Marco Giovenale: «Enciclopedia asemica/Asemic Encyclopædia», edizioni ikonaLíber

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marco giovenale enciclopedia asemica asemic encyclopædia

I volume 2011 – 2017

ikonaLíber



collana le forme del linguaggio


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marco giovenale enciclopedia asemica asemic encyclopædia

I volume 2011 – 2017

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INTRODUZIONE

L’avventura di ricerca di Marco Giovenale è in primis avventura di distrazione e distruzione di poetiche burocratiche, possiede una genealogia e gode di uno statuto felici, guarda a Emilio Villa, soprattutto all’indicazione che quest’ultimo ha dato di libertà e di rivolgersi al bosco, di precipitare nella selva. Gran parte della tradizione sperimentale italiana si volge, dantescamente, indietro alla selva fitta e oscura in smarrimento e perdizione, per inseguire lí le tracce e il profumo della profumata pantera che non si lascia prendere neppure per la coda, come lamenta Zanzotto, ma il cui odore è sufficiente a restituire il sonno e a far perdere provvidamente ogni speranza d’altezza. Non diversamente dalla caccia all’« uomo invisibile », o ai « sette errori in un film visto due volte di seguito », secondo la lezione e l’acribia di Corrado Costa, in una generazione ormai che ha acquistato molto in bella stolidezza e sistematica incuranza per blasoni e stemmi. Nella formazione di Marco Giovenale è diffusa ed encomiabile la pratica di esercizi di ammirazione, e spesso, dopo Emilio Villa, tocca a Corrado Costa, modello, piú ancora di Adriano Spatola, di un sillabare che fa scempio di credenze e si svolge molto all’ombra dell’idiozia e dell’impostura di tutta la realtà e di tutti i cerimoniali del vivere (vedasi Oggettistica). Fin da subito, una profonda sfiducia nelle certezze e nelle pacificazioni della lingua, e un aggirarsi tra disturbi, inutili attese, inceppamenti, sabotaggi, dismissioni, amnesie, cedimenti, sonnolenze, per inoltrarsi sovente nelle terre, senza piú guardierie, della scrittura solo per vedenti, di solo sogni visivi senza piú curarsi di scuole e direttive e messaggi e consegne. Decisamente piú dolente la deriva asemantica in Marco Giovenale, perché qui la repulsione per la grammatica, le sintassi e i significati diviene addirittura promiscuità e complicità con la dislessia, la disgrafia, i disturbi dell’apprendimento, i difetti di funzionalità, una certa ingiustizia di vivere e disubbidienza a crescere: e profonda pietas, piú che per la poesia, per il poeta e la sua solidarietà

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(la timidezza patologica e la grave balbuzie di Virgilio restano all’orizzonte una lezione che continua a commuovere e a far pensare e che nella nostra tradizione di ricerca è un riferimento assoluto). Si tratta di essere e di continuare a stare nella parte sbagliata: di essere nel retro, come non si è stancato di ripetere Corrado Costa: il retro della poesia, il retro del discorso, e continuare a sbagliare, a essere (« testoni e cocciuti ») nella parte sbagliata (il retro tace, non dice niente del discorso, è il retro). L’abbandono sempre piú radicale della poesia lineare per l’edificazione di un linguaggio minore (« stanchi di parlare, vogliamo delirare » ha proclamato Spatola) in Giovenale giunge a una grafia deterritorializzata da tutti i luoghi non solo del potere ma anche dell’abitare stesso: per esempio, nella pratica dell’installance avviene una vera e propria deiezione poetica in giro per strade, spiazzi e marciapiedi, e cioè una condizione randagia, senza tetto o fissa dimora, del verseggiare e delle scritture come difficilmente è dato incontrare per quanto di derive, perdite, porti sepolti, poco di nulla, sia anche fatta la nostra tradizione, a cominciare, direi, dall’altra immagine di riferimento, quella dell’ineffabile poeta Eumolpo che continua felice e imperterrito a scribacchiare versi mentre la nave affonda e tutti sono in fuga, e che preso per le brache e salvato a forza, dalla riva sicura, rimpiange la scrittura interrotta e la tempesta (l’ululato del vento). Che cos’è la scrittura interrotta? È l’atto puro della grafia: anche le sparse deiezioni di Marco Giovenale in questo senso vanno collocate dopo tutti i naufragi della poesia e al di fuori di ogni salvezza, se non appunto quella data dalla mano che scrive, che scrive e dondola. Giuseppe Garrera


