Fastidio

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“Incontanente intesi e certo fui che questa era la setta de’ cattivi, a Dio spiacenti ed a’ nemici sui. Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi,stimolati molto da mosconi e da vespe ch’eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, ai lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto.”


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luca.mortellaro

ignazio.mortellaro



I


Emile provò qualcosa. Fastidio, forse. Comunque niente di importante. Si recò in ufficio di mattina presto, accompagnato dal mal di schiena che da anni lo perseguitava. Ancora stordito dal sonno diede una vaga occhiata all’ambiente. Nulla di nuovo. Ognuno degli impiegati sedeva sulla propria scrivania e nessuno si alzava mai se non per bisogni fisiologici. A svolgere le mansioni che obbligavano a stare in piedi era un gracile omuncolo dal viso scarno; portava sempre dei pantaloni a sigaretta strettissimi che accentuavano la spaventosa sottigliezza delle gambe, tanto aduste che sembrava si potessero spezzare con estrema facilità. Costui rimbalzava da un angolo all’altro dell’ufficio ed Emile spesso lo seguiva con lo sguardo, senza farlo notare a nessuno naturalmente; stava con il fiato sospeso, temeva che, urtando qualcuno o qualcosa, la sua ossatura non avrebbe retto. Alle volte era invogliato a parlargli e, visto che non sopportava di stare seduto, aveva intenzione di proporgli uno scambio di ruoli. Non sarebbe costato nulla a nessuno. Aveva già deciso di farlo da un paio di anni, aspettava solo il momento giusto. Il problema era che a Emile irritava parlare, lo infastidiva soprattutto che un estraneo potesse invadere la sua solitudine. Andò a sedere sulla scomoda sedia metallica della sua scrivania, pur sapendo che i dolori alla schiena erano dovuti alla sua conformazione. Una barra metallica incurvata gli faceva da schienale e, nonostante ore ed ore di contatto con il corpo, rimaneva sempre fredda. Non era posizionata all’altezza delle scapole, ma premeva sulle costole inferiori, lasciando inarcare le spalle quel tanto che bastava a fargli passare notti insonni. Emile si era sempre chiesto se a creare quel tormento fosse stato un errore di fabbricazione o, più semplicemente, il totale disinteressamento del progettista, che in casi come quello diveniva inconsapevole crudeltà. Dal primo giorno della sua assunzione, sei o sette anni prima, aveva stabilito di far cambiare la sedia, un giorno o l’altro. Tutti i colleghi erano assorti nel proprio lavoro. Anch’essi erano


seduti sullo stesso modello di sedia, ma nessuno sembrava farci caso. Emile si sforzava di capire come riuscissero ad ignorare la sofferenza di quella postura. Pensò che in effetti anch’egli fino al giorno precedente non ci aveva fatto caso, o meglio si era promesso di sostituirla presto; probabilmente anche loro erano in procinto di cambiarla. Eppure nessuno si muoveva dal proprio posto, da sempre. Ciascuno aveva innanzi a sé uno schermo luminoso che emanava sul viso una luce livida. Il loro colorito era in tal modo reso ancor più cianotico di quanto già non fosse. Pareva gli avessero prosciugato l’energia vitale. Regnava una gran confusione a causa delle decine di dita nervose che ticchettavano sulle tastiere, delle mani che sfogliavano cumuli di carta di bassa qualità -motivo per cui frusciava maggiormente-, delle braccia che chiudevano e aprivano cassetti. Nondimeno quell’infernale caos non era segno di vitalità come sarebbe facile pensare, tutto dava l’impressione di essere estremamente ordinato, ogni cosa era al suo posto, ognuno produceva il disordine che doveva produrre. In Emile il fastidio cresceva. Solitamente stava sempre attento alle sue, e non capiva perché quel giorno continuava a guardarsi intorno. All’ordinario stato di cose si era aggiunto da pochi giorni un altro fattore, destinato anch’esso a divenire prima o poi normale. Un insoffribile, discontinuo ronzio gli penetrava nelle orecchie. Ad emetterlo era il neon semiscarico che scoppiettava sulla sua testa. Sugli occhi batteva una luce intermittente che lo stordiva. Ma non era il neon in particolare la causa della sua insolita sensazione. Emile stava male. Rimpiangeva l’involucro di torpore messo su in anni lunghissimi, o forse estremamente brevi, che si stava dissolvendo in poche ore. Cominciò a sentire le sue ansie denudate di ogni protezione. L’avvilimento si faceva spazio al suo interno, spogliandogli il cuore. Qualcosa stava violando il suo mondo, il piccolo e innocente mondo del silenzio e della solitudine che da sempre lo riempivano di un terribile e appagante vuoto, dell’interminabile attesa di nulla.


Emile solitamente dava l’impressione di una persona a cui non importa nulla di ciò che lo circonda. Questa convinzione nasceva dal fatto che gli interessava tanto di chi gli stava vicino da sembrare agli altri assolutamente apatico. Si era sempre sforzato di non fare né troppo, né troppo poco; s’impegnava a fare quanto bastava per passare inosservato. Era questo il motivo per cui molti pensavano che nascondesse qualcosa di empio, che occultasse una qualche perversione. Emile sapeva bene cosa gli altri pensassero di lui e non poteva far nulla. In realtà non voleva far nulla, lo infastidiva pensare di dover prendere iniziativa per interagire con gli altri. Il motivo di tale atteggiamento non stava in un ascetismo, in un ritiro spirituale o in uno stoico distacco dalla realtà, ma risiedeva in una radicale paura. Forse temeva di sbagliare, forse gli altri lo impaurivano. Nemmeno lui aveva chiaro l’oggetto della sua fobia, ciononostante ogni volta che doveva agire, senza la licenza di un’autorità o di una massa, qualcosa di insormontabile lo costringeva a fermarsi, l’angoscia gli saliva fino alla gola. Aveva sempre vissuto nel silenzio della solitudine, per evitare anche il solo rischio di provare ancora quelle terribili sensazioni, quella vergogna insensata, quell’inspiegabile imbarazzo che lo sprofondava nelle nevrosi della sua impersonalità. Emile non riusciva ancora a spiegarsi perché quella mattina, dopo anni e anni della stessa condizione, cominciò a sentirsi in grembo un orrido figlio, un feto mostruoso che continuava a nutrirsi del suo silenzio, del suo isolamento. Percepiva la propria fragilità come suo futuro assassino, un piccolo Edipo che cresceva in silenzio. L’emarginazione andava inumidendo i piedi d’argilla della sua individualità. Era ormai indubitabile che la sensazione ci fosse, ma rimaneva indefinita. Fastidio, forse. Contribuiva ad accrescerlo il fatto che solitamente prestava attenzione solo a far finta di esistere; in quei momenti, invece, faceva caso ad ogni particolare: la sedia, il neon, il latore, il ronzio. Un comportamento simile non portava a nulla, l’unico risultato era l’insopportabile fastidio. Dapprima avrebbe


