Decomposizione
“ It’s a strange day No colours o shapes No sound in my head I forget who I am…” Utopia - Goldfrapp
text .
editing .
luca.mortellaro
ignazio.mortellaro
All’unica cosa in cui Credo, il mio adorato fratello
I
Un bagliore soffuso penetrava attraverso le persiane illuminando le pareti della maleodorante stanza da letto. Il chiarore iniettato da quelle feritoie si andava facendo accecante e ciò lasciava intuire la tarda ora mattutina. Dalla finestra aperta gli spifferi di una brezza estiva scivolavano dolcemente su Pierre, carezzando la pelle accaldata. Il suo peso era affondato nel morbido letto. Quel momento di totale stasi un attimo prima del risveglio somigliava tanto ad un’immagine di lotta primitiva. Le lenzuola, lasciando la maggior parte del corpo scoperto, lo avvinghiavano come un possente serpente stritolatore. Con quell’espressione di una notte insonne era paragonabile a Laocoonte. I movimenti notturni causati dall’asfissiante caldo lo avevano stremato e il sudore avvolgeva la pelle come una viscida pellicola. A ondate il vento gelava la schiena e i peli si rizzavano come erba fresca calpestata. Sempre più intensi i brividi andavano distruggendo quel fastidioso dormiveglia che gli chiudeva la mente in uno strano limbo. D’un tratto spalancò gli occhi con uno sforzo immane e, avendo girato un paio di volte le pupille, abbagliate dalla scarsa luce, verso le pareti della piccola stanza disordinata, osservò di sfuggita le lancette di un orologio che si avvicinavano alle dodici. Piantò i talloni a terra e, sfregandosi le palpebre con i pugni chiusi, aprì le mascelle scricchiolanti in un lungo sbadiglio. Mentre una viscosa lacrima scivolava via, Pierre provava a calcolare quanto tempo della sua vita avesse realmente perso spegnendo la sveglia tre ore prima. Una sensazione di forte fastidio, forse rabbia, salì nel suo petto. Tese i sensi a sondare l’atmosfera circostante. Il suo respiro affannoso si mesceva al mormorio confuso della stanza al piano di sotto. Levatosi in piedi cominciò a trascinare le gambe ancora appesantite dal sonno verso il pianerottolo. Le voci che provenivano dal fondo della scala cominciarono a farsi più chiare. Urla. Le urla della povera madre affogate nel pianto. Terminata la rampa di scale si accostò con passo felpato alla porta da cui venivano i lamenti.Attendeva nervosamente di percepire anche una
sola parola. Una voce estranea cercava, in maniera disgustosamente distaccata, di placare la disperazione della Signora Doublet. Gettando un’occhiata nello studio intravide nel viso sconvolto del padre due occhi attoniti, fissati su un punto nel vuoto. Era l’espressione di chi ha visto la morte. Pierre ritirò il capo nella paura di essere notato. Ritornò ad origliare quando comprese che il padre in quel momento apparteneva ad un altro universo, incomprensibile, doloroso. L’uomo stava inerte, sprofondato nel mezzo di una poltrona di pelle con le gambe nude stese su una sedia, esattamente come durante le sue lunghe morti da tubo catodico. Con l’unica differenza che sullo schermo televisivo che aveva di fronte v’era solo il suo grottesco riflesso deformato in un impossibile rigonfiamento. Non era effettivamente immobile. Le sue mani unte grattavano freneticamente le cosce cespugliose; la pelle cominciò ad irritarsi e l’espressione dell’uomo si faceva sempre più rabbiosa e arrossata d’ira. Dopo qualche secondo scure linee di denso sangue gli rigavano le gambe gocciolando per terra. Nonostante ciò le mani non si fermarono e le unghia laceravano con maggiore pressione la flaccida carne sempre più a fondo; fin quando i lineamenti si rilassarono in un improvviso pianto e le sanguinanti mani strinsero forte il viso disperato. Pierre era sconvolto dalla gran confusione che gli crollò in testa al vedere una tale gesto. Per quale motivo un razionalista del genere, dotato di una morale d’acciaio, assiomatica, ricercatore di perché obbligatori seppur inesistenti e di cause necessarie agli effetti, modello di razionalità assoluta e categorica, per quale motivo suo padre avrebbe dovuto compiere un gesto tale da mettere in discussione tutte le sue certezze? Tra le mille possibili spiegazioni che attraversavano la mente di Pierre, alcune parole giunsero dalla stanza in cui la madre parlava con l’uomo che si rivelò essere un dottore: -La malattia ha cominciato a manifestarsi, mi dispiace… in fondo sapevate già da anni che sarebbe successo. -Ma non potevamo immaginare…- disse tra le lacrime la signora
Doublet. Pierre, due metri più in là della porta, spalancò le palpebre e il sangue gli salì alla testa. Fu lì per cadere sul pavimento. -Mai più passeggiate in campagna all’ombra delle querce, maledetto il cielo! -Acquisterete una sedia a rotelle. Se desidera ho modo di procurargliene una a un costo irrisorio… in fondo serve a qualcosa fare il medico, non crede signora? Come se non avesse ascoltato la gelida ironia del dottore, rispose: -E’ la fine di tutto quanto! A cosa gli servirà una sedia a rotelle quando fra… fra… -Un mese, signora Doublet. -Mio Dio un solo mese… Quando fra un misero mese non sarà più in grado nemmeno di parlare, cosa se ne farà di una sedia a rotelle? -E’ terribilmente difficile, ma la vita continua. Sia forte signora Doublet, è ciò di cui suo marito ed i suoi due figli hanno bisogno. -Loro non devono sapere, sarebbe troppo! -Appunto per questo- affermò, fiero del suo spicciolo ragionamentoappunto per questo deve essere forte! Ora io devo andare, non è solo sotto questo tetto che albergano le disgrazie! In quell’istante Pierre ebbe l’istinto di sfondare la porta e scaricare tutta la rabbia di quell’ingiusto segreto, tenuto nascosto per chissà quanti mesi, sulla mascella di quel medico che come tutti quelli della sua razza prosperava nelle disgrazie. Se solo avesse saputo avrebbe avuto più compassione per i moralismi del padre che, insieme alla sua religiosità, gli davano le uniche fallaci certezze, le sole motivazioni per lottare contro la morte che, così vicina, sembrava sussurrargli dolci e invitanti parole. Avrebbe evitato di smontare con brillanti ragionamenti tutte le stupide, disperate, illusioni del padre. I sensi di colpa gli stavano divorando l’anima, lo stavano lacerando dall’interno. Poi la sua mente si spostò sull’immagine del fratello, più grande ma tanto
