Giš-gi-tug-ga

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Giš-gi-tug-ga

An exhibition in two chapters by IGNAZIO MORTELLARO

Curated by ANTONIO GRULLI

FPAC PALERMO

Giš-gi-tug-ga. Chapter I

Opening Saturday 11th March from 5pm On view from 14th March to 20th May 2023

FPAC MILANO Giš-gi-tug-ga. Chapter I I

Opening Wednesday 5th April from 5pm On view from 6th April to 1st June 2023

FRANCESCO PANTALEONE ARTE CONTEMPORANEA
PALERMO - MILANO

Ho conosciuto Ignazio molti anni fa, proprio tramite Francesco Pantaleone. Sono andato a trovarlo nella casa in cui abitava: era sopra la Porta dei Greci, in Piazza della Kalsa. Mi ricordo molte scale, stanze su più livelli, una sorta di appartamento labirintico; a un certo punto siamo spuntati su un terrazzo meraviglioso che dava sul lungomare, da cui si poteva ammirare tutto l’arco della città di Palermo. È stata una delle prime volte in cui ho avuto una vera epifania dell’anima e della bellezza di quella parte di Sicilia e di Palermo, una città che mi si è svelata in maniera molto lenta nella sua essenza. Ignazio vive ancora in un edificio innestato su di una porta cittadina, oggi Porta Carini, sopra il mercato del Capo. Non può essere una coincidenza. Tutto nel lavoro di Mortellaro è simbolo, e la sua vita è materiale e parte integrante di ciò che presenta come opera d’arte. La porta è soglia, accesso, via d’uscita, linea ambiguamente in grado sia di separare sia di unire, e di renderci differenti nel momento in cui la superiamo.

E la città di Palermo riveste un ruolo fondamentale, quasi fosse uno studio allargato in cui lavorare e da cui attingere continuamente. Anche io e Ignazio ci stiamo ritrovando in questo luogo, in questa galleria, in quello che è forse l’incrocio più incrocio d’Italia, e quindi del mondo, i Quattro Canti. Palermo è una città da sempre snodo di energie e flussi - quasi fosse un chakra -, al centro della storia per la sua posizione, cartina di tornasole per capire quali sono i nervi scoperti del nostro presente. Quando penso a questa città, la prima immagine che appare nella mia mente è quella del Genio di Palermo, ovvero un uomo, probabilmente un Re, il cui petto viene morso da un grande serpente. Si tratta di un’immagine di cui si sa molto poco, ma in grado di agganciarsi alla memoria in maniera indissolubile. E la sua forza sta proprio nella sua indecifrabilità, nel suo mistero, nel suo essere un simbolo che nessuno riuscirà mai a sciogliere, mantenendo in tal modo al suo interno tutta l’energia.

Il serpente potrebbe essere l’animale guida dell’intera mostra, il nostro accompagnatore in un mondo in cui l’umano inizia a muovere i primi passi, ad abbozzare i primi rudimentali strumenti, in cui il linguaggio è ancora simile a un “latrato”, per usare una parola utilizzata da Ignazio quando mi ha raccontato la mostra ancora nella sua mente. Ci si muove nel mito: e il mito è sempre vivo o non è. Ciò che lo costituisce è proprio ciò che lo rende sempre presente. Mito non come storia, ma come linguaggio poetico e magico di relazione con il mondo, in cui gli elementi si fondono l’uno con l’altro, e in cui il processo metamorfico è continuo e insolubile. E le opere di Ignazio hanno il loro centro in questa relazione con la natura e con l’ambiente - umano e non - che ci circonda e facciamo nostro. Ma in questa mostra l’artista decide di compiere un movimento di focalizzazione, una “zoommata”, e di spostarsi da un piano legato al paesaggio e all’orizzonte, così importante nelle opere del passato,

testo di ANTONIO GRULLI IL CORPO ALLEGRO

per avvicinarsi a guardare una realtà più prossima, più bassa e vicina per certi versi, più immediatamente raggiungibile da una mano. Soprattutto ci troviamo di fronte a immagini di elementi e oggetti presi dal mondo là fuori, che l’uomo riesce a far diventare strumenti o metafore di un senso poetico del cosmo.

