U n i v e r s i t à d e g l i S t u d i d i Pa lermo // Facoltà di Ingegneria // Corso di Laurea Specialistica in Ingegneria Edile-Architettura // A .A . 2008-2009
Tesi di Laurea
Valorizzazione del s i t o a r c h e o l o g i c o d e l C a s t e l l o d e l l a Fa w a r a e della Peschiera di Mared o l c e c o m e s e d e d e i C e n t r i C u l t u r a l i S t r a n i e r i
Relatore . Ch.mo Prof. Arch. Ing. Giuseppe Pellitteri Correlatore . Ch.mo Prof. Arch. Fausto Provenzano Tesi di Ignazio Mortellaro
Laboratorio di Laurea in Architettura e Composizione Architettonica
A r c h i t e t t u r e p e r l ’ a r e a m e t r o p o l i t a n a d i Pa l e r m o a cura del Prof. Arch. Fausto Provenzano
0. Introduzione
1. Il castello della Favara e la peschiera di Maredolce 1.1
1.2
1.3
1.4
Relazione storica 1.1.1
Analisi storico-artistica
1.1.2
Testimonianze
1.1.3
Stato attuale
La tipologia del castello normanno e del giardino paradiso (genoard) 1.2.1
Cenni sull’architettura arabo normanna in Sicilia
1.2.2
Il castello
1.2.3
Il giardino paradiso
1.2.4
Un itinerario turistico dei sollazzi normanni
La cappella dei SS. Filippo e Giacomo 1.3.1
Descrizione
1.3.2
Note storico-critiche
Il restauro 1.4.1
Analisi storico-artistica emersa dall’indagine per il progetto di restauro della sovrintendenza dei BB.CC.AA. di Palermo
1.4.2 1.5
Elaborati grafici
Iniziative di sensibilizzazione
2. Analisi del contesto 2.1
Considerazioni generali
2.2
Tridimensionalità territoriale
2.3
Infrastrutture e viabilità
2.4
Analisi tipologica
2.5
Analisi socio-economica
2.6
Analisi storico-urbanistica
3. Obiettivi della ricerca 3.1
FinalitĂ e compatibilitĂ 3.1.1
Palermo centro delle culture mediterranee
3.1.2
Valorizzazione del sito archeologico del Castello della Fawara e della Peschiera di Maredolce come sede dei Centri Culturali Stranieri
3.2
3.1.3
La ricostruzione della Peschiera di Maredolce
3.1.4
Il giardino storico
Il senso della ricerca 3.2.1
La lettura del contesto
4. Il progetto dei Centri Culturali Stranieri a Palermo 4.1
Introduzione
4.2
I Centri Culturali Stranieri a Palermo
4.3
Masterplan relativo all’area di studio
4.4
Il progetto dei Centri Culturali Stranieri
5. Bibliografia 5.1
Bibliografia generale
5.2
Bibliografia per la sezione di progetto
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Introduzione
Introduzione
La tesi ha come obiettivo la valorizzazione del sito archeologico del castello della Fawara e della peschiera di Maredolce come sede dei Centri Culturali Stranieri e l’inserimento di questo progetto all’interno di un ampio masterplan relativo alla riqualificazione dell’area di Brancaccio-Maredolce attraverso interventi di microarchitettura e dotazioni infrastrutturali. La scelta del sito di progetto nasce dal sentito interesse da parte della Sovrintendenza ai Beni Culturali e Archeologici di Palermo per un luogo che da troppo tempo ormai risulta succube del moderno abusivismo. L’intenzione della Soprintendenza di Palermo è quello di ricostruire l’antica peschiera di Maredolce e recuperare il castello della Fawara al fine di ricostituire gli elementi caratteristici del giardino paradiso, ”antico sollazzo” arabo. A tal fine ci è stato affidato l’incarico di proporre un progetto che risulti un’occasione per il sito archeologico di Maredolce di rinascere, portando con sè la memoria del suo passato. La scelta dei Centri Culturali Stranieri come tema progettuale nasce dalla volontà di voler ridare alla città di Palermo un’identità di città capitale, come lo era in passato, una città che in ogni tempo ha saputo coniugare il meglio delle altre genti con la propria vocazione di libertà; proprio in questa città anticamente si è dato quell’incontro di civiltà che ha costituito il primo e forse fondamentale passo nella costruzione dell’umanesimo rinascimentale nel quale noi rintracciamo le nostre radici. Il progetto, dunque, coniuga strategicamente le due intenzioni, al fine di presentare una proposta coerente con gli obiettivi prefissati.
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1 Carte de l’Isle et Royaume de Sicile, Guillaume Delisle, Parigi, 1717, incisione su rame, cm 48.2 x 59 2 Siciliae Regni Delineatio Recens, Sipione Basta e Geronimo Castragiovanni, s.l. 1702, incisione su rame, cm 111 x 78
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Il Castello della Fawara e la peschiera di Maredolce
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Il Castello della Fawara e la Peschiera di Maredolce
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1.1 Relazione storica 1.1.1 Analisi storica-artistica
Secondo lo storico Michele Amari (1800-1889)1, il castello della Fawara - così chiamato dall’arabo Al-Fawwarah, sorgente d’acqua gorgogliarne - fu voluto dall’emiro Ga’far (Giafàr) (9971019) come propria dimora sub-urbana e verme eretto intorno all’anno 1000. Questo solatium (“sollazzo”) sarebbe pertanto il più antico degli edifici superstiti sorti a svago dei governatori arabi fuori città, nei siti paesaggisticamente più ridenti e in prossimità di sorgenti e corsi d’acqua. “E’ nostra opinione - scrive l’architetto Silvana Braida2, appassionata studiosa del monumento - che il palazzo della Fawara debba considerarsi la ricostruzione di un edificio preesistente, forse facente parte del Casr Ga’far, al quale accenna Ibn Gubayr (Giubàir vedi oltre) e che Michele Amari riferisce a Ga’far figlio dell’emiro kelbita lusuf “. Le maestranze che lo avrebbero dunque edificato per l’emiro Ga’far lo provvidero di un lago artificiale che lo bagnava da tre lati. Essi utilizzarono le acque delle sorgenti del Monte Grifone, che erano abbondantissime e scorrevano verso il mare. Si scavò un bacino di forma ellittica in cui vennero convogliate le acque, e al centro fu lasciata un’isoletta a forma di Trinacria tuttora esistente. Sappiamo che un canale navigabile collegava il castello e il suo lago con il mare. Qualche studioso ha sostenuto sulla base di notizie non sicure che il lago preesistesse agli arabi e che i romani vi tenessero naumachie, finte battaglie navali a scopo di divertimento. L’autore di questa tesi è G.Compagni3, il quale ha pure congetturato che nello stesso sito c’era un bagno romano, ma di questo non sono state trovate tracce. Il castello della Fawara raggiunse il suo massimo splendore come testimoniano storici e viaggiatori d’età normanna - sotto il re normanno Ruggero II e i suoi immediati successori. Il cronista Romualdo Salernitano4 (1115-1181) - che fu Arcivescovo di Salerno - appoggiò con la sua opera politica ed il suo carisma di alto prelato i normanni, con i quali era peraltro imparentato. Nei suoi “Annali” ci racconta che Ruggero II5 riedificò questo
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palazzo verso il 1150; Io modificò e lo trasformò, aggiungendovi la cappella sormontata dalla cupoletta ed ampliando il lago. Una ricca vegetazione di agrumi dai quali si levavano le palme coronavano di verde l’isola e le adiacenze del castello. Un altro storico, contemporaneo di Romualdo Salernitano, cioè Ugo Falcando6 (seconda metà del secolo XII), che visse alla corte dei re normanni Guglielmo I e Guglielmo II e che ci ha lasciato tra l’altro una splendida descrizione della campagna palermtana, delle sue colture e tecniche avanzate di coltivazione, ci conferma che fu Ruggero II a restaurare e ristrutturare il castello e ad ampliarne il lago, essendo il luogo per il suo verde e le copiosissime acque sorgive di Monte Grifone uno dei più adatti a trascorrervi i giorni torride dell’estate siciliana. Così come era stato per gli emiri, i re normanni, che non erano da meno di quelli quanto a lussi e raffinatezza, si trasferivano nelle residenze estive con tutta la loro corte. Si può dire dei normanni vincitori sugli arabi ciò che è stato detto dei romani vincitori sui greci: che li dominarono, ma furono dominati da quelli con la superiorità della loro cultura e del loro modo di vivere. Il fasto privato dei re normanni di Sicilia – scrive G. Di Stefano7 amò riattaccarsi alle ancor vive e suggestive tradizioni musulmane. E così, agli occhi stupefatti e dubbiosi dei visitatori stranieri e degli stessi oltremontani della corte, essi apparvero simili a sultani cristianizzati. Alti particolari di questo sontuoso stile di vita dei monarchi normanni, improntato al fasto orientale, sono messi in luce dallo storico inglese D.Mack Smith8 nella sua opera storica sulla Sicilia : “Si diceva che Ruggero II avesse un harem, e una parte speciale del palazzo era riservata alle sue donne e agli eunuchi. Ma mentre a Costantinopoli gli eunuchi erano in genere monaci cristiani, quelli di Ruggero erano arabi e musulmani. Un cuoco arabo sovrintendeva alle cucine del palazzo, “lo splendore della sua corte non era semplice vanità o amore del lusso: fu anche una propaganda calcolata al concetto di monarchia
1 Via di Brancaccio e chiesa di San Ciro (foto del 1939) La chiesa, ancora in buono stato di conservazione, è inserita in un ambiente paesaggistico di raccordo tra la città e la campagna, cancellato in seguito dal taglio per la circonvallazione costato il degrado della chiesa campestre e delle arcate del fonte che alimentava il lago di Maredolce 2 Il Qasr al Giafar, Castello di Maredolce, in un’incisione ottocentesca. Collezione R. La Duca
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semidivina. I contemporanei erano giustamente impressionati nel vedere i pavimenti del palazzo rivestiti di tappeti multicolori, i servi vestiti di seta, il cibo servito su piatti d’oro”, I re normanni ricevevano nelle loro ville sub-urbane, come solitamente al Palazzo, personalità politiche, letterati e viaggiatori di passaggio. Ospite della Favara di Ruggero II fu tra gli altri uomini di lettere, il poeta trapanese Abd Ar-Rahmàn (secolo XII), che ci ha lasciato di essa un ricordo in versi “diventato - scrive Francesco Gabrieli9 il simbolo della Sicilia musulmana”. Visitatore della Favara di Guglielmo II fu il già ricordato Ibn Gubair (Giubàir), viaggiatore arabo spagnolo che compì tre viaggi partendo da Granada sua città natale, e tutte e tre le volte fece il santo pellegrinaggio alla Mecca. Passato per la Sicilia in uno di questi suoi viaggi - nel dicembre 1184 - visitò Palermo della quale ammirò stupefatto lo splendore dei giardini. Egli ci ha tramandato sul Qasr Galfar, come egli chiama il castello della Fawara, una breve interessante nota . Dodici anni prima di Ibn Gubayr, esattamente nel 1172, era passato per Palermo Beniamino da Tudela (secolo Xll), altro grande viaggiatore, che ha consegnato al suo “Libro di viaggi” una succinta descrizione del nostro castello. La magnificenza della città con le sue trecento moschee e i suoi splendidi giardini urbani ed extraurbani, all’interno dei quali erano incastonate le dimore estive degli emiri e quelle dei successivi conquistatori normanni, riempivano di meraviglia i visitatori. Gli arabi stessi chiamarono Palermo non solo col suo nome, Balarm, ma anche Al Madinah, città per eccellenza. Al Madinah era infatti il nome della città del profeta Maometto e solo Palermo ebbe questo privilegio e nessun’altra città della cristianità passata sotto il dominio musulmano. Ammiratore di Balarm dalle trecento moschee fu il mercante di Bagdad ‘Ibn Hawqal, che la visitò nel X secolo. Interessantissime, e per noi palermitani motivo di commozione, sono le pagine dei già ricordati ‘Ibn Gubayr e Ugo Falcando. Non si può chiudere questa piccola
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ma illuminante rassegna di testimonianze sulla ‘Palermo arabonormanna senza ricordare la descrizione fattane nel suo “Libro di re Ruggero” dal grande geografo Al Idrisi (Edrfsi), vissuto a lungo alla corte di Ruggero II. Dopo i normanni il castello fu utilizzato con le stesse funzioni dai re svevi e successivamente dagli angioini e dagli aragonesi. Nel 1318 Federico d’Aragona lo concesse ai Teutonici della Magione, e successivamente affidato ai Commendatori della stessa Magione quando l’ordine dei Teutonici ne fu spogliato. Più tardi divenne possesso privato. La famiglia Bologna lo ebbe fino alla fine del secolo XVI, nel secolo successivo, il XVII, appartenne a Francesco Agraz duca di Castelluccio. Comproprietaria del palazzo è stata anche la famiglia Lo Giudice. L’abusivismo edilizio all’interno e fuori di esso, ogni genere di manomissioni, la generale ignoranza, compresa quella delle classi dirigenti , e l’indifferenza per il bene pubblico hanno condotto il castello della Favara ad un punto di degrado estremo. II castello della Fawara ha forma quadrilatera. Esso è costruito con grossi conci di calcarenite per le prime otto file di prospetto e tre sugli altri lati; per il resto sale su conci di piccola e media pezzatura, tipici degli edifici arabo-normanni. II cortile era un tempo munito di portico secondo la tipologia del palazzo orientale. Di questo antico portico rimangono oggi misere tracce negli attacchi delle crociere e in qualche spezzone di peduccio delle stesse. Le condizioni del cortile erano disastrose già cento anni fa, quando Adolf Goldschmìdt10 visitò il monumento e ne fece una succinta descrizione (1895). Allora sul lato sud-ovest del cortile il portico conservava le impronte degli attacchi degli archi e i peducci, e si potevano contare undici crociere, che si estendevano dall’angolo sud fino all’inizio della parte più alta dell’edificio nel lato sud-est. Gli archi del portico, secondo S. Braida, non dovevano poggiare su colonnine ma su pilastrini in conci, perché delle prime non è mai
3 Il Castello di Maredolce (la Favara), incisione, da Zuccagni Orlandini Firenze 1847
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stata trovata traccia nemmeno in passato. Sulla facciata nord-ovest , l’unico prospetto del palazzo che non si specchiava nelle acque del lago, si aprono gli ingressi al cortile e agli altri ambienti rappresentativi che sono collocati su questo versante dell’edificio. La sua severa, cortina muraria è ingentilita da tre rincassi ad arco acuto che incorniciano finestre ora cieche ora aperte distribuite senza ordine simmetrico. Secondo S.Braida11, le due finestre basse a sinistra prima dell’ingresso al cortile sarebbero appartenute ad un locale fatto abbassare dagli architetti normanni per dare luce alla finestra dell’abside della cappella non visibile dall’esterno, ma corrispondente alla sezione in cui le finestre si affacciano. Sul prospetto posteriore (sud-ovest), le ali estreme sono rialzate rispetto alla parte centrale, ed il rialzo continua sulla parte sinistra del fronte nord-est, e ciò farebbe supporre forse l’esistenza di due torri angolari. Sulle verticali di queste supposte torri si trovano i resti di due finestre bifore. Sempre su questo fronte si susseguono due ordini di finestre a feritoie con ghiera ad arco acuto, le quali continuano sul fronte nord- est, dove illuminavano probabilmente le scuderie collocate in quel settore. Una grande apertura sul fronte sud-ovest fece supporre al Goldschmidt che si tratterebbe del varco che portava direttamente al lago attraverso un ponte levatoio. Per realizzare la cappella fu scelta e adattata una sala preesistente, in quanto il suo lato corto guarda verso est e poteva quindi essere destinato al presbiterio e all’abside secondo il tipico orientamento bizantino ( le absidi delle costruzioni bizantino, modelli di quelle arabo-normanne, sono rivolte sempre verso est). Attorno al presbiterio necessariamente angusto si ricavarono il transetto e l’abside, nella quale si apre una finestra. A destra e a sinistra dell’abside due nicchie strette fungono da embrionali absidiole come dice S. Braida, la quale parla “di una situazione di ripiego e di una forzatura per cui l’opera nel suo insieme appare non
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pienamente risolta”. La cappella è ad una sola navata che prende luce da quattro finestre aperte sulla sua parete sinistra corrispondente alla sezione esterna della cappella. Le pareti hanno conci non molto regolari e nemmeno le crociere lo sono: ciò fa supporre l’esistenza di un intonaco scomparso nel tempo. Lo storico Antonino Mongitore12, il quale visitò la cappella nel 1731, vide residui di pitture nell’abside e sulle pareti laterali. Sulla parete di destra il già ricordato Goldschmidt immaginò una porta dove c’è solo una nicchia rettangolare, una specie di armadio a muro destinato alle suppellettili sacre. II pavimento, prima della recente apertura al culto della cappella, si presentava come “un semplice battuto di malta e coccio pesto”, oggi rivestito di piastrelle di “cotto”. La cappella fu dedicata ai santi Giacomo e Filippo ed è ancora intitolata ad essi. II transetto della cappella è dominato in alto da una cupoletta, illumina l’interno tramite quattro finestrelle che si aprono sul suo tamburo, coronato sotto la calotta da una singolare, elefante, piccola comice. Il tamburo della cupola è innestato su una pianta quadrata , che si trasforma in ottagono tramite raccordi angolari a nicchie, e diventa infine cilindro. Come dice S. Braida, “la particolarità del raccordo del passaggio dal quadrato all’ottagono consiste nelle nicchie aggettanti ed è una caratteristica architettonica siciliana”. Comunicante con la cappella, attraverso una porta oggi murata, è una sala delle stesse dimensioni della cappella. Ad essa si accede da fuori per l’ultima grande porta del prospetto. Oggi è impossibile averne un’idea precisa, in quanto un soppalco la divide in due sezioni e nasconde alla vista la elegante nicchia rettangolare con la volta alla “persiana” e comunicante con la cappella attraverso un varco . L’aula regia, “probabilmente - dice S.Braida - dedicata in età normanna a sala delle feste”, è coperta da una volta a botte e a crociera ed ha di notevole all’interno una nicchia rettangolare “con una strana copertura -
4 Veduta prospettica all’entrare del palazzo di delizie della gran peschiera di mare dolce, incisione settecentesca 5 Il Qasr al Giafar, Castello di Maredolce, litografia, 1840 6 Il retro del Castello di Maredolce 7 Interno della Cappella dei SS. Filippo e Giacomo, la cupola 8 Interno della Cappella dei SS. Filippo e Giacomo, l’abside
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scrive M.A.Spadaro13 -a volta a padiglione plissettata”. Secondo S. Braida, la sala regia potrebbe essere stata nel periodo arabo “la moschea privata dell’emiro”. Questa ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che durante alcuni scavi eseguiti nel 1951 per la sistemazione dei collettori della fognatura, lungo un asse distante qualche metro dal lato nord del castello, vennero alla luce resti umani presso i quali si trovarono frammenti di stoviglie in argilla, di fattura tipicamente araba. Per quello che ne sappiamo, queste erano le abitudini di sepoltura dei “muezin” e dei precettori islamici che venivano sotterrati presso la moschea. Sul capo o vicino al cadavere veniva posto un recipiente che dall’esterno attraverso un foro era riempito di viveri dai parenti e dai devoti. Dei vani che correvano e corrono lungo il cortile c’è ben poco da dire, in quanto alcuni sono distrutti, altri riadattati a nuove abitazioni. All’esterno è ancora chiaramente visibile il tracciato del bacino artificiale con i muri di contenimento, e al suo interno quelli dell’isoletta, gli uni e gli altri coperti ancora da tracce, considerevoli di intonaco idraulico rosso. Sul lato est del muro di contenimento si trovano gli imbocchi di due grossi condotti. All’interno del castello c’erano dei bagni, ma di essi non rimane traccia in quanto distrutti dalle nuove fabbriche fondate sui loro resti. Ad uno sguardo d’insieme non sfugge l’austerità del monumento rispetto alle altre costruzioni ruggeriane. Questa austerità, scrive giustamente S.Braida “pur non disgiunta da una certa maestà, viene ancor più messa in evidenza dalla parsimonia degli elementi decorativi. Nessuna cornice corona il palazzo, il cui limitato sviluppo verticale, dona alla Favara uno spirito orientale ben lontano dalle costruzioni della Torre Pisana e dello stesso palazzo regio di Monreale, per non parlare dei palazzi più tardi della Zisa e Cuba. E’ da chiedersi se questo sollazzo, tra i più decantati, dove Ruggero soleva trascorrere i mesi invernali abbia potuto essere così sobrio di decorazioni.
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Le murature interne sono nella lavorazione dei conci molto sommarie, rispetto al paramento murario esterno, onde potrebbe avanzarsi l’ipotesi di un loro rivestimento a stucco o a mosaico. Non sarebbe stata la prima volta che si spogliava un castello a vantaggio di qualche palazzo palermitano o di qualche chiesa. Ci piace chiudere questa scheda sul castello della Favara con le parole toccanti dell’architetto S. Braida, che facciamo nostre, in quanto bene interpretano i nostri stessi sentimenti. “Il problema oggi si pone urgente: bisogna salvare questo pregevole monumento. Molto si è scritto e molto si scriverà ancora sullo stato di abbandono dei vecchi castelli siciliani, prima di arginare la rovina di questi edifici”. L’opera di restauro in alcuni casi come in questo della Favara è costosa, e purtroppo ciò crea un impedimento gravoso, oltre alle lungaggini burocratiche. Oggi solo la cappelletta si salva dall’assalto delle costruzioni abusive che si sono annidate nel vasto cortile, sfigurandolo quasi irreparabilmente. L’opera di recupero di questa parte del castello sarà la più laboriosa e ardua. Lo spazio antistante ad esso,, che è segnato nel piano Regolatore con il simbolo del verde, pubblico, oggi è ricoperto da costruzioni, catapecchie e recinti per il discarico delle immondizie. Nononstante questo, buona parte dell’edificio è ancora circondato da agrumeti e mantiene integra quella sua lontana atmosfera fiabesca. Quindi uno tra i più urgenti provvedimenti da prendere è il ripristino del verde davanti al castello, che fino a vent’anni fa esisteva ancora, come testimoniano le antiche fotografie. Inutile qui tornare a ripetere, quanto abbiano già precedentemente detto e cioè quali siano i criteri per rivivificare un monumento e come inserirlo nel contesto urbano, dandogli la possibilità di riacquistare il suo vero aspetto, attraverso il quale l’opera non diviene solamente un documento, ma è soprattutto l’espressione spirituale di un mondo. Ed è per questo che essa assume importanza e significato”.
9 Pianta generale della Peschiera di mar dolce luogo circa un miglio e mezzo distante dalla città di Palermo incisione ottocentesca 10 Pianta topografica dell’antica Naumachia esistente fuori le mura della città di Palermo vicino la chiesa dedicata a S. Ciro oggi Maredolce incisione ottocentesca
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Note 1 M.Amari, Biblioteca arabo-sicula, Torino Roma, ed.E.Loeccher, 1989. 2 S.Braida, Il castello di Fawara. Studi di restauro sta in “Incontri e iniziative”. Memorie del centro di cultura di Cefalù. N° V-2-1988 (1992). 3 Cesare de Seta, Le città nella storia d’Italia, La Terza, p.25 4 Giovanni Compagni, Sulla Naumachia e Palazzo Maredolce sta in “Giornale di scienze, Lettere ed Arti per la Sicilia” n°190 5 R.Salernitano, Annales, Romualdo incoronò re Guglielmo II a Palermo nel 1166. 6 U.Falcando, Epistola ad Petrum Panormitane ecclesie thesaurium de calamitate Sicilie,1189; sta in : R. La Duca, “Palermo ieri e oggi”, “Il territorio e i quartieri”, Sigma ed.,Palermo,1992. 7 Guido Di Stefano, Monumenti della Sicilia Normanna, Palermo,1995. 8 Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, Bari, 1990. 9 F.Gabrieli, La letteratura araba, Sansoni,Milano, 1967. 10 A. Goldschmidt, Die Favara des Koenigs Roger von Sizilien, 1895. ecc; sta in : S. Braida, op.cit. 11 S. Braida, op.cit. 12 A. Mongitore, Sicilia ricercata, e Chiese distrutte, sta in : N. A. Spadaro, Palermo, Storia e arte, Leopardi, Palermo,1990. 13 La tomba non veniva segnata che da piccole bandierine, o da altri oggetti facilmente asportabili. Volendo ritenere come resti di un musulma-no le ossa ritrovate, non può presumersi che esse possano appartenere all’epoca di Ruggero, che, per quanto tollerante nelle questioni religiose, non avrebbe permesso il seppellimento di cadaveri presso il suo palazzo. S.Braida op.cit.
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1.1.2 Testimonianze
La descrizione tecnica del Castello La pianta del Castello è di tipo rettangolare con cortile interno; sul fronte nord-est la linearità dell’andamento si spezza con una rientranza. Non esiste più il porticato, ma sono rimaste tracce delle imposte delle volte negli angoli sud-ovest e sudest. Sul fronte principale, prospettante sul vie. Castellaccio si aprono quattro ingressi: il primo è della così detta “aula regia”, il secondo è della cappella, il terzo immette nel cortile, il quarto è tompagnato. Connessa con “l’aula regia” voltata a crocera e con volta a botte, sull’ala sud-ovest si aprono le stanze più importanti del manufatto. Infatti all’estremità di questa ala, sono ubicate due grandi sale la cui altezza occupa le due elevazioni “del castello, come pure la cappella e “l’aula regia”. Lungo l’ala sud-est a piano terra e prima elevazione, si aprono una serie di ambienti voltati a crocera, di pianta quadrata, di cui quattro presentano la copertura originaria extra dosata, in parte occultata da antiche e nuove superfetazioni. L’ala nord-est era forse destinata ai servizi: stalle e magazzini. Di questa parte rimane originale il paramento murario esterno, mentre le restanti parti sono state ricostruite disordinatamente. Degli ambienti interni del Castello, sono rimarchevoli oltre le consuete volte a botte e a crocera, la cupola della cappella e nell’ “aula regia” una nicchia rettangolare coperta da una volta pieghettata, i cui singoli elementi, probabilmente a stucco, sono di sezione triangolare. Le fronti del Castello esprimono in sintesi l’amalgama di una visione compatta di elementi morfologici presi dalle tre tradizioni: bizantina, araba e normanna. Tutta la costruzione poggia su un basamento di grossi conci di dimensione pressocchè costante, distribuiti in otto filari sul fronte nord-ovest e in tre sugli altri. La rimanente parte della costruzione è eseguita con i tipici conci di media pezzatura, posti in opera con andamento pseudo-isodomo. Questa macroscopica differenza del taglio del materiale da costruzione del paramento murario esterno, ha comportato
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varie supposizioni. Il ritmo architettonico del Castello su vie. Castellaccio (fronte nord-ovest) è segnato dalla severità delle arcate cieche. In particolare queste scandiscono lo spazio della Cappella, e segnano in modo più diradato il resto della facciata, sono poco rilevate, e l’armoniosa sconnessura con i vuoti delle finestre contribuisce a chiaroscurare in modo calligrafico tutto il paramento murario. Il fronte sud-ovest, presenta all’inizio e al termine due finestre bifore (oggi tompagnate) che dovevano avere una colonnina. La parte centrale di questo fronte è più bassa e lungo questo settore, si aprono delle modeste monofore dalla semplice ghiera. Il disegno originale di questo fronte era con le due zone estreme più alte, quasi a torre, e la parte centrale più bassa. Da una vecchia fotografia del 1896, si possono ancora scorgere i resti della merlatura di coronamento. Sulla fronte sudovest, si nota alla sinistra di chi guarda, una grande apertura, che fa supporre la presenza di un ponte levatoio che immetteva direttamente dal Castello al lago. Accanto a questa porta (tompagnata) si susseguono due ordini di finestre a feritoia, con ghiera ad arco a sesto acuto nell’ordine superiore, a piattabanda nell’ordine inferiore. Il lato nord-est, accentua la severità della veste architettonica del Castello, anch’esso presenta semplici finestre ogivali come negli altri fronti, e verso la zona più a nord, queste diventano vere feritoie. Sia dalla morfologia iconografica che dall’andamento architettonico, si può arguire che questo era il fronte dei servizi comprese le scuderie. Tratto da: Scheda ANISA redatta da S. Braida, 1985.