più fragile, più maturo ma tanto più sgretolabile. Una scoperta del genere lo avrebbe polverizzato in un istante. O lo avrebbe reso davvero forte, ma il rischio era in ogni modo troppo pericoloso. Risalì con angoscia le scale che prima aveva sceso solo per saziare una stupida curiosità, e fece per entrare nella stanza del fratello. Ma quell’insignificante movimento di abbassare la maniglia della porta di Gilbert si rivelò inaffrontabile. Aprire la porta, un banale atto improvvisamente respinto da una valanga di indecisioni. La sua piccola mano tremante divenne pesante, gravata com’era dal tremendo tesoro di consapevolezza. -Gilbert, fratello mio, il destino del nostro caro padre sta voltando verso la fine! No. Una frase del genere sarebbe stata un inaspettato colpo allo stomaco; lo avrebbe sconvolto talmente da precipitarlo in una crisi dagli effetti imprevedibili. Così, mentre altre mille possibilità inaccettabili come la prima gli trafiggevano il cervello, rimase a un palmo di naso dalla porta con la mano allungata verso la maniglia, in una tensione nevrotica che spingeva la situazione sempre più nel panico. Gli era così difficile comunicare ciò che per lui era incomprensibile! Pierre, l’elemento familiare adibito a mantenere la calma, l’unico capace di affrontare di petto la realtà senza alcuna illusione, di ammorbidire l’impatto, sentiva adesso la vitale necessità di quelle artificiose ma indispensabili illusioni paterne. La sua momentanea incompetenza gli sussurrò che nessun uomo può comprendere nulla oltre il limite impostogli dalla sua natura, essendo la stessa capacità pensante già limitata alla vita. Pierre era preoccupato, la sua incapacità avrebbe avuto effetti disastrosi sul fragile fratello. Una soffocante ansia muoveva i suoi occhi in tutte le direzioni, come se le nervose pupille cercassero la soluzione di tutto su una parete, su un quadro o sul tappeto. Lui, colonna portante della forza che serviva adesso più che mai al fratello, ora si sentiva l’embrione di un pulcino a cui avessero chiesto cosa ci fosse fuori dal suo uovo; non lo avrebbe saputo prima di romperlo. Ma non poteva certo aspettare di rompere il
guscio della sua morte per avere una spiegazione da fornire. Osservando stupito la propria mano ancora sospesa sulla maniglia, come respinta da una forza invisibile, maledisse le soluzioni.Avrebbe voluto far capire finalmente al fratello che chiedendo e continuando a cercare non si trova mai nulla, ma ci si accontenta di fingere di aver trovato le convenzioni che ci si è silenziosamente creati. Ed era proprio di una convenzione che avrebbe avuto bisogno per affrontare l’ingenuità di suo fratello, simile a quelle utilizzate dai tiranni per giustificare all’ingenuo popolo i propri comodi. Questo elementare ragionamento lo spinse ad abbassare la maniglia, pur con una spaventosa fatica. La porta si aprì lentamente come un sipario, liberando progressivamente alla vista una scena che gli gelò il petto. In una staticità di comodini disordinati e armadi traboccanti di confusione, il corpo quasi nudo e immobile di Gilbert era abbozzato dalla scarsa luce che penetrava nell’angusta stanza. Sedeva assopito sul letto e, mentre la porta scricchiolava aprendosi, uno spumeggiante fiume di luce lo inondò travolgendo ogni angolo della camera e rifinendo gli ultimi ritocchi di ciò che si andava definendo un quadro di vita quotidiana. Intanto Pierre si malediceva proprio a causa di quell’evento trasversale che gli toccava presentare, a causa di ciò che stava per travolgere la serena esistenza del disgraziato fratello, il quale, dopo innumerevoli stenti, era giunto ad un momento di bugiarda serenità. La quotidianità di quel giorno sarebbe stata spazzata via con poche insignificanti parole, e Pierre sentiva sulla testa il peso della colpa. Quelle parole da lui pronunciate sarebbero sicuramente divenute mortali proiettili per l’ingenuo Gilbert. In quel momento si sarebbe mangiato le mani: se avesse sconfitto prima le debolezze ormai inaffrontabili del fratello, se avesse già schiacciato quelle granitiche sicurezze che come vermi (la cui provenienza era senza dubbio da ricercare nel padre) strisciavano nella spina dorsale di Gilbert, sarebbe almeno stato sicuro di sparare ad uomo imbottito e protetto. Invece stava per fare fuoco sulla nudità di un indigeno. Entrò impetuosamente, come cercando nel portamento la forza
di quelle parole: -Nostro padre morirà fra un meseSilenzio. Gilbert era seduto pesantemente sulle lenzuola disfatte con lo sguardo ancora intorpidito dalla notte. Infastidito dalle zanzare, girò lentamente il capo verso i rumorosi passi di Pierre. -Buongiorno- sbadigliò. Pierre si rese conto che dalla sua bocca non era uscita una sola parola. Quello che doveva essere un urlo catartico fu inghiottito insieme alla tensione del momento in cui i due sguardi si incrociarono. Ma nulla si distrugge, così quel duro boccone andò sicuramente a fermentare dentro Pierre. Mentre i due si fissavano in una sospensione elettrica, Gilbert disse: -Il caldo ti ha incollato le labbra? La pellicola quotidiana riprese a scorrere, sebbene la spensieratezza del fratello fosse segnata. -Scusami, Gilbert.Volevo solo darti il buongiorno… Pronunciare quella frase fu come rigurgitare un bambino. -Esci, per piacere. E’ quasi mezzogiorno e mi devo ancora lavare. Chiudersi la porta alle spalle fu come prendere il volo.