In mostra appaiono incise su vetro le pietre bifacciali, una delle immagini che tutti conoscono e sono in grado di collegare ai primi vagiti dell’uomo; roccie scheggiate come primo inizio di costruzione del paesaggio, ovvero la modificazione della realtà attorno a noi. Usavamo un sasso per cacciare, per sollevare le zolle, per aiutarci nel momento in cui le nostre mani non erano abbastanza pesanti, o abbastanza resistenti, o abbastanza rigide; e poi qualcuno ha capito che spezzando il sasso e rendendolo più affilato potevamo uccidere meglio, andare più a fondo nel terreno, aggiungere il filo di qualcosa che già era un abbozzo di lama alle nostre mani. Ma assieme alle pietre abbiamo anche dei grandi dipinti di corallo bianco, materiale in grado di farsi metafora del cosmo, e che racchiude il cosmo al suo interno: essere vivente che diventa minerale e roccia nella sua crescita, in cui il respiro del mare prende vita al suo interno, e si fonde con la pratica pittorica dell’artista che lo dipinge attraverso un processo quasi meditativo legato alla respirazione, costruendo l’immagine a piccoli segni, esattamente nello stesso modo in cui cresce questo materiale simbolico per eccellenza anche nella sua fragilità esistenziale.

La materia riveste un ruolo cruciale nell’opera di Mortellaro, simile a quello che rivestiva nella ricerca alchemica di cui l’arte è sorella e figlia. Alchimia da intendersi come desiderio dell’uomo di elevazione, di raggiungimento di uno stato superiore, come tentativo di sublimazione della vita bassa. Alchimia come desiderio spirituale e armonico di rapporto con l’altro e con il mondo. E che sempre parte dalla materia. Non dovremmo mai dimenticare che i primi architetti erano semplicemente degli scalpellini, ovvero coloro che conoscevano il modo in cui la pietra poteva facilmente spezzarsi, o non spezzarsi, e sapevano quale fosse la magia che permetteva a molte pietre di restare ferme una sopra l’altra. Lo stesso studio di Ignazio è un laboratorio di materiali, una wunderkammer piena di strumenti antichi ma ancora insuperabili nella loro funzionalità, e deposito di meraviglie in grado di affabulare; lo sono stati tutti i suoi studi, già diventati leggendari, sparpagliati in giro per Palermo e non solo.

Simili al corallo sono le ossa e le corna, in quanto materia minerale appartenente al mondo animale e umano e che ritornano spesso come soggetto delle opere. Tutto il progetto vive di elementi portatori di ambiguità, di metafore anfibie. Nulla è univoco nelle opere che ci circondano. E le ossa e le corna funzionano proprio da collettori di mondi, in cui il gioco e il destino si uniscono alla morte e al sacrificio, come nell’antico gioco degli astragali, in cui vertebre di ovino vengono utilizzate in

maniera simile ai dati, e di cui abbiamo in mostra una rappresentazione scultorea. In osso sono le prime forme di armi dell’umanità, ma dello stesso materiale sono anche i primi strumenti musicali. Ecco allora che la radice della caccia si rivela nel suo legame con la danza, in quel movimento armonico dei corpi in relazione al cosmo come sorgente della vita futura, sotto forma di cibo o sotto forma di seduzione erotica. Parliamo di un mondo e di una visione del cosmo in cui gli elementi stessi che la compongono vivono di una confusione fertile: l’uomo e l’animale cacciato sono la stessa cosa, e molti sono i riti in cui si sovrappongono i due elementi. Così come nelle comunità arcaiche il confine tra elemento maschile e elemento femminile era sfumato e talvolta inesistente.

Ambiguità propria soprattutto del serpente, incarnazione vivente del flusso energetico inafferrabile; chiunque si sia trovato inaspettatamente di fronte a un serpente in natura conosce l’impressione di disturbo e inquietudine generato da una autentica bellezza che si muove sorvolando la bassa terra e la polvere come pura onda di molecole e energia. Il serpente si attorciglia e unisce al suo simile nell’atto sessuale in un groviglio fatto di una doppiezza inestricabile che è propria di tutte le opere di questa mostra. Il serpente è anche uno dei principali attributi di Dioniso, il dio del flusso vitale, dell’ambiguità sessuale, della danza, della morte come momento necessario alla rinascita. Dal culto dionisiaco ha inizio la tragedia, così legata nella sua radice al sacrificio del “capro”, e torniamo di nuovo alle ossa, alle corna. Riti in cui le danze comprendevano l’utilizzo dei serpenti, cari a Dioniso, il dio della vegetazione e della linfa vegetale, delle foglie. In mostra abbiamo una cortina di foglie dorate, mescolate a denti di sciacallo. Un rimando agli indumenti e ai gonnellini di foglie utilizzati in antichità probabilmente sia durante la caccia sia durante la danza, in questo caso declinati in maniera ambientale, quasi fossero un manto da squarciare attraverso il quale addentrarsi nel mondo e nella verità. Foglie metalliche affilate e potenzialmente pericolose, in grado di farsi suono e strumento, cortina di onde musicali. Sono foglie dorate che hanno riportato alla mia mente la sfera di foglie che sormonta il palazzo della Secessione di Vienna, uno dei primi momenti di avanguardia, e uno dei primi momenti in cui l’arte torna a guardare con forza all’arcaico e al mito pre-storico.

