“Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”
A GIU SO S RP TIZ RE IA SA MENSILE - ANNO X - NUMERO 4 - APRILE 2010 - E 6
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John O’Sullivan Il Presidente, il Papa e il Primo Ministro traduzione di Vittorio Bonacci
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Aprile 2010
IL BORGHESE
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SOMMARIO DEL NUMERO 4 Mensile - Anno X - Aprile 2010 - € 6,00 Piccola Posta, 2 Il voto del tramonto, di Claudio Tedeschi, 3 La resa dei conti, di Riccardo Paradisi, 4 «Buongiorno, Maresciallo», di Franco Jappelli, 5 «Pronto, chi sparla?», di Ruggiero Capone, 6 Dignità italiana, de Il Tiratore Scelto, 8 Astensionismo e malapolitica, di Filippo de Jorio, 10 L’Italia senza valori, di Angelo Spaziano, 11 Sud: Chi «chiagne» e «fotte» se la gode più di tutti, di Mimmo Della Corte, 12 L’anima che non c’è, di Hervé A. Cavallera, 14 Tra verità e pettegolezzi, di Daniele de Angelis, 16 E se i nostri ragazzi sostenessero qualche esame in più?, di Alessandro Cesareo, 17 Il segreto di Stato: La maschera del potere, di Mary Pace, 19 Per onore e fedeltà. di Antonella Falchi, 20 Zibaldone capitolino, di Giuliano Marchetti, 22 Senza turismo, Italia al buio, di Savino Frigiola, 23 Un monito per l’Europa, di Daniele Lazzeri, 26 Non sempre privato è libertà, di Riccardo Scarpa, 27 Il caso della mela umana, di Enea Franza, 29 Sleale concorrenza, di Italo Inglese, 31 No lavoro, no consumi, di Antonio Saccà, 32 Quando Dio scuote la Terra, di Andrea Marcigliano, 33 Rischio od opportunità?, di Francesco Rossi, 34 Scorretto politicamente, di Salz Yusti, 36 Ritorno all’Islam, di Alfonso Piscitelli, 37 Operazione «Martello», di Ermanno Visintainer, 38 All’ombra dei minareti, di Alberto Rosselli, 39 La «Shoa» degli Armeni, di Massimo Ciullo, 40 L’Ucraina volta pagina, di Inna Khviler Aiello, 42 Sull’orlo del baratro, di Gianpiero Del Monte, 43 Scendere dalla Tigre, di Francesco Tortora, 44 La Voce dei Lettori, 46
IL MEGLIO DE «IL BORGHESE » Imputato: il giudice, di Mario Tedeschi La Repubblica del peccato, di Luciano Cirri
LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Olimpia Tarzia: Un «tagliando» alla legge sull’aborto?, a cura di Giuseppe Brienza, 50
Direttore Editoriale
LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile
CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net Hanno collaborato: Mario Bernardi Guardi, Giuseppe Brienza, Ruggiero Capone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Massimo Ciullo, Daniele De Angelis, Filippo de Jorio, Gianpiero Del Monte, Mimmo Della Corte, Antonella Falchi, Enea Franza, Savino Frigiola, Odoardo Gaiba, Italo Inglese, Franco Jappelli, Inna Khviler Aiello, Daniele Lazzeri, Michele Lo Foco, Franco Lucchetti, Giuliano Marchetti, Andrea Marcigliano, Delfina Metz, Mino Mini, Mary Pace, Paolo Emilio Papò, Riccardo Paradisi, Errico Passaro, Alfonso P i s c i t el l i , A l b e rt o R o s s e l li,Francesco Rossi, Antonio Saccà, Carlo Sburlati, Mauro Scacchi, Riccardo Scarpa, Enzo Schiuma, Adriano Segatori, Daniela Serpi, Angelo Spaziano, Andrea N. Strummiello, Romano Franco Tagliati, Francesco Tortora, Salz Yusti Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma
TERZA PAGINA Pio Filippani Ronconi: Il privilegio di essere nato romano, di A. Piscitelli, 49-All’origine del totalitarismo, di M. Mini, 51-Quando gli estremi si toccano, di M. Scacchi, 54-Buttatela fuori, quella puttana!, di A. Segatori, 55-Una Rivoluzione tradita, di A. N. Strummiello, 56-L’Europa medio-orientale, di R. Scarpa, 57-In una triste domenica di fine febbraio, di R. F. Tagliati, 59La «Diga Verde» salverà Pechino?, di F. Lucchetti, 60-Il libero arbitrio regolato per legge, di D. Serpi, 61-La Resistenza, uno scippo alla Storia, di E. Schiuma, 63-Art. 52: Leva obbligatoria o volontari?, di O. Gaiba, 64
IL GIARDINO DEI SUPPLIZI L’«Isola dei Cassaintegrati», di F. Jappelli, 67-Festival e tempi moderni, di M. Lo Foco, 68-Il film che non s’ha da fare, di E. Passaro, 70-Il Pupo della discordia, di M. Simonetti, 71
LIBRI NUOVI E VECCHI Librido, a cura di M. Bernardi Guardi, 73-La fornace cristiana ha forgiato l’Europa, di D. Metz, 75-Schede, di AA. VV., 76-L’angolo della poesia, 78
LE VIGNETTE CHE ILLUSTRANO IL GIORNALE SONO TRATTE DALLA COLLEZIONE DE «il BORGHESE»
tel 06/45468600 Fax 06/39738771 em@il luciano.lucarini@pagine.net PAGINE S.r.l. Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000 Stampato presso la POLIGRAFICA LAZIALE S.r.l. Piazzale Sandro Pertini, 4 00044 Frascati (RM) Per gli abbonamenti scrivere a: IL BORGHESE Ufficio Abbonamenti Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma Distributore esclusivo per l’Italia: Parrini & C Spa Via di S. Cornelia, 9 00060 Formello RM Centr. Tel. 06/90778.1 Milano - Viale Forlanini, 23 Centr. Tel. 02/75417.1
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IL BORGHESE
Piccola Posta
Veramente un Annus Horribilis. Povero Bocca. CESARE ZACCARIA Anzio (RM)
ANNUS HORRIBILIS
SINGOLARI COINCIDENZE
Giorgio Bocca, a 90 anni, ha pubblicato un libro che intitola Annus Horribilis. Povero Bocca. Anche lui come tutti gli orfani del comunismo si sente umiliato e depresso. Un bilancio disastroso. Il protettore sovietico si è dissolto. I finanziamenti non arrivano più da tempo e il PCI ha dovuto chiudere bottega, anzi Botteghe Oscure. Tramonto rosso, rosso come il sangue sparso dalle vittime delle Brigate Rosse. In tutto il mondo, dovunque è stato al potere, il comunismo ha condotto alla miseria economica e morale. Ha dovuto erigere cortine di ferro, entro i quali segregare come in galera, intere popolazioni. I più feroci fra gli immigrati di ogni provenienza, sono quelli dei Paesi dell’Est europeo. Uccidono e stuprano con inaudita ferocia per dare libero sfogo all’odio che per decenni è stato alimentato nei loro animi. Sarà un caso, ma con il disfacimento della sinistra, quella sinistra eversiva che ha «sinistrato» il nostro Paese, il consumo di antidepressivi, alcol e droghe è aumentato vistosamente. Non è che il popolo della sinistra ne sa qualcosa? Non vogliono più essere chiamati comunisti. Anzi tale appellativo li fa inferocire. Ora sono nichilisti, anarcoidi. Le loro colpe e i loro misfatti li addebitano ad altri. Moro è stato ucciso dalla CIA. Il mandante del disastro dell’11 Settembre è Bush. I brigatisti rossi sono tutti uomini della CIA. Tartaglia è un uomo di Berlusconi che ha organizzato la messa in scena del finto tentato omicidio, che, infatti, si è risolto in un ulteriore aumento della popolarità dell’odiato B. Le hanno provate tutte. Se non ci riescono con le toghe rosse è la fine.
De Magistris inquisisce Loiero, e poi scende in politica. Nicastro indaga su Fitto, e in seguito si candida. Sono due recenti casi di commistione tra giustizia e politica, che rappresentano al meglio la disinvoltura con la quale alcuni magistrati scendono nell’agone politico, incuranti del loro status. In circostanze non meno inquietanti, altri giudici collaborano con media politicamente schierati e partecipano a dibattiti pubblici chiaramente orientati, contraddicendo così in radice i capisaldi della terzietà, imparzialità, ed indipendenza delle loro funzioni. Siamo al cospetto di una crepa nella nostra democrazia, ancor più preoccupante se si pensa che attiene a pubblici funzionari che decidono - tra l’altro anche della nostra libertà personale. Il Consiglio Superiore della Magistratura e l’Associazione Nazionale Magistrati continueranno a rimanere inerti ancora a lungo? ENRICO PAGANO Milano GOVERNI DI DESTRA 3 agosto 1981: una data che gli scioperanti e i politici dovrebbero tenere nella giusta considerazione. Dopo un estenuante braccio di ferro con i controllori di volo che non avevano rispettato le regole in materia di garanzia dei servizi pubblici, l’amministrazione americana, sotto la presidenza di Reagan, diede l’ultimatum: o entro due giorni si sarebbero rimessi a lavorare o scattava il licenziamento. Il termine passò inosservato e così quella data fu l’ultimo giorno di lavoro per 11.359 controllori di volo. Inoltre vennero rinviate a giudi-
Aprile 2010 zio 75 persone responsabili della rivolta, con sanzioni per 2 milioni di dollari. Il governo Reagan, tanto criticato in Italia, evitò di far paralizzare il Paese: fa sorridere la definizione «governo di destra» attribuita a quello con Presidente Berlusconi. MAURO LUGLIO Monfalcone (GO) UNA SOCIETÀ DI MATTI? Incoscienza e ignoranza più o meno colpevole non conoscono ormai confine, grazie alla falsa scienza sfruttata dalla politica Si esalta Basaglia e la chiusura dei manicomi, senza considerare le conseguenze e la condizione legale e reale della pazzia, che non è affatto scomparsa. E né furono cretini quelli che ritenevano tali i pazzi, né sono sapienti i conformisti che adesso ne travisano l’esistenza avendo orrore di pronunciarne il nome. Gli alienati mentali continuano ad essere pericolosissimi per sé e per gli altri. La realtà stoltamente negata è questa: aboliti gli ospedali psichiatrici con il loro regime di controllo sanitario e di opportuno isolamento a preservazione dei malati psichici, delle loro famiglie e della comunità, invalse le teorie pseudoscientifiche e le leggi a dir poco effeminate, gli schizofrenici e i gravemente depressi soffrono di terapie insufficienti, sovente di abbandono, mentre la società e le loro famiglie subiscono disagi, terrori, ferimenti e omicidi evitabili, la responsabilità dei quali ricade in primo luogo sull’imbelle classe politica e nondimeno sul giornalismo. PIERO NICOLA Genova Le lettere (massimo 20 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net
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MENSILE - ANNO X - NUMERO 4 - APRILE 2010
IL VOTO del tramonto di CLAUDIO TEDESCHI CHIUDIAMO questo giornale, mentre le proiezioni impazzano in televisione e sugli schermi dei computer. Appena chiusi i seggi, era saltato all’occhio la percentuale delle astensioni, dal 5 al 12 per cento, arrivando poi a stabilizzarsi su un 7 per cento (parola di Maroni). I vari spettacoli organizzati dalle redazioni televisive ed i portali dei principali siti d’informazione, nel confrontare le cifre dell’astensionismo si perdevano in chiacchiere più o meno professionali. Le diverse interviste agli esponenti politici di ambo gli schieramenti avevano tutte un comune denominatore: abbiamo vinto. Se leggiamo con attenzione le prime cifre che sono state snocciolate lungo l’arco della giornata del 29 marzo, possiamo riscontrare che i vincitori sono almeno tre. Il primo è sicuramente Silvio Berlusconi che, come il suo solito, ha cavalcato gli ultimi dieci giorni della campagna elettorale, portando la competizione ad essere un referendum politico tra lui e gli altri. Gli altri due sono la Lega, per il centrodestra, e l’Italia dei Valori, per il centrosinistra. Se confrontiamo le ultime elezioni, tra amministrative, politiche ed europee, si nota che i due partiti hanno continuato a crescere, a scapito del PDL e del PD. Insieme alla loro crescita in voti, però, si è assistito alla nascita del «partito» delle astensioni. Ad ogni tornata elettorale, prendeva sempre più voti. Per l’Italia, un Paese abituato per decenni a votazioni tra oltre l’80 per cento degli aventi diritto, essere arrivati al 65 per cento è il segno che il cittadino non ne può più della casta politica che lo governa. Il vero sconfitto, che nessuno nomina, ma del quale tutti sanno il nome, è Gianfranco Fini. Questa campagna elettorale, che lo aveva visto fin dall’inizio come il grande elettore del Lazio, attraverso la Polverini, e suggeritore in Campania e Puglia, ne ha visto la sconfitta. Berlusconi è sempre al comando, grazie alla guerra interna nel PDL romano i «pesi massimi» di AN sono fuori gioco, mentre in Campania ha vinto un uomo indicato dal signore di Arcore. Tutto questo ci porta ad una sola conclusione: il popolo, il cittadino chiamato tutti i giorni a subire il peso fiscale e politico di uno Stato amministrato male, si è stufato di essere preso per i fondelli. A che scopo chiamarlo al voto, quando la preferenza non esiste più, e le schede sono ridot-
te ad un pezzo di carta colorata da siglare con una «X». Neanche fossimo tanti «Bingo Bongo»! A questo giro hanno detto di no. La dimostrazione che il tutto non è causale è che l’astensionismo è trasversale, colpisce a destra come a sinistra. Quei partiti che agli occhi del cittadino vessato rappresentano la «casta politica», buona a tassare ma non a sanare i guai del Paese. Ecco il perché della Lega e dell’Italia dei Valori. La prima fra opera di proselitismo direttamente sul territorio e punta al cuore dell’elettore, gli parla del quotidiano e lo assiste con pugno duro nella realizzazione di quanto promette. La seconda porta avanti una campagna di politica giacobina basata sul «grande nemico» da abbattere e parla di quanto i politici del centrodestra, ma anche qualcuno del centrosinistra, siano ladri. Dimenticando a volte i guai dell’ex magistrato che ne guida la lotta contro il «dittatore» di Palazzo Chigi. Tutti i giorni, quando il cittadino che lavora, si alza per andare a guadagnarsi meno di mille euro al mese, apre il giornale abbandonato al bar e legge di quanto siamo fortunati ad essere usciti dalla crisi in maniera più intelligente degli altri. Poi si reca a fare benzina, per recarsi al lavoro, dall’altra parte della città, e si rende conto che ormai la benzina ha superato gli 1,4 euro al litro. Mancando una politica corretta delle infrastrutture non può neanche usare i mezzi pubblici, perché dove in macchina ci mette un’ora, con i bus e la metro ci mette due ore. Durante la giornata si rende conto che tutto aumenta, meno che il suo tenore di vita, ormai ridotto a livelli di sopravvivenza. Si ricorda di un vecchio film, Quinto potere, e di una celebre frase: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!». Ecco, il cittadino italiano medio è «incazzato nero» e non ne può più. Come dimostrarlo senza ricorrere alle armi? Non votando. e così sta facendo, una elezione dopo l’altra. E la «Casta» che ne pensa? Si meraviglia, parla al suo interno e prepara una serie di incontri per capire il perché del fenomeno e come recuperare alla «democrazia» l’elettorato. Quale «democrazia»? Quella rappresentata da meno di mille persone che, all’interno dei loro palazzi, parlano del sesso degli angeli? Le regionali 2010 hanno rappresentato un ulteriore passo avanti verso la crisi di un sistema politico e sociale, che vede nell’affermazione delle liste «massimaliste» come la Lega, l’Italia dei Valori, i Grillini, il naturale evolversi di un Paese ormai avviato sul «viale del tramonto» di una repubblica parlamentare nata dalla resistenza antifascista (e se ne vedono le conseguenze). Lo sbocco naturale sarà un frantumarsi della Nazione, con una Repubblica cisalpina al Nord, ed il resto del Paese frammentato in tanti feudi. Ecco perché la gente, schifata ed amareggiata da politici che, per favorire parenti e mariti di ex amanti, hanno portato l’Italia allo sfascio, li ha mandati a far in c ...
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ELEZIONI, IL GIORNO DOPO
LA RESA dei conti di RICCARDO PARADISI ED ORA che succede nel Pdl? Ora che la tragicommedia delle liste contestate nel Lazio ha scavato solchi ancora più profondi dentro il centrodestra tra le anime di An e Forza Italia, ora che le inchieste politico-giudiziarie hanno investito anche Denis Verdini e Guido Bertolaso, gli uomini di punta cioè dell’ultimo berlusconismo? La domanda cominciavano a porsela, non in maniera del tutto disinteressata, esponenti della maggioranza nei corridoi di Montecitorio lo scorso 15 febbraio, appena la notizia del coinvolgimento nelle indagini di Verdini era stata resa nota. Su di lui del resto pendeva già una spada di Damocle ancora prima che il coordinatore del Pdl finisse nell’inchiesta sugli appalti. Un sospetto politico e non giudiziario, una particolare attenzione da parte di due ambiti molto diversi tra loro nel Pdl, addirittura antagonisti, ma interessati a restare i soli a contendersi il partito senza terzi incomodi. Nella sponda finiana Verdini era considerato l’uomo forte del berlusconismo, talmente forte da potersi giocare nelle lotte di potere interne al Pdl una sua partita individuale, costruendo una cerniera di congiunzione tra gli ex An ormai lontani da Fini e gli ex forzisti più autonomi, isolando così i finiani alla sinistra del partito in un ruolo di opposizione interna minoritaria. Ma il lavoro politico di Verdini aveva cominciato ad essere sgradito, e per gli stessi motivi, anche all’ala più berlusconiana del Pdl, quella che fa capo per intendersi all’altro coordinatore del Pdl, il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. In Verdini i berlusconiani di più stretta osservanza, teorici e assertori del partito a leadership carismatica e avversi anche a ogni solo embrione di istituzionalizzazione correntizia, avevano tenuto in gran sospetto la partecipazione al convegno d’Arezzo dello scorso 23 gennaio dove i quadri del Pdl interessati a costruire all’interno del partito un ambito di mediazione dei conflitti e a gettare le basi per degli organigrammi sul modello delle componenti che esistevano sia in An che in Forza Italia erano stati chiamati a raccolta da Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa. Bondi aveva subito stigmatizzato questa tendenza e si era parlato della nascita di una corrente dorotea nel Pdl. Per la stessa ragione anche i finiani avevano vissuto con disagio quell’iniziativa: la creazione di un centro nel Pdl li avrebbe di fatto spinti alla sinistra del partito e avrebbe reso i dorotei l’ago della bilancia. Contro Verdini, insomma, erano riusciti a convergere interessi di due settori del Pdl strategicamente antagonisti ma tatticamente uniti dall’obiettivo di impedire la creazione di un corpo intermedio nel partito, di una camera di ammortizzazione dove le decisioni avrebbero potuto essere mediate e condizionate. Tanto che il progetto vociferato da tempo, per scongiurare l’ipotesi di una
«normalizzazione» a partito del movimentismo Pdl, sarebbe dovuta essere la costruzione di un coordinamento unico guidato da Sandro Bondi. Affiancato a Bondi, il vicecapogruppo alla Camera del Pdl Italo Bocchino rappresentante delle sensibilità e delle istanze del presidente della Camera. Un’operazione che avrebbe comportato la destituzione di Verdini e la destinazione di Ignazio La Russa al pieno ufficio del ministero della Difesa. Un coordinamento che non sarebbe altro che il riflesso terrestre della superiore diarchia decisionale Berlusconi-Fini. La vera e unica cabina di regia del Pdl, il motore immobile a due tempi da cui dipartono gli impulsi che via via andrebbero ad animare e guidare il corpaccione del Pdl tirato qui e là da potentati locali e tendenze all’anarchia feudale. Che questo progetto fosse già avviato lo dimostra il dato che Fini per lungo tempo non faceva più ripetere ai suoi il mantra della necessità di maggiore democrazia interna al Pdl. L’inchiesta su Verdini avrebbe semplificare il gioco, con le dimissioni da coordinatore - dimissioni che alcuni finiani non hanno fatto segreto di caldeggiare come «opportune». A un certo punto però lo schema salta, si rovescia. Berlusconi si convince che spingere alle dimissioni Verdini potrebbe apparire un atto di debolezza e cedimento nei confronti di quelle che Berlusconi chiama le pressioni indebite della magistratura. Ma il Cavaliere è sempre più esasperato dalla spregiudicatezza dei suoi uomini e dal timore che sia la Lega al nord a incassare malcontenti e perplessità dell’elettorato. A questo punto decide una nuova rivoluzione dall’alto: rimettendo in pista e riattivando i club della libertà di Maria Vittoria Brambilla tacitando nel partito ambizioni e velleità personali. Iniziativa contemporanea al disastro delle regionali a cui segue a stretto giro la ripresa dell’attivismo di Fini che riprende a tessere l’ordito che s’è cominciato a filare da lunghi mesi tra lui, l’ora presidente del Copasir Massimo D’Alema e il ministro del Tesoro Giulio Tremonti, con la benedizione distante di Luca Cordero di Montezemolo. Pattuglia notoriamente favorevole a un’ipotesi di larghe intese che l’ex colonnello finiano Altero Matteoli alla fine di febbraio riunisce in occasione del lancio della sua neonata fondazione al teatro di Adriano. * * * Il pasticcio del Lazio è soltanto l’ultimo atto di un continuo braccio di ferro che va avanti ormai da più di un anno, cominciato per le quote di rappresentanza nel parlamentino interno del Pdl e proseguito in crescendo con le tensioni su giustizia e controllo sul partito, esplodendo da ultimo con la provocazione berlusconiana dell’inserimento di Daniela Santanchè nella compagine di governo. Provocazione registrata da Fini con sommo fastidio. Berlusconi e Fini sono stati i due cofondatori del Pdl. Ora entrambi sembrano avere una voglia matta di diventarne i coaffondatori.Una partita di potere, la loro, che appare però una guerricciola per la successione di classi dirigenti stanche. Una faida ancor più piccola se inscritta sullo sfondo accidentato del grande scenario europeo. Dove si svolge il dramma della crisi dell’euro e dove si prefigura sempre più concretamente il rischio di collasso finanziario dell’Europa del sud. Sfondo da tenere presente per misurare con preoccupazione la statura delle classi dirigenti che dovrebbero affrontare i nostri prossimi anni di nazione europea in declino.
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IL BORGHESE
UN PAESE SUL TAVOLO D’ASCOLTO
«Buongiorno, Maresciallo» di FRANCO JAPPELLI RICORDATE? «Ma n’do vai se la banana nun ce l’hai?», chiedeva, tra l’inquisitorio e l’ammiccante una canzoncina resa popolare dagli avanspettacoli degli anni Quaranta e riportata ai fasti della notorietà da Alberto Sordi e Monica Vitti nel film Polvere di stelle. In quei tempi, notoriamente maschilisti, la banana era insomma essenziale. Guai a non averla o ad averla, se ci capite, senza il bollino «10 e lode» che contraddistingue le Ciquita. Oggi, invece, la banana non è poi così fondamentale. Il vero status symbol dei tempi moderni è meno evidente, plateale e grossolano. Ciò che
IL PERICOLO È IL MIO MESTIERE
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contraddistingue il vero uomo di potere, quello che - come recita la pubblicità - «non deve chiedere mai» (evitando così di essere accusato di concussione, N.d.R.) è infatti l’intercettazione. Insomma: dove vai e, soprattutto, chi ti credi di essere se l’intercettazione non ce l’hai? Guardate il Berlusca: Lui sì che è un vero macho. Non a caso lo spiano e lo intercettano ad ogni ora del giorno e della notte. Persino quando, con rispetto parlando, va a mignotte, trova quella che ha il magnetofono tra le chiappe e registra mugolii e bramiti di piacere. Per la verità il Cavaliere, essendo deputato e presidente del Consiglio, non potrebbe essere intercettato. Ma in Italia, si sa, fatta la legge viene subito trovato l’inganno. Invece di intercettare il Berlusca si intercettano quelli che parlano con lui e, opla!, il gioco è fatto. Pur di registrare le telefonate del premier alcuni magistrati fanno ormai letteralmente carte false. Nessuno riesce infatti ad immaginare come sia potuto accadere che indagando su un traffico di carte di credito revolving i magistrati della procura di Trani (nientemeno!) siano finiti ad acquisire le registrazioni delle telefonate intercorse tra Berlusconi e il direttore del Tg1 Augusto Minzolini. Nel corso di queste conversazioni il presidente del Consiglio ha espresso, com’è stato ampiamente riportato dai giornali di tutta Italia, giudizi al vetriolo nei confronti delle trasmissioni televisive condotte da Santoro, da Floris e dalla Dandini. E allora?, Dov’è il reato? Potrà il Berlusca, quando parla privatamente al telefono con gli amici, mandare a cagare chi gli garba o no? Oppure i giudici italiani hanno inventato un nuovo reato, quello di «leso Santoro»? La vicenda Berlusconi-Minzolini, grottesca sino ai limiti del ridicolo, non è comunque che la punta dell’iceberg. Il vero problema è che da anni, gli Italiani non sono più un popolo di santi, di eroi e di navigatori, ma una nazione che si divide equamente tra spioni e spiati. L’Italia, infatti, non è soltanto, per dirla con Dante, «il Bel Paese dove il sì suona», ma anche quello dove l’intercettazione dilaga. Secondo un’inchiesta pubblicata tempo addietro dal settimanale Panorama, «una stima intorno alle 400 mila utenze tenute sotto controllo ogni anno è realistica». Una cifra enorme, soprattutto se si considera che negli Stati Uniti vengono intercettate 1.700 persone l’anno, in Gran Bretagna 5.500 e in Svizzera 1.700. E il Grande Orecchio, da queste parti, a quanto si sa, non ha riguardi per nessuno. La Procura di Trani (caspita!) ha infatti intercettato anche i ministri Tremonti e Maroni. E questo sta a significare che, in Italia, l’ultimo dei magistrati di provincia può far spiare persino il ministro dell’Interno. Ogni commento è superfluo. Anche altri ministri, in questa situazione sono comunque morsicati dalla tarantola del sospetto. «Anche io», sostiene infatti Renato Brunetta, «ho la percezione di essere intercettato. O, meglio, sono combattuto tra la sensazione di appartenere anche io a questo mondo folle in cui tutti sono sotto controllo, e la sensazione che non sia possibile. Perché non è giusto». Racconta il ministro che «al telefono con la mia fidanzata Titti è divenuta ormai un’abitudine salutare il maresciallo che ci sta ascoltando. L’altro giorno mi è successo anche con un amico, che mi manda straordinarie mozzarelle di bufala da Paestum. Mi diceva al telefono: “Ti ho spedito la roba”. Ho risposto: “Un momento, calma, precisiamo a beneficio di chi ci sta ascoltando che si tratta di mozzarelle e di yogurt, non di altro”. Poi mi sono chiesto: perché mai ho fatto questa battuta? Perché considero normale violentare una conversazione privata a
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beneficio o a giustificazione di un terzo ascoltatore, sia che stia parlando di affetti, di amore, di politica, di interessi o anche solo di mozzarelle? Dove siamo arrivati? Non lo dico per me, per Tizio o Caio, per i politici. Sono moltissimi gli Italiani che hanno cambiato il loro modo di telefonare, e quindi il loro modo di relazionarsi, la loro vita di tutti i giorni. Non ne faccio una questione di tecnica giuridica. È una questione di libertà, strettamente parente del buonsenso. Chiedo una riflessione: attenti, perché ci stiamo incamminando su una china rovinosa». Il ministro ha ragione, ma, forse, pecca di ottimismo. Non ci stiamo incamminando verso una china rovinosa, ma già siamo precipitati nel baratro. La paura delle intercettazioni ha modificato il modo di telefonare non soltanto dei Vip e dei potenti, ma anche di noi, anonimi uomini della strada che, sino a ieri, pensavamo di poterci fare, forti della nostra trascurabile importanza, i fatti propri senza problemi. Oggi, invece, la sindrome delle intercettazioni ci obbliga a cautele e ad astuzie mai sperimentate in precedenza. Anche nelle conversazioni familiari ci esprimiamo, infatti, a scanso di equivoci con misurate e calibrate dichiarazioni ufficiali. Lo dimostra, senza alcun dubbio, questa intercettazione, fresca di giornata, tra la «sora Tuta», romana di Testaccio, e il suo salumiere: «Pronto Miche’, ce l’hai la pancetta affumicata?» «Gentile signora al momento ignoro se le benevolenza dei nostri fornitori potrà mettermi in grado di esaudire la sua richiesta commerciale.» «Miche’, ma che stai di? A me me serve solo la pancetta pe’ fa la carbonara.» «Egregia signora, la prego di non usare certi termini allusivi con me. Le sue ricette settarie e vagamente massoniche mi lasciano del tutto indifferente. Trovi qualcun altro per fare la sua carbonara: Ci siamo capiti?» «Miche’, ma che sei diventato scemo? Vabbè, fa niente. Vorrà dì che oggi faccio “ajo, ojo e peperoncino”.» Accanto a chi teme di essere intercettato c’è, però, anche chi ha paura di non esserlo. Possibile, si chiede il meschino, che non conti proprio nulla? Che non ci sia uno straccio di magistrato che voglia farsi un po’ di cazzi miei? Pervaso dalla sindrome della nullità e consapevole di contare quanto il classico due di coppe, il poveretto mette allora in atto una raffinata strategia per farsi intercettare: ogni conversazione, anche la più banale, la tramuta in una occasione per fare affermazioni, falsamente ghiotte e rivelatrici. «Pronto Robe’, te sei ricordato er latte?» «Per quella faccenda della Parmalat ho già provveduto con chi di dovere. Non ti preoccupare: Con Calisto è tutto a posto.» «Ma chi è sto Calisto? Er lattaro? Ricordate comunque de pjà pure na scatola de pelati.» «Purtroppo per la Cirio c’è stato il default. Ma non ti preoccupare ho già provveduto con le società off shore alle isole Cayman.» «Le Cayman? A Robe’, ma quest’anno nun dovevamo annà ‘n vacanza a Fregene?» Eh sì, anche i «Nip» (non important person) sperano ora di essere intercettati per diventare finalmente qualcuno e uscire dall’anonimato. Insomma, per dirla alla maniera di Angelo Balducci (l’indagato dello scandalo della Protezione Civile coinvolto in un giro di prostituzione maschile): «Ma n’do vai se la banana non ce l’hai?»