II
Entrando nella sua scombussolata camera l’enorme peso del rimpianto lo schiacciò di colpo costringendolo a sdraiarsi sul caldo letto con gli occhi gonfi e arrossati. La densa aria polverosa occludeva i bronchi ed ogni respiro gli costava sudore. La cassa toracica sembrava essersi bloccata. Per un attimo tutto fu assolutamente fermo. Le pupille centrarono un granello di polvere che navigava sulla strada di luce aperta da una fessura tra le persiane. Gli occhi vitrei seguivano con attenzione le evoluzioni di quel granulo di pulviscolo che si contorceva nell‘aria come un verme da pesca infilzato, fin quando si dissolse nell’ombra circostante. Pierre mise a fuoco la stanza. Le pareti sembravano avvicinarsi al piccolo letto e le sue dita si attorcigliarono alle lenzuola. Per sfuggire da quel luogo chiuse forte gli occhi. Prima fu solo buio, poi pian piano cominciarono ad intravedersi dei riflessi, onde fluttuanti di un oceano immenso. Si tuffò dall’alto infilzando la crosta dell’acqua e il sangue si raffreddò di colpo nelle sue membra; sentì scorrere nelle vene un fresco fluido vitale che gelava le carni accaldate. Sotto la superficie di platino dell’acqua scrutò nel silenzio abissale, ma si trovò pietrificato ad osservare il corpo tumefatto del padre steso nella stanza del fratello. Gilbert era spiaccicato contro un angolo, con gli occhi pervasi dall’insignificanza e l’anima persa nel nulla. La madre singhiozzava inginocchiata sul corpo esanime del marito e le sue urla uscivano dalla gola graffiando l’aria. Pierre, travolto allo stomaco dal vuoto improvviso, cadde da un precipizio. Spalancò le palpebre e la visione dapprima confusa divenne progressivamente più chiara. Si rese conto di essersi addormentato. L’orologio segnava la tarda ora pomeridiana. In cuor suo sentiva che la realtà non gli avrebbe riservato un futuro dissimile. Bussarono alla porta: -Pierre- era la voce di Gilbert, aveva un tono dolente- ma dove diavolo sei finito? E’ arrivata Juliette, ti aspetta in salotto. Pensavamo fossi andato a pranzo con lei. -Perdonatemi, ma oggi la mia salute non promette nulla di buono.
-Oggi hai saltato il pranzo, ma se stai male dovresti mangiare. Ti vado a preparare qualcosa, va bene Pierre?- disse con voce tremolante. -No davvero, dì a Juliette che la raggiungerò tra un po’ al nostro bar e non allarmarla…non ce n’è bisogno. -Nemmeno una tisana?- nelle parole Gilbert tradiva una nota di amarezza. -Non insistere, grazie tante!… Un momento, c’è qualcosa che non va? Non sei sereno. -Ci sono brutte novità! Quelle parole folgorarono Pierre con mille dubbi. I genitori avevano forse già confessato tutto al fratello maggiore? E come poteva Gilbert essere stato tanto forte da non esserne sconvolto? E come avrebbero potuto mentirgli avendo pranzato tutti insieme? Le gambe paralizzate del padre non sarebbero passate inosservate. Al pensiero che tutto potesse essersi risolto, il groviglio che gli annodava il cuore si sciolse e il cranio, che sembrava restringersi minuto dopo minuto, si spalancò, lasciando i pensieri liberi di fluttuare nell’aria. Doveva averne la certezza. -Gilbert… Gilbert avanti, dimmi… cosa… cosa è accaduto? -Nostro padre ha subito un incidente questa mattina, mentre andava al lavoro. L’aria della menzogna cominciava a penetrare attraverso la porta chiusa che li divideva. -E’ terribile- disse Pierre con un falso tono di stupore. -E quali sarebbero le conseguenze?- chiese, pur prevedendo già la risposta. -Sii forte, Pierre- frase questa che aprì sul volto del fratello minore un sorriso- ma nostro padre per un po’ non potrà camminare. -Dio buono! Ma per quanto non potrà camminare?- anche questa volta conosceva già le parole che sarebbero uscite dalla bocca del fratello. -Un mese. Spaventoso vero?… Ora sbrigati, Juliette starà
invecchiando! La manderò al bar, ma tu affrettati. Mentre i passi si allontanavano felpati sul tappeto, Pierre si mordeva le labbra. Infami! Non avevano fatto altro che rendergli tutto più difficile! Cosa avevano concluso mentendo? D’altronde se lo doveva aspettare dalla coppia Doublet. La menzogna era uscita sicuramente dalla bocca della madre, abituata all’ipocrisia e alla recitazione del suo mondo di benpensanti. Ma la maligna idea era venuta indubbiamente al padre, tanto assuefatto dal vivere di illusioni e dal farne vivere i deboli da non rendersi conto di quanto fossero futili le sue falsità. Non riconosceva l’errore nemmeno quando dal pavimento di cristallo su cui la sua pesante esistenza camminava venivano fuori minacciose crepe. Anzi giustificava sé, il proprio credo e le proprie logiche assolute dicendo: “sono semplicemente ottimista!”. Nei discorsi con il padre Pierre, dal canto suo convinto che l’ottimismo fosse una stoltezza, era spesso costretto ad ingoiarsi molte parole. Tante volte aveva provato a spiegare al padre che, continuando ad aspettarsi un ché di positivo dalla realtà, l’avrebbe ottenuto solo con la difficile fortuna e, in ogni caso, a causa delle sue aspettative si sarebbe già abituato all’idea, rovinando ogni prospettiva di gioia. In più se la sorte fosse stata avversa, come più spesso accade dal momento che la fortuna rende felici proprio in quanto cosa rara, la delusione si sarebbe infranta sui suoi occhi in mille frammenti affilati, rendendolo quasi certamente cieco, definitivamente incapace di guardare la realtà. Come poteva mai convincerlo della paradossale validità del pessimismo? Pierre, con il suo atteggiamento, nel caso di un’improbabile fortuna, accoglieva la sorpresa dell’inaspettato buon esito con momenti di intensa gioia; quando, più verosimilmente, la sfortuna lo travolgeva, era già munito della più grande arma che l’uomo possiede al confronto con la sorte, la consapevolezza. Ma questo Pierre non era mai riuscito a dirlo allo sciocco padre che apparteneva a quella odiosa razza di interlocutori che preferiscono il monologo alla discussione. Nei suoi soliloqui Monsieur Doublet era felice di credere nella propria forza di
