emilio salgàri
il viaggio della stella polare
illustrazioni di màlgari onnis introduzione di antonella greco
ikonaLíber
Nota editoriale di Fabrizio M. Rossi .......................................................... 11 Parte prima...................................................................................................... 19 1. Larvik.......................................................................................................... 21 2. La Stella Polare.......................................................................................... 27 3. La partenza................................................................................................ 37 4. Dallo Skagerrak al Mare del Nord.......................................................... 45 5. I fjord della Norvegia................................................................................ 53 6. I giganti del mare.................................................................................... 59 7. Una terribile avventura.......................................................................... 69 8. Un dramma polare.................................................................................. 76 9. Nei paraggi del Maelstrom...................................................................... 83 10. Il Capo Nord............................................................................................. 92 11. Le coste della Lapponia.......................................................................... 99 12. Nel Mar Bianco....................................................................................... 107 13. Addio, Europa!........................................................................................ 113 Parte seconda................................................................................................ 123 1. Le esplorazioni artiche.......................................................................... 125 2. Gli orrori delle regioni polari............................................................... 136 3. Il Mar Bianco.......................................................................................... 147 4. Il naufragio della Fraya......................................................................... 156 5. Nei paraggi dello Spitzbergen.............................................................. 163 6. La Stella Polare fra i ghiacci.................................................................. 169 7. Terra!… Terra!… ...................................................................................... 178 Parte terza..................................................................................................... 187 1. La scoperta della Terra di Francesco Giuseppe.................................. 189 2. Il Capo Flora............................................................................................ 197 3. La caccia ai trichechi............................................................................. 205 4. Il Canale Britannico............................................................................... 213 5. Lotta coi ghiacci...................................................................................... 221 6. Le prime pressioni................................................................................ 229 7. L’incontro con la Cappella.................................................................... 234 8. La baia di Teplitz..................................................................................... 245 9. Accampamento a terra.......................................................................... 254 10. L’inverno polare..................................................................................... 260 11. Verso il Polo........................................................................................... 269 12. Il ritorno................................................................................................. 279 Iceberg Dodici dipinti a olio di Màlgari Onnis........................................ 287
Indice
Introduzione di Antonella Greco.................................................................. 7
Introduzione