giurato di non poter tollerare la situazione per più di una manciata di minuti. Uscì dall’ufficio solo per pranzo, come gli spettava. Difatti in seguito non si sentì di definire la circostanza insopportabile, era un’esagerazione. Lui stesso l’aveva tollerata. Pur se non riusciva né a concentrarsi sul lavoro, né a distrarsi su altro, si era rassegnato. Si sforzava comunque di non concepirla come un’arresa; come se anche nella sua mente ci fosse qualcuno da cui difendersi! Piuttosto preferiva pensare che non fosse nulla di importante. Si trattava di una semplice sensazione, sarebbe passata. Come tutte le altre. Eppure di “tutte le altre”, chissà per quale motivo, non gliene veniva in mente nemmeno una. Dapprima si avvilì; come poteva dire di non riuscire a sopportare qualcosa, se poi non sapeva cos’era? Poi pensò che in fondo era meglio così. Era inutile scervellarsi, non era nulla di particolare. Era qualcosa di strettamente personale, niente di cui preoccuparsi. Ad un tratto si rese conto che quella era la stessa sensazione che provava da tanto tempo, sei o sette anni. Fino ad allora era stata un sottofondo, qualcosa di impercepibile in quanto totalizzante. Perché si stavano svegliando tutte quelle cose? Si era chiesto qualcosa di simile riguardo al risveglio domenicale; si era domandato il motivo per cui una persona, libera di dormire quanto le pare, si svegliasse in un istante, in quell’istante diverso da tutti gli altri. Doveva essere a causa di processi biologici che innescano il risveglio. Allo stesso modo riguardo la sua situazione, cosa lo aveva risvegliato dopo il suo lungo, o breve che fosse, sonno? Mentre questi interrogativi lo tormentavano, successe qualcosa. Improvvisamente le sue ginocchia scattarono in piedi, spingendo la sedia indietro. Emile era così preso dai suoi ragionamenti che se ne accorse pochi secondi dopo. Non capì il motivo, ma dopo sei o sette anni di stare seduto per quattro ore mattutine e altrettante pomeridiane, quel giorno si alzò. Rimase immobile, sembrava in procinto di esclamare una frase, di urlare la frase, di tirar fuori la chiave della prigione.Tutti gli schiavi che aveva attorno gli puntarono contro i loro sguardi imploranti e disperati, le loro


menti erano scarne e affamate. Emile era immobile. Non c’era una ragione, eppure si era alzato con l’unico scopo di alzarsi. Ogni rumore si stava incupendo: il trillare dei telefoni, le voci, il chiudersi delle porte, il battere dei tasti, lo sfogliare continuo. Le persone e gli oggetti che lo circondavano erano divenuti indistinguibili, risultavano forme appannate. Era come se fosse affondato in un’enorme vasca d’acqua. Tempo e spazio si erano dilatati. Vagamente riusciva a percepire gli sguardi di coloro che gli stavano vicino, tutti focalizzati su di lui. Ma non li sentiva più imploranti, né disperati. Li vedeva luccicare di invidia, o paura. Poteva anche trattarsi di terrore. Pensò che l’atto che aveva compiuto, avendo sentito di farlo, potesse essere qualcosa di buono, di positivo. Era convinto che qualunque tipo di schiavo non aspettasse altro che la libertà. Invece tutto si rivelò un totale fallimento. Come poteva quella gente aver paura della chiave della prigione che lui possedeva? Quella gente aveva paura della libertà, non sapeva cosa fosse e la temeva. Erano nati per le loro gabbie. Emile cominciava a comprendere la ragione per la quale nessuno aveva mai cambiato la propria sedia. Tutto tornò normale. Il neon guasto tornò ad abbagliare le sue pupille a intermittenza, ronzando ininterrottamente. Le figure riacquistarono consistenza e lui si calmò. Non era successo nulla, solo sensazioni personali. Niente di preoccupante. Gli sguardi non erano poi così famelici o terrorizzati, erano solo infastiditi dal suo bizzarro comportamento. Loro stavano facendo il proprio lavoro, mentre Emile si divertiva a sollevarsi in piedi e a guardarsi intorno spaesato. Così più velocemente possibile preferì risedersi sulla sua scomoda sedia metallica. Non voleva pensare di essersi ucciso un’altra volta. Preferì credere di essersi rimesso a sedere onde evitare di dar noia a qualcuno. I suoi colleghi continuavano a guardarlo. Era un’enorme sofferenza. Tutti gli sguardi, tutte le altre esistenze proiettate sulla sua lo stavano schiacciando, non era abituato a quel tremendo peso. Lo stavano forse punendo di ciò che aveva fatto, invadendo la sua


solitudine? La cosa che più gli faceva tremare l’anima e attorcigliare le dita era il timore che gli chiedessero qualcosa. Gli avrebbero potuto domandare il perché della sua azione, il perché proprio allora, il perché si comportava sempre in quel modo, così solo, così inumano. Emile prese un pezzo di carta già utilizzato e scrisse: “Cosa volete? Lasciatemi stare!… vi prego…”. Subito dopo si ficcò la penna in tasca, prese il foglio e lo infilò nel distruggidocumenti sotto la sua scrivania. Un senso di affanno lo prese al sentire l’apparecchio che triturava la sua umanità. Si sentì morire. Questa volta nessun Dio impedì ad Abramo di sgozzare il proprio figlio. Gli altri lo fissavano, tremendamente muti. Il loro silenzio gridava tutto ciò che egli temeva. Si sentì in errore, si sentì un errore. Ebbe la sensazione che la gente lì intorno fosse programmata a reagire in tal modo alla sua anomalia, al malfunzionamento di un ingranaggio difettoso. Emile continuò a lavorare secondo l’orario che gli spettava. Non ebbe il coraggio di asciugarsi la fronte sudata, luccicante a causa del neon scoppiettante che non smetteva di ronzare. Non se la sentì di sistemarsi sulla sedia per attenuare il dolore alla schiena, causato dallo schienale curvo e basso della sedia. Proprio ora, come sempre, non poteva far nulla. Finì l’orario e, uscito dall’ufficio, iniziò a camminare. I suoi passi lo stavano spingendo all’interno di un quartiere più simile a una discarica che a un centro abitativo. Era l’ora di pranzo, e gli unici ad essere in giro erano coloro i quali non sapevano cosa fosse il pranzo. Attorno a Emile brulicavano tante piccole, silenziose esistenze: scrutavano nei bidoni pieni di cose gettate via da chi può gettare qualcosa; orinavano su un muro, barcollando per la sbronza e sporcandosi le scarpe squarciate dall’usura; bisbigliavano accartocciati su stretti fogli di cartone, con le menti logorate dal degrado. Emile, con la sua giacca da ufficio, si sentiva a disagio ogni volta che sfiorava i cenci degli straccioni che gli passavano vicino. Egli sapeva di essere come loro, stava tradendo quegli uomini con gli occhi arrossati dall’alcool e dalla disperazione. Lo assalì un