INTRODUCTION

Marco Giovenale’s investigative adventure revolves above all around the distraction and destruction of bureaucratic poetics. It builds on a fine lineage and felicitous foundations, taking its cue from Emilio Villa, especially his vision of freedom: seeking out the forest, plunging into the wild. Much of the Italian experimental tradition turns back, as Dante did, into the thick, dark wood where all bearings are lost, in order to follow the trail and scent of the perfumed panther 1. It is a beast that, as Zanzotto complained, does not allow itself even to be caught by the tail, but its fragrance alone is enough to send us back to sleep, providentially losing hope of reaching higher ground. It is not unlike the hunt for the « invisible man » 2, or for the « seven errors in a film seen twice in a row » 3, to emulate the scrupulousness of Corrado Costa, in a generation that has by now built up a healthy store of stolidity and systematic disdain for all blazons and banners. Exercises in admiration are a laudable practice that have played a role throughout Marco Giovenale’s development. After Emilio Villa, they have frequently focused on Costa who, even more than Adriano Spatola, exemplifies a kind of spelling out that eradicates convictions, often with the sense that all aspects of reality and all rituals of living are idiocy and imposture (see Oggettistica). From the first, one finds a deep mistrust of linguistic certainties and appeasements, meandering through dysfunctions, obstructions, pointless delays, acts of sabotage, shutdowns, blackouts, cave – ins, dozings – off, and frequently wandering into realms – their gates now unguarded – of writing that is only for the eye, of purely visual dreams, with no more thought of schools or guidelines or messages or orders. In Marco Giovenale’s work, this asemantic turn is definitely more painful, because in his case the rejection of grammar, syntax and 1 The mythical panther described by Pliny and referenced by Dante in De vulgari eloquentia. 2 Corrado Costa, L’uomo invisibile, in The Complete Films: Poesia Prosa Performance (Florence, Le Lettere, 2007). 3 Corrado Costa, Caccia ai sette errori in un film visto due volte di seguito, “Frigidaire”, n° 38 (January 1984). [Translator’s notes].

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meaning goes so far as to become a familiarity and complicity with dyslexia, dysgraphia, learning disabilities, functional impairments, a certain injustice in living and disobedience to growing: and a deep devotion, not to poetry so much as to the fellowship of poets (Virgil’s pathological shyness and severe stutter seem to linger on the horizon as a moving example that continues to prompt reflection, a fundamental touchstone in our tradition of inquiry). It is about being on the wrong side, and staying there. It is about being on the B – side, as Corrado Costa loved to say: the B – side of poetry, the B – side of the discourse, and persisting in the error, « stubborn and pigheaded », always where you shouldn’t be (the flip side is silent, it adds nothing to the conversation, it’s the flip side). In Giovenale’s work, the increasingly radical abandonment of linear poetry in order to construct a minor language (« tired of talking, we want to rave », as Spatola declared) leads to a deterritorialized writing – out, severed not only from the seats of power but from any dwelling place: for example, in his practice of installance, poetry is scattered through the streets and across the sidewalks. This is writing and versifying in a feral state, with no home or fixed abode, such as one rarely encounters, even though the Italian tradition is also built on driftings and strayings, buried harbors, smidgens of nothing. Starting, perhaps, with that other key image, the ineffable poet Eumolpus who keeps blithely scribbling away as the ship founders and everyone must flee; after being grabbed and dragged to safety, he mourns on the shore for his interrupted writing and for the storm (the howling wind). What is this interrupted writing? It is the act of putting pen to paper: in this sense, Marco Giovenale’s scattered scattings occupy a place beyond every shipwreck of poetry and outside any hope of rescue, except by the writing hand – the writing, undulating hand. Giuseppe Garrera


