Cos’è un iceberg? Una concrezione di ghiaccio, specchiante, abbagliante, con i colori che trascorrono a seconda delle ore e del colore del mare. A volte si sciolgono e allora disvelano oggetti singolari, rimasti prigionieri nelle sue spire. Navi. Balene. Uomini persino. Montagne galleggianti e libere a volte minacciose. È incatenata all’iceberg la leggenda della nave inaffondabile, di quel Titanic che si inabissava nel viaggio inaugurale, simbolo della hýbris tecnologica del xix secolo e della falsa sicurezza del secolo breve. Come quel secolo, il Titanic si inabissava portando con sé disuguaglianze, affetti, ricchezze immense, povertà inimmaginabili. Altre volte l’iceberg, così impenetrabile ma anche fragile nella sua evanescente durezza, affascina come il cristallo. Diventa un simbolo, montagna innaturale nella sua naturalità, cangiante ed impenetrabile, sfuggente ma immanente. In tutti i casi una proiezione di chi lo guarda che ne coglie i molteplici effetti, estetici e psicologici. Duro come un iceberg si dice di qualcuno che non comunica di sé che aspetti fantasmatici e fuggevoli. In tutti i casi imprendibili. A New York, camminando dalla parte di Chelsea sulla High Lane (il museo all’aria aperta che percorre il tragitto della metropolitana sopraelevata dove le opere sono la città) si erge una architettura di vetro lattiginoso di Frank Gehry simile a un iceberg che attrae e respinge nello stesso tempo. Perché è incongruo, surreale. Appartiene al mondo naturale, è un reperto sfuggito al controllo che si è arenato ai margini della città. Dove la metropoli, l’antica Manhatta del film di Paul Strand e del pittore Charles Sheeler (1921) è un trionfo di macchinari e fumi e gru che disegnano lo spazio nel cielo e scavano le rocce sulla terra. L’iceberg è un ossimoro di cui conosciamo solamente uno dei termini. Montagna che galleggia sull’acqua dell’oceano, specchio che si scioglie, schermo sul quale si proietta la luce e che a sua volta la restituisce centuplicata, frazionata, iridescente. È un fatto che l’incontro con l’iceberg nell’arte e nella letteratura suggerisca spesso una nuvola minacciosa, rappresenti l’essenza
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stessa del pericolo e della sua imprevedibilità. L’incontro con l’iceberg è incoronato di maledettismo. Il Gordon Pym (Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket) di Edgar A. Poe, di settant’anni precedente il racconto di Salgàri, è avvolto da un’aura misteriosa e romantica, romanzo di formazione che culmina con la morte del protagonista nell’oceano antartico. Morte misteriosissima, enfatizzata dal finto non finito del romanzo. Così La sfinge dei Ghiacci di Jules Verne che pretende di esserne il seguito, dove l’impatto con l’iceberg determina lo svolgersi obbligato del romanzo. E infine, con una coincidenza tutt’altro che rara nella storia, Futility di Morgan Andrew Robertson, che addirittura prevede, nel 1898, la catastrofe del Titanic quattordici anni dopo. In ognuno di questi romanzi l’iceberg rappresenta il pericolo incombente, la variabile impazzita. Il lato oscuro di una natura altrimenti addomesticabile e soprattutto, per ciò che riguarda il Titanic, la perdita dell’innocenza. Il romanzo di Salgàri di cui si parla riflette invece ancora tutta la fiducia nello scientismo ottocentesco, la forza della preparazione, l’oggettività della tecnica e del progetto, la precisione del comando e della risposta possibile dell’avventura. «Excelsior!» aveva gridato il gran ballo per il nuovo secolo nella vittoria della tecnica sulla natura. E nel romanzo salgariano si allude a Torino come a quella città moderna che sarà nell’esposizione universale del 1911. Dovessimo definire il pittore dei ghiacci, come Turner è quello delle tempeste e Vermeer di Delft quello più amato da uno dei personaggi di Proust, diremmo che l’aura romantica e catastrofica appartiene a Caspar David Friedrich, i cui iceberg paurosi e immanenti, frastagliati come colossali rovine parlano appunto di una natura da contemplare ma con la quale sia meglio non avere l’ardire di confrontarsi. Poche eccezioni rimangono a questo che è uno dei tòpoi della pittura occidentale. Gli iceberg dipinti da Màlgari Onnis, che qui illustrano il romanzo di Salgàri, sono invece catartici e sereni, monumentali ma non
