Il vagabondo
text .
editing .
luca.mortellaro
ignazio.mortellaro
I
Portando in spalla la sua sacca da viaggio stracolma, il ragazzo uscì timidamente dalla porta della piccola locanda che lo aveva accolto durante la notte. Prima di azzardare i primi passi nel freddo pungente dell’alba montana, stette immobile qualche minuto, osservando il paesaggio circostante. Ancora non vide spuntare il sole caldo. Lo circondava una spettrale luminescenza che si ramificava nelle profondità della fitta nebbia. L’aria era così umida da sembrare purissima; entrava in ogni suo alveolo, gonfiandogli i polmoni di fresca vita. Il ragazzo era circondato dalle cime degli altissimi picchi ghiacciati, in una sorta di limbo senza tempo. Le nuvole erano basse e lui ne sentiva il peso sulla testa e l’umidità, come fosse il loro respiro, sulle labbra. Non aveva intenzione di conoscere né quando né dove le sue gambe lo avrebbero portato, felice di ignorare la lontanissima o inesistente meta dove il suo pellegrinaggio sarebbe finito. Camminava senza nemmeno farci caso. Era incantato dalla danza delle fumose spirali di nebbia che si annodavano, accoppiandosi in tortuose e passionali giravolte, dileguandosi sfuggenti per rinascere poco dopo nell’armonia del divenire. Questa magia si ripeteva infinite volte nella gigantesca nuvola incombente sulla sua testa, la quale, minacciando di piovere, nascondeva le pietrose cime innevate avvolgendole in vaporose coperte di cotone. Cime uniche, sola possibilità di vedere il mondo da un’unica prospettiva. Gelide gocce di pioggia cominciarono a trafiggere le nubi. Anche il vento crescente iniziava a trapassarle, fino a disintegrare la loro impalpabile massa in una miriade di minuscoli, impercettibili filamenti fumosi che portava via con sé, elevandoli in vorticosi voli ad altezze inimmaginabili o lasciando loro sfiorare la terra. A volte le avide estremità dei fili d’erba riuscivano a strappare al vento piccole gocce e le lasciavano scivolare su tutto il loro lungo corpo fino al suolo, dove trovavano la morte. Il ragazzo, tra tuoni frastornanti e spaventosi bagliori, sorrideva. Il volto era tutto bagnato e i freddi capelli disegnavano simboli di primitive tribù sulla fronte e sulle guance. Il vento percorreva
gli stretti labirinti tra le rocce acquistando sempre maggiore rabbia, forza, potenza. La sibilante corrente cercava uno sfogo tra i labirintici crepacci e travolgeva tutto ciò che incontrava. Il volto del ragazzo, frustato dalle correnti d’aria, sorrideva. Il suo minuscolo corpo, invisibile e muto in quel mondo tutto naturale e poco umano, tremava come una foglia secca al vento. Sedeva appoggiato al tronco di un alto abete, aspettando che la montagna si riposasse, stanca di tutto il frastuono che aveva creato. E il tempo passava, insignificante. I suoi occhi ammiravano la magnifica opera della pioggia che aveva creato lucidi quadretti un po’ ovunque. Il ragazzo riusciva a vedere in ogni frammento d’acqua un frammento di sé: un angolo di labbra; una scheggia di gota; l’impercettibile movimento di un dito; per un secondo, lì in fondo, era riuscito a scorgere uno sguardo, due occhi pieni di una vita intera, dentro cui piangevano innumerevoli anime; sguardi incrociati anche solo una volta e legati per sempre alla memoria. Erano gli sguardi di tutti gli amori di un istante, delle passioni solo immaginate e subito distratte dal mondo malvagio, che aveva sempre interposto qualcuno o qualcosa tra lui e i suoi sogni. Appena la furia del cielo si assopì, le gambe cominciarono a guidarlo verso la frontiera. Il sole, graffiandola pian piano, strappò una densa nuvola e un raggio di luce splendente divenne parte di tutto lo spazio circostante. L’aria era pervasa da una calma assoluta, gli angeli avevano appena posato