INTERVISTA di Giuseppe Garrera

— Marco, inizierei proprio con il chiederti di spiegare meglio che cos’è l’installance.  — Si tratta di una operazione che mette insieme installazione e performance. Giocosamente, sia chiaro; ossia senza caricare di eccessiva seriosità il vocabolo. È definibile « secretly performed installation ». Un’azione consistente nell’abbandonare (in luoghi poco o niente o molto o troppo accessibili) oggetti particolari, solitamente materiali asemici o verbovisivi. Si può registrarne la presenza con fotografie da condividere successivamente in siti o social network, oppure non registrarli: darne o non darne notizia. È in gioco qui, direi, un’ontologia dell’oggetto effimero, tralasciato, perso. L’essere fattuale concreto ma inafferrabile versus la ‘metafisica’ dell’oggetto d’arte dotato di unicità, speciale luogo di splendore (museo, galleria, atelier, collezione), ed essenza ineffabile, inverificabile. Non mancherebbero riferimenti all’infrasottile e all’infra – ordinario. Ma convocare Duchamp e Perec può sembrare atto di presunzione. — In che termini la scrittura asemantica va ricondotta a una propria tradizione madrilineare? — Piú a fondo esploro il territorio asemico, e insisto a navigare attraverso le rotte che nella rete sembrano esser tracciate, piú cose scopro, piú mi vien fatto di considerare che, stando al mio sguardo, i migliori artisti – o forse semplicemente i piú interessanti – in quest’area sono donne. Sospetto poi che i molti (e senza dubbio gloriosi) nomi maschili che spesso si citano come primissimi ‘dissodatori’ / fondatori di quella che solo recentemente viene identificata e studiata come ‘tradizione’ asemica, non siano i soli, ma semmai quelli che hanno di fatto potuto diffondere le loro opere in un secolo, il ventesimo, che nelle proprie strutture di cultura è stato comunque saldamente dominato da poteri e quindi presenze maschili. In letteratura, in arte eccetera.

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Ciò detto, mi azzardo a pensare – sperando di non cadere nell’improvvisazione paleoantropologica – che una qualche forma di ‘tendenza asemica’ possa forse essere individuata e collocata, vista, già addirittura alle origini prime della specie (umana), come modalità e modulazione della tendenza a incidere linee e segni astratti / distratti; a operare senza scopo; a lasciare tracce che vadano oltre qualsiasi significato fisso. Molto prima che qualunque codice scritto (e forse parlato) compaia all’orizzonte. Le tracce quasi ‘urgono’, premono per venire impresse dentro la creta oggettuale. Prima ancora che si possa anche solo inconsciamente sospettare che un atto di produzione di significato sia all’orizzonte, esse già in qualche modo attendono una mano che le scriva. La (non)categoria o area ‘scrittura asemica’ (asemic writing) – in quanto ombra sfocata dell’inclinazione umana verso il mero atto materiale di produrre segni e glifi liberi – ha un’età indeterminabile, antichissima. Ovviamente, il ‘lignaggio’ in grado di incarnare / trasmettere piú di altri i valori di una ur – tendenza come questa è stato quello delle madri. Tale linea ha avuto successo in questo, grazie cioè alla propria differenza rispetto all’ossessione del linguaggio, della pienezza del significato, dei sacri poteri della Parola: ossessione governata da maschi. — Le esplorazioni di Adriano Spatola o Emilio Villa non ti sembrano seguire un miraggio di tipo sibillino e dolcestilnovistico, in cui ‘Amore che ditta’, e cioè la scrittura, è immagine femminile, e l’innamoramento un viaggio verso i reami beati dell’insignificanza, dei segni che finalmente non vogliono piú dire niente ma solo essere, come in ogni avventura d’amore? — Sí. E mi piacerebbe anche inscrivere questa attitudine nell’ambito ampio del ‘senso’ / ‘nonsenso’, dove le due parole si fondono in una, che include e riguarda l’interezza delle attività umane in quanto inaggirabilmente catturate in un vincolo che lega l’attribuzione di senso alla percezione, all’esperire piú in generale. Sotto questa prospettiva, abbraccia parecchie aree di gioco (a)semantico, come il balbettamento e lo scarabocchio: al di fuori di qualsiasi intenzione e significato stabilito.


