Al sicuro

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luca.mortellaro

ignazio.mortellaro



I


Faceva freddo e il sudore gli si ghiacciava addosso a quella velocità. L’umidità strisciava sotto le maniche della maglietta fradicia fino ad insinuarsi nel midollo. Doveva essere molto tardi, non c’era nessuno per la strada. Aveva danzato tanto da aver regalato al corpo una coscienza propria per qualche ora; nelle ore precedenti il tempo era stato inghiottito da vorticose pulsioni tribali, perdendo ogni significato. Di serate come quella non ricordava tanto i particolari, erano le sfumature a rimanergli impresse nella memoria. Era meraviglioso sentirsi bene senza comprenderne il motivo. Tornando indietro a qualche minuto prima, sentiva di nuovo le profonde vibrazioni delle percussioni che dal petto salivano fino al cervello, dove esplodevano in un orgasmo selvaggio. Oltre a questa sensazione rimanevano solo piccoli ma indelebili frammenti: il seno accaldato che si muoveva accanto a lui, ondeggiando invasato; il frenetico contatto ubriaco tra i sessi nell’estasi della danza; l’umido sapore di un’avvolgente tempesta di lingue; un senso di gelo alla mano nella quale una sudata bottiglia rigurgitava schiuma, in netto contrasto con il calore che avviluppava il corpo; e ancora il sorriso socchiuso di un amico che per un attimo aveva visto vivere tra i tamburi che gli scuotevano l’istinto. I ritmici e ossessionanti tonfi, che poco prima gli increspavano il sangue, echeggiavano ancora nel suo cranio infreddolito. Il vento gli stringeva le tempie. Gli ultimi secondi per scendere dal sellino e sarebbe arrivato al portone di casa. Fu un sollievo sentirsi riparato dalla tempesta che già avvertiva del suo arrivo. Le nubi, nere come la notte, tinteggiavano la loro imponenza borbottando bagliori fulminei. Il ragazzo stava aprendo il portone con estrema fatica, a causa della turbinosa corrente creatasi tra l’interno e l’esterno del palazzo. Un forte vento gli pietrificava la schiena umida. Nel momento in cui il portone gli si chiuse alle spalle, un tuono scosse le profondità della terra e degli uomini. La natura, soffiando nel corno della distruzione, aveva cominciato la sua vendetta. Il ragazzo salì le tranquille scale, consapevole che, al di fuori di quelle mura, Dio stava punendo gli uomini per averlo ucciso.Violenti


brividi gli avvolsero il collo; erano i tremori di chi percepiva la più antica delle paure, quella della morte. Aprì la porta della propria confortevole casa e la prima immagine che gli si riflesse sugli occhi fu quella del padre, immerso nel tepore casalingo. Sei tornato finalmente. Con i tuoni e questo maledetto vento che fischia sulle finestre mi sono preoccupato. Ti ho aspettato in piedi fino ad ora… hai un’espressione insolita. Che c’è? Ehi, guarda fuori! Ora sei al sicuro. -Al sicuro?… Sono al sicuro?… Questa è la sicurezza?… -Non capisco che cosa stai dicendo. -Padre… -Padre? Perché mi chiami padre? Mi hai sempre chiamato papà! -Padre, qui sono al sicuro? Al sicuro? Padre, questa è la mia morte! La vostra vita è la mia morte! Io non voglio più la vostra vita! Voglio la mia vita! La vostra stessa vita è già quella di qualcun altro! Io ho dentro di me il mio riparo, non in un compromesso con il mondo! Non vi accorgete che le vostre strade portano a luoghi già voluti da altri? Solo la mia strada mi può portare dove io voglio! E’ un luogo che voi non conoscete, che nessuno può mai conoscere! Perché quello è il mio luogo…mi dispiace padre, davvero mi dispiace, ma io non combacio con null’altro che con me stesso. Andrò al di là dell’esperienza estetica, lì dove la sensazione è solo mia! Quello di cui avete paura, padre, il vostro terrore è la mia vita! Questo pensò in un millesimo di secondo, ma non una parola gli uscì di bocca. Il piccolo Dio girò le spalle e la sua volontà si occupò di chiudere la porta di fronte al padre, così come fu la sua volontà a farlo uscire dal portone e a lasciarlo in mezzo alla strada a braccia spalancate. La pioggia cadeva a valanghe sul suo corpo immobile. Dai capelli scendevano sul suo viso rivoli d’acqua che seguivano il corso della sua gioiosa espressione. Dall’oscurità di fronte a lui, sbucò una scura massa volteggiante d’aria, polvere e acqua. L’uragano, alto come una montagna, lo osservava. Lui era come innamorato, estasiato dai venti che con lussuriose mani lo spingevano irresistibilmente verso l’enorme amante. Mentre


l’uragano iniziava ad avvolgerlo con una potenza mai immaginata, lui cominciava a non esistere più. Tra le sorde grida del padre che vomitava disperazione dal balcone, lui andava diventando ciò che lo travolgeva: pura, immane, nascosta, potente, volontà. La prima fitta di dolore gli fece scavalcare il pensiero. La seconda gli donò la follia. La terza lo rese libero. La terza lo uccise.



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