le loro sette trombe e non restava altro che un’incrollabile pace. Un periodico scricchiolio di cuoio veniva fuori dai suoi vecchi stivali passo dopo passo, eppure il ragazzo non ne era infastidito. Quel rumore si confondeva facilmente con il fischiettare degli uccelli che, ancora timidi, azzardavano timorosi voli alla luce del sole. Accompagnato dai cinguettii che attraversavano l’intenso azzurro del cielo luminoso, oltrepassò la frontiera. Non lontano vide un piccolo e silenzioso paese incastonato tra gli enormi pendii verdeggianti, i quali al crepuscolo cominciavano a ingrigirsi. Era molto stanco e scaricò la sacca da viaggio stracolma dalla
spalla scricchiolante. Una fragorosa sorgente lo chiamava alla sua freschezza con il suo lieve gorgogliare. Il ragazzo vi immerse le sue labbra e l’acqua gelida gli attraversò lo sterno dalla gola al caldo stomaco, come un ago di ghiaccio. Con il mento gocciolante si fermò a fissare, con un’aria un po’ smarrita, la sacca poggiata sulla strada. La disperazione d’improvviso impugnò la sua anima. Sul volto gli si disegnò l’espressione di un bimbo che, abbandonato in un immenso parco, non trova la mano materna. Poi di colpo i lineamenti cambiarono ancora, contorcendosi in un malinconico sorriso coronato da uno sguardo compassionevole. Nel silenzio si chiese:– E poi?Caricò in spalla la sua pesante sacca, prese un sospiro per l’ultimo sforzo della giornata e ricominciò a camminare verso il villaggio. La nera mano della notte lo stringeva in una morsa sempre più stretta. Il giovane cominciò a sentirsi spaesato, infastidito dal fatto che non erano visibili nemmeno le stelle, che gli avevano sempre dato la spinta per continuare a camminare anche attraverso le tenebre più fitte. L’unica via d’uscita da quel labirinto di oscurità era una vaga luce emanata dal piccolo paese che il ragazzo fissava senza sosta, continuando a procedere con piccoli, impercettibili passi. Il suo corpo era divenuto troppo pesante da trascinare. Ad ogni passo dondolava maggiormente e la luce oscillava di conseguenza. Il cuore cominciò a bussare forte tra le costole, facendo sentire i propri tonfi nelle vene del collo. Pulsava, spaventato da mille rumori. Accelerava di colpo ad un fruscio tra le fronde o ad un ramo spezzato sotto un piede. Quel cuore piccolo e fragile avrebbe voluto uscire dal petto e scappare via da quelle profonde ombre, volando veloce verso le calde luci del paese. Il freddo vento stava ricominciando a sputargli contro fastidiose gocce di pioggia, quando i contorni di alcuni edifici in legno rossastro cominciarono a tagliare l’oscurità e venne fuori un cartello piegato, visibile solo in parte, con su scritto qualcosa di incomprensibile. No, davvero non riusciva a leggerlo. Nel fare pochi e deboli passi
si ritrovò nella piazza centrale dell’abitato, anche se deserta, certo più rassicurante della desolazione notturna delle montagne circostanti. Un cane, rovistando in un mucchio di pattume, si fermò ad osservare il giovane tremante. I suoi grandi occhi neri, più che umani, erano lucidi e molto sporgenti. Il pelo era tutto bagnato e un movimento epilettico, come un violento brivido, lo scosse, attraversando tutto il dorso fino a scaricarsi in una delle zampe posteriori. Il pelo rimase raggruppato in piccoli umidi ciuffetti. Il muto uomo quadrupede fissò il ragazzo a lungo. Dopo qualche giro di riconoscimento intorno alle sue gambe, gli si avvicinò del tutto. Attraverso le carezze che seguirono si scambiarono del preziosissimo calore che riscaldò entrambi i corpi ancora infreddoliti dal vento, che gelava la pioggia sulla pelle. Era come se due vecchi amici si fossero rincontrati dopo decenni di amara lontananza. Il freddo e il vento non furono più percepiti. I due vagabondi si riconobbero subito.