Il concetto di avanguardia è fondamentale all’interno di questa visione dell’arte e delle cose. E non solo per la naturale filiazione del lavoro di Ignazio da movimenti quali le prime avanguardie di fine ottocento e inizio novecento come simbolismo e decadentismo - nell’utilizzo del mito, del simbolo, delle componenti misteriche e dell’affabulazione - e delle seconde avanguardie, ad esempio l’arte povera - nel guardare all’ambiente e nella centralità di materiali non necessariamente classici dell’arte. L’avanguardia deve essere vista come un movimento talmente veloce in

avanti da riuscire a raggiungere la coda del passato che ci siamo lasciati dietro. Il movimento dell’avanguardia è quello dell’uroboro, dove solo la testa del presente volto in azione al futuro è in grado di toccare il punto estremo del passato. Perché tutto ciò che è tentativo di andare oltre, di mettersi in una condizione post-artistica, inevitabilmente finisce in una condizione di pre-artisticità. E il suo strumento è il dente che morde, afferra e ferisce: non è pacifica l’avanguardia, lo sottolineava lo stesso Baudelaire facendo notare come il termine fosse preso dal mondo militare.

Movimenti d’avanguardia - e guerre - di cui è protagonista assoluto il nostro Giuseppe Ungaretti. Un frammento di una sua poesia è stato inciso a mano da Ignazio su cinghie industriali ottocentesche di pelle spessa, ormai esauste, appoggiate sopra alte aste di metallo al centro dello spazio espositivo, quasi fossero dei cartigli rinascimentali. Il testo della poesia potrebbe già essere di per sé il testo guida della mostra. E’ una poesia su Caino - che in alcune tradizioni si ritiene come figlio del serpente del paradiso terrestre - non visto con distacco e giudizio come il primo assassino, ma come la rappresentazione di una condizione presente in ognuno di noi, in ogni uomo. Il nastro di pelle e le cinghie richiamano la costrizione, l’imbrigliamento dell’energia per indirizzarla e sublimarla in qualcosa di superiore. Il font utilizzato è il famoso Fraktur, la frattura, nato in Germania nel 1513: forse solo un paese che di lì a poco avrebbe dato vita alla scissione protestante poteva inventare un font che ricorda dei rami verdi rotti, o forse dovremmo dire delle ossa spezzate, come se i tipografi tedeschi avessero preso le aste dei caratteri romani per spezzarle traendole con due mani e puntando il ginocchio sulla loro metà.

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I met Ignazio many years ago, precisely through Francesco Pantaleone. I went to see him in the house where he lived: it was above the Porta dei Greci, in Piazza della Kalsa. I remember many stairs, rooms on several levels, a sort of labyrinthine apartment; at one point we appeared on a wonderful terrace overlooking the seafront, from which we could admire the whole arc of the city of Palermo. It was one of the first times I had a real epiphany of the soul and the beauty of that part of Sicily and of Palermo, a city that revealed itself to me very slowly in its essence. Ignazio still lives in a building grafted onto a city gate, today Porta Carini, above the Capo market. It can’t be a coincidence. Everything in Mortellaro’s work is symbolic, and his life is the material and an integral part of what he presents as a work of art. The “gate” is a threshold, an access, a way out, a line ambiguously capable of both separating and uniting, and of making us different the moment we pass it.

And the city of Palermo plays a fundamental role, as if it were an enlarged studio in which to work and from which to draw continuously. Ignazio and I are also meeting again in this place, in this gallery, in what is perhaps the most significant crossroad in Italy, and therefore in the world, the Quattro Canti. Palermo has always been a hub of energies and flows - almost as if it were a chakra -, at the center of history due to its position, a litmus test to understand what are the raw nerves of our present. When I think of this city, the first image that appears in my mind is that of the Genius of Palermo, a man, probably a king, whose chest is bitten by a large snake. It is an image of which very little is known, but which is able to attach itself to memory in an indissoluble way. And its strength lies precisely in its indecipherability, in its mystery, in its being a symbol that no one will ever be able to dissolve, thus keeping all the energy inside.