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Il castello di Brancaccio. Piano della sovrintendenza che ha già restaurato parte della struttura Maredolce, così può rinascere il lago. Non è impresa facile, e questo si sa. Ma il progetto per far riemergere il lago del castello di Maredolce, oggi circondato dai palazzoni di Brancaccio, è di quelli che affascinano. Ci credono le scuole che di anno in anno adottano il monumento, ci credono le associazioni di tutela del patrimonio naturale e artistico che ogni ano dedicano al progetto iniziative, conferenze, solleciti, ci crede la Sovrintendenza che ha tirato fuori dal degrado parte del castello e adesso cerca tra mille difficoltà di portare avanti il più ambizioso progetto di svuotare il lago dalle tonnellate di terriccio che lo riempiono e di riconfigurare l’antico sito. Ora l’appello arriva da Vincenzo Scuderi, ex sovrintendente oggi impegnato nell’associazione Salvare Palermo. Un appello affinché si portino a termine gli espropri edilizi e agricoli necessari a realizzare il parco, si realizzi la progettazione analitica e completa dell’intero intervento e soprattutto si individuino le somme necessarie a riprendere i restauri. “la situazione – dice Scuderi – è tutt’altro che consona a quelle procedure accelerate per mille ragioni, culturali, turistiche, sociali vorremmo vedere in atto per il pieno recupero di un monumento così importante come Maredolce”. costruito con ogni probabilità da Giafar II, tra il 998 e il 1024 dopo Cristo, era un sollazzo adagiato su un lago gigantesco ( da qui Maredolce, cioè non salato) che successivamente fu riempito e trasformato in agrumeto. Il progetto di recupero prevede proprio lo svuotamento del bacino e il recupero del lago, che dovrebbe essere alimentato con l’acqua reflua che viene fuori dal depuratore di Acqua dei corsari. Un piano che prevede pure la demolizione dei brutti palazzoni su via Conte Federico ( nuovi alloggi dovrebbero essere costruiti in zone vicine che appartengono alle Ferrovie e all’Ast) e che la Sovrintendenza sta perseguendo. Da qui la necessità degli espropri e degli ac-
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cordi con altri enti. Un progetto che però, va avanti a passo di lumaca. In ballo, adesso, c’è n accordo tra la Sovrintendenza e l’assessorato regionale alle Foreste per la gestione e l’eventuale apertura al pubblico della vegetazione. Aspettando il lago. a cura di: L. AN. Dal Giornale di Sicilia Martedì 13 Aprile 2004 Anno 144 N.102
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Il lago di Maredolce nei racconti del viaggiatore Ibn Hawqal “...scaturiscono intorno a Palermo acque abbondanti con forza da volgere ciascuna due macine: onde son piantati parecchi mulini su què rivi. Dalla sorgente allo sbocco in mare son essi fiancheggiati di vasti terreni paludosi, i quali dove producono canna persiana, dove fanno degli stagni, dove buone aje di zucche. Quivi stendesi anco una fonduta tutta coperta di berbir (papiro), ch’è proprio la pianta di cui si fabbricano i tumar (fogli per scrivere). Io non so che il papiro d’Egitto abbia sulla faccia della terra altro compagno che questo di Sicilia. Il quale la più parte è attorno in cordame per le navi, e un pochino si adopera a far fogli al Sultano...” Descrizione fornita da Ibn Hawqal geografo di Bagdad che aveva visitato Palermo nel x sec. d.C.
La pesca nel lago di Maredolce “...ivi era una palude con certe erbe, che produceva questa palude, a guisa di canne larghe che facevano attorno alla palude e dentro in alcune isole un folto bosco. Aveva que st’erba in cima come una cappelliera di donna ma verde e lunga. Produceva questa palude una gran quantità di anguil le di bonissimo gusto. Mi ricordo, essendo io figliuolo, che mio padre vi andò appresso con alcuni cavalieri suoi amici, e facendosi buttare nel lago certa erba chiamata rizzitello, vennero a galla stordite tante anguille, che ne prese egli più di due cantara (158 kg.), prendendone altri sassi più quan tità. Vi si faceva anco caccia di uccelli d’acqua silvatici con le scopette. Ma genera cattivissima aria nella città...” Tratto da: Palermo Restaurato, Vincenzo Di Giovanni, sec. XVI
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La leggenda di Maredolce C’erano una volta... tanti e tanti anni fa .... degli esseri giganteschi che vivevano alle pendici del monte Grifone. La sorgente che scaturiva da una grotta, scendeva a formare un piccolo mare (Maredolce). Il terreno era rigoglioso, senza che nessuno lo arasse o seminasse: alberi ed erbe crescevano di ogni tipo. Pecore e capre pascolavano senza timore che qualcuno le cacciasse. Ampie grotte offrivano riparo per la notte durante le bufere agli abitatori di quella zona. Al levar del sole i giganti uscivano dalle loro spelonche portando al pascolo le greggi. Attraverso i prati verdeggianti, seguendo il corso del fiume, scendevano giù giù verso il mare per poi far ritorno al tramonto. E così ogni giorno per anni, anni, anni... La credenza dell’esistenza dei giganti a Maredolce fu viva per secoli e secoli. Essa era nota in seguito alia scoperta fatta da un operàio il quale, mentre scavava, “si abbattè nelle ossa di un corpo umano che era grande circa 18 cubiti e l’ossa erano sparse qua e là. E si diffuse perciò la notizia che Maredolce era stata abitazione di giganti. In seguito vi furono altri ritrovamenti a Maredolce: “due mascellari, ossa gigantesche e, vicino la contrada di S. Maria di Gesù, pezzoni di ossa impietrate nella terra, un gran cerchio di coppe di capo umano e un mascellone con quattro denti. Ci si accorse che i resti si trovavano anche lungo tutta la pianura. Verso i primi dell’ 800 le fantasie sui giganti erano state un po’ dimenticate, allorquando un contadino, alla ricerca di un tesoro, portò alla luce nuovi resti di ossa fossili, così si ripresero le ricerche. Le osse venivano usate per fabbricare pomi di bastoni, collanine, pendenti, scatolette. Soltanto verso la metà dell’800 si fece strada l’opinione che queste ossa appartenessero a grandi animali come ippopotami, mammuth ed altri, in un secondo tempo si aggiunse il cervo gigante, il bue primitivo, l’elosmoterio (un animale simile al tapiro), in tempi successivi si disse che si trattava di elefanti. Calava così
1 Pianta del Castello di Maredolce 2.3 Viste del Castello da vicolo Castellaccio 4 Vista del fronte principale dall’ingresso del deposito abusivo 5 Vista del fronte principale dove è evidente la superfetazione a piano terra 6 Scorcio del fronte principale con l’ngresso al parco 7 Scorcio del fronte principale con il portale d’ingresso della Cappella dei SS. Filippo e Giacomo 8 Dettaglio del paramento esterno del Castello
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definitivamente il siparo su una questione che per secoli aveva fatto sì che la gente favoleggiasse di “giganti alti e immensi come alberi di nave da cui la nostra razza discendeva”. Tratto da: “Quasimodo adotta un monumento”, Palermo 1996.
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Polifemo non abita più qui Nell’immaginario collettivo di molti palermitani, i ciclopi della tribù di Polifemo o almeno certi giganti della stazza dell’omerico pastore furono a lungo tra i primi abitanti dell’Isola. E in assenza di credibili paleontologi la favolosa ipotesi ebbe conforto, per quanto riguarda il territorio del Capoluogo, dal rinvenimento di cospicue stratificazioni di grandi ossa e di incredibili parti di scheletri rinvenuti da sempre nelle grotte e alle falde dei nostri monti Grifone, Cuccio e Billiemi. Reperti molto belli per le colorazioni dovute ai secolari contatti con gli elementi chimici della terra che li ricopriva. Accadde così che dalle ossa dei presunti giganti si ricavarono al tornio soprammobili, utensili dell’uso quotidiano, molti giocattoli a basso costo e perfino i manici di bastone per gli elegantoni di tutto il nostro Settecento. Finché la polizia borbonica non intervenne a contrastare l’uso improprio dei reperti ritenendoli degni di più attenti esami da effettuare nel museo di storia naturale dell’Università. E finchè, nel 1830, Antonino Bivona Bernardi non scrisse autorevolmente sul Giornale Officiale di Palermo che le grandi ossa erano di sicuro fossili appartenenti in gran parte a ippopotami ed elefanti. A quel punto non mancò chi parlò del ritrovamento dei resti di elefanti cartaginesi impiegati militarmente nell’Isola o di ippopotami morti nelle naumachie che si sarebbero svolte nel lago artificiale e regio sollazzo di Maredolce, nella contrada dove ora sorge Brancaccio. Ciò perché i giacimenti più abbondanti di tali insolite ossa furono trovati proprio alle falde del monte Grifone e dentro una grotta ingiustamente ora trascurata, profonda trenta metri, alle spalle della fatiscente chiesa di San Ciro. All’inizio dell’autostrada per Messina. A poche decine di metri dal punto in cui da tre superstiti archi in mattoni rossi, forse d’origine romana, sgorgavano le sorgenti con le quali emiri e re normanni crearono il pescoso bacino che dall’incombente monte Grifone arrivava al Castello ora seminascosto da una platea di baracche.
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La favola dei nostri giganti della montagna fu definitivamente privata di ogni fondamento dall’abate Domenico Scinà al quale nel 1831 la Reale Tipografia di Guerra pubblicò un “Rapporto sulle Ossa Fossili di Mardolce e degli altri contorni di Palermo”. Assai apprezzato dai moderni studiosi di storia naturale che al religioso accreditarono anche il ritrovamento e la descrizione molto accurata di corna e denti di cervi e di altri animali nordici. Oltre che dei resti di orsi giganteschi, lupi, maiali selvatici e iene. Ciò che dimostra come la Sicilia fu per millenni al centro delle migrazioni di animali che si spostavano verso l’Africa o verso il continente europeo passando proprio dalle nostre parti. Peraltro gli scavi condotti fino a qualche decennio fa tra Ciaculli e Maredolce hanno confermato in pieno le deduzioni dello Scinà. Mentre non possiamo chiudere queste note senza ricordare che grossi quantitativi di quelle preziose ossa sono andati dispersi addirittura dalle parti di Marsiglia. Per via d’una incredibile truffa locale del 1830. Quando non tardarono ad essere individuati alcuni esportatori di ossa d’animali macellati – resti che in Francia servivano, non sappiamo come, per la preparazione dello zucchero - i quali ritennero di potere impunemente e con vantaggio appesantire i carichi dei loro velieri. Proprio con i resti fossili degli ippopotami e dei buoi giganteschi cui non fu concesso di riposare definitivamente tra i futuri agrumeti di Brancaccio, preistoria a loro volta del sacco edilizio di Palermo e cari non soltanto a Goethe. a cura di: Lucio Forte
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Palermo nel 972-973 descritta da Ibn Hawqal Della Sicilia. Isola è questa lunga sette giornate[di cammino, larga quattro giornate; montuosa, irta di rocche e di castella, abitata e coltivata per ogni luogo. Essa non ha altra città famosa e popolosa che quella che addimandano Palermo, ed è capitale dell’isola. Sta proprio sulla spiaggia nella costiera settentrionale. Palermo si compone di cinque quartieri, non molto lontani l’uri dall’altro, ma sì Ben circoscritti che i loro limiti “appariscono chiaramente. Il primo è la città grande, propriamente detta Palermo, cinta d’un muro di pietra alto e difendevole, abitata da’ mercatanti. Quivi la moschea «gami» che fu un tempo chiesa dei Rum; nella quale si vede un gran santuario. Ho teso dire da un certo logico che il filosofo de’ Greci antichi, ossia Aristotile, giaccia entro una cassa di legno sospesa in cotesto santuario, che i Musulmani hanno mutato in moschea. I Cristiani onoravano assai la tomba di questo filosofo e soleano implorare da lui la pioggia, prestando fede alle tradizioni lasciate dà Greci antichi intorno i suoi grandi pregi e le virtù [del suo intelletto]. Raccontava il logico, che questa cassa era stata sospesa lì a mezz’aria, perché la gente ricorressevi a pregare per la pioggia, o per la pubblica salute e per la liberazione di tutte quelle calamità che spingon l’uomo a “volgersi a Dio e propiziarlo; come accade nei tempi di carestia, morìa o guerra civile. Per vero io vidi lassù una cassa grande di legno, e forse racchiudea l’avello. L’ altra cit.tà che ha nome Al Hàlisah (L’eletta) cingesi anch’essa d’un muro di pietra, ma non tale che s’agguagli al primo [da noi descritto]. Soggiorna nella Hàlisah il Sultano co’suoi seguaci: quivi non mercati, non fondachi; v’ha due. bagni; una moschea gami, piccola, ma frequentata; la prigion del Sultano; l’arsenale (di marina) e il diwan. Ha quattro porte a mezzogiorno, tramontana e ponente:a levante un muro senza porte. Il quartiere detto Harat ‘as Saquàlibah (il Quartiere degli Schiavoni) è più ragguardevole e popoloso che le due città anzidette. In esso il porto; in esso
9 Scorcio del Castello dal viale di accesso al parco di Maredolce 10 Apertura monofora sul parco
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parecchie fonti, le acque delle quali scorrono tra questo quartiere e là citta”vecchia: tra l’uno e l’altra il limite non è segnato se non che dalle acque. Il quartiere che s’appella Harat ‘al Ma-sgid (il Quartier della moschea) di quella, dico, d’ ‘Ibn Siqlàb, è spazioso anch’esso; ma difetta d’acque vive, onde gli abitatori bevon de’ pozzi. [Scorre] a mezzogiorno del paese un grande e grosso fiume che s’appella Wadi ‘Abbàs, sul quale son piantati di molti mulini; ma [l’acqua di esso] non si adopera all’ irrigazione degli orti, né dei giardini. Grosso è ‘Al Harat ‘al gadìdah (il Quartiere nuovo) il quale s’avvicina al Quartier della moschea, senza separazione, né intervallo: né anche ha mura come il quartiere degli Schiavoni. La più parte de’ mercati giace tra la moschea di ‘Ibn Siqlàb e questo Quartier nuovo: per esempio, il mercato degli oliandoli, che racchiude tutte le botteghe de’ venditori’ di tal derrata. I cambiatori e i droghieri soggiornano anch’essi fuor le mura della città; e similmente i sarti, gli armaiuoli, i calderai, i venditori di grano e tutte quante le altre arti. Ma i macellai tengono dentro la città meglio che cencinquanta botteghe da vender carne; e qui [tra i due quartieri testé nominati] non ve n’ha che poche altre. Questo [grande numero di botteghe] mostra la importanza del traffico suddetto e il grande numero di coloro che lo esercitano. Il che puossi argomentare parimenti dalla vastità della loro moschea; nella quale, un di’ ch’era zeppa di gente, io contai, così in aria, più di settemila persone; poiché v’erano schierate per la preghiera più di trentasei file, ciascuna delle quali non passava il numero di dugento persone. Le moschee della città della Hàlisah e de’ quartieri che giacciono intorno la [città] fuor le mura, passano il numero di trecento: la più parte fornite d’ogni cosa, con tetti, mura e porte. Le persone ben informate del paese dan tutte a un modo così fatto ragguaglio e concordano nel numero [delle moschee]. Fuor la città, nello spazio che le s’attacca e la circonda le torri e i giardini, sono dei mahall, che seguonsi l’un l’altro assai da vicino; e da una parte
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[muovendo] da’ pressi del luogo chiamato ‘Al Mu’askar (le stanze de’ soldati), il quale giace nel bel mezzo dell’abitato, si volgono al fiume che s’appella Wàdì ‘Abbàs e vanno a sparpagliarsi su le sue sponde; [da un’altra parte], seguitando l’uno all’altro, arrivano fino al luogo detto ‘Al Bayda (Baida anch’oggi) sopra un’altura che sta ad una parasanga all’incirca dalla città. Cotesti [borghi] furono già desolati, e gli abitatori di essi perirono nelle guerre civili che afflissero il paese, com’è qui noto a’ chiunque. Per tutti concordemente attestano la importanza[ch’ebbero] i detti borghi e chele loro moschee passavano il numero di dugento. [In vero] io non ho visto tanto numero di moschee in nessuna delle maggiori città, foss’anco grande al doppio [di Palermo], né l’ho sentito raccontare se non che da quei di Cordova [per la loro patria]; per la quale città io non ho verificato il fatto, anzi l’ho riferito a suo luogo non senza dubbio. Lo posso affermare bensì per Palermo, perché ho veduta con gli occhi miei la più parte di esse [moschee]. Stando un giorno presso la casa di ‘Abù Muhammad ‘al Qafsì, giureconsulto [specialmente versato] nella materia de’ contratti, e messomi a guardia dalla costui moschea, per quanto si stendea la vista nel tratto che percorre una saetta, io notai una diecina di moschee, che talvolta l’una stava di faccia all’altra e correavi di mezzo la [sola] strada. Avendo chiesto [il motivo] di questo [numero strabocchevole], mi fu detto che qui la gente è sì gonfia di superbia, che ognuno vuole una moschea sua propria, nella quale non entri che la sua famiglia e la sua clientela. Accade qui che due fratelli, abitando case contigue, anzi addossate ad un muro [comune, pur] si faccia ciascun di loro la sua moschea, per adagiarvisi egli solo. Una delle dieci, delle quali testé ho fatta menzione, apparteneva al medesimo ‘Abù Muhammad ‘al Qafsì: ed eccoti da canto, ad una ventina di passi, un’altra moschea ch’egli avea fabbricata, perché il proprio figliuolo vi desse lezioni di giurisprudenza. In somma ognuno
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11 Il viale di accesso al parco di Maredolce 12 L’abside della Cappella dei SS. Filippo e Giacomo 13 Il fronte del Castello rivolto al parco di Maredolce
vuoi che si dica: questa è la moschea del tale e di nissun altro. Questo figliuolo di ‘Abu Muhammad si sentiva gran cosa: tra ch’egli aveva del suo tanti fumi in capo e ch’era il cucco del babbo, egli andava sì gonfio e con viso contenuto di sé medesimo, come s’egli fosse stato il padre del proprio padre [e non figlio di famiglia]. Giaccion su la spiaggia del mare molti ribàt pieni di sgherri, uomini di mal affare, gente da sedizioni, vecchi e giovani, ribaldi di tante favelle, i quali si son fatto in fronte la callosità delle prosternazioni per piantarsi lì a chiappare la limosina e sparlar delle donne oneste. La più parte son mezzani di lordure o rotti a vizio infame. Riparan costoro teneva ad uno del Banù ai Aglab. Essa e vicina al villaggio di Balharà, ricco di giardini, vigneti e di polle e rivi che vanno a ingrossare il Wàdì ‘Abbàs. Oltre a quelle scaturiscono intorno a Palermo altre fontane rinomate, le quali recano utilità al paese; come sarebbe il Qàdùs, e, la campagna meridionale, la Fawràh piccolaa e la_ grande; la quale sgorga dal naso della montagna, ed è la più grossa sorgente dell’ agro palermitano. Servon tutte queste acque a innaffiare i giardini. ‘ÀI Baydà ha anche essa una bella fonte chiamata con lo stesso suo nome e vicina al Garbal ed alla Garbìah (La Occidentale). Gli abitanti del luogo detto Burg ‘al battàl (La Torre del valoroso) bevon della polla conosciuta sotto il nome di ‘Ayn abì Malik. L’irrigazione de’ giardini si fa più comunemente per mezzo di canali; ché molti giardini v’ha, oltre i campi non irrigui, sì come in Siria e in altri paesi. Con_tutto_ciò nella parte de’ quartieri e della stessa_città, l’acqua si trae da’_ pozzi, ed è grave e malsana. Han preso a berne per dito d’acqua viva, per poco [uso a] riflettere pel gran mangiar che fanno di, cipolle. E veramente cotesto cibo, di cui son ghiotti e prendon crudo, lor guasta i sensi. Non v’ha tra loro uom di qualsivoglia condizione non ne mangi ogni dì e non ne faccia mangiar mattina e sera in casa sua. Ecco ciò che ha offuscata loro immaginativa; offesi i cervelli; perturbati i sensi; alterate le
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intelligenze; assopiti gli spiriti; annebbiati i volti; stemprata la costituzione sì fattamente che non avviene quasi mai di vedere direttamente le cose. Va messo ancor nel novero [il fatto] che v’ha più di trecento maestri di scuola che educano i giovanetti. A sentirli, essi sono nel paese gli uomini di Dio, sono la gente più, virtuosa e degna: nonostante che ognun sappia poca loro capacità e la loro leggerezza cervello, sono adoperati come testimoni nè contratti e come depositari. Ma il vero è che costoro si buttano a quel mestiere per fuggir la guerra sacra e scansare ogni fazione militare. Io ho composto un libro su questi [musulmani di Palermo?], nel quale ho raccolto le notizie che li concernono. Tratto da: M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, ed. it., Roma-Torino 1880-1887
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Palermo descritta nel «Libro di Re Ruggero» di Idrisi, sec. XII Iniziamo da Palermo: città illustre e magnifica, località tanto prestigiosa quanto immensa, che domina, quale grandioso ed eccelso pulpito, le città del mondo intero, quella i cui pregi giungono all’apice. Da questa città, dotata di cose belle e nobili e sede regale nell’epoca presente ed in passato, muovevano le flotte e gli eserciti per le imprese belliche, e ad essa facevano ritorno, come del resto pur oggi avviene. Situata sulla riva del mare nel settore occidentale dell’isola, essa è circondata da imponenti e massicce montagne e la sua riviera è amena, soleggiata e ridente. Gli edifici di Palermo sono talmente splendidi che i viaggiatori ne decantano le bellezze della architettura, le finezze della struttura e la loro sfolgorante originalità?”. La città è divisa in due settori: il Cassero, ed il Borgo. Il Cassero che è poi la vecchia cinta fortificata divenuta famosa per ogni dove comprende nel suo insieme tre zone: quella centrale racchiude palazzi imponenti ed edifici eccelsi e dignitosi, così come numerose moschee, fondachi, terme e botteghe di grandi mercanti. Anche nelle altre due zone non mancano palazzi elevati, sontuose e alte costruzioni e gran numero di fondachi e bagni. Nel Cassero sorge la grandiosa moschea cattedrale, che fu un tempo chiesa cristiana ed oggi è stata restituita alla sua pristina funzione. E difficile che mente umana possa immaginarne l’aspetto per la superba sua fattura, i peregrini motivi ricchi d’estro e di fantasia, le svariate immagini, i fregi dorati e gl’intrecci calligrafici. Quanto al Borgo, è una vera e propria città che circonda da ogni parte il Cassero: vi si trovano il vecchio centro urbano chiamato Al-Khàlìsa residenza del sultano e della sua corte al tempo della dominazione musulmana, la «Porta Marina» e l’arsenale adibito alla costruzione delle navi. Le acque attraversano da tutte le parti la capitale della Sicilia, dove scaturiscono anche fonti perenni. Palermo abbonda di alberi da frutto ed è dotata di edifici e luoghi di delizie talmente sontuosi
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da disorientare chi si accinga a descriverli e abbagliare le menti degli intenditori: a dirla in una parola sono una vera seduzione per chi li ammira. Il Cassero dianzi ricordato, fra i più muniti ed imponenti di quanti se ne conoscano, risulta inespugnabile a qualsiasi azione bellica; è assolutamente invincibile. Sulla sua parte più elevata sorge una città della, costruita di recente per l’esaltato re Ruggero con enormi blocchi di pietra da taglio e rivestita con tessere di mosaico: le linee sono armoniose, alte le torri, ben salde le bertesche e le garitte; palazzine e sale sono costruite alla perfezione e decorate con i più estrosi motivi calligrafici e con stupende raffigurazioni. I pregi di questa città sono attestati da tutti i viaggiatori, ed i giramondo la descrivono con espressioni iperboliche affermando recisamente che non esistono edifici più mirabili di quelli di Palermo né siti che possano eguagliare l’eleganza dei suoi ostelli; sostengono pure che i suoi palazzi sono i più decorosi e le sue case le più confortevoli. Il Borgo che circonda il Cassero vecchio, dinanzi ricordato, ha una estensione considerevole, è ricco di fondachi, case e bagni, botteghe e mercati; per tutto il suo perimetro è circondato da mura, fossato e riparo. E dentro la cerchia delle mura, che tripudio di frutteti, quale magnificenza di ville e quante acque dolci correnti, condotte in canali dai monti che fanno corona alla sua pianura. All’esterno del Borgo scorre sul lato meridionale il fiume Abbàs che ha un corso perenne ed è cosparso di mulini, sufficienti al fabbisogno locale. Tratto da: M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, ed. it., Roma-Torino 1880-1887
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14 Ingresso della probabile darsena che permetteva al re di accedere direttamente al lago di Maredolce 15 Il tamburo della cupoletta della Cappella dei SS. Filippo e Giacomo 16 La corte del Castello
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Palermo descritta da Ibn Gubayr, 1185 Fatta la preghiera del mattino, ci mettemmo per la via di Palermo. Ma quand’eravamo già per entrare, ce lo vietarono e ci menarono ad una porta contigua al castello del re franco che Iddio liberi i Musulmani dalla sua dominazione. Fummo condotti innanzi al suo mustahlaf (commissario), affinchè ci interrogasse sullo scopo del nostro [viaggio], come usano qui verso tutti i viandanti. Si passava per piazze, porte e atrii regii: dove noi scorgevamo dai nobili palagi, anfiteatri ben disposti e giardini e gradinate, addette ai famigliari della corte, che ne rimanemmo abbagliati ed attoniti, e ci corse alla mente la parola di Dio, ch’Ei sia lodato e magnificato, «Sì che daremmo ai miscredenti de’ tetti d’argento per le case loro e delle scale per montarvi, se a questo tutti gli uomini non divenissero un popol solo [di Infedeli]». Tra le altre cose [notabili] ci occorse un’aula [costruita] in mezzo ad un atrio spazioso, cui circonda un giardino. L’atrio è fiancheggiato di portici e l’aula prende tutta la lunghezza di quello. Ci recò molta maraviglia, sì la dimensione dell’aula e sì l’altezza delle sue loggette. Ci fu detto che nell’atrio suoi desinare il re co’ suoi grandi: i magistrati, e i famigliari seggono ne’ portici e nelle gradinate; gli ufiziali del governo di faccia al re[...]. Ci volgemmo ad uno dei fondachi della città e quivi prendemmo albergo, il sabato, sedici del mese santo e ventidue dicembre. All’uscir del palagio [del re] ci eravamo messi, per un portico coperto, nel quale si camminò, lungo tratto senza interruzione, finché giungemmo ad una chiesa d’immensa mole. Ci fu detto che il portico serve di passaggio al re, quand’ei viene a questo tempio. Tratto da: M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, ed. it., Roma-Torino 1880-1887
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Descrizione della città capitale della Sicilia, che Iddio la renda (a’ Musulmani) Essa è la metropoli di queste regioni; aduna in sé i due pregi: comodità e magnificenza. [Troverai quivi] ogni cosa che tu bramar possa, buona o bella; [vi potrai soddisfare ad] ogni desiderio della vita, sia matura o sia verde. [Città] antica ed elegante, splendida e graziosa, ti sorge innanti con sembianza tentatrice: superbisce tra le sue piazze e le sue pianure, che son tutte un giardino. Spaziosa ne’ chiassuoli [non che] nelle strade maggiori, abbaglia la vista con la rara venustà dell’aspetto. Stupenda città; somigliante a Cordova per l’architettura:.JLsuoi edifizi son tutti di pietra kiddàn tagliata; un limpido fiume la spartisce; quattro fonti erompono da’ suoi lati. Il suo re vive in essa ogni piacere del mondo, e però la fece capitale del suo reame franco, che Iddio lo stermini! I palagi del re accerchiano la gola della città come i monili il collo di donzelle dal petto ricolmo; sì che il principe [senza uscir mai]. da siti ameni e luoghi di diletto, passa dall’uno all’altro dei giardini e degli anfiteatri di Palermo. Quante [delizie] egli v’ha, che [Dio] gli tolga di goderne! Quante palazzine e [capricciose] costruzioni, e logge, e vedette! E quanti monisteri de’ dintorni appartengono a lui, che n’ha adornati gli edifizi e largiti vasti feudi a’ loro frati; per quante chiese egli ha fatte gittare in oro e in argento delle croci! [...]. Rimangono vestigia di fede appo i Musulmani di questa città; poich’essi tengono in buono stato la più parte di loro moschee; fanno la preghiera all’appello del muaddin; hanno borghi lor proprii, né quali abitano non [mescolati] co’ Cristiani: i mercati poi son tenuti da loro ed essi [soli] vi esercitano il commercio. Ma non hanno adunanza [popolare del venerdì], perché la hutbah (allocuzione e preghiera pubblica) loro è vietata. La hutbah [non si permette che] nelle feste [annuali], e allora l’invocazione si fa pel [califo] abbàsida. Hanno un cadì, che rende ragione nelle liti [surte tra] loro e una moschea gami (cattedrale), nella quale si
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adunano per la preghiera e vi accorrono a [veder] la luminaria in questo mese santo. Le moschee loro sono innumerevoli: la più parte servono di scuola a’ maestri del Corano. In generale [i Musulmani di Palermo] trascurano i lor fratelli assoggettati al vassallaggio degli Infedeli e privi [della sicurtà] de’ beni, delle donne e de’ figlioli. Che Dio sua bontà ristori [questi miseri] con qualche beneficio! Uno degli aspetti pei quali questa città rassembra a Cordova, che cosa [sempre] rassomiglia a cosa [almen] da qualche lato, è che [Palermo] ha nel bel mezzo della città nuova, una città antica detta il qasr (Cassaro) vecchio: e tale è per l’appunto la topografia di Cordova, che Iddio la protegga. In questo Cassaro vecchio son de’ palagi che sembrano ben murati castelli, da’ quali s’innalzano in aria delle manzarah (loggette) o abbagliano gli occhi con la loro bellezza. Uno de’ [monumenti] più stupendi de’ Cristiani in questa città è la chiesa detta dell’Antiocheno. La vedemmo il dì di Natale, ch’è di lor feste principali; onde vi s’era raccolta gran tratta d’uomini e di donne. Quest’edifizio ci offrì una vista che mancan le parole a descriverla ed è forza tacerne, perché quello è il più bello monumento del mondo: le pareti interne son dorate o [piuttosto] son tutte un pezzo d’oro, con tavole di marmo a colori, che uguali, non ne furon mai. viste; tutte intarsiate con pezzi da musaico d’oro; inghirlandate di fogliame con mosaici verdi: in alto [poi s’apre] un ordine di finestre di vetro color d’oro che accecavano la vista col baglior de’ raggi loro e destavano negli animi una tentazione [così fatta] che noi ne domandammo aiuto a Dio. Ci fu detto che il fondatore di questa chiesa, del quale essa ha preso il nome, vi spese dei quintali d’oro. Egli era vizir dell’avolo di questo re politeista. Questa chiesa ha un campanile, sostenuto da colonne di marmo [di varii] colori e sormontato da una cupola, [che poggia] sopra altre colonne: lo chiamano Sawmacat ‘as sawari (il campanile delle colonne). Ed è una delle più mirabili costruzioni [che mai] si sian viste:
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così Iddio col suo favore e possanza la nobiliti tra non guari, con l’appello del muaddin! L’aria delle donne cristiane di questa città è la medesima che delle musulmane: [le cristiane], ben parlanti, ammantate e velate [al par di quelle], eran uscite [per le strade] nella festa suddetta [di Natale], con vestiti di seta frammista d’oro, mantelli eleganti, e veli a [varii] colori: calzavano stivaletti dorati, e incedeano verso lor chiese o covili sopraccariche d’ogni ornamento in uso appo le donne musulmane: monili, tinture, profumi. Tratto da: M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, ed. it., Roma-Torino 1880-1887
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1.1.3 Stato attuale
Oggi purtroppo, anche se sono stati finalmente avviati i lavori di restauro, questo importantissimo monumento resta comunque un rudere da troppo tempo ormai abbandonato all’incuria e che è possibile scorgere con grande difficoltà a causa del groviglio inestricabile di costruzioni da cui è irrimediabilmente sommerso. Arrivando dalla via Giafar, infatti, il monumento si confonde nell’anonimato e nel disordine dell’abusivismo che ha devastato irrimediabilmente l’intero quartiere. Addentrandosi nelle campagne, si scorgono per intero i prospetti Nord-Est, Sud-Est e SudOvest ma il degrado e lo scempio della costruzione selvaggia è ancora più evidente: dal fronte Nord-Est parte infatti una cortina di costruzioni a due, tre e quattro elevazioni che fondano la loro struttura sui grandi conci di tufo dell’argine dell’antico invaso. Oggi non è riscontrabile traccia di un cartello che indichi natura, entità, importo, tempi e responsabilità di ciò che servirebbe l’avvio di un restauro.
