3 minute read

Capitolo II

Next Article
Capitolo I

Capitolo I

Castelli in aria

Quando Piermaria arrivò a casa nostra, mai avrei immaginato che avrebbe potuto cambiare la nostra vita.

Advertisement

Ma che avete capito? Piermaria non è un cane... lui era il nostro baby sitter. Era un ragazzo strano come il suo nome.

Per me Piermaria non era un nome composto, ma un nome misto, mezzo maschile e mezzo femminile e pure lui era così.

Aveva i capelli lunghi e imprigionati in un mollettone nero e la barba incolta, le mani grosse e forti e gli orecchini a forma di cuore, maglioni informi e uno zainetto di pelle rosso... insomma era strano. Che fosse dalla parte della mamma lo capimmo subito, infatti faceva esattamente tutto quello che la mamma avrebbe voluto che noi attuassimo.

Solo un’ora di computer, la TV solo dopo aver terminato i compiti, riordinare i giochi prima di cena e capire che oltre ai cartoni esistono anche i documentari, i libri e le buone maniere.

Se ve la devo dire tutta, quello che più mi rodeva era che nonostante i miei quasi quattordici anni, la mamma ancora pensava che era necessario un babysitter in sua assenza.

Per i miei fratelli ok, ma io… insomma, potevo controllarmi da solo!

Nessuno era stato ad ascoltarmi e alla fine mi ritrovavo con la guardia del corpo.

Piermaria ci costringeva, nei pomeriggi primaverili, a lunghe passeggiate all’aria aperta e ci spiegava il mondo intorno a noi, ci invitava ad osservare persone e paesaggi, ad andare oltre l’apparenza e a trarre conclusioni.

Ci parlava tantissimo, di tutto: del suo cane Raf, di sua nonna Geltrude e dei suoi studi all’università. Quando io e mio fratello Giorgio litigavamo, lui ci osservava in silenzio, poi ci chiedeva: “chi ha vinto?”

Noi lo guardavamo stupiti e lui ci spiegava la nostra insulsa stupidità nell’aver perso tempo a battagliare per un pezzo di cioccolata in più o per chi, per primo, avesse finito gli esercizi.

Ci diceva che la vita passa in fretta e non era il caso di perdere tempo con fatti e parole inutili. Costruivamo altissimi castelli con le carte da gioco e poi ognuno difendeva il proprio, mentre gli altri facevano del tutto per farlo crollare.

“È così che si fa”, diceva ridendo Piermaria, “si devono difendere le cose che costruiamo, che siano vere o frutto di fantasia, nessuno può rovinare i nostri sogni”.

Con lui ho imparato che esiste il mondo intorno a noi, che non viviamo in un’isola deserta, che dobbiamo capire chi ci circonda e saper interpretare anche le espressioni di un viso, il tono di una voce, lo sguardo di una persona

Insomma non siamo il centro dell’universo, siamo uno dei tanti, ma siamo fondamentali per i tutti. Lui studiava per diventare un ingegnere civile perché, diceva, voleva aiutare, collaborare, migliorare la vita intorno a sé.

La mamma lo adorava, ormai lo considerava la sua ancora di salvezza e non poteva rassegnarsi all’idea che potessimo fare a meno di lui una volta diventati grandi.

Quando veniva a prendermi a scuola i miei compagni facevano battutine cattivelle su di lui, mi gridavano di stare attento perché avrebbe potuto anche innamorarsi di me.

Insomma lo consideravano gay e facevano del tutto per farglielo capire.

Io non ribattevo e, a volte, ridevo alle loro battute, nella speranza che Piermaria non se ne accorgesse.

Quando, spensierato, scherzavo con lui, mi sentivo in colpa nei suoi confronti, ma lui non mi parlava mai di quegli stupidi momenti all’uscita dalla scuola.

Stavo molto bene con lui, mi aveva insegnato tante cose belle della vita, le sue inclinazioni non mi interessavano neanche un po’, era un mio amico e gli volevo bene.

Gliene avrei voluto comunque, gliene avrei voluto se fosse stato basso, alto, grasso, magro, eterosessuale o omosessuale. Gli volevo bene perché era lui, Piermaria, e di lui mi fidavo ciecamente.

This article is from: