Respira - Valeria De Luca - Ianieri Edizioni

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Valeria De Luca

RESPIRA



Forsythia 8


In copertina Foto di Ilias Fragkakis. Tutti i diritti riservati. Impaginazione Edizioni “Le matite colorate” sas Via E. De Amicis 1/5 – 65123 Pescara Tel. 085.2058245 © 2014 Ianieri Editore www.ianieriedizioni.it – info@ianieriedizioni.it Questo romanzo è frutto dell’immaginazione. Personaggi e fatti sono di pura fantasia; i luoghi, laddove reali, sono trasfigurati dallo sguardo del Narratore. Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi. ISBN: 978-88-974-1760-6


VALERIA DE LUCA

RESPIRA

ianierieditore



A Rajo, al bambino sorprendente di qualche anno fa (che ha ispirato questo libro), all’affascinante adolescente di oggi.



I

A Flaminio c’ero arrivato trafelato, avevo trovato la stazione stracolma. A quell’ora le comunità di zingari si radunano alle spalle di Piazza del Popolo e riprendono il largo verso la periferia. Nel caos, che toglie l’ossigeno, qualcuno impreca sempre contro di loro. A me si stringeva il petto, invece, solo a vederli. Come se una cinghia di colpo mi avvolgesse il torace. Stavano lì, serrati, in piedi, stretti come fiori a mazzi. Questa gente non ha futuro, mi dicevo, creperà nel branco. Al pensiero la cinghia intorno al petto mi procurava l’orgoglio di essere un uomo, uno. Altre volte, però, come quel pomeriggio, la moltitudine disgraziata mi pareva il coro delle anime in paradiso. Da un angolo bruciante li osservavo con invidia. Essere una tribù, uno straccio d’assemblamento, una famiglia, che cosa vuol dire? Qualcuno me lo spiega o devo schiattare senza saperlo? Con questo stato d’animo salii sul treno, una metropolitana per la periferia. Dai diciott’anni lo prendevo una volta alla settimana, non mi ero dimenticato di avere una madre, ma di più sarebbe stato roba da femminucce. Il treno filava dritto per le stazioni, una dietro l’altra. La fermata di Prima Porta mi arrivò in faccia. Mi feci largo e scesi, sovrappensiero. 7


Quando, nell’atrio della stazione, mi ritrovai davanti il secondo marito di mia madre. Un uomo alto e grigio. Mite. Che fosse venuto a prendermi alla stazione era del tutto inusuale, non accettavo simili gentilezze e lui mi rispettava. Anni e anni prima, mi ero dato appena il tempo di presentarmi, me l’ero squagliata in un posto letto in affitto con altri dell’università. Mi facevo i fatti miei e punto, era una regola che stava bene a me per primo. Non mi ero chiesto chi fosse quel discreto signore e come fosse entrato nella nostra storia, né l’avevo chiesto a mia madre. L’avevo annusato a distanza, per lei era una buona rivoluzione, bastava così. Cominciata l’università, la mia vita si era espansa al di fuori del cerchio d’ombra di casa. Io come un albero che da una notte all’altra getta rami nell’aria e vince la gravità. Ora, anche l’epoca di studente era lontana. Ero passato dietro a una cattedra e quest’uomo mi sembrava più distante che allora. – Senti... – mi guardò un istante, coi suoi occhi grigi, poi scoppiò in un incitamento forsennato – senti dobbiamo far presto! – afferrandomi per un braccio e spingendomi avanti, tremante. – Presto per che? che hai? – – Tua madre! – con gli occhi lucidi. La sua sagoma mite era annegata in un lago di tristezza oscura. – Mia madre? – la cinghia mi diede una stretta così forte sul torace che smisi di respirare. Mi appoggiai al muro e con una mano mi massaggiavo il petto – Mia madre cosa? Vuoi parlare sì o no? – Ma non ce la fece a darmi spiegazioni. Mi stava davanti in preda al terrore. Col suo cuore di pane.