E’ possibile oggi il recupero? E’ possibile, in particolare, legare il recupero monumentale (il Castello) a quello naturalistico e ambientale (il lago, il monte Grifone) creando le premesse per un generale riordino urbanistico e sociale del quartiere Brancaccio, da tempo tristemente famoso in città per l’insediamento mafioso? Scrive Vincenzo Scuderi, già Sorintendente regionale: “ il restauro del castello e del lago….è possibile sino alla nuova alimentazione idrica, e quindi al ripristino del suggestivo lago intorno all’isoletta con vegetazione agrumaria. La valenza culturale e turistica del recupero dell’intero complesso, occorre quindi immaginarla come di straordinario approdo tecnico-operativo ed estetico, analogo ma di maggior livello, a quello che un giorno o l’altro dovrà riportare l’acqua nella ben più piccola peschiera antistante alla Zisa… altra fondamentale prospettiva culturaleturistica per il restauro di Maredolce è quella di realizzare qui il terminale di un itinerario turistico dei sollazzi normanni, che può iniziare dalla Zisa, passando per la Cuba, se non anche per lo Scibene e concludersi, appunto a Maredolce…”
“Nel corso dei secoli, l’antico castello di Giafar cadde in abbandono, le sue strutture edilizie andarono in rovina, ma la sua massa imponente si stagliava sempre nella verde campagna meridionale della città. L’iconografia del Settecento e del XIX secolo è ricca di immagini romantiche di questa costruzione. Sino al 1962 circa, il castello della Favara poteva ancora ammirarsi da un largo spiazzo che si estendeva lungo il suo fronte e che il piano regolatore della città aveva destinato a verde pubblico. Ma, proprio in quell’anno, una costruzione abusiva ne occultava completamente le fabbriche….continuò per circa un decennio, e continua ancora, il lento scempio urbanistico della zona in cui sorgono l’edificio e la rovina delle fabbriche dello stesso..”
Tratto da: “Palermo. Le istituzioni culturali tra memoria e realtà”, Centro studi C. Terranova, Una Città per l’Uomo, 1997, p.82
Tratto da: R. La Duca, “la città perduta”, terza serie, p.63
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17 Il fronte principale del Castello nascosto dalle costruzioni abusive su via Giafar 18 La mole del Castello della Favara fotografata dal parco 19 I complessi retri di abitazioni fatiscenti che si confrontano con il Castello
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1.2 La tipologia del castello normanno e del giardino paradiso (genoard) 1.2.1 Cenni sull’architettura arabo normanna in Sicilia
La dizione “arabo-normanna” si assegna alla fase della civiltà artistica siciliana che va dal sec. IX alla fine del XII e include in forma spesso indistinta i materiali delle due diverse civiltà, la prima di derivazione orientale, la seconda dal nord-occidente europeo. “…le testimonianze artistiche della seconda dominazione si fusero, in buona parte, con quelle della precedente; della quale, poi, ben poco resta di indenne e di rigorosamente accertato. È noto come, anche dopo la conquista normanna, maestranze arabe, assai scaltrite nel mestiere, proseguissero nell’opera edificatoria e decorativa con sistemi pressoché immutati, specialmente nella parte occidentale dell’Isola. …assai scarsi e in grave stato di fatiscenza sono i monumenti dell’architettura e dell’arte araba fiorite in Sicilia per oltre duecento anni e giunte all’estremo grado di raffinatezza durante l’Emirato, quando Palermo divenne la lussuosa capitale e la vita vi si svolgeva tra celebrate mollezze, come narrano i poeti arabi del tempo. Padiglioni, giardini, dimore al riparo dal forte vento di scirocco, moschee a centinaia sorsero fra gli aranceti della Conca d’oro. ...Nient’altro resta di sicuramente arabo in Sicilia al di fuori delle Terme di Cefalà Diana presso Villafrati, …nella stessa Capitale dei pochi avanzi del Castellamare sulla Cala…. della moschea agl’abita, al di sotto della Cappella attigua alla loggia dell’Incoronazione, presso il Duomo….e dell’altra moschea su cui si addossa un lato di S. Giovanni degli Eremiti ….palazzi, ville, castelli e chiese, edificati durante la dominazione normanna, sorsero in gran parte su edifici preesistenti e le nuove strutture si fusero con quelle antiche così strettamente da rendere impossibile ogni distinzione. Così fu a Palermo per le ville e per i palazzi normanni, da quello che ancor oggi si intitola il Palazzo dei Normanni ….a quello della Favara o di Maredolce, nella via che oggi porta il nome dell’Emiro Giafar (997-1019), che forse lo eresse, all’altro di
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Scibene, un rudere nei campi: entrambi un tempo a dismisura, poveri resti in totale abbandono…” Tratto da: G. Carandente-G.Voza, “Arte in Sicilia”, ed. Electa 1974, pp 152-153 Dopo tre secoli di occupazione bizantina e due di dominazione musulmana, i re normanni si insediano in Sicilia nell’ultima metà delI’XI sec. Nel termine “arte arabo-normanna’’ si nasconde una sottile combinazione di elementi islamici (fatimidi, abassidi e magrebini), romanici (veicolati dalle frequentazioni dei sovrani, tra cui alcuni Benedettini franco-normanni), latini (portati da monaci italiani che seguono i Normanni durante il loro, viaggio nel sud Italia) e bizantini (provenienti da vari monaci e da un patriarcato greco-bizantino). il segno dell’occupazione araba - La conquista araba ha inizio nell’827, nella regione di Trapani. Durante i due secoli e mezzo di potere, questo popolo trasforma l’aspetto della Sicilia, spostando la capitale da Siracusa a Palermo, modificando il paesaggio con lavori d’irrigazione e nuove coltivazioni provenienti dall’Oriente, ma soprattutto divulgando delle forme fino a quel momento sconosciute. In questo periodo vengono eretti numerosi edifici, sempre costruiti, in perfetta armonia con la natura: palazzi, moschee, minareti, giardini e fontane. In campo architettonico, viene introdotta in Sicilia una nuova tipologia decorativa: le figure umane lasciano il posto alla geometria e agli arabeschi, l’interno delle abitazioni viene abbellito dai colori della ceramica, mentre i soffitti si ricoprono di ricchi alveoli a stalattiti. 1 palazzi arabi spariscono con l’arrivo dei Normanni, che se ne appropriano per riallestirli e modificarli, rendendo impossibile distinguerne l’antica funzione. Dell’operato arabo, permangono unicamente alcuni elementi decorativi e il tracciato sinuoso e irregolare delle vie, tuttora visibile nel tessuto urbano di Palermo. L’eclettismo normanno o la fusione dei tre stili romanico,
bizantino e arabo - Tutta la ricchezza dell’arte arabo-normanna nasce da un forte desiderio, da parte dei sovrani normanni, di emulare lo sfarzo di Bisanzio, città che sognano di conquistare. Grandi costruttori, i nuovi capomastri siciliani fanno uso di tutte le loro energie creative per erigere monumenti d’incomparabile splendore. A partire dalla fine dell’Xi sec. e durante tutto il secolo successivo, vengono innalzate grandi chiese ideate da monaci-architetti, sia greci che francesi e latini (Benedettini ed Agostiniani), ispirate alle forme classiche: pianta basilicale a croce latina o greca, torri e portale sulla facciata, coro spesso Sormontato da una cupola. Questi edifici vengono contemporaneamente abbelliti da mosaici bizantini, realizzati da artisti greci, e da ornamenti arabi Carchi a ferro di cavallo, decorazione fatta di arabeschi ed alveoli). Ne risulta oggi un curioso insieme di edifici, tutti risalenti al XII sec, che offrono la particoiarità di associare questi tre stili, nel sincretismo delle rispettive culture. L’Influenza musulmana (nei monumenti palermitani) - Gli Arabi portano nuovi metodi di costruzione e di decorazione, che permettono lo sviluppo di veri e propri capolavori. In architettura, vengono introdotti l’arco a sesto acuto, l’arco rialzato (che si erge verticalmente sopra al capitello prima di incurvarsi) e l’arco moresco, il più rappresentativo di tale influenza; la parte superiore di quest’arco, talvolta a sesto acuto, descrive un semicerchio che si restringe alla base, formando un ferro di cavallo. Nel loro interno, tali strutture architettoniche presentano spesso delle decorazioni a stalattiti, chiamate muqarnas, alveoli dipinti e scolpiti in aggetto che ornano inoltre cupole, pennacchi, capitelli e mensole. La decorazione del Duomo di Monreale, quella della Cappella Palatina e quella dei palazzi della Zisa e della Cuba, con quello che resta del castello di Maredolce, costituiscono splendide testimonianze dell’influenza islamica. La tipica tendenza araba a realizzare opere minuziosamente lavorate si
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ritrova in alcuni ornamenti scolpiti, quali la cornice (dei merloni dentellati di San Cataldo, che costituisce un’elegante base per le tre cupole rosate che coronano l’edificio. I Musulmani apportano cambiamenti anche nei volumi, costruendo cupole a “berretto d’eunuco” come a San Giovanni degli Eremiti. L’arrivo dei normanni segnò la fine di quasi tutte le costruzioni arabe in Sicilia ma non dell’arte. Come tutti sanno i normanni sfruttarono a pieno il genio costruttivo dei vecchi dominatori. A parte il nucleo centrale del Parlamento siciliano di Palermo, probabili resti del vecchio Palazzo degli Emiri, a parte alcuni resti di fondazioni in San Giovanni degli Eremiti nella stessa città e le terme a Cefalà Diana, si può affermare che tutta l’arte araba presente in Sicilia sia stata realizzata sotto i normanni. Quella di Ruggero e dei suoi successori, non fu, come alcuni storici sostengono, un’opera di distruzione per puro spirito di devastazione. La politica dei normanni di cristianizzazione dell’isola richiedeva per forza di cose che le moschee venissero trasformate in cattedrali. Quindi enormi cattedrali sorsero su moschee (quella di Palermo pare ospitasse più di 7000 fedeli) e palazzi reali sorsero all’interno di giardini paradiso (genoard). Per avere un’idea di come fossero tali giardini paradiso in Sicilia basterebbe leggere gli scritti dei viaggiatori che visitarono in lungo e in largo l’isola fra il XI e il XII secolo o visitare a Granada, ultima città araba in Spagna a essere scristianizzata, la famosa Alhambra, un vero e proprio spettacolo di architettura immersa nella natura. Nei pressi del castello di Favara a Maredolce, secondo Abd er Rah, edifici suburbani all’ombra di splendide palme, si rispecchiavano sulle acque di fiumi e laghi. Mentre i giardini di limoni, cedri e aranci della Zisa e della Cuba venivano descritti da Romualdo Salernitano e niente meno che dal Boccaccia. Malgrado non possiamo più godere di simili spettacoli possiamo, grazie a loro, ricostruirne l’aspetto.
Erano costruzioni sfavillanti, nelle quali gli elementi architettonici arabi come i portici sostenuti da esili o tortili colonne ogivali o a ferro di cavallo decorati a guancialetti e le raffinate preziose decorazioni degli interni di integravano in uno splendido unicum architettonico con le geniali opere di idraulica e di agricoltura. I Normanni erano talmente tanto attratti dalla cultura dei loro predecessori che organizzavano la vita reale sul modello di quella araba. In questi grandi parchi, praticavano la caccia e , si dice, navigassero anche con piccole barche i ruscelli e i laghetti.
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1 Il Palazzo della Zisa 2 Iconografia ottocentesca del Palazzo
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1.2.2 Il Castello
Il Palazzo della Zisa Il palazzo della Zisa – dall’arabo al-‘Aziza, ovvero “la splendida”) - sorgeva fuori le mura della città di Palermo, all’interno del parco reale normanno, il Genoardo (dall’arabo Jannat al-ard ovvero “giardino o paradiso della terra”), che si estendeva con splendidi padiglioni, rigogliosi giardini e bacini d’acqua da Altofonte fino alle mura del palazzo reale. Il palazzo della Zisa, concepito come dimora estiva dei re, nasce da un progetto unitario, realizzato da un architetto di matrice culturale islamica ben consapevole di tutta una serie di espedienti per rendere più confortevole questa struttura durante i mesi più caldi dell’anno. Si tratta, infatti, di un edificio rivolto a nord-est, cioè verso il mare per meglio godere delle brezze più temperate, specialmente notturne, che venivano captate dentro il palazzo attraverso i tre grandi fornici della facciata e la grande finestra belvedere del piano alto. Questi venti, inoltre, venivano inumiditi dal passaggio sopra la grande peschiera antistante il palazzo e la presenza di acqua corrente all’interno della Sala della Fontana dava una grande sensazione di frescura. L’ubicazione del bacino davanti al fornice d’accesso, infatti, è tutt’altro che casuale: esso costituiva una fonte d’umidità al servizio del palazzo e le sue dimensioni erano perfettamente calibrate rispetto a quelle della Zisa. Anche la dislocazione interna degli ambienti era stata condizionata da un sistema abbastanza complesso di circolazione dell’aria che attraverso canne di ventilazione, finestre esterne ed altri posti in riscontro stabilivano un flusso continuo di aria. La stereometria e la simmetria del palazzo sono assolute. Esso è orizzontalmente distribuito in tre ordini, il primo dei quali al piano terra è completamente chiuso all’esterno, fatta eccezione per i tre grandi fornici d’accesso. Il secondo ordine è segnato da una cornice marcapiano che delinea anche i vani delle finestre,
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mentre il terzo, quello più alto, presenta una serie continua di arcate cieche. Una cornice con l’iscrizione dedicatoria chiudeva in alto la costruzione con una linea continua. Si tratta di un’iscrizione in caratteri cufici, molto lacunosa e priva del nome del re e della data, che è tuttora visibile nel muretto d’attico del palazzo. Questa iscrizione venne, infatti, tagliata ad intervalli regolari per ricavarne merli nel momento in cui il palazzo fu trasformato in fortezza. Le prime notizie indicanti il 1165 come data d’inizio della costruzione della Zisa, sotto il regno di Guglielmo I, ci sono state tramandate da Ugo Falcando nel Liber de Regno Siciliae. Sappiamo da questa fonte che nel 1166, anno della morte di Guglielmo I, la maggior parte del palazzo era stata costruita “mira celeritate, non sine magnis sumptibus” (lett. “con straordinaria velocità, non senza ingenti spese) e che l’opera fu portata a termine dal suo successore Guglielmo II (1172-1184), subito dopo la sua maggiore età. L’appellativo Musta’izz è riferito, secondo Michele Amari, a Guglielmo II anche in un’iscrizione in caratteri naskha nell’intradosso dell’arcata d’accesso alla Sala della Fontana. Un’altra iscrizione, invece, ben più famosa – in caratteri cufici – è a tutt’oggi conservata nel muretto d’attico del palazzo, tagliata ad intervalli regolari nel tardo medioevo, quando la struttura fu trasformata in fortezza. Alla luce di queste fonti, la maggior parte degli studiosi sono concordi nel fissare al 1175 la data di completamento dei lavori del solarium reale. Fino al XVII secolo il palatium non venne sostanzialmente modificato, come ci testimonia la descrizione del 1526 fatta dal monaco bolognese Leandro Alberti, che visitò la Zisa in quell’anno. Significativi interventi di restauro si ebbero negli anni 1635-36, quando Giovanni de Sandoval acquistò la Zisa, adattandola alle nuove esigenze abitative. In occasione di questi lavori fu aggiunto un altro piano chiudendo il terrazzo e si
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costruì, nell’ala destra del palazzo, secondo la moda dei tempi, un grande scalone, resecando i muri portanti e distruggendo le originarie scale d’accesso. Successivamente nel 1806 la Zisa passò alla famiglia dei Notabartolo, che effettuò diverse opere di consolidamento, quali il risarcimento di lesioni sui muri e l’incatenamento degli stessi per contenere le spinte delle volte. Venne trasformata la distribuzione degli ambienti mediante la costruzione di tramezzi, soppalchi, scalette interne e nel 1860 fu ricoperta la volta del secondo piano per costruire il pavimento del padiglione ricavato sulla terrazza. Nel 1955 il palazzo fu espropriato dallo Stato, ed i lavori di restauro, iniziati immediatamente, vennero poco dopo sospesi. Dopo un quindicennio d’incuria ed abbandono nel 1971 l’ala destra, compromessa strutturalmente dai lavori del Sandoval e dagli interventi di restauro, crollò. Attualmente la Zisa ospita il Museo della civiltà islamica. Il piano terra del palazzo è costituito da un lungo vestibolo interno che corre per tutta la lunghezza della facciata principale sul quale si aprono al centro la grande Sala della Fontana, nella quale il sovrano riceveva la corte, e ai lati una serie di ambienti di servizio con le due scale d’accesso ai piani superiori. La Sala della Fontana, di gran lunga l’elemento architettonico più caratterizzante dell’intero edificio, ha una pianta quadrata sormontata da una volta a crociera ogivale, con tre grandi nicchie su ciascuno dei lati della stanza, occupate in alto da semicupole decorate da muqarnas (decorazioni ad alveare). Nella nicchia sull’asse dell’ingresso principale si trova la fontana sormontata da un pannello a mosaico su fondo oro, sotto il quale scaturisce l’acqua che, scivolando su una lastra marmorea decorata a chevrons posta in posizione obliqua, viene canalizzata in una canaletta che taglia al centro il pavimento della stanza e che arriva alla peschiera antistante. In questo ambiente sono
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ancora visibili i resti di affreschi parietali realizzati nel 1600 dai Sandoval. Il primo piano si presenta di dimensioni più piccole, poiché buona parte della sua superficie è occupata dalla Sala della Fontana e dal vestibolo d’ingresso, che con la loro altezza raggiungono il livello del piano superiore. Esso è costituito a destra e a sinistra della Sala della Fontana dalle due scale d’accesso che si aprono su due vestiboli. Questi si affacciano con delle piccole finestre sulla parte alta della Sala, affinché, anche dal piano superiore, si potesse osservare quanto accadeva nel salone di ricevimento. Questo piano costituiva una delle zone residenziali del palazzo ed era destinato molto probabilmente alle donne. Il secondo piano constava originariamente di un grande atrio centrale delle stesse dimensioni della sottostante Sala della Fontana, di una contigua sala belvedere che si affaccia sul prospetto principale e di due unità residenziali poste simmetricamente ai lati dell’atrio. Questo piano dovette certamente assolvere alla funzione di luogo di soggiorno estivo privato, dal momento che l’atrio centrale scoperto apriva questo luogo all’aria ed alla luce. Facevano parte del complesso monumentale normanno anche un edificio termale, i cui resti furono scoperti ad ovest della residenza principale durante i lavori di restauro del palazzo, ed una cappella palatina posta poco più ad ovest, lungo la via oggi nominata dei Normanni.
3 La Cappella della Zisa, pianta e sezione longitudinale 4 Iconografia ottocentesca dello spazio limitrofo 5 Il fronte principale della Zisa con le complesse decorazioni 6 Dettaglio della fonte realizzata nel parco della Zisa recentemente 7 Le vasche ed il giardino arabo 8 L’esasperata prospettiva centrale del percorso d’ingresso
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Il progetto di recupero della Zisa del suo Parco Questa oasi verde, che si estende (la terza in città dopo Villa Giulia e il Giardino Inglese) per 30 mila metri quadri, è tornata a vivere nel luglio del 2005 dopo un anno di lavori che hanno cercato di riprendere l’originario disegno del mitico Gennat alard, sconfinata tenuta di caccia dei re normanni. I giardini della Zisa presentano tre percorsi: la «via dell’acqua», la «via del verde» e la «via dell’ombra», un reticolato metallico che sarà coperto presto da bouganville, da glicine e da gelsomini. Elemento centrale è la grande vasca d’acqua, che si sviluppa per ben 130 metri decorata con le ceramiche lavorate dai mastri di Santo Stefano di Camastra, gli zampilli, il marmo bianco delle cave di Alcamo e di Castellammare, un proseguimento ideale del tracciato d’acqua della sala della fontana, quella che si apre oltre le porte del palazzo della Zisa. Tutto intorno sui 30 mila metri quadri complessivi si alternano vialetti e aiuole , adornate con ben 60 varietà di piante: arbusti, rampicanti, cespugli e fiori assortiti con prevalenza di piante endemiche come la palma nana e l’ulivo. Fuori dalle sue mura c’è ancora la «senia» recuperata su indicazione della soprintendenza ai beni culturali, una piattaforma di pietra circolare con al centro un pozzo e una macchina dentata. Una volta un asinello legato e bendato vi girava all’infinito intorno, con il suo andare le pale tiravano su dal pozzo l’acqua che finiva poi in una cisterna e scivolava nei canali che irrigavano il giardino. Sono stati recuperati anche tredici dammusi, piccole strutture in muratura costruite tra il XIV e il XV secolo, epoca in cui la Zisa fu adibita a baglio agricolo. Alcuni ospitano la biglietteria di accesso al palazzo ed una libreria. Fiori e giochi d’acqua hanno cancellato una desolante distesa
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di sterpaglie e detriti ma ci vorrà del tempo e tanta pazienza per vederlo rigoglioso come mille anni fa. Un tempo i Normanni, dal loro giardino, godevano della vista del mare oggi dobbiamo accontentarci di questa immensa distesa di cemento e brutture che è diventata la Palermo del “sacco”. Il parco è circondato ancora dalle mostruosità della Palermo più «ruggente», sfregi lasciati nel quartiere della Zisa dai costruttori speculatori degli anni 60-80: palazzoni tutti uguali, edilizia di rapina, licenze regalate dai politici di turno agli amici, agli amici degli amici e ai prestanome. Una Palermo infetta che guarda ancora oggi quella che era la Palermo più regale e superba.