persuasione, fiero del silenzio di chi gli stava di fronte, ma ignaro dei processi mentali di quello spettatore. Muto per superiorità si intende, non per debolezza. Pronto per uscire, spruzzandosi due schizzi di profumo sul collo, scese le scale con uno sguardo ansioso e, senza pronunciare parola, uscì di fretta. In effetti la menzogna dei genitori aveva su Gilbert le stesse potenzialità di un sicario. Le stradine che serpeggiavano dalla porta della sua casa verso le vie del centro di Parigi erano pressoché deserte e, fatta eccezione per il brusio sempre presente come rumore di fondo di ogni metropoli, la quiete aveva inondato quegli anfratti di cemento. Adesso Pierre cominciava a respirare. Sentire solamente i propri passi che tamburellavano sul marciapiede placò la frenesia del suo cuore. La confusione che rimbombava nel suo cranio cominciava ad ordinarsi. Anzi, per il momento, l’eco lacunoso di tutte le voci si stava pian piano dissolvendo: da quella del dottore “… ha cominciato a manifestarsi… in fondo sapevate… sapevate… un mese, signora Doublet… Doublet… un mese…“; a quella della madre “… è la fine di tutto… mai più… è la fine… loro non devono sapere… non devono sapere… sapere…”; ancora a quella del fratello maggiore “… il caldo… ti ha incollato le labbra… ha incollato… ha subito un incidente… è spaventoso… spaventoso…”. Anche sulla sua destinazione era stata per il momento stesa una impalpabile coperta di oblio. Ciò che importava era essere uscito, fuggito, dimenticato. Le gambe camminavano attirate dall’eccitante voglia di evasione, sensuale fuga sempre disprezzata da Pierre. Questo pensiero infastidì il suo orgoglio e presto divenne l’unico disturbo rimasto. Così si giustificò al suo unico Giudice, sé stesso, pensando che la realtà vera fosse quella verso cui si stava dirigendo: innumerevoli persone ognuna con la propria fittizia realtà individuale, ma tutte ignare delle esistenze altrui. Nelle strade del centro avrebbe trovato la forza della massa, il conforto di una folla dolcemente inconsapevole. Una moltitudine tanto discreta da essere amata per il fatto che non avrebbe mai domandato i “cosa
farai adesso?” che costantemente la sua coscienza gli imprimeva sul cervello. Ai quali rispondere era inumano e doloroso. Sbucando negli Champs Elisées sprofondò nel fiume di crani che affollavano lo stradone inghirlandato di luci e di insegne scoppiettanti. Fu un immersione nel cuore dell’umanità, nel luogo dove ha origine quel fruscio che sempre accompagna le società, quel gorgogliare di rumori amalgamati che misura la degradazione umana. Si era sbagliato, quel fiume di vite che lo travolgeva scagliò la sua anima nello sconforto di un peccatore in procinto di essere lapidato. Non era la realtà individuale ad essere fittizia, ma al contrario quella collettiva. Era disperso nel mezzo di tante creature distribuite in un grottesco ordine inconsapevole ma necessario. Il flusso era diviso tanto nettamente in due direzioni opposte che tutti quegli uomini sembravano bestie oppresse da un’intelligenza superiore. Ma nel momento in cui Pierre, a causa della forza della corrente, fu costretto a seguire quelle direzioni che tanto lo irritavano, solo allora comprese che gli uomini si costringono l’un l’altro. Bestie senza un capobranco, bisognose di quella disciplina che probabilmente odiano, ma che paradossalmente si autoimpongono. Al concepire che l’atarassia di quell’enorme massa aveva imbestialito anche lui, il disgusto impregnò la sua bocca e tutta la sua autostima crollò. Un’alta fortezza di carte abbattuta da un sospiro. Pierre incontrò alcuni conoscenti che accennarono un saluto non corrisposto. Tra questi un gruppo di cari amici dell’università fecero per abbracciarlo, ma lui continuò impassibile, dritto per la sua strada, lasciandoli sbalorditi. Un comportamento del genere da un tipo amichevole e caloroso che solitamente non perdeva occasione per allacciare discussioni, sarebbe stato certamente fonte di quelle voci che subiscono strane evoluzioni, fino a divenire da una bocca all’altra assolutamente inverosimili. Ma questo a Pierre non interessava, anzi gli veniva voglia di riderne a crepapelle. Poi rifletté sul momento in cui avrebbe appreso quelle diffamazioni. Poteva pur riderne ora, ma quell’attimo di comprensione avrebbe fatto male, non per timore di perdere la
stima altrui, ma perché solo allora sarebbe riuscito ad intravedere il muro di vetro che, scindendolo dagli altri, lo lasciava in pasto a se stesso. Eppure Pierre non lo aveva fatto in malafede. Di tutti i conoscenti incontrati non ne riconobbe nemmeno uno; spesso preferiva guardare la foresta di piedi che brulicava poco più in basso, piuttosto che ingrigirsi nell’ennuì degli occhi altrui. Quando alzava lo sguardo la folla gli sembrava nient’altro che un’immensa serie di fredde facce tutte identiche, assemblate su corpi che lo urtavano in continuazione. Ad ogni spallata il suo scarno corpo arretrava di un passo e recuperare quei pochi centimetri lo snervava ogni volta di più. Qualche bocca mormorava un confuso “scusi!”. Qualche altra borbottava una selvaggia bestemmia verso il proprio vendicativo dio. Era al limite della sopportazione quando finalmente riuscì a scollarsi da quel flusso di pantaloni, gonne, camicie e valigette per andare a trattenere Juliette che stava per andarsene con aria seccata. Correndo come un forsennato, maledisse l’orologio che evidenziava il suo intollerabile ritardo. Pensando che fosse stupido maledire uno solo della miriade di orologi che lo circondavano, quello al polso di Juliette, spostò le sue maledizioni sul tempo in sé, quale frutto del bisogno umano di ordine. Afferrò il braccio di lei. Le dita accaldate trovarono nuova vita nella morbida pelle della donna, tanto delicata che Pierre fu terrorizzato dall’idea di averle fatto male. Allentò subito la presa. Le finissime caviglie di lei girarono, voltando quell’inconsistente corpo con la grazia di una danzatrice. Pierre carezzò con lo sguardo quel braccio fino alla spalla. Poi, ancora più su, baciò con gli occhi il roseo collo accarezzato dal finissimo caschetto di capelli che incorniciava un meraviglioso viso tutto da amare. Due gote porporine impolverate da lentiggini d’oro incastonavano un carnoso rubino di labbra. Quel gioiello lievemente sporgente si aprì come per un soffice bacio. Fuoriuscirono alcune parole che Pierre non capì; per il momento esisteva solo la contemplazione di ciò che in un solo istante avrebbe voluto ansiosamente possedere. Il mondo non esisteva più.