minacciosi, dominabili e dipinti con la curiosità nei confronti della forma come la pittrice – famosa ritrattista – cerca di cogliere, nelle figure che dipinge, quel quid che le rende umane e accettabili. Anche gli iceberg possono essere assimilabili a una galleria di ritratti, un elenco di fantasmagorie che l’autrice registra con pacatezza, quale è nel suo carattere, ma con la curiosità di chi ricerca forma e colore di queste montagne di luce, senza farsi tremare i polsi, senza subirne la pericolosa perfidia, ma anzi accarezzandone le superfici. Ne deriva uno sbalorditivo catalogo di pezzi unici, diversi dalla pittura di paesaggio, perché inaudito e diverso il materiale di quei particolari paesaggi che si illuminano nelle più strane iridescenze. Materia di ghiaccio unica e sorprendente che svaria con l’incontro con la luce, che cambia di forma e si mostra qual è, mutevole e cangiante, monumentale e imprendibile, pronta a sfuggire a scivolare via a negarsi alla vista e all’individuazione. Ma in tutti i casi collaborativa e pacifica. La stessa autrice parla di queste concrezioni dell’assurdo come amici e complici, vettori di serenità e di meraviglia. Ed è così che li dipinge, senza indulgere ad alcun effetto speciale teso ad esalarne l’effetto simbolico. Amante della montagna, l’autrice ritrova una natura “alpina” in quelle punte scabrose pronte a trasformarsi davanti a noi, montagne precarie in millenaria mutazione, deserti popolati di orsi bianchi, quelli di cui si parla nel racconto di Salgàri che l’iceberg sgrulla via su una nave come molesti parassiti. Placidamente gli iceberg di Màlgari pascolano sulle acque come una colossale mandria tranquilla pronta però a scatenarsi, in un pericoloso turbinio, come nella mano del destino che affonda il transatlantico più inaffondabile del mondo. Per concretizzarsi, all’alba del giorno dopo, nelle magnifiche montagne di luce che la pittrice ci descrive ancora, con serenità e compiutezza. Antonella Greco
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Nota editoriale
Emilio Salgàri (Verona, 1862 – Torino, 1911) fu senza dubbio un grande sognatore, ispiratore a sua volta di sogni esotici e d’avventura di generazioni intere. Egli stesso alimentò la leggenda che i suoi scritti fossero frutto di sue esperienze di viaggio, tanto reali quanto sfolgoranti; non era vero, e piuttosto per lui la scrittura era un modo – in certa maniera comunque reale e sfolgorante – per evadere dall’orizzonte ristretto della vita borghese e provinciale. Ciononostante, o forse proprio per questo, la suggestione delle sue opere più rappresentative fu irresistibile, almeno per il ragazzino che ero quando, costretto a letto da qualche malanno stagionale o dell’età, mi immergevo in furibonde e interminabili letture delle prodezze di Sandokan e Yanez o dei corsari dei Caraibi; noncurante degli inviti dei miei genitori a non stancarmi, mi nascondevo sotto le coperte a leggere montagne di quei libri alla luce di una torcia elettrica, ben deciso a terminarli tutti prima della mia guarigione. Il passo successivo fu Conan Doyle, quindi Poe e Dumas, ma questa è un’altra storia. Sono certo di non essere stato il solo a venire attratto, in modo persino compulsivo, da quel sognatore. Per decenni i suoi innumerevoli racconti e i più di ottanta romanzi vennero inseriti nelle collane “giovanili” e spesso pubblicati senza troppi riguardi verso la correttezza redazionale o addirittura l’autenticità piena del testo. Solo nel decennio 1960–1970 iniziò un’attività di ricerca filologica che portò a edizioni rispettose della scrittura di Salgàri, pur con tutti i suoi limiti formali e strutturali; penso al lavoro di Spagnol e Turcato, che condusse ai diciannove volumi contenenti i lavori maggiori di questo autore. Ma io allora ero già cresciuto quanto bastava, e i suoi libri già tutti divorati e digeriti, fossero come fossero. Poco tempo fa, dunque molto tempo dopo, mi sono accorto che questo Viaggio della Stella Polare mi guardava da mezzo i libri che furono di mio padre, grande estimatore di Salgàri (e insisto sull’accento al posto giusto, dove lo metteva il suo titolare firmandosi, e facciamocene una ragione). A farmi l’occhiolino era una prima edi-
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zione di questo testo, dall’aria molto vissuta e molto fin de siècle, che, all’ultimo, ha avuto la meglio sulle mie resistenze e mi ha riportato indietro nel tempo: nel mio e in quello di Salgàri. La trappola tesami dagli scaffali della mia biblioteca si è chiusa su di me, piccolissimo editore bibliofilo, quando ho associato idealmente al libro alcuni quadri di Màlgari (questa volta l’accento è davvero sdrucciolo) Onnis, dipinti dopo un suo viaggio nelle regioni polari: les jeux sont faits, ed ecco Il viaggio della Stella Polare nel terzo millennio. In quest’occasione Salgàri si era ispirato a una storia vera: la spedizione verso il Polo Nord guidata da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, fra il 1899 e il 1900. Il libro uscì già proprio alla fine del 1900 come “strenna di