Rilievo del pesce vela - Massimo Del Pizzo - Ianieri Edizioni

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RILIEVO DEL PESCE VELA Massimo Del Pizzo



collana di narrativa breve 3

a cura di Federica D'Amato


Massimo Del Pizzo Rilievo del Pesce Vela

Editore: Mario Ianieri Illustratrice: Michela Tobiolo Progetto grafico: Federica Di Pasquale Redattore: Federica D’Amato

Š 2015 Ianieri Edizioni www.ianieriedizioni.it Tutti i diritti riservati Prima edizione maggio 2015 ISBN: 978-88-974-1779-8


La collana “Bartebly” nasce da un’idea di Federica D’Amato. Bartebly the Scrivener (Bartebly lo scrivano) è un racconto di Herman Melville, pubblicato nel 1853 sulla rivista americana “Putnam Magazine”. L’opera è apparsa per la prima volta in Italia come appendice a Le isole incantate (Gentilini, Milano 1946), nella traduzione di Giuliana Beltrami.



Massimo Del Pizzo

RILIEVO DEL PESCE VELA due naviganti



Tutti gli uomini della Terra si dividono in tre categorie: i vivi, i morti e coloro che solcano i mari, che non sono nÊ vivi nÊ morti ma possono solo sperare‌ Abraham B. Yehoshua Viaggio alla fine del millennio



Due naviganti che non si conoscono viaggiano su strade di mare fuori rotta. Il primo è costretto ad approdare, come tutta l’umanità di navigatori, in un porto senz’acqua e a farsi terrestre per il resto della vita. Il secondo costruisce la sua nave utopica con la quale solcare ed esplorare gli oceani della sofferenza umana. Non si incontreranno mai, tuttavia entrambi hanno il desiderio e la curiosità di sapere cosa troveranno, e la speranza di poterlo raccontare. Li lasciamo sulla soglia di una duplice attesa. E restiamo in attesa.

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Primo navigante



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Chiamatemi Abel. Ecco, dunque, la verità. Da molti giorni, non so quanti, siamo approdati in un porto senz’acqua. Stanno costruendo una città intorno al nostro peschereccio e a tutte le altre imbarcazioni che riesco a vedere, e ne vedo innumerevoli: navi, vascelli, velieri, bastimenti. Ormeggiate come eleganti signore dai ventri larghi e sfiancati, troppi mari hanno corso, troppe albe ingoiato. Pescherecci in disuso eppure naviganti ancora, battelli desueti, agili canoe, yacht, gommoni, petroliere, triremi, pattini, portaerei, catamarani, navi da crociera e da pirati. E noi, i più esperti fra i naviganti, perché ci troviamo qui? Non chiedeteci come sia potuto accadere, daremmo risposte vaghe o bugiarde. Abbiamo il nostro orgoglio. Sì, è vero, per un certo tempo abbiamo perso la rotta e quindi siamo in parte colpevoli, forse. Ma per molti giorni il mare è rimasto capovolto. Ci siamo smarriti.

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Salpati per l’ennesima stagione, abbiamo bruciato con entusiasmo le miglia che ci separavano dall’inizio della pesca, mantenendo precisa la rotta, la velocità costante. Ma, senza che ce ne accorgessimo e non capendo perché, ci siamo trovati poi a scivolare su una superficie nuvolosa. Sopra di noi un denso soffitto schiumoso, fatto di marosi, minacciava di pioverci addosso. Il cielo aveva cambiato posizione, pur rendendoci possibile la navigazione. Per spiegare meglio la nostra condizione dico che, se fossimo affondati in quel frangente, saremmo naufragati con ogni probabilità su altri pianeti, costretti a giustificare la nostra presenza a increduli seleniti, a venusiani senza barche, ma con quattordici occhi. Provate a immaginarci salutare con deferenza, con buona grazia, i nostri dissimili alieni che, a loro volta, ci salutano da un pianeta oscuro su cui siamo piombati all’improvviso, e di cui ignoriamo il nome e la storia. I nostri ignari ospiti potrebbero polverizzarci con un solo raggio di luce nera, se lo volessero. Invece ci sorridono. O almeno noi crediamo che sorridano. Non abbiamo 15


grande immaginazione, pensiamo sempre dentro categorie antropomorfe. Insomma, immaginate che osservino con accanimento scientifico, come è proprio degli extraterrestri, la nostra intrepida, per quanto piccola, imbarcazione: non arrivano a nessuna conclusione. Decidono di graziarci. Non capiscono perché ci accaniamo a snidare dal loro habitat creature indifese che non hanno mani e non hanno gambe, e dunque non possono combattere né scappare; perché le issiamo a bordo con gran clamore ed esagerata soddisfazione, perché le teniamo, per un certo tempo, prigioniere di reti, uccidendole poi d’aria. Dico questo perché noi tutti – io, i compagni, il Capitano – abbiamo avuto senza confessarcelo la sensazione che tutte le coordinate, i punti cardinali, le prospettive e le rotte, fossero ormai fuori controllo, fuori misura, fuori definizione: talmente alterate insomma da non esser riconoscibili o descrivibili. Abbiamo avuto quindi il sentore che potesse accadere qualcosa che non avevamo mai visto e vissuto prima. Che occhi non umani ci osservassero, pur non malevoli. Chi avrebbe potuto meravigliarsi allora se una terra aliena, contornata da un oceano pensante, fosse apparsa come primo, o magari ultimo approdo: non avremmo certo potuto rifiutare l’asilo.