SI INTERCETTA QUEL CHE CONVIENE
«PRONTO, chi sparla?» Mentre i magistrati ascoltano solo Silvio, nel Mezzogiorno i grassatori regionali continuano a molestare agricoltori e comuni cittadini, nonché a trafficare coi rifiuti tra la Puglia e la Campania di RUGGIERO CAPONE ESISTONO due tipi d’intercettazioni, quelle buone e quelle cattive. Le prime non fanno notizia, o vengono, da giornalisti e magistrati, relegate tra quelle non politicamente utili: roba buona a fare cronacaccia. Perché oggetto delle intercettazioni cattive è gente a mezzo tra le Asl di Puglia, Calabria, Campania, Sicilia e Lazio, oppure dirigenti di enti regionali o ministeriali, amministratori di comunità montane e consorzi di bonifica, o meglio ancora faccendieri tra il malavitoso ed il «politicare» provinciale. Le intercettazioni buone sono quelle che permettono di danneggiare l’immagine di Silvio Berlusconi e con lui di tanta gente schierata col centro-destra: questi sbobinati piacciono (ed anche tanto) alla magistratura che conta, quella amica di Marco Travaglio. Siamo consci che Travaglio sappia ben fare il giornalista, viene da una buona scuola, non per nulla ha scritto in gioventù per Il Borghese ed Il Giornale. E se a Travaglio vengono recapitate le intercettazioni buone, a noi (che s’è gente dei bassifondi, per usare eufemismo caro alla buonanima di Fusco) quelle cattive. Così noi si rimane convinti che per fare giustizia in Italia necessiterebbe che i magistrati prestino più ascolto alle intercettazioni cattive piuttosto che alle buone. Vale a dire che dovrebbero puntare i loro obiettivi sugli amministratori di Asl ed enti regionali piuttosto che sui signorini delle tre B (Berlusconi, Bertolaso e Balducci). Infatti da sbobinati giunti alla direzione del Il Borghese emerge che il giro di tangenti nei Comuni, legato al traffico di rifiuti tra Puglia e Campania, è ancora florido. Come pure che molti contadini del Mezzogiorno paghino tangenti a dirigenti delle regioni per farsi togliere le multe comminate da consorzi di bonifica e strutture di controllo regionali. Non meno onesto sembrerebbe quel giro calabrese a mezzo tra sanità e credito: Asl robustamente in mano a mafiosetti e banche gestiti da usurai. Ma questa è cronaca, e certo per le opposizioni del centro-sinistra fa più notizia ascoltare cosa dicono gli amici di Berlusconi. Ma rammentiamo a chi indaga (non per fare loro una lezione di diritto) che gli appunti scritti dagli ispettori dello SCO, che effettuarono l’intercettazione al Bar Mandara di Roma nel marzo del 1996, non sono utilizzabili: lo han-
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no deciso cinque anni fa i giudici del processo stralcio per la SME, che hanno accolto in parte le richieste avanzate dai difensori di Silvio Berlusconi in apertura di udienza. L’ordinanza del Collegio che sconfessa le registrazioni fatte al Bar Mandara venne letta dopo circa due ore di camera di consiglio. «La decisione dei giudici di Milano di dichiarare inutilizzabili gli appunti presi su foglietti volanti dall’ispettore di polizia Dario Vardeu al bar Mandara, in merito alla conversazione tra il giudice Squillante ed il pubblico ministero Misiani, ha una straordinaria importanza», affermava Fabrizio Cicchitto (circa 5 anni fa, quand’era vice coordinatore di Forza Italia), «sul caso SME, smonta alcuni degli elementi essenziali sui quali fu costruito a suo tempo tutto l’impianto accusatorio di un’operazione giudiziaria che ebbe grande importanza politica, perché fu fatta decollare alla vigilia delle elezioni del 1996». Ai quesiti dei difensori di Silvio Berlusconi su quanto accadde il 2 marzo 1996 al Bar Mandara, Renato Squillante spiegava di essersi semplicemente «incontrato con Francesco Misiani perché volevo da lui un consiglio circa la candidatura che mi era stata prospettata per Forza Italia al Senato». Chissà perché in Italia non vengono mai intercettati i magistrati che intendono candidarsi col PD o con l’IDV di Di Pietro? Ma andiamo avanti, e per dimostrare come le intercettazioni cosiddette «buone» sono quasi sempre prive di fondamento e, per giunta, costosissime e pesano più delle «cattive» sui bilanci della giustizia. Rammentiamo che l’escort Patrizia D’Addario sostiene per telefono d’aver avuto rapporti sessuali con Silvio Berlusconi. La registrazione telefonica è subito assurta a prova per la stampa. Con questo meccanismo perverso qualsiasi inesattezza riferita per telefono assurgerebbe a verità, a dogma inconfutabile. L’uso distorto e forzato delle intercettazioni ha dei precedenti. Già anni fa le procure avevano speso denaro pubblico per intercettare impostori che si spacciavano per ricchi faccendieri ed affaristi. Qualche magistrato s’era persino fregato le mani all’idea d’aver messo le mani su giri d’affari illegali per migliaia di miliardi di lire. Da analisi più approfondita emerse che si trattava di quattrini frutto della fantasia del sedicente «faccendiere internazionale». Risultato? Enorme spesa (vera) per intercettare storie di soldi mai esistiti, e senza calcolare la distrazione di uomini da indagini ben più importanti. Nella storia della D’Addario ci sono aspetti che ricalcano i precedenti su tesori e forzieri mai esistiti. La D’Addario riferisce per telefono di rapporti intimi col Cavaliere. Ma la prova d’un rapporto intimo può mai essere una telefonata, o la presun-
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zione che dall’altra parte della cornetta si sia registrata anche una voce che somiglia a quella di Silvio Berlusconi? «I casi sono due», ha sempre sostenuto Gaetano Pecorella (penalista e deputato PDL), «o le registrazioni sono frutto di manipolazione, e allora siamo in presenza di una ignobile macchinazione politica, ed economica, i cui autori dovranno rispondere davanti al Paese. Ovvero le registrazioni sono autentiche, ed allora si configura il reato di interferenza illecita nella vita privata, previsto dall’articolo 615 bis del codice penale, secondo cui è punito con la reclusione sino a quattro anni chi, nell’altrui domicilio, mediante ripresa sonora, si procura indebitamente notizie attinenti alla vita privata, e chi queste notizie diffonde. Si parla tanto di legalità», conclude Pecorella, «ma poi sta diventando normale che si commettano reati, senza che nessuno intervenga per prevenirli o per reprimerli». Così capita che nel caso Di Girolamo (senatore arrestato ed estromesso dal PDL, nonché sciolto dal vincolo con l’elettorato) una ciurma di personaggi dubbi si vanti per telefono di potenti appoggi, nominando alti prelati, i presidente della Camera Gianfranco Fini, affaristi internazionali e potenti boss della ‘ndrangheta. Atteniamoci alle prove, l’unica prova provata è una foto degli amici di Di Girolamo col boss della ‘ndrangheta. Poi per telefono uno può vantarsi anche di possedere l’asino che vola, ma non per questo il magistrato è obbligato credere alle favole. E così veniamo alle ultime intercettazioni, quelle che (secondo le solite sinistre) proverebbero che Berlusconi confabula contro Santoro. Allora vi chiediamo cosa capiterebbe se un nugolo di militari della Guardia di Finanza, comandati d’intercettare un salumiere in odore d’usura, scoprissero che la moglie del sospettato si dà a follie sessuali col limitrofo tabacchino? Forse userebbero le intercettazioni per documentare la truculenta tresca agli occhi di procure ed organi di stampa? Ci farebbero forse conferenze ufficiali sul tema? Se lo facessero, i vertici delle Fiamme gialle verrebbero destituiti per seri motivi d’igiene mentale. E certamente né la procura di Trani aprirebbe fascicoli né, tantomeno, Il Fatto ci farebbe la sua copertina. Ma ai militari della Guardia di Finanza è andata meglio: mentre inseguivano le telefonate di truffatori con carte di credito, facendo zapping con la telefonia, sono sbarcati sugli apparecchi di Silvio Berlusconi, Augusto Minzolini e Giancarlo Innocenzi. In pratica le Fiamme Gialle dall’ascoltare Radio Dimensione Suono si sono ritrovati su Radio Maria: problema di ponti, capita. Questo è l’inizio della storia del fascicolo aperto dalla procura di Trani, a causa delle telefonate intercorse tra
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Silvio Berlusconi, Augusto Minzolini ed il commissario Agcom Giancarlo Innocenzi. Casualità o dimostra come molte procure remino contro il governo? E poi quale sarebbe il reato? Aver forse parlato male della trasmissione «Annozero»? «Il comportamento dei magistrati sta sfiorando la farsa: dopo che anche la Procura di Trani che, partendo da una inchiesta sulle carte di credito, arriva ad intercettare Presidente del Consiglio, il direttore del Tg1 ed il commissario dell’AGCOM, per poi passare i brogliacci alla stampa amica», afferma Jole Santelli (vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali). «Il libretto dell’operetta contiene, stavolta, stralci di conversazioni che in campagna elettorale, guarda caso, contribuiscono ad avvelenare un clima già di suo burrascoso.» «Adesso Di Pietro, attaccando Minzolini e Innocenzi», spiega Fabrizio Cicchitto, «persiste meticolosamente a coltivare la politica della demonizzazione dell’avversario, perché è un fattore essenziale della sua strategia eversiva che punta all’esasperazione dello scontro politico». «Non ho ricevuto nulla e non mi è arrivato alcun avviso di garanzia. In ogni caso dov’è il reato?», questo è stato il primo commento del direttore del Tg1, Augusto Minzolini, a quanto riportato da Il Fatto sulle intercettazioni della Guardia di Finanza di Bari. Minzolini denuncia però «la fumosità e l’assenza di chiarezza dell’articolo», che parla di sue conversazioni telefoniche col premier Silvio Berlusconi. E Paolo Bonaiuti (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) si domanda: «Ancora una volta spezzoni di ipotetiche intercettazioni, estrapolate da ogni contesto, vengono pubblicate con una palese violazione della legge, senza avere alcuna attinenza con i procedimenti e senza avere alcuna rilevanza penale. Come mai l’autorità giudiziaria non interviene?» E noi chiediamo all’autorità giudiziaria quale giustizia indaga Berlusconi poiché parla male di Santoro, mentre migliaia di agricoltori e comuni cittadini del Mezzogiorno continuano ad essere taglieggiati dalla dirigenza rossa delle regioni?
FUOCO AMICO
DIGNITÀ italiana di IL TIRATORE SCELTO FORSE quando questo pezzullo apparirà, un mese dopo essere stato scritto, qualcuno dei problemi che qui si pongono sarà stato risolto. Forse. Ma poiché non è affatto detto, è bene che vengano esposti, a memento per un governo di centrodestra che si sta dimostrando assai più di «centro» che di «destra» almeno in politica estera, ricordando più gli infausti e mollaccioni esecutivi di democristiana memoria, che non la necessità di salvaguardare una dignità nazionale alla quale, se dobbiamo credere alle sue parole, sembra tenere quasi quasi più l’opposizione di centrosinistra, e che fa rimpiangere, almeno da questo punto di vista, il decisionismo craxiano. Il fatto è che il buon nome dell’Italia non si può basare soltanto ed esclusivamente sul successo del cosiddetto made in Italy, sulla moda, sulle scarpe, sul vino, sull’agroalimentare, sui prodotti DOC e DOP, sulle vittorie sportive (calcio, automobilismo), sul Festival di Sanremo in mondovisione, sui nostri tenori, sulle nostre attrici e via dicendo. Se fosse veramente così saremmo ridotti a rientrare nel deprimente cliché del Paese dei maccheroni e della chitarra, della pizza e delle canzonette. Insomma, il Bel Paese del turismo e nulla di più. Forse ci vuole qualcosa d’altro: ma non basta nemmeno la presenza militare «di pace» (anche se costretta a fare la guerra) per difendere un concetto di «Occidente» e di «democrazia» alcune volte un po’ nebuloso e non sempre condivisibile. Il buon nome d’Italia si difende onorevolmente, ad esempio, facendolo valere contro la prepotenza estera di altri, che poi non sono le superpotenze, ma nazioni nei confronti delle quali non c’è il minimo motivo di avere alcun senso di inferiorità. Ecco, qui siamo carenti e di parecchio, e ce ne dispiace moltissimo, sia perché del governo di centrodestra fanno parte gli ex aennini e quindi ex missini che di queste cose una volta tenevano conto, sia perché la questione non pare toccare le corde del ministro degli Esteri ex FI e del presidente del Consiglio che, ahimè, a certe questioni non sembra dare affatto il peso che oggettivamente hanno. Peccato: forzato dagli eventi (cioè dalla dichiarazioni antifasciste del cosiddetto co-fondatore del PdL) il premier si è dovuto adattare a dire nel 2009 cose sul 25 aprile in precedenza mai dette, e quindi, a questo punto, non si capisce perché, in nome del business, si ponga sotto i piedi la dignità dell’Italia e degli Italiani dimenticandosi di un certo passato nazionale. O vale soltanto quello resistenziale? A che ci riferiamo? Ad almeno tre casi: il primo è quello della estradizione dell’ex terrorista assassino Cesare Battisti, per il quale la Corte Suprema brasiliana ha deciso la consegna all’Italia, ma che ancora estradato non è. Ultima parola al presidente Lula, pressato dalla sinistra interna e internazionale. Deciderà, ma come? E l’Italia che fa? Il
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Prima si risolve il problema del risarcimento, del passapresidente del Consiglio, il ministro degli Esteri che fanporto ai profughi giuliano-dalmati e della possibilità di no? Forse operano in silenzio? Speriamo, perché se la eacquistar case in Croazia, cioè negli ex territori italiani, e stradizione non verrà effettuata, sarebbe uno smacco e un poi si discute. E invece no: quel che si sa soltanto dire è il insulto non soltanto per i parenti delle vittime e per la giuvoler creare una assurda «commissione di storici» sulla stizia italiana, ma per il Paese tutto. Significherebbe che tragedia delle foibe! Ma a che serve? A giustificare in l’Italia non ha alcun peso, vale poco o nulla all’estero, qualche modo contorto il massacro di migliaia e migliaia neppure a far valere i propri diritti. Inoltre, certa sinistra di uomini e donne, vecchi e bambini? A distribuire le colitaliana e internazionale griderebbe alla vittoria, mentre pe per non far toro a nessuno? E gli indennizzi? Si è già un’altra darebbe - appunto - la colpa al governo di centrodimenticata la farsa grottesca e pietosa del francobollo destra che non ha fatto abbastanza e se n’è fregato del prodedicato a Fiume per cui tempo fa il governo croato proteblema. Ma pressioni, anche economiche, per ottenere stò? Non siamo capaci di tener saldo nemmeno sulle quequanto tutti gli onesti si attendono, non esistono? stioni simboliche! E questo sarebbe un governo di centroIl secondo e terzo caso si riferiscono a Italiani a tutti gli destra? effetti che hanno subito ingiustizie da nazioni straniere. Presidente Berlusconi, ministro Frattini, non si vive di Italiani a tutti gli effetti che non vengono però considerati solo pane, di soli accordi commerciali con Brasile, Libia, tali a differenza, per esempio, di altri Italiani residenti all’eCroazia, ma anche di dignità, di fierezza, di serietà, di itastero che hanno ottenuto addirittura di avere rappresentanti lianità vera e non superficiale. Di fatti e non parole, come nel Parlamento con una legge, voluta da Mirko Tremaglia, è il vostro slogan, altrimenti non c’è differenza con un che però all’effetto pratico si è rivelata una iattura e che governo Prodi qualsiasi. Altrimenti continueremo a non sarebbe doveroso rapidamente riformare: che gli Italiani essere rispettati all’estero, a essere considerati ancora e all’estero abbiano sì i loro rappresentanti, ma scelti tra le soltanto dei vanagloriosi pasticcioni, dei ridicoli Pulcinella file dei candidati residenti in Italia e presenti nelle liste dei che suonano il mandolino e mangiano maccheroni (per di partiti che partecipano alle elezioni politiche (così si evitepiù con le mani). rebbero brogli di ogni tipo, tutti documentati ma contro i quali nulla si è fatto). Ebbene, questi italiani di serie B che non riescono a far valere i loro diritti per colpa, in questo momento, del governo di centrodestra sono i profughi dalla Libia e dalla ex Jugoslavia. Dobbiamo pensare che gli affari economici, delle nostre aziende, dell’intercambio commerciale, del made in Italy valgano di più della loro (e della nostra) dignità? Nessuno, dicasi nessuno di loro è stato mai indennizzato per i beni sequestrati nel 1970, quarant’anni fa! Per ottenere il blocco degli immigrati clandestini dalla Libia si sono ammesse colpe quasi inesistenti (comunque non diverse e in assai minore quantità di quelle di altri Paesi colonialisti che non hanno mai chiesto scusa), si sono concessi risarcimenti megagalattici, ma non si è chiesto al signor Colonnello il saldo dell’indennizzo a suo tempo quantificato. Lo pagherà mai o non lo pagherà? E il governo perché ha abbandonati questi concittadini senza la minima contropartita? Non è vergognoso per un governo di centrodestra? Caso ancora più grave quello della Croazia, che spera nel nostro appoggio per entrare nella Unione Europea (come a sua tempo la Slovenia), ma non dice nulla sul risarcimento ai profughi che fuggirono dai loro paesi e città nel 1945-’47. Per non parlar delle migliaia di morti atroci e inumane per le quali - qui sì – nessuno, ma proprio nessuno, chiede scusa. Di questo argomento non è a quanto pare sembrato cortese e opportuno accennare durante la visita della nuova premier croata. Ce ne vergogniamo? Eppure potremmo farci forti L’ESTATE ROVENTE di un simile argomento, proprio perché ci (Gianni Isidori, «il Borghese» 28 marzo 1971) si chiede di appoggiare questa candidatura.
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RESTAURARE LO STATO DI DIRITTO
Astensionismo e malapolitica di FILIPPO DE JORIO* LA FRANCIA ha spesso anticipato nelle cose politiche i grandi movimenti della storia; dalla creazione dello Stato unitario al Fronte popolare, dalla Destra nazionalista al governo, al socialismo di potere di Mitterand. Ora l’astensionismo trionfa. Il 53,6 per cento dei francesi non ha votato alle regionali! È una maggioranza assoluta di gente che ha deciso di dare un segnale di disinteresse e di avvertimento alla classe politica e di potere nell’unico vero modo atto a suscitare il suo interesse. Ad essere punita è stata proprio la destra di potere di Sarkozy e dei suoi collaboratori che poco tempo fa aveva dato il benservito a «padri scomodi» che si chiamano Chirac, Giscard d’Estaing, Pasqua, etc., insomma a gente che aveva riempito la politica di quel Paese per circa 40 anni. Tanto più il fenomeno è da segnalare in quanto del tutto inaspettato, almeno per le sue dimensioni. Sarkozy ha oggi tutte le ragioni per nutrire serie preoccupazioni sia per il suo stesso avvenire politico, sia per quello della sua destra. È chiaro che i Francesi hanno voluto protestare in maniera seria e concreta, cioè rifiutando di votare di fronte ad una realtà di cose che a loro non piace. In realtà avere un Presidente che riempie più le pagine dei «giornali rosa» che non quelle del Figaro è un fatto imbarazzante, eppure non è in fondo troppo importante se il contesto politico - come in Francia accade - continua ad ispirarsi a regole di buona politica ed il tasso di corruzione è per così dire «normale» e, in fondo, controllabile. Eppure la reazione degli elettori è stata molto forte e dura! Ora ci domandiamo: l’Italia che vive con qualche giorno di ritardo la stessa esperienza francese delle elezioni regionali, vedrà lo stesso astensionismo avendone molte e più forti ragioni? Nulla è più imprevedibile dei nostri elettori. Lo stesso successo di organizzazioni politiche come la Lega e l’Italia dei Valori lo prova abbondantemente, premiando l’istintualità fondamentalmente irrazionale di certi processi di formazione del consenso. Ma su una cosa si può scommettere: l’astensionismo è in aumento e coincide con una fase di forte incertezza politica che vede la probabile fine del berlusconismo, l’involuzione autoritaria di un sistema privo di meccanismi di autoregolazione, il tramonto delle grandi promesse liberali che erano state fatte per anni agli elettori e che li avevano spinti alle scelte del «male minore». La verità è che la malapolitica trionfa, la casta diviene sempre più potente e sempre più solitaria nella detenzione del potere. Essa non accetta né condizionamenti, né controlli e le reazioni scomposte contro la magistratura e le intercettazioni ne sono un chiaro esempio.
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I problemi del Paese sono completamente trascurati; obliterati ed oscurati da preoccupazioni di spazi di potere politico ed economico che diventano prevalenti. I ceti medi soffrono enormemente perché i loro redditi e le loro pensioni sono erose continuamente dall’aumento reale dei prezzi, dalle imposte esose, dalla incertezza delle prospettive per il futuro. Lo Stato di diritto vacilla perché la giustizia è in mano a gruppi di pressione che la piegano a non applicare la legge, ma ad interpretarla, contro gli interessi ed i diritti della maggioranza sofferente dei cittadini. Conclusione: gli Italiani hanno molte più ragioni dei Francesi per esprimere la loro protesta, anche con l’astensione, l’unico mezzo forse per farsi veramente sentire perché la situazione politica è molto peggiore e, con l’attuale sistema elettorale, non lascia veri spazi di rinnovamento. Ma è proprio perché la malapolitica è ormai giunta a livelli parossistici che, a mio avviso, si possono richiamare le migliori energie di questo Paese ad uno sforzo di volontà per uscire da una situazione che sembra senza vie razionali di soluzione. Ripeto quello che ho detto più volte: occorre restaurare lo Stato di Diritto, il rispetto rigoroso della legge, con sanzioni severe contro i corrotti che ormai sono certi dell’impunità ed agiscono impudentemente sotto gli occhi di tutti. Occorre ripensare a politiche sociali a favore di pensionati e ceti medi pauperizzati ed anche dei giovani cui si nega l’accesso al mondo del lavoro in nome della deflazione e di un assurdo spostamento delle risorse disponibili per spese clientelari e di nessun impatto generale. Su questi temi il dibattito politico è completamente mancato durante la campagna elettorale, come se esistessero soltanto le intercettazioni telefoniche e gli interessi privati di Berlusconi! La semplice parola: pensioni, ad esempio, sembra interdetta, vietata perfino alla semplice citazione. Così è stato interdetto ogni serio dibattito sui veri problemi che affliggono la società italiana. Ed è per questa ragione che, ancora una volta, i Pensionati Uniti sono stati costretti ad astenersi dal voto. In questo stato di cose c’è solo da augurarsi che ci sia qualcuno ancora disponibile ad ascoltare il linguaggio della verità che scaturisce dalle condizioni di vita e dalle speranze della gente che si sente sempre più sola dato che dei suoi veri problemi neppure più si parla. Perché le conseguenze di una mancata presa d’atto della situazione, queste sì, sarebbero drammatiche. *Presidente dei Pensionati Uniti e della Consulta dei Pensionati
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L’ITALIA senza valori di ANGELO SPAZIANO
losamente costruito mattone dopo mattone con le lacrime e il sangue (degli altri) seminando il terrore nelle questure, nelle procure, nei tribunali e nei parlamenti d’Italia, «spezzando» le reni ai poveracci che avevano la sventura di capitargli tra le mani. La cosa ha fatto serpeggiare nella schiena di quell’essere mitologico, un ibrido metà uomo e metà manetta, un brivido freddo, inducendolo a strisciare tra l’erba alta del sottobosco della politica italiana alla ricerca di una confortevole tana nella quale trovare ricovero. Ora finalmente, dopo tanto febbrile girovagare nella discarica del potere, pare che l’ex spauracchio dei corrotti il rifugio l’abbia finalmente individuato. Si chiama Pd, si trova allocato tra i banchi di Montecitorio e a Palazzo Madama, ed è frequentato da una fauna di farisaici opportunisti privi degli attributi: i postcomunisti del terzo millennio, un’ex armata rossa oggi ridotta a una pattuglia di sfigatissimi nerd agli ordini del «sacrestano» Bersani. Nel discorso pronunciato durante l’ultimo congresso Idv, l’occhiuto indagatore delle fedine penali altrui è stato protagonista di una performance d’ipocrisia talmente zuccherosa da sconfinare nel gesuitismo. «Oggigiorno l’opposizione aprioristica non paga più. Bisogna entrare nell’ordine d’idee che adesso occorre indicare una valida alternativa alla protesta. Ossia, ci vuole uno straccio di proposta. Dopo la distruzione ora occorre costruire». Tradotto per i meno esperti in linguaggio «dipietrese»: qualcuno mi vuole «mascariare». Voi datemi adeguata protezione e io rinuncerò a farvi la guerra. Vale a dire che appoggerò il vostro candidato alla regione
ORA il re è nudo. Anzi, finalmente s’è preso atto che non è mai stato re, al massimo soltanto un coltivatore diretto, e le sue nudità, proprio per questo, appaiono adesso ancora più oscene ai raffinati palati dei salotti buoni. L’uomo del Monte(nero), al secolo Tonino Di Pietro, infatti, all’improvviso s’è trovato immerso nella palta, e lui, specializzato nel ruolo del predatore, a fare la preda proprio non c’era abituato. Una vecchia foto di una ventina d’anni fa, risalente cioè ai tempi in cui «la madre di tutti i PM» svolgeva una integerrima esistenza tutta casa e procura, seppellendo tre metri sotto terra la Prima Repubblica, lo ritrae mentre bisboccia disinvoltamente in compagnia di Bruno Contrada, ai tempi numero tre del Sisde. Uno che appena nove giorni dopo l’«agape» «paparazzata» venne condannato per concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Strano, no? Proprio lui, aduso a spedire in una fredda cella, senza se e senza ma, tutti coloro che «non potevano non sapere», si fa sorprendere a gozzovigliare con un «traditore dello S C O N TAT I P E R T E Stato», dando la stura a tutte le dietrologie possibili su presunti colpi di stato manovrati dai Servizi segreti, più o meno deviati, ai danni del Prigioniero di Mao «CAF». La f, poi, invece che sui foNeroni 12 euro gli «nemici», Libero o Il Giornale, è I Savoia nella bufera apparsa in bella mostra sul prestigioPillon 12 euro so Corriere della Sera, scatenando le Come muore ire del «grande inquisitore», che ha una democrazia subito gridato al «complotto». Schacht 12 euro Di Pietro infatti, secondo la corazDossier conciliazione Cavaterra 12 euro Hjalmar Schacht zata di via Solferino, risulta essere l’unico magistrato presente all’insolito Il gran Murzuk COME MUORE De Diesbach 10 euro UNA DEMOCRAZIA «vertice» insieme con gli alti gradi dei 1922 Servizi e con l’«amerikano» Rocco pagg. 180 • euro 12,00 Caudana 12 euro Mario Modiati, chef della cosiddetta Il giovane Mussolini «Cia di Wall Street», vale a dire l’aAlessi 12 euro genzia «Kroll», la più grande organizI delitti di stato zazione mondiale di prevenzione dei Cirri 8 euro rischi di natura finanziaria, fondata nel TOTALE 90,00 euro 1972 da Jules Kroll. Si tratta di una società di business intelligence con Sconto 25% 22,5 euro una marea di dipendenti, una sterminaTOTALE 67,50 euro ta quantità di collaboratori esterni e + Storia del fascismo una corsia preferenziale per chi arriva Luciano Cirri Rauti e Sermonti da Cia e Mossad. Primo volume 30 euro I DELITTI DI STATO Bisogna capirlo, quindi, l’uomo TOTALE 97,50 euro pagg. 136 • euro 8,00 del Monte(nero). In quel momento al tristo epigono di Scarpia è caduto in Informazioni al 339 8449286 testa all’improvviso l’intero l’edificio (carcerario) faticosamente e metico-
I vecchi libri de
Via G. Serafino, 8 • 00136 Roma • Tel. 06 45468600 • e-mail: luciano.lucarini@pagine.net
DI PIETRO, DA CACCIATORE A PREDA
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Campania, Vincenzo De Luca, un plurindagato peggio di Bassolino, col quale fino a ieri non sarei andato neppure a prendere un caffè. Capito l’antifona? Siccome in politica non si fa niente per niente, in cambio di un bel fuoco di sbarramento eretto alla tutela del suo buon nome, l’intransigente Robespierre all’amatriciana, con uno come De Luca, adesso non solo a prendere il caffè, se sarà necessario, ci andrà, ma lo voterà e lo farà pure votare. I «manettari» di tutt’Italia alla Santoro, alla Travaglio, alla Grillo, insomma, dalla sera alla mattina si sono trovati praticamente sedotti e abbandonati. Ora, come se non bastasse la pugnalata alla schiena inferta ai «purissimi» dal loro leader «istituzionale», ad aggiungere dolore e sconforto nell’ambiente ci si è messo pure Michele Santoro, che ha mandato a «strampendere» Marco Travaglio il capataz «ideologico» dello strano quartetto. È successo, infatti, che il sensibilissimo uomo di pensiero, la prima volta che s’è trovato davanti alle telecamere in contraddittorio con Belpietro, direttore di Libero, e Porro del Giornale, non ha potuto fare i soliti «assoli» da sopranista. Insomma, i due invitati in studio gli hanno risposto per le rime e non potendo graffiare quegli impertinenti scocciatori, Travaglik per poco non ha avuto un mancamento. Tutto offeso, Travaglio, battendo i piedi per terra e agitando i pugnetti, ha fatto allora una scenata a Santoro, strillando: «O loro o io». Santoro per la prima volta è stato indeciso su chi scegliere e per il quartetto ora pare proprio arrivato il momento di andarsi a cercare un nuovo boss massmediatico. Ma soprattutto un nuovo leader istituzionale. Soltanto che l’impresa non è affatto semplice. I duri e puri dei giornali giustizialisti se la sono legata al dito e ora trattano Tonino e Michele come apostati venduti al nemico per i classici trenta denari, all’insegna del motto che - a destra - c’è sempre uno più puro di te pronto ad epurarti, ma senza pensare che, per la legge delle simmetrie, all’opposto - cioè a sinistra - c’è sempre uno più traditore degli altri pronto a colpirti alla schiena. Ma del resto cosa potevano aspettarsi da un voltagabbana che non ha esitato a pugnalare alle spalle il suo migliore amico passando da un momento all’altro, coi faldoni in mano, dai banchi della difesa a quelli dell’accusa? O da uno che lamenta di essere stato vittima di una grave ingiustizia, si fa risarcire facendosi eleggere al parlamento europeo da un plebiscito di consensi e all’improvviso pianta tutti in asso per tornarsene al vecchio impiego con lo stipendio moltiplicato? Insomma, dopo aver «rotto» con Elio Veltri, con Sergio De Gregorio e con Franca Rame, dopo che il suo sodale Luigi De Magistris gli sta facendo terra bruciata intorno, dopo il tradimento di Santoro, ora l’ineffabile «shit detector» molisano s’è giubilato pure un pezzo da novanta come Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo, vittima della mafia, che s’è congedato dall’Idv con una lettera piena d’improperi. Insomma, il giocattolo dipietrista s’è rotto proprio adesso che con l’affaire della Protezione civile stava per arrivare l’ora ics di una tangentopoli «number two». È la triste parabola di un figlio del nostro tempo, un villico invidioso e livoroso che in epoche meno infami di quelli che ritroviamo a vivere avrebbe fatto al massimo il gestore di vivai. Soltanto in una società come quella italiana di oggi, infatti, uno come Di Pietro poteva diventare prima Pm e poi deputato. Ma questa è un’altra storia.