Natale” – un instant book, diremmo oggi – basandosi sulle dichiarazioni del duca e su articoli pubblicati su giornali e riviste. Le intenzioni dell’autore sono dichiarate nella sua dedica Ai miei giovani lettori: «rendere popolare, attraente e istruttiva la storia dei viaggi polari, dall’ultimo dei quali la nostra cara Italia ha gloria e onore». Un vero manifesto di tutta l’opera salgariana, che voleva essere appunto popolare, attraente e istruttiva (ricordate le sue talora estenuanti descrizioni naturalistiche seminate qua e là nel bel mezzo di imprese mirabolanti?). In più, e non di poco rilievo, c’è quella “cara Italia”, e la sua gloria e l’onore. Era l’Italia, da poco unita dai Savoia, che cercava a tutti i costi e in tutta fretta un posto alla pari con le altre nazioni già alle prese da tempo con le esplorazioni geografiche, corredo essenziale del colonialismo: così fan tutte, perché non l’Italia? La Società geografica italiana era stata fondata nel 1867 a Firenze, allora capitale del Regno d’Italia, per trasferirsi poi nel 1872 a Roma, nuova capitale da un anno. Salgàri s’infervora nel narrare le gesta del “giovine duca”, esibendo un lessico punteggiato di “ardenti” e “animosi”, “bollenti” e “focosi”, forse per sbrinare le gelide atmosfere iperboree, chissà; o magari per farci venire il sospetto che una certa retorica italiana non nasca col fascismo ma affondi le sue radici nell’Ottocento
sabaudo, al pari delle pulsioni coloniali; et de hoc satis. Di certo c’è un tono encomiastico e adulatorio nei confronti del potere monarchico, tono che abbiamo cercato di mitigare abolendo la Selva di Maiuscole, di Altezze Reali, Re e Regine, Augusti Príncipi, Duchi e Conti; siamo ormai in Democrazia, del resto. Al di là di questa deferenza, Salgàri si attiene al programma esposto nella dedica; così mescola al resoconto del viaggio le sue già citate descrizioni naturalistiche – talvolta sfiorando le vette del lirismo, come nella descrizione delle notti artiche – ma anche la storia e le storie delle esplorazioni artiche. Là dove mette in secondo piano l’intento didattico piú puntiglioso sa come avvincere il lettore, sia che parli delle cose della natura, sempre superlativa e sorprendente e degli uomini antagonista, sia delle gesta di quegli uomini (poiché di donne non v’è traccia, in quelle gelide regioni, se non nei «doni generosi della buona Regina» o nelle «brave madri» eschimesi). Tornando alla selva di maiuscole abolite: questa non è un’edizione filologica, non se s’intende una replica della prima edizione, e me ne assumo la responsabilità. Siamo intervenuti sui refusi, naturalmente, ma anche sui toponimi (che sembrano basati su una nomenclatura geografica tedesca) adeguandoli ove possibile a quelli oggi in vigore e segnalando con un asterisco quelli che non siamo riusciti a rintracciare. Tutte le note al testo sono di Salgàri stesso, non essendoci sembrato opportuno aggiungerne (salvo tre, per noi indispensabili, fra parentesi quadre) per non insistere sull’aspetto didattico. Siamo infine intervenuti anche su alcune delle forme ortografiche, grammaticali e sintattiche dell’italiano ormai desuete, con l’intenzione di rendere il testo più agevolmente leggibile al giorno d’oggi. Ci auguriamo di aver reso un servigio al lettore e, magari, a Salgàri stesso, proiettandolo un po’ nel nostro presente. Questo libro è dedicato ai miei figli: Fedro, il geografo bibliotecario, e Tancredi, il viaggiatore musicista. Fabrizio M. Rossi
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IL VIAGGIO DELLA STELLA POLARE
Ai miei giovani lettori Per vostra strenna di Natale quest’anno ho scritto il presente racconto, desunto dagli articoli pubblicati dai giornali e dalle riviste scientifiche, sul viaggio della Stella Polare verso il Polo Nord. Con questo ho avuto in animo di magnificare uno dei tanti ardimenti gloriosi dovuti ai figli di casa Savoia. La relazione ufficiale, che il duca degli Abruzzi sta preparando, è destinata agli scienziati; il racconto che ho scritto per voi, invece, è tessuto su quanto l’augusto principe ha comunicato alla stampa e al pubblico; ma vi ho intercalato quanto si conosce sulle regioni iperboree, cercando di rendere popolare, attraente e istruttiva la storia dei viaggi polari, dall’ultimo dei quali la nostra cara Italia ha gloria e onore. A voi il dirmi se la meta che mi sono prefisso è stata raggiunta. Torino, dicembre 1900. Emilio Salgàri
PARTE PRIMA
La Stella Polare nel porto di Kristiania. Da Il viaggio della Stella Polare, Genova, 1900.