lacerante rimorso, martellava le dita sulla borsa nel tentativo di scaricare l’ansia. Gli salì al cuore un desiderio irresistibile di fermare uno dei mendicanti per spiegargli tutto: che aveva quelle vesti solo grazie ad Emmanuelle; che la sorella gliele aveva comperate con grandi sacrifici al solo fine di farlo assumere, seppur con uno stipendio magro; che quei soldi dovevano mantenere entrambi; che anche lui, nonostante la giacca da ufficio, aveva spesso fatto la fame, dovendo mandare denaro alla sorella anche se non gliene rimaneva molto. Ma non poteva farlo, non poteva parlare, il silenzio era troppo fitto. Ogni sua parola sarebbe stata illegittima, come d’altronde era la sua vita. Nell’aria levitavano solo i respiri affannosi, gli angoscianti sussurri, le parole che si susseguivano veloci, ripetute, perenni, insensate di coloro i quali, non avendo più nessuno con cui comunicare, parlavano con sé stessi, anche se in realtà non riuscivano più a capirsi nemmeno loro. Quando i suoi passi si fermarono di colpo di fronte ad un piccolo edificio di cemento, Emile comprese che in fondo quei pensieri non erano nulla di nuovo. Gli procuravano la stessa sensazione, ormai da tempo depositata nelle profondità del proprio essere, quella di cui non si era mai accorto per sei o sette anni. Era fastidio, forse. Ad ogni modo, qualunque cosa fosse, era normale e tragica al tempo stesso, agghiacciante ma standardizzata. Qualcosa di simile al dolore quando da ira si decompone in tristezza. Emile si sforzava di ricordare quale fosse la molla che gli aveva dato quella consapevolezza, cosa gli avesse impedito di continuare a vivere anestetizzato dalla normalità. Un tempo l’edificio doveva essere di colore chiaro, bianco panna probabilmente. Ormai un inconsistente membrana di nerume lo aveva avvolto come una scura infezione. La fuliggine si concentrava sugli incavi, lasciando tutto il resto ingrigito. La mancanza di balconi dava alla costruzione un’aria di estrema staticità. Le finestre erano sorrette da piccoli davanzali di marmo con i bordi spizzicati; ogni sporgenza sembrava il sottile labbro inferiore di una bocca spalancata in procinto di urlare, ma impossibilitata a farlo dai vetri


semiopachi che la muravano. Dai bordi le bocche vomitavano ruggine e le sbavature rossicce colavano giù per il muro. Era arduo credere che lì dentro potesse svolgersi la vita di qualcuno. Il palazzo sembrava fatto per stare lì e null’altro, aveva l’aria di un enorme mattone abbandonato in una discarica, in quel quartiere. Emile tirò fuori dalla tasca le chiavi di casa. Aprì il portone e, dopo averlo chiuso con estrema cautela, sgusciò silenziosamente nell’ingresso. Nonostante l’orario, sull’atrio era stesa una coltre di oscurità. La scarsa luminosità precipitava giù dal soffitto, dove un grande finestrone di vetro colorato vomitava un chiarore verde marcio. L’arido fiume di luce si indeboliva rotolando piano dopo piano, fino a divenire, nell’atrio, una polverosa foschia fosforescente. Emile sentiva le ombre serpeggiare dietro le proprie gambe, ombre di assassini e stupratori, di perversi e bestemmiatori che gli sussurravano parole maledette, che dagli angoli più bui gli scrutavano l’anima. Percepiva i loro fruscii, sentiva le loro sagome sinuose sollevarsi dalle superfici. Si avvicinavano al suo corpo nervoso, le loro propaggini lo sfioravano, come dei boa costrittori si serravano pian piano su di lui. Emile si voltò di scatto. Silenzio, null’altro che un’estrema immobilità. Era inutile, sapeva bene che era lui stesso a creare quegli spettri, a proiettare tutti gli spaventosi, possibili sé sull’intonaco lacerato dei muri, sul pavimento incrostato, su ogni cosa. Cercò di uccidere le sue suggestioni concentrandosi sul modo di salire al suo appartamento senza farsi sentire. Alla sua destra, ritagliata sulla parete, stava la porta della locatrice. Non c’era un motivo specifico per passare inosservato, era in regola con i pagamenti, non aveva mai creato fastidio a nessuno. Eppure sentiva una pressante necessità di inesistenza. A pochi metri dai suoi piedi sbocciava dal pavimento la tromba di scale. Si inerpicava come un rampicante sulle pareti per cinque piani. Emile, con gli occhi sbarrati e le pupille che guizzavano da un lato all’altro fece pochi, lenti passi. Si fermò di fronte la rampa di scale, gli interessava arrivare al primo piano, doveva salire solo


pochi scalini per poi scivolare silenziosamente nell’appartamento. Puntò lo sguardo contro quella porta per alcuni secondi; fu come se ciò avesse aperto la strada all’udito, che si insinuava nelle camere, nei letti, nella cucina. Sentiva il formicolio delle continue attività casalinghe: rumori, passi, mormorii, respiri. Ma più di tutti uno strano ronzio, forse la televisione, o la radio. No, si accorse che quel ronzio era nella sua testa della mattina, era quello della mattina, reso più evidente dal silenzio circostante. Alzò il piede per poggiarlo sul primo scalino. Talmente era stato immobile e teso che quasi perse l’equilibrio. Con passi felpati ma nervosi cominciò a procedere, gradino dopo gradino. A un tratto lo scatto violento di una serratura infranse l’atmosfera muta. Poi un altro, un altro ancora. Tutto precipitò nel panico. La porta della locatrice si era ormai aperta, probabilmente lei stava già uscendo. In una frazione di secondo l’adrenalina gli riempì le tempie e lui, preso da una selvaggia frenesia di sopravvivenza, si lanciò a capofitto verso il pianerottolo del proprio appartamento, percorrendo tre scalini alla volta. Ma, nella foga in cui era immerso, Emile non ragionava più. Si lanciò dentro e sferrò un calcio alla porta, chiudendola con un tonfo che riecheggiò per tutto il palazzo. Passò qualche attimo prima di comprendere di aver nettamente peggiorato le cose con tutto quel fracasso. I pesanti passi della vecchia si stavano avvicinando. Emile tremava. Aveva paura, una paura particolare che da sempre gli serpeggiava nelle vene e a cui non aveva mai fatto caso. Probabilmente perché in fondo non era nulla di importante. Il suo cuore freddo e livido come un cadavere, ormai svuotato, che non faceva altro che piangere e piangere morsicandosi le labbra per trattenere le urla, tutta quella morte, quella rabbia non erano nulla di importante. E la sensazione di avere la bocca cucita a carne viva e le dita incollate, di affondare lentamente in un polveroso cataletto di tremori e di angosce, nemmeno quella era importante. Era nel buio, solo nell’oscurità del suo claustrofobico mondo: l’appartamento era senza stufe né termosifoni, le pareti erano bianche, tutte unte e rovinate un po’


ovunque, l’arredamento scarno e scadente, di quello moderno, bianco anch’esso. I passi si facevano più vicini insieme ad un respiro asmatico che si affannava a sollevare le gambe intaccate dall’elefantiasi gradino dopo gradino. La vecchia saliva molto lentamente, prima trascinava entrambe le gambe sullo stesso scalino, poi ricominciava daccapo. Aveva un andamento ritmico, somigliava allo scricchiolare di una vecchia sedia a dondolo. Emile la sentiva vicina, sapeva che da lì a poco sarebbe penetrata nel suo prezioso universo. Intorno a sé una porta chiusa, qualche lampada spenta, qualche altra fulminata, un’unica finestra bloccata da anni, e al di là di essa l’aria aperta. Si era ripromesso che un giorno o l’altro l’avrebbe disincastrata. L’avrebbe aperta, un giorno o l’altro l’avrebbe fatto.