SUD: CHI «CHIAGNE» E «FOTTE»
SE LA GODE più di tutti di MIMMO DELLA CORTE È DAVVERO inquietante la fotografia del Sud in questo inizio 2010. Aziende che annaspano e chiudono i battenti, di conseguenza, occupazione ritornata ai livelli dell’immediato dopoguerra; giovani che, per costruirsi un futuro, sono costretti ad abbandonare la loro terra e cercare lontano da questa il proprio «posto al sole»; cassa integrazione, disoccupazione, «lavoro nero e sommerso» invece, in crescita costante; reddito procapite (ovviamente, per quelli che un reddito ce l’hanno) che non supera i 18mila euro l’anno ed inferiore di oltre il 50 per cento di quello del centro nord; famiglie che s’impoveriscono sempre di più e fasce di povertà assoluta e relativa che continuano inesorabilmente ad allargarsi, cosicché appare sempre più difficoltoso per tanta parte dei meridionali, riuscire a mettere insieme, con regolarità, il pranzo con la cena. Ancora, malasanità, burocrazia sempre più opprimente; invivibilità, qualità della vita e degrado socio-economico a livelli di quarto mondo e, dulcis in fundo, ultime per citazione ma non per importanza, criminalità, sfusa ed a pacchetti, e generalizzata sensazione di insicurezza. Sono questi, e forse non soltanto questi, i principali nodi che, mentre ci apprestiamo a festeggiare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ancora affliggono il Mezzogiorno e continuano a spezzare, in misura sempre più netta ed evidente il Paese reale in due realtà decisamente distanti l’una dall’altra. Ritardi che bisognerà decidersi, finalmente, a cancellare, se si vuole effettivamente aiutare l’Italia del tacco ad uscire dal «cul de sac» in cui si trova ristretta e diventare parte integrante dell’Italia e dell’Europa. Anche perché, è di solare evidenza, e non si scopre di certo l’acqua calda nel sottolinearlo, che, se tutto questo non dovesse avvenire prima, l’introduzione definitiva del federalismo rappresenterebbe il colpo finale e definitivo per le speranze di crescita e di riscatto del Mezzogiorno. Tanto più se questo federalismo non dovesse essere permeato, almeno inizialmente, da stille di solidarietà e sussidiarietà. In questo caso, le distanze fra il Nord ed il Sud si allargherebbero vorticosamente e le speranze di sviluppo del secondo finirebbero per ridursi al lumicino. Il che - forse sarebbe anche inutile ribadirlo - non porterebbe vantaggio ad alcuno. Né alla parte del Paese che vive al di sopra del Garigliano che, volente o nolente, si ritroverebbe ancora costretta a trascinarsi dietro l’enorme «palla di piombo» rappresentata da quella che vive al di sotto e dai suoi ritardi, né a quest’ultima che - anziché avvicinarsi all’Europa - si ritroverebbe ad essere, a pieno titolo, membro ufficiale del non troppo ambito club dei Paesi sottosviluppati del quarto mondo. Un rischio, questo, che, diciamocelo con franchezza, può essere ancora sventato. A patto, però, che lo voglia la sua classe dirigente. Quella imprenditoriale che deve trovare il coraggio di fare
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intrapresa vera e non assistita, capace di investimenti in prima persona e che non dipenda perennemente dalla maggiore o minore apertura dei cordoni della borsa delle risorse pubbliche, legando ad essi le sue possibilità di sviluppo e quella politica uscita vincente dalle «urne di marzo», cui tocca il compito - non facile, in verità - di dimostrare di essere distinta, distante e, soprattutto, diversa da quelle precedenti che - secondo l’accusa, contenuta in un recentissimo documento della Cei (la Conferenza Episcopale italiana) «Un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno» - con la loro inadeguatezza, lo scarso rispetto dimostrato verso un’area, considerata sempre soltanto un bacino elettorale, in cui pescare consensi elettorali, la loro permeabilità alle infiltrazioni della criminalità organizzata, hanno «paralizzato il Sud», tagliandolo fuori «dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un semplice collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo». Il che - sempre secondo il documento dei vescovi - ha consentito il dilagare «della corruzione, della collusione e della concussione, alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni, contaminando così l’intero territorio nazionale». E diciamolo con onestà e franchezza, per quanto tutto questo possa dispiacere, chi vive nel territorio dal Capo Passero al Garigliano, sa bene quanto tutto ciò corrisponda a verità * * * Così come è vero, e non soltanto perché lo dicano i Vescovi, bensì perché si tratta di una convinzione che da queste colonne ed anche prima, noi andiamo ripetendo da tempo, che «le risorse “preziose” del Sud stenteranno a sprigionarsi fino a quando gli uomini e le donne del Sud non comprenderanno che non possono attendere da altri ciò che dipende da loro» che devono dimostrarsi in grado di contrastare «ogni forma di rassegnazione e fatalismo» e cancellare quella «mentalità inoperosa e rinunciataria» che «può rivelarsi un ostacolo allo sviluppo, più dannoso della mancanza di risorse economiche e di strutture adeguate». Una classe politica che, soprattutto, dovrà essere capace di un’inversione di rotta comportamentale che impedisca, per gli anni futuri, che le relazioni dei Procuratori regionali meridionali della Corte dei Conti, siano, così come avvenuto finora, infarcite di accuse nei confronti delle amministrazioni regionali. Relazioni, per altro, tanto uguali fra loro, indipendentemente dall’anno preso in considerazione e della Regione di riferimento, da apparire quasi la fotocopia l’una dell’altra. Tutte con un unico filo conduttore: lo spreco. Quello per le consulenze esterne e la distribuzione di contributi e finanziamenti a pioggia, per altro senza alcun controllo o riscontro sulla loro effettiva realizzazione, a manifestazioni ed iniziative più disparate e prive di qualsiasi utilità pratica per la crescita della varie realtà regionali, e finalizzate solo al foraggiamento di amici e famigli, all’unico scopo di allargare il consenso dei vari governatori e dei loro principali sodali; i trucchetti contabili nella stesura dei bilanci; l’allegra ed incontrollata gestione delle società miste; gli sperperi inaccettabili nella gestione e della sanità pubblica che da baluardo della salute dei cittadini è stata trasformata in feudo incontrastato ed inespugnabile della politica, con i risultati che sono stati per anni - e, ancora,
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lo sono - sotto gli occhi di tutti: malasanità, costi crescenti e vere e proprie voragini nei conti regionali e, di riflesso, in quelli nazionali, È lapalissiano, infatti, che soltanto quando il campo da gioco sarà ripulito da questa massa di «rifiuti», la partita per il riscatto del Mezzogiorno potrà ricominciare. Ma bisogna farlo in fretta. L’Italia del tacco è un ammalato quasi terminale e non può più permettersi che i suoi governi regionali, continuino a preoccuparsi soltanto di costruire la propria immagine, con annunci ad effetto e giochetti retorici e in nome e per conto del «povero e derelitto Mezzogiorno» a promettere l’impossibile «userò i fondi europei per integrare il costo del lavoro» piuttosto che «me ne frego del patto di stabilità» che, in quanto violazione delle regole fissate dall’Unione Europea, possono anche essere considerati dai cittadini come un indiretto invito ad infischiarsene delle regole del corretto convivere civile. Ne può più consentire che i propri governatori - così come, tanto per parlare della Regione in cui il sottoscritto risiede: la Campania, ha fatto Bassolino - dilapidino fondi milionari in tempi di euro, ma miliardari se misurati sui valori delle vecchie lire, in fiere dei ciucci, dei maiali, delle salsicce, delle mele annurche, degli ovini e dei bovini o dei merli maschi, ma anche per studiare «il carattere sensoriale dei salumi» o per finanziare corsi di formazione per «veline», per «portieri del mare» o per «buttafuori», o per creare carrozzoni inutili, ma dispendiosissimi. Perché, come dice una vecchia canzone napoletana, «nun ‘nce vò a zingara pe ‘nduvina cuncè» che, fino a quando, si andrà avanti cosi come fatto finora, sarà impossibile fare ciò che è davvero indispensabile realizzare per aiutare il Mezzogiorno a risolvere le questioni da noi citate in apertura e ad uscire dal «cul de sac» in cui è andato ad infilarsi, grazie alla superficialità, alla irresponsabilità, alla inadeguatezza delle sua classe dirigente, al cattivo funzionamento della macchina burocratica amministrativa, che mentre, da un lato, brucia il 25 per cento delle risorse prodotte dal sistema imprenditoriale, dall’altro, produce soltanto lungaggini, sprechi e ritardi che rendono insostenibile la già pesantissima - a causa della presenza di una criminalità sfrontata ed aggressiva cui, stando ad una recente ricerca di Confindustria, un’azienda su tre è costretta a pagare il pizzo - quotidianità delle aziende, riducendone ai minimi termini la competitività. Non c’è, inoltre, chi non si renda conto che, finché i fondi regionali saranno finalizzati alla soddisfazione delle brame di amici e clienti, e quelli strutturali usati poco, male e senza strategie, sarà difficilissimo trovare quelli necessari per la realizzazione delle infrastrutture di reti e trasporti indispensabili ad avvicinare il Sud al resto del Paese ed all’Europa ed addirittura impossibile reperire quelli occorrenti per finanziare incentivi, sgravi fiscali, aree franche urbane per sollecitare le aziende del nord ed europee ad investire nel Mezzogiorno, ma anche per sostenere lo sviluppo di quelle meridionali e l’eventuale istituzione di un bonus fiscali per agevolare il ritorno dei giovani alla propria terra. Fino ad allora sarà ipocrita e, soprattutto, inutile, continuare a prendersela con gli altri. Perché se il Meridione non cresce la responsabilità, non può essere addebitata ad alcun governo centrale, di qualunque colore esso sia, ma soltanto a certo vetero meridionalismo che in pieno duemila, preferisce continuare a piagnucolare, perché chi «chiagne e fotte», gode più di tutti.
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L’ANIMA che non c’è di HERVÉ A. CAVALLERA LE OSSERVAZIONI, più volte sollevate, al Disegno di legge Gelmini per l’Università scaturiscono da un problema profondo che va di là dalle indicazioni, condivisibili, sull’abilitazione nazionale concorsuale, sulla razionalizzazione dell’offerta formativa e così via, ed investe invece, per così dire, l’anima della riforma che, paradossalmente, è apprezzata dal centrosinistra, dallo stesso Berlinguer a cui risale la maggior parte dei danni di cui soffre l’Università italiana. Infatti, anche trascurando ciò che non va trascurato (ad esempio, l’introduzione del precariato e dell’instabilità attraverso la figura del ricercatore a tempo determinato e la conferma del feudalesimo universitario, voluto dal D. M. 3/11/1999, n. 509, per il tramite dell’autocrazia che sta per essere conferita ai vari rettori), resta da individuare il vero lato oscuro delle cose. Ebbene, nello spirito della Dichiarazione di Bologna e dell’Agenda di Lisbona, ossia nella volontà di uniformare il sistema universitario europeo secondo parametri liberistici, con nota 160 del 4/9/2009, il Ministro dell’Università, per razionalizzare e qualificare l’offerta formativa, ha deciso di eliminare «sconti» nei requisiti di docenza, di definire regole più severe relative al numero minimo di iscritti ai corsi di studio e di definire il limite massimo nell’articolazione dei corsi di studio, di definire il limite massimo nell’articolazione dei corsi interclasse, di limitare la proliferazione degli insegnamenti, di eliminare gli ostacoli alla mobilità, di limitare il numero di crediti extrauniversitari riconosciuti dagli Atenei, di potenziare l’efficacia della valutazione interna e di valutare i risultati dell’offerta formativa ai fini della ripartizione delle risorse. L’azione del Ministero è pertanto volta non soltanto a troncare senza mezzi termini ogni libertà di articolazione curriculare, come si evince dalla nota su richiamata, ma invita le singole Università ad una valutazione interna, in funzione poi di quella esterna ai fini della ripartizione delle risorse. Qui il vulnus dell’impianto complessivo: il problema economico, ossia il lavoro scientifico ridotto alla produzione economica. Dare per avere. Di ricerca disinteressata non v’è traccia, né vi è traccia di una formazione svincolata dalle logiche del mercato. L’anima della riforma Gelmini è un’anima economicistica, ossia non è affatto un’anima in quanto tutto viene ricondotto non a un concetto di formazione e di ricerca, ma a quello di produzione. L’essenza stessa dell’Università è definitivamente snaturata in azienda, come si è attuato dal Ministero Berlinguer in poi, secondo l’imitazione del sistema universitario anglo-americano che, tra l’altro, è il responsabile di quella economia virtuale che è stata una delle cause della recessione economica in atto. È evidente che in questa logica si manifesta irrilevante che gli studenti ignorino l’italiano, essendo più importanti l’inglese e l’informatica, anzi la telematica, anche se poi rimane la perplessità sulla capacità stessa del saper veramente pensare in un sistema formativo devastato dal mero tornaconto.
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Che non si tratti di osservazioni di principio, ma di constatazione di atteggiamenti già in atto, si può vedere da quanto avviene in una Università come quella del Salento ove, convinti del necessario mix di parametri di didattica e di ricerca, ci si muove verso Megafacoltà (dette Scuole) come centri organizzati secondo un modello razionale, efficiente e incentive-compatible, nelle quali, in nome dell’efficienza, si riducano i dipartimenti, si avviino forme di gestione integrata di servizi bibliotecari, si incentivi il coordinamento tra Facoltà in una struttura gerarchica in cui il docente e il ricercatore siano impegnati nelle attività ove possano essere più produttivi. Ciò implica, di conseguenza, l’astratta e discutibile valutazione dei prodotti in maniera aprioristica e funzionale a logiche di competitività di mercato. In altri termini, per quanto riguarda le opere d’ingegno, più che quello che esse veramente esprimono importa la loro collocazione estrinseca, à la page, mentre, per quello che riguarda l’organizzazione dell’Università essa appare gerarchicamente strutturata in funzione della produttività di mercato. La competizione a tutti i costi. È evidente che tale liberismo economicistico, che va oltre le stesse aspettative di classici come Adam Smith e di David Ricardo, intende la formazione in senso lato come vantaggio per le finanze dell’Università e la fortuna extra-universitaria dei laureati come conferma della produttività del sistema. Di qui non soltanto il definitivo svilimento delle facoltà umanistiche, ma l’asservimento di ogni ricerca a quella applicata, con precise finalità nel mondo della produzione, della competizione. I concetti di efficienza, di efficacia, di razionalizzazione si manifestano allora come non asettici indicatori di una cultura prona all’economia che rinunzia, come non utile, ad ogni studio che non abbia una corrispondenza in termini di guadagno. Al massimo si può concedere all’otium, di ciceroniana memoria, qualche insegnamento, sempre che la sua presenza possa essere di effetto per la ricaduta nell’apprezzamento dell’opinione pubblica condizionata, a sua volta, dai media e dalla rete. Sotto tale profilo, la riforma che nasce con l’auspicio di rilanciare il sistema universitario, si rivela come la volontà di ricondurre la ricerca all’economia spicciola. In questo ci si libera, come sta avvenendo altresì per la scuola, della preoccupazione di sostenere economicamente le Università di Stato. Non a caso in questi anni si è assistito ad una proliferazione di università private e telematiche che vanno trasformando l’istituzione in titolifici, mentre il richiamo all’eccellenza è meramente in funzione alla competitività nel mercato. Che tutto questo avvenga nell’indifferenza di tanti e nel compiacimento di molti è estremamente grave, anche considerando la difficoltà economica del momento e la crisi dei valori che sta avvelenando l’Occidente. Sarebbero desiderabili una scuola e un’università che, oltre ad accrescere la cultura e la competenza e a prospettare esiti lavorativi concreti, contribuissero seriamente a dare un carattere, una responsabilità, un equilibrio ai giovani. Ma questo non interessa in un gioco autoreferenziale in cui quello che conta è una presenza profittevole in un mercato liquido ove si vive alla giornata e non si costruisce più per il futuro. È l’immiserimento del carpe diem oraziano al guadagno nel presente e per il presente, per l’immediato, in competitività con gli altri e prescindendo da vincoli, tradizioni, progetti, solidarietà che coinvolgano non gli interessi materiali ma le anime. Per queste ragioni ciò che si sta attuando nella Governance delle Università non ha un’anima e contribuisce al disfacimento di un Occidente che vive ormai alla giornata e che ha davvero bisogno di una nuova e feconda evangelizzazione.
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TRA VERITÀ e pettegolezzi di DANIELE DE ANGELIS L’UNIVERSITÀ, mai come in questi ultimi anni, è stata al centro di confronti ed auspici, polemiche e riforme. La si è lungamente intesa come luogo sia fisico che culturale, ai nostri giorni però, colpa dei new media e di un menefreghismo generalizzato, resta come «luogo culturale», quanto al fisico, ebbene, le numerose Università Telematiche rendono piena testimonianza all’indiscussa rilevanza della ormai dibattutissimo e-learning. I concetti di «Università ovunque» e/o di «e-learnig» sono soltanto parte del nuovo e felice (o infelice, dipende da come lo si intende) modo di concepire l’attualità dell’istruzione universitaria. Sulla base di questo accenno potremmo ad esempio domandarci «come mai?» dunque «sul fronte fisico dell’Università si tende a promuovere ed incentivare la Frequenza alle lezioni», tanto che per la stragrande maggioranza dei Corsi sta divenendo obbligo, ed invece «sul versante Telematico la Frequenza perde completamente consistenza»? Domanda banale all’apparenza, ma a rigor di logica la Frequenza andrebbe esigita per Materie che sono considerate talmente importanti da richiederne l’obbligo. Ed allora perché in certi luoghi sì, ed in altri (seppur non fisici) no? L’importanza di una Materia varia quindi in funzione del luogo? Scostiamoci però dalla prima riflessione, sperando che la domanda non venga lasciata cadere, e che ognuno risponda coerentemente con la propria logica. Il passaggio dal fisico al virtuale del resto, è una tematica ampiamente e mai esaustivamente dibattuta. Veniamo però ad altre riflessioni, più importanti data l’imminenza della piena attuazione della Riforma. Quel che cambierà lo sappiamo, se non nello specifico, conosciamo grosso modo la «riduzione» dei Corsi di Laurea, la questioni degli sprechi e delle inefficienze in cui il mondo universitario si è imbattuto ed ha lungamente soggiornato, le problematiche dei Baroni e della Produttività (intesa come Formazione del capitale umano) insoddisfacente, e via dicendo. L’Università è dunque ancora da considerarsi «malata e denigrata», così come emerse dai dati di una ricerca comparativa, a cura del Dipartimento di Studi del lavoro e del Welfare dell’Università degli Studi di Milano? Tale lavoro di ricerca, risalente a poco più di un anno fa, si muoveva sulla scorta delle Linee guida del Governo per l’Università, considerando che: «L’Europa, attraverso la strategia di Lisbona, ha posto il traguardo di una società basata sulla conoscenza. L’Italia ha come principale risorsa il suo capitale umano… L’università e la ricerca, un binomio inscindibile, sono una ricchezza fondamentale per l’Italia. Per tornare ad essere uno strumento davvero efficace di crescita e di promozione sociale e personale in un Paese avanzato, l’università deve cogliere con coraggio la richiesta di rinnovarsi…». Definire poi tale ricerca come
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«comparativa», intendeva appunto mettere l’Università italiana a confronto con il resto d’Europa, questo almeno era l’intento. Di certo non sarà alcun tipo di ricerca (per quanto complessa) a far chiara luce sulla questione, tuttavia sono emerse delle problematiche mai pienamente considerate prima di questo lavoro. Veniamo ai dati rilevanti. Inghilterra e Olanda, stando sempre ai dati della ricerca, rappresentano l’eccellenza dell’avanguardia europea, in tal senso i coordinatori del PRIN (programmi di ricerca scientifica di rilevante interesse nazionale) hanno bollato come «malata» l’Università italiana, rilevando gravi carenze di funzionamento. L’hanno oltremodo definita «denigrata» sia dalle polemiche politiche che dai media. Il confronto col resto d’Europa ha messo in rilevo anomalie note e che necessiteranno ancora molto tempo prima di essere «riviste e corrette», come ad esempio la già citata proliferazione eccessiva dei corsi di studio (questione che è però già stata affrontata, anche se c’è ancora da constatarne l’effetto senza cantare vittoria troppo presto) nonché, cosa più rilevante, gli stipendi eccessivi dei docenti. Al di là della non meno rilevante questione del finanziamento non selettivo dell’Università e della ricerca, o il sistema di governance degli atenei, occorre soffermarsi sulla questione della «Frenesia scandalistica» rilevata dai ricercatori. Detta frenesia ci appartiene, è figlia dell’immancabile chiacchiericcio all’italiana, di quel gossip spaghettaro e goffo cui i media, specie in Italia, non possono proprio rinunciare, anche a discapito della pessima figura che questo gossip ci fa fare all’estero, dove invece di chiacchierare e sbandierare i propri drammi, si è più orientati alla risoluzione delle problematiche, a quel problem solving tanto caro al resto d’Europa e del mondo (sia linguisticamente che di fatto), ma che si ha decisamente poco a cuore da noi. La questione dei «media pettegoli» si evince soprattutto dalla rilevazione della tanto discussa proliferazione dei corsi di laurea, la tematica più cara alle fauci mediatiche; eppure, questi Corsi, che erano balzati da 2.444 a 5.500, non sembrano poi troppi se «confrontati» con gli 8.955 corsi di studio presenti oggi nelle Università tedesche (senza contare i 3.747 delle Fachhochschule, ossia gli Istituti di istruzione superiore ad alta formazione professionalizzante). Per non parlare dell’Olanda, che pur nella sua eccellenza d’avanguardia presenta una media di 75,9 corsi di studio per Ateneo contro la media italiana di 68,5. I dati relativi alla produttività invece, dovrebbero farci riflettere ancor di più. I vari pettegolezzi (polemiche) sottolineavano il basso tasso di laureati, e l’elevato numero di abbandoni rispetto agli iscritti, tuttavia «un’analisi più accurata» si legge nella ricerca «porta a interrogarsi sulle cause e a distinguere quelle imputabili alle università e quelle che dipendono invece dalle politiche pubbliche o dal sistema Paese». Quel che sembra mancare è proprio una politica incentrata sul tanto osannato ed invocato diritto alla studio. L’Università italiana «al confronto» appare come il fanalino di coda sia per le borse di studio o i prestiti agevolati, che per la spesa in servizi agli studenti. Altra questione rilevante, quella della produttività scientifica nelle università italiane, questione tanto cara alle sinistre, ossia il non brillante posizionamento delle Università italiane anche su questo versante. Ma la ricerca ha rilevato un’analisi grossolana di questi dati, e le intenzioni prevalentemente denigratorie di chi conduce questa polemica.
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La ricerca insomma, rileva e descrive ampiamente le problematiche fin qui appena accennate, e sarà sufficiente consultarla per aver più spunti di riflessione,ed una visione più chiara ed ampia rispetto i media ed i «polemici a tutti i costi» vogliono farci pensare. Del resto, ognuno avrà pure i suoi interessi, ma quando impareremo noi italiani a non svendere le nostre problematiche (o pseudo-tali) a chiunque, per poi farci ridicolizzare? Quando poi, in fondo, potrebbe spettarci di diritto l’eccellenza europea, per tante cose, soltanto che (come si dice), «ce piace tanto chiacchierà», così tanto che non risparmiamo nemmeno l’identità nazionale dal ridicolo, e si mettiamo volentieri alla berlina pensando di denigrare qualcuna altro, mentre poi nel calderone delle polemiche e del ridicolo ci finiamo tutti allo stesso modo. Fortunatamente i dati vanno oltre le polemiche, ed analisi più strutturate (come rilevato) di certo non porteranno ad un’immagine più limpida, ma di certo permetteranno delle valutazioni meno grezze ed affrettate rispetto alla fame mediatica di polemiche e pettegolezzi.
EUROCRETINISMO (Gianni Isidori, «il Borghese» 4 dicembre 1977)
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E SE I NOSTRI RAGAZZI SOSTENESSERO
QUALCHE esame in più? di ALESSANDRO CESAREO NON me ne vogliano, i nostri simpatici studenti che, dopo la pausa pasquale e calcolando la durata dei «ponti primaverili», già attendono le vacanze estive. Iniziano a fremere, i ragazzi, sui banchi, mentre le spiegazioni e i discorsi dei «proff» si allontanano sempre di più dalla loro mente, fino ad assumere contorni sfumati e, infine, a sparire del tutto. E, così, un altro anno scolastico è già quasi passato. Anche questo! Forse non è piacevole per loro che qualcuno «invochi» una scuola un po’ più seria, in cui il fare inizi ad imporsi, pian piano, a svantaggio del dire, ed in cui la concretezza delle azioni inizi a scacciare le nebbie del funus del paro liberismo «pedagoghese». Di che cosa parliamo oggi? Di esami! E che cosa s’intende con la parola «esame»? Ora, però, armiamoci di pazienza e tentiamo di schiarirci le idee. In un articolo di Marco Rossi-Doria, pubblicato su La Stampa del 22 febbraio, campeggia l’eloquente domanda: «Ripristiniamo l’esame di quinta elementare?», cui peraltro verrebbe da rispondere: «Ma perché, era stato forse abolito?» Insomma, come al solito, quando si tratta di scuola e di riforme più o meno avventate e sconsiderate che troppo spesso la riguardano, mai nessuno si accorge di niente; ma qualcuno non aveva già detto in precedenza che gli esami non finiscono mai? Oppure era una barzelletta? Forse sì, però siamo stati in molti a crederci, anche se in tempi lontani, e, chissà, forse abbiamo sbagliato, perché magari sarebbe stato meglio prendere tutto un po’ più alla leggera, altro che stare a faticare sui libri! Tanto, qualcuno potrebbe dirmi…per quello che vale! E certo: ad uno sguardo un tantino sommario, infatti, in un Paese come il nostro, in cui l’ignoranza televisiva, condita di arroganza ed eretta a sistema di vita, è retribuita profumatamente, non è davvero il caso di stare lì, chini sui libri, a faticare, a tentare di capire il perché di una cosa o di un’altra. Ma a chi volesse guardare un po’ più oltre, invece, così come fa l’aquila quando s’innalza in volo, tali considerazioni appariranno però assai fragili, a tutto vantaggio del valore formativo degli studi; intendiamo dire, soprattutto, «certi» studi, naturalmente invisi a chi non ha capito il valore degli stessi, ma difesi e praticati con il dovuto coraggio da chi ne ha invece compreso la rilevanza e la portata. Tutto questo fin qui va bene: il discorso non fa una piega. Potrei dunque chiudere qui il mio articolo, salutando i nostri affezionati lettori e non aggiungere altro. Anzi, quasi quasi faccio proprio così e rimando il resto della riflessione al prossimo numero. Dunque saluto i lettori? Sarei tentato di farlo, ma molti di loro sono studenti, oppure lo sono i loro figli, i loro nipoti, chissà, e così non ci si può permettere di compiere nessun tipo di omissione. Con loro, infatti, bisogna essere ancor più chiari e determinati nell’enunciare un problema, ma anche nel tentare di delineare una possibile soluzione dello stesso. È in nome di questa chiarezza e per
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amore alla stessa che potremmo riflettere, e come è scritto nelle righe seguenti, tentare un’analisi che sia abbastanza attendibile e che non scandalizzi troppo i cosiddetti benpensanti, quelli dall’orgoglio solido e dalle convinzioni granitiche, bontà loro. In sintesi, cancellato l’esame di quinta elementare e, quindi, abbassato ancor più il livello della (ex) scuola media - mi permettete di chiamarla così? - sostanzialmente attirandola nel grado di studi inferiore, l’unica cosa ancora da abolire è l’esame di Stato (anche questo, ex-qualcosa, ah… maturità! È vero, una volta si chiamava così, ma che brutto nome! E, inoltre, vicino gli si era appiccicato l’aggettivo: classica, scientifica, magistrale, tecnica! Ma che scempio! Dunque, si partiva dall’infame (tale almeno venne giudicato) presupposto educativo che osava ancora riconoscere a ciascuno studente differenti capacità e diverse attitudini, ma questo è sbagliato, signori miei! È nocivo! I vari Soloni dell’educazione, assai abili nel praticare un dialogo fumoso e fuorviante, hanno bollato come pericoloso lo studio e come foriero di gravi danni l’impegno intellettuale serio e rigoroso. Fa male. È troppo. Non lascia i ragazzi liberi di praticare tutti gli sport possibili ed immaginabili, ma - soprattutto - sottrae loro del tempo prezioso alla sosta prolungata davanti all’educatrice per eccellenza, la tv digitale. È così brava! E così colorata! Così…sonora! Ed è anche sempre accesa, questa fata delle meraviglie, madre di disastri familiari e fonte di violenza! Sì, ma allora, se la televisione è così buona come molti vorrebbero farci credere, perché produce danni educativi di enorme entità? E perché gli adolescenti vi trascorrono così tanto tempo davanti? Qualcuno potrebbe però obiettare che un altro esame esiste ancora, ed è quello di terza media, così difficile e così impegnativo che, per superarlo, ci vuole quello che ci vuole e bisogna anche studiare un po’, o almeno leggere qualcosa, la sera prima, cercando almeno di ricordare quale fosse l’argomento a piacere, tanto scrupolosamente concordato molto tempo prima con chi di dovere. Più facile rispondere al primo che al secondo quesito, ed i lettori avranno già afferrato il perché di tale risposta. Se, infatti, la scuola lascia molto tempo libero agli studenti (ed è quanto accade quando non ci sono compiti per casa, le interrogazioni sono programmate ed i voti pilotati, ovvero, tranne lodevoli, ma sempre più rare, eccezioni), è semplicemente logico e naturale che, a causa dell’età e delle oltremodo abbondanti attrattive esercitate dalla nostra società, questi ultimi non sentano affatto il senso dell’impegno, del dovere, dello sforzo… ma che brutte parole mi vengono oggi in punta di penna…di pc! Si vede che non ho mai dato retta ai pedagoghi imbonitori infettati di buonismo e, ohimè noi, abili ad efficaci infettatori! Il loro contagio ha ormai pervaso tutta la nostra società, ed ecco i risultati! Se, dunque, cancellato ope legis l’esame di quinta elementare, che pure trasmetteva ai ragazzini di dieci-undici anni un calibrato senso del dovere e dell’impegno, «condito» da qualche sano batticuore, e reso l’esame di terza media un’inutile formalità legata ad un inutile obbligo formale, non resta altro, come «ostacolo» al conseguimento del tanto agognato (ma ora nemmeno più quello…) «pezzo di carta» che un esame di Stato posticcio ed artificioso, allora il gioco è fatto! Allora sì, che l’ignoranza è non soltanto garantita, ma, e questo è l’aspetto più inquietante della cosa, incentivata ed incoraggiata, viepiù stimolata con le arti più efficaci e ben note! Risultato: il piagnisteo generale, condotto ad hoc da ammaestrati mezzi d’informazione, sempre
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pronti a sbranare e ad ingoiare chi osasse ancora pensare ad una scuola seria. L’esame di Stato sperimentale, introdotto nel 1969 dall’indimenticabile Fiorentino Sullo, è sopravvissuto trenta anni nel desolato contesto del nostro sistema educativo, causando decine e decine di situazioni imbarazzanti tra i docenti. Dopo un periodo così lungo di vuoto, eravamo davvero in molti ad attenderci un agognato e desiderato ritorno alla serietà, alla severità di un tempo, ma anche questo caso ‘l taccòn l’è peggior del buso, e così dedichiamo dalle tre alle quattro settimane di lavoro a fine anno scolastico per certificare una promozione (e con punteggio molto alto, anche!) ed un titolo di studio che viene concesso, per bontà non saprei di chi, a tutti, ma proprio a tutti! Dunque, siamo davvero sicuri che valga la pena studiare? A mio modestissimo ed insignificante avviso no! Non serve proprio a niente, signori miei, sempre che si continui imperterriti nella linea dello sfascio culturale pedagogico che, purtroppo, è ancora troppo vincente! Allora, se nella vita gli esami non finiscono mai, perché non ci impegniamo almeno un po’ perché gli stessi acquisiscano un senso che una scuola troppo facile ha invece loro subdolamente sottratto? Perché non ci rimbocchiamo le maniche per restituire dignità e serietà alle numerose fatiche intellettuali con le quali tanti giovani occupano gli anni più belli (ed irripetibili) della loro formazione? Soltanto ridando fin da subito agli studi il valore che essi non avrebbero dovuto, né potuto, perdere, si potrà iniziare a pensare ad una società diversa, forse anche migliore, chissà, ma si potrà comunque tentare di vivere in maniera costruttiva ed efficace una fase assai importante della vita, che è quella dell’adolescenza e della prima giovinezza. Per il resto, chi vivrà, vedrà.