Sulle coste meridionali della Norvegia, di fronte allo Skagerrak che bagna contemporaneamente le spiagge settentrionali della Danimarca, si apre una piccola baia che dai norvegesi fu chiamata di Larvik. Essa è situata fra il profondo fjord di Helgeroa e quello amplissimo di Kristiania 1, e la città che sorge a metà della baia è capoluogo della contea, quantunque non conti che un numero molto limitato di persone, appena dodicimila. Nessuna notorietà, nessuna fama di qualsiasi genere l’aveva fatta conoscere prima. Era molto se si sapeva in Europa che esistesse; tutt’al piú si sapeva che era un porticino di mare, perduto tra i fjord norvegesi. Fu Nansen, il fortunato navigatore polare, che tutto d’un colpo la rese celebre, poiché fu in uno di quei modesti cantieri che fu fabbricata, dall’ingegnere Archer, la nave che condusse o meglio che trascinò, per tre lunghi anni, l’audace esploratore dei mari artici. Fu infatti costruito, varato e armato a Larvik quel capolavoro dell’ingegneria navale che, mercè le sue forme speciali, seppe resistere per tanto tempo alle tremende pressioni dei ghiacci. Il Fram fece conoscere Larvik all’Europa, anzi, possiamo dire al mondo intero. Verso i primi di giugno del 1899, presso una delle calate della baia, s’accalcava una folla di marinai, di pescatori e anche di popolani intenti a osservare una nave che pareva affrettasse gli ultimi preparativi della partenza. Quel legno non aveva, almeno in apparenza, alcunché di straordinario per attirare l’attenzione di tante persone. A Larvik ben altre navi, anche molto piú belle e piú grosse, s’erano vedute entrare, caricare e uscire senza che avessero destato alcuna curiosità. Era un tre alberi, simile a quelli che usano i pescatori di balene, costruito interamente in legno, con una macchina che non doveva 1 [Kristiania fu il nome della città di Oslo fino al 1925.]