III
Odiare era fuori dalla natura di Juliette e le artificiose grida della sua finissima voce tradivano più tristezza che rabbia. -Maledizione Pierre, smettila di fissarmi! Rispondimi almeno!Gli occhi inebetiti del suo interlocutore erano immersi in una bellezza rabbiosa ma tanto tenera. Osservavano il modo in cui la rossa carne che riempiva abbondantemente quelle labbra si contraeva ad ogni sillaba e come la sottile lingua guizzava come un pesce in un secchio. -Ma chi mi impone di stare ad aspettarti seduta ad un tavolo per più di un’ora? Tu forse? La rabbia della ragazza anziché crescere ancor di più all’odioso silenzio di Pierre si trasformò in una più naturale rassegnazione. -Mi dispiace Pierre, questa volta è davvero la fine. Una lunga veste nera abbracciava il suo corpo lasciando scoperte le gambe dalle ginocchia in poi. La seta aderiva a tutto il corpo come una seconda pelle, fatta eccezione per la zona del seno che innervosito, infilzava la veste in due punti uniti da una piega ad arco. La larga scollatura si appigliava ad un paio di fini bretelle che s’arrampicavano sulle spalle, per poi lasciarsi cadere sulla schiena voluttuosamente incurvata. I fianchi precipitavano sempre più stretti fino ad infilzarsi come un cuneo sulla dolce rotondità del sedere. Man mano che il suono dei suoi tacchi si allontanava, Juliette si annullava nel brusio della strada. Appena la sua figura si sciolse nella melma umana degli Champs Elisées, Pierre fu colto da una sorta di nausea, una sensazione di fastidio nei confronti di ogni cosa che lo circondava e di sé stesso. I suoi stessi movimenti lo infastidivano ed ebbe un subitaneo impulso di violenza. Ma subito quella potenziale follia da prima pagina del giorno dopo si trasformò in disgustosa autocommiserazione. Per quale maledetto motivo non aveva pronunciato nemmeno l’accenno di una scusa? La sua coscienza naufragava tra il logorante senso di colpa e l’ancor più snervante senso d’impotenza. A cosa si era ridotto, non riuscire più a controllare sé stesso! Tutta la situazione che incombeva su di lui gli piombò addosso. Pian
piano si rendeva conto che, oltre al proprio, stava perdendo anche il controllo del mondo che lo circondava e degli individui che vi erano collocati sopra. Eppure non ricordava di aver mai avuto questo controllo. Era solo una fittizia convinzione non dissimile da quelle di suo padre. Avrebbe voluto disprezzarsi quanto disprezzava il genitore, non era affatto migliore di lui. Come poteva credere di aver mai influito su qualcuno se nessuno, nemmeno Juliette lo aveva mai capito per quello che era realmente? Se lui stesso non aveva capito neanche una persona e continuava a guardare gli altri solo per come ce li aveva dentro? Se nessuno capisce mai nessun’altro, mai nient’altro? Se non esiste l’uno in sé, ma solo l’uno moltiplicato per gli occhi che ci guardano, ripetuto a sua volta per le diverse visioni di noi che ognuno tiene in sé? Come poteva credere di poter districare anche un solo filo dall’enorme nodo aggrovigliato che forma l’infinito intreccio di coincidenze della vita? Il mondo attorno a Pierre cominciava a perdere consistenza. Vedeva solo uno sterminato gioco di specchi i cui soggetti non erano individuabili giacché persi irrimediabilmente tra caotici riflessi deformati, accavallati, sovrapposti o solo immaginati. Guardava le proprie mani tremanti d’angoscia e alzando gli occhi vide la sua insignificante immagine sulla vetrina di fronte, ferma in mezzo ad una miriade di esistenze che si muovevano, ridevano, parlavano. -Eccoti Pierre, inutile pezzo di paesaggio- mormorò. Scoppiò a piangere accasciandosi sul marciapiede fino a sdraiarsi completamente con lo sguardo verso il cielo, annebbiato dalle luci e dalle lacrime. Si vedeva male, il cielo. Ma era lì, sopra i suoi singhiozzi, sopra gli sguardi indiscreti della gente. Sopra l’insignificanza. Ma più il suo desiderio saliva verso le stelle, invisibili per l’abbaglio dei lampioni, più si sentiva affondare in un rumoroso rovo di ginocchia che lo circondavano, avvolgendolo nelle sabbie umane che ribollivano sterminate sugli Champs Elisées. Quando i suoi sensi cominciarono a svegliarsi si sentiva accaldato. Poche chiacchiere confuse ma calme penetravano lentamente nelle
sue orecchie. La voce si rivelò quella del fratello. Aprì gli occhi nella speranza di eliminare il gran frastuono che gli dondolava nel cervello. Dal divano su cui era disteso riconobbe il tetto della sala da pranzo di casa sua. Più in là suo fratello stava congedando il dottore, lo stesso che si era occupato del signor Doublet. E con lo stesso ripugnante umorismo. -Per casa Doublet le consiglierei un abbonamento, signor Gilbert. Risparmiereste davvero!- disse mentre usciva. -Gilbert… Gilbert… Ehi Gilbert! -Era ora che ti svegliassi, Pierre. Hai dormito per sedici ore, da quando sei svenuto ad ora. -Svenuto? -Si, il dottore ha detto che hai avuto un collasso ieri sera. Se non fosse stato per Juliette che ti ha trovato, adesso probabilmente non sapremmo nulla di te, saresti disperso in un qualche ospedale di Parigi. Ieri hai pure dimenticato i documenti qui a casa. Non avresti dovuto uscire per quanto stavi male. -Juliette? Ma era andata via! Allora dopo è ritornata! -Vacci piano Pierre, i nostri genitori non sanno nulla, ma a me Juliette ha raccontato del vostro litigio. Era tornata solo per restituirti questo. Dalla tasca tirò fuori l’anello che le aveva regalato Pierre, il quale ne aveva uno uguale. Fu una fitta al cuore vedere quell’anello, non tanto per Juliette quanto perché quel gioiello era un segno dei tempi in cui tutto andava bene o almeno si faceva finta che andasse bene. Lui l’anello ce l’aveva ancora al dito, come sempre illuso più di quanto non credesse. Più di quanto non fossero coloro nei confronti dei quali si sentiva una colonna portante. Ma i tempi dell’estrema razionalità, che sempre dona un’illusoria forza sovrumana, finivano lì e Pierre giurò a se stesso che non avrebbe più sbagliato, non si sarebbe più presuntuosamente sentito colui del quale non si può fare a meno. Cominciò subito. La notizia dell’imminente morte del padre era un tesoro rubato per caso, non acquisito per fiducia. E se il caso aveva voluto