CON RISERVA (Giuliano Nistri, «il Borghese» 8 maggio 1977)
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IL SEGRETO DI STATO
La maschera del Potere di MARY PACE «Signor Presidente del Consiglio, vuole spiegare a noi popolo italiano in cosa consiste il segreto di Stato?» Questa semplice domanda potrebbe mettere in imbarazzo il nostro Premier, ma non soltanto, anche i suoi predecessori, perché sono anni che si appone il segreto di Stato. Il problema dell’apposizione del segreto di Stato va considerato riguardo: 1) alla carenza di una adeguata legislazione; 2) agli effetti che tale carenza ha avuto in relazione a famosi casi del passato più lontani («Argo 16», strage di Peteano, Piazza Fontana, Ustica); 3) all’utilizzo di tale Istituto da parte di un’Istituzione, la Presidenza del Consiglio, la quale, oltre ad avere la direzione dei Servizi d’informazione e sicurezza, può rendere il loro operato al di sopra della legge, anche nel caso in cui questo sia stato attuato con modalità illegali proprio per favorire il soggetto che riveste la carica di Presidente del Consiglio o la Presidenza del Consiglio quale organo costituzionale (riferimento ai casi sequestro Abu Omar e «dossieraggio» illegale da parte del SISMI). È quindi chiaro che l’uso «scorretto» dell’apposizione del segreto, secondo modalità che riguardano sia l’ingiustificata apposizione dello stesso che la pervicace «resistenza» in caso di ricorso, hanno reso privi di responsabili gravissimi fatti di sangue. Tale ingiusta (verso l’accertamento della verità) prassi, che in tempi passati veniva peraltro giustificata dalla presenza dell’Italia in un blocco politicomilitare ben determinato ed all’imprescindibile necessità di tutelare i suoi (di quel blocco) supremi interessi, ha evidentemente determinato, in una delle più alte Istituzioni governative italiane (leggi Presidente del Consiglio), la convinzione di poter continuare ad operare in tal (nefasto) senso e quindi senza considerazione alcuna per il popolo sovrano, e nessun riguardo nei confronti dell’opinione di milioni di cittadini i quali, senza alcuna ombra di dubbio, non gradiscono comportamenti di tal fatta, comportamenti attraverso i quali uno Stato (nel quale essi evidentemente non si riconoscono) impedisce ad uno dei suoi poteri di accertare le responsabilità penali dei componenti di un’altro di essi. Decine di anni fa, il comodo alibi della necessaria ed inevitabile adozione del segreto di Stato, riguardò accertamenti ed indagini, inerenti gravissimi fatti criminali (si affermava, infatti, che l’Italia, essendo un Paese appartenente al blocco NATO doveva continuamente difendersi dalla minaccia comunista), poteva in qualche modo avere una sua, seppur non lineare logica (se è vero, come sembra esser stato accertato, che anche il blocco dei Paesi del Patto di Varsavia aveva incrementato, all’interno di ciascuno di essi delle strutture parallele e clandestine). Non avrebbe comunque più senso di esistere oggi in quanto, dopo la
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caduta del muro Berlino, la situazione politico-militare è profondamente mutata e, anche in Italia, le indagini sono riuscite a superare il muro che ha schermato le strutture segrete quali «Gladio». I tempi e la situazione geo-politica sono mutati, ma, anche oggi, le nefaste e palesemente ingiuste prassi comportamentali riguardanti l’apposizione del segreto, evidentemente, perdurano. Resta il fatto che, molto di recente (vedi inchieste delle Procure di Milano e Perugia sul caso Pollari), e per l’ennesima volta, determinate Istituzioni esercitano il loro potere senza minimamente tener conto di quelle che sono le esigenze di giustizia e verità del popolo che esse governano. È del tutto evidente che, pur essendo passati decenni, il comportamento dell’Istituzione che gioca un ruolo fondamentale in questo campo, la Presidenza del Consiglio, continui ad apporre il segreto seguendo le stesse pseudo ragioni di Stato di un tempo, quasi a sottolineare che il suo potere, ora come allora è nettamente superiore a quello degli altri della Repubblica, è un potere quasi invincibile che si contrappone ai diversi poteri costituzionali e li supera. Come può un cittadino accettare questo? Che significato si può dare a ciò che succede in materia di apposizione del segreto? Perché un istituto importantissimo, utile a garantire la sicurezza del Paese viene spudoratamente utilizzato per eludere responsabilità penali in fatti criminali gravissimi? Taluni personaggi, personaggi che rivestono importantissime cariche pubbliche, continuano a reclamare più poteri per l’istituzione della Presidenza del Consiglio, continuano ad essere fautori di riforme costituzionali che attribuiscano maggiori poteri all’esecutivo. Dove vogliono farci arrivare, c’è da chiedersi? Ma, ancor prima, dove siamo arrivati? Perché dobbiamo vivere in questa democrazia apparente? Siamo sudditi di uno Stato in cui il cittadino, contrariamente a quanto enuncia la carta costituzionale, non ha più alcun potere. Infatti, chi detiene il potere esecutivo, ed in quanto capo della coalizione di Governo, vigente l’attuale sistema elettorale, anche quelle legislativo, ha in mano un’importantissima arma: quella del segreto di Stato. Un istituto evidentemente da ripensare e disciplinare, perché così congegnato, ma, soprattutto, così mal attuato di certo non va. Non funziona, è fuori dall’effettivo controllo di altri poteri indipendenti e sovrani e, cosa ancora più grave, è nelle stesse, medesime mani di chi dirige i servizi di sicurezza, organismi che, in questo sfortunato Paese, sono stati spesso scenario di fenomeni di deviazione se non di vere e proprie idee golpiste. La domanda finale è: se queste cose accadono in un regime di democrazia perfetta, è meglio questo tipo di Stato o quello con un dittatore palese, magari illuminato?
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«GLADIO»: EROI O TRADITORI?
PER ONORE e fedeltà di ANTONELLA FALCHI «GLADIO» è stata una struttura non ortodossa, ma ufficiale della Difesa italiana, iniziata dall’OSS americano attraverso il reclutamento degli uomini della Xa MAS, fino alla successiva evoluzione dopo il 1946 e la sua ufficializzazione, avvenuta presumibilmente nel ‘52 con gli accordi, ancora segreti, fra gli USA e l’Italia. La sua funzione anticomunista era palese, sostenuta anche dall’industria e dalla massoneria italiana, inglese ed americana, ambienti che, certamente, nell’immediato dopoguerra, ospitavano ancora tutta la cultura fascista di destra e quella non-comunista del centro; struttura non ortodossa ma istituzionalizzata all’interno del SIFAR prima, del SID poi e quindi del SISMI fino al suo scioglimento, dopo che Andreotti ha deciso di «raccontare» tutto all’inizio degli anni novanta. «Gladio», o «Stay Behind» nella sua accezione originale ha avuto il merito di essere stata la struttura che ha saputo mantenere il segreto in un tempo molto lungo; questo non vuol dire che era sconosciuta, ma che era, invece, nonconosciuta. «Gladio» ha avuto in seno i migliori uomini delle forze speciali italiane, i più affidabili civili chiaramente anticomunisti, (per quanto concerne la sua operatività non ortodossa) ed era una struttura sostanzialmente facente parte di quelle politiche militari non ortodosse comunque protocollate, cosa ben diversa dalle attività clandestine. Occorre quindi iniziare a capire la differenza fra una operazione non ortodossa ed una operazione clandestina e comprendere la storia del nostro strano Paese, a partire dal 1946, ci consente di prendere coscienza di un condizionamento che ha subìto a causa della convergenza di interessi fra l’esigenza di sconfiggere il nazismo e la necessità di prevenire le mire autoritarie di Stalin (e quindi del blocco comunista). Gli Americani, che per primi hanno capito l’importanza degli ex soldati della Repubblica sociale di Salò, degli uomini della Decima di Borghese (il cui emblema era il Gladio), dei paracadutisti che avevano scelto di restare fedeli agli alleati tedeschi, hanno saputo riconoscere la fedeltà degli ideali di questi soldati italiani rispetto alla loro scarsa adesione al delirio nazista (caratteristica che ha permesso di ridurne la pericolosità fascista rispetto alla loro utile riconversione in chiave anticomunista, garantita proprio dall’essere stati fascisti, ma non propriamente nazisti). Motivo per cui, nonostante il periodo dell’epurazione, abbiamo ritrovato ai vertici delle istituzioni militari e di polizia gli stessi soggetti o, comunque, persone provenienti dalla «coltivazione» e dalla formazione fascista, sia a livello ufficiale e non ortodosso (ma ufficializzato) e soprattutto clandestino, cioè sconosciuto agli organi di governo o meglio «nonconosciuto». I generali che hanno gestito la Difesa appena, dopo la guerra,sono stati coloro che hanno aperto l’accesso alla mas-
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soneria militare, quella che mi piace definire essere oggi la «massoneria della sicurezza», allora ben collegata con i fratelli inglesi ed americani ed oggi sempre più radicata nel territorio italiano all’interno delle Forze armate di sicurezza e di polizia. Proprio la massoneria ha consentito alla «Gladio» clandestina di operare sotto l’ombrello di quella ufficializzata, senza quei vincoli politici e militari che anche la stessa «Gladio» doveva comunque rispettare, sia pur libera di agire in modo non ortodosso in forza di quelle tipiche operazione classificate come «Stay Behind», cioè penetrare o restare all’interno di un territorio nemico oppure occupato dal nemico attivando le operazioni ISPEG, infiltrazione, sabotaggio, propaganda, esfiltrazione e guerriglia, compresa la guerra psicologica e l’intelligence necessaria per conoscere e riconoscere; «Gladio clandestina», che svolgeva attività clandestine, quindi, e non ISPEG, attività mirate alla stabilizzazione di un sistema politico internazionale complesso nel quale l’Italia, fungeva da ago della bilancia. Concentriamoci, perciò, sulle attività (clandestine) della «Gladio» clandestina, sulla guerra psicologica, sui livelli che ne hanno coordinato il lavoro che soltanto in Italia ha caratterizzato il periodo della prima Repubblica fino al cambiamento con la seconda Repubblica, momento in cui cambia anche la «Gladio» clandestina per amalgamarsi e concretizzarsi insieme alla «massoneria della sicurezza» che oggi condiziona il panorama italiano della Difesa e della Polizia. Dobbiamo anche scindere bene le motivazioni dei militari che, in «Gladio» non ortodossa, hanno operato, dai militanti che in «Gladio» clandestina hanno avuto dei ruoli, sia per non attribuire delle responsabilità a chi ha soltanto fatto il proprio dovere istituzionale, non ortodosso ma ufficiale, da chi invece dell’istituzione che rappresentava ne ha fatto alibi per condurre e partecipare ad una attività del tutto clandestina. La zona grigia e di scambio fra queste realtà è stata la massoneria, industriale, militare, politica; che dopo la guerra ha visto nel ritorno di Licio Gelli dall’Argentina il cavallo atlantico su cui più Paesi hanno puntato, il quale ha condotto con «maestria» una operazione politica, militare e psicologica a lungo termine che ha dato frutti importanti, ancora oggi evidenti specialmente nella politica italiana attuale. La c.d. «P2» è stata una sigla catalizzatrice e colpevole di fatti ed eventi che coinvolgevano anche ben più complesse realtà e ben più raffinate responsabilità. Licio Gelli è stato un bravo «venditore di materassi», un bravo venditore che ha costruito altri politici venditori, che ancora oggi ci offrono una politica di mercato facendo il mercato della politica, con mire a lungo termine, ben differenti dall’ideologia di dominio comunista che assumeva più velocemente il controllo di un territorio, anche manu militari. Il nostro Paese durante la sua evoluzione post-fascista non ha capito che il distacco dal fascismo dell’ambiente militare e di polizia, sostanzialmente mai completato, lo stavano paradossalmente facendo proprio i fascisti stessi; questo perché gli stessi fascisti erano rimasti tali, non più filonazisti bensì anticomunisti. Da un lato un ufficiale governo democratico di centro, dall’altro un governo sovrannazionale destrorso e caratterizzato da una zona grigia capace di condizionare tutti i gangli del governo ufficiale, in ragione di quelle attività del tutto clandestine, ben gestite e protette dai militari dei servizi segreti e dai servizi segreti dei militari, nei quali transitavano numerosi carabinieri che avevano anche una specifica funzione di polizia e pubblica sicurezza.
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Non dobbiamo mai dimenticare che quando un carabiniere entrava al servizio segreto perdeva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, (che riacquistava ritransitando al reparto di origine) sulla cui importanza mi riprometto di «esplicitare» in un articolo futuro (!) spiegando l’evento delle stragi di mafia del ‘92 e del ‘93. Restiamo fermi sul fatto che rispetto alla «Gladio» non ortodossa, ma ufficiale, formata da militari e civili fedeli, vi era una «Gladio» del tutto clandestina, formata da militari infedeli, civili ed ex militari destrorsi, gestita dalla zona grigia massonica pidduista attraverso il controllo dei vertici della Difesa, escluso forse qualche ministro, in cui erano di volta in volta cooptate quelle forze criminali utili al mantenimento dello status quo od alla destabilizzazione di un territorio e di un evento. Il reclutamento di civili e la cooptazione di militari, da parte della «Gladio» ufficiale, avveniva tramite le normali agenzie di segnalamento regolate da precisi protocolli in seno alla sezione del servizio segreto che gestiva la struttura Stay Behind in cui «Gladio» era inclusa; parallelamente all’interno dello stesso servizio vi era una attività di cooptazione e di reclutamento di civili e militari indirizzati verso la «Gladio» clandestina, verticalizzata dall’ingerenza massonica della «P2» e dai livelli atlantici, e non soltanto, sopra di essa. Immaginiamoci perciò un bravo militare dei reparti speciali che entra al servizio e partecipa sia al proprio addestramento in funzioni di attività ISPEG che a quello dei civili in funzione Stay Behind: egli compie sostanzialmente il proprio lavoro e le funzioni info-operative tipiche dei reparti d’azione e dei reparti speciali a cui appartiene sino, magari, a diventare un segnalatore ed un operatore delle RAC, reti agenti coperte, diverse da quelle di polizia dell’UAR, Afficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno. Immaginiamoci quindi che lo stesso militare sia convinto di essere coordinato da un livello superiore, militare e politico, leale al giuramento di fedeltà alla Repubblica ed alla sua Costituzione, che nulla conosca dell’inquinamento pidduista ai vertici del suo stesso livello superiore. Immaginiamoci anche che questi settori siano stati progressivamente dominati da una ingerenza della «P2» non più verticale ma orizzontale, fino a inquinarne buona parte degli organici, formati da personale che non necessariamente era cosciente di operare in tal senso. Nel corso degli anni sempre, sino a costituire una dottrina operativa funzionale alle esigenze pidduiste a lungo termine, nel corso della quale sono cresciute generazioni di ufficiali e di comandanti dei vari reparti militari, dei servizi, dei carabinieri e delle forze d’informazione e sicurezza in generale. Immaginiamoci ora quei militari, ufficiali e sottufficiali, che in forza del proprio livello operativo, della propria esperienza e di requisiti personali abbiano compreso che vi era un vero e proprio «specchio» all’interno di alcune realtà della Difesa, dei carabinieri e delle forze di informazione e sicurezza in generale; che lo abbiano denunciato (se non al primo stadio del proprio livello superiore direttamente al vertice, anch’esso comunque inquinato dalla «P2»); orbene proviamo
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ad immaginarci il tipo di pressione che questi uomini hanno ricevuto, dal classico «o con noi o contro di noi», sino all’eliminazione fisica, professionale e sociale. Laddove un ufficiale con incarichi di comando all’interno delle forze speciali o dei servizi avesse avuto la capacità e la forza di denunciare un simile sistema «specchio», a chi lo avrebbe potuto esporre, se non al ministro della Difesa, alla Presidenza del Consiglio, oppure direttamente alla magistratura, (trovando però quel meraviglioso muro di gomma rappresentato dal segreto di Stato che se da un lato lo vincolava personalmente dall’altro ci rimbalzavano contro tutte le indagini promosse in questo indirizzo?). All’inizio degli anni ottanta si è venuta a creare una scissione all’interno di queste strutture, fra la «Gladio» ufficiale e quella «specchio», sia in forza del ricambio generazionale dei componenti sia in ragione di una progressiva democratizzazione delle Forza Armate e di polizia; scissione che fra il 1985 ed il 1990 si è data battaglia dura, invisibile agli occhi della collettività ma ben evidente all’interno della Difesa. Immaginiamoci perciò di vedere da un lato militari ed operatori dei servizi fedeli e dall’altro soggetti simili ma infedeli; ognuno di loro con il proprio harem di personaggi con funzioni info-operative, che si erano coltivati grazie al ruolo assunto all’interno della Difesa e dei reparti in cui prestavano servizio ed alle collusioni con quelle realtà criminali, quali la mafia, ed il residuale ambiente eversivo che ancora esisteva fra il 1985 ed il 1990. Da chi era rappresentato questo harem se non da soldati con caratteristiche personali ed operative ritenute idonee per combattere una guerra interna causata da questa scissione e da criminali utilizzati per compiere ogni azione ritenuta idonea per ridurre il rischio che una organizzazione «specchio» potesse essere scoperta e debellata? Ecco nascere i fedelissimi di singoli ufficiali fedeli, magari delle forze d’élite o dei servizi, i quali si sono autonomamente cresciuti un manipolo di operatori delegati di funzioni ben diverse dal loro incarico ufficiale (quest’ultimi non necessariamente coscienti della scissione in essere ma assolutamente vincolati al proprio collega o comandante in forza di quella lealtà e fedeltà che si crea in determinati ambienti). La stessa «lealtà» e «fedeltà» che ha caratterizzato gli uomini della Xa MAS e della Folgore durante le epiche gesta della Seconda guerra mondiale, la cui tradizione in tal senso è stata tramandata nei soldati delle generazioni successive, parte di quei reparti che hanno raccolto i loro fregi, dalla Folgore al Comsubin. Quanto sopra per far meglio comprendere ai lettori le dinamiche per le quali un qualsiasi semplice militare di un reparto di élite si possa trovare coinvolto (coscientemente od inconsciamente) in traffici di armi od in attività eversive, in omicidi eccellenti ed in tentativi di depistaggio ed inquinamento di indagini giudiziarie, facendo, poi, la scelta autonoma di restare sul carrozzone, scendere od abbatterlo. Mi auguro che si possa aver capito che essere strumento di un gioco grande consente, anche, di riscattarsi e non «appecoronarsi» (e mi scuso per i neologismi).
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LUCI ED OMBRE SOTTO IL COLOSSEO
ZIBALDONE capitolino di GIULIANO MARCHETTI IL SINDACO Gianni Alemanno, ad inizio di marzo, ha presentato la candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020 e ciò mentre è in forse la eventuale esclusione del partito numericamente più consistente nella Capitale dalle prossime elezioni regionali del Lazio. Quella per le Olimpiadi è una sfida che si ripercuoterà su tutto il prossimo decennio e che il Campidoglio, con l’intera Città, aspirerebbe a vincere, dato che ospitare i Giochi per la seconda volta, esattamente dopo 50 anni, significherebbe riportare Roma nuovamente al centro del mondo. Le Olimpiadi possono rappresentare per la nostra Città non soltanto un sogno ma un obiettivo ambizioso in cui, se la classe dirigente sarà all’altezza della «missione», dovranno essere coinvolte in maniera trasparente tutte le intelligenze imprenditoriali e professionali del Lazio. Tale opportunità potrebbe rappresentare anche una svolta effettiva e concreta per migliorare entro il prossimo decennio i servizi ai cittadini e alle imprese, ponendo Roma nella posizione di capitale digitale d’Italia e come polo high tech del Mediterraneo. Qualora prendesse consistenza anche la candidatura di Venezia, si potrebbero dislocare nella Laguna tutti gli sport acquatici, come già anche ipotizzato dal Ministro Brunetta, spalmando così tali eventi sportivi su un intero asse del nostro Paese, con un rinnovato spirito di solidarietà comunitaria e nazionale, al di là di sciocche guerre campanilistiche. Ma tornando a Roma, mentre ci si deve attrezzare per concretizzare questi obiettivi, non si possono sottovalutare una serie di altri problemi che affannano ed affiggono la Capitale e che debbono essere affrontati e risolti. Infatti, Roma è la capitale degli «affitti in nero», sia per quanto riguarda gli appartamenti destinati ad uso abitativo, sia le camere in sub-affitto, ove l’evasione fiscale complessiva accertata in tutta Italia nel 2009 nel giro degli affitti è stata di 12,8 milioni di euro. Roma è altresì la città ove una parte importante delle botteghe artigiane sono a rischio di chiusura, specie nel centro storico, per i caro affitti, ove tra l’altro i negozi storici spesso non sono sufficientemente tutelati ed ove gli esercizi commerciali tradizionali sono spesso messi in crisi, se non addirittura fagocitati, dalla grande distribuzione e dagli ipermercati. A Roma città, ma anche nelle confinanti «zone dei Castelli», pro-
sperano vere e proprie centrali dell’usura che strozzano piccoli commercianti ed imprenditori, impossessandosi delle loro aziende e delle loro proprietà. Roma è anche una città d’arte e di cultura ove però, per la rigidità dell’osservanza di un orario, viene sospesa, da parte di una custode, l’esecuzione di un concerto di Vivaldi con orchestrali russi al Pantheon di fronte a 500 spettatori! Roma è comunque la città in cui è stato recentemente siglato un «accordo quadro di programma per lo sviluppo territoriale» tra Comune, Confindustria e Ministero delle Attività produttive, per attuare una promozione e sostegno al sistema imprese. È inoltre allo studio, sotto la guida dell’assessore al bilancio Maurizio Di Leo, tecnico di indiscusso valore, il varo di una «Holding Capitolina» per coordinare tutte le società ed aziende partecipate per conseguire, oltre a una trasparenza dei bilanci, una forte riduzione delle spese improduttive e una efficienza gestionale. * * * Dopo aver divagato tra luci ed ombre della Capitale, soffermiamoci ora, parafrasando Carlo Emilio Gadda, su «Quer pasticciaccio brutto der Tribbunale a piazzale Clodio» con una analisi in 4 punti, una soluzione ed un suggerimento. Punto n.1) L’apparato romano del PdL incaricato di presentare la lista, al Tribunale in piazzale Clodio, riesce ad «incartarsi» con una ottima esibizione; non si comprende se per ansia, per tensione, per un attacco di panico o di fame da panino … anche se alcune voci maligne parlano di una sopraggiunta necessità di effettuare un paio di sbianchettature. La notizia trapela in qualche radio-telegiornale della sera. Punto n. 2) La non ammissione della Lista del PdL, nella giornata successiva, viene data per certa! Il Partito Radicale, il Popolo Viola e tutto il PD esultano: la Yellow Lady - per la sua stella gialla, alias Emma (ex) Bonina interrompe lo sciopero della fame/sete, brindando con Giacinto ed altri fans, per un tale insperato colpo di culo (!) con cui a Roma il PdL risulterebbe essersi auto-eliminato dalla competizione regionale. C’è festa grande in piazza del Popolo da Canova e alla Casina Valadier, ove appaiono giulivi ed eleganti tutti i potenti della «sinistra al caviale» ed i vari radical-chic.
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RIPRESA DELL’ECONOMIA?
Senza turismo, Italia al buio di SAVINO FRIGIOLA
L’ORDINE È NECESSARIO (Gianni Isidori, «il Borghese» 30 gennaio 1977) Comunque, dopo la collettiva euforia, Conchita De Gregorio - a sorpresa - su l’Unità pubblica un intervento dal titolo «Ridateci l’avversario», mentre Antonio Di Pietro - forse ancora sotto l’effetto di troppi brindisi - parla della «necessità di cercare una soluzione politica». Punto n.3) Sul fronte contrapposto c’è chi invece ricorda il camerata Teodoro Buontempo quando si «accampava» sotto l’Ufficio Elettorale per presentare il simbolo del MSI in testa alla lista, conquistando così una tradizione da sempre in appannaggio al PCI. Ora sia i nuovi mandarini (ex di AN), sia i giovani funzionari (ex di FI) riescono ad «autofottersi» presentando tardivamente la lista del PdL. Punto n.4) Inizia a prendere consistentemente corpo la possibilità di una «soluzione politica» tramite un D.L. ed ecco che la coppia Bonino-Pannella comincia ad inveire contro un nuovo presunto scandalo, Bersani contro il governo mentre Di Pietro, prospettando un eventuale golpe, invoca un intervento militare per bloccare Berlusconi. La «Soluzione» - Viene firmato da Giorgio Napolitano il Decreto con cui si cerca di riportare alla normalità una situazione assurda ed improponibile, causata dalla cialtroneria ed incapacità di alcuni delegati del PdL a presentare correttamente le liste elettorali, anche perché costretti a continue variazioni dei nomi in tempo «irreale», ed è lo stesso Presidente della Repubblica a chiarire e spiegare le motivazioni di tale decreto. È preferibile non commentare, per motivi di stile, le reazione isteriche del raggruppamento radical-democratico, né la delirante procedura di impeachment invocata da Di Pietro. Un suggerimento - Date le odierne tecnologie e l’informatizzazione della pubblica amministrazione (già realizzata o in corso d’opera), sarebbe opportuno prevedere la presentazione delle liste elettorali tramite «posta elettronica certificata». Pertanto si desidera lanciare un suggerimento al Ministro Renato Brunetta, affinché intervenga per modificare queste attuali anacronistiche procedure degne della più retriva ed ottusa burocrazia.
IN QUESTI ultimi giorni stampa e televisioni «scoprono» improvvisamente ciò che si poteva agevolmente pronosticare oltre un anno fa. L’economia italiana, seconda soltanto a quella greca, è la peggiore dei Paesi dell’Euro zona. L’inceppato meccanismo produttivo non riesce a sbloccarsi, «si è arenato soprattutto il Made in Italy», ed arretra anche l’industria del turismo. Rispetto ai numeri degli anni passati, soltanto fra nostri connazionali oltre sei milioni hanno saltato la villeggiatura. Alla crisi dell’apparato produttivo si accoda pesantemente dunque anche quella del settore turistico con contrazioni ancora più marcate nei flussi esteri. La cosa non è di poco conto giacché negli anni passati la bolletta energetica del nostro Paese veniva saldata proprio con gli introiti valutari dei flussi turistici internazionali. Senza essere chiaroveggenti né possessori della palla di vetro, le manovre realizzate intorno all’Euro sin dagli anni passati avrebbero dovuto allertare immediatamente i nostri politici ed i grandi economisti loro consiglieri. La dubbia e timidissima ripresa economica che si cerca ora di accreditare ad ogni costo e strombazzata ad ogni stormir di fronda, per ammissione delle stesse fonti ufficiali risulta in ogni caso molto al di sotto di quella avviata nei Paesi europei nostri concorrenti e questo contribuisce ancor più a divaricare la forbice delle rispettive velocità economiche. In questi ultimi anni i blasonati economisti sia di area governativa che d’opposizione hanno fatto dunque cilecca. La progressiva rivalutazione dell’Euro rispetto al dollaro prima, la sistematica e prolungata riduzione del TUS americano, che ha preceduto di molto quella dell’Euro, la sistematica riduzione della circolazione monetaria nel mercato nazionale interno e nel pur vasto mercato europeo, la forsennata liberalizzazione dei mercati internazionali, doveva far comprendere immediatamente ai nostri fini politici ed ai brillanti consiglieri economici, che contro l’Europa si stava scatenando, ad opera dei soliti banchieri, la stessa manovra inflitta all’Italia con la famosa «Quota Novanta». Gli effetti di questa terapia, si sono puntualmente verificati: improvvisa perdita di competitività sui mercati internazionali, Made in Italy in particolare, crollo dei flussi turistici internazionali, fuga delle aziende produttive dal nostro territorio. La manovra è stata assecondata con il fattivo apporto della BCE, l’unica ad avere competenza e capacità decisionali in materia monetaria a causa dell’insipienza/ connivenza delle forze politiche europee e nostrane, colposamente responsabili della sottoscrizione del trattato di Maastricht. In questo scenario le aziende vanno, si delocalizzano, si trasferiscono all’estero e le nostre maestranze restano a guardare … a casa. Tutti zitti, associazioni di categoria, sindacati, partiti di
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governo e d’opposizione, nessuno deve parlare o affrontare simili spiacevoli argomenti. Le schiene incurvate dei nostri media sono allineate su queste posizioni, anche nel misconoscere gli inviti rivolti in passato ai nostri industriali, proprio dal nostro Presidente, di trasferire le produzioni in India, Cina, Est europa, ecc. Il motivo ufficiale e ricorrente è come al solito soltanto quello economico: abbattere i costi con ogni mezzo per essere competitivi. Tutto risulta lecito sacrificare per continuare a far incassare ai banchieri il pizzo sugli artificiosi indebitamenti, sia pubblici che privati, e le loro tangenti imposte al mercato su ogni movimento e su tutte le operazioni bancarie, divenute tra le più care al mondo. Disperazione per perdita di posti di lavoro, fallimenti a catena, suicidi per insolvenza, sono soltanto considerazioni fastidiose e conseguenze fisiologiche necessarie per fare avanzare globalizzazione ed omologazioni a tutti i costi. Dobbiamo essere tutti uguali, come nel regno dei morti. Di tutto ciò nessuno parla e pare che nessuno debba o possa parlarne, almeno osservando e constatando gli atteggiamenti dei due schieramenti e dei relativi politici sia di destra che di sinistra. Nell’attuale crisi economica di unica e stretta origine bancaria e monetaria, tutti con le bocche cucite, nessuno deve nominare ed additare banche o banchieri, e tanto meno ipotizzare una loro chiamata in causa a ristoro dei malefici profusi. È ritenuto sconveniente ed offensivo sollevare il problema del «signoraggio» incamerato dai privati banchieri, come pure denunciare le cause dell’artificiale contrazione della circolazione monetaria. Le attività produttive devono essere spellate vive, dissanguate con salassi da cavallo per pagare il pizzo alle private banche d’emissione che, grazie alla latitanza e connivenza sempre più appariscente dei nostri politici, hanno raggiunto il diritto esclusivo di monetizzare il mercato a loro piacere e fissare regole e privilegi a loro esclusivo uso e consumo. Maramaldeggia «Basilea 2», è in preparazione «Basilea 3» che per ammissione dello stesso Mario Draghi comporterà ulteriori e più drastiche riduzioni di circolazione monetaria. La manovra a tenaglia è perfetta: la produzione deve inventarsi utili di bilancio, da prospettare ai solerti ed amorfi bancari, che viaggiano con la «libretta rossa» di «Basilea 2» in mano, sui quali poi rischiare di pagare le tasse, nella speranza, forse, di mantenere in essere le già asfittiche linee di credito esistenti. I nostri politici appartenenti all’arcobaleno d’ogni colore, (ora in l’Italia va di moda il viola, sponsorizzato, come gli altri colori, da chi intende smorzare gli interessi nazionali e preservare banchieri ed affari connessi ad ogni livello) si trovano esautorati dalla loro vera funzione che è quella di amministrare lo Stato in nome e per conto dei cittadini come da regolare delega elettorale che ne legittima ed impegna la loro attività. Dal momento che non possono occuparsi di emissione e circolazione monetaria e tutto ciò che ne consegue, scelleratamente cedute in esclusiva ai banchieri, l’Esecutivo si trova nell’impossibilità di gestire gli sviluppi dell’economia nazionale, quanto mai necessari in questi frangenti per condurre il Paese fuori dalle secche della crisi economica ed occupazionale, Non resta altro ai nostri politici che dedicarsi al perfezionamento del sistema contributivo per meglio riscuotere tasse e balzelli come se, per assurdo, ci fosse la necessità di tranquillizzare ancor più il sistema monetario (in questo senso debbono essere lette anche le esortazioni ai Governi dalle così dette «Autorità Moneta-
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rie» sui tagli di spesa) circa la regolare corresponsione degli interessi sul mastodontico debito pubblico. In questo scenario crepuscolare, quasi kafkiano, mentre l’economia e l’occupazione si stanno sgretolando e franando, insieme all’intero territorio nazionale, alle forze politiche dai colori contrapposti non resta altro che occuparsi delle escort e dei trans dei propri reciproci antagonisti. È vero che la compagine governativa nulla pone in essere per spronare la ripresa economica (la proroga della cassa integrazione per altri sei mesi, per altro già bocciata, ne dimostra tutta l’incompetenza), ma è altrettanto vero che a fronte delle proprie sparate demagogiche l’opposizione non è in grado d’indicare dove e come reperire le risorse necessarie per realizzare ciò che chiedono perentoriamente a gran voce. Fortunatamente la nostra scarsa ripresa economica, paragonata a quelle dei Paesi nostri concorrenti, come ampiamente riportato recentemente dai nostri organi d’informazione, non dipende da nostre incapacità, da nostre carenze organizzative, culturali e strutturali, ma semplicemente da impossibilità di reperire denaro da destinare ad investimenti, sviluppo e produzione. Gli altri Paesi con un debito pubblico più basso del nostro possono continuare ad indebitarsi verso il sistema bancario-monetario per fornire liquidità e rilanciare i loro mercati e la loro produzione, noi no. Chi non è ancora sufficientemente indebitato verso la cupola monetaria-bancaria viene imbeccato con il chicco di becchime giornaliero come i polli allevati in batteria e poi … gli Stati finiscono per farne la stessa fine: Cile, Argentina, Islanda, Grecia, pratiche già chiuse. Pratiche in corso in rapida successione: Italia, Spagna e Portogallo. Continuare ad ignorare questi segnali si è perseguibili per alto tradimento. Sempre fortunatamente disponiamo della cultura e dell’esperienza, da noi collaudata favorevolmente in oltre cento anni d’attività, per consentirci di scongiurare ed evitare questo imminente disastro. Già nel passato siamo stati oggetti di un simile attacco, sempre organizzata dai banchieri di allora, attraverso la manovra della «Quota Novanta». Ne uscimmo brillantemente mediante l’emissione monetaria diretta da parte dello Stato con la quale fummo in grado di finanziare sviluppo economico, ricerca ed occupazione. Nel 1933 la stessa manovra fu raccomandata dal grande economista Irving Fischer della famosa «scuola di Chicago» al Governo degli Stati Uniti, ancora afflitto dalla grande depressione a seguito della crisi del ‘29. La politica pertanto, se vuole conservare quel po’ di credibilità residua e svolgere il ruolo che le compete, deve agire con risoluzione per battere moneta in proprio e trasferire allo Stato i proventi del «signoraggio» conseguiti in nome e per conto dei cittadini. Lo Stato deve anche riappropriarsi contestualmente di tutte le leve economiche, oltre a quelle monetarie per consentire alla formazione di governo, di qualunque colore essa sia, di poter esercitare la propria attività in funzione degli obiettivi nazionali per i quali ha ottenuto il consenso dai propri elettori. In difetto di ciò il persistere della sceneggiata elettorale non ha più alcun senso. I segnali di malessere da parte degli elettori sono già evidentissimi. Francia «docet». L’alternativa è drammatica: o i politici, di governo e d’opposizione, ritornano ad operare per il bene comune, di tutti e di ciascuno, a salvaguardia del lavoro e della produ-
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zione italiana, compresa quella dell’ingegno, oppure il solco già vistoso con gli elettori è destinato ad approfondirsi ulteriormente con conseguenze imprevedibili. Chi non saprà o non vorrà ritornare all’espletamento corretto del mandato parlamentare è destinato, dai cittadini ancor prima che dalla storia, ad essere accantonato. Le sceneggiate e le baruffe, spesso orchestrate e finanziate dalle stesse centrali, per distrarre una parte dell’opinione pubblica, non hanno più presa e non interessano più alcuno. Agli immancabili anatemi lanciati dai soliti economisti di sistema su queste proposte, si deve rispondere, come autorevolmente sostenuto da G. Auriti, che non è la quantità di denaro da tenersi sotto controllo bensì il rapporto costante tra circolazione monetaria e beni e servizi da misurare. Con la quantità monetaria così emessa, senza costo e non gravata da interessi, con il solo limite della creazione dei beni corrispondenti al denaro emesso, si fanno lavorare e si pagano i lavoratori disoccupati (la cassa integrazione è finita), si mette in sicurezza il territorio, si finanzia lo sviluppo, la ricerca e si realizzano le opere di pubblico interesse. Se per tutto ciò è necessario uscire dal trattato di Maastricht, meglio muoversi subito, senza inutili ed ancora più costosi tentennamenti. Il tanto vituperato trattato di Lisbona finalmente lo consente. Sempre ai soliti economisti di sistema e all’intero mondo produttivo si riassicura che non si corre alcun rischio d’isolamento internazionale. Il club dei Paesi quali: la Cina, il Brasile, l’India, l’Argentina, la Russia, il Venezuela ed i Paesi del centro America, i Paesi arabi e quelli dell’estremo Oriente ecc. legati fra loro da convenzioni bilaterali in forza delle quali scambiano i propri prodotti pagandoli con la propria moneta nazionale, saranno felicissimi d’accoglierci posto che la nostra e le loro economie, come tutti ben sanno, sono felicemente complementari.