— Quanto nella tua scrittura asemantica è presente un elemento protestatario, e cioè una presa di radicale avversione nei confronti della parola come sistema istituzionalizzato e organizzato della menzogna e dell’impostura (tutta la tradizione asemantica insiste sull’equazione mortifera logos – linguaggio – legge)? — La presenza di questo elemento è un fatto (mi è capitato di parlarne, in interviste passate, su pagine in rete come la rivista “3:AM” o il blog “Asemicnet”). Allo stesso tempo mi preme sottolineare che questa idea, di uno strato di segni che crea una barriera tra me come autore e le sporche condotte politiche del logos occidentale, assomiglia anche a una frazione e area di una complessissima geometria o strategia di opere che mi impegno a strutturare da quando ho iniziato a scrivere, a disegnare, e a scrivere – disegnare (il verbo to drawrite, che unisce disegno e scrittura, è un mio conio). Come autore scrivo anche brani lineari di prosa, per esempio. Lontani dal contesto asemico, ma ugualmente partecipi del mio status cosciente di nemico delle (o di gran parte delle) attuali forme di logos, scrittura, arte, testi, dispositivi linguistici, e soprattutto spettacolo. — In molti tuoi lavori si può parlare della mitologia della ‘mano sinistra’ (mano sinistrata, ineducata, non allineata, disubbidiente) per cui scrivere diviene disegnare e una sorta di disgrafia mistica, qual è lo scarabocchiare? — Sí. Non potrei aggiungere granché. Oppure: dovrei aggiungere due cose. Che (innanzitutto) ho cercato di descrivere il mio percorso, il mio lavoro, usando il neologismo già citato, che ritengo sia inedito: to drawrite = disegnare – scrivere. (In fondo un nodo di tecniche apprese e improvvisazione totale). E che (seconda cosa) mi dispiacciono assai calligrafie nette e abbellimenti, bibelot ossia gingilli grafici, spesso barocchi. Gli svolazzi, le gale dell’abito da sera, i tendaggi merlettati dalla ‘bella mano’ mi irritano come poche altre cose. Altrettanto devo dire delle immagini glossy, cariche, in alta risoluzione (e alto stile), che inneggiano alle meraviglie del gesto fermo e abile. E cosí via.

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Apprezzo l’imperfetto, l’esito grafico di un risveglio a metà, mi piacciono gli schizzi, gli errori, i refusi, i glitch , i graffiti casuali, la musica malandata, i progetti lasciati in sospeso, le annotazioni cursorie, gli scarabocchi anche pessimi. Non apprezzo gli show del bravo artigiano asemico. — In questa isola di Citera della scrittura e della lingua, mi sembra che un peso importante abbiano per te anche i supporti dell’avventura scrittoria, e cioè pennelli, pennarelli, punteruoli, aghi, gessi, collage e carte, tutto un apparato di fabbro e d’officina necessario al gioco e a far perdere del tutto le proprie tracce. 30

— Senz’altro, e allo stesso tempo annoto che spesso e volentieri considero questi strumenti come se si trattasse di luci intermittenti. Sodali momentanei. Non posso immaginare una ‘bottega d’arte asemica’ rinascimentale. Faccio uso del piú ampio è variato set di strumenti, anche oggetti trovati, con l’obiettivo di dimenticare l’identità personale nel momento in cui do forma alla ‘cosa’ asemica. E aggiungo: spesso torno ai tool piú elementari, carta e penna. Tutti gli strumenti – semplici e complessi – si affannano comunque a minacciare, grattare ed erodere la superficie ma anche le profondità dei significati ricevuti, e a combattere e deviare le aspettative dei lettori, facendo in modo che possano perdere felicemente traccia della presunta solidità di qualunque loro castello di fantasmi, pensieri contenuti e contesti. Marco Giovenale


INTERVIEW by Giuseppe Garrera

— Marco, I’d like to start by asking you to explain what installance is. — It’s an action that blends installation with performance. In a playful way, mind you, without giving the term too serious a slant. You could call it a « secretly performed installation ». It consists in leaving special objects, usually asemic or verbovisual material, in places that are not easily or not at all or perfectly or overly accessible. Their presence can be recorded in photos that posted after the fact on websites or social networks, or else not recorded: they can be announced or unannounced. So I’d say what’s at work here is an ontology of the ephemeral, lost, forgotten object. Something factual and concrete but ungraspable, as compared to the ‘metaphysics’ of the art object, with its unique status, special place of glorification (the museum, gallery, studio, collection), and ineffable, unverifiable essence. There’s also some element of the infrathin and infra – ordinary. But dragging Duchamp and Perec into it might seem presumptuous. — In what sense can asemantic writing be seen as possessing its own matrilineal tradition? — The deeper I venture into asemic territory, sailing the waters that seem charted thus far on the web, and the more I learn, the more I come to think that the best artists in this field – or perhaps just the most interesting, from my perspective – are women. I suspect that the many (unquestionably brilliant) male figures who are often cited as the very first groundbreakers in what has only recently been identified and studied as the asemic ‘tradition’ were not the only pioneers; rather, they were the ones capable of getting their work seen in a century, the twentieth, whose cultural structures were still solidly dominated by male power and thus male presence. In literature, in art and so on. That said, I’m tempted to think – hoping not to slip into amateur paleoanthropology here – that some kind of asemic tendency could