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Diversamente da quanto ricordavo di mio padre: che avrebbe fatto, quello, dove diavolo si rifugiava? Non ricordavo di aver assistito mai a tragedie tra quello e mia madre. Al contrario, la sensazione che trattenevo di lui nel corpo era di un’assenza. Come quando certe stanze risultano troppo vuote, piene d’aria e di nient’altro. Mio padre mancava da casa per lunghissimi periodi. Il lavoro era il pretesto, poi via via il gioco era apparso chiaro. Un suo trasloco era stato sempre incipiente, ma per anni non realizzato. Il fantasma di un uomo aveva riempito l’immaginazione mia e di mia madre. Lei aveva creduto alle storie che le raccontava per un bel po’, finché si era svegliata dal sogno di soprassalto, guarita dal suo mal d’amore. Per me era stato diverso. Non avere un padre si era mischiato col mondo delle favole cui a quell’età credevo. E avevo inventato la mia favola, in cui mio padre combatteva una guerra in una terra lontana e ostile, che lo tratteneva suo malgrado. Ma una volta per tutte sarebbe tornato, con un bottino ricco, e il suo ritorno di gloria avrebbe cambiato la nostra vita. Ci avrebbe portati in una reggia nel cuore di Roma e lì saremmo vissuti felici per sempre. Se non fosse che, un giorno, mio padre partì. E non lo vidi più. Dalla stazione arrivammo di corsa in ospedale, io e quell’uomo mite. Camminavo perso tra i ricordi. Le spiegazioni sul malore di mia madre ci investirono nella corsia, di un candore gelido, al neon. I medici bisbigliarono di un corto circuito del cervello: – Potete entrare un attimo. Non crediamo supererà la notte – le ultime, fruscianti parole.

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Per un po’, rimasi incollato davanti al vetro della stanza di terapia intensiva, a fissare il corpo di mia madre nell’ombra. Non sapevo dove mi trovassi, forse seduto sul marciapiede davanti casa mia, come mi piaceva fare da ragazzino. Magari in braccio a uno zingaro, perché no? L’odore mi avrebbe almeno narcotizzato. Percepivo il calore del mio corpo così acceso da desiderare solo di infilarmi in un freezer. Poi di colpo sentivo il gelo, mi si stagliavano davanti le punte aguzze delle montagne, nientemeno che del Nepal. L’aria era rarefatta, faticavo a respirare. Appoggiavo la fronte sul vetro di quella stanza, e il ciclo ricominciava. Mi sentivo un prigioniero in una cella buia, non mi davano da mangiare da giorni, attorno la feccia, volevano farmi fuori. Stavo immobile, paralizzato in quell’insulso corridoio, eppure ero gettato fuori ovunque con l’irruenza dell’immaginazione, in continue dissolvenze: io piccolo, poi adolescente, poi nel futuro, di nuovo nel presente. Trascorsero alcune ore. Finché mi feci forza, per la paura che lei mi lasciasse prima che trovassi il coraggio. Scivolai nella sua stanza. – Mamma… – bisbigliai avvicinandomi nell’ombra al suo letto, a passi lentissimi. La guardavo, lei no. – Mamma… mamma che hai fatto, mamma? Che ti è preso? Guardami… – Tremavo. Avvertivo il tepore che provavo nel letto di casa da ragazzino. Sentivo in bocca i sapori di un tempo, minestra, frutti, l’odore di certe stanze, del legno o della ceramica lavati. Quella strana sicurezza di esserci. Le arrivai accanto. Le presi la mano. Un ago mi impe-