che sapesse, lui voleva pari condizioni con chi gli stava vicino. Supponeva che sarebbe stato meglio rivelare ogni segreto per ottenere un’incomunicabilità meno radicale. -Gilbert, sei mio fratello maggiore e tutto sarebbe meno lacerante se fossi tu a dirmelo, ma devo dirti che i nostri genitori ti hanno mentito. In quel momento era come se Pierre fosse impegnato in un monologo. La sua mente aveva momentaneamente cancellato la figura del fratello. Era invasato dai pensieri della notte passata. -Cosa? Ma su cosa mi avrebbero mentito?- diceva spensierato Gilbert prendendo in mano un’odorosa tazzina di caffè. -Non c’è stato alcun incidente, nostro padre morirà nel giro di un mese a causa di una malattia che lo debiliterà progressivamente. Se non credi alle mie parole ti basterà aspettare. La porcellana che si infranse sul pavimento sanguinava scuro caffè, ridotta in pezzi come il sottile equilibrio di Gilbert, sbriciolato sotto quei pesanti colpi. Al vedere l’espressione di un morto sul viso impallidito del fratello, Pierre ebbe la sensazione di un risveglio improvviso. Avrebbe dato la vita stessa per tornare indietro nel tempo e uccidersi prima di pronunciare quelle assurde parole; se le sarebbe rimangiate intinte di cianuro com’erano. Ma ormai erano state iniettate nel corpo di Gilbert. Una volta ancora aveva perso il controllo di sé stesso. I pensieri della sera precedente non potevano servire a nulla se non alla distruzione. Per una seconda volta. Mille rimorsi stavano risalendo dalla notte passata per divorarselo ancora una volta. Pierre riuscì a stento a placare il tormento per qualche secondo. Al sentire un urlo agghiacciante provenire dal corpo del fratello che in un tonfo sordo cadde come morto sul tappeto, quel tormento esplose. Con addosso incollata la colpevolezza, si raccolse in un angolo del divano. La madre sarebbe arrivata dopo pochi secondi ed egli non poteva neanche nascondere la propria colpa. Per riuscirci avrebbe dovuto strapparsi di dosso quella faccia devastata dal rimorso. Inchiodato su un bracciolo del divano stava
attorcigliato su sé stesso con le mani strette sul viso, incapace tanto di guardare che di respirare. Un grido attraversò l’aria. Il viso preoccupato della madre, appena si affacciò sulla stanza dalla porta semiaperta, si scompose in una smorfia di terrore. -Gilbert! Cos’hai figlio mio? Rispondi, ti prego! Che hai?- diceva scuotendo il corpo del figlio. E girandosi ferocemente verso Pierre, totalmente pietrificato, gli gridò: -Tu! Dimmi cos’è successo, per Dio! Sono certa che è opera della tua mente malefica! Maledetto! Depose delicatamente Gilbert sul tappeto e afferrò le braccia di Pierre. I suoi occhi costellati d’odio si riflettevano su quelli impauriti del figlio. -Cos’hai fatto? Dopo che ti ha accudito tutta la notte sei stato capace di fargli del male! Ho sempre saputo della tua perfidia! Tu, Pierre, figlio ripudiato! Quell’ultima frase riecheggiò in Pierre per qualche secondo, destando nella sua mente la sequenza di scansioni che, integralmente, componevano l’immagine materna. Ma analizzandoli uno per uno si accorse che nessuno di quegli innumerevoli frammenti era minimamente compatibile con la frase appena pronunciata dalla madre. Era naturale; quella sequenza mnemonica costruiva la donna solamente com’era dentro Pierre, com’egli avrebbe voluto che fosse. Infatti, pur se la donna aveva collaborato a creare tale immagine di madre benevolente con tanto di sfumatura borghese, era propriamente il figlio ad aver eliminato dalla memoria tutti quei tratti di personalità che raramente emergevano dal profondo dell’animo materno. Ed erano proprio quei tratti che ora stavano venendo fuori uno dopo l’altro, risvegliati dal torpore dell’oblio. Nella sua memoria ogni scena si staccò dalla successiva lasciando intravedere altre immagini, precedentemente oscurate dal tenebroso inconscio di Pierre. Più si smembrava la fittizia pellicola della madre, più si andava dissacrando il mito della donna che
“nonostante tutto mi ha creato e cresciuto!”. Ecco che, cancellata dalla propria mente questa proposizione, Pierre stava riuscendo a guardare oltre. Cominciarono ad apparire tutte le cose che, eliminiate una per una nel corso della vita, erano insopportabili tutte insieme. Urla e schiaffi ad un bimbo di appena tre, forse quattro anni; il disinteresse di una madre che si crede libera da ogni punto di riferimento, e tra questi era compreso il piccolo Pierre; il suo risentimento per la preferenza da parte dei genitori del fratello maggiore; la coscienza di essere, più che un altro figlio da crescere, una fotocopia da rileggere per la seconda volta. Immerso in quei pensieri che gli attanagliavano lo stomaco, non sentiva più nulla, solo cupi suoni, basse vibrazioni. Le labbra della madre si deformavano come se cercassero con immane sforzo di controllare le convulsioni della lingua, un’anguilla schizofrenica che si agitava elettricamente nella bocca sputando piccole schegge di saliva che precipitavano infuocate di rabbia sul viso puerile di Pierre. Quella donna era ormai un isola della sua memoria che placida e silenziosa scivolava via in segreto, lasciandolo con il cuore vuoto che violentemente si stringeva. Stava perdendo ancora una volta il senso della percezione. Gli occhi erano aperti e il neon che li illuminava cancellava il loro soffio vitale. Il viso sembrava una scultura chiamata “Αρτι Μαντανω“ (Edipo: “Ora capisco!”). Ma mentre la sua espressione appariva ferma, ad uno sguardo più attento le pupille tremavano velocissime. Pierre non avvertiva l’immobilità percepita dall’esterno. Dal di dentro delle sue percezioni era comprensibile che non riusciva a formulare una parola. Nel suo cervello ogni cosa cominciava a vibrare in maniera impercettibile, poi sempre più velocemente, finché la violenza di quel tremore non divenne insostenibile. Figure, oggetti, sensazioni si mescolavano in una ribollente amalgama di realtà e immaginazione, in un assurdo miscuglio caotico. Non rimase che una liquefazione tremenda (o forse profondamente piacevole) nella
quale si rompevano i confini delle categorie mentali e il contenuto dell’una sgorgava nell’altra, provocando un vortice di colori e odori, sensazioni e parole, orgasmi e dolori; tutto ciò che gelidamente si infilza nel caldo abisso della più profonda intimità. Quando qualcuno si accorse della situazione, Pierre era già morto. Almeno per qualche ora.