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perhaps be seen and identified back at the very dawn of the (human) species, as a mode and modulation of the tendency to engrave abstract/distracted lines and marks; to work without a goal, leaving traces that go beyond any set meaning. Long before any written (or perhaps spoken) code appeared on the horizon. These traces were almost a need, demanding to be etched into the clay of objecthood. Before one could even unconsciously suspect that some act of production of meaning was on the horizon, they were already, in some sense, waiting for a hand to write them. The (non–)category or field of ‘asemic writing’ – as a blurry shadow of the human fondness for the purely material act of producing free – form signs and glyphs – is of indeterminable age, it’s ancient. Obviously, the ‘bloodline’ most capable of incarnating and passing on the values of an ur – tendency like this was the maternal one. It was successful due to this, that is, due to its difference from the obsession with language, with the fullness of meaning, with the sacred powers of the Word: an obsession governed by men. — Don’t you think the explorations of Adriano Spatola or Emilio Villa seem to pursue an enigmatic, stilnovista – like mirage, in which ‘dictating Love’ – i.e., writing – is a female image, and falling in love is a journey into the blessed realm of meaninglessness, of signs that at long last have ceased to mean and simply are, as in every love story? — Yes. And I’d also put this inclination into the broader category of ‘sense’ / ‘nonsense’; the two words merge into one that includes and regards the whole spectrum of human activities, which are unavoidably caught in a bond that ties the attribution of meaning to perception, and more generally speaking, to experience. From this perspective, it embraces many (a)semantic playing fields, like stuttering and scribbling, which lie outside of any established meaning or intention. — To what degree does your asemantic writing contain an element of protest, that is, a stance of radical aversion to the word as an organized, institutionalized system of lies and deception (the entire asemantic tradition emphasizes the deadly link between logos – language – law)?


— This element is definitely present (and has come up in past interviews on sites like the magazine “3:AM” or the blog “Asemicnet”). At the same time, I should point out that this idea – of a layer of signs that forms a barrier between me as an author and the dirty politics of the Western logos – is also one segment and area of a very complex pattern or strategy of works that I’ve been committed to constructing ever since I began writing, drawing, and drawriting (a word I’ve coined in English). I also write linear pieces in prose, for instance. Which are far removed from an asemic context, but are equally tied to my conscious status as an enemy of (most) current forms of logos, writing, art, texts, linguistic devices, and above all, spectacle. — Could you say that many of your works suggest a mythos of the ‘left hand’ (a bereft hand, an untrained, unaligned, disobedient one) for which writing becomes drawing and a sort of mystical dysgraphia, like doodling? — Yes. That pretty much sums it up. Although actually, I should add two things. First, that I have tried to describe my investigation, my work, using the neologism I mentioned before, which I believe is completely my own: drawriting. (Essentially, a blend of acquired techniques and total improvisation). And second, I am quite allergic to elegant scripts and adornments, bibelots, those graphic frills that so often verge on the baroque. Ruffles and flounces from an evening dress, lacy drapery with a ‘nice hand’ to it: that irritates me beyond anything. The same goes for those glossy, saturated images, in high resolution (and high style), which pay tribute to the confident, adroit gesture. And so on. I’m fond of imperfections, the graphic result of being half awake; I’m fond of sketches, mistakes, garblings, glitches, random graffiti, soured music, half – finished projects, cursory jottings, even the worst kind of doodles. I have no fondness for displays of skill by the deft asemic artisan. — In this fertile crescent of writing and language, it seems to me like you also assign an important role to the materials of this adventure, the brushes, markers, gouges, needles, chalk, collage, and paper, all the

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shopfloor equipment that is necessary to the game and that lets you hide your tracks.