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Il Castello della Cuba E’ una costruzione palermitana di età normanna il cui progetto e il cui decoro sono però fortemente intrisi di elementi artistici e culturali arabo-musulmani. La dinastia degli Altavilla, impadronitasi della Sicilia fino ad allora dominata dall’elemento arabo-berbero, non si rifiutò di adottare i costumi dei loro nuovi sudditi musulmani ed avviò una serie di edificazioni che, per molti versi, risentirono del gusto e del pensiero stesso islamico, pur accordati con quanto di tipicamente cristiano e di normanno i nuovi dominatori dell’isola intendevano trasmettere ai sudditi, ai visitatori e ai semplici osservatori. Di questo connubio artistico e culturale (di sincretismo religioso non si potrà comunque mai parlare) sono fulgidi esempi numerosi palazzi che i re normanni si vollero fare costruire, al fine di esaltare l’universale dominio di Dio e di Cristo in tutto il creato e del loro ruolo di reggitori e amministratori di uomini in terra che il casato d’Altavilla pensava fosse suo propria prerogativa. Nacquero così a Palermo i palazzi, o castelli, della Zisa e della Cuba e il parco reale della Favara (dall’arabo Fawwara, “sorgente”) e del suo palazzo ormai scomparso di Maredolce. La Cuba (dall’arabo Qubba, “cupola”) fu costruita come suo casino di caccia nel 1180 dal re Guglielmo II, al centro di un ampio parco e di un vasto bacino lacustre artificiale che si chiamava Jannat al-ard (“il Giardino - o Paradiso - della terra”), il Genoardo. Dell’impianto complessivo originario sopravvive, a Villa Napoli, un ulteriore casino di dimensioni asssai più contenute: la Cubula. La costruzione - ricordata già dal Boccaccio nella sesta novella della quinta giornata del Decamerone - fu eretta nei pressi del castello di Maredolce o della Favara, che Ruggero II aveva fatto riedificare sulle rovine del Palazzo di Ja’far ( Qasr Ja’far ), un emiro kalbita che aveva governato Palermo fra il 998 e il 1019.
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Oggi rimane la pura costruzione e il suo aspetto cubico, con la sua minuscola cupola sovrastante (oggi colorata di rosso, quasi certamente non il colore originario), ha fatto inizialmente ritenere che il nome dell’edificio fosse derivato proprio dal caratteristico impianto della costruzione. Nella sala che s’affaccia a settentrione è però leggibile una bella epigrafe araba tradotta da Michele Amari, il massimo studioso della storia islamica della Sicilia, che dice: “[Nel] nome di Dio clemente e misericordioso. Bada qui, fermati e mira! Vedrai l’egregia stanza dell’egregio tra i re di tutta la terra Guglielmo II. Non v’ha castello che sia degno di lui. ... Sia lode perenne a Dio. Lo mantenga ricolmo e gli dia benefici per tutta la vita”.
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9 Gli eleganti rilievi geometrici che disegnano i fronti della Cuba 10 La compatta mole geometrica 11 Le complesse decorazioni 12 In alto a destra si nota una mancanza 13 Il Palazzo dello Scibene
Palazzo dello Scibene
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Probabilmente costruito durante il periodo dei due Guglielmi,1154-1189, mostra tuttavia alcuni elementi che indurrebbero ad attribuire la sua costruzione al periodo ruggeriano (1130-1154) per la disposizione della sala centrale e per le voltine pieghettate, di tipo medio-orientale, presenti anche all’interno di due altre costruzioni di re Ruggero: Il Castello di Caronia e sala reale nel Palazzo della Fawara). Il solatium, posto ad Ovest di Palermo, appartenne alla curia palermitana e forse fu utilizzato dall’Arcivescovo Walter Offamilio. La sala cruciforme della fontana, simile a quella della Zisa, è composta da tre esedre semivoltate. Al di sopra della costruzione si erge una chiesetta con volte a botte, le cui pareti esterne sono movimentate dai ritmi di esili archeggiature ogivali a rincassi ciechi. a cura di V. Noto Les palais et les jardins siciliens des rois normands, Trésor romans d’Italie du Sud et de Sicilie Toulouse-Caen, 1995
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Palazzo dei Normanni Il palazzo reale è posto nel luogo più elevato dell’antica città tra le depressioni dei fiumi Kemonia e Papireto. Anche se alla costruzione vengono attribuite origini molto antiche risalenti alle dominazioni puniche, romane e bizantine, è all’epoca araba (IX secolo) che si deve attribuire l’edificazione del maestoso Qasr, “Palazzo” o “Castello”, da cui ha preso il nome la via del Cassaro, l’odierno corso Vittorio Emanuele. Tuttavia, furono i Normanni a trasformare questo luogo in un centro polifunzionale, simbolo del potere della monarchia. Scrive Maria Teresa Montesanto in Palermo città d’arte (a cura di Cesare De Seta, Maria Antonietta Spadaro e Sergio Troisi): “Il palazzo era costituito da edifici turriformi collegati da portici e giardini che formavano un complesso unitario comprendente anche opifici tessili (il tiraz) e laboratori di oreficeria. Una via coperta lo collegava direttamente con la cattedrale. Nello spiazzo antistante vi era anche la cosiddetta Aula verde, di epoca anteriore, un ambiente aperto e riccamente decorato dove il re accoglieva i suoi ospiti. Nel 1132 venne costruita la Cappella Palatina che assunse una funzione baricentrica dei vari organismi in cui si articolava il palazzo. La decadenza inizia già con gli Svevi in quanto Federico II non vi risiede anche se il palazzo rimane sede dell’attività amministrativa, della cancelleria e della scuola poetica siciliana. Il ruolo periferico assunto dalla città si accentua con gli Angioini e gli Aragonesi che privilegiarono altre sedi. La rinascita del palazzo si ha con i viceré spagnoli che, nella seconda metà del XVI secolo, scelsero di risiedervi adeguandolo alle nuove esigenze difensive e di rappresentanza”. Dal 1946 il Palazzo dei Normanni e sede dell’Assemblea regionale Siciliana.
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14 Pianta generale del Palazzo dei Normanni 15 . 16 . 17 Differenti viste del Palazzo 18 Pianta della sovrapposizione dell’antica moschea con la Cappella Palatina
1.2.3 Il giardino paradiso
Gli emiri arabi lo chiamavano gennat alard, il Paradiso della Terra. I signori normanni dal 1071 e per più di cento anni vissero a Palermo come «i più orientali» dei sovrani. Fu allora che il gennat alard divenne il Genoardo. Fu allora che il mecenatismo illuminato dei cavalieri di lontane origini scandinave assecondò la fusione di culture, di popoli, di tendenze. I parchi di caccia e di delizie che circondavano Palermo, un tempo adornati da edifici residenziali, chioschi e ricchi di sorgenti d’acqua vennero raccontati dalle fonti con tanto entusiasmo. Lo storiografo arabo Al-Idrisi nel 1154 annotava che “i suoi luoghi di delizie confondon chi si metta a descriverle...questa città fa girare la testa a chi la guarda”. Di questi luoghi meravigliosi oggi rimangono pochi frammenti (il Castello di Maredolce, la Cuba soprana, la Cuba sottana, la Zisa e il Castello dello Scibene), il più integro è la Zisa. Il giardino-paradiso che circondava la Zisa entrava al pianterreno della residenza regia e, attraverso il vestibolo, nella sala della fontana dove la flora e la fauna del giardino diventavano un tutt’uno con il palazzo trasformandosi in mosaico o scultura.Il Genoard islamico, cioè il “Paradiso in terra”, viene realizzato attorno a Palermo in età arabo-normanna, con l’armonica fusione di acqua, giardini ed architettura. Questo Eden, promesso nel Corano e raccontato dal profeta Muhàmmad, è così descritto: “….coloro che avranno creduto e fatto il bene avranno giardini sotto cui scorrono fiumi….un giardino elevato i cui frutti saranno a portata di mano….avranno abitazioni sontuose….e vergini racchiuse nei loro padiglioni…. camere in alto e altre camere sopra di esse, sotto le quali scorrono i fiumi…..”. Era questa l’atmosfera che si respirava al Sollazzo di Maredolce e nei parchi attorno a Palermo e che orientò i suoi committenti ed i costruttori.
Citazioni dal Corano Paradiso XXXVI 55-58 In verità quel giorno i destinati al paradiso gioiranno di cose belle: essi e le loro spose riposeranno sopra alti letti, sistemati in luoghi ombrosi e avranno frutti e anche tutto quello che desidereranno e: pace! Sarà la parola che udiranno pronunciare dal loro Signore misericordioso. Dimora finale XIII 22-24 Di questi (dei giusti) è la dimora finale i giardini di Eden in cui essi entreranno insieme con i buoni fra i loro progenitori, le loro mogli, i loro discendenti; e gli angeli entreranno da ogni angolo e diranno: pace a voi, perché avete saputo attendere con fiducia e pazienza! Quanto è bella la dimora finale. Acqua XV 22 E’ [Dio] versammo l’acqua dal cielo perché poteste berne, ed era dell’acqua che voi non avevate conservato nelle vostre cisterne. XVI 65 E Dio fa scendere l’acqua dal cielo e con essa vivifica la terra che prima era morta: in questo c’è un segno per chi sa ascoltare. XXI 30 Non vedono dunque gli empi che una volta i cieli e la terra erano confusi insieme e Noi [Dio] li abbiamo separati, e dall’acqua abbiamo fatto germinare ogni cosa vivente? XXXIX 21
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Non vedi che Dio fa scendere l’acqua dal cielo e la
conduce a fonti nascoste nella terra, poi la fa uscire e fa nascere erbaggi di vàrio genere che poi si seccano e li vedi ingiallire, e poi Lui li riduce in briciole di paglia secca? In questo vi è un monito per chi è dotato di sano intelletto. Giardini (in ar. al-giannàt) III 15-17 Ma vi racconterò di cose migliori di queste: per chi crede presso Dio vi sono dei giardini alle cui ombre scorrono fiumi, dove rimarrete in eterno e avrete spose immacolate e il compiacimento di Dio, perché Dio guarda ai suoi servi. I quali dicono: Signore, abbiamo creduto, perdonaci quindi i nòstri peccati e preservaci dal castigo del fuoco e sono pazienti, sinceri, devoti, generosi e imploranti il perdono ogni mattina. VII 42-43 Quelli che avranno creduto e avranno compiuto opere buone — dato che noi non imponiamo a nessuna anima un peso superiore a quello che essa è in grado di sopportare - saranno o-spiti del paradiso e vi resteranno in eterno. E quello che resta del loro rancore lo strapperemo dal loro petto; e ai loro piedi scorreranno dei ruscelli e diranno: la gloria spetta a Dio che ci ha condotti in questo luogo, e non saremmo stati ben diretti se non ci avesse guidato Dio. E infatti sono venuti a noi dei messaggeri del nostro Signore con la verità. E a loro si griderà: ecco il giardino che vi è stato dato come ricompensa per le opere che avete compiuto. IX 72 Dio ha promesso ai credenti e alle credenti giardini alla cui ombra scorrono fiumi, dove essi risiederanno in eterno, e delle splendide dimore nei giardini di Eden: ma il dono più grande sarà il compiacimento di Dio nei loro riguardi. Questo è il successo supremo!
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XIII 22-24 Di questi [i giusti] è la dimora finale i giardini di Eden, in cui entreranno insieme con i loro ascendenti buoni, le loro donne, i loro discendenti; e da tutte le porte entreranno gli angeli e diranno: pace a voi perché avete atteso con fede ferma e con pazienza. Quanto è bella la dimora finale!
per grazia del Signore. Questo è il successo supremo!
35 II giardino che è stato promesso a coloro i quali hanno sempre manifestato il timor di Dio si può paragonare ad alberi sotto cui scorrono fiumi, e che danno frutti perenni e danno molta ombra. Questa sarà la dimora finale di quelli che temono Dio, mentre la dimora finale degli empi è il fuoco.
Citazioni tratte da “cosa dice il Corano” di A. Nangeroni, ed. Xenia 1991
XVIII 30-31 In verità sappi che per coloro che hanno creduto e hanno compiuto opere buone non verrà disattesa la ricompensa che si merita chi ha agito con spirito di bontà. Essi avranno dimora nei giardini di Eden in cui scorrono fiumi; qui saranno adornati con bracciali d’oro e rivestiti di vestiti di seta e di broccato, e staranno comodamente sdraiati su alti divani. Questa è una ricompensa molto bella, che giacìgli confortevoli! XXXVII 40-49 Ma non saranno trattati così i servi puri di Dio. Essi avranno una ricompensa che è già stata predeterminata, frutti, e saranno onorati in giardini di delizie, su letti collocati gli uni vicini agli altri, e fra loro circolerà un calice di un succo limpidissimo, chiaro e delizioso per chi lo berrà, che non procurerà giramenti di testa e non ubriacherà. E avranno con loro fanciulle dagli sguardi modesti, con occhi bellissimi, come bianche perle nascoste. XLIV 51-57 Invece i timorati di Dio staranno in un luogo sicuro, fra giardini e fontane. E qui non gusteranno la morte, salvo la morte prima e Dio li preserverà dalla pena del fuoco dell’inferno
LV 46-56 E a chi avrà avuto il timor di Dio saranno dati due giardini e vi saranno fanciulle dallo sguardo modesto, che non sono mai state toccate prima da uomini o da ginn [cioè vergini] belle come rubino e come corallo.
1.2.4 Un itinerario turistico dei sollazzi normanni
Abbiamo evidenziato un possibile itinerario turistico attraverso i palazzi del sollazzo più significativi dell’arte arabo normanna al fine di prolungare le ormai consuete mete turistiche. L’itinerario potrebbe prendere il via dal castello della Zisa , sito in via dei Mulini, proseguendo fino al Castello dello Scibene subito a monte della circonvallazione, per poi raggiungere corso Calatafimi dove è possibile visitare il palazzo della Cuba e la Cubula. L’itinerario proseguirebbe con il palazzo dei Normanni sito a piazza Vittoria e potrebbe trovare la propria conclusione con la visita del Castello della Fawara e la fruizione del parco di Maredolce in via Giafar.
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1.3 La cappella dei SS. Filippo e Giacomo 1.3.1 Descrizione
La tipologia iconografica della Cappella di S. Filippo a Maredolce, è ad aula rettangolare con l’unica navata coperta da due volte a crociera. Il transetto è contenuto nella stessa dimensione del rettangolo della navata, sul fondo si apre un abside centrale, illuminata da una finestrella, e due più piccole laterali, tutte ricavate nello spessore della muratura. Il transetto è diviso dalla navata da un’iconostasi, trattandosi di una cappella dove veniva celebrato l’ufficio “alla greca”. Al centro del transetto si sviluppa una piccola cupola con quattro finestrelle aperte sul tamburo, innestate su quattro cuffie. Alla destra e sinistra delle due absidiole si aprono due piccoli vani nel muro, protesis e diaconicon. Il transetto è illuminato da due finestre poste sui lati corti. La navata è illuminata solo sul lato nord-ovest, da quattro finestre poste senza corrispondenza geometrica, salvo le prime due vicine all’iconostasi. Sulla parete sud-est si trova una nicchia rettangolare, Goldschmidt supponeva che si trattasse di una porta, ma Guiotto durante i lavori di restauro del 1948 potè osservare che si trattava di un incasso a muro, probabile armadio per arredi sacri. L’ingresso alla cappella è dal vic. Castellaccio, un altro oggi tompagnato, comunicava con la cosiddetta “aula regia”. Tratto da: Scheda ANISA redatta da S.Braida, 1985
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1 Pianta della cappella dei SS. Filippo e Giacomo 2 Prospetto della Cappella su via Castellaccio 3 Confronto tra le cupole di San Cataldo, San Giovanni dei Lebbrosi, Trinità di Delia, San Giovanni degli Eremiti 4 Assonometrie di chiese arabo-normanne in Sicilia tra cui si nota anche la Cappella dei SS. Filippo e Giacomo 5 Sezione longitudinale della Cappella
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1.3.2 Note storico-critiche
La Cappella di S.Filippo a Maredolce, ha una grande analogia iconografica con le chiese del suo rango, cioè le cappelle palatine, in particolare con quelle del Castello del Parco (Altofonte) e della Zisa. La sua tipologia può estendersi anche ad altri esempi quale la Palatina di Palermo e la Cappella del Castello di Caronia; inoltre il suo tipico organismo di pianta basilicale assemblata con una pianta centrica a cupola, trova esempi anche in Calabria: San Giovanni Vecchio di Stilo, Santa Maria di Tridetti, e S. Eufemia in San Severina. La cappella di Maredolce come quella del Parco presenta all’esterno la cupoletta coronata da una serie di piccole mensole poste nella parte alta quasi a simboleggiare l’appartenenza a un palazzo reale. Mongitore nel 1731 durante una visita alla cappella ormai in disuso, e trasformata in stalla, lascia una memoria di alcuni resti di decorazione pittorica sia nel cupolino che vicino all’iconostasi. La cappella è stata riaperta al culto nel 1974. Tratto da: Scheda ANISA redatta da S.Braida, 1985
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1.4 Il restauro 1.4.1 Analisi storico-artistica emersa dall’indagine per il progetto di restauro della sovrintendenza dei BB.CC.AA. di Palermo Nel panorama architettonico palermitano del XI e XII secolo il Qasr Ga’far, meglio conosciuto come Castello di Maredolce, può costituire oggi, dopo i recenti lavori di restauro, il caposaldo di riferimento per lo studio e la migliore comprensione della produzione palazziale di epoca normanna, denominata dalla storiografia come architettura arabo normanna. Cosi come già aveva supposto Michele Amari la fondazione del castello sembrerebbe risalire all’emiro Ga’far, figlio di Abu’l Furuh Yussuf, e secondo quanto riferito dal monaco Amato, che scrisse delle vicende dei Normanni anteriori al 1078 parlando dell’occupazione di Palermo, sappiamo che il castello venne assediato e danneggiato: “...fu preso un palazzo con giardini dilettevoli e pieni di frutta che si ebbe il Principe; e di là il Conte passò al castello Giovanni... “inserito nel cosiddetto Parco Vecchio, per l’armonia tra il verde, l’acqua e i corpi architettonici fu sempre decantato dai poeti arabi come uno dei massimi luoghi di delizia dei re normanni. Restaurato da re Ruggero, che regolarizzò e contornò con una diga il lago, appartenne al demanio regio fino al 1328 quando Federico II d’Aragona lo cedette ai Cavalieri Teutonici, i quali lo trasformarono in ospizio. Successivamente abbandonato dai teutonici fu concesso, dopo il 1460, ai Bologna che vi impiantarono un’azienda agricola. Venuta in possesso, dopo un ulteriore periodo di abbandono, di Francesco Agraz duca di Castelluccio tra il 1777 e il 1778, sotto la direzione dell’architetto E.Cardona, vi furono eseguiti tutta una serie di lavori per meglio adattarlo ad usi agricoli. Il lago, tanto decantato, si era ormai prosciugato e nel suo bacino venne impiantato un agrumeto. Caduto nuovamente in abbandono passò in mani private che lo frazionarono in varie unità abitative, apportandovi aggiunte destinando gli ambienti ad usi diversi. Finalmente pervenuto al demanio della Regione questa ne ha affidato il restauro alla Soprintendenza BB.CC.AA di Palermo. Il castello si sviluppa intorno ad un cortile pressoché quadrangolare circon-
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data su tre lati dalle acque del lago, è interrotta sul fronte nord ovest da tre grandi aperture: la prima, da sinistra, immette attraverso un percorso a gomito controllato da alcuni ambienti, di cui in occasione dei recenti lavori di restauro si è potuto mettere in luce lo spiccato delle murature obliterate dalle superfetazioni avvenute nel tempo, che dovevano probabilmente ospitare il corpo di guardia, nel cortile; la seconda apertura costituisce l’ingresso alla cappella palatina. Questa, per la sua impostazione planimetrica, mostra i caratteri derivati dall’unione della basilica cristiano-latina e della chiesa greco-bizantina evidenziati dalla presenza di un muro nel quale si apre uno stretto arco trionfale, che separa la nave dal presbiterio dotato di tre absidi ricavate nello spessore murario. Al centro del presbiterio si innalza una cupoletta, coronata all’esterno da una serie di mensolette, con il tamburo raccordato al quadrato di base da quattro nicchie angolari pensili. Il terzo varco immette in una sala rettangolare caratterizzata sulla parete sud-est dalla presenza di un’alcova conclusa superiormente da una volta a padiglione pieghettata esemplata su modelli persiani e simile a quelle presenti nel castello Baronia e dell’Uscibene. A questa sala si addossa perpendicolarmente, lungo la parete sud-ovest, un altro più vasto ambiente, che parimenti al primo ha un’altezza superiore agli altri, i quali con andamento seriale si sviluppano lungo tutto il perimetro del cortile caratterizzando così l’impianto. Questa teoria di ambienti si interrompe lungo lo spigolo sud, per lasciar posto ad un altro ambiente di maggior volume, che come gli altri si evidenzia all’esterno per la maggiore altezza. Questa grande sala anch’essa coperta a volta leggermente ogivale con crociera centrale, presente sul fronte sud-est, che guarda verso l’isoletta, un quarto grande varco, attraverso il quale in origine si accedeva da un pontile in legno a cui attraccavano le dorate barchette per trasportare sull’isola l’Emiro, prima, e i re normanni poi. Il ritmo delle piatte archeggiature,che rimandano a stilemi fatimiti,
1 Particolare del sistema costruttivo utilizzato per le ricostruzioni 2 Vista della corte del Castello dopo gli interventi di restauro
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presente su tutti i prospetti, è contenuto sul fianco sud ovest tra due archeggiature accostate che nelle ricostruzioni ideali del secolo scorso erano state ipotizzate essere due bifore . a cura di: Arch. M. Scognamiglio Arch. M. Corselli
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1.4.2 Elaborati grafici
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1 Pianta del Castello della Fawara 2 Prospetto Nord-Ovest dopo il restauro 3 Prospetto Nord-Est dopo il restauro
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4 Prospetto Sud-Est dopo il restauro 5 Prospetto Sud-Ovest dopo il restauro
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1.5 Iniziative di sensibilizzazione
25 maggio 2001 Palermo apre le porte: week-end con gli studenti ciceroni tra Parco d’Orleans, Piana dei Colli, Antiche sorsate e centro città Si può scegliere di fare un gira nel Parco D’Orleans immergendosi nella vegetazione fino ad arrivare all’antica Camera dello scirocco o di visitare le antiche ville della Rana dei Colli. Si possono attraversare le Antiche Borgate tra chiese e baffi; sì può percorrere lo Stradone di MezzoMortreale per vedere la Necropoli Punica o semplicemente fare un giro in centro città con un occhio a chiese, cappelle e Ville. “Palermo apre le porte. La scuola adotta un monumento” giunge al week end conclusivo e sabato 26 e domenica 27 maggio offre a cittadini e turisti l’ultimo fìtto elenco di monumenti noti e meno noti da visitare. Sono cinque gli itinerari percorribllì, e 31 i monumenti aperti al pubblico dalle 9 alle 13 e dalle 1530 alle 19: “Parco D’Orleans”, “Le Ville della Rana dei Colli e di San Lorenzo”, le antiche borgate”, “lo Stradone di MezzoMonreale” e “Centro Città”. Tutti gli itinerari, tranne “Centro Città”, sono percorribili in autobus con partenza da Piazza Politeama alte 9 e alle 15. Il consulente dell’Amministrazione per “’Palermo apre te porte”, Rita Cedrini, sabato 26 maggio alle ore 10 farà visita all’istituto Pignatelli dì vìa Florio» alle 11 sarà a Villa Falcone e Morbillo in via libertà» alle 12 al Giardini d’Orleans in via Basile ed alle 13 alla Vìgnicella in via la Loggia. Domenica 17 maggio il Commissario Straordinario Guglielmo Serio visiterà alle 10 il Castello di Maredolce in vicolo Castellaccio, alle 11 sì sposterà alla Chiesa di San Ciro in via Gìafar ed alle 12 a Villa Marraffa in via Scannaserpe. Sono quattro i monumenti di nuova adozione inseriti negli itinerari di questo fine Settimana: - Museo dell’istituto d’Arte - piazza Turba 71 - Villa Savana (XVIII secolo} -via San lorenzo,, 197 - Statua della Libertà (XX secolo) - piazza Vittorio Veneto - Villa Falcone e Morvillo (ex parterre Garibaldi, XIX secolo) - vìa Libertà, di fronte
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ai Giardino inglese. Inoltre, è possibile fare un giro - con la guida del Rangers - anche lungo i Sentieri delia Favorita per vedere le Scuderie Reati» il Sentiero Piazzi e la Grotta Niscemi, adottati dalla scuola media Piazzi, in programma nel primo week end della manifestazione, ma che a causa delle avverse condizioni dìroatìche non sono slati aperti ai visitatori, Domenica 17 maggio resterà chiusa nelle ore pomeridiane la necropoli Punica. Sono numerose le manifestazioni collaterali organizzate dagli alunni delie scuole che aderiscono airintziativa. All’Istituto Ptgrjafceili, adottato dalla scuota Inedia “Florio”, sono allestite Mtm mostra di auto stortene ed una dal titolo: “Donne aristocratiche e proletarie*’. Quest’ultima ripercorre e ricostruisce con l’ausìlio di pannelli e materiale grafico* la vita delle donne palermitane nella belle époque della fin sto siede, con particolare riguardo alie vicende del Florfo. E’ possibile vedere biglietti da visita d’epoca appartenuti a Franca FSorio o i menu dei suoi ricevimenti,, spaziare dalia sezione moda dove sono esposti figurini delfSOO parigini a quella musicale dove è documentata la creazione di una orchestra per precìsa volontà di un gruppo di mobìittonne particolarmente attive In città. A fare da contorno alle mostre, una Controdanza, baita nobile dì origine francese,, “comandai»” in siciliano e messo in scena a partire dalle ore 10 di sabato 26» dagli alunni della “Fiorò”. Gli alunni della succursale delia scuoia media “Quasimodo” che hanno adottato fa Chiesa di Maria Ss del Canneto in via Decollati (itinerario “Le Antiche Borgate**)» espongono invece una approfondita ricerca sull’origine dei. Carretti siciliani. In contemporanea* è prevista una manìfestazmne delle Forze Armate, Quanti invece vorranno visitare il Castella di Maredolce in vicolo Castellacelo, potranno vedere anche ìa cripta» con storia e leggende illustrate dagli studenti, delia “Quasimodo”. Davanti te Chiesa di San Ciro (via Gtafar) invece, adottata dagli alunni detta media “Cesareo” sabato 26 alle ore 10 è previsto un concerto con canti popolari
e brani strumentali eseguiti dal “Cesareo Ensambte15,
24 aprile 2002 Il progetto “Recuperare Brancaccio”
L’opinione degli alunni Nel realizzare il lavoro su Maredolce una frase che ci ha colpito è stata la seguente: “I monumenti sono il simbolo della cultura che li ha prodotti”. Guardando oggi il Castello ci chiediamo:”Ridotto in questo stato Maredolce è il simbolo di quale cultura?”. È il simbolo della cultura del degrado e della cultura che “dimentica” il passato. Noi la rifiutiamo e attraverso questo lavoro vogliamo riappropriarci della nostra vera identità culturale. 13 aprile 2000 Una mostra sul Castello di Maredolce nella biblioteca di quartiere di Borgo Nuovo Nei locali della biblioteca di quartiere di Borgo Nuovo (Largo Pozzillo, I) sarà 16.30 la mostra sul tema del castello di Maredolce. la mostra rientra nel programma d’attività di rilancio del servizio urbano territoriale. Sono state pertanto coinvolte le forze operanti sul territorio {parrocchie. associazioni di volontariato, scuole). La mostra itinerante, già esposta nella biblioteca di Brancaccio, nasce dalla collaborazione con la scuola media Quasimodo. Sul territorio di Borgo Nuovo é stato coinvolto il centro anziani che darà come contributo la memoria storica sul castello. L’esposizione si potrà visitare fino al 30 Aprile tutti i giorni, tranne la Domenica, dalle ore 9 alle 18.