Larvik
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sviluppare una forza soverchia, e che di notevole non aveva che un grande sviluppo di vele. Sul coronamento però portava un nome che dopo aver fatto battere il cuore a tanti italiani produceva ora una viva emozione nei cuori dei norvegesi: Stella Polare Quel nome era ormai diventato popolare anche nella tranquilla Larvik; forse quanto quello della nave di Nansen. La voce che quella nave stava per slanciarsi fra i nebbioni della regione polare e le montagne di ghiaccio di quella gelida regione si era sparsa rapida, scuotendo anche i freddi temperamenti dei buoni norvegesi. Sulla coperta e intorno alla nave ferveva un lavoro febbrile che accresceva la curiosità dei marinai, dei pescatori e dei borghesi accalcati sulla gettata. A ogni istante casse di dimensioni enormi, mucchi di cassette, di barili, ammassi di pellicce, sacchi, attrezzi di ricambio, pali, traverse e oggetti informi venivano issati a bordo per scomparire subito nelle viscere della nave. L’equipaggio, composto per la maggior parte di norvegesi, lavorava con un ardore insolito, stimolato dalla voce di alcuni ufficiali che dall’aspetto e dai tratti del volto parevano appartenere a una razza ben diversa dalla scandinava. Sul ponte di comando un giovanotto, dall’aspetto ardito, dai lineamenti energici nonostante la sua gioventú, con baffetti e occhi neri, sorvegliava attentamente il carico, marcando ogni cassa, ogni barile, ogni oggetto che veniva issato in coperta. Gli occhi dei curiosi, piú che sulla nave e sui marinai, erano appunto fissi su quel giovane comandante. Dei dialoghi vivaci s’incrociavano specialmente fra i marinai, suscitando rumorosi e svariati commenti: – Vi dico io –, diceva un vecchio mastro d’equipaggio, dall’aspetto fiero e dai capelli ormai bianchi –, che quel giovane principe farà molta strada.
Ve lo dice papà Nerike, il piú vecchio ice-master 2 della Norvegia. – Sí –, rispose un pezzo di gigante dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, che portava un grosso gabbano di tela cerata e che calzava pesanti stivali di mare –, quel giovane andrà lontano. Se non riuscirà a superare il nostro Nansen, non rimarrà molto indietro. Vivaddio!… Ci vuole un bel fegato per tentare, alla sua età, una esplorazione polare. – Specialmente quando si è principe di sangue reale e si ha dinanzi una splendida carriera –, riprese papà Nerike. – E che non mancano tutti gli agi della vita –, aggiunse il marinaio gigante. – E soddisfazioni –, seguitò un borghese panciuto che portava degli occhiali d’oro. – E come è stata organizzata la spedizione!… –, esclamò il mastro. – Io ho assistito a quella di Nansen; ebbene, vi posso dire che mai navigante polare è riuscito a completarla come ha fatto quel giovane principe. Domandate un po’ al mio amico Andresen che fa parte dell’equipaggio, che cosa ne dice. Per mille balene!… Con una nave cosí bene equipaggiata e approvvigionata mi sarei sentito anch’io il desiderio di seguire quell’audace giovanotto, malgrado le mie sessantasette primavere. – Ah!… –, esclamò il gigante. – Tu hai parlato con Andresen?… – Sí, Norum. – È stato imbarcato come primo nostromo, è vero? – E con una paga splendida. Il principe è generoso come un lord, mio caro. – E che cosa ti ha raccontato? – Che a Kristiania la Stella Polare imbarcherà tanti viveri da poter nutrire l’equipaggio per due anni. Mi ha detto che non mancheranno nemmeno gli strumenti musicali e che vi sono perfino dei fonografi. 2 Pilota dei ghiacci.