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— Of course, though I should note that I often tend to think of these tools as flashes in the dark. Momentary allies. I can’t imagine taking a Renaissance workshop approach to asemic art. I rely on a whole range of instruments, even found objects, with the goal of leaving personal identity aside as I give shape to the asemic ‘thing’. And I should add: I often end up going back to the most elementary tools, pen and paper. All implements – whether simple or complex – are itching to threaten, scratch, and erode the surface, but also the depths of received meaning, and to combat and deflect the readers’ expectations, helping them blithely let go of any solid foothold they may have had, on any castle of ghosts, ideas, content, and context. Marco Giovenale

Traduzioni in inglese di Johanna Bishop.



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Marco Giovenale (1969) è editor e traduttore, vive a Roma, dove insegna poesia italiana contemporanea ed è uno dei due coordinatori del Centro di poesia e scritture contemporanee (Upter, upter.it/poesia). È tra i fondatori e redattori di gammm.org (2006). Dirige la collana di testi italiani “SYN _ scritture di ricerca”, delle edizioni ikonaLíber. È tra i collaboratori di alfabeta2.it, rivistasegno.eu, platformplee.nl, scriptjr. nl, sibila.com.br, e “ l’immaginazione ”. Nel 2011 ha preso parte al Bury Text Festival (Manchester). Testi in inglese: a gunless tea (Dusie, 2007), CDK (Tir-aux-pigeons, 2009), anachromisms (Ahsahta Press, 2014), white while (Gauss PDF, 2014). Tra i testi italiani più recenti: Shelter (Donzelli, 2010), Maniera nera (Aragno, 2015), Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016), Strettoie (Arcipelago Itaca, 2017), Quasi tutti (2010; nuova edizione Miraggi, 2018). Come artista, questi i libri di ‘scrittura asemantica’: Sibille asemantiche (La camera verde, 2008), Asemic Sibyls (Red Fox Press, 2013). Sito: http://slowforward.net

Marco Giovenale (1969) is an editor and translator, he lives in Rome, where he teaches Italian Contemporary Poetry and is one of the two coordinators of the Centro di poesia e scritture contemporanee (Upter, upter.it/poesia). He’s founder and editor of gammm.org (2006). He’s the head editor of the series of Italian texts “SYN _ scritture di ricerca”, published by ikonaLíber. He’s among the contributors of alfabeta2.it, rivistasegno.eu, platformplee.nl, scriptjr.nl, sibila.com.br, and “l’immaginazione”. In 2011 he took part in the Bury Text Festival (Manchester). Books in English: a gunless tea (Dusie, 2007), CDK (Tir-aux-pigeons, 2009), anachromisms (Ahsahta Press, 2014), white while (Gauss PDF, 2014). His most recent texts in Italian: Shelter (Donzelli, 2010), Maniera nera (Aragno, 2015), Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016), Strettoie (Arcipelago Itaca, 2017), Quasi tutti (2010; new edition Miraggi, 2018). As an artist, these are his ‘asemic writing’ books: Sibille asemantiche (La camera verde, 2008), Asemic Sibyls (Red Fox Press, 2013). Website: http://slowforward.net



© Edizioni ikonaLíber, 2019 via Lago di Lesina, 15 • 00199 Roma tel. 06 • 86.32.96.53 ikonaliber@ikona.net ikonaliber.it

Tutti i diritti riservati. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, se non autorizzata.

ISBN: 978-88-97778-55-4

Collana Le forme del linguaggio.

Progetto grafico: Fabrizio M. Rossi. Immagine di copertina: Marco Giovenale. Impaginazione: studio Ikona [www.ikona.net] Traduzioni in inglese di Johanna Bishop.

Finito di stampare per ikonaLíber nel mese di gennaio 2019 da Printí, Manocalzati (AV) su carte ecologiche certificate Fedrigoni Tintoretto e Arcoset. Composto in Scala sans.



9 788897 778554

€ 18,00

It is about being on the wrong side, and staying there. It is about being on the B – side, as Corrado Costa loved to say: the B – side of poetry, the B – side of the discourse, and persisting in the error, « s tubborn and pigheaded », always where you shouldn’t be (the flip side is silent, it adds nothing to the conversation, it’s the flip side).

ISBN 978-88-97778-55-4

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Si tratta di essere e di continuare a stare nella parte sbagliata: di essere nel retro, come non si è stancato di ripetere Corrado Costa: il retro della poesia, il retro del discorso, e continuare a sbagliare, a essere (« testoni e cocciuti ») nella parte sbagliata (il retro tace, non dice niente del discorso, è il retro).

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