SOCCORSO ROSSO (Gianni Isidori, «il Borghese» 22 maggio 1977)
LA CRISI GRECA
UN MONITO per l’Europa di DANIELE LAZZERI L’IMPROVVISA accelerazione della crisi greca, dovuta al peggioramento della già compromessa situazione delle finanze pubbliche elleniche, nasconde alcune preoccupazioni che vanno ben al di là del caso specifico. Il clamore mass-mediatico che ha finito per travolgere Atene si sta riverberando su tutta l’Europa, mettendo in discussione i fondamenti alla base dell’Unione economica e monetaria dell’Europa. Sul banco degli imputati sono finiti, infatti, non soltanto gli uomini di governo greci delle ultime legislature ma anche la miopia dell’impianto complessivo contenuto nel Trattato di Maastricht, oltre che la carenza delle autorità di vigilanza, dimostratesi incapaci di monitorare le clamorose falle presenti nella contabilità creativa di Atene. Non soltanto. Lo spettro della crisi aleggia ora anche sulle finanze pubbliche di quelli che, secondo l’indecorosa prassi degli addetti ai lavori inglesi, sono stati definiti Pigs. I Paesi «maiali» (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna e, perché no, anche l’Italia), rischiano la stessa sorte dei cugini ellenici, andando incontro a possibili gravi conseguenze sotto il profilo economico e sociale. Il propagarsi dei timori sull’integrità, la stabilità e la tenuta dell’Unione Europea, corroborati da un tam tam mediatico di matrice anglosassone che desta quantomeno qualche sospetto, ha finito per mettere sotto pressione la valuta comune del Vecchio Continente. Nelle settimane scorse, infatti, l’Euro ha perso prepotentemente quota rispetto al dollaro ed è immediatamente iniziato un pericoloso fuoco di fila speculativo che ha trovato nel finanziere George Soros, uno degli esponenti di spicco. Soros, già noto per essere riuscito, all’inizio degli anni Novanta, a far uscire la lira italiana dallo SME (Sistema Monetario Europeo), il cosiddetto «Serpentone Monetario» e per aver piegato la sterlina di Sua Maestà Britannica come mai era successo in precedenza, attraverso un attacco speculativo lanciato dai suoi fondi di investimento, si è recentemente riaffacciato sulla scena finanziaria internazionale, con il coltello tra i denti. Scopo della sua azione, coordinata con altri «grandi» della speculazione globale, è quello di tifare apertamente per un progressivo indebolimento della divisa europea in favore del dollaro americano che da qualche anno si stava abbandonando ad un inesorabile declino quale valuta di riferimento per gli scambi internazionali. In questo senso, non sono di secondaria importanza le parole di Niall Ferguson che, sul Financial Times, ha dichiarato come quello dei titoli del Tesoro statunitensi è «un porto sicuro quanto lo era Pearl Harbour nel 1941». La girandola di ipotesi, suggerite da eminenti studiosi e da alcuni organismi dell’Unione Europea per far uscire Atene dalla crisi ed evitare un pericoloso contagio di altri Stati alla «periferia» dell’Europa, hanno spaziato dalla richiesta di intervento al Fondo Monetario Internazionale, già noto per operazioni di salvataggio di Paesi a rischio default, all’uscita della
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Grecia dall’Euro, con un ritorno, assurdo quanto impraticabile, alla dracma. Nel primo caso si sarebbe trattato di una condotta «pilatesca». L’Fmi, infatti, avrebbe finanziato Atene in cambio di enormi sacrifici economici, difficilmente affrontabili dall’Europa da un punto di vista politico. L’Fmi, in qualità di ente sovranazionale si sarebbe dovuto accollare, dunque, l’antipatico ruolo di affamatore del popolo greco, lasciando un’apparente verginità all’Unione Europea. La seconda ipotesi mirava, invece, a consentire una forte svalutazione della moneta greca, così da alleggerire il peso del debito pubblico, incentivare le esportazioni e incrementare l’afflusso turistico grazie alla convenienza nel tasso di cambio. Ma entrambe queste possibilità sembrano essere state, fortunatamente, accantonate dagli altri Paesi dell’Ue. In tutti e due i casi, si sarebbe, infatti, trattato di una resa incondizionata e dell’accettazione del fallimento definitivo dell’Unione Monetaria. Piuttosto, si è cominciato a ragionare sulla necessità di un finanziamento diretto da parte di alcuni Stati Europei, Germania in testa, sfruttando il canale delle grandi istituzioni bancarie, coperte da una garanzia governativa. Un sistema per aggirare la rigidità della clausola di no-bailout che impedisce interventi diretti per salvare un Paese aderente all’Unione Europea dal rischio di default. Contemporaneamente sono stati avviati degli approfondimenti sulle operazioni di cartolarizzazione (in gergo securitization) e di monitoraggio della contabilità pubblica greca per verificare le responsabilità dell’attuale situazione di deficit e debito di bilancio. Sarà la fine della finanza creativa, quella dei derivati e dell’ingegneria finanziaria? Ormai è assodato che l’utilizzo disinvolto di questi modelli post-moderni di gestione sia nel settore pubblico sia in quello privato, ha causato gravi danni all’economia planetaria, gettando le economie internazionali nel caos di una recessione ancora lontana dall’essere superata. Disoccupazione e chiusura di attività produttive e commerciali non accennano a diminuire. Al contrario, gli effetti perversi della finanza tossica proseguono a cagionare nocumento alle economie dei Paesi più industrializzati, allontanando i tempi della tanto attesa exit strategy. Da un punto di vista tecnico, un’imponente emissione straordinaria di Eurobond, di titoli del debito pubblico emessi direttamente dall’Unione Europea e destinati al rilancio degli investimenti, soprattutto nei Paesi in difficoltà economica, sarebbe la miglior soluzione possibile. Probabilmente, invece, saranno Francia e Germania a prendere in mano la situazione e, considerando anche i loro ingenti investimenti in Grecia (soprattutto in Spagna) saranno soltanto loro a tentare il salvataggio di Atene, per salvaguardare specifici interessi nazionali. In quest’epoca, caratterizzata da forti scossoni all’economia ed alla finanza di tutto il pianeta, è difficile immaginare come sarà realmente il mondo, all’uscita dal tunnel della crisi. «L’unica funzione delle previsioni economiche», scriveva l’economista John Kenneth Galbraith, «è quella di far apparire rispettabile l’astrologia». L’unica possibilità che rimane per uscire dall’attuale situazione di impasse è quella di buttare a mare la rigidità dei parametri di Maastricht e la logica tecnocratica del patto «stupido», ripartendo con una grande iniziativa politica che coinvolga tutta l’Europa. Poco importa che siano i Paesi maggiorenti di questa Unione, come Francia e Germania, a fare da capofila. Il ruolo di leadership, all’interno dell’UE si deve dimostrare sul campo. Per non far naufragare le speranze di un futuro per la Nazione Europea, questa si profila, senza dubbio, come un’occasione preziosa. Anzi, l’ultima.
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ECONOMIA CURTENSE O LIBERALE ?
NON SEMPRE privato è libertà di RICCARDO SCARPA SECONDO un’ideologia consolidata, una economia liberale sarebbe caratterizzata dalla proprietà privata in genere, ed in specifico delle società che svolgono attività d’impresa, mentre qualora l’impresa economica fosse esercitata da soggetti pubblici o da società di diritto privato, ma il cui capitale fosse, in massima parte, detenuto da enti pubblici ci si troverebbe di fronte ad una economia statalista. Di conseguenza, ogni «privatizzazione», cioè passaggio d’una impresa dal controllo del capitale pubblico al capitale privato, costituirebbe un progresso nelle magnifiche sorti e progressive della libertà economica. Questa ideologia è smentita dagli ultimi trent’anni di vita economica italiana, e dallo stato dell’economia russa seguito al collasso del comunismo sovietico. In tali casi s’è visto quanto «privatizzare» non voglia dire, in sé, «liberalizzare». Infatti, passare dal capitale pubblico a quello privato per un’impresa monopolistica, o rigidamente inserita in un oligopolio od in un cartello, non vuol dire affatto far più largo alla facoltà individuale di scelta nella produzione e nel consumo, secondo il calcolo del tornaconto personale, ma semplicemente subordinare ancora la scelta degli individui all’offerta del monopolista o d’una oligarchia economica. Anzi, se si tratta di cosiddetti monopolî naturali, cioè di beni o servizî che per situazioni date non possono che essere forniti da un solo imprenditore, o da un numero ristretto d’imprenditori, il monopolio pubblico in democrazia, cioè gestito da pubbliche autorità sottoposte al controllo dei governati, aumenta e non diminuisce la libertà dell’uomo in società. Quest’ultima situazione è quindi più liberale rispetto al monopolio privato, cioè alla sottoposizione del consumatore o dell’utente al vassallaggio ad un «padrone» che agisce uti dominus, cioè senza controllo democratico. Secondo certi ideologi del lasciar fare privato, alla Milton Friedman, infatti, il mercato sarebbe una sorta di comizio elettorale perpetuo, per un referendum continuo in cui i consumatori votano, coi loro acquisti, i beni e servizî offerti sul mercato. Pur se si accetta lo schema, tuttavia, l’offerta d’un bene o servizio in monopolio sarebbe assimilabile alle elezioni farsa dei regimi dittatoriali a partito unico, ed un oligopolio ai «fronti nazionali» delle vecchie democrazie popolari dell’Europa orientale, in cui il partito comunista mascherava la sua dittatura presentandosi alleato con partiti satellizzati, in listoni precostituiti. A questo và aggiunto che i monopolî naturali sono veramente pochi. Occorre che vi sia un sistema di distribuzione che assicuri, ad esempio, l’erogazione d’energia elettrica sino alla più isolata malga di montagna, pur contro ogni convenienza commerciale, ma anche nel settore delle telecomunicazioni si vede, ad esempio, la totale possibilità d’una libera concorrenza tra gli operatori, a vantaggio degli utenti, i quali
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ne ricavano più libertà di scelta. L’Italia conobbe, dal 1933, un’economia d’impresa effettivamente liberale, con un assetto misto. Alberto Beneduce, il quale, in età giolittiana, ebbe a stendere con Francesco Saverio Nitti il progetto d’un ente pubblico di gestione delle assicurazioni sulla vita, l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, di cui poi fu il consigliere delegato, nell’èra fascista inventò quella formula dell’intervento statale coll’acquisto al capitale pubblico delle società in crisi, per riconvertirle, fermo restando l’assetto privatistico di società per azioni di quelle stesse imprese. Fu, cioè, il grande architetto d’un libero mercato nel quale, in caso di congiuntura sfavorevole per taluni settori economici, poteva intervenire un ente, l’Istituto per la ricostruzione industriale, che, rimesse le aziende in piedi, alla fine le avrebbe reimmesse sul mercato azionario privato. Nel secondo dopoguerra del XX secolo, però, nell’Italia democristiana l’ente funse da «carrozzone» per sistemare clientele, e legare al potere politico i plutocrati nazionali, assicurando loro la tutela degli utili privati e la statalizzazione delle perdite. Così l’IRI s’appesantì d’imprese in «rosso fisso», non soltanto assicurò il controllo pubblico di banche o della radiotelevisione, ma produsse autovetture, Lancia ed Alfa Romeo, e persino panettoni di Stato e quant’altro. Quando la situazione fu quasi insostenibile, ecco l’idea Proditoria di svendere a gruppi amici i gioielli di famiglia. Questa l’origine di «privatizzazioni» senza «liberalizzazione», saldi di fine stagione offerti a gruppi monopolistici, come la famiglia Agnelli della Fabbrica Italiana Automobili in Torino, che infeudò Lancia ed Alfa Romeo per, poi, vedere salvaguardato il suo impero privato
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col regalo degli incentivi pubblici alle «rottamazioni» delle vetture invecchiate dell’autoparco nazionale. Romano Prodi, che fu ministro dell’industria nel 1978-’79 e presidente dell’IRI dal 1982 al 1989 e, poi, nel 1993-’94, mena vanto d’aver risanato il bilancio dell’ente, ma si portò come chi, indebitato per diecimila euro, saldi il debito svendendo un’immobile del valore d’un milione. Sono capaci tutti, soprattutto quando la casa non è tua e s’hanno «amici» interessati all’affare. Ai vertici dell’impresa pubblica, in quegli anni, furono posti vassalli che distribuirono favori alla partitocrazia. Se un anziano pensionato, od una vecchietta si scordavano di pagare la bolletta della luce, del telefono o del gas arrivava «forbicione» e restava, come resta tutt’oggi, al buio e col pasto freddo; invece le sedi di partito o sindacali accumulavano chilometri di bolletta inevase e, per loro, «forbicione» attendeva, paziente. Quando la partitocrazia del primo mezzo secolo di repubblica oligarchica tramontò, questi feudi tesero a diventare, colle privatizzazioni, regni superiores non reconoscentes. Si veda la privatizzazione delle banche, passate in proprietà a fondazioni indipendenti. Così un Geronzi da sottopancia politico divenne signore sovrano d’un credito di fatto senza controlli. Anche perché la Banca d’Italia, a cui quei controlli spetterebbero, è una società per azioni, in mano a quelli che dovrebbero essere i suoi controllati. Tutte queste «privatizzazioni», in sostanza, non hanno «liberalizzato» il mercato, ma l’hanno «infeudato». Per «liberalizzare» occorre ben altro, occorre il rispetto delle regole di concorrenza. In sostanza, un mercato è libero non quando le imprese sono private, ma quando le imprese, private o pubbliche che siano, sono obbligate ad accettare la concorrenza di chiunque entri nel mercato per sfidarle. Un mercato fatto anche da tutte e solo imprese private, ma monopoliste, o chiuse in cartelli limitativi della concorrenza non ha nulla di liberale ma è soltanto privilegio feudale. Invece un mercato Rivista Bimestrale misto, in cui lo Stato intervenga con Per nuove sintesi culturali imprese pubbliche ma aperto alla condiretta da Fabio Torriero correnza di chiunque, e perciò vieti anche a sé stesso, come a chiunque, di chiudere cartelli limitativi della concorrenza, o di sfruttare abusivamente, cioè per tagliare le gambe ai competitori, una posizione dominante, quello è un mercato libero. Se in Italia esiste uno straccio di libertà di mercato lo si deve all’Unione europea. Infatti, sin dal trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità economica europea, è fatto divieto alle imprese degli Stati membri, pubbliche o private che siano, la costituzione di cartelli e lo sfruttamento abusivo di posizione dominante, e la giurisprudenza della Corte di GiustiRivista Quadrimestrale zia comunitaria svolge, da oltre mezdi Geopolitica e Globalizzazione zo secolo, una fondamentale opera diretta da Aldo Di Lello interpretativa ed applicativa di queste norme. Quelle disposizioni si sono rilevate infinitamente più valide della Via G. Serafino, 8 • 00136 Roma • Tel. 06 45468600 • e-mail: luciano.lucarini@pagine.net vetusta normativa antitrust vigente
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negli Stati Uniti dell’America settentrionale, nei quali monopolî, oligopolî e cartelli imperversano con maggiore iattanza che nell’Unione europea. Ciò per una differenza essenziale, voluta all’epoca della stesura dei trattati di Roma, proprio in ragione d’un lucido esame della situazione del mercato d’oltre Atlantico, come ricordò sempre Nicola Catalano, che fu l’esperto giuridico della delegazione italiana a quel negoziato e, poi, giudice della Corte di Giustizia ed uno dei fondatori del diritto comunitario, come disciplina scientifica. Infatti le norme nordamericane, all’apparenza più severe, vietano la detenzione d’una posizione dominante, su d’un mercato, in sé, mentre la norma comunitaria vieta soltanto i comportamenti che abusino, ai fini di schiacciare al concorrenza, di questa posizione dominante, riconosciuta legittima se lealmente conquistata. La pratica d’oltre oceano, infatti, permise di rilevare come il divieto di posizione dominante colpisca le imprese in crescita, che potrebbero raggiungerla, ma è difficile possa scalfire chi è così forte dal detenerla. Con ciò, questo divieto assoluto viene a percuotere proprio chi, crescendo, può insidiare chi ha conquistato la vetta, e vi si è ben arroccato. Così, di fatto, la norma nordamericana protegge dalla concorrenza proprio i dominatori. Invece i comportamenti d’abuso di tale posizione, ad esempio le clausole contrattuali che obblighino i commercianti che vogliano vendere il prodotto della dominante a non trattare articoli concorrenti, sono più facilmente individuabili, denunziabili da chi ne abbia interesse, e battibili in giudizio. Così si fornisce tutela ai concorrenti su comportamenti specifici, il dominio è sempre insidiabile e battibile, e quindi il mercato più libero, il privilegio abbattuto. Però il legislatore nazionale, in Italia, ha confuso le acque in alcuni mercati di settore, prevedendo, all’americana, il divieto di posizione dominante in sé. È il caso della legge Mammì, che ha liberalizzato l’emittenza televisiva. Quando uscì il sottoscritto, solito Pierino, notò la cosa, e sulla base di quanto sopra pronosticò che quella norma avrebbe portato ad un oligopolio e non a libera concorrenza: è stata la legittimazione giuridica addirittura d’un duopolio, con altre emittenti relegate all’ambito locale o cacciate nello spazio, cioè sul satellite, con abbonamento da pagare. Insomma, quando ci mette mano il legislatore nazionale, l’Italia torna al feudo, e questa è la storia della Contessa di Carini.
PESCE D’APRILE (Giuliano Nistri, «il Borghese» 3 aprile 1977)
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KEYNES ED IL «CRACK» FINANZIARIO
IL CASO della mela umana di ENEA FRANZA ANDANDO a leggere le varie opinioni sulla causa ultima della recente crisi finanziaria, il parere più diffuso sembra essere che, in definitiva, il crack finanziario sia stato causato da un’errata valutazione del rischio associato agli investimenti effettuati dagli intermediari finanziari e bancari. Come dire, una svista colossale dei banchieri sul rischio incorporato dei titoli che compravano e vendevano. Tale idea sembra essere sostenuta con convinzione anche da Alan Greenspan, l’ex timoniere della FED, che anche in un recente intervento ha affermato: «il problema è che i nostri modelli - entrambi i modelli di rischio ed econometrici - cosi complessi come sono diventati, sono ancora troppo semplici per catturare la serie completa di variabili che regolano la realtà globale di dinamismo economico…». Dietro a tale opinione sta, pertanto, il concetto che il rischio di un investimento finanziario possa essere valutato correttamente, e che gli evidenti insuccessi dell’informazione sono dovute a situazioni di monopolio e/o agli incentivi messi in campo dalla pubblica amministrazione che hanno ostacolato la formazione di prezzi corretti da parte dei mercati. Insomma la solita storia del troppo poco mercato e dell’ingerenza pubblica che ostacolano la mano invisibile, che in economia tutto aggiusta! Da tale idea scaturisce naturalmente che l’unica strada per gestire la crisi e prevenirne altre sia quella di una migliore gestione del rischio da parte delle banche e dei regolatori. Ma come debbano migliorarsi le banche ed i regolatori non è dato sapere, forse - sembrerebbe di intuire - liberalizzando ancora di più il mercato, con regole all’ingresso ancora più leggere e concentrandosi su una politica antimonopolistica? Ma è effettivamente misurabile il rischio di un investimento? Perché se effettivamente lo fosse, non potrebbe dirsi che l’appello di Alan Greenspan sia da relegare tra le grida di un vecchio economista le cui teorie sono state sconfitte dai fatti della storia. Stanno effettivamente cosi le cose, o aveva ragione Keynes nel sostenere che il futuro è incerto e che i partecipanti del mercato non abbiano una conoscenza, nemmeno appena sufficiente, degli eventi futuri ? Keynes sugli errori di chi vuole applicare il metodo della fisica all’economia scrive: «È come se la caduta a terra della mela dipendesse dalle motivazioni della mela, se vale la pena di cadere a terra, se la terra volesse la caduta della mela, e dai calcoli errati da parte della mela su quanto distasse dal centro della Terra». Insomma, secondo Keynes non ci troveremmo mai nella possibilità, come i fisici invece sperimentano quotidianamente di fronte a esperimenti ripetibili in condizioni equivalenti, tipo, appunto la caduta di una mela. Per cercare di capire come stanno effettivamente le cose nella valutazione di un investimento, dobbiamo ne-
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cessariamente inoltrarci nelle metodologie che stanno alla base della valutazione del rischio, tecniche, ricordiamolo, che sono largamente usate dagli intermediari bancari nella gestione dei rischi dei loro investimenti. Vediamo di che si tratta, premettendo da subito tuttavia, che una grande parte degli economisti (tra i quali Keynes) ritiene che occorra sempre distinguere tra rischio ed incertezza e che mentre il primo possa essere misurato, l’incertezza non sia affatto misurabile neanche con il ricorso al calcolo delle probabilità. Allora, cerchiamo invece di capire come è possibile condurre un ragionamento che ci porti a fare delle congetture condivisibili per il futuro andamento di un investimento. Torniamo al modello che normalmente si usa, e vediamo come si costruisce un portafoglio non rischioso; per farlo ricorriamo ad un esempio, che semplificheremo al massimo, scusandoci in anticipo con i cultori della matematica per le approssimazioni che introdurrò. A rassicurazione di tutti però valga il fatto che le semplificazioni apportate al nostro esempio non tolgono nulla al cuore del problema. Si supponga che un cliente si rivolga ad un operatore finanziario per avere un consiglio su come investire un patrimonio di 100.000 euro e supponiamo pure che il consulente disponga di alcune informazioni relative a due titoli (supponiamo azioni), legati alle società X e Y, e che danno, rispettivamente, per il primo titolo un rendimento medio del 12 per cento, con una variazione media rispetto a questo valore del 16 per cento, e per il secondo, un rendimento medio del 10 per cento con una deviazione media rispetto a tale valore del 14 per cento. In altre parole, il titolo X presenta un rendimento ed un rischio più alto del titolo Y. Poniamo che il cliente non volendo rischiare potrebbe essere portato ad investire tutto il patrimonio nel titolo Y. Ma è possibile che se si compra un po’ di titoli X e Y, si ottenga un maggior rendimento con un minor rischio? La teoria dell’investimento dei mercati efficienti dice che un qualsiasi consulente finanziario è capace di far ciò. Vediamo come: poniamo per ipotesi che la società Y e la società X operano, rispettivamente nel settore delle costruzioni ed in quello ecologico, ovvero, in settori che generalmente fluttuano in senso opposto. In tal modo l’investitore ottiene un rendimento medio stabile, infatti, quando i rendimenti di Y sono elevati, quelli di X sono bassi, e viceversa. Adesso si tratta di misurare il grado di variazione comune dei rendimenti dei due titoli, e lo facciamo con operatore statistico noto come covarianza, o fattore di correlazione. Se è noto il coefficiente di correlazione dei due titoli considerati (pari, ad esempio, a 0,1) è possibile desumere non soltanto i rendimenti dei diversi portafogli composti da A e B, ma anche la loro volatilità. Cosi ad esempio, potremmo ottenere che investendo il 50 per cento del capitale (50.000 euro) in ciascuno dei due titoli un portafoglio con un valore di rendimento atteso superiore (11 per cento) ed un rischio inferiore (11,14 per cento) rispetto ad un portafoglio composto dal solo titolo Y (cui corrisponde come premesso un rendimento medio pari a 10 e un rischio uguale a 14 per cento). Un grande affare per il cliente e per il consulente (che bene ha fatto il proprio mestiere), ma soprattutto un grande successo per la scienza economica che ha dimostrato che è possibile determinare una combinazione di titoli che presenti maggior rendimento e minor rischio dell’acquisto di uno solo. Un’invenzione meravigliosa! Purtroppo c’è qualche
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cosa che non funziona nell’esempio che ho raccontato. Cominciamo dall’inizio e, cioè, dai dati utilizzati nei nostri calcoli. Osserviamo che il nostro consulente, per il conteggio del rendimento dei titoli, si è servito di dati storici relativi ai titoli Y ed X, presi su un periodo di tempo che non ho definito. Ma, attenzione, proprio su tali dati sono state stabilite le due variabili cruciali (rendimento medio e variabilità del titolo rispetto al rendimento) sulle quali si basa il mix di titoli; in altre parole, abbiamo costruito delle medie su dati storici e la combinazione che il consulente propone al cliente di Y ed X è quella che è la migliore in termini rendimento/variabilità. Se ne deduce che se riduco o, viceversa estendo il periodo di osservazione, molto probabilmente cambieranno il rendimento e la variabilità media, e quindi la combinazione ottimale. Il discorso allora si potrebbe ricondurre a studiare il periodo migliore o più significativo per l’elaborazione dei dati? No, purtroppo c’è altro. Un altro aspetto va, infatti, evidenziato. I dati storici raccolti sono utilizzati per fare delle congetture per il futuro, in definitiva, le medie calcolate (rendimento e variazione rispetto al rendimento) vengono proposte come indicatori della probabilità di avere nel futuro un rendimento simile a quello medio e che si è registrato nel passato. Tale passaggio è, tuttavia, denso di conseguenze. Vediamole. Il primo effetto è che il risultato medio ottenuto può essere vero soltanto su un periodo di tempo futuro abbastanza lungo, viceversa, correremmo il rischio di cadere nel c.d. errore del giocatore. Di che si tratta ? Facciamo prima l’esempio di un lancio di una moneta (a due facce, non sbilanciata) che non ha effetto sul prossimo lancio della moneta, così che, ogni volta che la moneta viene lanciata c’è (idealmente) una probabilità del 50 per cento che esca testa ed una probabilità del 50 per cento che esca croce. Supponiamo che una persona lanci una moneta sei volte e ogni volta esca testa. Se concludesse che il prossimo lancio sarà croce perché croce «è dovuto», allora avrebbe commesso l’errore del giocatore d’azzardo. Questo perché i risultati dei lanci precedenti non hanno influenza sul risultato del settimo lancio, che ha una probabilità del 50 per cento di essere testa e del 50 per cento di essere croce, proprio come qualunque altro lancio. Il secondo coinvolge casi le cui probabilità di capitare non sono indipendenti una dall’altra. Per esempio, supponiamo che un pugile abbia vinto il 50 per cento dei suoi combattimenti negli ultimi due anni e supponiamo, altresì, che dopo molti combattimenti abbia vinto il 50 per cento di quelli di quest’anno, che abbia perso gli ultimi sei e ne debba combattere sei. Se si credesse che il pugile debba vincere i prossimi sei incontri (perché ha utilizzato tutte le sconfitte e una vittoria è «dovuta») allora si commetterebbe nuovamente, l’errore del giocatore d’azzardo. In effetti, si potrebbe ad esempio ignorare che i risultati di un incontro possono influenzare i risultati del prossimo; se ad esempio, il pugile si fosse infortunato in un incontro, ciò abbasserebbe le sue probabilità di vincere gli ultimi sei incontri. Allora, come si vede la possibilità di avere la combinazione rischio/rendimento ottimale è limitata, nel caso di eventi indipendenti, al fatto di conservare il portafoglio su un periodo futuro molto lungo (e ciò in realtà contrasta con l’interesse dell’investitore che, vista la variabilità delle condizioni in gioco, può scegliere razionalmente sulla base delle condizioni di profitto esistenti nel breve periodo) mentre, nel caso di eventi dipendenti, è influenzata anche da eventi recenti che possono condizionare il risultato.