IV
Adesso un placido oceano di silenzio scorreva lento nella sua mente. Lo sentiva scrosciare lievemente e in maniera costante, come la pioggia quando il vento smette di frustarla. Pierre aveva ritrovato la pace, ritraendosi nella più profonda intimità. Che fosse meraviglioso o tremendo poco importava; l’unica cosa degna di essere consisteva nell’ascolto di quello scroscio, tanto regolare che sembrava esistere da un tempo lontano da ogni memoria umana. Quel suono eterno penetrava nell’anima con tanta facilità da polverizzarsi dolcemente in essa, lasciando depositare sulle percezioni una finissima polvere, il silenzio. L’onnipotente parola della pioggia lasciò sopravvivere alla sua serafica distruzione un unico senso di eternità, nel quale la fretta non aveva ragione di esistere. Una parola totalizzante, incolore e inodore; estranea ai sensi, eppure assai familiare. La dilatazione del tempo rendeva l’aria pesante e ferma, i suoni sordi e cupi. Sembrava che ogni movimento del suo corpo attraversasse un fluido denso, concentrato. Inabissata in un oceano di liquido amniotico, la sua mente era conscia d’una cosa sola, la lontananza. Enormemente distante da ogni cosa, da ogni essere pensante. A suo agio. Furono quelli gli unici momenti della sua esistenza in cui la volontà aveva smesso di assillarlo con infinite richieste, il più delle volte incomprensibili e di conseguenza incontentabili. Mai aveva avuto la capacità di immergersi così in profondità nella regione del suo io dove nessuno avrebbe potuto mettere piede. Era il luogo non conosciuto, l’oscuro regno dell’indecifrabile dove non esiste consapevolezza ma solo intuizione. La sua mente giaceva sul fondo del lago di esistenza che ora lo sommergeva. La superficie di quell’oceano di silenzio distava enormemente. Finalmente si trovava nel suo essere più profondo, più genuino, e poteva nutrirsene come un bimbo nel grembo. Un rifugio estremamente remoto dal mondo bizzarro dove la frenesia inghiotte gli uomini nel gorgo di tempi che non sono più i loro. Pian piano lo scroscio si sottraeva dalla sua anima fino a divenire
un disordinato gocciolio. Pierre riemerse rapidamente da quella dimensione onirica e sbucò all’aria aperta, così gelida, così vivida. Gli occhi erano immersi nel buio. D’un tratto si aprì una fessura non di luce accecante, ma di un pallido grigiore notturno. Lo sguardo cominciò a decodificare le forme che andava percorrendo. Tutt’intorno del pattume era immerso nel fango e tra quei rifiuti c’era anche il suo corpo, per metà affondato nel limo. Su di lui scorreva un rivolo d’acqua che scolava dalla soprastante volta di cemento. Un forte colpo di vento risvegliò le sue sensazioni con un glaciale brivido che penetrò fin dentro le ossa. Provando faticosamente ad alzarsi sentì la pesantezza delle vesti che aveva addosso, completamente infradiciate di quella fanghiglia. Le circostanze si fecero più chiare: Pierre si trovava sicuramente al di sotto di un ponte e la pioggia era cessata da poco. Era la situazione precedente a rimanere immersa nel totale mistero. Come poteva essere arrivato lì sotto? Per un secondo lo attraversò l’ipotesi che potesse essere stato buttato laggiù da qualcuno; poi comprese che non c’era ragione che qualcuno perdesse tempo con un essere insignificante come lui. Insignificante. Solo a quel pensiero si rese conto di ritenersi tale. Una tagliente rabbia gli avvelenava il cuore. Ma non si sentiva solo, anzi per la prima volta era parte di qualcosa. In fondo, chi non era insignificante? Il mondo stesso andava avanti solo grazie al necessario serbatoio d’insignificanza, costituito dalla moltitudine degli internati nell’enorme Lager delle masse. In quella prigione, grande quanto il mondo stesso, non esistono menti, ma solo automi che fanno da pavimento. Stanno tutti stretti l’uno all’altro, miliardi di persone incollate dalle convenzioni, dai compromessi. Anche Pierre faceva parte di quel pavimento, l’umanità, su cui pochi camminano. Non ci avrebbe mai creduto fino a poche ore prima, convinto com’era del proprio valore di individuo; quando capì che lui era una frammento di quella totalità, riuscì a concepire il mondo dell’insignificanza. Come poteva non essersene mai accorto? Forse quel mondo passava inosservato poiché non aveva
un nome, era solo il sotto-mondo con cui fare un confronto ad un solo termine. Era più probabile quindi che fosse lui ad essere arrivato lì, ma il come e il perché rimasero intrecciati in un oscuro nodo di dubbiose ipotesi. Per quanto cercasse, nella sua mente non c’era certezza. Pierre, riflettendo, si chiese se la situazione era davvero così preoccupante; una vera certezza non l’aveva mai avuta. Questo era solo uno di quei momenti in cui la situazione combacia con la sensazione; il momento della conferma che tutti cercano dal mondo, senza alcun motivo. Sarebbe stato troppo fidarsi di sé! Tutte quelle domande gli si affollavano nel cervello provocando solo confusione. L’abbattimento avvolse il suo animo, lasciandolo in pasto all’indecisione. Nel frattempo l’ossuta presa della fame gli stringeva violentemente lo stomaco. Un’altro gelido soffio di vento investì il corpo di Pierre avvolto dai fradici vestiti. Per un attimo le forze gli mancarono e le ginocchia cedettero lasciando cadere quel viso corrugato dalla sofferenza nel fango freddo. Dopo qualche secondo per riprendere le forze, riuscì a risollevarsi sulle ginocchia tremanti. I piedi erano notevolmente appesantiti dal limo che si aggrappava alle scarpe come se volesse anch’esso fuggire da quel luogo così freddo. Con un immane sforzo di volontà, il corpo indebolito cominciò lentamente a trascinarsi via, verso la luce cenerina all’esterno. Finalmente vide sopra di sé non più il cemento attraversato da rugginose vene di metallo, ma la luna enorme e traboccante di luce. Gli sembrò tanto vicina da poterci salire su. Chiuse gli occhi e immaginò di rannicchiarsi in uno di quegli oscuri crateri e di lasciare che quella dolcissima madre dal viso bianco e giocondo lo cullasse, sussurrandogli dolcemente la storia delle ere. E ancora di lasciarsi dondolare dalle sue rotazioni, fino ad abbandonarsi tra le braccia di quella amorevole sentinella del mondo in un sonno eterno chiamato morte. Senza che nessuno pianga. Senza che nessuno gridi. Volteggiando nel siderale silenzio dello spazio. I crampi della fame lo risvegliarono improvvisamente da quelle