The snake could be the guiding animal of the entire exhibition, our companion in a world where humans begin to take their first steps, to sketch the first rudimentary tools, where language is still similar to a “bark”, to use a word used by Ignazio when he told me about the show he had in mind. We move within the myth: and the myth is always alive or it is not. What constitutes it is precisely what makes it always present. Myth not as history, but as a poetic and magical language of relationship with the world, in which the elements merge with each other, and in which the metamorphic process is continuous and insoluble. And Ignazio’s works have their center in this relationship with nature and with the environment - human and otherwise - that surrounds us and that we make our own. But in this exhibition the artist decides to make a focusing movement, a zooming, and to move from a plane linked to the landscape and the horizon, so important in the works of the past, to approach and look at a closer reality, lower and closer in some ways, more immediately reachable by one hand. Above all we are faced with images of elements and objects taken from

BODY REJOICING

the world out there, which man manages to make into tools or metaphors of a poetic sense of the cosmos.

In the exhibition the double-sided stones appear engraved on glass, one of the images that everyone knows and is able to connect to the first stirrings of man; chipped rocks as the first beginning of landscape construction, or rather the modification of the reality around us. We used a stone to hunt, to lift the clods, to help us when our hands weren’t heavy enough, or strong enough, or stiff enough; and then someone understood that by breaking the stone and making it sharper we could kill better, go deeper into the ground, add the edge of something that was already a rough blade to our hands. But together with the stones we also have large paintings of white coral, a material capable of becoming a metaphor for the cosmos, and which encloses the cosmos within itself: a living being that becomes mineral and rock in its growth, in which the breath of the sea comes to life inside, and merges with the pictorial practice of the artist who paints it through an almost meditative process linked to breathing, building the image with small signs, exactly in the same way in which this symbolic material par excellence grows even in its existential fragility.

Matter plays a crucial role in Mortellaro’s work, similar to the one it played in the alchemical research of which art is sister and daughter. Alchemy to be understood as man’s desire for elevation, for attaining a higher state, as an attempt to sublimate the lower life. Alchemy as a spiritual and harmonious desire for a relationship with each other and with the world. And that always starts from the material. We should never forget that the first architects were simply stonemasons, i.e. those who knew how stone could easily break, or not break, and knew what was the magic that allowed many stones to remain stationary on top of each other . Ignazio’s studio itself is a laboratory of materials, a wunderkammer full of ancient instruments but still unsurpassed in their functionality, and a storehouse of marvels capable of story-telling; all his studies scattered around Palermo and beyond already became legendary.

The bones and horns are similar to coral, as they are mineral matter belonging to the animal and human world and which often return as the subject of the works. The whole project thrives on elements bearing ambiguity, on amphibious metaphors. Nothing is unique in the works that surround us. And the bones and horns function precisely as collectors of worlds, in which game and destiny are united with death and sacrifice, as in the ancient game of knucklebones, in which sheep vertebrae are used in a similar way to dice, and of which we have a sculptural representation on display. In bone are made the first forms of weapons of humanity, but the first musical instruments are also made of the same material. Here is where the root of hunting is revealed in its link with dance, in that harmonious movement of bodies in

relation to the cosmos as a source of future life, in the form of food or in the form of erotic seduction. We are talking about a world and a vision of the cosmos in which the very elements that compose it live in a fertile confusion: man and the hunted animal are the same thing, and there are many rites in which the two elements overlap. Just as in archaic communities the boundary between the male and female element was blurred and sometimes non-existent.

Ambiguity, typical of the snake, living embodiment of the elusive energy flow; anyone who has unexpectedly found himself in front of a snake in nature knows the impression of disturbance and restlessness generated by an authentic beauty that moves flying over the low earth and the dust like a pure wave of molecules and energy. The snake coils and joins its fellow in the sexual act in a tangle made of an inextricable duplicity that is typical of all the works in this exhibition. The snake is also one of the main attributes of Dionysus, the god of the vital flow, of sexual ambiguity, of dance, of death as a necessary moment for rebirth. Tragedy begins with the Dionysian cult, thus linked in its root to the sacrifice of the “goat”; and we return again to the bones, to the horns. Rites in which the dances included the use of snakes, dear to Dionysus, the god of vegetation and of the plant sap, of the leaves. On display we have a curtain of golden leaves, intermingled with jackal’s teeth. A reference to the clothing and skirts of leaves used in antiquity probably both during hunting and during dance, in this case declined in an environmental way, almost as if they were a cloak to be ripped through which to enter the world and the truth. Sharp and potentially dangerous metal leaves, capable of becoming sound and instrument, curtain of musical waves. They are golden leaves that brought to mind the sphere of leaves that surmounts the Secession building in Vienna, one of the first moments of the avant-garde, and one of the first moments in which art returns to look forcefully at the archaic and at the pre-historic myth.