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Di tali ipotesi, di simili fantasie, nessuno ha fatto confidenza all’altro, per una specie di rispetto reciproco per non insinuare dubbi e timori al compagno. O forse solo per non apparire ridicolo. Nessuno ha fatto parola all’altro, ma nelle pause, ciascuno, ridacchiava in cuor suo, accoccolato fra le reti salmastre incrostate di marame come fossero morbidi guanciali di seta; gli occhi socchiusi, la testa semivuota, la barba incolta, la pipa o il sigaro semispento, pensando ora a una nuvola cangiante, ora a una stella vista anni fa e non più tornata nel cielo notturno. Pensando con pigrizia a una rete sfilacciata da riparare. L’ipotesi dello sbarco su un pianeta alieno… È accaduto prima che sapessimo del porto senz’acqua. Poi, presi dagli impegni nel governare un peschereccio, nell’organizzare la pesca, abbiamo dimenticato. Come è giusto che sia. Ma la vita di bordo è sempre stata la stessa. Nessuno è mai andato nel panico o è venuto meno alle proprie mansioni. Siamo “professionisti dell’onda”: così ci chiama spesso il Capitano. E noi ne siamo fieri. La chiglia teneva con forza e solido equilibrio il nuovo sentiero aereo. Non si avvertiva pericolo alcuno. Il cielo non regalò pesci, piovve solo qualche alga, piovvero rare conchiglie, qualche timido

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granchio fu visto volteggiare che sembrava una farfalla. L’ecosonda segnalò la presenza del sole sotto l’imbarcazione: era rappresentato sullo schermo con la sagoma di un disco piatto, circondato da anelli mobili, irradianti, senza indicazione di profondità. Intercettammo voci diverse via radio, tutte incomprensibili. Per quanto tentato e ritentato, nessun contatto esterno è stato possibile. Per giorni siamo stati alla ricerca di un passaggio, di un ponte da attraversare per ritrovare il mare dentro le coordinate conosciute. Intanto la vita di bordo aveva i ritmi consueti, le consuete attività necessarie alla sopravvivenza. Poi, hanno comunicato al Comandante che molti gabbiani avevano abboccato: diventati animali sottomarini, erano entrati nelle reti inseguendo le esche. Allora ci siamo rifiutati di pescare altri uccelli, ritirando ami e reti, perché siamo professionisti addestrati, e forse nati per cercare il pesce dove dovrebbe essere. Non abbiamo riflettuto più di tanto, l’istinto e la dignità ci ordinavano di fermarci e di aspettare. Il Comandante fu d’accordo. Solo la cattura del Pesce Vela ci ha salvato: Sua Signoria lucente dell’acqua salata ci ha insegnato, lui così giovane, la misura delle possibilità dell’esistenza e del suo contrario.

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È apparso all’improvviso tra le nuvole. Cercava anche lui un passaggio. Disorientato com’era, ha ingoiato subito l’esca che gli abbiamo lanciato. Ingannandoci, ha lottato per ore e sembrava finito, ma mentre stavamo per strapparlo dal cielo, con un movimento impossibile si è liberato. Aveva però profondo in gola l’amo che lo faceva sanguinare. È sparito, inabissandosi di nuovo tra i nembi, con un volo violento e sonoro. Il Comandante ha detto e ripetuto che i pesci non parlano. E che in ogni caso non gridano. Ci ha ricordato che i pesci, tutti senza eccezione, sono muti. Ci ha ordinato poi di “recuperarlo”. Non usa mai il termine “uccidere”, né mai “pescare”; fa dei giri di parole, come “issare a bordo la fortuna” o “alleggerire le reti”, e perfino “rubare la cena di Nettuno”. Quell’esemplare regale di oltre tre metri, però, produsse, ne sono quasi sicuro – anche se nulla era certo in quei momenti – un grido rauco e prolungato, una voce insopportabile per le nostre orecchie abituate al silenzio della morte delle creature marine. 19


L’amo lo teneva saldamente, con ogni probabilità si era attorcigliato intorno al cuore. Il cuore si era dunque fermato, ma il corpo, la coda e la sua nobile vela, vivevano ancora mentre lui cercava il sole che lo aveva abbandonato, l’oceano che lo stava tradendo. L’animale stava diventando cieco, il corpo si snodava in un elegantissimo e triste movimento circolare, nel giro della morte. Qualcuno disse di averlo visto roteare sopra la propria testa, altri giurano di aver colto il suo riflesso accanto all’elica, o la sua ombra sulle vele, e che la vela dorsale rovesciata tagliava come una lama. Ma nessuno, nemmeno il Comandante, poteva più essere certo dei confini, delle prospettive, dei calcoli direzionali. Tutto cambiò dopo. Il Pesce Vela era morto e noi avevamo ritrovato il passaggio: mentre il sangue firmava col suo nome le acque, tutti vedemmo il disco giallo apparire là in alto dove avevamo sempre saputo che fosse, e l’oceano riposizionarsi sotto la chiglia, finalmente sotto di noi! Abbiamo festeggiato, onorando Vela d’Argento e la sua sfortunata stirpe senza avvenire.

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