estatiche visioni, scagliandolo nella sua assurda situazione. Decise di arrampicarsi su un’inferriata del basso ponte che, da quella prospettiva, si rivelò una strada sopraelevata sul letto inaridito di un fiume. Giunto sull’asfalto si sentì spaesato in mezzo a tutti quei palazzi, non riusciva a capire dove si potesse trovare. Nonostante a quell’ora sarebbe stato davvero improbabile trovare qualcuno a cui chiedere aiuto, Pierre cominciò a camminare più che per trovare un utopico soccorso, per evitare che il freddo, in continuo aumento insieme all’oscurità, lo uccidesse. La luna era ormai murata tra quegli immensi ripostigli di cemento dove gli uomini si auto-depongono, lasciandosi tristemente ricoprire di rimorsi come vecchie scarpe rose dalla muffa. Non c’era suono che pervadesse l’aria, ma questo non lo rilassava, anzi lo infastidiva. Aveva la sensazione che il silenzio della città notturna avesse soppresso l’armonica sinfonia di rumori primordiali tanto in sintonia con le nostre percezioni da divenire incontaminato silenzio. Ecco cos’era quella sensazione che opprimeva i timpani: il silenzio sintetico della civiltà che irritava l’anima. Doveva essere lontano dal centro della città, vivo durante tutte le ore. Era disperso in una delle innumerevoli periferie che dalla zona centrale, già di per sé enorme, si diramavano per decine di chilometri creando una sterminata giungla urbana. Vagava non guidato né dalla ragione né dall’istinto, dal momento che la prima era assolutamente inutilizzabile a causa della situazione totalmente illogica e il secondo non aveva la forza necessaria a realizzarsi. Camminava senza la coscienza di camminare. “…Sta proprio qui la soluzione, ho perso di nuovo il controllo di me stesso e sono arrivato qui senza né capirlo, né volerlo. Sono finalmente un vagabondo…” La consapevolezza di quella condizione fu, nonostante tutto, frutto del piacere più grande che potesse provare. Finalmente si era abbandonato a sé stesso, lontano dal mondo che non meritava. Tutta la sua dolorosa decadenza era servita dunque alla vittoria… Ma dalla bocca di Pierre uscivano muti fruscii d’insofferenza e i
suoi arti erano percorsi da gelidi tremori convulsi. Il ragazzo non errava con i piedi alleggeriti da un anima vuota di pensieri, ma si trascinava addosso il peso della sua esistenza come quello di una carcassa morente. Stava subentrando il secondo stadio della comprensione, destinato a pochi sfortunati, a quei pochi tanto folli da decomporsi allo scopo di svelare il proprio Noumeno, l’Es che ci anima, l’autentico sé stessi senza il bisogno di un’antitesi, senza la necessità di un confronto attraverso il quale materializzarsi. E quant’era terribile il momento della perfida conoscenza! Sarebbe divenuto felice solo in seguito ad una scelta di volontà che lascia l’uomo a sé stesso, nel rinnegamento spontaneo del contratto sociale, nella libertà della solitudine. Il suo vagabondare non era stato scelto come prima credeva, egli era stato condannato a tale condizione. Cominciava a comprendere di non aver rinnegato la società, ma al contrario la società ad aver rinnegato lui. Il mondo lo aveva ingannato, gli aveva conficcato un pugnale nella schiena proprio nel momento in cui le braccia cominciavano ad esultare per il trionfo. Quella sinistra coscienza che muove gli incomprensibili processi delle masse aveva fatto sì che la propria espulsione dalla tribù più grande, più elitaria, quella del mondo civilizzato, sembrasse ai suoi occhi sciupati l’espressione più potente della propria volontà. Quale astuzia! Quale cattiveria! Quale umanità! E quale peso per Pierre comprendere che i propri fieri traguardi di fuga e di orgogliosa anarchia altro non sono che la più amara sconfitta, l’espressione del fallimento di cui il rinnegato si fa una ragione! Capiva che l’essere umano è abituato a farsi sempre una ragione di tutto a propria misura. Gli sembrava goffo l’uomo, quando, magro com’era, cercava disperatamente di indossare quelle enormi vesti che non erano affatto a misura d’uomo; Pierre osservava quanto era facile perdersi nell’oscurità di quelle labirintiche pieghe, ma non c’era da preoccuparsi, si sarebbe fatto una ragione anche di questo. Stava vivendo uno dei rari momenti, di quei tremendi momenti di consapevolezza in cui viene fuori l’altissimo prezzo dei sogni. Sconvolto e confuso tra la malvagità delle illusioni e lo sradicamento
da una realtà fredda e inumana, non riuscì più a trovare nessuno lì intorno, ormai nemmeno sé stesso. Non seppe far nulla, non seppe cosa pensare. Il pianto cominciò a sgorgare caldo e abbondante dai suoi occhi. Pianse la morte della sua volontà, pianse la morte delle sue illusioni, pianse la morte della propria umanità. E il decadimento di quegli elementi decretò l’uccisione del suo stesso essere uomo. Tra singhiozzi e morsi sulle labbra si lasciò cadere pesantemente sull’asfalto. Sentire la pioggia, che d’un tratto lo seppellì con scrosci e gocce, lo lasciò morire con un piccolo accenno di sorriso sul volto. Scivolò di nuovo in quel meraviglioso oceano di silenzio dove la fretta non ha alcun senso, dove nulla ha alcun senso. Pianse per gli uomini che come tali tendono tragicamente a un qualcosa di irraggiungibile, o che una volta raggiunto si rivela tremendo e fatale. Pianse per una vita, la sua, bruciata dalla conoscenza. Pianse per l’unico vero morto nella storia dell’umanità. Il suo ghigno di follia echeggiò nelle menti di tutti gli uomini destinati alla sua fine. Così pittori e poeti, artisti e visionari, tutti i maledetti geni della comprensione piansero, intuendo appena la tristezza che li vivifica. Ma Pierre aveva già pianto, aveva già riso. La sua ultima lacrima, tutta intrisa della sua esistenza, fu una lacrima di gioiosa follia. La follia dell’insensatezza. Sprofondò in una lunga onda che si disperse nello sconfinato lago dell’esistenza, placido e malinconico come gli occhi di un vecchio, e andò a depositarsi sul fondo di quell’oceano di silenzio, dove la fretta non ha alcun senso, dove nulla ha senso.