II


I passi si fermarono sul pianerottolo di fronte all’appartamento. Poiché la vecchia aveva un’orrenda malformazione alla mandibola, un aberrante rigonfiamento che non gli permetteva di chiudere la bocca, il suo respiro asmatico, nauseabondo non aveva freni e usciva dalla bocca sdentata in tutta la sua interezza. Emile, raggomitolato nel buio fitto della camera, suppose che la vecchia doveva essere molto vicina all’ingresso. Sentiva infatti il suo fiato ributtante che infradiciava il legno della porta, pian piano lo attraversava fino a trasudare nel lato su cui poggiava la propria schiena. Aveva la sensazione che quell’alito gli sfiorasse il corpo, che con il suo calore malsano gli imputridisse la carne. Un brivido di disgusto gli trapassò la colonna vertebrale e si espanse fino alla nuca, come gelide mani scheletriche che gli raggelarono le tempie. Il fiato catarroso della vecchia, le proprie vesti fruscianti per il tremore che gli attraversava le membra, i battiti del cuore che gli scuotevano la parte di camicia soprastante al cuore, tutto quel maledetto silenzio, insomma, lo irritava in modo insopportabile e contribuiva a far risvegliare nelle sue orecchie quell’odioso, dannato ronzio della mattina passata. Non ce la faceva più, era insopportabile, doveva pur succedere qualcosa! O, per la prima volta, Emile sarebbe stato costretto a fare qualcosa. Due tonfi fecero vibrare la porta e la schiena di Emile che vi era a contatto. Egli era così immerso in sé, nelle sue paure, nelle due deformanti percezioni, che quei tonfi gli sembrarono due boati. Qualcosa era successo, ma era qualcosa di terribile: la vecchia aveva bussato, uno spietato inquisitore avvertiva del suo arrivo. Emile prese la penna che aveva in tasca e, alla cieca, scrisse sulla sua mano: “Fatemi uscire di qui… voglio fuggire dalla prigione… la chiave è qui… nella mia mano…”. Poi cercò di cancellarlo sfregandosi le mani sudate. Chiuse gli occhi e aspettò. Tutto si arrestò. Ogni cosa, ogni sensazione, ogni impulso tratteneva il respiro in attesa. Qualcosa di spaventoso sembrava in procinto di schiantarsi sul corpo tremante di Emile, schiacciato sul pavimento dall’oscurità e dal silenzio.


Una rauca voce lo invocava a sé: -Signor Arsan! -… -Signor Arsan! Che succede? -… -Mi sente signor Arsan? Cos’era quel frastuono? -… -Per piacere risponda, signor Arsan! Non mi faccia preoccupare! Un fruscio arrivò alle orecchie della vecchia. -E’ lì dentro?… Signor Arsan? -… -Ho una lettera per lei da parte di s… Un tonfo sordo risuonò per il corridoio. D’un tratto esplose un profondo silenzio. Ogni cosa era estremamente immobile, silenziosa, snervante. Al piano di sotto l’atrio deserto. La tromba di scale. In alto il finestrone verde marcio. La polvere sospesa nell’aria ferma. Le ombre deformate, proiettate ovunque. L’appartamento buio e stretto. La porta aperta, ancora in lievissimo movimento. Sulla sagoma dell’uscio, in controluce, la forma d’un uomo. Nella sua mano un piccolo oggetto affusolato, una penna che gocciolava incessantemente d’una densa sostanza. Sul pianerottolo un corpo inerme, una vecchia lardosa: Un piccolo foro sul suo collo, all’altezza della gola. Da lì un rivolo rosso scuro disegnava una sottile linea sugli scalini, la quale rotolava giù lentamente, gradino dopo gradino. Nelle proprie orecchie Emile aveva un inferno: quel maledetto ronzio, lievemente discontinuo si era ora amplificato a dismisura. Qual’era la fonte dell’insopportabile fastidio che lo angosciava da quella mattina e che al contempo lo animava da lungo tempo, sei, forse sette anni? Nondimeno Emile era ormai consapevole del fatto che in tutto quel tempo il fastidio era stata la sua unica ragione di vita, l’unica spinta che aveva permesso alla sua individualità di non essere del tutto scarnificata in quegli anni di solitudine. Ne era certo, il fastidio era il solo relitto che gli aveva permesso di non


annegare nel abisso dell’apatia. Il panico cresceva ogni secondo di più. L’attesa di un’idea, di una spiegazione a ciò che aveva fatto era estenuante. Il ronzio era divenuto insoffribile. Gli occhi di Emile furono attraversati da un lampo, un ricordo, un frammento di ciò che era accaduto. Poco prima, per un momento, quel ronzio si era trasformato in qualcosa di diverso, potente, incontenibile: aperta la porta, tanto fulmineamente da creare un leggero vuoto d’aria che sembrò insonorizzare lo spazio circostante, Emile, come l’ombra d’un predatore, si era scagliato sul collo della vecchia, ficcandole la penna nella trachea come un artiglio. In quell’istante il ronzio era esploso in un ruggito bestiale, in un urlo disperato di collera primordiale. Per un attimo il fastidio si era svelato nella sua rabbiosa, iraconda identità. Bastò un momento di coscienza lucida, nel quale Emile guardò con occhi umani la propria animalità, perché la precedente ferocia, con tutta la sua potenza, implodesse su sé stessa. Tale inevitabile momento di riflessione scatenò il panico. Il cuore soffocava, accelerava i palpiti, boccheggiava impotente. Il respiro era ansimante e veloce, non certo per l’affanno fisico, ma a causa di un impulso quasi automatico di sollevare e abbassare più velocemente possibile il diaframma, quasi a cercare in quell’assurdo movimento la soluzione ad un terribile problema che si ingrandiva ogni secondo di più. Il sangue pulsava con forza, martellava fin nelle tempie, rigonfiava le vene fino a farle scoppiare. Le orecchie ne erano così piene, gli occhi così traboccanti che Emile non era più in grado di percepire la realtà circostante. Nel momento in cui ebbe l’istinto di fuggire via da tutta quella sofferenza, di scappare dalla disumanità di cui quel corpo sanguinante era testimonianza, di correr via dalla propria identità, di rifiutarsi in sostanza, allora dentro di sé ricominciò a crescere il ronzio, sempre più forte. Scese le scale quasi ruzzolandovi giù. Si lanciò fuori dal portone e cadde in mezzo a un mucchio d’immondizia. Si rialzò, non badando