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diva di accarezzarla, le strinsi solo le dita: – Vuoi dirmi cos’hai, mamma? C’è qualcosa che non mi hai detto? Dillo a me! – Mi stava distesa davanti, una gran bella ragazza invecchiata di un po’. Non sembrava malata, pareva dormisse e basta. Occhi chiusi, capelli biondi e fluenti come i miei. Non sapevo quale barbaro avesse incrociato il nostro albero genealogico. – Che posso darti, mamma? dell’acqua? Lo so, tu vuoi solo l’amore, non è vero? – le stringevo le dita sparlando – Ma hai me. E hai il tuo amore. Sei al sicuro. Non andartene. Non andartene sul più bello – stringevo le sue dita e sparlavo – Mi senti? Vuoi parlarmi di questo amore? Sì? Colpa mia, che non l’hai fatto? Colpa della mia fottuta indifferenza? Ti prego, però, non lasciarmi. Ti scongiuro! – strinsi più forte ancora le sue dita. Ad occhi chiusi. E sentii che anche lei, proprio in quell’attimo, mi strinse la mano. Sentii le sue dita avvolgere morbidamente le mie. Spalancai gli occhi. Vidi le sue palpebre muoversi in un tremolio appena accennato, e schiudersi. E dopo quelle le sue labbra. Non uscirono veri suoni. Le sue labbra scandirono delle parole quasi mute: “Sii felice, amore mio”. Poi si piegarono a un sorriso che non le avevo visto mai. Quel sorriso mi atterrì. In quel momento l’alba entrò. Cominciò un gran via vai dentro l’angolo di tortura dove lei stava immobile. Mi cacciarono dalla stanza come un fantasma disperato. Gli uomini dai camici bianchi si guardavano tra loro, li spiavo al di qua del vetro, appeso alle loro espressioni. Ero abituato a decifrare

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volti, ero uno sciamano agli esami, ora no. Rimasi attonito ad osservarli. Mi parevano simili agli animali nei loro rituali, agivano e non sembravano pensare, movimenti veloci, risoluti, chissà quale abitudine a compierli, mi dicevo, quanta esperienza sui corpi degli altri. Finché, di colpo, il via vai rallentò. Una danza della pioggia che si quieta non appena le prime gocce cominciano a bagnare terra. Eppure l’acqua non sta scendendo, no, mi dissi gettando lo sguardo dalla finestra del corridoio. Era comparso un sole che mi bucava gli occhi. Che ne è, della danza propiziatoria? Che razza di danzatori sono, quei medici? Il giorno dopo, nella chiesa di Prima Porta, si tennero i funerali. Il parroco, un vecchio di una campagna dei dintorni, rosso di vino in faccia, mi chiese un discorso. Acconsentii. Avrei voluto sparare a zero sulla Chiesa e sulle ipocrisie che avevo ingoiato. Ma con quel vecchio non lo feci. Lo adoravo da ragazzino, era un uomo buono. E poi il mio sfogo avrebbe macchiato di rabbia la memoria di mia madre, lasciai stare. Che tutta la gente, avevo giusto pensato in trance, le famiglie incensurate del quartiere tengano pure il mio discorso in ricordo. Lo tengano ben stretto tra le dita. Era un pensiero irreale. Ma quando salii sul pulpito e mi sistemai davanti al leggìo, col mio discorso scarabocchiato in testa, mi accorsi che un esercito di occhi mi guardava. Con un misto di compassione e distrazione. Chi siete? Che volete? Fissai la folla in ombra, che pendeva dalle mie labbra, in attesa. Allora mi resi conto. Oramai, ero separato da mia madre da un

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silenzio misterioso. Eppure mi sentivo unito a lei da sempre, sino all’estrema memoria di aver galleggiato nel suo ventre, persino nella sua fantasia. Tutto il mio mondo si rivoltò. Uscii di corsa dalla chiesa, il cuore in gola, tra la gente che si girava. Il marito di mia madre mi raggiunse. – Ti senti bene? – mi chiese coi suoi occhi grigi, la pelle sudata, mentre il sole faceva luccicare l’espressione materna che di colpo aveva preso. – Lasciami stare. Voglio rimanere solo – e mi dileguai nel caldo improvviso di quel pomeriggio di primavera.

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