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Auspichiamo che dietro la nostra proposta contenuta nel documento “Recuperare Brancaccio” del 24 aprile 2002 ci sia un consenso, il più ampio possibile, di tutte le forze politiche e sociali. In questo modo l’impegno per “Recuperare Brancaccio” potrà essere avvertito come un contributo di tutte le forze sane della nostra città. La presenza dei locali abbandonati della via Hazon 18, diventati simbolo della sconfitta delle istituzioni a Brancaccio e della vittoria della cultura mafiosa, certamente non offrono speranza alla gente; pertanto e` necessario operare per cominciare a dare ai tanti rassegnati il diritto di realizzare un avvenire dignitoso nel luogo dove vivono. Secondo il nostro intendimento, l’acquisto da parte del Comune dei locali della via Hazon 18 deve essere il presupposto perché possa iniziare l’opera di recupero del quartiere Brancaccio. E` chiaro che non serve comprarli e basta. Il recupero, secondo la nostra idea, può essere legato alla ricchezza del patrimonio storico del quartiere: dal periodo arabo e normanno, passando per il risorgimento, al periodo recente legato al ricordo degli avvenimenti che hanno visto protagonista padre Puglisi a Brancaccio. Una ricchezza da sfruttare per dare impulso ad una economia di tipo turistico. Per favorire l’attivita` turistica nel quartiere Brancaccio è importante stabilire un percorso storico-turistico: Chiesa di San Ciro sotto il monte Grifone; Castello di Maredolce; chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi; Ponte Ammiraglio; chiesa di San Gaetano e padre Puglisi. A supporto di questo itinerario nei locali ristrutturati della via Hazon 18 si possono insediare: 1. nucleo distaccato di polizia municipale anche motorizzata per garantire la sicurezza dei cittadini e dei turisti.
2. Call center (privato o pubblico) che abbia il compito di dare informazioni sul servizio turistico organizzato nel quartiere: •disponibilità dei mezzi di trasporto pubblico o privato per raggiungere il quartiere; •prenotazione posti nei ristoranti e negli alberghi più vicini al quartiere; •informazioni sull’itinerario turistico e quello che ripercorre i più bei momenti della vita francescana e missionaria di padre Puglisi: visite nella parrocchia di San Gaetano, nella delegazione di Quartiere, nella casa di padre Puglisi, escursioni a Godrano con partenza da Brancaccio. 3. Agenzia di operatori turistici con il compito di raccontare le vicende storiche del quartiere e quelle riguardanti la vita di padre Puglisi. 4. Nello spiazzo largo di via Biondo si può realizzare un servizio di bus-navetta che consenta ai turisti di muoversi agevolmente nel percorso storico-turistico previsto all’interno del quartiere Proposta dell’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio
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24 aprile 2002 Appello dell’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio di Palermo alle associazioni e ai semplici cittadini Recuperare il quartiere Brancaccio di Palermo si può, nonostante i drammatici eventi di questi giorni che ci spingono a pensare che questo territorio abbia un destino ormai segnato. Ricordare i fatti che hanno coinvolto Brancaccio, il duplice omicidio di due pregiudicati della via Hazon 18 e i casi di pedofilia, ci fanno provare vergogna ma non possiamo chiuderci in essa, rassegnarci. C’è bisogno di reagire se non vogliamo che un intero agglomerato abitativo continui ad essere sentito dall’opinione pubblica come l’inferno dal quale stare il più possibile lontano. E’ questa, vi assicuro, la sensazione che prova, ancora di più oggi, il resto della città nei confronti della via Hazon e dintorni del quartiere Brancaccio. Il sacrificio di padre Puglisi non è servito ? In questi otto anni chi aveva preso l’impegno di farsi carico del riscatto di Brancaccio nel nome del sacerdote assassinato dalla mafia ha portato il quartiere a sprofondare sempre di più. Quanta ipocrisia e quanti ipocriti ancora in giro per Palermo ! Scusatemi lo sfogo. Ma ora la cosa importante è provare a ripartire e in questo l’Associazione Intercondominiale ha bisogno del sostegno e dell’aiuto di molti. Abbiamo lanciato la nostra proposta al Comune di Palermo e ad altri enti istituzionali, di acquistare i locali abbandonati ubicati nell’edificio di civile abitazione della via Hazon 18 ... per adibirli a strutture recettive per le attività istituzionali che favoriscano il controllo del territorio (per esempio, un nucleo distaccato di vigili urbani). Sarebbe importante in questi giorni fare arrivare la vostra voce di sostegno alla nostra richiesta al Sindaco di Palermo. Potreste inviare il seguente Fax : sosteniamo la richiesta dell’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio (acquisto locali piano terra e cantinato della via Hazon 18) contenuta nella lettera
datata 24 aprile 2002, dal titolo “Recuperare Brancaccio” trasmessa a lei e ad altri tre assessori della sua giunta. Il numero di Fax del Sindaco di Palermo è: 091 333267. Per conoscenza vi prego di inviarlo all’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio al seguente numero di Fax: 0916682083. Profitto dell’occasione per informarvi che il 2 maggio ha avuto luogo la sesta udienza del processo per le porte di casa bruciate a tre componenti della nostra associazione (Romano, Guida e Martinez) il 29 giugno del 1993, tre mesi prima dell’omicidio di padre Puglisi con il quale abbiamo intensamente collaborato. Imputati i fratelli Graviano, boss mafiosi di Brancaccio, + altri quattro, contro i quali ci siamo costituiti “parte civile”. Per maggiori informazioni sull’attività di padre Puglisi e il Comitato Intercondominiale contattare il sito web www.angelfire.com/ journal/puglisi. a cura di: Pino Martinez per l’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio
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Analisi del contesto
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Analisi del contesto
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2.1 Considerazioni generali
La fase di analisi del territorio, condotta attraverso l’elaborazione di una serie di cartografie tematiche, ha permesso di individuare gli elementi costitutivi e gli ambiti spaziali di questa struttura territoriale. Si sono evidenziati gli elementi dell’impianto agricolo storicamente formato, mettendo in evidenza il loro ruolo nella definizione degli specifici rapporti d’insieme ed il loro grado di persistenza, con l’obiettivo di valutare in sede di progetto l’opportunità di programmare interventi di conservazione, recupero, ripristino o sostituzione, in base al loro valore intrinseco di beni architettonici e ambientali. Si sono così distinti gli elementi costitutivi ancora esistenti, individuandoli in riferimento alle varie fasi storiche che hanno accompagnato le trasformazioni del territorio, e gli elementi appartenenti alla struttura urbana cogliendone le “non regole” di trasformazione in relazione al territorio agricolo. L’attuale quartiere Brancaccio si estende in una porzione di quella vasta area suburbana che a partire da XIII sec. era genericamente chiamata “Contrada Cassarorum”. A partire dal XVII secolo si assiste alla creazione, da parte della nobiltà, di numerosi villaggi e tra questi Brancaccio. Il quartiere prende il nome dal governatore e amministratore della città di Monreale : Antonio Brancaccio, proprietario di vasti appezzamenti di terra nella contrada . Egli nel 1747 farà costruire la chiesa dedicata a S.Anna che, successivamente divenuta parrocchia, verrà intitolata a S.Gaetano da Thiene e a Maria SS del Divino Amore. La famiglia Brancaccio, di origine napoletana, si era stabilita a Palermo nel corso del XIV sec..Dopo il 1860 , la città è divisa in sei mandamenti, quattro interni: Tribunali, Castellamare, Monte di Pietà e Palazzo Reale e due esterni: Molo e Oreto. La Borgata insieme con quella di Mezzomonreale, Porrazzi, Conte Federico, Falsomiele, Villagrazia, faceva parte del mandamento Oreto. Nel 1873 abitavano in Brancaccio 446 persone secondo i dati del
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Censimento. Il quartiere aveva inizio fuori Porta Garibaldi, con Corso dei Mille da dove il 27 maggio del 1860 entrò Garibaldi in città con i suoi Mille, e proprio sotto gli archi del Ponte Ammiraglio, (interessante manufatto di epoca normanna costruito tra il 1113 e il 1132 che sino al 1876 sovrastava il fiume Oreto prima che il suo corso fosse deviato) si scontrarono all’arma bianca i garibaldini e le truppe borboniche. Esistevano nel quartiere dei mulini pastifici, oggi non piu’ in uso: Pecoraino, Giarrizzo, Petix. Nel quartiere esistono due lavatoi, uno si trova in Via Brancaccio e l’altro in via Conte Federico. Il Castello della Fawara costruito (secondo l’Amari) come residenza di campagna dall’Emiro Giafar (997-1019)e successivamente ampliato da Ruggero II (1130-1154) che trasformò l’edificio, era circondato da un lago artificiale e da giardini rigogliosi, alimentati dalle acque delle sorgenti (da cui Favara dall’arabo FAWARA= sorgente) del vicino Monte Grifone, che incanalate, sgorgavano dai tre archi ,ancora oggi visibili, nei pressi della chiesa di San Ciro. Ancora oggi rimane traccia delle banchine che delimitavano lo stesso lago; al centro un’isola di forma allungata lo divideva in due. Intorno alla vegetazione lussureggiante, formata da agrumeti e palme, il castello si rispecchiava nelle limpide acque animate da pesci e uccelli esoticiAltro monumento che un tempo sorgeva isolato nella campagna palermitana, nelle vicinanze del quartiere, e’ la chiesa di San Giovanni dei lebbrosi che fu fondata da Roberto il Guiscardo e dal fratello Ruggero nel 1071, anno della conquista normanna di Palermo, avvenuta dopo cinque mesi d’assedio. Federico II concesse chiesa ed ospedale all’Ordine Teutonico della Magione. Tra il 1920 e 1930 l’edificio verra’ restaurato e saranno eliminate le aggiunte barocche. L’edificio presenta una pianta basilicale a tre navate divisa da robusti pilastri che formano due serie di quattro arcate a sesto leggermente acuto. Riferibile al periodo arabo è invece la cosiddetta grotta della Regina Costanza ubicata in via dei Cavallacci. “All’ingrottato si
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accede attraverso una scaletta scoperta intagliata nel tufo, al piede della quale sino a qualche anno fa, scaturiva una polla d’acqua freschissima. Segue una grotta di forma circolare. dalla quale si penetra in grotticelle minori. Le pareti della scala sono decorate con frammenti marmorei e pannelli di ceramica in stile pompeiano. Il tutto chiaramente rivela una riutilizzazione in tempo non molto antico, ottenuta anche mediante la decorazione con materiale eterogeneo e di varia provenienza. Chi aveva operato questa trasformazione creo’ anche la favola della Regina Costanza, che secondo quanto ancora vi riferiscono gli abitanti della zona, dal non lontano castello di Maredolce, attraverso un viale fiancheggiato da palme, si recava nella grotta per bagnarsi nelle fresche acque della sorgente. Autore di quest’arrangiamento fu un commerciante di origine boema, certo Langer. “A nostro avviso la grotta, per le sue precise caratteristiche, per la sua conformazione e soprattutto per la presenza di una sorgente interna, deve considerarsi un antico bagno di origine araba” così si esprime il La Duca sulla grotta. Oggi il quartiere Brancaccio e’ molto cambiato rispetto alla borgata immersa nei giardini del XVIII sec. Tuttavia la sua storia, i suoi monumenti, testimoni di un passato illustre, fanno parte di quel bagaglio culturale di cui andare orgogliosi, per guardare al futuro .
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1.2.3.4 Ortofoto a varie scale dell’area d’intervento 5 Vista tridimensionale dell’area di studio, è evidente il rapporto tra il monte Grifone ed il mare
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Selvaggiamente urbanizzata a partire dal secolo dopoguerra, prosciugata sino a fare quasi scomparire il corso d’acqua che la attraversava, la valle del fiume Oreto era sino al secolo scorso una zona ricca di giardini coltivati e popolata da numerosi bagli e casene, in parte sopravvissuti allo stato di rudere. Il confine naturale rappresentato dalle anse del fiume e la scarsa espansione della città lungo questa direttrice sino alla fine del Settecento hanno mantenuto per lungo tempo le numerose emergenze architettoniche staccate dal contesto urbano; prima dell’apertura della via Oreto – realizzata a proseguimento della via Maqueda – la strada più antica era quella che si ripartiva da Porta Termini (denominata corso dei Mille dopo che le truppe Garibaldi la percorsero per entrare in città) e che conduceva lungo la direzione orientale dell’isola. La ricca presenza di reali e monasteri sino alle alture che sovrastano la valle dove re Ruggero impiantò il parco reale; e anche successivamente numerosi sorsero conventi e chiese.
In territorio, in quanto realtà naturale, ambientale e culturale, ha proprie regole di conservazione e d’uso che, qualora ignorate o violate, portano al dissesto, alla distruzione, al degrado. I luoghi sono sempre dotati di una propria “individualità” che costituisce la loro facies culturale, il loro essere prodotto di comunità, che ne dovrebbero rispettare l’ordine interno di configurazione e mantenimento: la loro tradizione.non può sussistere paesaggio senza trasmissione di sapere, cultura e stile specifici del territorio. La tradizione dei luoghi è un processo dinamico di selezione e valorizzazione del patrimonio che costituisce una cultura nel suo inconfondibile profilo differenziale; in cui si è mantenuta la riconoscibilità delle “matrici formali” che la hanno prodotta e che dovrebbero costituire il criterio fondamentale di ogni progetto che riguarda quel luogo, i suoi abitanti ed i suoi fruitori. “Conservare” significa “tenere presso di sé” (cum-serbare), preservare nella cura, trattenendolo dalla sparizione, ciò che si ha a cuore. Solo coloro che ereditano consapevolmente potranno accedere al futuro. Come appuntava F. Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è colui che è dotato di più lunga memoria, e quindi di più solidi ancoramenti. È questo il motivo che ci ha portato ad indagare sulle radici storiche del degrado ambientale socio-ambientale attuale del quartiere Brancaccio a Palermo. Solo da questa corretta analisi, dalla presa di coscienza civile che ne dovrà scaturire, potrà nascere un progetto socialmente condiviso di restauro ambientale e rinascita urbana e culturale in questa parte della città. a cura di: Prof. Arch. Carmelo Montagna
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6 Foto storica della piana di Palermo 7 Ortofoto della città di Palermo e del suo territorio a Sud
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2.2 Tridimensionalità territoriale
Il mare, la piana, una corona di montagne. Questi componenti di quel teatro naturale nel cui seno nasce e si sviluppa Palermo, nel conturbante profumo della macchia mediterranea , che da terra ondeggia verso il mare. La costa è dotata fin dall’antichità di numerosi punti di approdo e favorisce la crescita di tanti piccoli villaggi di pescatori. Presso una profonda insenatura a fronte di una collina ben difendibile, si innesta la città antica e il suo porto. Cornice naturale della grande piana, un concavo fondale di montagne difende la città antica dal lato interno e mitiga la forza dei venti. La costa orientale si estende da Palermo a capo Mongerbino con largo arco che abbraccia gran parte del golfo palermitano. La strada litoriana ha inizio dal piano di S. Erasmo con la via Ponte di mare, così detta da un antico ponte che qui attraversava la foce dell’Oreto . Proseguendo quindi con la via Messina Marine lungo la costa si innesta la via Giafar fondamentale asse di collegamento tra il mare e il Monte Grifone, ultimo monte che racchiude ad est il territorio palermitano. La lettura tridimensionale dello scenario progettuale si propone di descrivere sensorialmente lo spazio. Addentrandosi da via Brancaccio si racconta di piccole costruzioni a due o tre piani accostate tra loro e di diverse tonalità, di rado intervallate da palazzi di considerevole altezza. Arrivati alla via Giafar la percezione del castello è minima, ostacolata dall’abusivismo edilizio che, come una vegetazione parassita, si è fatta spazio su tutto il suo perimetro; dinanzi alla piazza, infatti, si riesce a scorgere solo la parte più alta del castello e la cupola della cappella. Percorrendo il vicolo castellaccio si accede al meraviglioso parco, immensa distesa di agrumeti dal profumo inebriante. All’interno del parco si può ancora leggere il perimetro del lago definito dalla cortina edilizia dell’antica borgata e l’isolotto al centro mantiene tutt’ora la sua antica altimetria. Cornice naturale al contesto, il monte Grifone (m 832); sulla sinistra, all’inizio della
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strada per Belmonte Mezzano, si intravedono tre arcate sotto le quali scaturiva l’acqua che alimentava il lago di Maredolce. Poco oltre è la chiesa di S. Ciro, grossa costruzione eretta tra il 1735 e il 1737 ed oggi in rovina. Sui fianchi del sovrastante monte, poco al di là della chiesa si trovano cinque grotte scavate dai flutti marini tra il periodo secondario e terziario: la più vasta è quella detta dei giganti dove fu rinvenuta una grande quantità di ossa fossili della prima epoca quaternaria. Uno scenario naturale, quello che si percepisce dal parco, così diverso dal resto del cotesto urbanizzato. Sulla via Giafar l’area industriale di Brancaccio è caratterizzata da edifici a torre che raggiungono anche otto elevazioni e che ostacolano la visuale dell’agrumeto; numerose sono anche le costruzioni abusive lasciate incomplete. L’area della ferrovia che corre lungo tutto il margine destro del parco costituisce un margine impenetrabile se non attraversandolo da tre passaggi a livello che costituiscono, a loro volta, tre rallentamenti alla circolazione. L’estensione smisurata dell’area ferroviaria per lo stoccaggio dei containers costituisce un vuoto nel territorio urbano che non permette l’omogenizzazione delle parte a monte e a valle del quartiere, favorendo una zonizzazione tipologica fortemente marcata. Contrappone, infatti, un’area di carattere industriale e commerciale ad un’area a carattere residenziale. Marcano il paesaggio gli innumerevoli viadotti che disegnano una nuova percezione spaziale delle aree urbane. Tra i più importanti il viadotto dell’autostrada A19 Palermo Catania che taglia con la sua mole il parco di Maredolce creando con le proprie otto corsie un vero e proprio margine tra la parte a monte e valle isolando, in questo modo la chiesa di S. Ciro. Altro viadotto importante è quello di via Giafar che consente a chi percorre l’autostrada di entrare nel quartiere Brancaccio sovrapassando l’Autostrada A 19, costituendo una inadatta porta a sud della città. Nonostante la suo impatto paesaggistico,
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1 Assi ottici del paesaggio 2 Orografia del territorio di Palermo 3 Pianta topografica del territorio di Palermo e profilo dei monti che cingono la piana di Palermo, B. Strackwitz, 1825
tale viadotto, risulta inadeguato alla portata del traffico che si trova a sostenere. Infine, l’altro viadotto della via Giafar consente il sovrappasso dell’area ferroviaria di Brancaccio industriale ed altera radicalmente la percezione visiva del territorio dal lato a monte. I margini così netti dell’autostrada A19 e dell’area ferroviaria rendono evidente la non permeabilità del territorio impedendo qualsiasi attraversamento, se non puntuale, e ostacolando un’evoluzione omogenea del tessuto urbano. La presenza di infrastrutture così pesanti per un ambito urbano, per di più concentrate in un lembo di territorio così esiguo, ghettizza per aree il quartiere non permettendo la comunicazione tra esse ed impedendo a chi affronta la questione urbana di procedere con un’ottica globale, necessaria per la risoluzione definitiva delle problematiche principali del quartiere, quali, il suo rapporto con il centro urbano e la relazione tra le sue parti che risultano scompaginate e illeggibili nel loro insieme.
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La grotta della Regina Costanza Riferibile al periodo arabo è invece la cosiddetta grotta della Regina Costanza ubicata in via dei Cavallacci. “All’ingrottato si accede attraverso una scaletta scoperta intagliata nel tufo, al piede della quale sino a qualche anno fa, scaturiva una polla d’acqua freschissima. Segue una grotta di forma circolare. dalla quale si penetra in grotticelle minori. Le pareti della scala sono decorate con frammenti marmorei e pannelli di ceramica in stile pompeiano. Il tutto chiaramente rivela una riutilizzazione in tempo non molto antico, ottenuta anche mediante la decorazione con materiale eterogeneo e di varia provenienza. Chi aveva operato questa trasformazione creo’ anche la favola della Regina Costanza, che secondo quanto ancora vi riferiscono gli abitanti della zona, dal non lontano castello di Maredolce, attraverso un viale fiancheggiato da palme, si recava nella grotta per bagnarsi nelle fresche acque della sorgente. Autore di quest’arrangiamento fu un commerciante di origine boema, certo Langer. “A nostro avviso la grotta, per le sue precise caratteristiche, per la sua conformazione e soprattutto per la presenza di una sorgente interna, deve considerarsi un antico bagno di origine araba” così si esprime il La Duca sulla grotta.
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5 Fotografia attuale della costa urbanizzata in corrispondenza con il monte Grifone 6 La piana vista da Monreale 7 Vista tridimensionale della città di Palermo 8 Vista tridimensionale dell’area di studio con il monte Grifone, la zona di Maredolce ed il taglio longitudinale dell’autostrada
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2.3 Infrastrutture e viabilità
L’area di espansione a sud è divisa dalla circonvallazione in due parti con caratteri molto diversi ; quella verso il mare, l’area industriale di Brancaccio, si caratterizza per la presenza di una vasta area industriale, per le attrezzature balneari di trasporto e stoccaggio delle merci, i grossi nuclei di edilizia popolare e di borgate molto degradate; quella a monte, specie la zona Croceverde-Ciaculli, conserva ancora caratteri urbanistici sociali e produttivi di tipo rurale, con le villette monofamiliari e le vecchie abitazioni rurali. L’area oggetto di studio si sviluppa al margine della circonvallazione A19 Messina Catania; è raggiungibile da questa immettendosi nello svincolo per via Giafar, principale asse viario che collega l’area di studio dal monte al mare. Infatti dal centro storico è possibile raggiungere il sito percorrendo la via Messina Marine e svoltando a destra per via Giafar, oppure proseguendo per Corso dei Mille e svoltando a destra per via Brancaccio. L’area è caratterizzata dalla presenza della stazione del passate ferroviario di Brancaccio industriale e di Brancaccio residenziale; quest’ultimo collega l’area alla Stazione Centrale e prosegue fino all’aeroporto di Punta Raisi.
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1 Le principali strade che regolano la circolazione ed i collegamenti 2 Il progetto del trasporto pubblico a Palermo realizzato dal Comune 3 I principali collegamenti all’interno del territorio costiero di Palermo
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Il piano del trasporto pubblico a Palermo Una nuova linea di metropolitana leggera automatica che attraversa la città dallo svincolo di via Oreto a Tommaso Natale – Partanna Mondello; un anello ferroviario sotterraneo in corrispondenza dell’area urbana con maggiore densità di servizi pubblici e commerciali; tre linee di tram per collegare le periferie con il centro; e infine, il raddoppio del passante ferroviario da Brancaccio all’aeroporto di Punta Raisi. Sono le opere previste dal Piano integrato del trasporto pubblico di massa, presentato sabato 2 marzo 2002 in conferenza stampa dal sindaco Diego Cammarata, nel quadro dei progetti a medio e lungo termine avviati per realizzare a Palermo un sistema di mobilità più capillare ed efficiente. Il piano prevede, complessivamente, una spesa di 2.109 milioni di euro, e garantirà importanti risvolti occupazionali, con nuovi posti di lavoro legati alle attività di cantiere, all’entrata in esercizio delle nuove infrastrutture e alle varie attività indotte. L’obiettivo è creare un sistema di linee con nodi e stazioni di interscambio che rendano agevoli sia gli spostamenti nel centro urbano, sia i collegamenti con le principali zone periferiche. I parcheggi in corrispondenza dei principali punti di snodo contribuiranno a ridurre il traffico veicolare privato nel centro urbano e, conseguentemente, anche l’inquinamento atmosferico. Ciò vale soprattutto per quelli di interscambio, dove sarà possibile lasciare l’auto per utilizzare uno o più mezzi del trasporto pubblico. Il piano del trasporto pubblico di massa si affianca ad altri interventi a breve e medio termine avviati per affrontare in modo strutturale il problema del traffico e della vivibilità in città. Fra questi, la delimitazione di una vasta area a traffico limitato, un piano parcheggi per creare una disponibilità di oltre 10 mila nuovi posti auto e le “zone blu” per la sosta tariffata lungo le strade cittadine.
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Le quattro grandi infrastrutture La metropolitana leggera automatica attraverserà la città dallo svincolo di via Oreto a Tommaso Natale – Partanna Mondello. Lo sviluppo totale della linea sarà di oltre 17 chilometri. Il costo complessivo della progettazione e della realizzazione sarà di 1.085 milioni di euro. È stato affidato l’incarico di elaborare il progetto preliminare dell’opera. L’anello ferroviario sotterraneo sarà una linea circolare lunga, complessivamente, 6 chilometri e mezzo: poco più di metà della linea esiste già, il tratto necessario per “chiudere” l’anello (circa 3 chilometri) è previsto nel progetto di completamento. Avrà in tutto otto fermate, quattro già esistenti e quattro da realizzare ex novo. Il costo complessivo sarà di circa 185 milioni di euro. E’ stata bandita il 26 maggio 2006 la gara d’appalto per definire il progetto esecutivo e affidare i lavori. Il sistema tranviario sarà composto da tre linee: dalla zona industriale Roccella alla Stazione Centrale, dal rione Borgo Nuovo alla stazione ferroviaria Notarbartolo e dal rione San Giovanni Apostolo (ex Cep) alla stazione ferroviaria Notarbartolo. Lo sviluppo complessivo sarà di circa 15 chilometri, il costo complessivo di quasi 235 milioni di euro. È stata aggiudicata la gara d’appalto per il completamento della progettazione e l’avvio dei lavori, previsto entro l’estate 2006. Il progetto del passante ferroviario prevede la realizzazione del doppio binario sulla linea Palermo - Punta Raisi (aeroporto), nel tratto fino a Carini (da Carini all’aeroporto la linea è già a doppio binario). Lo sviluppo totale sarà di 26 chilometri. Il passante attraverserà la città longitudinalmente con 18 fermate, 9 delle quali da realizzare nell’ambito del nuovo progetto. È stata aggiudicata la gara d’appalto per la stesura del progetto esecutivo e l’esecuzione dei lavori. Il costo complessivo dell’opera è di 623 milioni di euro.
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2.4 Analisi tipologica
L’area oggetto di studio è caratterizzata da insediamenti che si sviluppavano linearmente lungo la strada, con modelli tipologici molto compatti, le cui regole morfologiche erano dettate principalmente dalla minore occupazione del territorio agricolo di alto valore produttivo. Nelle cartografie del 1912 si individuano distintamente le due borgate Ciaculli e Croceverde Giardina, quest’ultima di dimensioni molto modeste. Altri nuclei abitativi consistenti si rinvengono lungo Corso dei Mille ed in prossimità del Castello di Mare Dolce. I fondi agricoli sono caratterizzati dalla presenza di bagli, distribuiti uniformemente sulla piana agricola, che conservano l’impianto originario dell’edificio agricolo e che in alcuni casi sono stati rinnovati e trasformati tra il sei ed il settecento in case per la villeggiatura. Il processo di urbanizzazione e infrastrutturazione che ha investito questo territorio negli ultimi decenni ha, infatti, certamente alterato alcune zone ma ha lasciato in gran parte immutati gli elementi ordinatori del territorio agricolo e degli insediamenti rurali che lo caratterizzavano. Gravi fenomeni di degrado ed abbandono si riscontrano invece nei inanufatti edilizi, che in alcuni casi hanno subito pesanti interventi di ristrutturazione o alterazione della tipologia originaria. Negli ultimi anni infatti si sono registrati numerosi casi di abusivismo che rischiano di alterare irreversibilmente l’assetto paesaggistico ed ambientale di questo territorio. Tale aspetto riguarda non solo l’edilizia abitativa ma anche l’occupazione di terreni agricoli e la loro trasformazione in epositi, aree di scarico ecc.. Ma il declino di questa area non si manifesta solo attraverso i segni evidenti che lascia l’edilizia abusiva o l’abbandono, ma anche attraverso un degrado diffuso dovuto alla mancanza di manutenzione di tutti quei manufatti che sono parte integrante
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della struttura di questo paesaggio agricolo, come ad esempio i muretti a secco dei terrazzamenti, le strabelle interpoderali, le infrastrutture irrigue.