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– Dunque la Stella Polare non completerà qui il suo carico? – No, amico Norum. La nave quest’oggi lascerà Larvik. – E non tornerà piú? –, chiesero parecchi marinai e pescatori con una certa emozione. – Farà poi una breve comparsa, cosí almeno mi ha detto Andresen –, disse mastro Nerike. – Faremo al principe una splendida accoglienza –, disse il gigante. – Giammai urrà piú formidabile sarà uscito dal mio petto. – E poi andrà direttamente verso il Polo? –, chiese un giovane pescatore, con un certo tremito nella voce. – Uh!… Come corri, tu, Sodermann –, disse mastro Nerike. – Credi tu che sia cosí facile andare al Polo? Il nostro Nansen ha impiegato tre lunghi anni per compiere il suo viaggio, e come tu sai non ha potuto giungere a quel dannato Polo. Se le mie informazioni sono esatte, la Stella Polare per quest’anno non si spingerà molto innanzi. Si fermerà ad Arcangelo per ultimare le sue provviste e per imbarcare centoquaranta cani, poi muoverà direttamente verso la Terra di Francesco Giuseppe, dove probabilmente svernerà. Non sarà che l’anno venturo che il principe si slancerà risolutamente verso il nord. – Con la nave? –, chiesero il giovane pescatore e il marinaio gigante. – No, amici, il principe non seguirà la tattica di Nansen. Ormai sembra assodato che le navi non possono oltrepassare l’immensa barriera di ghiaccio che circonda il Polo. Lascerà la Stella in qualche sicura baia della Terra di Francesco Giuseppe, nei pressi del Capo Flora, a quanto sembra, poi andrà innanzi con le slitte e coi cani. – Purché il colera non colga quegli animali! Tu sai, papà Nerike, che i cani polari vanno soggetti a un’epidemia terribile che in breve li distrugge. – E allora il principe andrà innanzi a piedi, a piccole tappe. Non è uomo da arrestarsi, ve lo dico io, e cosí lo ha detto pure il nostro Nansen.
In quell’istante un marinaio che veniva dall’interno della città fendette impetuosamente la folla accalcata sulla gettata, gridando: – Largo!… Largo!… Ho fretta!… Udendo quella voce, mastro Nerike si era vivamente voltato. L’uomo che fendeva la folla era un giovanotto di vent’anni, solidamente piantato, con braccia muscolose, spalle ampie, un vero tipo di marinaio nordico. – Andresen!… –, esclamò il mastro. – Quali nuove rechi dunque? – Si parte, papà Nerike –, rispose il primo nostromo della Stella Polare. – Andate a Kristiania? – Sí, a imbarcare le rimanenti provviste. – E salperete?… – Il 12, se tutto andrà bene. – Desideriamo rivedervi a Larvik prima che abbandoniate definitivamente le acque dello Skagerrak. Dirai al duca che noi vogliamo alzare tre urrà in suo onore. – Saremo qui il 19. – Addio Andresen! –, esclamò papà Nerike con una certa commozione. – Vuoteremo un’altra bottiglia assieme. Non si sa mai se si può tornare vivi dai ghiacci del Polo. – Torneremo, mastro Nerike –, disse il nostromo con un sorriso. – Tutti abbiamo piena confidenza nel duca. Amici, arrivederci presto!… Strinse rapidamente la mano ai piú vicini e salí lestamente a bordo. La Stella Polare aveva allora ultimato il suo carico e l’equipaggio stava ritirando i cavi che erano stati gettati a terra. Il pilota era già salito sul cassero per guidarla nel tortuoso fjord di Kristiania. Il duca e i suoi ufficiali davano gli ultimi ordini con quella calma che già gli abitanti di Larvik avevano ammirata, mentre dalla ciminiera, situata fra l’albero maestro e quello di mezzana, uscivano getti di fumo nerissimo misto a qualche scoria. – Molla tutto!… –, si udí gridare dal pilota. Papà Nerike si era voltato verso la folla.
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– Amici! –, gridò. – Tre urrà in onore del principe e della Stella Polare! Tre urrà formidabili s’alzano fra gli spettatori, rimbombando d’eco in eco sulle due sponde della baia e fra i boschi di pini e di abeti che s’arrampicano su per le collinette. La bandiera italiana che sventola a poppa, senza la corona reale, viene ammainata per tre volte, e la Stella Polare si allarga dalla gettata e scende maestosamente verso le cupe acque dello Skagerrak, mentre dalla riva si sventolano i fazzoletti e si gettano in aria i berretti. – Urrà per i valorosi che vanno al Polo!… –, urla un’ultima volta papà Nerike con voce rimbombante. La sua voce non giunge piú a bordo della nave. Essa è già in mare e fila lungo le alte e ripide coste della Norvegia meridionale con la prora volta verso il profondo fjord di Kristiania.
ICEBERG dodici dipinti a olio di MÀLGARI ONNIS
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