The concept of avant-garde is fundamental within this vision of art and things. And not only for the natural filiation of Ignazio’s work from movements such as the first avant-gardes of the late nineteenth/early twentieth century (symbolism and decadentism - in the use of myth, of the symbol, of the mysterious components and of story-telling) and of the second avant-gardes (for example poor art - in looking at the environment and in the centrality of materials that are not necessarily classic in art). The avant-garde must be seen as moving forward so fast that it can catch up with the tail of the past that we have left behind. The avant-garde movement is that of the ouroboros, where only the head of the present jumping to the future is able to touch the extreme point of the past. Because everything that is an attempt to go further, to place itself in a post-artistic condition, inevitably ends up in a pre-artistic condition. And its instrument is the tooth that bites, grabs and wounds: the avant-

garde is not peaceful, Baudelaire himself underlined this, pointing out that the term was taken from the military world.

Avant-garde movements - and wars - of which our Giuseppe Ungaretti is one of the absolute protagonists. A fragment of one of his poems was engraved by hand by Ignazio on exhausted nineteenth-century industrial belts in thick leather, resting on high metal rods at the center of the exhibition space, almost as if they were Renaissance scrolls. The text of the poem itself could already be the guiding text of the exhibition. It is a poem about Cain - who in some traditions is believed to be the son of the serpent of the earthly paradise - not seen with detachment and judgment as the first murderer, but as the representation of a condition present in each of us, in every man. The leather tape and the straps recall the constraint, the harnessing of energy to direct it and sublimate it into something superior. The font used is the famous Fraktur, the fracture, born in Germany in 1513: perhaps only a country that would soon give birth to the Protestant split could invent a font that recalls broken green branches, or perhaps we should say broken bones, as if the German typographers had taken the rods of Roman characters to break them by pulling them with two hands and kneeling on their half.

CAINO 1928

Corre sopra le sabbie favolose e il suo piede è leggero.

O pastore di lupi, hai i denti della luce breve che punge i nostri giorni.

Terrori, slanci, rantolo di foreste, quella mano che spezza come nulla vecchie querci, sei fatto a immagine del cuore.

E quando è l’ora molto buia, il corpo allegro sei tu fra gli alberi incantati? E mentre scoppio di brama, cambia il tempo, t’aggiri ombroso, col mio passo mi fuggi.

Come una fonte nell’ombra, dormire!

Quando la mattina è ancora segreta, saresti accolta, anima, da un’onda riposata.

Anima, non saprò mai calmarti?

Mai non vedrò nella notte del sangue?

Figlia indiscreta della noia, memoria, memoria incessante, le nuvole della tua polvere, non c’è vento che se le porti via?

Gli occhi mi tornerebbero innocenti, vedrei la primavera eterna

e, finalmente nuova, o memoria, saresti onesta.

Sentimento del tempo, Inni, Giuseppe Ungaretti

He runs over wondrous sands and his step is light.

O shepherd of wolves, you have the teeth of the fleeting light that pierces our days.

Fears, rushes, rustling woods, that hand that splits ancient oaks just like that, you were made to resemble a heart.

And in the darkest hour, body rejoicing, are you amongst the enchanted trees? And as I burst with lust, the weather changes, you wander, shady, fleeing me at my own pace.

Oh to sleep, like a spring in the shade!

In the yet secret morning hour, you would be welcomed, soul, by a well-rested wave.

Oh soul, will I never give you rest?

Will I never see in the night of blood?

Intrusive child of boredom, memory, unrelenting memory, clouds of your dust, is there no wind that can disperse them?

My eyes would return to innocence, I would see eternal spring and, fresh at last, oh memory, you would be true.

CAIN 1928
Thanks to FPAC Palermo via Vittorio Emanuele 303 FPAC Milano via San Rocco 11 With love to our beloved friend Vito

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