movimento del ’77, divenne anche «il romanzo di formazione di un’intera generazione»1. Pentothal diventa quindi il suo alter-ego onirico, il suo siero della verità a fumetti. Il lettore assiste a un continuo alternarsi tra la realtà di Andrea e quella di Pentothal, tra gli eventi dell’epoca, raccontati con lo spirito di un cronista, e la fantasia sfrenata che, con la crudele illogicità dei sogni, mescola desideri e paure, esperienze ed aspirazioni, vita e paura della morte, così come paura della vita e di vivere. Il nome fa riferimento al siero della verità che Andrea Pazien-

1  Felice Cappa, da “I viaggi di Pentothal”, nota critica a Le straordinarie avventure di Pentothal, Nuova Edizione, Baldini&Castoldi 1997.

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za aveva visto al cinema con i primi film dell’agente 007 e anche leggendo i fumetti di Diabolik, dove il protagonista utilizzava il farmaco sulle sue vittime per farsi dire tutto e poi prendere le loro identità. Ma il Pentothal primigenio era in realtà «un agente segreto fascista interprete di una violenta missione nel deserto africano dove circolano spie sgangherate che ricordano il gruppo Tnt di Alan Ford»2. A Bologna Andrea Pazienza riutilizzerà questo personaggio per il nuovo fumetto da proporre a Linus: Pentothal è quindi Andrea Pazienza quando vaga nel mondo dei sogni, mondo dove non esistono segreti nè inibizioni, e dove ogni racconto diventa un viaggio intimo e sincero nel proprio inconscio. “Le straordinarie avventure di Pentothal” sono anche un conflitto tra la realtà metropolitana bolognese, l’ambiente in cui si muove fra tante difficoltà il giovane studente Pazienza, e la natura nuda e volte aspra in cui si svolgono le vicende di Pentothal, tra lussureggianti foreste tropicali, villaggi indigeni, sterminati deserti. Luoghi che, in una Bologna provata dalla repressione del potere alle proteste giovanili, dovevano apparire ancora più remoti e inavvicinabili. Pazienza apparteneva già alla generazione che all’orizzonte del viaggio, della scoperta, dell’avventura, aveva dovuto rinunciare e accettare 2  Felice Cappa, da “I viaggi di Pentothal”, cit., pag. 146.

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i richiami vistosi, roboanti, esagerati e a volte grotteschi della pubblicità e della televisione. Figli del boom economico e del consumismo, che prendono il sopravvento tra la fine degli anni ’50 e gli inizi dei ’60, scopriranno con rabbia che dalle nuove opportunità la società repressiva dei padri padroni pensava di poterli escludere. La prima opera di Andrea venne realizzata grazie anche all’incontro di più fattori: innanzitutto il bisogno urgente di raccontare la vita universitaria con le sue angosce e le turbolenze del Movimento bolognese. E in questo – è riconosciuto da tutti – Andrea fu testimone preveggente e privilegiato di un presente più privato che collettivo, individualista e anticipatore di quello che sarà il cosiddetto “riflusso” degli anni Ottanta. Poi la necessità di guadagnare soldi ed essere autonomo, di non gravare più sulle tasche dei genitori. La redazione di Linus, con Fulvia Serra in testa, lo incontrò per la prima volta il 24 febbraio del 1977. Tutti si resero subito conto di trovarsi davanti a un artista di valore. Tanto che le tavole vennero mandate in stampa già a marzo, per il numero di aprile, dopo la sostituzione dell’ultima tavola dedicata alla contestazione bolognese. Sullo sfondo della narrazione, nei sogni di Pentothal, appare anche lei: Isabella, la donna amata da adolescente ma che la nobile famiglia di lei gli impedì di frequentare. Più avanti sarà il traumatico distacco da Elisabetta Pellerano, la fidanzata bolognese, a segnare profonda-

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mente le scelte di Andrea, che nel 1985 si “vendicò” sposandosi. A sessanta anni dalla sua nascita e a quarant’anni circa dalla realizzazione e della pubblicazione delle prime tavole di “Pentothal”, ripercorrere la storia dell’alter ego di Andrea Pazienza, e tornare a vivere quegli anni controversi attraverso i suoi occhi, vuol dire dunque conoscere gli anni di una generazione – quella comunemente chiamata “Movimento del ’77” – isolata e tradita, sia dalla politica che dalla cultura “ufficiale”. Pazienza arrivò a Bologna proprio quando il mito di Bologna la Rossa stava scricchiolando. In realtà la contestazione giovanile aveva infuocato tutte le città sede di grossi centri universitari, dove le facoltà non erano più frequentate quasi esclusivamente da studenti provenienti dai ceti benestanti, ma anche da giovani provenienti dal proletariato. Dopo il ’68, dopo quasi un decennio di contestazioni nella scuola e nella società, il rigore rivoluzionario dei vecchi gruppi appariva oramai inadeguato, e la contestazione giovanile cominciò a prendere di mira i sindacati e le stesse organizzazioni extraparlamentari. A ciò si aggiunga che il movimento femminista, soprattutto a Bologna, ebbe una crescita molto forte e all’interno del Movimento portò avanti le sue istanze di liberazione dall’oppressione maschile. Andrea Pazienza assorbì con vorace curiosità la cultura underground, le assemblee contro la repressione e l’autoritarismo, gli scontri tra autonomi e