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1.2.3 Destinazione funzionale: servizi, residenze, fronti commerciali 4.5.6 Consistenza edilizia: 1-2 piani, 3-4 piani, 5 o pi첫 piani 7.8 Il verde: orti privati, giardini pubblici 9 . 10 Ambiti con connotazione volumetrica omogenea: edifici a torre, edifici a stecca
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Uso del suolo Attraverso la documentazione del catasto del 1912 si è elaborata una carta dell’uso del suolo storica. Le informazioni riguardavano solo i fondi storici e pertanto la carta non è completa. Nonostante ciò è stato possibile ricavare un quadro abbastanza definito su come si presentava dal punto di vista colturale l’arca all’inizio di questo secolo (Carta uso del suolo 1912). L’area agricola di piana, che costituiva il territorio non solo più produttivo, ma anche dove vi era naturale disponibilità d’acqua, era già caratterizzata dalla presenza di estesi agrumeti. Si tratta per la maggior parte di limoneti anche se già si rileva una rilevante presenza di mandarineti. La coltura del limone fu la prima a diffondersi in un paesaggio che manteneva tratti di agricoltura in asciutto occupati dall’ulivo, dal vigneto e dal ficodindieto. Tale predominanza permane fino agli anni ‘20- ‘30, quando il diffondersi del mai secco insieme alla crisi dei derivati agrumari (citrati, essenze) porta alla completa sostituzione del limone con il mandarino. Il territorio di Ciaculli conferma pertanto il carattere agrumicolo, anche se ritroviamo ancora estese aree coltivate a vigneto, orti e frutteti. La fascia pedemontana è invece ancora caratterizzata da estesi oliveti, frassineti, sommaccheti e nei pendii più ripidi da prati e pascoli. L’espansione dell’agrumicoltura, e del mandarino in particolare, si concentra tra gli anni ‘30 ed gli anni ‘60, fino ad occupare tutto il territorio agricolo di Ciaculli fino sulle pendici, oltre quota 200 s.l.m.. Una grande opera di trasformazione colturale che comportò la realizzazione di estesverrazzamenti, stradelle, scalinate, sistemi irrigui. Opere realizzate in un arco di tempo relativamente breve e che solo un enorme valore economico del prodotto poteva giustificare. La situazione attuale, riportata sulla carta d’uso del suolo, conferma come coltura principale il mandarino, che occupa circa l’80% dell’attuale SAU, seguita dagli orti irrigui,
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14%, e dai limoneti (13 %) . Ridotta e sporadica risulta la presenza di altre colture frutticole (nespoleti, pescheti, uliveti) come dei seminativi (Carta uso del suolo). L’analisi dell’uso del suolo ha messo in particolare evidenza soprattutto la presenza di un forte fenomeno di abbandono dei terreni agricoli, in particolare lungo la fascia pedemontana terrazzata, 1 motivi di tale abbandono sono da ricercare negli alti costi di produzione che in tale fascia derivano soprattutto dalla assoluta impossibilità di utilizzare mezzi meccanici, dagli alti costi energetici (pompe di sollevamento dell’acqua) e dalla difficoltà di accesso. Si tratta di un fenomeno che si è accentuato negli ultimi anni anche per la crisi nel settore agrumicolo e che senza interventi innovatosi rischia di estendersi anche nell’arca agricola di piana. Si deve, comunque, sottolineare che l’abbandono dei terreni è in parte anche il risultato di una competizione interna alle fazioni di potere legate alle attività illegali, avvenuta negli anni ottanta, per esprimere un segno tangibile di un loro controllo del territorio. Inoltre l’elevato grado di parcellizzazione delle superfici aziendali, spesso di dimensione modesta, scomposte in appezzamenti che frequentemente sono di dimensione pari a poche migliaia di metri quadri, non consente di ottimizzare le risorse, gli investimenti e quindi ridurre i costi di produzione. Ciò di fatto rende difficilmente contenibile la pressione esercitata dalla speculazione edilizia. Negli ultimi anni infatti si sono registrati numerosi casi di abusivismo che rischiano di alterare irreversibilmente l’assetto paesaggistico ed ambientale di questo territorio. Tale aspetto riguarda non solo l’edilizia abitativa ma anche l’occupazione di terreni agricoli e la loro trasformazione in depositi, aree di scarico ecc.. Ma il declino di questa area non si manifesta solo attraverso i segni evidenti che lascia l’edilizia abusiva o l’abbandono, ma anche attraverso un degrado diffuso dovuto alla mancanza di
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manutenzione di tutti quei manufatti che sono parte integrante della struttura di questo paesaggio agricolo, come ad esempio i muretti a secco dei terrazzamenti, le strabelle interpoderali, le infrastrutture irrigue.
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1 Gli agrumeti di Ciaculli in una foto dell’archivio Cappellani d’inizio secolo 2 Uso del suolo 3 Tipi di coltivazione
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2.5 Analisi socio-economica
L’attuale quartiere Brancaccio si estende in una porzione di quella vasta area suburbana che a partire da XIII sec. era genericamente chiamata “Contrada Cassarorum”. A partire dal XVII secolo si assiste alla creazione, da parte della nobiltà, di numerosi villaggi e tra questi Brancaccio. Il quartiere prende il nome dal governatore e amministratore della città di Monreale : Antonio Brancaccio, proprietario di vasti appezzamenti di terra nella contrada. Egli nel 1747 farà costruire la chiesa dedicata a S. Anna che, successivamente divenuta parrocchia, verrà intitolata a S.Gaetano da Thiene e a Maria SS del Divino Amore. La famiglia Brancaccio, di origine napoletana, si era stabilita a Palermo nel corso del XIV sec. Dopo il 1860 , la città è divisa in sei mandamenti, quattro interni: Tribunali, Castellamare, Monte di Pietà e Palazzo Reale e due esterni: Molo e Oreto. La Borgata insieme con quella di Mezzomonreale, Porrazzi, Conte Federico, Falsomiele, Villagrazia, faceva parte del mandamento Oreto. Nel 1873 abitavano in Brancaccio 446 persone secondo i dati del Censimento. Il quartiere aveva inizio fuori Porta Garibaldi, con Corso dei Mille da dove il 27 maggio del 1860 entrò Garibaldi in città con i suoi Mille, e proprio sotto gli archi del Ponte Ammiraglio, (interessante manufatto di epoca normanna costruito tra il 1113 e il 1132 che sino al 1876 sovrastava il fiume Oreto prima che il suo corso fosse deviato) si scontrarono all’arma bianca i garibaldini e le truppe borboniche. Esistevano nel quartiere dei mulini pastifici, oggi non piu’ in uso: Pecoraino, Giarrizzo, Petix. Nel quartiere esistono due lavatoi, uno si trova in Via Brancaccio e l’altro in via Conte Federico. Nel processo di crescita della città mantiene fino al primo Novecento un ruolo funzionale specifico: quello di zona residenziale per le classi popolari. La popolazione immigrata, proveniente in maggior parte dal centro storico, è costituita da sottoproletariato urbano e da piccola borghesia impiegatizia.; poco significativa è la presenza della classe operaia nonostante la vicinanza dell’area industriale.
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1 I fronti che prospettano sul parco di Maredolce 2 Vicolo Castellaccio 3 I quartieri di Palermo con le relative popolazioni 4 Palermo vista da una delle torri di Brancaccio con all’estrema sinistra il monte Grifone
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2.6 Analisi storica-urbanistica
Le trasformazioni del paesaggio agrario
interessati da impianti di olivi, in estesi mandarineti.
L’analisi ha messo a confronto l’evoluzione degli insediamenti abitativi e la rete infrastrutturale, mettendo in evidenza gli elementi di nuova formazione che si sono via via sovrapposti alla struttura dell’impianto agricolo. L’obiettivo era l’individuazione dei rapporti di coerenza o di indifferenza che si sono verificati tra la struttura rnorfologica dell’impianto agricolo sedimentata nel tempo e gli elementi puntuali o lineari appartenenti al sistema urbano che si sono sovrapposti, assumendo solo talvolta come riferimento gli elementi costitutivi di questo territorio. Negli elaborati di analisi sono stati messi a confronto, in modo necessariamente sintetico, l’evoluzione degli insediamenti abitativi e della rete infrastrutturale alle date 1912, 1939, 1972, 1994, mettendo in evidenza gli elementi di nuova formazione che si sono via via sovrapposti alla struttura dell’impianto agricolo (Carta dell’evoluzione dell’insediamento).
dal 1939 al 1973 Alla fine degli anni ‘60 inizia il processo di crisi che investe fortemente gli elementi ordinatori della struttura di questo paesaggio agrario. In primo luogo si verifica un’intensa urbanizzazione delle aree più vicine alla costa, che tende a saldare alla città la fascia che si è progressivamente urbanizzata lungo i tracciati storici che vengono fagocitati e separati sempre più dal contesto agricolo. La carta del 1973 mostra chiaramente questo fenomeno di accerchiamento delle aree agricole a sud di Palermo, con la saldatura del primo tratto di via Conte Federico con Corso dei Mille: a fame le spese è l’arca agricola coltivata in particolare a orti lungo la costa. Il Piano di Ricostruzione prevedeva infatti l’espansione urbana lungo la costa nella zona sud di Palermo dei primi anni ‘50 l’avvio dei lavori per la realizzazione del villaggio Romagnolo e della zona Industriale di Brancaccio che, come spiega S. Inzerillo in “Urbanistica e società negli ultimi duecento anni a Palermo”, provocò polemiche e contrasti: “l’ubicazione di attività industriali in questa zona comportava un serio danno all’economia agricola, perché si distruggevano qualificati terreni coltivati a ortaggi che procuravano redditi sufficienti a moltissime famiglie di contadini, ma costituiva anche un ulteriore motivo di deprezzamento di questa parte della città per un suo auspicato sviluppo edilizio, in favore dei terreni ubicati a Nord”. Il sistema insediativi delle borgate di Ciaculli e Croceverde Giardina non subisce considerevoli modificazioni, anche se si espande e si compatta la cortina edilizia lungo i tracciati viari. In particolare è la borgata di Ciaculli che presenta i primi segnali di un processo di urbanizzazione che comincia a stravolgere l’impianto originario: si comincia a costruire lungo alcuni tracciati agricoli in prossimità del nucleo urbano, si insedia in arca agricola un
dal 1912 al 1939 Tra il 1912 ed il 1939 non si riscontrano grosse modificazioni del territorio in esame. Gli insediamenti abitativi rinforzano, anche se in modo abbastanza limitato, gli assi più urbani, definiti nella via Ciaculli e in Corso dei Mille. La stessa struttura viaria rimane inalterata mentre si sviluppa la rete viaria interpoderate. In particolare si aprono alcune strade che salgono lungo i versanti di Monte Grifone che prospettano la trasformazione agricola delle pendici. E intorno a questi anni infatti che inizia un’opera massiccia di dissodamento dei terreni e la realizzazione dei terrazzamenti, sulla spinta dell’alta produttività degli agrumeti e della possibilità di utilizzare tramite pompe di sollevamento l’acqua del canale SASI, realizzato nel 1929. Le modificazioni maggiori si riscontrano pertanto nel paesaggio colturale con la trasformazione dei terreni primá lasciati incolti o a pascolo o
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1 Pianta del territorio di Palermo con le delimitazioni delle borgate, Giulio Bonomo, 22 maggio 1889 2 Evoluzione delle mappe catastali. Si riportano quelle del 1912, 1939, 1974 e 1994
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impianto industriale (i capannoni della Partanna). Altri segnati di un’occupazione del suolo agricolo, che preludono ad un processo di urbanizzazione più intenso negli anni successivi, si rilevano nelle aree di margine verso il Comune di Villabate, dove si insediano alcuni impianti industriali. La struttura viaria principale rimane quella storica mentre si infittisce ulteriormente la maglia viaria interpoderale, legata alla parcellizzazione delle proprietà. In particolare si definisce la rete infrastrutturale a servizio dell’arca agricola pedemontana, che si sviluppa proprio nei decenni compresi dopo gli anni ‘60. dal 1973 al 1994 Nella fase più recente, tra il 1973 ed il 1994, il processo di urbanizzazione si intensifica determinando non solo la definitiva interclusione dell’arca agricola di Ciaculli e Croceverde Giardina, ma anche un inevitabile processo di modificazione all’interno della stessa. In questi ultimi vent ‘anni si determina e si completa l’urbanizzazione della fascia costiera lungo i tracciati viari di Corso dei Mille e Via Messina Marine con la realizzazione di numerosi insediamenti di edilizia economica e popolare. In questo periodo si realizza anche l’asse autostradale della Palermo -Messina-Catania che costituisce certamente l’elemento destrutturante più forte. Il tracciato viario si sovrappone e taglia i tracciati storici preesistenti creando così una barriera che separa nettamente il territorio agricolo di Ciaculli dalla fascia costiera e dalla stessa città di Palermo. Alcune strade storiche come la Funnuta e la stessa via Conte Federico perdono costa la loro funzione di collegamento storico con la città e la costa. La presenza dell’autostrada e la realizzazione di una nuova strada parallela che congiunge la zona di S. Ciro con Villabate innescano nuovi fenomeni di occupazione del suolo e di degrado. La fascia agricola prospiciente l’autostrada viene infatti gradualmente occupata da insediamenti, in parte abusivi, e discariche. Le
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stesse borgate di Ciaculli e Croceverde Giardina subiscono una serie di trasformazioni alla loro struttura insediativa originaria, caratterizzata da una morfologia molto compatta e situata lungo il tracciato viario principale. Mentre a Croceverde Giardina si sviluppano e si organizzano insediamenti abitativi unifamiliari sparsi, che compromettono, anche gravemente da punto di vista paesaggistico, limitate aree agricole, a Ciaculli il fenomeno si presenta molto più esteso con interventi che scompongono in modo irreparabile gli elementi ordinatori dell’impianto agricolo storico. Alla struttura originaria della borgata si aggiungono, infatti, insediamenti abitativi di tipo condominiale che occupano un’estesa arca della piana agricola, in totale indifferenza alla struttura morfologica storicamente determinatasi. Infine gli edifici si pongono ormai senza soluzione di continuità lungo la strada di collegamento tra le due borgate, lasciando pochi tratti liberi. L’insieme di questi fenomeni rivela di fatto la profonda crisi che investe, qui come in altre zone dei Comune di Palermo, il territorio agricolo con la conseguente frammentazione, estraniamento degli elementi generatori e la perdita progressiva di ruolo dell’insieme.
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Obiettivi della ricerca
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Obiettivi della ricerca
3.1 Finalità e compatibilità 3.1.1 Palermo centro delle culture mediterranee
La Sicilia sin dalla preistoria e dalla protostoria perché geograficamente al centro dei traffici, delle migrazioni e dei conflitti ha assunto un ruolo principale all’interno del bacino del Mediterraneo. L’ha avuto nell’antichità perchè preda ambita di conquistatori più ambiziosi e più forti che presto sono però diventati “siciliani” e dalla Sicilia e con la Sicilia hanno perseguito l’ulteriore loro sviluppo. Lo ha perso con Roma, di cui divenne provincia (alla centralità geografica non necessariamente consegue la centralità politica, di cultura, arte, scienza). Lo ha riconquistato in pieno con gli Arabi, i Normanni e gli Svevi: La Sicilia emirato, regno, impero. Quattrocentodiciannove anni di grandezza e di esempio per i popoli, centro e protagonista, sotto tutti i riguardi, del Mediterraneo e dell’Europa, terra di sviluppo e immigrazione dal sud e dal nord, dall’est e dall’ovest. Lo ha perso, definitivamente per ora, con la crisi profonda del Mediterraneo, lo spostamento dei traffici sull’Atlantico, la logica dei blocchi e della guerra fredda, la globalizzazione. E pensare che la Sicilia è stato un originale laboratorio di cooperazione fra popoli e culture. Che tutte le civiltà appena citate sono state in Sicilia, che ci hanno profondamente segnato, che il nostro carattere attuale è frutto di questa straordinaria cooperazione. La Sicilia è stata ed è rimasta, insomma, una realtà unica ed ha acquisito una cultura che le permette oggi di lanciare un messaggio ai popoli di consapevole impegno nella stessa direzione. In direzione di una unità culturale, si badi bene, che fondi la sua forza e la sua ricchezza nella diversità. Tante culture che restando diverse coesi-stano e cooperino, proprio come ai tempi d’oro dei quattrocentodiciannove anni della Sicilia arabo-normanno-sveva. Queste sono le nostre radici, questo può essere il nostro modello di sviluppo. In questo enorme contesto noi non possiamo che limitarci alla diffusione delle lingue e delle culture e suscitare uno spirito di cooperazione fra i popoli. Ma se il Mediterraneo, con le
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sue diverse religioni, tradizioni e culture e proprio in forza di queste diversità, si unisse e trovasse le giuste alleanze? Allora diventerebbe un soggetto nel sistema di relazioni fra i popoli. Ma prima, non c’è dubbio, ci vuole la cultura. Palermo è il capoluogo della Sicilia e quinta città d’Italia (660.460 abitanti, ma oltre un milione considerando l’hinterland). Posta al centro del Mediterraneo, culla delle più antiche civiltà, la città è stata da sempre crocevia di culture fra Oriente e Occidente. Luogo strategico di transito, scalo privilegiato di traffici mercantili e commerciali, approdo di popoli di razze, lingue e religioni diverse, Palermo ha affascinato visitatori e stranieri per la sua felicissima posizione, la mitezza del clima e la bellezza dei luoghi. Anche per questo, innumerevoli sono state, nei secoli, le dominazioni subite. Non sono molte, nel mondo, le città che, come Palermo, hanno conservato tante testimonianze della cultura dei conquistatori: dai Romani ai Bizantini, dagli Arabi ai Normanni, dagli Svevi ai Francesi, dagli Spagnoli agli Austriaci, tutti hanno lasciato l’inconfondibile traccia della loro permanenza; e quasi sempre si tratta di testimonianze di straordinario valore, in quanto la confluenza di forme e stili, dal Nord Europa all’Africa, dal Medioevo al Barocco, ha spesso dato vita ad originalissime creazioni artistiche, architettoniche e decorative. Ed è questa l’altra particolarità di Palermo: che, nonostante la commistione di culture, la città ha conservato la sua identità. Un’identità di città capitale che in ogni tempo ha saputo coniugare il meglio delle altre genti con la propria vocazione di libertà. La creazione di un Centro delle Culture del Mediterraneo a Palermo costituisce un’occasione speciale perchè proprio in questa città si è dato quell’ incontro di civiltà che ha costituito il primo e forse fondamentale passo nella costruzione dell’umanesimo rinascimentale nel quale noi rintracciamo, per lo meno per quanto riguarda l’Occidente, le nostre radici. Ci riferiamo alla
3.1.2 Valorizzazione del sito archeologico del Castello della Fawara e del suo parco come sede dei Centri Culturali Stranieri Palermo normanna e sveva, alla Palermo di Ruggero e di Federico II: una città straordinaria, un caso unico nel panorama europeo del tempo, una città in cui convivevano su un piano di mutuo rispetto, normanni di Francia e d’Inghilterra, saraceni, tedeschi, latini, greci, bizantini ed ebrei. “Una città che stupiva i visitatori per la libertà delle idee, la convivenza di costumi diversi, la tolleranza religiosa, la spinta verso il nuovo...” . Forse nessuna altra città d’Italia si è avvicinata a questo criterio di umanesimo quanto la Palermo normanna. Ed è a questo esempio che ci rifacciamo per la creazione, in questa città, di un Centro delle Culture del Mediterraneo.
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A fronte di un fenomeno diffuso che vede soccombere l’attività agricola rispetto all’invasione urbana, la Confederazione Italiana Agricoltori si batte da tempo per rivendicare al settore primario una capacità di riscatto produttivo e territoriale nelle zone di confine della città. Il progetto è ambizioso ma si basa su una combinazione certa: l’agricoltura rappresenta, nelle zone periurbane, un’attività produttiva competitiva e remunerativa e al tempo stesso svolge una preziosa e insostituibile funzione ambientale. Nonostante ciò queste due prerogative di “produzione” e “protezione” dei settore primario, sono ancora considerate, da molti, inconciliabili, o comunque difficilmente compatibili tra di loro. Ne è prova il contrasto che spesso nasce in occasione della destinazione di aree periurbane a parchi, tra chi sostiene rigidi vincoli protezionistici e chi invece rivendica anche l’utilità di attività produttive agricole a basso impatto ambientale. A fronte di ciò è avvenuto che le zone agricole di contorno alle grandi aggregazioni urbane, specialmente quelle di proprietà pubblica, essendo regolate dal punto di vista normativo e di mercato come classiche “zone libere”, hanno subito le maggiori aggressioni. Infatti l’attuale sistema normativo, amministrativo e gestionale si dimostra totalmente inadeguato: così le trasformazioni dei suoli agricoli a destinazione edificatoria avvengono in deroga ai deliberati della pianificazione comunale. La stessa classificazione di area agricola, come Zona “E” nel Piano Regolatore Generale dei Comuni, non risulta dei tutto vincolante ai fini della sua destinazione. Anche a scala territoriale più elevata si dimostra l’inadeguatezza delle tradizionali politiche urbanistiche relative alle zone agricole. Comunque, anche quando queste intervengono organicamente (è il caso di qualche normativa regionale), esse sono più orientate ad una difesa passiva (puramente vincolistica) dei suoli, piuttosto che ad una azione positiva combinata di vincoli urbanistici ed incentivi di programmazione economica e pianificazione
territoriale. In definitiva, a causa di una sostanziale inefficacia della programmazione territoriale, sia a livello comunale che a quello sovracomunale, accade che neppure i terreni a più elevata suscettività produttiva agricola riescano a sottrarsi al rischio di un cambio di destinazione. Così nel rapporto città-agricoltura si dovranno esaltare, soprattutto nelle aree a crescita urbana più equilibrata e diffusa, quegli elementi capaci di stimolare una maggiore crescita e un ulteriore progresso produttivo dei settore agricolo, nonostante la persistenza di fenomeni negativi come il consumo di suolo agricolo e l’abbandono. Bisogna cioè sfruttare in questo caso le particolari opportunità economiche e sociali, le dotazioni di servizi e di infrastrutture; A Palermo l’amministrazione Comunale col nuovo Piano Regolatore Generale ha stabilito la salvaguardia e la tutela delle aree agricole residue. In forza di ciò queste non vengono considerate, come per il passato, aree di risulta in attesa di un futuro sviluppo urbano, ma, al contrario, come beni da salvaguardare, come elementi capaci di riconnettere il tessuto sfaldato della città, come trame capaci di ridare forma alla città. In questo caso l’amministrazione ha avuto la maturità e la capacità di riconoscere che la fruizione pubblica del territorio agricolo si debba accompagnare all’attività primaria accordandosi con questa, seppure modificandone alcune modalità. “le azioni considerate debbono avere una certa dimensione ed un impatto visivo e devono essere focalizzare prioritariamente su realizzazioni concrete, finalizzate all’integrazione della problematico ambientale nei diversi settori di sviluppo socioeconomico”. Ripristinare infatti un corretto rapporto di integrazione tra costruito e non, facendo interagire funzioni eminentemente urbane con funzioni ricreative ed ambientali, consente di attivare politiche ed azioni di ricomposizione e trasformazione dei sistemi urbani ed extraurbani secondo principi di sostenibilità ambientale. La città contemporanea presenta,
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infatti, problemi ed esigenze diverse da quelle del passato che può affrontare solo adeguando se stessa e le sue funzioni. La funzione produttiva, cosi importante in passato, è oggi ridotta e il supporto che deriva all’economia cittadina in termini di reddito prodotto e di lavoro è certamente diminuito rispetto al passato. Le funzioni non strettamente produttive, quelle che abbiamo definito paesaggistiche, ambientali e ricreative, rimangono di alto interesse ed anzi sono notevolmente accresciute. Circa il valore paesaggistico degli agrumeti, anche senza ricorrere ad un’analisi specifica, è evidente, di fronte al degrado della periferia, come il paesaggio delle residue aree agrumicole rappresenti oggi un valore assoluto. La sua salvaguardia, nel rispetto di una tradizione e di una vocazione, può svolgere una moderna funzione turistica e ricreativa. In tal senso, la scelta del sito per la collocazione dei nuovi Centri Culturali Stranieri è un’occasione affinché il parco agricolo di Maredolce possa rinascere porando con sè la memoria del suo passato. Un luogo irrinunciabile, dunque, per capire e ricostruire Palermo.
3.1.3 La ricostruzione della Peschiera di Maredolce
II mito dei genoardi palermitani, dei giardini paradiso che circondavano, con i loro padiglioni di delizia e i loro giochi d’acqua, la città nell’età normanna, ha fatto sognare molte generazioni. Si deve a Michele Amari e alle sue opere sulla storia e la cultura islamica in Sicilia, e agli studi e ricostruzioni ideali del Goldschmidt, la rinascita dell’interesse per i monumenti dell’antica capitale. Per ciò che riguarda la Zisa, reso quasi illeggibile il fregio epigrafico sul muretto d’attico della facciata che fu resecato per ricavarne i merli quando il palazzo nel XIV secolo fu trasformato in fortezza, restano i due frammenti ai lati dell’arco di accesso alla sala della fontana (il famoso Iwan) a testimoniare l’appartenenza di quel «paradiso terrestre che si apre agli sguardi» a Guglielmo II: «Questi è il Musta’izz e questo è l’Aziz». La più antica notizia sul palazzo (che non è un castello) contenuta nella cronaca di Romualdo Salernitano: «In quel tempo il re Guglielmo fece edificare un palazzo abbastanza alto e costruito con arte meravigliosa. Lo chiamò Sisa, lo circondò di bei giardini e di ameni verzieri e lo rese assai dilettevole con diversi canali d’acqua e peschiere». E proprio su questo plurale «peschiere» vorrei richiamare l’attenzione considerando che esso sembrerebbe avallare quanto sta accadendo oggi alla Zisa e cioè che essa avrà più peschiere. Sono già a buon punto i lavori di restauro dell’originario bacino sul quale si specchiava il palazzo e che dalla nicchia con l’aquila mosaicata tornerà a scorrere l’acqua che scivolerà nel shadirwan marmoreo, nelle canalette e nei piccoli bacini, un tempo ornati con pesci a mosaico. L’ acqua, attraversando il vestibolo, si verserà sulla peschiera che un tempo circondava il piccolo padiglione che sorgeva al centro e al quale si accedeva attraverso un ponticello. Si riconfigurerà pertanto l’immagine descritta nel 1588 da Leandro Alberti che ispirò Rocco Lentini il quale nel 1935 dipinse una sua ideale ricostruzione della Zisa, pendant di quell’altro quadro del
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1922 che raffigura la Cuba e la sua grande peschiera. La Zisa, dunque, avrà due peschiere poiché nel nuovo giardino, è stato riproposto un grande canale con peschiere, secondo il vecchio progetto dell’architetto Caronia cui si deve il restauro del palazzo. Ben pochi palermitani non hanno esultato di fronte a un’opera così volutamente impertinente rispetto all’idea dei giardini islamici di ascendenza persiana che circondavano palazzi e padiglioni palermitani da Maredolce alle due Cube, dalla Zisa all’Uscibene. L’obiettivo che tale progetto propone è la ricostruzione dell’antica peschiera di Maredolce secondo le antiche fattezze. Le testimonianze, tra le quali la celebre poesia di Abd ar Rahaman, le risultanze dei recenti interventi di restauro consentono di ricostruire con buona precisione l’aspetto della FaWara e l’influenza che nella sua realizzazione ebbe la tradizione paesaggistica araba. Si trattava di un parco, rispondente alla tipologia dell’agdal, in cui “i rami dei giardini” che “sembrano protendersi” a guardare i pesci delle acque e sorridere” rimandano alle indicazioni di Ibn Luyun sulla “disposizione dei giardini”, mentre “gli aranci superbi dell’isoletta”posta al centro del grande lago artificiale (da cui la denominazione alternativa di Maredolce) dove nuotano pesci di varie specie provenienti da diverse regioni richiamano le indicazioni di Ibn al Awwam affinché nei giardini gli alberi di arancio amaro “appaiano come piantati nell’acqua”.