ai graffi della caduta che gli insanguinavano le mani, e prese a correre in maniera scomposta, con la sensazione di essere inseguito da qualcosa di terribile. Di tanto in tanto inciampava, cadendo per terra e sporcandosi le vesti. Correva con il solo intento di essere altrove, di allontanarsi dalla sua preda, dall’orrore che aleggiava intorno al cadavere della vecchia. Ma era un altrove che presto Emile comprese impossibile. Pur se il panico non era affatto diminuito, sfinito iniziò a rallentare. Comprese che poteva fuggire per l’eternità e non avrebbe concluso nulla. Niente lo stava inseguendo, lui la tragedia se la portava dentro. L’orrore che lo tormentava non aveva origine nel suo tremendo atto, ma in ciò che lo aveva causato. Il fastidio, attraverso l’assassinio, si era spogliato del suo involucro di normalità, divenendo spasmo anarchico, foga distruttiva. Emile stava per fermarsi del tutto, quando inciampò per l’ennesima volta, finendo sul cemento. -Ehi! Porco diavolo, ti ammazzo se non stai attento!- esclamò il barbone su cui era incespicato. -Scu… scusami. I… io devo andare…de… devo…Emile stava per sollevarsi e andar via, quando un grigio passante vestito di una bella giacca nera, con una valigetta nella mano, senza nemmeno voltarsi, si fermò di fronte a lui e, dopo essersi frugato nella tasca, gli lanciò una moneta. Dapprima avrebbe voluto fermarlo per spiegargli che non era come sembrava, che c’era stato un malinteso, che lui non era un pezzente… non era un disperato… non era… Invece non fece nulla. Prima osservò i propri vestiti laceri, lerci. Poi si voltò verso il mendicante: le sue vesti erano logore e sporche, tutta la maglia unta di grosse macchie rossastre, le mani rovinate con le unghia tutte rotte, malate e deformi, accanto a sé aveva una bottiglia piena a metà di vino, il cui odore era percepibile a diversi metri di distanza. Emile spostò lo sguardo sulla moneta che aveva in mano. Poi la porse al mendicante. Il suo respiro si rilassò, le mani smisero di tremare. Adesso si sentiva a proprio agio; lasciò che il


passante in giacca nera proseguisse il suo cammino indisturbato. Il barbone lo guardò da testa a piedi e, dopo avergli strappato di mano la moneta, disse, quasi imbarazzato: -Allora? Che diavolo guardi? -Dammi… dammi un po’ di vino. Era da molto che Emile non parlava in quel modo, che non comunicava per dire qualcosa, banale che fosse, che gli venisse da dentro. Lo invase una sensazione meravigliosa; in quel momento era una nullità, e si sentiva libero. Nulla di eclatante ad un occhio esterno, ma lì Emile, steso su un marciapiede, sporco e ferito, disperso in labirintiche serie di palazzi, emarginato dalla bella civiltà, con accanto un nessuno disperato, ubriaco e malaticcio, si sentì rinascere, dopo così tanti anni di morte. Iniziò a parlare con assoluta libertà; sapeva che, se non lì, non lo avrebbe più fatto sino alla fine dei suoi giorni. Il mendicante gli passò la bottiglia e chiese: -Ma che ti è successo alle mani? Porco diavolo, pare che hai scannato qualcuno! -No… il sangue è per i graffi. Sono caduto… però… però è vero. -E’ vero? Cosa è vero? -Ho scannato qualcuno. -Come? Hai scannato qualcuno? Mi prendi in giro? No, no! Tu non hai la faccia di uno che scherza… Porco diavolo, non è che hai ancora voglia di ammazzare? -No, non ti preoccupare. Tu dammi altro vino e io non ti ammazzo. -Ah! Ah! Ah! Tieni, tanto ne ho un’altra bottiglia qui. -Grazie. -Ah! Ah! Ah! “Grazie”! Do un po’ di vino a un assassino e lui che fa? Mi dice “grazie”! Porco diavolo! Comunque fa schifo, lo so, ma bevi lo stesso! E’ l’unica cosa che mi lascia vivere ancora, appena non ne avrò più… caput! La faccio finita! Ma adesso bevi! Bevi e senti come tutto sembra meno merdoso! Porco diavolo, bevi! Ché non c’è altro da fare!


-Se ti può consolare, non fa poi così schifo. -Forse il vino no, ma ti assicurò che tutto il resto rimane disgustoso… Puah! Guardati attorno! Guarda tutto quest’ingordigia, guarda come la gente marcisce nei propri averi, come ognuno invecchia nell’immagine che si fa di sé! Avanti, guardati attorno e scegli le alternative, come in quei quiz televisivi che dispongono fratelli e sorelle che si scannerebbero a vicenda a forma di famiglia! Ti ammazzi, bevi o li scanni uno per uno? Qual è la soluzione? -… -Non pensarci troppo, fa male! -… -Ecco, così mi piaci! Non ti preoccupare, verme da ufficio, sono giuste tutte quante! In ordine inverso, ma sono tutte giuste! -Verme da ufficio? -Si vede che non sei un barbone, porco diavolo! Ti guardi attorno come un bambino spaurito! Ti sembro scemo io? Sarò ubriaco, ma non stupido! Allora, che ti è successo, verme da ufficio? Come ci sei finito tra i nessuno, tu? Hai davvero scannato qualcuno? -Si. Ho infilato questa penna nel collo della vecchia che mi affittava l’appartamento. -Cos’è, gli dovevi molti soldi? -No. -Ti stava buttando fuori di casa? -No. -E allora che diamine avevi contro di lei? -Contro di lei nulla. Mi infastidiva. -Uno ti infastidisce e tu l’ammazzi! Devi essere un tipo vivace, eh? -Per nulla. -E non ti dispiace nemmeno un po’? -Si. Ho sbagliato ad ammazzarla. -Ah! Ah! Ah! “Ho sbagliato a scannarla”! Cos’è, hai sbagliato mira? Questa mi mancava, porco diavolo! Ah! Ah! Ah! Bevi, bevi! E perché avresti sbagliato? -E’ stato un errore, non era lei l’origine di tutto.


-Di tutto cosa? -Di tutto il mio fastidio. -Ah, il fastidio… -Tu sai di cosa parlo? -Un tempo lo sentivo anch’io il fastidio, ora non più… ora io… io non sento più nulla… porco diavolo, davvero nulla. Ho fatto la scelta sbagliata… ho reagito alla maniera peggiore, ma ora non posso più far nulla. -Che cosa vuoi dire? Che scelta? -A ognuno le sue! Nulla, verme da ufficio! Fai come se non avessi aperto bocca! Sono un pezzente che puzza d’alcool e sputa fuori idiozie senza senso, è normale! -Non mi sembrano idiozie, spiegati meglio. -Porco diavolo, ma sei curioso! Qui i curiosi muoiono velocemente, quindi smetti di fare domande! E poi sei tu ad essere venuto qui a parlare! Se vuoi puoi continuare, un po’ di compagnia aiuta a non diventare pazzi davvero, basta che non t’impicci della mia vita, porco diavolo! -Se ti può consolare di solito non parlo mai. -Non sembra proprio! -Beh, con te è differente. -Perché? Cos’è, porco diavolo, forse ti piaccio? -Tu sei diverso. -Diverso? -Tu sei un diverso. -Forse… Ma in ogni caso non m’importa! Te lo ho detto, io non sento più nulla! E poi, in fondo, non ho di che lamentarmi, porco diavolo! -Non deve essere una bella cosa non sentire nulla. -Ehi, verme da ufficio, guarda che voi del bel mondo non siete tanto diversi! Se solo non foste tanto ipocriti, tanto presi nei vostri balli in maschera, tanto impegnati nei vostri esecranti sorrisi di circostanza, tanto vigliacchi da vivere imbrogliando prima voi stessi e poi tutti quelli che vi stanno attorno perché “alla fine è meglio