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polizia, i primi morti ammazzati durante le contestazioni, la liberazione omosessuale, il femminismo, l’antiproibizionismo e, più tardi, anche l’eroina. Vide nascere le prime radio libere (a Bologna c’era Radio Alice) e proprio nel 1977 arrivò la prima ondata punk. Convinto probabilmente di essere già un artista affermato, lo studente Pazienza dovette fin da subito confrontarsi con una città che non era la tranquilla e accogliente Pescara degli anni del liceo e di Convergenze. Le contestazioni studentesche, lo stile di vita quasi snob di una sinistra eccessivamente borghese e l’inatteso caro prezzi (un panino costava quanto un pranzo a San Severo!) mal si conciliavano con le abitudini di un “terruncello” bohemién, come scherzosamente si definiva con gli amici più cari di San Severo. E in ogni caso, anche se non l’amava, di quella Bologna e di quella gioventù “diversa”, per usare ancora le parole di Felice Cappa, Pazienza fu il cantore. Fu l’artista sicuramente più amato, insieme agli Skiantos di Freak Antoni e Stefano Cavedoni, al Boccalone di Enrico Palandri, ai Gaz Nevada, ai programmisti di Radio Alice, agli artisti della Traum Fabrik. Ma a esplicitare esaustivamente cos’era a contraddistinguere Andrea Pazienza dagli artisti che agitavano lo scenario bolognese e, più avanti, quello nazionale, sono due critici e un collega: lo scrittore emiliano Pier Vittorio Tondelli, che con Pazienza condivise gli studi bolognesi, il critico letterario Re-

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nato Barilli, che al Dams insegnava Storia dell’arte contemporanea, e Vincino, pseudonimo del disegnatore e giornalista Vincenzo Gallo. «Andrea», scriveva Tondelli «riconduceva qualsiasi stimolo esterno – l’occupazione della facoltà, gli scontri con la polizia, o la tesina dell’esame di italiano – alla sua arte, cioè a quello che era il suo modo di vivere, l’unico che, come ogni grande talento, conoscesse: quello della propria ispirazione. Andrea non trovò quindi la propria vocazione con i fatti del 1977, ma seppe, in quell’occasione storica, come sottolineò il suo scopritore Oreste Del Buono, piegarla alla propria sensibilità».3 Per Pazienza Barilli conierà il termine “polistilismo” facendo discendere la sua arte a quella di William Blake: «Pazienza è degno di tanto padre, in quanto anche lui fa fiorire la pagina, come un abile giardiniere che semina qua e là giuste semenze, traendone erbe, fiori, ortaggi, secondo una calcolata strategia, o si potrebbe ricorrere anche alla similitudine con le tecniche del tatuaggio, che incistano nelle epidermidi tanti piccoli nuclei puntiformi; il racconto cresce in modo discontinuo, atomistico, ma ottiene una sua consistenza indelebile...».4 «Il segno del tempo. Era quello che cercava Andrea, è quello che cercano alcuni di noi. Non tutti», scri3  Pier Vittorio Tondelli, Andrea Pazienza, Editori del Grifo 1991. 4  Renato Barilli, “I giardini incantati di Andrea Pazienza”, Sagarana, rubrica “La lavagna del sabato”, 19 luglio 2008.

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ve Vincino. «C’è chi bleffa, chi non racconta più nulla, chi ha tirato i remi in barca. Andrea no, Andrea era rimasto cocciutamente un’avanguardia. E come altre avanguardie è finito massacrato dalla vita».5

“Il mio nome è Pentothal” diventi il giusto tramite per far conoscere e apprezzare un grande artista italiano anche a quanti non amano l’arte veloce del fumetto.

“Le straordinarie avventure di Pentothal” è quindi un’opera complessa, dove per la prima volta in Italia il fumetto diventa strumento per raccontare fenomeni sociali e dove il narcisismo autobiografico dell’artista si confronta duramente con la cronaca e il vissuto, e quindi con la storia. Il romanzo di Pentothal è a sua volta un reportage, la cronaca di un disegnatore unico e sincero, di un artista “estremo ma mai estremista”, di un giovane che in vita e in morte ha viaggiato sopra le righe per essere sempre pronto a dare il suo tocco finale agli accadimenti. Andrea Pazienza è stato nel fumetto quello che i Beatles sono stati nella musica. Una rivoluzione e una sfida, di pensiero e di stile. Un’avanguardia e un caposcuola. Parlare di Andrea Pazienza alle nuove generazioni e a quanti non conoscono la sua opera di fumettista, caricaturista, artista visivo vuol dire iniziare da Pentothal, dal racconto dei sogni e dei disagi di un talentuoso artista di provincia che a 19 anni approda a Bologna per studiare al Dipartimento di Arti Musica e Spettacolo (Dams) fondato dal semiologo Umberto Eco. Non resta allora che augurarsi che 5  Franco Giubilei, Vita da Paz, BlackVelvet edizioni 2011.

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