3.1.4 Il giardino storico
Il nuovo piano regolatore di Palermo, si pone tra i principali obiettivi quello di “ripristinare il perduto rapporto dell’urbano con la campagna” e a questo proposito colloca al centro dell’attenzione l’insieme delle aree periurbane in cui sono ancora reperibili patrimoni di natura e tracce di identità storica sopravvissuti alle recenti espansioni della città. A partire da un lavoro conoscitivo sull’entità fisica e culturale di queste aree, si sono delineate prospettive di sviluppo che sono state affiancate a singoli progetti di valorizzazione del sistema di spazi aperti nell’area periurbana. Questi ultimi diventano parte integrante di una nuova definizione di “verde urbano”, secondo una visione che, pur immaginando di conservare le attività agricole presenti, tende a concepire la campagna come un parco o addirittura “giardino della città del presente”. L’obiettivo progettuale è quello di affiancare alla ricostruzione dell’antica peschiera e del giardino storico per mano degli esperti del campo, la progettazione di funzioni più propriamente urbane, legate al tempo libero, alla conoscenza del patrimonio ambientale e alla valorizzazione paesaggistica, in un contesto in cui una determinata configurazione del paesaggio, segnata dai legami con l’attività agricola, conserva i caratteri del “giardino mediterraneo”. Utilità e bellezza nel paesaggio normanno Agli orti e ai frutteti che costituiscono il paesaggio utile e bello del giardino mediterraneo, nella pianura che circonda Palermo la monarchia normanna, a partire da Ruggero II, aggiunge, in continuità funzionale ed estetica con il territorio agricolo, parchi e giardini ornamentali nei quali laghi e canali, fiori e frutti, padiglioni di piacere e zone ombrose manifestano, nel contrasto con il nudo e secco paesaggio dei latifondi interni, la grandezza e l’autorevolezza del nuovo potere la cui forza si fonda anche nell’appropriazione di un paesaggio e di uno stile di vita,
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quelli del paradiso coranico, che sono parte della cultura della popolazione sottomessa. Ai viaggiatori musulmani la Sicilia degli anni normanni appare “gemma del secolo per pregi e bellezze”. Sono occhi che il rimpianto, gli interessi politici, l’orgogliosa appartenenza culturale possono rendere partigiani ma che non impediscono di apprezzare la bellezza del paesaggio e il successo dell’agricoltura. Questo è determinato da una nuova organizzazione economica e sociale, il feudo, che rappresenta la vera innovazione introdotta dai nuovi dominatori, piuttosto che dalla diffusione di nuovi modelli che, nelle campagne coltivate a cereali, conservano le radici culturali nella tradizione romana e, nelle zone periurbane investite a colture ortofrutticole, nella rivoluzione agricola araba. Le ragioni che spingono i monarchi a circondare di giardini Palermo sono probabilmente le stesse che hanno portato al sorgere di splendidi giardini in tutte le capitali islamiche: la consapevolezza politica della immagine di forza e di dominio che deriva dalla natura quando è piegata al soddisfacimento del piacere e del lusso, i racconti dei viaggiatori che favoleggiano di Cordova, Siviglia e Marrakech si sommano alla suggestione che proviene dalla bellezza dei frutteti della Conca d’oro e dalla presenza o dal ricordo dei giardini (di cui nulla sappiamo) del dominio arabo. Richiamandosi alla tipologia dell’agdal, di influenza persiana, i parchi normanni elaborano in tipologie più complesse, le forme geometriche e protette da muri dei frutteti irrigui. Sono grandi parchi recintati, in parte occupati dal bosco e dalla macchia, ricchi di acqua, animali, alberi da ombra e da frutto e fiori. Paradisi, utilizzando l’etimo di origine persiana, dove la monarchia esercita anche il piacere della caccia, segnati da edifici circondati da giardini formali nei quali l’acqua quieta o rumorosa, ferma in laghi e vivai di pesci o zampillante in fontane, utile a rinfrescare il clima ma anche alla coltivazione, rappresenta il centro formale e il tessuto che ne connette le parti. Per usare parole di H. Bresc, che ai
giardini medievali palermitani ha dedicato pagine irrinunciabili, ”il giardino viene sfruttato per il reddito della frutta e per l’affitto della terra e dell’acqua, mentre il potere gode pienamente di una bellezza creata artificialmente, combinando il verde perenne, il rumore e la freschezza delle acque, l’illusione dello specchio d’acqua e i giochi permessi dalla sua navigabilità”. Sulla tavola, i prodotti esotici degli orti e dei frutteti e le prede delle battute di caccia si combinano in piatti elaborati di chiara impronta araba: a sancire il successo della gastronomia orientale la presenza, ai tempi di Ibn Gubair, di un soprintendente musulmano alla cucina della corte di Guglielmo. Si fa un gran consumo di vino come provano i testi dei poeti di corte arabo - siciliani con accenti che sono propri della poesia bacchica piuttosto che di una cultura e di una religione che si vuole avversa al vino. In effetti, la cultura araba non lo è aprioristicamente: fino ai tempi dell’impero ottomano anche la coltivazione ed il commercio della vite sono permessi, almeno a cristiani ed ebrei, e da essa si ricavano, con le tasse, cospicui introiti. Anche nel Corano, versetti di stampo proibizionista si alternano ad altri che sembrano invitare piuttosto ad un uso moderato, mentre l’uso medicinale del vino è riconosciuto e consigliato.Le parole di chi visita Palermo sono colme di lodi e lo sguardo di meraviglia e non nascondono un sincero stupore per la bellezza della città, espressa dalla abbondanza di acque, dalla feracità della sua agricoltura e, per la prima volta, dallo splendore dei giardini e dei palazzi reali. Per il geografo maghebrino Idrisi, che nel 1139 è in ospite di Ruggero II, “le acque attraversano da tutte le parti la capitale della Sicilia, dove scaturiscono anche fonti perenni. Palermo abbonda di alberi da frutta…e dentro la cerchia delle mura che tripudio di frutteti, quale magnificenza di ville e quante acque dolci correnti, condotte in canali dai monti”. Per Ibn Gubair, arabo di El Andalus che si trattiene in città tra la fine del 1184 e il 1185, la città “insuperbisce tra piazze e pianure che son tutte un
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giardino” e “ i palazzi del re ne circondano il collo come i monili cingono i colli delle ragazze dal seno ricolmo”. La città mantiene, quindi, ed anzi rafforza, l’immagine già definita in epoca araba. Dentro le mura urbane, all’interno del palazzo reale, si trova un riyadricco di alberi, secondo il poeta Ibn Basrun, “carichi della frutta più squisita”. Forse allo stesso giardino, probabilmente l’Aula Regia o Aula Verde del Palazzo Reale, si riferiva anche Ibn Qalaqis cantando di fontane, musicisti e danzatori, belle fanciulle, calici di vino,“alberi i cui frutti sono fiorenti melograni o mele tondeggianti al par di seni” e ”declivi ricoperti dal rosso delle anenomi e dal biancheggiare delle margherite”. Contiguo al palazzo reale era il Viridarium Genoard, il “paradiso della terra”. Ricco di arbusti, alberi, palme, uccelli ed animali esotici. Lo storico Fazello alla metà del XVI secolo lo trova ormai ricoperto da orti e vigneti ma lo ricorda come uno spazio circolare protetto da un muro “di giro quasi due miglia”, con al centro un grande vivaio di pesci dove si elevavano “bellissime abitazioni fatte con bellissima architettura”. Lo attraversava un lunghissimo porticato e il suolo era coperto da alberi da frutto di diversa specie e da orti olezzanti di alloro e di mirto. In una parte del parco, animali selvatici di ogni genere perché i Re in caccia avessero spasso”.Giardini e frutteti, canali d’acqua e peschiere, accompagnano anche il palazzo della Zisa; l’acqua che sgorga in una sala del piano terra allargandosi su un piano inclinato, e che si versa attraverso una canaletta in due piccoli bacini interni per poi riapparire nel bacino esterno, ha anche una funzione climatizzante per raffreddamento evaporativo. Insieme alle “torri del vento”, poste ai lati della costruzione, utili ad incanalare i venti costringendoli ad attraversare il palazzo ed a creare un efficiente effetto camino, assicurava nei mesi estivi il condizionamento termico dell’edificio. a cura di: Prof. Giuseppe Barbera
3.2 Il senso della ricerca 3.2.1 La lettura del contesto
- Che fai? - mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio. - Niente, - le risposi, - mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino. Mia moglie sorrise e disse: - Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: - Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente: - Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra. La sorpresa è ciò che voglio, la scoperta improvvisa e inattesa. Vorrei proporre una soluzione per una sorta di teorema impossibile, un metodo scientifico applicato paradossalmente ad un ambito che esclude qualsiasi certezza. Un teorema che “non conclude” poiché l’unica conclusione è che la schizofrenia è congenita al mondo, tutto ne è pregno, l’Abitare il mondo è schizofrenico . La linearità non esiste se non in una strana forma istantanea. L’unità non esiste se non come idea di madre delle infinite e infinitesime particelle disgregate che costituiscono il sistema antropico in cui viviamo. La verità non esiste, esistono piuttosto le verità da mettere continuamente in discussione; tale contraddizione in termini è un processo che paradossalmente porta a dimenticare delle verità-pretesto, e giunge ad affermare la sola importanza del discorso in sé. Il processo e la ricerca divengono il centro di tutto. Abbiamo semplicemente bisogno di un fine. Lo stesso Aristotele all’inizio dell’Etica scriveva: l’arciere cerca un obiettivo per le sue frecce, e non dovremmo forse cercarlo per le nostre vite? Noi siamo i potenziali, potenti ed incoscienti autori dell’indecifrabile testo che significa la città. Sono infiniti gli interrogativi che affondano le proprie radici nelle nostre ragioni. Dare un senso alla ricerca è equiparabile a dare un senso al
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nostro esistere, a dare la misura a tutto ciò che ci circonda impresa impossibile più che ambiziosa, forse anche priva di senso. Fernando Pessoa ha avuto la capacità di sintetizzare il siero con il quale vorremmo contaminare questa ricerca, una patologia espansa in tutto il nostro lavoro di analisi e progetto: Non sono niente, Non sarò mai niente, Non potrò voler essere niente, A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo. Lo stesso F. Ll. Wright sottolineò più volte l’importanza della componente proiettiva nel pensare architettura, affermò che - dove non c’è visione il popolo perisce. Potente emozione che scuote le coscienze dei più sensibili e distrugge, frammentandolo, quello specchio che costituisce la realtà. Sentenza che svela la caducità e l’inconsistenza della struttura, il fallimento delle proposte sociali e pone il mondo sotto una nuova luce. Vediamo con nuovi occhi vecchi obiettivi. Facciamo dei dogmi, dei preconcetti e delle censure cenere fertile per la rinascita sociale, consapevoli che la civiltà – l’ordine imposto sul disordine naturale dell’umanità – è un compromesso, un contratto da rinegoziare continuamente, un perenne equilibrio instabile, un’oscillazione armonica senza fine. Saper leggere la società, di cui la città è massima espressione, non significherà comprendere in un’unica visione i diversi frames dai quali è composta, ma trascendere l’idea che si tratti di semplici riflessi e lasciarli nel loro disordine evitando di ingabbiare il tutto in un modello di razionalità deterministica. La capacità di lettura consiste nel lasciarsi penetrare da quel turbinio spontaneo caratterizzato da disequilibri, non linearità delle relazioni e instabilità. Consideriamo la definizione di
frammentazione proposta da Daniel Libeskind: un milione di pezzi di mosaico che non compongono la stessa figura, che non potranno mai essere assemblati nè costituire unità, poiché non provengono da un insieme unitario. “Mancano gli strumenti concettuali – così si dice – per risistemare un quadro contorto e frammentato, per immaginare un modello coerente ed integrato che emerga da un’esperienza confusa ed incoerente, per legare e tenere insieme gli eventi disseminati. In realtà se vogliamo capire la logica delle cose (cioè: le cause determinanti, le finalità a priori, la certezza dell’esito finale prima che gli eventi accadano), allora “le leggi del mercato” sono un povero surrogato delle “leggi della natura” o delle “leggi della storia”, per non parlare delle “leggi del progresso”. Da qui la necessità di sviluppare un’adeguata attitudine processuale che sia capace di adattarsi alla realtà delle cose e non il contrario. La ricerca nasce da un desiderio profondo, da un’emozione viscerale ed inspiegabile, non saprei descriverla se non attraverso la visione di un ricercatore del secolo scorso di cui non ricordo il nome, raccontava: “avrete certamente notato che, affacciandosi su di uno stagno o laghetto di acqua morta e vedendo la superficie così immobile, linda, indifferente su cui si riflettono le nubi passeggere – le nubi di Aprile rotonde e barocche – si impossessa di noi una specie di desiderio di rompere quella calma fittizia che nasconde tutta la vita brulicante del fondo limaccioso. E, inconsapevolmente, la mano afferra una piccola pietra e la lancia nell’acqua, il cui cristallo si infrange e vibra tremando come un dorso vivo liberando bollicine d’aria che ascendono dal fondo come sospiri. Ciò fatto ci allontaniamo soddisfatti.”
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La ricerca nasce dall’osservazione. Questa dalla curiosità di conoscere. Ricerca significa “sentire tutto in tutte le maniere, / vivere tutto da tutte le parti, / essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo...” . Ricercare può essere un viaggio e per viaggiare basta esistere. “Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o del mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi.” L’espansione della nostra indagine verso direzioni inattese e il confronto con ambiti apparentemente distanti non può far altro che arricchire la sensibilità e costituire linfa vitale per la nostra disciplina. La contaminazione con studi relativi a tematiche periferiche può aprire porte imprevedibili. Lo stesso Tafuri scriveva: “fin troppo spesso scandagliando ciò che è ai margini di un problema dato, vengono offerte le chiavi più produttive per aggredire quello stesso problema.” La periferia è tutt’altro che banale stratificazione di edilizia speculativa, caos informe indegno di lettura e di interpretazione. La città non è “anormale, spiacevole e di inquietante eccezionalità, dove ha vinto l’irregolarità e l’abuso legalizzato” . Si tratta piuttosto di un magma pulsante, un groviglio inestricabile di relazioni, flussi, sentimenti, vibrazioni che generano scenari emozionali. Ci si dovrebbe avvicinare il più possibile all’approccio dei poeti di tradizione simbolista. Essi colgono la realtà in movimento, non ancora espressa nella sua attualità e finitezza, con una sorta di “illuminazione”. L’intuition agit par éclairs inattendus diceva Le Corbuseur. E’ una predisposizione che agevola il superamento di un’analisi eccessivamente analitica, fatta di ipotesi, postulati
e sperimentazioni, generatrice di rigide tesi e fissità funzionali superabili solo attraverso un processo di “insight”. Affermare una “volontà sublime / slancio infinito / atavica pulsione” . Tutto cade… tutto… nulla è certo. Vivo e godo di questa precarietà, di questa incertezza che mi spiazza. Mi stupisce, mi sconvolge ed ogni giorno mi fa ripartire da zero. Ricerca è non fermarsi mai, ma assorbire, scomporre, fagocitare, vomitare sotto altra forma, creare, intuire, produrre vibrazione sensoriale, fungere da cassa di risonanza, catalizzare reazioni per l’holon (impasto di umanità, ecosistema e informazioni). Il tutto permeato dal naturale stato di sospensione del bisogno di significare , il resto è umano, troppo umano. La zona di Brancaccio è uno dei cuori di quella città multipolare che è Palermo. Un cuore malato, ma anche pulsante di vita e carico di energia latente. Lo rendono potenziale gli spazi e le tracce urbane, quell’anima rurale quasi invisibile ma sempre sorprendente, quelle meravigliose gemme che inaspettatamente scopriamo come segreti tesori tra i palazzoni e l’opprimente stratificazione di corpi parassiti, aderenze che crescono su quei muri che hanno la forza e la solidità delle spalle di un antico Re. La ricerca deve essere sostenuta dall’impulso della passione, dell’emozione trascinante, a volte anche necessariamente rabbiosa e violenta, priva di sentimentalismo romantico e commiserativo, ma consapevole della potenza dello spazio e dei soggetti sociali. Alcuni considerano gli aspetti comportamentali l’ultimo anello della catena decisionale. E’ invece necessario puntare l’attenzione proprio sulle manifestazioni “spontanee”, sempre più numerose in rapporto alla crescita complessiva del “disordine” del nostro universo costruito. Ma le analisi dei comportamenti implicano una continua revisione delle frontiere che separano la norma dalla devianza.
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L’uomo è il centro. La vita esperimenta in ogni individuo sempre una nuova figura ed un nuovo gesto umano. Hebbel scriveva: “io vivo cioè mi differenzio da tutto il resto. Ciascuno di noi è il progetto ed il germe di una personalità unica con atteggiamenti specifici, desideri unici, necessità incomparabili e doveri originali. Il maestro, per contro, può insegnarci solo maniere logiche, gusti generici, ideali e doveri grezzi; può solo svigorire le nostre possibilità abituandoci a scimmiottare la vita degli altri, ad essere spettri e ombre di altri; può solo in definitiva insegnarci a seppellire la nostra propria vita possibile, a morire alla nostra vita personale.” Stupisce che tali parole provengano dalla penna di un pedagogo. E’ impossibile trascendere la ricerca dall’analisi sociologica e antropologica della società contemporanea. Le problematiche inerenti il modus vivendi dell’uomo contemporaneo non devono appartenere soltanto alla ristretta cerchia di intellettuali che studiano le dinamiche sociali ma è compito proprio di quest’ultimi fare di tutto affinchè la gente, i cittadini del mondo, si interessino al dibattito portandolo all’interno delle proprie case, dei propri quartieri, delle proprie città. E’ fondamentale che i cittadini si responsabilizzino, cominciando a rendersi conto della loro posizione in questa comunità globale, così diversificata e così unica. I cittadini di ogni angolo del mondo, anche il più remoto, dovrebbero cominciare a confrontarsi intimamente con i propri desideri. E’ necessario come afferma l’Arch. A. I. Lima “trasnazionalizzare lo sviluppo, abituare i cittadini a doversi misurare con il mondo” , capire chi sono e come vivono nel mondo, traendo dal confronto gli stimoli giusti
per la crescita ed il miglioramento della qualità di vita, per “ammirare la bellezza delle cose, scoprire nell’impercettibile, attraverso le cose insignificanti, l’anima poetica dell’universo” , per sensibilizzare verso nuovi desideri, nuovi paesaggi esistenziali in cui riacquistano valore i sensi, vista, tatto, udito e olfatto, ormai atrofizzati dal tempo di inutilizzo. Come diceva Lewis Mumford nel 1961: “ […] la vita fiorisce nella dilatazione dei sensi […] far soffrire la fame all’occhio, all’orecchio, alla pelle e al naso significa corteggiare la morte proprio come rifiutare cibo allo stomaco. Nel Medio Evo anche se la dieta era spesso più povera […] i più affamati e i più ascetici non potevano chiudere gli occhi alla bellezza. La città era un’opera d’arte sempre presente […]”. L’architetto urbanista partecipa come fattore nascosto alla formazione dell’immagine, processo che vede protagonisti l’ambiente e l’osservatore. Il primo suggerisce distinzioni e relazioni. Il secondo seleziona, organizza e attribuisce significati a ciò che vede. Osservatore responsabilizzato poiché “l’identità è solo nella nostra anima attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cosa staccata e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua.” E’ estremamente difficile sostenere principi democratici e progressisti in un ambiente-sistema che eleva a linguaggio predominante la violenza in tutte le sue forme e manifestazioni. La cultura è drammaticamente violenta ed è un’azione fortemente deviante di annullamento dell’individualità e della storia dell’uomo. L’architetto non salva, ma usualmente condanna ad una condizione di disagio e frustrazione prolungata quasi assoluta, cioè tale che il tempo non abbia quasi alcun valore. Allo stesso modo non considera la proiezione, o meglio la dimensione
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proiettiva, e in virtù di tale deficienza priva i soggetti della libertà. Tutto ciò rappresenta un piano organico dal carattere programmatico. Nessuno potrebbe mai affermare che i cosiddetti “palazzoni”, unità abitative ad alta densità, non siano parte di un progetto di rarefazione sociale il cui l’obiettivo principale è quello di evitare il più possibile il contatto ed il confronto tra gli individui. La distanza fisica che intercorre tra le case e la strada, elemento di connessione e spina dorsale delle istallazioni sociali nella quale si parla, si gioca, si beve un caffè al bar, è eccessiva. Generalmente la relazione tra edificio e strada è labile e carente di complessità. Il piano di attacco a terra è privo di tutti quegli elementi quali attrezzature strutturate ad hoc per assolvere a questa funzione ed alla fruizione logica di questo spazio cruciale. Spesso assistiamo a casi in cui questo livello di intervento viene frainteso e abusato per il raggiungimento di finalità astratte (ideologiche o politiche che siano). Come si può pensare Brancaccio senza soppesare il ruolo avuto da questa perversa logica? Come si può pensare ad una risposta alle esigenze dei suoi abitanti senza valutare ciò che prima hanno ricevuto? Con quale arroganza pretendiamo di capire la frustrazione e la violenza generate in questo quartiere senza considerare le cause che le hanno indotte? So bene quanto sia pericoloso parlare e fare convergere argomentazioni sociali, economiche e politiche nel fare architettura . I maggiori errori sono stati commessi proprio perseguendo idee che sulla carta o nelle menti degli esperti risultavano formalmente esatte e corrette sul piano etico. Ricordiamo che per qualsiasi tesi è possibile argomentare e raccogliere materiale statistico, scientifico e storico a suffragio della sua affermazione. Qualsiasi tesi è comunque autoreferenziata al di là di qualsiasi giustificazione teorica costruita. Un esempio illuminante può essere la proposta per il quartiere
Librino, un nuovo insediamento per 70.000 abitanti a Catania inserito nelle direttive del piano Piccinato e la cui redazione è stata assegnata all’architetto di fama internazionale Kenzo Tange –è ovvio che la scelta di architetti celebri in tali interventi fa parte di intenti propagandistici. Insieme ad un gruppo di giovani architetti ho affrontato il complesso tema, valutando anche a distanza di più di vent’anni gli effetti di quella pianificazioneprogettazione. La relazione di progetto che Tange negli anni settanta fece accompagnare agli elaborati può rappresentare la dimostrazione di quanto l’importanza determinante delle cose non stia nell’obiettivo prefissato ma nel processo induttivo che ne consegue. Per tutti questi virus ho voluto chiarire che la ricerca deve essere portata avanti utilizzando una specie di lente caleidoscopica, uno strumento attraverso il quale tutto si complessifica e si sintetizza, in una continua oscillazione tra incomprensibilità e comprensibilità, comprensione relativa o ambigua –ambito che può avvicinarsi pericolosamente alla follia- ed universale.
Parlando di Sogno e Città mi prendo la licenza di riportare un meraviglioso brano tratto dalle città invisibili di Italo Calvino, in cui Marco Polo durante una sua discussione con Kublai Kan dice:
Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima.”
Forse la Decomposizione, reazione inversa alla sintesi, può essere la via per analizzare ed affrontare le problematiche inerenti il progettare lo spazio. E’ un processo profondo, o meglio radicale e sconvolgente che porta alla comprensione di quel sottile limite che separa le certezze, i sicuri ripari, gli involucri in cui ci si avvolge, dal dubbio dell’insensatezza. La Decomposizione, lenta ma una volta iniziata inarrestabile, è rivelatrice di tutti gli autoinganni che aprono sui nostri volti sorrisi sforzati, che ci lasciano marcire nelle nostre fittizie serenità. La Decomposizione è un processo legato al tempo, quindi perfettamente adatto all’architettura, che del tempo si nutre. Tanti architetti ormai progettano anche il disfacimento delle proprie opere.
Una simile procedura non è possibile se non attraverso un metodo, uno strumento corrotto dal dubbio congenito. Già da tempo diversi intellettuali hanno intuito la natura oscillante della città, come il critico e architetto Joseph Rykwert, il quale sintetizzava nel suo celebre “The idea of a town” : “La città è un artefatto di natura curiosa, composto di elementi voluti e di elementi casuali, non perfettamente controllati. Se si vuol paragonarlo ad un processo fisiologico, bisognerebbe dire più che altro che assomiglia ad un sogno”
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Dal numero delle città immaginabili occorre escludere quelle i cui elementi si sommano senza un filo che li connetta, senza una regola interna, una prospettiva, un discorso. E’ delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra. [...] le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tenere su le loro mura. D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma le risposte che dà a una tua domanda.
Possiamo elaborare una sequenza di eventi, lavorare per livelli di approssimazione, per successione di processi, per successioni di scale. Come non pensare al mondo come una infinità di mondi inseriti l’uno dentro l’altro, in un modello frattalico, in cui più il nostro sguardo si addentra, più profondo sembra essere il vaso all’interno del quale tutto vive? Nella Decomposizione il valore materico e quello operativo sono di importanza fondamentale. E’ un processo di degradazione chimica e biologica, di corruzione della forma e della materia che la costituisce. La terra è madre di ogni cosa. La carne è carne. Lo stesso Mies van der Rhoe affermava: “A noi si offre questo mondo, e nessun altro. In questo mondo dobbiamo affermarci” L’analisi morfologica assurge a simbolico connubio tra pensare architettura e realtà della natura. La forma diventa la forma in un determinato istante. Non è una scelta, è una condizione. Sappiamo bene che, come per la Maiastra di Brancusi , anche un’architettura può assumere in un determinato luogo infinite forme. Noi dobbiamo dargliene una ed invariabile che implica tutte le variazioni possibili. Poiché l’elemento variabile dello spazio è la luce, imposteremo il problema in termini di rapporto forma-luce. In questi termini la forma è simbolica, nel senso che definisce simultaneamente, nella propria unità, una cosa particolare e l’universale (lo spazio). La ricerca di corrispondenze è essenziale all’interno del processo. Queste possono essere di tipo geometrico, visivo, concettuale o onirico. Spesso corrispondenze di diverso tipo convergono, semplificando così la leggibilità delle stesse. In termini di processo progettuale assistiamo in funzione del tempo ad una crescente componente automatica che tende quasi a prendere il sopravvento rispetto alla componente analitica.
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E’ proprio questa condizione automatica che ci approssima ai fenomeni naturali, ci rende più umani. Ad una massima espressione d’amore corrisponde un totale abbandono del sé. Ricordo alcuni versi del gruppo islandese Goldfrapp che recitavano così nel loro brano Utopia: It’s a strange day No colours or shapes No sound in my head I forget who I am...
E’ un giorno particolare Ne colori o forme Ne suoni nella mia testa Ho dimenticato chi sono...