così”, tanto vuoti di umanità da essere morti, corpi o, per meglio dire, involucri senza vita, lo sapreste anche voi che in realtà non sentite più nulla! E’ questo che vi spaventa tanto, porco diavolo! Avete terrore di quel vuoto che non è a misura d’uomo! Della solitudine che è insopportabile, inconcepibile, eppure c’è, esiste… Guardami, porco diavolo! Basta guardarmi, basta scrutare nell’anima di chiunque per sentire il totale isolamento! Fissami negli occhi e leggi cosa c’è scritto: “solo”! Sai che significa essere solo in mezzo a tutto questa marea umana? No che non lo sai, porco diavolo! Ah, se solo ci riusciste, se solo aveste il coraggio di posare l’orecchio sul suolo del mondo e sentire anche solo un millesimo di quello che c’è da sentire, morireste, sbranati dalle vostre colpe!… Ehi, verme da ufficio, cos’è quello sguardo? Stupore? Paura? Sorpresa? -E’ che… parli… parli bene per essere un barbone. -Porco diavolo, non sono mica nato in queste condizioni, sai? Io ho studiato, avevo la mia calda casa, con il mio bel salottino… poi… poi tutto questo, frutto della mia scelta, della mia reazione errata… -Ti manca il tuo salotto? -No! Porco diavolo, no! Assolutamente no! Il mio sbaglio è stato di non farlo saltare in aria, porco diavolo! Ho perso perché al posto di uccidere sono fuggito! Al posto di gridare ho pianto!… In questo ti stimo verme da ufficio, sai? Almeno tu hai gridato, io invece… ma ti ho già detto che non sono fatti tuoi! -Scusa, non volevo risvegliare brutte cose. -Già, i risvegli sono quelli che ti rovinano, non è vero verme da ufficio? Anche tu sei… come mi hai chiamato?… “Diverso”? Si, diverso; anche tu sei diverso. Tu lo senti il fastidio… beh, tutti lo sentono, la differenza è che tu sai di sentirlo. Tu lo hai provato il risveglio, porco diavolo!… Dimmi, come ti è successo? -Cosa? -Avanti, non fare lo stupido! Come hai iniziato a capire? Un uomo mi insegnò che per alcuni arriva un momento maledettissimo in cui per un attimo ci si guarda vivere… da allora tutto è perduto.


Queste cose non cadono dal cielo, avviene sempre qualcosa, pur se piccola, impercettibile, che polverizza in un attimo tutta la tua sudata quotidianità con la potenza distruttiva di un meteorite! Porco diavolo, mi stai ascoltando? -Si… ma non lo so. -Non lo sai? -So solo che tutto è cominciato stamattina, al lavoro… ma non so come. -Ricordare la scintilla ti può aiutare, sforzati, porco diavolo! E bevi, ché questo spinge certe parti del cervello ad andare dove solitamente non va, a sacrificio di certe altre naturalmente… Avanti, bevi! Bevi e parla, verme da ufficio!




III


Emile beveva. Pur se il vino ormai lo nauseava, lo imbottiva dalla testa ai piedi, lo riempiva da vomitare, lo farciva dallo stomaco fino in gola, lui beveva comunque. Beveva poiché un illogico imperativo glielo imponeva con tutta la sua onnipotenza. Il suo corpo, un ponderoso martirio da trascinarsi addosso, cercava di rigurgitare il vino. Ma il solo risultato consisteva nell’enfatizzare la propria goffaggine, in quanto Emile non permetteva al proprio corpo di liberare il proprio impulso. Ad ogni stimolo di vomito si ficcava la bottiglia in gola e mandava giù quattro o cinque sorsi. Nonostante lo stomaco rigonfio del rosso velenifero, Emile continuava ad inoculare insalubri iniezioni senza sosta. Dal ventre i vapori amaranto dell’alcool esalavano lentamente come silenziosi sicari, si issavano con estrema facilità dal collo fino a confluire negli occhi, sui quali le sottili arterie si infiammavano consegnando la vista ad un fastidioso rogo. Le pupille, che si dilatavano similmente a una goccia d’inchiostro spillata su un foglio di carta, erano smarrite, schizzavano da una parte all’altra del cristallino alla ricerca disperata di una forma distinta. A un tratto, stremate dallo sforzo e dall’onnubilamento, le palpebre le avvolsero dolcemente come lievi veli di seta. Gli occhi rimasero semichiusi, lo sguardo estremamente appannato. Il corpo, steso in maniera scomposta sul marciapiede, con la guancia destra aderente al cemento sudicio, diveniva pian piano inconsistente. Un sorso dopo l’altro i duri nodi del ragionamento che si aggrovigliavano nel cranio si scioglievano. La mente si spalancava. I pensieri, come uno stormo di colombe a cui si spalanchi di colpo la porta della gabbia, fuggivano via dall’odiosa cella di ossa e carne in cui marcivano da anni. Dopo quel dolce, amaro disintegrarsi, permase solo un lieve sentore acidulo, una vaga impressione tra un sapore, un tono cromatico e un effluvio. La voce dell’uomo che aveva accanto rimbombava nelle sue orecchie con la profondità di un tuono, isolata da ogni altra percezione aveva l’inflessione di un monito divino. Distorta dai suoi sensi alterati, quella voce rimase l’unico contatto tra Emile