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Poi, veniamo alla seconda questione, ovvero, al problema dei problemi, che si potrebbe riassumere nella domanda: l’uso del calcolo delle probabilità è capace a dare indicazione corretta sul corso futuro di un titolo ? In effetti, a bene vedere, l’evento rendimento (ad esempio, per rimanere nel nostro campo, di un titolo azionario) sembra essere un evento unico, che risente certamente delle condizioni di domanda ed offerta sul mercato in un preciso momento. Domanda ed offerta ricordiamolo che a loro volta rispondono ai fondamentali dell’economia e della società emittente, ma anche a molteplici e disomogenei fattori «non quantificabili» sotto un’unica categoria - ed indicati generalmente dagli economisti finanziari come market psychology - attraverso cui si possono spiegare situazioni di mercato varie ed imprevedibili. Tali input che concorrono alla formazione del prezzo del titolo, sono unici ed irripetibili, cosi come la loro combinazione, e è proprio questa la ragione (a nostro modo di vedere) per cui è davvero difficile sostenere che la serie di valori che il titolo ha espresso in passato (ad esempio il rendimento) abbiano un qualche senso per il futuro. Sembrerebbe pertanto essere privo di significato applicare il calcolo probabilistico alla serie storica. I prezzi registrati, infatti, hanno una storia a se stante ed unica, diversamente, ad esempio della serie storica dei lanci di una moneta, ovvero, di un dato che si sono prodotti tutti in condizioni equivalenti. Pertanto, atteso che il valore del titolo azionario è condizionato da fattori economici nonché da altre variabili psicologiche individuali di massa che operano sulla scelta individuale, posto che si riuscisse ad individuarle tutte e a stabilirne il nesso di causa ed effetto, pur tuttavia, saremmo sempre di fronte ad un doppio limite, costituito dal peso di ciascuna delle variabili e dal loro effetto combinato. Insomma ci troveremo di fronte ad una sorta di «paradosso del sorite», che grosso modo recita cosi: «Non è possibile ottenere un mucchio di sabbia. Infatti: un granello non è un mucchio ; due granelli non sono un mucchio ; tre granelli non sono un mucchio ; aggiungendo un granello a una cosa che non è un mucchio non si ottiene un mucchio». In altre parole, certamente l’effetto combinato di tutte le variabili che possono incidere sul valore del rendimento si possono individuare, ma è molto (se non impossibile) conoscere quando e quanto tali granelli di sabbia incideranno sul rendimento del titolo. Insomma tutta questa chiacchierata, che ha scomodato anche i filosofi antichi per dire che, in definitiva, in ogni caso emerge nelle scelte d’investimento individuali un elemento definibile come «incertezza», che non permette di determinare il risultato effettivo dell’investimento nel futuro e che condiziona il risparmio. Una rivincita dell’economia keynesiana che si costruisce sull’irriducibile incertezza e in cui le aspettative sono frequentemente soggette alla delusione? Sono in tanti oggi a pensarla così!
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LAVORO E MERCATO
SLEALE concorrenza di ITALO INGLESE I MERCATI europei, anche quelli storicamente caratterizzati dalla presenza di imprese monopolistiche, si aprono sempre più alla concorrenza sotto l’impulso di una politica comunitaria finalizzata all’abbattimento delle barriere che ostacolano l’ingresso di nuove imprese. Questa tendenza, teoricamente positiva in quanto potenzialmente favorevole all’iniziativa economica e alla migliore tutela degli interessi dei consumatori, dà luogo tuttavia ad effetti collaterali infausti dal punto di vista della salvaguardia delle condizioni di lavoro. Spesso la capacità competitiva dei nuovi concorrenti non è dovuta alla qualità del prodotto o del servizio offerto ma al prezzo estremamente modico, e quindi attraente per il consumatore, con cui il prodotto o il servizio sono immessi sul mercato. Tali imprese generalmente hanno la propria sede in Paesi dove le condizioni di lavoro hanno un basso grado di tutela o, pur operando in Paesi, come il nostro, in cui il livello di protezione è ben più elevato, riescono a violare le norme poste a presidio dei diritti dei lavoratori (ad esempio in materia di limiti all’orario di lavoro, proporzionalità della retribuzione, divieto del lavoro minorile, sicurezza del lavoro). Ne consegue che esse possono fruire di un costo del lavoro molto inferiore a quello praticato nel Paese di importazione od ospitante. Si verifica così una situazione di concorrenza falsata dalla posizione di vantaggio ingiustamente acquisita dalle imprese che violano le regole a danno di quelle che invece le rispettano. Per l’irresistibile influsso del pensiero liberale statunitense, che ravvisa nel sistema economico di mercato e concorrenziale un fondamento della democrazia, anche in Italia, con ritardo rispetto agli altri maggiori Paesi europei, è stata introdotta (nel 1990) una normativa antitrust ed è stata quindi istituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Simili trapianti di istituti stranieri nel nostro ordinamento, sovente dovuti ad un provinciale senso di inferiorità, non sempre si rivelano proficui. In particolare, una normativa che viene applicata secondo il criterio di ragionevolezza negli ordinamenti anglosassoni rischia, nel nostro Paese, di essere fonte di ulteriori vincoli e di pastoie burocratiche che comprimono anziché promuovere l’iniziativa economica. Nel caso di specie, il nuovo organismo, al quale è stata riconosciuta, come del resto alle Authority operanti in altri settori, una posizione di autonomia e indipendenza dal potere politico - il che tradisce un senso di diffidenza verso lo Stato - ha dovuto anzi tutto confrontarsi con la mentalità diffusa nel nostro Paese, tradizionalmente poco incline al mercato concorrenziale ed assuefatta all’intervento pubblico nell’economia. La questione del se questa Authority abbia o meno conseguito gli obiettivi che le sono stati assegnati esula dai limiti del presente articolo. Ma è un dato
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di fatto che finora essa è sembrata più attenta a rimuovere le restrizioni alla concorrenza e a «garantire un’interazione tra le imprese basata sulla rivalità» (A. Pera, Concorrenza e antitrust, Bologna 2009, pag. 122) piuttosto che a contrastare le pratiche sleali adottate dai nuovi competitors. Il mito oggi imperante è quello del benessere del consumatore, e si presume che questi, grazie alla concorrenza, possa accedere ai beni alle migliori condizioni. Nell’immaginario collettivo e nello spirito delle leggi, il consumatore ha soppiantato l’uomo lavoratore quale figura emblematica della parte debole del rapporto contrattuale, perciò bisognosa di particolare tutela. Questa tendenza non mette però l’individuo al riparo dall’orgia e dall’omologazione consumistica e dal martellamento di una pubblicità che, se non ingannevole, rasenta l’idiozia e l’irrisione, giungendo perfino ad incitare il potenziale cliente ad essere «stupido», come avvenuto di recente ad opera di una rinomata marca di jeans. In questo caso la réclame è stata fin troppo schietta: il successo del prodotto è dichiaratamente affidato ad una platea di acquirenti privi di discernimento e, per l’appunto, istupiditi. L’orientamento che privilegia il diritto della concorrenza e la tutela dei consumatori rispetto all’applicazione di determinati standard di protezione sociale appare condiviso anche dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee, la quale recentemente ha più volte affermato che le norme nazionali non possono (e non devono) limitare la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. È nondimeno paradossale che il diritto del lavoro, creato proprio per regolare la concorrenza ed impedire che essa si traduca in un danno per i lavoratori, sia sacrificato sull’altare del primato della chimerica concorrenza perfetta, concetto astratto mai realizzatosi in natura, mentre non viene adeguatamente stigmatizzato l’esercizio dell’attività imprenditoriale che si attua attraverso modalità sleali come il dumping o la violazione di norme cruciali per la salvaguardia dell’ordine sociale. Tale squilibrio confligge con la Costituzione laddove sancisce (articolo 41, 2° comma) che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale; principio che risulta leso in quanto le pratiche sleali producono effetti negativi non soltanto sull’interesse degli operatori economici alla parità delle condizioni ma anche su quello dei consumatori al miglior funzionamento del mercato. È pertanto singolare che sia i sindacati sia le associazioni dei consumatori abbiano finora dimostrato scarsa propensione ad intraprendere iniziative concrete ed efficaci per la repressione degli atti di concorrenza sleale.
IN NOME DI UN PROFITTO SFRENATO
NO LAVORO, no consumi di ANTONIO SACCÀ HO PUBBLICATO da qualche mese, un saggio dal titolo Il Padre di Dio, Bietti Media Edizioni, che nella seconda parte analizza ampiamente la situazione finanziaria ed economica, nel senso della economia produttiva, come si sta volgendo attualmente, con le problematiche vistose e anche drammatiche, che tutti conosciamo. Il grande problema odierno consiste nella difficoltà di competere con sistemi produttivi i quali hanno scarsissimo peso salariale, nel senso che i salari sono bassi, minimi addirittura, sicché le merci possono essere prodotte con un costo di gran lunga sminuito rispetto ai prodotti occidentali. Questa è la prima questione, valutata ma non sufficientemente, giacché è pur vero che esistono speculazioni finanziarie, azioni a vuoto, mutui dati a persone che non possono onorarli, attività di azzardo nei così detti derivati, per fare un esempio, ma la speculazione finanziaria, enorme e idonea a catturare il risparmio in iniziative di carattere speculativo che poi possono rovinare sia i risparmiatori sia gli istituti di credito, non basta a spiegare le nostre crisi. Tutta l’attuale situazione economica e finanziaria deriva dal fatto, che il costo del lavoro nell’insieme di tassazioni, salari, produttività, non ci rende competitivi, sottolineo, con i costi di Paesi come l’India, la Cina e tanti altri. Inoltre, noi abbiamo saturato il mercato, almeno per grandi fasce di cittadini, e ancora, nel tentativo di diminuire i costi di produzione, abbiamo anche creato situazioni lavorative davvero problematiche, lavoratori a tempo, lavoratori resi indipendenti, ma che di fatto sono dipendenti però non hanno pensione, non hanno vacanze pagate, non hanno retribuzione quando non lavorano, e così via. Tutto questo falcidia i consumi. Se l’impresa cerca di fare profitto, diminuendo i salari o le tutele, evidentemente i consumi si attenuano. Così come si attenuano se si ricorre al lavoro nero, al lavoro degli immigrati sottopagati e clandestini e così via. Nessuna economia ha mai potuto conciliare bassi salari e accrescimento dei consumi. Questa è una contraddizione radicale e sostanzialmente insanabile, credere di poter trovare il rimedio della competizione agendo soprattutto sui salari, o ad esempio con l’aumento dell’età pensionabile che indiscutibilmente danneggerebbe i giovani. Tenuto conto anche che vi è un’altra anomalia, non so quanto soltanto italiana, un aumento enorme dei costi delle abitazioni e degli affitti, che anch’esso sminuisce la potenza dell’acquisto dei salari, e quindi fa crollare i consumi. In base a quanto sostengo nel libro, se si agisce fondamentalmente sul costo sul peso salariale, tentando di diminuirlo, e operando licenziamenti, ristrutturazioni tecnologiche, concentrazione e così via, noi avremmo una società che, magari, riacquisterebbe produttività e competitività, ma con vaste masse di licenziati e di salariati sotto pagati e spesso anche fuorilegge; questo perché il tentativo di far
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diminuire il costo del lavoro ricorrendo ad un lavoro sotto pagato o non legalizzato, è piuttosto diffuso. Non è così credo che si possa risolvere la crisi economica che stiamo vivendo. Occorre, innanzitutto cercare fonti di energia meno inquinanti, e di conseguenza meno costose, e specialmente tentare di creare imprese che non abbiano come scopo la massimizzazione del profitto anche al costo di abbassare i salari o di licenziare. Su questa strada non è concepibile rinascita. Quindi bisogna ragionare sul tipo di impresa che si vuol creare. Sicuramente una impresa che abbia come scopo primario l’occupazione; quindi il sacrificio del massimo profitto a vantaggio della occupazione, potrebbe essere una delle eventuali soluzioni alla difficoltà odierna. Certo, questo suppone anche un accordo radicale fra dirigenza , proprietà e lavoratori. Al limite anche un’impresa di lavoratori, che abbia come scopo la difesa del loro lavoro. C’è tutto un campo da esplorare. Continuare a ripetere che il profitto è alla base dell’occupazione, che l’impresa esiste se esiste il profitto, è un luogo comune che si sta dimostrando falso. Non è vero che il profitto favorisca l’occupazione, né è vero che il massimo profitto significhi massima espansione , quindi massima occupazione. Ci può essere il contrasto del profitto con l’occupazione. È quello che stiamo vivendo, oggi, infatti, il profitto si ottiene proprio disoccupando o «precarizzando» la gente. In ogni caso, senza girarci troppo intorno, c’è da studiare se la revisione del profitto possa costituire la base per la rigenerazione delle imprese, che, non avendo a base il profitto, ma l’occupazione, potranno essere competitive, in quanto, non porre il profitto massimizzato alla base dell’impresa, porterà ad un abbattimento dei costi di produzione. In gran parte questo lo potrebbero fare soprattutto i lavoratori, in quanto che essi terrebbero più all’occupazione che alla remunerazione del capitale. Ripeto, questi sono solo cenni di una problematica enormemente complessa, perfino complicata, se non perfino ipotetica. Noi non sappiamo se questo tipo di impresa possa valere, diventando concorrenziale sul mercato. Così come non sappiamo se si ripeteranno le sciagure dell’accentramento del capitale in poche mani, e quindi della doppia figura dell’imprenditore, proprietario e salariato. La nostra tesi di un lavoratore imprenditore, è certamente una pura ipotesi. Anche se bisogna dire che, la figura del lavoratore-imprenditore, si sta espandendo enormemente. Per capirci la micro impresa composta da una sola persona, in cui il gestore è nello stesso tempo, l’unico lavoratore. Ma non si può fare l’esempio di questo tipo. Abbiamo imprese di migliaia di persone, di grandi agglomerati industriali, e in quel caso, non abbiamo il lavoratore-imprenditore singolo. Può sussistere un’impresa di una molteplicità di lavoratori, che abbiano come dirigenti imprenditori non proprietari, o gli stessi lavoratori? Si può avere un lavoratore- imprenditore diffuso, per così dire, che massimizzi l’occupazione e non i profitti contro l’occupazione? Questa è la problematica che io ritengo dovrebbe essere affrontata perché temo che le imprese odierne abbiano poche possibilità di assicurare un lavoro che non sia precarizzato, senza garanzia, discontinuo. Ormai i lavoratori queste finalità se le devono procurare da se stessi. Le Regioni potrebbero,dovrebbero tentare, aiutare queste nuove forme di impresa, tese all’occupazione. Mi auguro che l’esperienza sindacale di Renata Polverini favorisca questa metamorfosi del lavoratore da dipendente ad imprenditore. Del resto, altra via non sussiste.
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RIPRENDIAMOCI FORT ALAMO
QUANDO DIO scuote la Terra di ANDREA MARCIGLIANO SI POTREBBE chiamarla «Diplomazia del Terremoto». Quella, s’intende, che Washington sta ponendo in essere in America Latina, prima ad Haiti, poi, a breve giro di posta, in Cile. Una strategia diplomatica che ha visto ritornare prepotentemente sulla scena internazionale Hillary Clinton, dopo alcuni mesi opachi ed appannati. Mesi nei quali il Segretario di Stato sembrava essersi quasi eclissato; una eclisse dovuta, in primo luogo, al prevalere nelle decisioni di politica estera di Obama del parere della premiata ditta Biden & Jones, il ticket fra il vice-Presidente ed il Consigliere della Sicurezza - entrambi molto vicini al cuore dell’attuale inquilino della Casa Bianca - che aveva costretto la Clinton in un angolo su molti dossier caldi, dall’Iraq all’Afghanistan. Tanto che correvano insistenti voci di una sua intenzione di lasciare Foggy Bottom a Primavera, per candidarsi a Governatore di New York. Passaggio che le aprirebbe la strada per un’eventuale nuova corsa verso le Presidenziali del 2012. Ovviamente sempre e soltanto se la stella di Obama dovesse continuare nel suo declino. Poi, però, è intervenuta la catastrofe haitiana. Un intero Paese raso al suolo in pochi istanti. Un intero Paese, quindi, da ricostruire. Ed Hillary si è subito data un gran daffare per avocare a Washington la responsabilità, pressoché assoluta, di tale ricostruzione. Spalleggiata da un redivivo Bill, immediatamente posto da Barak Obama a capo della, caotica e pletorica, struttura che si va articolando per portare aiuti all’isola caraibica. E, soprattutto, che sta preparando i progetti della ricostruzione. Progetti di dimensioni e costi tali da far sembrare quelli italici del dopo terremoto in Abruzzo una sorta di ristrutturazione di un paio di cascinali di campagna. Progetti faraonici, e non è difficile immaginarsi che, se subito dopo il terremoto aquilano, alcuni palazzinari/farabutti si fregavano le mani tutti soddisfatti, negli States, dopo che Haiti è stata rasa al suolo, in molti, nel mondo della finanza, si siano addirittura messi ad intrecciare una giga sfrenata. Di qui l’irritabilità, ben poco diplomatica, di Hillary di fronte alle critiche piovute sull’organizzazione statunitense degli aiuti. Ne sa qualcosa il nostro, povero, Bertolaso, che per essersi permesso di dire che, da un punto di vista tecnico, funzionava poco niente, è stato immediatamente bombardato dalla furia della Lady Segretaria di Stato, portando Italia ed Usa quasi sull’orlo di una crisi diplomatica. Per altro, subito dopo, quell’improvvido criticone del Bertolaso è di fatto uscito di scena, coinvolto, anche se non del tutto travolto, da una serie di scandali e scandaletti nei quali denaro e sesso sembrano intrecciarsi inestricabilmente. Coincidenza di accadimenti certamente casuale, anche se, come diceva mio nonno, a pensar male si fa peccato … però s’indovina. Poi è venuto il terremoto in Cile. Ed anche qui la Clin-
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ton si è subito «fiondata» a Santiago, per promettere al Presidente uscente Bachelet - altra donna di ferro della politica del Nuovo Mondo - il sostegno di Washington. Sostegno finanziario indispensabile, ché la ricostruzione delle aree del Cile distrutte richiederà, comunque, circa un decennio e l’impiego di una massa enorme di capitali. Per carità, nessun facile paragone con Haiti. Il Cile è un Paese moderno, uno dei meglio organizzati e dei più industrializzati del Sud America. E tuttavia l’onnipotenza delle umane sorti ha fatto sì che queste due tragedie, in due Paesi tanto diversi fra loro, aprissero uno spiraglio alla nuova strategia statunitense in Sud America. Perché non si tratta soltanto di investimenti di capitali ed affari (anche se a Wall Street e dintorni si staranno, ormai, intrecciando, oltre che gighe, frenetiche sarabande). Si tratta, in primo luogo di, straordinarie ed imprevedibili, opportunità geopolitiche. Da un lato, utilizzare la ricostruzione materiale di Haiti per dar vita ad un processo di State Building, strutturando nell’inquieta ed infida area caraibica uno Stato organizzato come satellite, politico oltre che economico, degli Usa. Dall’altro rimettere decisamente un piede in quel continente sudamericano che sembrava destinato a non essere più il «giardino di casa» di Washington. Infatti, dopo il drammatico crollo finanziario della Argentina di Menem, gli Stati Uniti avevano, di fatto, perso gran parte della loro presa sul sub-continente meridionale, oggi come oggi diviso in due diverse e contrapposte aree di influenza. Da un lato il Brasile di Lula, nuova potenza d’area emergente, alla testa di una «coalizione» formata, appunto, dalla nuova Argentina peronista, l’Uruguay e, in prospettiva, lo stesso Cile della Bachelet. Un’area che puntava dritta verso la rivitalizzazione del Mercosur, ovvero la creazione di una sorta di Mercato Comune sudamericano, che impensieriva ed impensierisce non poco tanto la Casa Bianca quanto Wall Street. Dall’altro, il caudillismo populista del venezuelano Chavez, che guida la coalizione dei Paesi andini. Paesi poverissimi, certo, ma detentori dell’arma strategica del petrolio e del gas naturale. Coalizione andina che occhieggia ed ammicca a Cuba, trovando molti contatti nel Centro-america e, specificamente, nei Caraibi. Due realtà diverse e concorrenziali, certo. Entrambe, però, caratterizzate da una sostanziale volontà di affrancarsi dalla tutela dell’ingombrante vicino gringo. Entrambe votate a costruire nell’America Latina ed aree limitrofe una sorta di contropotere a quello di Washington. Con Chavez che intesse relazioni con il Cremlino e, addirittura, con l’Iran di Ahmadinejad. E Lula che gioca tutto campo nella area del Bric - che coinvolge le nuove potenze economiche, Brasile, Russia, India e Cina - e tenta di proporsi come riferimento per le economie dei Paesi in via di sviluppo un po’ in tutto il mondo. Una situazione che, come dicevo, sembrava ormai chiudere la porta dell’America Latina agli interessi americani. Poi sono venuti i terremoti di Haiti e del Cile. E Hillary, rivitalizzata, è balzata a cavallo e partita alla carica al grido «Riprendiamoci Fort Alamo!»
IL «THE PARTY» E GLENN BECK
RISCHIO od opportunità? di FRANCESCO ROSSI IL CONDUTTORE radiofonico e televisivo americano Glenn Beck (Premiere Radio Network e Fox News Channel) ha scalato diverse classifiche in poco tempo. La prima è quella tenuta dai conservatori e si riferisce alle persone con cui questi maggiormente si identificano e che rispecchiano le loro idee. La seconda è quella compilata dai progressisti e contiene le persone che mai si convertiranno al loro dogma. Questa lista, in altre parole, è quella che aggiornano periodicamente per stabilire chi sarà eliminato di scena senza troppo fragore quando avranno ottenuto un buon margine di potere. Perché Glenn Beck è così apprezzato dalla destra e così vilipeso dalla sinistra non è certo un’enigma. Ha poca pazienza per gli svolazzi retorici e una certa riverenza per la libertà senza compromessi; e ciò che più importa, non teme affatto di dimostrarlo via etere, diventando agitato nel frattempo, ogni qualvolta qualcuno tenti di far passare l’appiccicoso politicamente corretto per pensiero rigorosamente logico. L’uso frequente da parte di Beck della storia infastidisce particolarmente la sinistra, poiché egli non si stanca di sottolineare che mentre i suoi uomini guida possono cambiare, le loro politiche conoscono pochissima variazione: consistono nel promuovere uno Stato sempre più onnivoro, nel mettere il silenziatore a chi creda nella libertà e nel cancellare dal mondo tutti coloro che sono giudicati indesiderabili e che tanto per non sbagliarsi vengono chiamati «fascisti», oppure, per darsi un tono crescentemente più accademico, «reazionari» ed infine «revisionisti». È possibile che un uomo con un programma televisivo che comincia alle 5 del pomeriggio e che regolarmente straccia in ascolti altri spettacoli, anche se vengono mandati in onda ad orari migliori, possa considerarsi la grande speranza della destra americana? In teoria Beck è il cavallo di razza di questa parte politica, un individuo che non ha paura di mostrare al sua tempra e la sua passione. Il suo modo di esprimersi e soprattutto il suo citare i progressisti per mostrare ciò in cui credono hanno così agito in profondità che la sinistra in gran parte ha abbandonato i tentativi di confutare quello che Beck dice, per tornare alla vecchia tattica del riso o dello scherno come diversivo, che sembra essere per loro al momento l’arma migliore. Per esempio, Beck ha l’abitudine di scrivere su una lavagna i punti del suo ragionamento e poi collegarli per mostrarne le relazioni. Inutile aggiungere che in molti si sono fatti beffa di questo modo di «procedere», anche perché, si è sostenuto, molti dei dati citati sarebbero sbagliati. Ecco allora che l’intraprendente presentatore si è dotato di una «linea rossa», cioè una linea telefonica diretta con la Casa Bianca, perché proprio da questo quartiere si faceva intendere che su un vasto numero di questioni molti dei fatti erano inesatti. La linea rossa avrebbe dovuto permettere all’amministrazione Obama di chiamare e correggere in presa diretta le inesattezze proffe-
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rite da Glenn Beck. Il dato curioso è che quel telefono non ha mai squillato, cioè la Casa Bianca non ha mai avviato un dibattito ufficiale - perché basato su dati ufficiali e per definizione «esatti» - per dimostrare la scarsa cura nel parlare di certi avvenimenti, salvo affidarsi a giornalisti compiacenti, sempre pronti, genericamente e senza entrare nel dettaglio, a dichiarare che «tutto ciò che Glenn Beck dice è semplicemente errato». Questo fenomeno politico-televisivo è dunque un’importante freccia nell’arco dei conservatori? Contrariamente alle apparenze, soltanto fino ad un certo punto. Il suo disgusto per i partiti politici e la sua crescente abilità populista potrebbero condurlo a formare un terzo partito, e la bomba di un terzo partito potrebbe spezzare in verticale la destra, il voto del «Partito del The» e consegnare l’elezione del 2012 nelle mani di Barack Obama. Dopotutto, Beck stesso ha annunciato di preferire il «progressismo pesante» di Obama al «progressismo lieve» di McCain, anche perché gli è più facile sferrare colpi verso quello che lui chiama «l’Obamatoriale». Beck ha dimostrato disprezzo verso le nuove stelle repubblicane come Scott Brown (che ha conquistato in Massachusetts il seggio che era dei Kennedy) e Sarah Palin, definita «così inaffidabile» (anche se tra le righe l’ha invitata a unirsi al movimento per il terzo partito). Abbiamo accennato all’altra novità del panorama politico americano, il «Partito del The», anch’esso spina nel fianco dell’attuale governo americano e - di nuovo in teoria - solido serbatoio di voti per i Repubblicani. Questo movimento di rivolta ha preso vita a partire dalla scorsa primavera e il suo impeto non accenna a diminuire. È una rivolta contro la crescita dello Stato e l’aumento della spesa pubblica e dunque non sorprende che il suo momento non sia ancora terminato, visto che il governo Obama sta per entrare in grande stile nel settore della sanità. Il movimento può già segnare delle importanti vittorie, con l’elezione di politici che promettono un governo più piccolo. È il caso di Bob McDonnell, neo-governatore della Virginia, del già citato senatore Scott Brown, vincitore nel Massachusetts. Non si deve però credere che quest’onda invada soltanto i Democratici, perché ne sono stati invasi anche i Repubblicani di inclinazioni progressiste, come Dede Scozza-
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fava in New Jersey e il Presidente del Partito Repubblicano in Florida, costretto a dimettersi in quanto «reo» di aver dato sostegno al governatore Repubblicano Charlie Crist, troppo incline alla spendita di denaro pubblico. Il «Partito del The», mosso da uno scontento che potremmo definire populista-conservatore, può essere quindi una forza in grado di rivitalizzare il Partito Repubblicano, ma anche un elemento divisorio. Molti dei suoi componenti si dicono poco interessati alla politica e disposti piuttosto a mettersi in campo per bloccare quella che giudicano una tirannia. All’interno del movimento, infatti, c’è una corrente, se così si può chiamare, che ha meno in comune con i Repubblicani che non con il Movimento Patriota, un gruppo caratterizzato dalla lotta per le libertà, dall’organizzazione di miliziani, dalla contrarietà all’immigrazione e che si batte per l’abolizione della Banca Centrale Americana. Sotto la spinta dell’entusiasmo nel vedere crescere i propri numeri ed i consigli dei commentatori più inclinati a destra, questi nuovi attivisti hanno riscoperto libri ormai dimenticati e siti internet peculiari, portatori entrambi di idee a lungo bollate come proprietà di teorici amanti dei complotti. Secondo alcuni esponenti di questa parte, intervistati in lungo ed in largo negli Stati Uniti, il Presidente Obama e diversi dei suoi predecessori (incluso perfino George W.Bush) avrebbero minato alla base la Costituzione ed il sistema della libera impresa, a beneficio di una rete internazionale di elites benestanti che agirebbe nell’ombra. Queste diverse correnti, anche ibride tra loro, ma con in comune l’etica del patriottismo, si sono coalizzate nel Partito del The. Lo scopo? Quello immediato, di spostare il Partito Repubblicano più verso destra, quello a media-lunga scadenza, di ridurre drasticamente le dimensioni del governo federale e spazzare via, possibilmente, sia, come era da attendersi, Barack Obama, sia, e questo era meno ovvio, buona parte della classe dirigente repubblicana, a partire dal Senatore John McCain. Nonostante questa comunanza di fondo, le correnti all’interno del movimento sono tutt’altro che uniformi e ciò rende ardua la formazione di una classe dirigente o di una struttura centrale. A parte l’avversione per il governo onnipresente e spendaccione, i membri del movimento sono spesso neofiti che apprezzano l’indipendenza e che raccontano storie simili, come quella di essere stati «risvegliati» dalla recessione economica: hanno perso il lavoro, hanno avuto la casa pignorata ed hanno consumato i fondi che avevano accantonato per la vecchiaia. Vogliono dunque sapere perché è successo tutto questo e chi ne è il responsabile. È a questo punto che il Partito del The si congiunge con Glenn Beck, perché in molti per cercare delle risposte hanno cominciato a seguire i suo programmi. Con la sua guida, hanno scoperto le Carte Federaliste, gli scritti critici sulla Banca Centrale Americana ed i lavori di Ayn Rand e George Orwell; in più, sono diventati frequentatori abituali di siti internet come ResistNet.com («Casa della resistenza patriottica») e Infowars.com («Perché c’è una guerra in corso per la tua mente»). Questo legame tra il Partito del The e Glenn Beck soltanto in maniera approssimativa può dirsi di gran beneficio per i Repubblicani, per le ragioni già accennate. Se Barack Obama, durante un incontro con i Repubblicani del Congresso, si è lamentato degli attacchi che subisce, che gli renderebbero più difficile stipulare accordi bipartisan, dall’altro gli attuali conservatori si trovano a tentare di gestire un movimento imprevedibile e difficilmente classificabile; e che spesso non risparmia loro attacchi al vetriolo.
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FARE AFFARI CON L’IRAN?