E’ questa una delle immagini che preferisco per dipingere la predisposizione che dovrebbe avere l’architetto nel momento dell’esercizio della propria professione, il pensare spazi per gli altri. Dovrebbe dimenticarsi chi è, la sua storia. Progettare diviene così atto d’amore. Vedendo Brancaccio ed il castello di Maredolce, conoscendo l’ultima malattia degli architetti (o presunti tali), ormai tutti o quasi fashion victim, mi si materializzano in mente possibili scenari evolutivi. Immagino il riordino dell’assetto urbano, la regolarizzazione della maglia, l’evidenza della volontà dei protagonisti, la semplificazione/banalizzazione degli spazi, la distruzione dei luoghi corrotti, sacrificati nel nome della regola, della pulizia e della bellezza. Vedo l’eliminazione violenta del grottesco , che troppo ci somiglia per essere accettato. In fondo tutto ciò giustifica la tendenza dell’uomo moderno a sacrificare la propria libertà in cambio di qualche certezza. E’ un’illusione e, paraddossalmente proprio il tempo, altra invenzione umana, ci rivela sotto forma di luce la verità delle cose ed attribuisce ad esse, contemporaneamente, nuovi significati, come dice Ernst Jünger, nel gioco delle ombre le cose sono svelate e contemporaneamente spiritualizzate. E’ un sacrificio cominciato già da molto tempo, ne vediamo gli effetti nefasti, ma
ci ostiniamo nonostante tutto a perseguire questa strada. Quanti spazi abbiamo perso? Quanti luoghi vivono ormai solo nella memoria? Quante trame di relazioni sono state castrate, recise o banalizzate? E’ un’equazione che non si bilancia, perdiamo ogni giorno sempre più tesori. La periferia non è altro che una nuvola, una tavolozza indeterminata, dove tutto è allo stato di caos primordiale, dove le regole sono rarefatte.Brancaccio, come tutte le periferie, si comporta come una tavolozza da pittore, costituisce, a differenza della città a cui si aggrappa, un luogo sensibile ai cambiamenti, ad ogni minima oscillazione del sistema sociale. Proprio la presenza di gente che vive al limite favorisce questa ipersensibilità. Questa stessa gente interiorizza la condizione di limite, trasformandola in condizione esistenziale. In fondo il fenomeno delle periferie infinite delle metropoli come Parigi, Tokyo, Città del Messico, Bombay, sono sempre più espressione e immagine della “società dell’incertezza” raccontata da Zygmut Bauman , i centri delle vecchie città non raccontano più l’inquietudine dell’uomo contemporaneo, disperso nel magma incomprensibile di relazioni. Le città madri, rassicuranti nelle loro misure e proporzioni, nei loro allineamenti e nelle loro coordinate spaziali non ci appartengono, sono dei nostalgici e dei turisti , intendendo per turisti anche coloro che, solitamente intellettuali e professionisti, decidono di vivere nei centri storici, fruendo di questi spazi con la stessa attitudine con cui si visita un museo. Non c’è contatto. Eppure i nostalgici, i fuori dal tempo, coloro che non appartengono o non vogliono appartenere a questo tempo, sono spesso le persone che più si sforzano di capire le dinamiche e le strutture che articolano l’evoluzione delle città-periferie contemporanee. E’ un processo difficile. La nostalgia può essere la più grande prigione , ma allo stesso tempo la conoscenza, la capacità di lettura ed interpretazione delle antiche dinamiche di sviluppo
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della città è certamente il percorso attraverso cui possiamo pensare di ottenere un risultato positivo. Delle dinamiche dobbiamo cogliere innanzitutto le invarianti, cioè quegli aspetti che permangono nel tempo, quantomeno hanno un intervallo di variazione molto dilatato, quindi approssimativamente costante. Le invarianti sono sempre state legate principalmente ai luoghi. Oramai l’evoluzione sociale in direzione di una condizione globale, in cui per certi versi siamo tutti cittadini della Terra, ha relativizzato profondamente gli invarianti. La globalizzazione non è solo dilatazione e frammentazione economica e politica, ma anche espansione dei desideri e atomizzazione delle esperienze, trasmissione delle idee a scala planetaria in forma epidemica tramite contagio a macchia . La sensazione è quella che sia aumentato a dismisura il disordine interno del nostro sistema, che esso proceda sempre più velocemente in direzione di una dissoluzione-distruzione. L’inquietudine è quella di chi vive un “calmo dramma” in cui i soggetti-oggetti del cambiamento si confondono e si incatenano in una stasi decisionale. C’è chi ha parlato di “modernità liquida” come mancanza di forma, solidità e sostanza nel mondo moderno, di “società della cultura marmellata” , di “caos sublime” , di ritorno all’autocostruzione e così via. Sono tutte analisi che rendono evidente il sempre maggiore interesse degli studiosi per le dinamiche sociali, elaborate comunque con un’attitudine critica che cerca di accettare l’incomprensibilità e la relatività congenita nella successione degli eventi. E’ questo che nella stesura di un masterplan per Brancaccio ci interessa, vogliamo essere contaminati da queste riflessioni contemporanee. Non vogliamo elargire verità incontrovertibili, ma neanche perdere di vista la realtà delle cose, non cercheremo di trovare il senso intimo delle cose poiché “l’unico senso intimo delle cose è che esse non hanno nessun senso intimo.”
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Il progetto dei Centri Culturali Stranieri a Palermo 1
4 Il progetto 4.1 Introduzione La conoscenza del contesto porta a ricostruire l’intima legge di formazione evolutiva e di assunzione di ”carattere”, la natura profonda del luogo, il suo “genius”. L’analisi dunque non “attua” il progetto, né lo conclude, né ancora conferma i prototipi universali della professionalità corrente: essa è una presa d’atto, una sorta di acquisizione agli atti di elementi considerabili oggettivi, nella misura in cui un’analisi della realtà possa effettivamente garantire un’oggettività: essendo questa comunque, già un punto di vista, un’ottica interpretativa, sebbene verosimilmente generalizzabile. L’analisi indaga, legge, scompone, acquisisce perché la progettazione susseguente non sia arbitrariamente ed effusivamente espressiva né freddamente, funzionalisticamente tecnica, ma piuttosto densa di ragioni che solo la comprensione profonda e complessiva di un ambiente umano - cioè fatto, vissuto, ricordato, immaginato da uomini e dai loro atti fondamentali - può trasferire e trasformare come motivazione della diversa natura della nuova condizione spaziale e formale. Ritrovare e comprendere le forme dell’evoluzione di un luogo, sia fisiche che culturali, vuol dire ricostruirne e indagarne la “Memoria”, cioè la storia tramandata dai e delle ragioni che li avevano motivati, ma anche dei suoi valori culturali, vitali che gli avevano sostanziato il significato. Indagare la memoria di un luogo vuol dire, dunque, ricostruirne la storia delle immagini spaziali passate attraverso le antiche mappe, e il senso originario delle tracce sopravvissute di quel perenne territorio “archeologico” che è lo spazio antropico. Quelle tracce di antiche strutture e di immagini non possono non condizionare come eredità, come patrimonio, “ispirandolo”, il nuovo spazio, la nuova immagine. Indagare la memoria di un luogo è atto di conoscenza interpretativa: le sue indagini sono fonti motivazionali, con la funzione di accrescere, di fissare la solidità sostanziale delle nuove idee progettuali.
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Non si tratta, dunque, di adoperare la storia per avallare un conformismo ideativo di tipo mimetico-pittoresco, né per giustificare ripristini linguistici o mutarne richiami stilistici “da facciata”. La ricostruzione della memoria diviene lo strumento di progettazione del suo futuro: l’Archeologia indica il senso, metodologico e concettuale, dell’uso dei materiali del passato ai fini della formazione del suo avvenire.
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1 Schizzi di studio della stazione 2 Veduta a volo d’uccello dell’area di progetto 3 Modello tridimensionale
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4.2 I Centri Culturali Stranieri a Palermo
In questi anni, l’Amministrazione Comunale ha dato grande peso alla cultura, sia nella promozione e produzione di spettacoli, mostre, convegni, concerti, ecc., sia nel recupero di spazi, antichi o nuovi, che potessero essere contenitori per la forte domanda di cultura presente in città. L’avere acquisito due magnifiche ville del patrimonio storico-artistico di Palermo: Villa Niscemi (diventata sede di rappresentanza del Comune) e Villa Trabia (diventata sede degli Assessorati alla Cultura e al Turismo), rivela immediatamente l’impegno dell’Amministrazione in questo versante. Nella settecentesca Casina alle Terre Rosse, sono sorte anche la Biblioteca dei Bambini e la Multimediale, corredata, oltre che di volumi d’arte e di letteratura, anche di cd-rom e postazioni internet. Ma tanti sono gli spazi per la cultura riscoperti, primi fra tutti le ex Officine Ducrot (oggi Cantieri Culturali alla Zisa), una straordinaria area di archeologia industriale di circa 54.000 mq che, con i suoi 40 capannoni, è già in parte, ed è destinata ad esserlo ancora di più in futuro, la “cittadella della cultura” di Palermo. In una palazzina dei Cantieri hanno trovato sede il Goethe Institut e il Centro Culturale Francese, nel nome di una vocazione all’accoglienza e alla valorizzazione delle culture straniere: in un grande capannone troverà spazio il Museo d’Arte Contemporanea, la cui progettazione artistica è stata affidata alla professoressa Eva di Stefano, Palazzo Ziino, l’edificio della fine dell’Ottocento, è diventato la “casa della cultura” di Palermo: nei tre piani dell’edificio di via Dante 53 (inaugurato nel dicembre del ‘99) trovano posto la Gipsoteca, comprendente i gessi di scultori siciliani tra Ottocento e Novecento, provenienti dalla Civica Galleria d’Arte Moderna “E. Restivo”; lo spazio espositivo per mostre contemporanee: e la Mediateca, con 30 postazioni (di cui 4 per non vedenti) con le quali è possibile accedere a qualsiasi risorsa multimediale. Palazzo Ziino è la prima struttura
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siciliana nella quale, in applicazione della Legge Ronchey,sono stati istituiti i servizi aggiuntivi, con biglietteria elettronica, merchandising e posti di ristoro. Fra gli altri spazi recuperati o utilizzati a fini culturali dall’ Amministrazione: l’Area di Servizio d’Arte di Villa Niscemi dedicata a Giacomo Baragli, i Magazzini Culturali ai Lolli, il Teatro Corsaro, lo Spazio Rock alla Favorita; l’atrio, la sala lettura e la sala cataloghi della Biblioteca Comunale; le biblioteche decentrate di quartiere (Brancaccio, Pallavicino, Borgo Nuovo), la Sala Almeyda nell’Archivio Storico Comunale, lo spazio denominato “Vignicella” nell’ex Ospedale Psichiatrico di via Pindemonte. 3
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Il goethe institut : centro di lingua e cultura tedesca Il Goethe-Institut è l’Istituto Culturale della Repubblica Federale di Germania ed è attivo in tutto il mondo. Promuove la conoscenza della lingua tedesca all’estero e la collaborazione culturale internazionale e trasmette un’immagine della Germania nelle sue più diverse sfaccettature offrendo informazioni sulla vita culturale, sociale e politica del Paese. Con la fitta rete di sedi in tutto il mondo, unite a Goethe-Zentren, associazioni culturali, sale di lettura, sedi d’esame e di corsi di tedesco da noi autorizzate, l’istituto porta avanti obiettivi centrali della politica culturale ed educativa all’estero. Uno degli scopi più importanti perseguiti dal Goethe-Institut è la promozione della cooperazione culturale internazionale. In quest’ambito, la Sezione Programmi culturali organizza, sostiene e presenta una vasta serie di progetti, che mirano a promuovere i contatti culturali fra l’Italia e la Germania. La Sezione Linguistica del Goethe-Institut di Palermo promuove workshops, seminari ed offre diversi servizi per insegnanti di tedesco nell’ambito del progetto “Deutsch als Fremdsprache” (Il tedesco come lingua straniera). Offre inoltre un programma di corsi di lingua e di esami assai differenziato. Il Centro Informazioni della Biblioteca del Goethe-Institut di Palermo fornisce informazioni riguardanti gli aspetti attuali della vita culturale, sociale e politica della Germania. Mette inoltre a disposizione di tutti coloro che nutrono interessi per la Germania, che ne vogliono studiare od insegnare la lingua, un vasto patrimonio di libri e altre media dalla tecnologia più avanzata. La biblioteca dispone di un patrimonio di 11.500 unità, che viene costantemente aggiornato, in particolare opere letterarie del Novecento e di filosofia, oltre a media e audiovisivi. Il Centro fornisce agli utenti informazioni su argomenti riguardanti la Germania. Offre anche la possibilità di effettuare ricerche
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tramite cd-rom oppure, a richiesta, on-line attraverso Internet. Fra i servizi offerti dal Centro Informazioni v’è quello di mettere in contatto biblioteche ed istituzioni scientifiche italiane con istituzioni bibliotecarie tedesche. Il servizio mette a disposizione degli utenti una ricca scelta di materiali di consultazione riguardanti Università e Centri di formazione, dando ragguagli sulle possibilità di studio in Germania. Sono anche disponibili: prestito internazionale (sono reperibili i testi presenti nelle principali biblioteche tedesche), traduzioni in italiano di letteratura tedesca, giornali e riviste tedesche con relativo catalogo alfabetico.
Centro culturale Francese e la biblioteca mediateca Raymond Roussel Il centro culturale francese si trova presso il complesso dei cantieri culturali della Zisa. la biblioteca contiene circa 8000 documenti (tra cui 5500 in libera consultazione), di vario supporto, raggruppati in cinque aree tematiche, distinte per colore e simboli, individuabili immediatamente: letteratura ,scienze umane e sociali, arti, mediterraneo, pedagogia e sezione giovani. I quotidiani, settimanali d’attualità e di informazione politica, riviste di letteratura e d’arte sono in libera consultazione. Videoteca di film in versione originale francese di ogni genere e periodo. Fondo specifico dedicato a opere di consultazione. Polo multimediale di cinque postazioni: accesso a Internet, ai canali di televisione francesi e francofoni, possibilità di videoconferenze, catalogo di siti selezionati per tenersi sempre aggiornati sulla Francia di oggi, consultazione DVD, CD-Rom.
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1 Impianto della piazza di fronte al Castello 2 Studio del livello ipogeo del caffè nella piazza del Castello 3 Calcoli in cubiti islamici 4 Schizzi di studio della stazione dei pullman
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I nuovi centri culturali previsti per la città di Palermo I Cantieri, Culturali alla Zisa di Palermo ospiteranno un nuovo grande Centro Culturale Euromediterraneo. Un grande centro culturale aperto alle culture di tutti i Paesi dell’Europa e del Mediterraneo che parte con l’insediamento, nel prossimo anno, presso una palazzina dei Cantieri Culturali alla Zisa, del Centro Culturale Francese e del Goethe Institut, l’annuncio dell’iniziativa, unica in questo genere nel Bacino del Mediterraneo, è stato dato stamani, a Villa Niscemi nel corso di una conferenza stampa dal Sindaco Leoluca Orlando e dall’Ambasciatore in Italia della Repubblica Francese, Jacques Blot. All’incontro con i giornalisti hanno preso parte, insieme e al Sindaco ed all’Ambasciatore Blot, anche l’Addetto Culturale dell’Ambasciata di Francia in Italia, Patrick Talbot, il Direttore del Centro Culturale Francese di Palermo, Thierry Roche, e la Direttrice del Goethe lnstitut di Palermo, Brina Anwandter. Nel porgere il benvenuto a Palermo all’Ambasciatore di Francia, il Sindaco Orlando ha sottolineato che “la disponibilità del governo francese e di quello tedesco nel partecipare alla creazione del Centro Culturale Euromediterraneo rappresenta la conferma dell’attività di contaminazione culturale fra i Paesi europei e mediterranei avviata dall’Amministrazione Comunale di Palermo avendo come luogo di riferimento i Cantieri Culturali alla Zisa. Questo centro - ha aggiunto - guarda naturalmente alla collaborazione del mondo arabo e della realtà israeliana, che a Palermo saranno uniti nel nome della cultura”. L’Ambasciatore Blot ha quindi illustrato il progetto di partecipazione del Governo Francese alla creazione di questo importante Centro. “Tre anni fa il Comune di Palermo - ha affermato Blot - ha proposto ad alcuni centri culturali di paesi stranieri di aprire una loro sede presso i Cantieri Culturali alla Zisa; un invito che la Repubblica Francese ha subito accettato. Apriremo a Palermo, grazie alla collaborazione tra l’Amministrazione Comunale, la Francia e la
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Germania, un grande centro culturale di nuova generazione, uno strumento di cooperazione tra Europa e Mediterraneo. Un progetto ambizioso che rappresenta indubbiamente una novità per l’Europa. Per la prima volta, infatti, tre Paesi realizzeranno in un unico luogo di Palermo, città crocevia di culture e di tradizioni, un nuovo modo di concepire la cooperazione culturale tra i popoli. Grazie a questo centro - ha aggiunto l’Ambasciatore realizzeremo a Palermo, luogo di incontro tra la tecnologia del nord . L’Ambasciatore Blot ha quindi assicurato che il Governo francese ha già impegnato le somme necessarie per realizzare la parte di sua competenza al fine di far nascere, già nel 2000, questo Centro Euromediterraneo. Il Sindaco Orlando ha quindi ribadito l’auspicio della creazione di un unico sistema di organizzazione e di gestione delle strutture dei Cantieri Culturali, “che diverranno sempre di più il polmone culturale della nostra città. Un progetto aperto, come hanno sottolineato tutte le parti che contribuiranno alla sua realizzazione, che darà vita, come ha annunciato il Direttore del Centro Culturale Francese, di numerosi eventi particolarmente nel campo museale, per rimettere a valore il patrimonio artistico e culturale della Sicilia; “un patrimonio - ha aggiunto - che così tanto ha in comune con la Germania e la Francia”. Tratto da: comunicato stampa 16 dicembre 1999
4.3 Masterplan relativo all’area di studio
L’area interessata dall’intervento è nel quartiere di BrancaccioMaredolce alla periferia sud-est della città di Palermo. E’ delimitata dalla via Giafar a nord e dalla linea ferrata e dalla zona industriale a nord-ovest. La possibilità di operare in un’area così ampia e così potenziale ha fatto emergere la necessità di affrontare il problema con uno sguardo proiettato alla gestione di questi spazi come patrimonio dell’intera area metropolitana e così abbiamo cercato di far rientrare gli interventi di recupero e riqualificazione in un programma di ampio respiro che si pone come obbiettivo la risoluzione delle problematiche più complesse della città di Palermo. Abbiamo individuato nel sistema dei trasporti pubblici e privati forse il sistema che più pregiudica qualsiasi possibile miglioramento delle condizioni ambientali. L’idea di Palermo è spesso associata ad un sistema del trasporti che stenta tra mille progetti a trovare una soluzione definitiva e programmatica. Nonostante il laboratorio di Laurea prendesse spunto dalla valorizzazione del sito archeologico del Castello della Fawara ed il lago di Maredolce attraverso la riqualificazione e la progettazione dei Centri Culturali Stranieri dopo una lunga analisi del contesto abbiamo desunto che qualsiasi intervento in questo territorio dovesse essere coordinato attraverso uno strumento come il Masterplan per trovare non una soluzione parziale ma un complesso di sinergiche operazioni atte alla valorizzazione delle risorse del quartiere Brancaccio-Maredolce ed alla gestione intelligente dei sistemi strutturali nell’area sud di Palermo, cioè l’ambito che comprendendo i due mandamenti Palazzo Reale e Tribunali si estende a Brancaccio e lo Sperone fino a perdersi nella zona di Ciaculli dove la campagna diventa urbana. Il masterplan si basa su di un concetto estremamente semplice ma a nostro parere fondamentale per sostenere la struttura del nostro intervento. Non solo è ricchezza della città il patrimonio monumentale storico e le aree occupato dai giardini ma lo spazio nella sua accezione più vasta. Si deve riconoscere
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l’intuizione degli speculatori, i primi a rconoscere nel semplice metro quadrato una qualità potenziale (economica in questo caso) ma questo deve cambiare il nostro sentire e valutare la città. Si dovrebbero assegnare valori agli spazi per poterli gestire e proteggere. L’obiettivo è valutare due grandi aree di Palermo, quella relativa alla zona della Stazione di Brancaccio e quella relativa all’area della Stazione Centrale. Come si osserva dalle cartografie ci rendiamo subito conto di quanto “peso” esse abbiano nella città, inoltre la linea ferrata che entra i città attraversando i quartieri procedendo fuori terra effettua una censura violenta nella trama del tessuto urbano interrompendo di fatto la continuità dei percorsi e dei volumi, e quindi negando l’idea stessa di città. E’ scandaloso che una città come Palermo non abbia una stazione per i pullman, e non abbia un sistema dei trasporti capace di coordinarsi. E’ assurdo che tutti i treni Debbano entrare nel centro cittadino più denso come è l’area della Stazione Centrale. Così come i pullman di tutta la Sicilia stipati in più file sulla via Balsamo già intasata dal consueto traffico. La nostra proposta prevede la creazione di una stazione intermodale a Brancaccio-Maredolce che funga da stazione di testata dotata di tutti i più moderni servizi e costituisca anche il contenitore per tutta una serie di attività al fine di vitalizzare il territorio. Il decentramento in quest’area periferica implica quindi il decongestionamento dell’area centrale della città dal transito dei pullman e lo smistamento dei passeggeri che viaggiano in treno e che sono diretti in città con mezzi quali metropolitana leggera , tram ed autobus in una sola struttura. Le ferrovie sarebbero incentivate in questo passaggio dalla possibilità di utilizzare delle aree di pertinenza della stazione Centrale come nuovi spazi per la città, per la residenza e soprattutto per i servizi. Per quando riguarda invece la stazione dei pullman potrebbe essere ricavata nello spazio adiacente all’area industriale e potrebbe trovare una giustificazione economica nella gestione
di una nuova area residenziale a bassa densità. Quest’area avrebbe sia la funzione di pagare l’investimento di costruire la nuova stazione dei pullman ma anche di regolare il processo urbano riportando attraverso la sovrapposizione di una maglia regolare ed un’altezza delle costruzioni ridotta la città ad una scala adeguata. In stretta connessione con questi interventi di scala territoriale, altri interventi minori come la riqualificazione della piazza antistante il Castello della Fawara ed il recupreo delle cortine di edifici minori che affacciano sul lago ed sul parco di Maredolce, o di altro carattere, non infrastrutturale come appunto la costruzione della sede dei Centri Culturali Stranieri nel parco. Tutti gli interventi architettonici sono basati sul sistema di misurazione e composizione islamico, il cubito, 444 mm, il modulo base con cui è stato costruito il Castello e che regola i rapporti geometrici tra le varie componenti planimetriche e detta i rigorosi criteri proporzionali delle varie parti sia in pianta che in alzato. La scelta di un modulo non è solo simbolica e neanche una facilitazione del lavoro quanto piuttosto la volontà di creare una percezione di unità e continuità nel territorio sia nei piccoli interventi di riqualificazione urbana come marciapiedi sia negli interventi monumentali come nell’edifico sede dei Centri Culturali Stranieri.
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4.4 Il progetto dei Centri Culturali Stranieri
Il progetto della sede dei Centri Culturali Stranieri appartiene alla storica tipologia del ponte abitato, la variazione rispetto al tema è data dal fatto che ne sovverte la consueta struttura invertendo la collocazione dello spazio abitato. Il ponte non sostiene più il peso dello spazio abitato supportandolo al di sopra delle proprie campate come nei celebri esempi di Firenze, Venezia, Roma e Parigi ma ora il corpo abitato è appeso alle sue campate ed è sospeso a pochi centimetri dal pelo libero dell’acqua. Tutti gli spazi funzionali sono disposti al di sotto delle campate del viadotto autostradale, il centro occupa per intero lo spazio sottostante le quattro corsie. Questa scelta ha comportato delle iniziali difficoltà nella gestione del programma funzionale per la presenza della rigida struttura dei piloni autostradali che partizionavano l’area in quattro parti con pochissimi spazi per la comunicazio tra di essi. Anche l’illuminazione naturale di questi spazi è stata un problema non indifferente, nonostante ciò abbiamo reso questi problemi la matrice che regola la struttura di questo progetto. Le aree delimitate dai piloni sono anche funzionalmente autonome, tutti i percorsi si articolano longitudinalmente al viadotto, sfruttando lo spazio interstiziale tra le corsie, attraverso un grande spazio centrale di distribuzione permette di percepire lo spazio come unica entità e orienta il centro verso il Castello della Fawara. La luce naturale ed artificiale scende per impluvium dai lucernai longitudinali che seguono gli spazi di distribuzione. L’arrivo al Centro avviene da via Giafar in corrispondenza dello svincolo, ai piedi del Monte Grifone vicino agli Archi Normanni delle sorgenti di S. Ciro, l’area è attrezzata con un parcheggio ipogeo per 72 automobili. La promenade di accesso si svolge lungo una serie di rampe e scale che conducono dapprima fino al sagrato della chiesa di S. Ciro per poi scendere fin sotto il livello del pelo libero dell’acqua percorrendo una gradonata oppure con un ascensore. L’atrio è lo spazio di ricevimento del pubblico, subito troviamo la biglietteria,
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il guardaroba ed uno spazio per il servizio informazioni sulle attività dei Centri Culturali e dell’Auditorium. Esso Comunica con l’esterno attraverso una piccola piazza-palco, questa costituisce una zona di decompressione dai rumori visivi della città ed allo stesso tempo uno spazio per attività temporanee quali spettacoli ed esposizioni. Il rapporto tra lìatrio ed il Castello della Fawara con il suo parco è garantito dalla grande vetrata con cui si conclude la lunga promenade; infine una torsione ed una proiezione verso il Castello, un aggetto leggero a pochi centimetri dall’acqua del lago pone lo spettatore in un rapporto diretto con un paesaggio ampio e ricco di complessità dove si articolano sullo sfondo la mole monumentale e monolitica del Castello con il suo giardino, la stecca di modeste case in linea che delimitano il margine del lago, e le torri caratteristiche della peggiore speculazione edilizia. Questa vista ha però una sua peculiarità che le è data dalla distanza creata dall’interposta presenza del lago che con la sua dimensione crea un filtro, allontana l’occhio dal oggetto dell’osservazione, favorisce una condizione altra, diversa, distaccata e non compromessa dalla confusione. Nell’atrio si trova anche un bookshop per libri in lingua originale e una piccola sala riunione per il coordinamento delle attività del Centro. In fondo all’atrio si accede al Foyer dell’Auditorium; quest’ultimo gode di una terrazza aperta sul lago, dotata di una piccola darsena per l’attracco di barche. Il Foyer è anche attrezzato con una piccola caffetteria. L’auditorium ha una platea con una capacità di 670 posti a sedere ed è dotato di appositi posti per disabili ed anziani. Comunica con il Foyer e con l’atrio attraverso spazi “soundlock”. La sala è fornita di una regia con accesso esterno. La struttura accoglie al suo interno anche le sedi dei Centri Culturali Arabo, Cinese ed Americano che ancora non hanno una loro rappresentanza a Palermo. Questi spazi sono ricavati per sottrazione, e concepiti come figli di un unico continuo processo su di una massa inerte. Queste
grandi lastre tese tra i piloni vengono divise per moduli funzionali ed emergono in un grande spazio interrotto solo dagli impluvi di luce. Questo procedimento è soggiacente alla nostra cultura architettonica siciliana, basta ricordare le vasche delle terme arabo normanne, o osservare l’evidenza del processo nelle Cave di Cusa dove addirittura il procedimento è cristallizzato nelle sue diverse fasi.
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Bibliografia
5.1 Bibliografia generale
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