e la realtà. -Bevi! Bevi e parla, verme da ufficio! Il tono veemente lo rendeva il Virgilio cui star dietro nel mezzo di un immane caos. -“Sentinella, che vedi?”… mormorò nella notte oceanica il capitano Shakleton… “Sentinella, che vedi?” sussurrò tra i blocchi di ghiaccio galleggianti… Ah! Ah! Ah! Avanti, porco diavolo! Ricorda, verme da ufficio, vai indietro! E’ facile! Rovescia il tempo! Gioca con questo mondo maledetto! Va’ all’indietro, almeno con la tua mente, che è l’unica cosa su cui ti rimane un po’ del tuo potere di uomo! Come un enorme, ancestrale bambino, rovescia la freccia dell’universo! Ribaltala! Va’ a ritroso! Spaventami! Fammi vedere come inverti la corrente… avanti… apri la bocca… parlami sentinella… bevi e ricorda… bevi… parla… parla… parla… ricorda… ricorda… Mentre la voce si dissolveva, Emile prese a parlare, piano, quasi sussurrando. Le labbra si deformavano appena. Il fiato era così debole da non riuscire a dar voce alle parole. Erano piuttosto brusii incontrollati, non comunicativi. Registravano ciò che Emile sentiva, erano una proiezione meccanica, automatica. La bocca divenne un oblò sulla sua interiorità. Il solo spettatore, nonostante la folla spaventosa che rifluiva sul marciapiede, era il mendicante, l’unico che, affacciandosi da quella finestra, stava ad ascoltare. Tra tutti i rumori che infestavano le sue orecchie e quelle di ciascuna delle ombre erranti per tutta la città, lui aveva scelto quei sussurri così teneramente insignificanti. -…apnea… sono in apnea… sono immerso in un liquido rossastro… frizzante… sopra di me brilla la superficie argentea… salgo… la sua pelle d’argento si avvicina… riluce alla luce lucente… veloce… veloce verso la superficie… è vicina… ci sono quasi… è fatta… infrango la superficie… si frantuma in innumerevoli bollicine… le orecchie si aprono gli occhi sbocciano a nuova vita respiro… respiro… aria… aria fresca… l’aria mi riempie gli alveoli rinasco ancora… i polmoni pieni d’aria… l’aria… aria… aria torrida… afosa… d’un radiatore sotto il viso… il vino è tiepido…


asfissiante… il marciapiede è sudicio… mi atrofizza la faccia… ci avranno pisciato… tanti camminano su questo odore di cemento… odioso… secca le narici… camminano… anch’io… anch’io con i piedi sul marciapiede… i piedi sul cemento… i miei piedi su un marciapiede… insieme ad un lungo serpente una biscia enorme viscido serpente nero… le squame… nere… le sue squame con i cappelli… con le giacche… nere… le valigette nere… mi urtano… la folla oscura… mi travolgono… in fretta… un formicaio sconvolto dal panico… fretta… hanno fretta i rombi mi sfiorano scatole metalliche mi sfiorano veloci rapide una dopo l’altra rapide una dopo l’altra fretta veloci in fretta arrivare correre affrettati… io… sto fermo… mi disprezzano… mi sputerebbero addosso se potessero… se non avessero addosso le giacche… i guinzagli gli riempiono la bocca del buongiorno e arrivederla… mi sputerebbero addosso… non possono… se potessero non lo farebbero… avrebbero paura di essere come me… no è assurdo anche solo pensarlo… non mi possono sputare ma vorrebbero perché non possono stare fermi come me… mi borbottano addosso strisce di frastuono fumo folla… la folla mi urta... le spire della serpe mi stritolano mi stringono è possente mi spinge mi urta ancora una volta ancora mi urtano la spalla destra la sinistra ancora sinistra destra io sto fermo mi disprezzano mi urtano ancora mi costringono spingono strattonano sono già nel mezzo di un flusso umano nella serpe nera a perdita d’occhio è la fine urtano ancora una volta continueranno a farlo mi ammazzeranno così qui non si può stare fermi non si può non puoi non puoi fallo fallo avanti urta spingi urta… è davvero la fine… un passo… urtano ancora… sono straziato… piango grido si spalanca la bocca pompa il collo deflagra esplode e scoppia… nemmeno un suono… nemmeno uno… loro non mi ascoltano… non possono… io non posso parlare… solo… urlo in silenzio… per me… loro urtano irrefrenabili travolgenti già è la mia rovina cammino anch’io mi costringono a camminare devo farlo non posso far null’altro un altro passo un altro ancora camminare passo su passo camminare


con loro nel mezzo della loro morte in mezzo a loro sono al sicuro no non si finisce così finire così è ingiusto vi prego basta sono disperato no… no… umido sul volto… due strisce umide… nere… il volto rigato di due strisce nere… sotto gli occhi il sangue nero… lacrime… lacrime… del sangue sul viso… qualcuno mi aiuti vi prego fermatevi che uno almeno uno si fermi fermatevi ho del sangue negli occhi fermi basta… silenzio… non vale più la pena… si lo so lo fai per me ce l’ hai fatta Emmanuelle ma guarda che cosa meravigliosa hai comprato questo bel vestito per me ti voglio davvero bene vieni qui fatti abbracciare grazie certo certo che sì ti adoro fatti stringere forte così grazie così mi assumeranno di sicuro così potrò avere una vita accettabile se non buona almeno mia se non buona almeno discreta… almeno invisibile… almeno la morte… si riaprono gli occhi inondati… mi urtano… ancora… adesso cammino… cammino con loro… devo andare… il lavoro sempre l’ufficio l’orario puntuale sempre puntuale come sempre in regola come sempre puntuale come sempre come sempre come sempre come sempre come sempre come sempre come sempre la morte basta come sempre basta piango ma cammino basta ma cammino… cammino… cammino in mezzo a loro… il rosso… tutti si bloccano… anch’io… tutti in fila… fermi… un riflesso rosso sul viso … il rosso dell’Acheronte rombante… il rosso sui visi alt… tutti fermi… in attesa… sul viso il rosso… tutti in attesa… io con loro… in attesa… in attesa… attendo… attendo… attendo… ancora attendo sempre come sempre attendo come sempre basta attendo… il colore cambia di colpo… verde sui visi… verde sul viso… sui cappelli neri sulle giacche nere il verde è spento… tutti si muovono… il flusso si agita… una valanga irrefrenabile… tutti passano… passano… innumerevoli gambe… valigette a valanghe… anch’io devo farlo… devo farlo… non posso… qualcuno è fermo… di fronte a me una donna è ferma… ha il verde addosso ma non si muove… io sono dietro… cosa fare… dovrà succedere qualcosa… cosa fare… qualcosa dovrà pur accadere… lei è ferma… non è possibile… ha addosso il verde


che attira… risucchia tira dall’altro lato… il verde per menarci all’altra riva nelle tenebre etterne… eppur non si move… non si muove… lei non si muove… non si muove… deve accadere qualcosa… è una follia… tutti vanno… io devo fare lo stesso… ma lei non va ed io… io non posso andare… è una follia… tutto ciò è una follia cammina ti prego fai un passo non senti come strattonano come spingono e urtano non puoi star ferma tu sei ferma non li senti? devi camminare! devi! devi! devi! devi! cammina! ti ho detto cammina! cammina! devi camminare! maledetta!… non mi senti… non riesco ad urlare… non una parola… lei è immobile… intoccabile… inarrivabile… mi terrorizza… è un dio… un dio oscuro… segreto… un dio biblico… la sua ombra è enorme… mi copre… mi ammanta di un’oscura angoscia… le gambe tremano… la follia si impadronisce della mia coscienza… ti prego… smettila… cammina… ti prego… sto per cedere… cammina… non reggo più… ti supplico cammina… cammina… cosa fai… cosa fai… no… non farlo… non puoi… questo non si può fare… non girarti… non puoi girarti… non puoi andare al contrario… qui non è possibile risalire la corrente… il fiume di pece è pesante… è forte … la corrente di catrame è eccessivamente potente… distruttiva… non si può nulla… eppure lei si gira e per un solo secondo incrocia i miei occhi un misero attimo in un insignificante attimo mi ha infuso tutta la vita che il mondo non mi ha dato un’iniezione di ghiaccio dritto nel mio cuore marcio caldo e putrido in un solo respiro ho respirato il respiro del pianeta intero ho navigato nei mari sconfinati dei suoi occhi vitrei urlando ai venti Vivo! e ancora l’urlo Vivo! Vivo! che echeggia sugli oceani così distruttivo da infrangere ogni muro d’acqua innalzato davanti alla sua folle corsa e ancora l’onnipotente grido Vivo! Vivo! Vivo! capace di infilzarsi in ognuno dei quattro venti distruggerli dall’interno risalire ogni corrente capovolgere il mondo come un enorme ancestrale bambino rovesciare la freccia dell’universo ribaltarla andare a ritroso fino alla sola striscia di terra reduce di un mondo di abissi ormai ad un solo passo manca un piccolo passo solo un