SCORRETTO politicamente di SALZ YUSTI UN GROSSO affare andato in fumo. È questo il segreto della rottura fra l’Italia e l’Iran annunciata nel febbraio scorso dal presidente del Consiglio Berlusconi dalla Knesset. Una dichiarazione incondizionata di stima e ammirazione per Israele, definita una «vera democrazia, il cui posto è nell’Unione europea» e a cui l’Italia darà appoggio totale contro la minaccia nucleare iraniana. Così Silvio Berlusconi, il primo fra i presidenti del Consiglio italiani ad essere invitato a tenere una conferenza nella Knesset, nel momento clou del suo discorso che ha ricevuto dodici interruzioni da applausi con standing ovation finale. «In una situazione che può aprirsi alla prospettiva di nuove catastrofi», ha dichiarato il premier, «l’intera comunità internazionale deve decidersi a stabilire, con parole chiare, univoche e unanimi, che non è accettabile l’armamento atomico a disposizione di uno Stato i cui leader hanno proclamato apertamente la volontà di distruggere Israele e hanno negato insieme la Shoah e la legittimità dello Stato ebraico». Ma se la svolta italiana nei confronti dell’Iran potrebbe apparire come una grande novità nella nostra politica estera, un po’ di sana dietrologia aiuta a spiegarne il senso. Ecco cosa ha rivelato ad alcuni giornalisti lo stesso sottosegretario agli esteri, il senatore Alfredo Mantica (AN): «Nel 2008, in seguito a un’attenta valutazione del problema della sicurezza d’Israele e del mutato scenario iraniano, decidemmo di mettere fine alla politica dell’equidistanza impostata dal ministro degli esteri Massimo D’Alema, nell’ambito del governo Prodi. I passaggi che analizzammo ci confermarono che la situazione stava prendendo una brutta piega. Innanzitutto, avevamo assistito a una repentina sostituzione di tutti gli interlocutori politici a Teheran. I personaggi più moderati, quelli più disponibili al dialogo, legati agli ex presidenti Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami, cioè alle fazioni, rispettivamente, dei conservatori e dei riformisti pragmatici, erano stati letteralmente spazzati via. I nuovi interlocutori, per contro, provenivano dalle fila dei Guardiani della Rivoluzione e degli ayatollah più rigorosamente vicini alle posizioni della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Il mutamento dell’anima di un’intera classe dirigente è stato perciò molto condizionante. I rapporti si sono fatti più complessi e qualitativamente meno fluidi. Tutte le questioni di una certa importanza sono finite nelle mani dei falchi». Ma è una situazione in particolare che rafforza, di fatto, l’idea che bisogna scaricare il regime di Teheran, in barba a quel soft power che da sempre contraddistingue il modo tutto italiano d’intendere la
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politica estera. «I primi segnali di questo trend, secondo noi negativo», ha continuato Mantica, «risalgono agli anni del primo governo Berlusconi, quando ci venne offerto di partecipare a un’importante gara per la costruzione del nuovo aeroporto di Teheran. Appurato con certezza che ci saremmo dovuti rapportare solo ed esclusivamente con determinati personaggi del regime, decidemmo definitivamente di lasciare campo libero alla Germania». Allora è vero che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. Ancora prima delle elezioni iraniane del giugno 2009 i segnali che giungevano da Teheran avvisavano che un certo clima in Iran andava facendosi via via sempre più pericoloso e che le percezioni provenienti da Israele e Washington, circa l’avanzamento del programma d’armamento nucleare iraniano, andavano prese in seria considerazione. L’ultimo rapporto Aiea, che risale alla seconda metà del gennaio scorso, denuncia senza mezzi termini le pesanti violazioni dell’Iran degli obblighi internazionali in materia atomica. Il rapporto contiene le prime anticipazioni su di un impianto segreto nell’area di Qom per l’arricchimento dell’uranio, un dato sul quale l’ambasciatrice degli Stati Uniti d’America presso le Nazioni Unite, Susan Rice, si è espressa con toni di grave preoccupazione. Infine, l’esito controverso delle votazioni del giugno 2009, una truffa elettorale cui è seguita la violenta repressione delle proteste dei manifestanti, fino all’arresto di centinaia di giovani oppositori, con esiti ancora incerti per molti di loro, sono azioni sulle quali dalle autorità del governo iraniano non sono ancora giunte rassicurazioni circa il ripristino dello stato di diritto per il popolo iraniano. Ha concluso Mantica: «Questi fatti spiegano in maniera inequivocabile le ragioni per cui il nostro governo ha deciso di prendere politicamente le distanze dal comportamento del regime di Teheran, apprezzando, fra le altre cose, il lavoro di Paolo Scaroni, l’amministratore delega-
COMMERCIO CON L’ESTERO (Giuliano Nistri, «il Borghese» 24 marzo 1988)
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to dell’Eni, che, congelato il capitolo iraniano, ha messo a segno importanti accordi in Africa, nel Kazakhstan e in Iraq. In gennaio, poi, in occasione della Conferenza internazionale di Londra sull’Afghanistan, è stata espressa da Stati Uniti, Francia e Regno Unito l’intenzione di discutere in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di nuove sanzioni nominali contro gli esponenti del regime dei pasdaran. Queste misure, come ribadito da Berlusconi durante la sua visita in Israele, non sono mirate a colpire la popolazione iraniana, verso cui ci sentiamo solidali, ma devono avere un effetto “paralizzante” sul regime di Teheran, come dicono gli israeliani». Politiche estere italiane a confronto, quindi. Fino al 2007 l’equidistanza dalemiana e la disponibilità di Romano Prodi di stringere la mano al presidente Mahmud Ahmadinejad hanno consentito all’Italia di detenere il posto di primo partner commerciale europeo dell’Iran. Fare affari in Iran è un lavoro da Penelope, a cui si è dedicato con solerzia l’ambasciatore italiano a Teheran Roberto Toscano. Dall’agosto del 2008, al suo successore Alberto Bradanini è toccato disfare la tela o, per essere esatti, ridimensionarla. La prima mossa, infatti, è stata la dichiarazione di disponibilità dell’ambasciata italiana a Teheran di accogliere i dissidenti fuggitivi, cui è seguito il discorso del premier Berlusconi alla Knesset. La risposta iraniana non si è fatta attendere: alcune decine di basiji (la milizia paramilitare iraniana), che indossavano abiti civili, hanno inscenato una manifestazione ostile davanti all’ambasciata italiana, gettando diverse pietre al grido di «morte all’Italia, morte a Berlusconi». L’intervento della polizia iraniana, come ha spiegato il ministro degli esteri Franco Frattini, ha «scongiurato l’assalto vero e proprio e non ci sono stati danni seri». L’Alto rappresentante della Politica estera europea, Catherine Ashton, ha espresso a nome di tutta l’Ue una dura condanna di quanto accaduto, sebbene, abbia precisato, allo stesso tempo, che la strada del dialogo con l’Iran non dovrà essere abbandonata. Ad ogni modo, anche la richiesta di Teheran d’ottenere un seggio all’interno del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu è stata duramente rigettata da Guido Westerwelle, il ministro degli esteri tedesco, che di fronte ai delegati dei 47 Stati che compongono a rotazione il Consiglio dei Diritti Umani ha tuonato: «È un affronto a tutti i valori su cui si basa il Consiglio stesso». I prossimi sviluppi faranno capire più chiaramente in che modo si consumerà la rottura con l’Iran. Certamente non sarà facile nemmeno per l’Italia ricucire un sistema di relazioni che al momento appare piuttosto compromesso. La situazione, inoltre, è aggravata dal ritrovamento di materiale «dual use» e militare sequestrato nell’ambito dell’operazione Sniper della Procura di Milano: puntatori laser e altri apparecchi ottici, giubbotti autorespiratori da immersione, paracaduti, caschi da aviatore e perfino un elicottero. Fra le persone arrestate risultano esserci due iraniani, nonché Alessandro Bon, già dipendente della Beretta che aveva fondato la società Antares, attraverso cui il materiale transitava a livello internazionale (une rete import-export via Bucarest, Milano e Teheran). Uno dei due arrestati iraniani è invece Hamid Masoumi Nejad, il corrispondente di Irib tv (Islamic Republic Iran Brodcasting), da molti anni a Roma e molto conosciuto tra i cronisti della stampa estera. Si tratterà, naturalmente, di approfondire le indagini.
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CRONACHE DELL’IMMIGRAZIONE - 8
RITORNO all’Islam di ALFONSO PISCITELLI I TURCHI sono un grande popolo, con un passato lungo e glorioso alle spalle. Hanno avuto dignità imperiale, riuscendo a gestire situazioni complicate come quelle del Vicino Oriente. Dopo una fase di decadenza, si sono riaffermati negli ultimi quaranta anni come alleati fedeli e responsabili della NATO. Il processo di modernizzazione imposto da Mustafà Ataturk, pur incidendo poco sulle strutture profonde della società, ha portato sviluppo tecnologico. Più poveri degli Europei Occidentali, i Turchi appaiono oggi più determinati, più forti come carattere, più coesi nelle strutture base della famiglia, più orgogliosi della loro storia. Ovviamente essi non sono Europei. Se la Turchia è europea, allora lo è anche la Mongolia. Certo, per parecchi secoli i Turchi hanno cercato di «entrare in Europa»: attraverso la porta di Bisanzio, dilagando nei Balcani, giungendo fin sotto Vienna. Avanzando insomma col ferro, col fuoco, col sangue. Per i Romeni il conte Dracula è un eroe nazionale, appunto perché si oppose ad essi imitandone i modi: facendo cose turche. Il più grande esponente della dinastia dei Savoia, il principe Eugenio, fu sempre onorato nell’Impero Austro-Ungarico come difensore dell’Europa dagli Ottomani. Oggi con i Turchi noi possiamo essere buoni amici e ottimi partner commerciali, ma il modo in cui i burocrati e i politici dell’Unione Europea hanno gestito la questione dell’«ingresso della Turchia in Europa» rappresenta uno degli indici più significativi del disorientamento che regna nel vecchio continente. La Turchia è incompatibile con l’Europa perché non ha la cultura e le istituzioni liberali che sono maturate nella storia europea. L’Esercito è intervenuto parecchie volte nel corso del Novecento per conservare i frutti della rivoluzione laicizzante di Ataturk. Per cui il paradosso è questo: la Turchia è laica soltanto a patto di essere un regime autoritario. La laicità deve essere imposta con la forza. Ma uno dei presupposti per l’ingresso in Europa è la piena democraticità delle istituzioni: cosa accade tuttavia quando si lascia libera espressione alla volontà popolare? La risposta è sotto i nostri occhi: la grande marea islamica dalle acque profonde della società civile si innalza e rivendica la piena soddisfazione delle sue esigenze. I burocrati della UE, in nome dei loro schemi astratti, hanno completamente trascurato le conseguenze di un ingresso della Turchia nella cerchia dell’euro e delle farraginose istituzioni di Bruxelles. La nazione più popolosa dell’UE verrebbe ad essere rappresentata da un Paese musulmano, che attua una severa politica di repressione nei confronti dei Curdi; che per effetto della svolta geopolitica impressa da Erdogan guarda al cuore dell’Asia, fino alla Mongolia in nome della antica fratellanza uralo-altaica.
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Nel frattempo, per effetto di Schengen, i cittadini turchi senza sentirsi minimamente legati ai valori di fondo della cultura europea potrebbero spostarsi in tutti i Paesi UE: soprattutto in quelli che garantiscono migliori misure assistenziali. Eppure una alternativa c’è a questa prospettiva impraticabile. È l’alternativa del buon senso: «stringiamo con loro un patto economico e politico, da pari a pari. Ognuno mantenendo la propria identità», scrivevamo noi del Borghese nel 2004, all’interno di un dossier riguardante la questione euro-turca, e proponevamo una soluzione migliore rispetto a quella dell’ingresso della Turchia nell’UE: la creazione di una forte intesa di «partnerariato» economico, corroborata anche dalla comune appartenenza alla NATO. Diversi, ma amici. Sovrani sul proprio territorio, ognuno secondo i propri costumi, le proprie tradizioni e i conseguenti ordinamenti normativi. Invece alla Turchia sono stati fatti «gli esami»: i cinguettanti burocrati della UE hanno preteso che i Turchi diventassero come i Belgi in sette anni. I Turchi dal loro canto in Europa ci vogliono entrare, ma da Turchi a tutti gli effetti. Oggi la rivoluzione kemalista volge lentamente al tramonto. Il potere politico è saldamente nelle mani di un islamico moderato, il leader Erdogan che, ritenendo forse di aver vinto la partita interna, fa arrestare con l’accusa di golpe i vecchi generali custodi della laicità. Ma noi per il futuro prevediamo il saldarsi dei due tronconi che oggi si scontrano in Turchia: quello nazionalista-modernizzante e quello islamico tradizionale. Probabilmente fra qualche anno la Turchia ufficiale onorerà insieme Kemal Ataturk e il Profeta dell’Islam. L’Islam ritorna lentamente, ma inesorabilmente ai vertici delle istituzioni e si sposa con lo spirito modernizzante della Turchia post-ottomana. I numerosi immigrati turchi che vivono in Europa hanno già superato la fase della laicizzazione imposta dall’alto. Le donne immigrate in Europa portano il velo, molto più frequentemente delle loro connazionali rimaste ad Ankara. L’Europa non ha valori forti da offrire o da imporre; e i Turchi - liberi dalla disciplina imposta dai generali ritornano alle forme ataviche della religione. I Turchi immigrati non hanno alcuna motivazione per integrarsi culturalmente, per «europeizzarsi»: essi sentono vicina la loro patria e considerano l’Europa essenzialmente come luogo di pascolo. Oggi l’ingresso della Turchia in Europa è passato in secondo piano nell’agenda dei politici europei. Eppure ogni tanto si ritorna a questa formula logora. Riteniamo che le condizioni sociali nel nostro continente in crisi impongano una formula nuova e molto chiara: meno Turchi in Europa, e più realismo politico nelle relazioni tra l’Europa e una Turchia che può essere amica, socia in affari, pur rimanendo politicamente separata, culturalmente distinta e ovviamente sovrana nel proprio territorio.i (8 - Continua)
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DA ERGENEKON A BALYOZ
OPERAZIONE «Martello» di ERMANNO VISINTAINER ABBASTANZA nota, parlando di Turchia, è la vicenda «Ergenekon», la cosiddetta «Gladio turca», un’inchiesta della procura di Istanbul che portò alla luce l’esistenza di quest’organizzazione ultranazionalista. «Ergenekon» è un nome estremamente suggestivo, evocativo, pregno di risonanze e significati ancestrali per il mondo turco. Esso è ubiquitario e la sua notorietà si estende dalla mitologia alla letteratura. Tant’è che Ziya Gökalp, il poeta-filosofo turco a cavallo fra XIX e XX secolo, uno degli ideologi della Turchia moderna, gli volle rendere un omaggio, idealizzando il mito attraverso l’omonima composizione, Ergenekon (1914-15). Tuttavia qui il riferimento è diretto a militari, cospiratori ed avvocati ultranazionalisti che avevano nel mirino politici, giornalisti e scrittori accusati di vilipendio alla turcità, ovvero alla patria, fra i quali il premio Nobel Orhan Pamuk, aventi l’obbiettivo di trascinare il Paese verso un colpo di Stato finalizzato a delegittimare il governo «islamista». Ora, sebbene un paragone generale con la vicenda italiana di «Gladio» sia certamente pertinente, tant’è che la stessa stampa turca - forse alla ricerca di un precedente illustre - ne è al corrente fin nei minimi dettagli, al punto di citare il magistrato italiano Felice Casson che aveva condotto l’inchiesta, altrettanto non si può dire delle sue connotazioni ideologiche. Conditio sine qua non per continuare il discorso è, infatti, quella di astenersi dall’utilizzo di categorie politiche contrapposte quali destra e sinistra o reazione e progresso. Anche perché, parlando di Turchia, un meccanismo automatico è quello di percepirla, come in una notte in cui tutte le vacche sono nere, alla stregua di un Paese islamista associato o comunque erede dell’arabismo. Mentre si aggira il fatto che questa nazione, fin dagli inizi del secolo scorso, ha invece elaborato e metabolizzato il concetto avanguardistico di un Islam - eterodosso se non eretico in altri contesti - visto come una realtà religiosa assimilata e forgiata dalla cultura nazionale turca su tradizioni pre-esistenti, di cui questa fede rappresenta soltanto l’ultima stratificazione. Il generale Buyukanit, capo di Stato maggiore delle Forze Armate Turche, chiamate in causa a suo tempo dalla cronaca, per smarcarsi dall’imbarazzante impeachment fece ricorso alla nota metafora delle mele marce, dichiarando che: «In ogni ambiente ci sono persone che infrangono la legge, nei loro confronti è la giustizia a decidere. Anche in questa occasione c’è chi cerca di stabilire un legame tra questi fatti e le Forze Armate. Le Forze Armate turche non sono un’organizzazione criminale. Chi al suo interno commette degli errori ne deve rispondere davanti a un giudice». E di pari passo allo sgomento ed all’incredulità pubblica, questo sembra altresì essere l’atteggiamento prevalente della stampa turca nei confronti dell’attuale operazione
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«Balyoz» (martello, in turco), apparentemente un’estensione della precedente inchiesta «Ergenekon». Una cospirazione militare intenzionata a rovesciare il governo dell’AKP (Partito per la giustizia e lo sviluppo), che ha portato all’arresto di una quarantina di persone, tra le quali alti ufficiali delle Forze Armate, da sempre custodi della laicità kemalista della Repubblica turca. Sono scattate le manette per 14 alti ufficiali, accusati di fare parte dell`operazione, tra i quali l’ex comandante dell’Aviazione, Ibrahim Firtina, il generale Engin Alan e altri dieci ufficiali oltre a due militari in pensione: i generali Çetin Dogan e Suha Tanyeri. Oltre ai militari, fra gli arrestati c`è anche Ozden Ornek, ex capo della Marina militare e autore di alcune annotazioni che parlavano di un golpe in preparazione da parte dell’esercito. Il primo a rendere noto il piano «Balyoz» è stato il quotidiano Taraf, secondo il quale il piano aveva lo scopo di diffondere nel Paese, attraverso atti di violenza e terrorismo, una strategia del terrore atta - sempre secondo Taraf a screditare l’AKP e dimostrare che il governo non era in grado di proteggere la popolazione. Del resto sono decenni che l’esercito, o meglio i vertici delle Forze Armate, svolgono il ruolo di gendarme della laicità, spesso in contrapposizione all’orientamento espresso dall’elettorato. Il tentativo di golpe militare di cui si è parlato non è una novità in questo Paese. Sull’operazione tuttora in corso vige il massimo riserbo sebbene non manchino timori di insabbiamento delle indagini. Tuttavia la reazione generale della stampa, degli intellettuali e dell’opinione pubblica è stata compatta e inflessibile e non sembrano esserci pericoli per la stabilità del governo. Un aspetto positivo della vicenda risiede nel fatto che essa ha portato il Paese ad un intenso dibattito interno sui valori repubblicani. Varie testate giornalistiche nazionali hanno esteso parallelismi con altri Paesi europei, come Spagna, Portogallo e Grecia che in passato hanno vissuto problemi analoghi di interferenze nell’assestamento dei processi democratici. «Sebbene anche le Forze Armate, come ogni istituzione burocratica, siano restie al cambiamento, volenti o nolenti dovranno cambiare», scrive il giornale Zaman. Un quesito d’obbligo riguarda il motivo per cui, da una Turchia protagonista, conducente una politica estera attiva ed intraprendente, che interloquisce con Russia, Iran, Europa e soprattutto con l’Italia e che in definitiva, sta attraversando uno dei periodi economicamente e politicamente più fulgidi della sua storia attuale, non si possa accettare qualche piccola ingerenza o deviazione di percorso. Il sospetto che dietro alla facciata ultranazionalista di questi movimenti, da cui lo stesso generale Buyukanit aveva preso le distanze, nell’ombra si stiano muovendo dei poteri occulti, è pertanto alquanto intensa. La vicenda comunque dimostra la maturità acquisita dalla Turchia nella gestione di determinate situazioni destabilizzanti e riguardanti la propria politica interna.
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L’OCCIDENTE E LA DERIVA TURCA
ALL’OMBRA dei minareti di ALBERTO ROSSELLI LA TURCHIA si «islamizza» sempre più, ma l’America e molti Stati europei occidentali (Italia inclusa) non sembrano accorgersene, dando per buone le eterne promesse di liberalizzazione del sedicente premier laico Recep Tayyp Erdogan, in realtà sempre più orientato a fare comunella con i partiti fondamentalisti anatolici e con l’Iran. Come è noto, fin dal meeting di Praga del 5 aprile 2009, il presidente americano Barack Obama, insistette affinché perché l’Europa spalancasse al più presto le porte alla «laica e democratica» Turchia, Paese che gli Statunitensi hanno sempre considerato una specie di antemurale all’ondata del radicalismo islamico ed anche un efficace «filtro» alle ambizioni iraniane. Considerazioni che, allo stato attuale, in realtà si basano su osservazioni e calcoli del tutto errati e per nulla condivisi dalle due più forti nazioni UE, cioè Francia e Germania. Queste, per voce dei premier Nicholas Sarkozy e Angela Merkel si sono opposte ad una cooptazione della Turchia in quanto giustamente preoccupati per la deriva fondamentalista in atto nel Paese e per il citato riavvicinamento di Ankara, Teheran ed anche a Damasco. Una riconciliazione che, poche settimane fa, si è concretizzata in una vera e propria alleanza economicomilitare imbarazzante per l’Occidente e pericolosa per Israele. Ora, la posizione assunta con lucidità da Germania e Francia costituisce un fatto molto importante, in quanto annulla o perlomeno disarma l’incomprensibile ecumenismo spinto della UE, quello che nel dicembre del 2004 grazie all’appoggio del presidente Jacques Chirac e del cancelliere Gerhard Schröder - portò a stabilire il famoso calendario dei negoziati per accorpare la Turchia che, per la cronaca, non ha mai ottemperato a tutti gli obblighi imposti dalla carta di Copenhagen, soprattutto quelli in materia di diritti umani e più in generale di democratizzazione delle sue istituzioni interne. Condizioni, quelle europee, che proprio in questi ultimi tempi sono state respinte con forza dal premier Erdogan in quanto ritenute «lesive della autonomia di una nazione già libera e moderna; una nazione dove la laicità, valore tramandatoci dal grande Padre Mustafa Kemal Atatürk, convive con un sentito, ma moderato e non invasivo sentimento religioso». Affermazione, questa, in realtà assai difficile da sostenere, in quanto il Paese anatolico si sta progressivamente (e rapidamente) de-laicizzando. L’idea di una Turchia laica è infatti un ricordo del passato e gli unici a crederci sono, incredibilmente, gli europei, totalmente a digiuno circa i princìpi e le immutabili dinamiche culturali e storiche che regolano una società musulmana. Se è vero che dopo la Prima Guerra Mondiale, la Repubblica, sorta dalle rovine dell’Impero Ottomano, crebbe effettivamente permeata da forti sentimenti laicisti culminati nella secolarizzazione forzata del kemalismo, è altrettanto vero che, già a partire dagli anni
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Settanta, nonostante l’appoggio spesso violento, fornito all’esecutivo dalla casta militare posta a difesa dell’eredità di Atatürk, Ankara, pressata dalla potente setta-partito dei Fratelli Musulmani, ha cambiato decisamente rotta per poi cedere, di lì a poco, alla tentazione fondamentalista (nel 2002, l’AKP o Partito della Giustizia e dello Sviluppo dell’«europeista» Erdogan, ha conquistato il potere con il 46,5 per cento dei consensi grazie proprio alle simpatie espresse dal premier nei confronti del ventre islamico anatolico. A partire dagli anni Novanta, l’islamismo - inteso come religione e ideologia - ha poi guadagnato, ad ogni tornata elettorale, seggi su seggi, sempre grazie alle aperture ai religiosi fatte da Erdogan e dal presidente Abdullah Gül, entrambe discepoli di Necmettin Erbakan (attualmente membro del Saadet Partisi o Partito della Felicità), grande sostenitore del ritorno alla shari’a e promotore della reislamizzazione turanica, ben vista anche dai partiti ultra nazionalisti che aspirano, tra l’altro, ad un ricongiungimento con i Paesi dell’Asia Centrale turcofona. Oggi come oggi - in virtù di quanto detto - la Turchia è diventata il Paese musulmano non arabo a più elevato rischio di contaminazione fondamentalista. Non a caso, la Turchia è al primo posto nella graduatoria delle nazioni musulmane per quantitativo di moschee attive (ben 85.000: una per ogni 350 cittadini), ed è anche la nazione dove i religiosi-attivisti godono dei più ampi favori (sono ben 90.000 gli imam stipendiati dallo Stato). Ma non è tutto. Parallelamente alla ricomparsa del velo nelle strade e nei luoghi pubblici, la chiamata dei fedeli in lingua araba (idioma proibito da Atatürk) dei muezzin scandisce ormai le giornate della modernizzata metropoli Istanbul, rievocando miti e tradizioni secolari nei confronti dei quali perfino la nomenklatura militare (paradossalmente malvista dai «democratici» Paesi della UE) stenta ad opporsi, anzi, appare incline ad adeguarsi per non correre il rischio di soccombere e perdere il proprio ruolo e prestigio.
NEL RICORDO DEL MUSSA DAGH
LA «SHOA» degli Armeni di MASSIMO CIULLO LA QUESTIONE del genocidio armeno costituisce ancora oggi, dopo quasi un secolo, un nervo scoperto della storia e della politica della giovane Repubblica turca. Toccare questo tasto vuol dire mettere alla prova la capacità di Ankara di guardare al proprio passato senza pregiudizi e con serenità. Una serenità che però ancora non è attecchita ai più alti livelli della leadership turca. Lo ha dimostrato la reazione scomposta dell’attuale esecutivo turco di fronte alla recente risoluzione adottata dalla Commissione Esteri della Camera dei rappresentanti statunitense secondo la quale l’uccisione di un milione e mezzo di armeni durante la Prima Guerra Mondiale fu un «genocidio». Il documento è stato messo ai voti nonostante la ferma opposizione della Turchia e dell’amministrazione Obama. La risoluzione, passata per un soffio con 23 voti a favore e 22 contrari ha suscitato le ire della Turchia che ha deciso di richiamare l’ambasciatore negli Usa. Ankara aveva detto con chiarezza che l’approvazione della risoluzione avrebbe guastato le relazioni e il segretario di Stato Hillary Clinton aveva lanciato un appello ad accantonare il documento nel timore che potesse nuocere alla riconciliazione tra Armenia e Turchia. La deliberazione non vincolante chiede al presidente Barack Obama di garantire che la politica estera statuni-
IL … CAVALLO DI TROIA ITALIANO (Gianni Isidori, «il Borghese» 4 gennaio 1976)
DOPO LE ELEZIONI, IL «PDL» VOLTA PAGINA: GIÀ PRONTO IL NUOVO SIMBOLO
AL «CANTO ANTICO» DELLA SINISTRA CATTOLICA . . . (Nella fotografia, Rosy Bindi)
. . . IL «PD» HA PREFERITO LA «VECCHIA SOLFA» DELLA SIRENA RADICALE (Nella fotografia, Emma Bonino)
«GENERAZIONE ITALIA» - CHI RINNEGA LE PROPRIE RADICI . . . (Nella fotografia, Gianfranco Fini)
. . . È DESTINATO A «FARE FUTURO» IN MODO «DIVERSO» (Nella fotografia, Vladimiro Guadagno, in arte «Luxuria»)
IL GOVERNO AFFRONTA LA CRISI DI PETTO . . . (Nella fotografia, Stefania Prestigiacomo)
. . . MENTRE L’OPPOSIZIONE NAVIGA ALLA CIECA (Nella fotografia, Antonio Di Pietro)
SINISTRA MASOCHISTA - IN EUROPA L’ALTRA METÀ DEL CIELO . . . (Nella fotografia, Debora Serracchiani)
. . . NELLE PUGLIE L’ALTRA METÀ DEL CULO (Nella fotografia, Nicki Vendola)
PROFUMO DI PRIMAVERA - DAL «CASTO BACIO» . . . (Nella fotografia, Claudio Scajola e Maria Stella Gelmini)
. . . . ALLA «LANGUIDA CAREZZA», È TUTTO UN FIORIR D’AMORE (Nella fotografia, Renato Brunetta e Laura Ravetto)
LE STRADE TORTUOSE DELLA POLITICA EUROPEA (Nella fotografia, Andrea Ronchi, Ministro per le Politiche Europee)
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IL MEGLIO DEL BORGHESE
IMPUTATO: il giudice di MARIO TEDESCHI LE BOMBE del 12 dicembre 1969 continuano a produrre i loro tragici effetti. Tragici per lo Stato, che nel giro di tre anni, posto dinanzi alla esigenza di individuare e punire i colpevoli di quella strage, è riuscito solamente a liquefarsi, a distruggere sé stesso, ma non ha saputo, né dimostrare la verità, né emettere una sentenza definitiva. Tragici per la Nazione, che è stata portata sull’orlo della guerra civile ed oggi è esposta alla minaccia del terrorismo marxista, senza più strumenti adatti alla difesa. Ma soprattutto tragici perché l’ultimo episodio di questa vicenda, il trasferimento a Catanzaro del processo Valpreda e l’ulteriore suo rinvio, sta fornendo nuove armi ai nemici dello Stato, proprio nel momento in cui si cerca di compiere lo sforzo per correggere, in tutto o in parte, i colossali errori degli anni del centrosinistra. Diciamo subito, a costo di apparir cinici, che non si tratta di giustizia, come del resto è dimostrato dal fatto che oggi tutti si preoccupano di Valpreda e nessuno parla più delle vittime della strage. In Italia, nessuno mai ha creduto alla giustizia, nessuno mai s’è scaldato troppo per amor suo. La legge in Italia, diceva Malaparte, è come l’onore delle puttane. In pratica perciò, l’enorme risonanza del «caso Valpreda», a somiglianza di quanto avvenne in passato per il «caso Montesi», non nasce tanto dall’amor di giustizia, quanto dal fatto che intorno a questa vicenda si giuocano le sorti future dello Stato italiano. È l’amore per la fazione a muover la gente, non il desiderio di verità: ché, anzi, la verità si preferisce non saperla. Ha scritto giustamente l’amico Giovannini sul Giornale d’Italia: «Valpreda non è solo imputato di un delitto nefando, ma, attraverso una progressiva orchestrazione politico-giornalistica, è diventato la ‘bandiera’ o, forse meglio, il pretesto col quale si tenta di scardinare lo Stato nella sua credibilità e nei suoi istituti. Attraverso inchieste giornalistiche faziose e irresponsabili, si è inventata dapprima la ‘strage di Stato’, nel tentativo di coinvolgere come ‘mandante morale’ addirittura l’allora Presidente della Repubblica; e, successivamente, sempre attraverso la stampa, si è voluto sviare l’attenzione della pubblica opinione dalle ‘piste rosse’ dell’anarchia alle ‘piste nere’. In sostanza, attraverso la stampa si è già ‘celebrato’ il processo Valpreda e lo si è concluso con l’assoluzione; e si è, contemporaneamente, ‘celebrato’ il processo a Preda e Ventura, concludendolo con la colpevolezza!» Adesso, con la protesta organizzata per lo spostamento a Catanzaro del processo Valpreda, siamo all’ultimo e più massiccio sforzo della sinistra contro lo Stato. Riccardo Lombardi, che già al momento della nazionalizzazione elettrica ebbe uno slancio di sincerità e la definì per quello che era, cioè uno strumento da gettare nell’ingranaggio dell’economia nazionale, anche questa volta è stato espli-
cito. Parlando a Roma il giorno 14 sul «caso Valpreda», ha detto: «Questa è forse l’ultima occasione che abbiamo per invertire la marcia». Ora dunque, se lo Stato vuole difendersi dall’ultimo assalto, è necessario aprire un discorso franco e brutale sulle responsabilità; e questo discorso, che noi abbiamo iniziato da lungo tempo, è destinato a concludersi in un modo solo: con una condanna totale della Magistratura. Del resto, non è per caso che le bombe scoppiano alla fine del 1969, cioè proprio nel momento in cui il centrosinistra, al termine d’una lunga azione contro gli organismi difensivi dello Stato (azione intrapresa nel 1964 partendo dal SIFAR), sta arrivando al disarmo totale, pratico, anche se non ammesso ufficialmente, della Polizia. Non è per caso che le bombe scoppiano nel preciso momento in cui alla Polizia viene tolto anche il potere di interrogare, perfino nei casi di arresto in flagranza, ed a pochi mesi dall’entrata in vigore (anno 1970) delle norme sulla carcerazione preventiva, destinate a trasformarsi in altrettanti grimaldelli per spalancare le porte delle carceri alla massa dei delinquenti, politici e comuni. Non è per caso, insomma, che le bombe scoppiano nel preciso momento in cui, sotto la pressione delle sinistre e per volontà del centrosinistra, lo Stato italiano rinuncia a difendersi ed affida il presidio delle sue libertà, civili e politiche, ad un «Ordine» autonomo, impreparato al compito, lacerato dalle infiltrazioni politiche, inquinato dai frutti della «semina» compiuta dal PCI negli anni dell’immediato dopoguerra, quando l’incoscienza democratica e americana aveva consentito che Palmiro Togliatti diventasse Guardasigilli.