passo per toccare la terra… un misero movimento… la terra… la madre terra… seppellirsi in eterno nel suo caldo grembo di magma… per morire.. solo per morire… infine… per morire… quale miseria… infinita tristezza… manca un passo… manca un solo passo… la gamba si allunga verso il caldo nido che mi invita a sé… addormenta la mia volontà con effluvi carnali… dita sensuali vellutano la pelle di brividi pagani… mi chiama… chiudi il ciclo Emile… divora la tua coda con canini veleniferi… no…le sue palpebre… aspetta no… le sua palpebre si stanno serrando… si serrano no! non devo! non posso l’istante di vita finisce così miseramente non esiste rimedio non c’è nulla in un battito di ciglia ho vissuto no! non ho vissuto non è così in un suo battito di ciglia io spirai è questa l’infinita tristezza l’indegna miseria ché la vita non è quella finzione inganno invitante d’uccidersi serrare la gola asfissiare la propria claustrofobia in una stretta nicchia di solitudine no! no! no! è questo il mio sì alla vita! no! no no… lei… lei ora cammina… va… un’altra direzione… diversa… di traverso alla corrente… fatica… pena… si piega sotto la potenza del flusso… cammina… di traverso… si allontana… piano scivola via… la sua sottile sagoma… piccola… più piccola… un bigio palazzo… in una smorfia d’affanno… la ingoia… serra il tedioso sbadiglio… tutto finisce… alle sue spalle… il portone… si serra… il mondo… si è… fagocitato e… non resta… altro… che… desolazione. Emile esaurì anche la forza necessaria ad aprire le labbra per lasciar sgorgare altre deboli parole sul cemento. La sua mente pregna d’alcol continuò la sua allucinata corsa nei meandri della memoria per qualche secondo ancora. Frustranti incubi tormentavano il suo sopore, scuotevano violentemente la pace della notte, finché il suo sudato viaggio nel mare rosso dell’angoscia si inabissò nel gorgo nero di un profondo sonno. Millenni interi ed evi interminabili si succedettero in tale narcosi. Fino a che, in un qualsiasi momento di quell’eternità, l’abisso oscuro in cui era immerso iniziò a tremare lievemente. Qualcosa di enorme stava salendo dalle profondità su cui galleggiava la


sua anima. Il tremore si accentuava gradualmente fino a divenire un’insopportabile progressione di sussulti e scosse. Le onde d’urto che si susseguivano senza sosta spazzarono via ogni residuo d’immobilità. Come boati scatenati dal cuore furioso della terra, le urla agghiaccianti della creatura che ascendeva ad un’immane velocità verso i suoi piedi lo investirono ripetutamente. Le palpebre si spalancarono sconvolte dalla forza di quei fragori che squarciavano la coscienza. Le pupille sconvolte di terrore puntarono giù, verso il nero abisso. L’orribile creatura si presentò all’appello con tutto il suo biblico furore. Una tentacolare massa di rumori, schianti e bagliori accecanti urlava la sua brutale disperazione. Si dibatteva come una bestia in agonia e schioccava violentemente le sue mostruose appendici di ferro e bitume. Ad ogni schiocco un esplosione di sangue e dolore schizzava via dalla sua massa organica. Emanava un bruciante fetore di ammoniaca. Emile chiuse gli occhi pesti di quel venefico tanfo e subito le fauci del mostro si serrarono sul suo fragile corpo con un frastuono assordante che gli sfondò i timpani. Un clacson. Il suono di un clacson lo fece sobbalzare. Si alzò sulle ginocchia incerte. La vista era densamente annebbiata dall’alcool e dal sonno della notte passata. Con le dita si fregò le palpebre, ma al primo contatto un insopportabile bruciore gli infuocò gli occhi. Non appena la vista glielo permise, osservò le proprie mani. Le vide sudice di quell’inconsistente ma indelebile lerciume nero che è il sangue di ogni metropoli, l’essenza tossica che ne pervade ogni ruga. D’improvviso il suo sguardo venne ferito da un bagliore improvviso. Una seconda, una terza volta, finché Emile fu costretto ad indagare sulla fonte di tale molestia. Alzò gli occhi. Uno sconfinato brulicare di persone lo avvolgeva. “… un lungo serpente una biscia enorme viscido serpente nero le squame… nere… le sue squame con i cappelli… con le giacche… nere… le valigette nere… mi urtano… la folla oscura….”; un frammento di memoria affiorò improvvisamente dall’immenso dimenticatoio della vita onirica. In un secondo bagliore la serpe scomparve. Dopo l’ennesimo


abbaglio un lieve, fastidioso ronzio iniziò a vagare nel cervello di Emile. Le pupille vennero d’istinto calamitate sulla sorgente dell’odioso baleno. A schizzargli addosso quei lampi di luce erano i riflessi del sole che, con la punta della sua lingua sfavillante, percorreva gli spigoli aguzzi di ognuna delle auto che componevano una sterminata schiera di assurde geometrie metalliche. “… di fronte a me una donna… lei è immobile… intoccabile… inarrivabile…”; un frantume di memoria risalì a galla tra i resti errabondi del sonno. Una figura estremamente nitida, oltremodo focalizzata per raffigurare il mero frutto di un delirio. “… per un solo secondo incrocia i miei occhi…”; tra i ricordi che naufragavano nella sua coscienza come un pugno di sabbia nel mare, uno in particolare sfavillò inaspettato. L’iride era ambrato, anche se le sottili ramature verdi che lo coronavano indicavano che probabilmente il colore di quegli occhi era cangiante. Nulla, o comunque poco di ciò che dal regno dell’oblio si presentava alla parte cosciente di Emile era prodotto dalla propria immaginazione. Emile ne stava prendendo coscienza. Una timida ipotesi, l’abbozzo d’un ricordo reale si faceva avanti con le ginocchia tremanti. “… lei ora cammina… di traverso alla corrente…”; l’instabile intuizione precedente, liquefatta in un dedalo di altre innumerevoli possibilità, si rapprese in un solido convincimento – in realtà sgretolabile quanto la certezza più salda, la certezza di esistere, la chiave d’arco su cui si sostengono tutti gli altri mattoni onde evitare di essere inghiottiti dal vuoto sottostante-. La donna era il principio di tutto “… un bigio palazzo… la ingoia… ”


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