IN NOME … DELLE LEGGI (Gianni Isidori, il Borghese 22 ottobre 1972)
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IL MEGLIO DEL BORGHESE Dal 1969 al 1972 corrono tre anni. Tre anni in cui la Magistratura è diventata tutto, ha avuto tutti i poteri. E adesso, al termine di questo triennio, noi assistiamo al fallimento clamoroso della Magistratura: fallimento di cui tutti i cittadini, purtroppo, dovranno subire i danni. Il giudizio potrà dispiacere, ma è onesto, da qualunque parte politica si guardi il problema. Sappiamo del resto che numerosi Magistrati, e non certo degli ultimi, lo condividono e si affannano per correre ai ripari. E allora, se vogliamo correggere, non possiamo aver peli sulla lingua. Il fallimento è generale, ma la colpa è soltanto d’una parte dei magistrati: quelli affiliati al PCI e, più generalmente, alle sinistre. È la sinistra che ha fatto dell’autonomia dell’Ordine giudiziario un privilegio a senso unico, talché l’autonomia esiste quando si tratta di garantire l’immunità ai magistrati sovversivi, ma non esiste quando si dovrebbero impedire le infiltrazioni politiche, comuniste e paracomuniste. È la sinistra che, nel periodo in cui ha dominato i] Consiglio Superiore della Magistratura, ha usato di questo strumento per i suoi scopi. È la sinistra che, dopo avere ottenuto dal governo democristiano e socialista il privilegio di dirigere tutte le indagini di polizia giudiziaria, ha subito applicato le nuove norme in funzione delle direttive politiche socialiste e comuniste: talché oggi certi magistrati, in particolare quelli di Milano, trovano la mattina, su l’Avanti! o l’Unita, già scritta la decisione dei «casi» loro affidati; e accettano questo stato di cose; e si uniformano alle «sentenze» emanate dai giornali di partito. In questo clima, i magistrati onesti ed imparziali, che pure esistono, sono sopraffatti. È inevitabile. Essi non hanno, alle spalle, partiti che li difendano; non hanno giornali che li esaltino; non hanno nemmeno l’appoggio governativo, perché il Governo è tanto debole e imbelle, che considera una «follia» reazionaria ogni tentativo di restaurare in Italia la legalità. Per questo, a dispetto dei buoni, la Magistratura chiude in fallimento, con un Valpreda quasi certamente colpevole trasformato in martire, con Preda e Ventura pronti a sostituirlo senza nessuna prova inoppugnabile di colpevolezza, con i delinquenti che escono per trascorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Seguitando di questo passo, l’Italia rischia di essere il primo Paese del mondo in cui il comunismo conquisterà il potere per decisione adottata da alcuni giudici, ben protetti dal «segreto giudiziario». E chi non capisce questa situazione e propone oggi, in nome del «martire» Valpreda, nuove riforme «umanitarie» o «permissive», come stanno facendo La Malfa, i socialisti e i socialdemocratici, o è un imbecille, o è un complice. (il Borghese, 22 ottobre 1972)
LO SPECCHIETTO (Gianni Isidori, il Borghese 23 gennaio 1977)
La Repubblica del peccato Chi ha paura delle «sexy-hostess»? di LUCIANO CIRRI UN GRANDE, compatto e solidale «silenzio all’italiana» sta avvolgendo l’ultimo capitolo degli scandali «sessuali» che, periodicamente, affiorano dalle cronache di questi anni democratici. La storia dell’Hostess Club, florida organizzazione romana che «affittava» fanciulle di bella presenza e di ottima compagnia, non sembrava inizialmente destinata a suscitare molto scalpore: in Italia, i «peccati d’amore», le rapide feste da consumarsi in fretta, a luci spente, secondo tariffa, non costituiscono motivo di allarme. Ognuno si costruisce su misura il proprio inferno privato come può e come sa, e la grande indulgenza nazionale copre di perdono gli ultimi «dannati» tradizionali. In materia di lenzuola, infatti, si è creata una sorta di omertà nazionale, per cui tutto viene perdonato a chi abbia molto perdonato. Ma i primi risultati delle indagini sono stati clamorosi e lo scandalo dell’Hostess Club in questo pacifico quadro di ricatto e di omertà, sta assumendo una sua dimensione, quasi «storica». I giornali e le autorità ricevono strane telefonate, suggerimenti «amichevoli», minacce velate. Si è smosso un enorme e pesante meccanismo clandestino, una sorta di mafia ad altissimo livello, nell’affannoso tentativo di spingere in giù la punta dell’iceberg che affiora sulla povera realtà di questa Repubblica del gelo. Le rivelazioni inquietanti si susseguono, ma vengono bisbigliate in sordina, nel timore che i «potenti» di turno possano vendicarsi di chi osa porre in dubbio l’onorabilità della loro famiglia. Cesare è, com’è giusto che sia, al di sopra di ogni sospetto. La moglie di Cesare, com’è oramai stabilito, è anche lei divina e intoccabile. Ma i figli di Cesare? Non esiste un’esatta giurisprudenza ad hoc, e nessuno ha mai osato affrontare apertamente la questione: ma, logicamente, nemmeno i pargoli possono essere coinvolti nella mischia. Il sangue non è acqua! Per questo, le vicende boccaccesche e, per molti aspetti, assurde, dell’Hostess Club sono state già cancellate, o relegate tra le notizie da dimenticare in fretta, nei «notiziari» delle Questure e nelle pagine dei giornali cari all’Olimpo repubblicano. L’antefatto è noto. Una organizzazione romana offriva «accompagnatrici» eleganti, colte, educate, esperte in lingue, a uomini d’affari soli, a personaggi in cerca di valide collaboratrici per affrontare i propri memorabili «incontri» di affari (o di politica). In teoria, simili prestazioni costavano, ai clienti, circa trentamila lire al giorno; ma sembra che, in realtà fossero molto più care. Un’inchiesta della Magistratura romana ha accertato che il Club in questione non forniva soltanto «interpreti» e «collaboratrici provvisorie», ma efficienti creature disponibili a riempire ogni ora di solitudine. Da questa brutta faccenda è dunque scaturita la denuncia
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per prostituzione, sfruttamento della medesima ed altri reati minori. Il titolare dell’Agenzia, ormai definita dalla stampa un «bordello d’alto bordo» (grazie alla presenza di qualificate hostess), il signor Gianni Bonomi, è riuscito a sfuggire all’arresto, scappando dagli abbaini. Benché inseguito, ha potuto trovare, evidentemente, dopo tante «tette», un tetto sicuro: tanto è vero che si è lasciato intervistare dal redattore di un giornale romano, affermando di essere del tutto innocente. Per confermare la propria purezza di intenti e la limpida impostazione del lavoro delle sue brave ragazze, il Bonomi ha rivelato, tra l’altro, che un gruppetto di sue hostess era stato «invitato» per rendere più accogliente la vecchia Roma agli occhi (si fa per dire) del Presidente del Venezuela, Peres; ed ha aggiunto che queste sue irreprensibili professioniste erano state pure «richieste per una proiezione privata nella saletta riservata del Quirinale, con i figli di Leone e il regista Massa». Ora, è evidente che ognuno, a casa propria, invita chi vuole. Se, nell’Italia 1977, si dovessero ricevere nel salotto buono soltanto illibate fanciulle e vergini vestali, le feste contemporanee risulterebbero paurosamente sguarnite. E il regista Mussa può ospitare chi vuole. Ma il Quirinale non è un’abitazione come le altre. Rappresenta il Tempio della Repubblica, l’Altare delle Virtù Italiane, l’Ultima Spiaggia di una Patria che, per altri versi, sembra andare totalmente a puttane. Un simile baluardo non dovrebbe mai incrinarsi. E, appena quelle sacre mura fossero sfiorate dal dubbio, la risposta e la smentita dovrebbero essere chiare, definitive, esaurienti. Invece, nessuna smentita è giunta dalla Presidenza della Repubblica, dopo le esplicite; dichiarazioni del «latitante» Gianni Bonomi. Si è soltanto avvertito, pesante e significativo, qualche intervento autorevole, per indurre i giornali di regime e, possibilmente, coloro che vogliono vederci chiaro, a lasciar perdere. In un Paese come il nostro, che ulula, mugugna e geme per molti altri gravi motivi, sembra quasi sleale allarmarsi per qualche «squillo» in più. I giovani leoncini d'Italia, del resto, avevano ottenuto autorevoli garanzie dalla stampa di sinistra, proprio in merito all'Hostess Club. Il 31 gennaio 1975, il Tempo illustrato aveva dedicato un apologetico servizio a questa iniziativa, avvertendo: «La moralita del The hostess Club di Roma, che fornisce accompagnatrici, è irreprensibile: o le sposi o ti devi accontentare di un sorriso. Una lunga lista di clienti eccentrici e importanti». Non si hanno ragguagli esatti sul comportamento del Presidente venezuelano o dei figli della Repubblica, nei confronti di queste illibate bambine di buona famiglia e di morigerati costumi: si sono accontentati di un sorriso, o hanno formulato regolare domanda di matrimonio, dimostrando di essere ottimi partiti? In mancanza di precisazioni ufficiali, la perplessità è legittima. Il mensile illustrato del marxismo-bene rivelava ancora le confidenze della «direttrice» di questo «centro per fanciulle irreprensibili»: «Sono perseguitata da un dirigente di un grosso ente romano. È un uomo molto importante, eppure ogni giorno mi telefona chiedendomi di uscire con lui, dimostrando di non aver capito niente...» Questa «direttrice», Maria José Fortes, mulatta ventisettenne dalle molte grazie evidenti e dalle innumerevoli virtù nascoste, è stata arrestata nei giorni scorsi per avere organizzato e sfruttato la prostituzione. C’era una «sala riservata» del Quirinale, nel suo futuro, ma, al momento dell’intervista, era ancora all’inizio della sua escalation sociale, e si accontentava di dirigenti di «grossi Enti». Nemmeno la galera, del
resto, era prevedibile, in quei giorni di «lancio» avallato da tutte le sinistre di buona volontà. Per una grottesca coincidenza, reclamizzando l’Hostess Club, la rivista Tempo illustrato pubblicava, nella stessa pagina, un articolo intitolato «Napoli beffata dal leone di sasso». Sarcasmo o preveggenza? Napoli o Italia? «MADAMA MILIONE» Si tratta, come dicevamo, di povere storie di poveri amanti a contatore, che non scandalizzano né indignano più la «coscienza nazionale». C’è di nuovo, oggi, il «bavaglio», suggerito o imposto ai mezzi d’informazione attraverso i mille sistemi di «persuasione occulta» di cui possono servirsi, nel moderno Olimpo democratico, il Padre degli Dei e tutti i suoi figli. Ma non è stato inventato niente, alla luce del sole, della luna o delle abat-jours. Già negli anni sessanta era scattato un altro scandalo, che allora fece scalpore, anche perché a quel tempo nessuno ebbe la voglia né i mezzi per soffocarlo. All’ombra di un «Istituto di Bellezza» chiamato Jeunesse, una inquieta signora, Mary Fiore, aveva arruolato una splendida pattuglia di fanciulle in fiore. I giornali comunisti, nel maggio 1961, osavano riportare cronache giudiziarie di questo genere: «Il processo per le ‘squillo da un milione’ è cominciato a porte chiuse. Hanno deposto l’ex Miss Italia Angela Portaluri, Nanna Rasmussen e l’intera schiera di attrici, attricette e belle ragazze, cadute, quali ingenue farfalle, nella sottile rete astutamente tessuta da Mary Fiore...» Come «ingenue farfalle», queste ragazze si erano già rivelate piuttosto abili. Ricordiamo, incidentalmente, un curioso episodio di quegli anni. Il Borghese aveva pubblicato prima dello scandalo, una fotografia della citata Angela Portaluri, in cui ella figurava con qualche centimetro di pelle un po’ scoperto. Offesa nel suo pudore, la ragazza aveva da noi preteso i «danni» arrecati alla sua proverbiale moralità. Pagammo, allora, centomila lire. Soltanto qualche tempo dopo si seppe che, per centomila lire, alcuni privilegiati avevano avuto modo, presumibilmente, di vedere molto di più. E Mario Tedeschi scrisse un articoletto intitolato, appunto «Centomila lire per niente», deplorando di essere rimasto a bocca asciutta. Ma i cronisti di quel processo raccontavano: «Le deposizioni non sono state esplosive: i nomi grossi sono rimasti tra i candidi denti delle testimoni e non ne hanno voluto sapere di uscire fuori. I memoriali minacciati quando lo scandalo è scoppiato, si sono mantenuti nello stato d’intenzione...» Al processo, per paura o per ragioni di sopravvivenza, non furono dunque fatti i nomi che, in quel periodo, erano sulla bocca di tutti. La «troupe del piacere» (come venivano chiamate le «squillo» di quelle stagioni, prima di diventare, più dignitosamente, hostess) agiva a Roma in due appartamenti sfarzosi, in Via Mercalli 12 ed in Via Salaria 408. Qui, come riferiscono i cronisti dell’epoca, convenivano, «con i loro occasionali mecenati», stelle e stelline pallide del firmamento cinematografico italiano; oltre alla Rasmussen ed alla Portaluri, venivano pubblicati i nomi e le referenze di Linda Veras (Vera Bruger per l’anagrafe), Cristiane Sasard, Diana Wally, Maria Luisa Tam, Cleofe Forcile, Anna Maria Trippetta, Birgit Semand Petersen, in un miscuglio di dati anagrafici schiettamente indigeni o esotici, per le feste dei «clienti» e degli amatori.
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In Tribunale, si apprese che Mary Fiore, oltre ad usare gli appartamenti di cui disponeva a Roma, era pronta ad inviare le «impiegate» sacre a Madonna Jeunesse in altre città,come Milano, Torino, Genova, o addirittura all’estero, aumentando in proporzione le tariffe. Anche in quegli anni si parlò, con insistenza e con alcuni dati di fatto, di «forniture» umane effettuate dalla Fiore a diplomatici e politici stranieri di passaggio a Roma. Si raccontava che un Capo di Stato orientale richiedesse cinque o sei «interpreti» alla volta, rinviandole poi, equamente compensate ma fisicamente distrutte, alla «casa madre», con i suoi «vivi ringraziamenti». Erano gli anni eroici del peccato. Oggi, rileggendo quei racconti, viene da sorridere. Sembrava che la società di allora fosse corrotta e irredimibile, perché non si sapeva immaginare quel che sarebbe venuto dopo. In verità, nessuno, nemmeno tra i «grandi» di quei giorni, aveva davvero paura che si spargesse la voce di qualche personale occasione di relax con divette disinibite. Il «diavolo» non era stato ancora ripudiato dalla Santa Sede, e sembrava giusto avvertire odore di zolfo, avvicinando creature che cercavano un milione d’amore frettoloso dove potevano trovarlo. Quante cose sono accadute, da quei tempi che sembrano appartenere alla preistoria, ma sono solamente vissuti ieri! La lista degli «scandali da materasso» oggi sarebbe interminabile: bambini drogati e utilizzati per filmetti «porno»; bambine convinte a succhiare droga come fosse lecca-lecca e poi trascinate a succhiare la vita nello stesso modo, come dovesse finire subito; feste «particolari» in ogni città d’Italia, Novara, Bergamo, Torino, Roma, Napoli, Reggio Calabria, Siracusa, Palermo. Sembra un itinerario turistico, mentre è la squallida map-
ATTRICI DELL’ULTIMA «SCENEGGIATA» Che cos’era un bacio prima che le «squillo» diventassero «esperte in lingue»? (Nella fotografia, dal «Borghese» del 9/10/77, Hanna Rasmussen, coinvolta nel «giro» di Mary Fiore)
pa di una civiltà che muore, ed offre, ai suoi pellegrini, i maledetti momenti di un calvario verso la fine. Era pazzo o malvagio, questo popolo? Probabilmente non era l’una né l’altra cosa. Il leggendario boom economico italiano non riguardava soltanto le esistenze, ma anche le coscienze di chi, dopo aver tanto lavorato, pretendeva o sperava che tanto gli venisse condonato. I giovani spendevano cento lire per offrire chewing-gum alle ragazzine che li accompagnavano nei prati della loro città. Non c’era da arrabbiarsi, se uomini anziani e collaudati dalla vita, vittoriosi nella storia moderna, spendevano un milione per farsi accompagnare a letto da «interpreti» esperte in ogni lingua, che peraltro non facevano sfoggio delle loro nozioni, limitandosi ad adoperare l’eterno «esperanto» dell’amor profano. La Repubblica, però, era un altro fatto. Lo Stato era un questione diversa. E questa verità era rivelata a tutti i «peccatori», che si consentivano i fasti e i misfatti della «perdizione» nella consapevolezza che, lassù, dov’è il Cielo, o più vicino, dove sono i Cavalli di Fidia, c’è un Dio, Giove o Presidente, che veglia sui peccati di tutti, senza esserne contaminato, senza avvertire il guasto della «partecipazione». Dovevamo arrivare a queste giornate dell’autunno 1977 per scoprire che le antiche certezze sono provvisorie, e Cesare è morto, o è finito il suo mito. Una volta se ne parlava a lungo, perché si trattava soltanto del «dirigente di un grosso Ente». Oggi è proibito parlarne, perché Egli «tiene famiglia», e vuole difenderne i vezzi. Chi ha paura delle sexy-hostess, nel 1977? UN’ANTICA INDUSTRIA Questo il clima, questa la verità di un’Italia che deve adorare non soltanto il regime, ma tutti i suoi cuccioli, anche quando si trovano impelegati in un grande canaio puttaneggiante. Per gli ottimisti, rimane tuttavia un dato consolante: l’industria del sesso non subisce alcuna influenza inflazionistica. Nei nostri anni più verdi, ogni Figlio di Stato riusciva a conquistare la propria nottata d’allegria per circa un milione di lire. Dopo circa tre lustri, sarebbe stato logico aspettarsi una tariffa di almeno dieci milioni Invece, siamo sempre lì: venti o trentamila lire «ufficiali» e alcuni biglietti di grosso taglio sottobanco. I pomodori, il vino, la frutta e il pane (per non parlare delle Madonne, in immagine per turisti) sono aumentati del duecento per cento, più o meno. Soltanto la Donna della Mela, il Peccato Originario, la Nottata Splendida, hanno conservato gli stessi prezzi, senza calcolare i decimali! Con un milione, quanto si spendeva quindici anni or sono, si possono avere le stesse «accompagnatrici esperte in lingue», abituate e destinate ai medesimi servizi, diplomatiche, eleganti, laureate ed esperte come allora! La differenza è soltanto questa: una volta, erano tutti disposti a perdonare gli esponenti di una Repubblica ancora giovane; ora, diventa tutto più difficile. Ieri, il silenzio sembrava un rimorso. Oggi, è una disperazione. Non è più tempo, in definitiva, di condannare i «maledetti» che bruciavano la loro vita, come si diceva in quei tempi, in un «rogo di lussuria». Ma è veramente l’occasione di rivelare i nomi, cognomi, cariche e incarichi personali o paterni, di questi botoli della Repubblica, che la guastano tutta e pretendono il silenzio sulla loro fuga verso un cielo pieno di silenzio, di hostess e di oblio. (il Borghese, 9 ottobre 1977)
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tense rifletta il fatto che quello compiuto dai turchi ottomani fu un genocidio e che così venga definito durante l’annuale discorso del presidente sull’argomento. Gli Stati Uniti hanno sempre condannato il massacro, ma non l’hanno mai definito formalmente un genocidio per non irritare la Turchia, alleato indispensabile della Nato in Medio Oriente. Il governo armeno invece, ha «altamente apprezzato l’approvazione della risoluzione 252 da parte della Commissione Esteri del Congresso Usa che ha riconosciuto il genocidio degli Armeni». Il ministro degli Esteri armeno Nalbandian ha accolto con gioia l’iniziativa statunitense e ha incoraggiato gli altri membri della comunità internazionale a seguire l’esempio della Svizzera e della Svezia. Il governo federale di Berna ha approvato una risoluzione che nei contenuti richiama la stessa risoluzione statunitense. Il parlamento svedese ha approvato - contro il parere del governo - una mozione che riconosce come «genocidio» il massacro degli armeni del 1915. La mozione - presentata in Parlamento dall’opposizione di sinistra ha ottenuto la maggioranza per un solo voto. Nel testo si legge che la Svezia «riconosce il genocidio del 1915 contro gli Armeni». Quattro deputati della maggioranza di centrodestra hanno votato a favore della mozione, in maniera opposta alle indicazioni di partito, favorendo così l’approvazione della mozione. Il ministro degli Esteri Carl Bildt, per prevenire una crisi diplomatica con Ankara, ha immediatamente ribadito che la linea del governo svedese a favore dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea resta immutata. La risposta turca non si è fatta attendere:«Condanniamo la risoluzione che accusa la nazione turca di un crimine che non ha commesso», si legge in una nota del governo turco. Il primo ministro Tayyip Erdogan ha rincarato la dose, sostenendo che il suo governo potrebbe decidere di espellere centomila armeni che ancora oggi vivono in Turchia. In un’intervista alla BBC, il premier turco ha spiegato che nel Paese ci sono 170.000 armeni di cui 70.000 sono cittadini turchi. «Per quanto riguarda gli altri 100.000 io potrei domani dire loro di tornare nel loro Paese, se ciò sarà necessario». Intanto dall’Armenia il primo ministro Tigran Sarksyan ha risposto a Erdogan affermando che il comportamento del premier «riporta immediatamente alla memoria gli eventi del 1915». Le dichiarazioni di Erdogan a questo punto rischiano di mettere a rischio anche le relazioni con Yeravan ricucite con anni di accordi storici per riprendere i legami diplomatici tra i due Paesi e aprire le frontiere. Probabilmente, per correggere il tiro, Erdogan è stato costretto a fare retromarcia assicurando che il suo Paese è determinato a continuare negli sforzi per normalizzare i legami con l’Armenia nonostante il voto della commissione statunitense, del governo svizzero e di quello svedese. «Siamo intenzionati ad andare avanti con la normalizzazione delle relazioni con l’Armenia», ha detto il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu in una conferenza stampa. Tuttavia, ha dichiarato che la ratifica degli accordi di pace con l’Armenia da parte del parlamento potrebbero essere a rischio. I massacri e le deportazioni di armeni tra il 1915 e il 1917 hanno causato più di un milione e mezzo di morti, secondo gli armeni, mentre la Turchia limita il bilancio tra 250 e 500mila vittime e rifiuta la definizione di «genocidio». Un paio di anni fa, l’assoluzione da parte di un tribunale di Istanbul della scrittrice turca Elif Safak, accusata di vilipendio all’identità nazionale, aveva fatto pensare ad un’inversione di rotta da parte delle istituzioni turche sul tabù armeno. La 34en-
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ne scrittrice era stata trascinata davanti ai giudici dall’avvocato ultra-nazionalista Kemal Kerincsiz, presidente del sindacato dei giuristi. Sotto accusa era finito il suo romanzo Baba ve Pic, dove vengono descritte le relazioni tra una famiglia armena e due famiglie turche e, secondo Kerincsiz, si rinvengono insulti rivolti dai personaggi armeni a quelli turchi. Safak ha adottato una linea difensiva «conciliante», asserendo che le frasi incriminate non rappresentano il suo pensiero, ma soltanto quello dei suoi personaggi. Ciononostante, la scrittrice ha ribadito la necessità che il suo Paese riconosca gli errori commessi in passato, in particolare con gli Armeni, e di non fingere che «la sua storia cominci nel 1919 o nel 1923, come se prima non fosse successo nulla». Per Kemal Kerincsiz, l’affermazione più grave è proprio questa, più del romanzo in se stesso. L’avvocato si è conquistato la fama internazionale per aver rivolto le medesime accuse - «offesa all’identità turca» - alla scrittrice armena Hrant Din e al romanziere Orhan Pamuk, il cui processo ha suscitato la disapprovazione dell’Unione Europea, che ha posto il riconoscimento del genocidio come una precondizione per l’ingresso di Ankara nel Club di Bruxelles. Un campione insomma della tutela dell’identità nazionale. Ma la pronuncia dei giudici di Istanbul contraddice soltanto apparentemente il giurista turco. La sentenza non ha alcun valore sul piano del revisionismo della posizione turca sul genocidio degli armeni, poiché è perfettamente in linea con un atteggiamento radicato anche negli intellettuali turchi: «Non sono io a pensare queste cose, ma riporto ciò che altri dicono». Una scappatoia imboccata anche dalla stessa Elif Safak, alla quale probabilmente è mancato il coraggio di andare fino in fondo nella sua denuncia. Un atteggiamento descritto in modo magistrale da un altro intellettuale finito nel mirino dei nazionalisti, Taner Akcam, per il suo libro su Nazionalismo turco e genocidio armeno, tradotto in italiano da Guerini e Associati. Lo storico turco, il primo ad ammettere senza riserve il genocidio degli armeni, ha pagato con dieci anni di prigione e l’esilio, in Germania prima e poi negli Stati Uniti, per il coraggio delle sue idee. La Turchia, secondo Aksam, è un Paese che non ha ancora fatto pace con il proprio passato. La particolare schizofrenia dei «difensori della Patria Turca», pronti a ergersi a difesa contro ogni minaccia alla propria identità nazionale, nascerebbe da una serie di questioni irrisolte, di cui ancora oggi non si discute apertamente in quanto veri e propri tabù. Le cause di tutto ciò vanno rinvenute, secondo lo storico in esilio, nelle conseguenze psicologiche dettate dai grandi rivolgimenti politici, istituzionali e geografici che hanno interessato la regione anatolica. La moderna repubblica turca nasce sulle macerie del colosso dai piedi d’argilla dell’Impero ottomano, ma i «turchi moderni» ancora oggi sono alla ricerca di una propria identità. Alla fine del XIX secolo, gli esuli turchi a Parigi si definiscono «islamici» o «ottomani». Esiste quindi una continuità nella forma mentis tra l’elite del decadente impero della Mezzaluna e le nuove classi dirigenti, che a contatto con la cultura europea, vogliono costruire uno Stato moderno sul modello tedesco o italiano, in pratica gli Stati europei più giovani. Nella sua analisi, Akcam, rintraccia diversi parallelismi tra la formazione dello Stato-nazione germanico e quello turco. Entrambi i Paesi soffrono una condizione di diminutio a seguito del crollo delle istituzioni imperiali. Ad accomunarli anche la «sindrome di accerchiamento» che vede in (Continua a pagina 42)
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IL BORGHESE
FINITA L’ÈRA DI VIKTOR YUSHENKO
L’UCRAINA volta pagina di INNA KHVILER AIELLO FINITA l’èra arancione in Ucraina. Viktor Yanukovich, leader del «Partito delle regioni», spesso definito filorusso dai mezzi d’informazioni occidentali, ha vinto le elezioni presidenziali ucraine. La Commissione elettorale centrale ha comunicato i risultati definitivi del turno di ballottaggio del 7 febbraio scorso assegnando a Yanukovich il 48,95 per cento dei voti e alla sua rivale Yulia Tymoshenko il 45,47. Nonostante le dichiarazioni dei rappresentanti dell’OSCE, secondo cui le elezioni in Ucraina si sono svolte «in modo trasparente» e nonostante gli exit poll che da subito hanno dato Yanukovich in vantaggio, il premier uscente Yulia Timoshenko, conosciuta anche come la «principessa del gas», non si è inizialmente arresa negando il risultato elettorale ed evocando, addirittura, l’intervento della piazza. La rivoluzione arancione, però, non vi è stata, oggi i nazionalisti ucraini non possono più contare, come nel 2004, sull’appoggio monetario statunitense e gli oligarchi favorevoli alla Timoshenko non possiedono patrimoni tali da finanziare rivolte, inoltre, anche gli oppositori di Yanukovich, sono stanchi del caos politico ed economico. La Timoshenko, peraltro un’affascinante signora di origini russo-armeno con un passato da business-woman nell’industria del gas e finita anche in manette nel 2001 con l’accusa di frode, non ha avuto alcun appoggio dai guerrieri arancioni. L’altro candidato, il Presidente uscente Viktor Yushenko, caro amico di George Bush e di Mikhail Saakashvili protagonista del movimento arancione di sei anni fa, è stato invece il vero outsider delle elezioni. Yushenko, infatti, ha riscosso soltanto il 5 per cento ed è stato supera(Continua da pagina 41)
ogni vicino una minaccia concreta alla propria sopravvivenza. Da qui la necessità di una nazione dominata dalla casta militare, una sorta di prussianesimo in salsa turca, perennemente vigile e pronta a scagliarsi contro chi trama per il suo smembramento, Armeni e Greci in primis. Da queste premesse si intuisce perché l’esercito turco è «la pietra angolare del nuovo Stato», mentre le istituzioni politiche, deboli ed inette, costituiscano in realtà un omaggio formale ai princìpi dello Stato di diritto. Un altro spunto estremamente interessante del libro di Taner Akcam, riguarda il rapporto tra religione e identità nazionale, che spiega anche il laicismo molto radicato nella società turca. Per il docente dell’Università del Minnesota, l’islamismo e il «mondo arabo» - si parla di vera e propria oppressione «religiosa e culturale» - avrebbero avuto un effetto determinante nella «perdita dell’identità turca». Un’identità, che la disperata «paura dell’annientamento», ha condotto a perpetrare prima e rimuovere poi, quello che deve esser considerato il primo genocidio del XX secolo.
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to al primo turno anche dal giovane manager Sergei Tigipko che ha ottenuto il 13 per cento dei voti senza pur presentare un programma politico concreto. Nel 2004, le proteste di piazza contro la vittoria elettorale di Viktor Yanukovich, che aveva superato in una prima votazione il suo rivale Yushenko, trovarono uniti i numerosi rappresentanti dell’opposizione. Gli avversari di Yanukovich, radunandosi quotidianamente nella piazza Meidan della capitale Kiev con le caratteristiche sciarpe color arancione, riuscirono ad ottenere l’annullamento delle elezioni e il ricorso a una nuova votazione che consacrò vincitore Yushenko. Secondo la Russia quei disordini rientrarono in un piano provocatorio sponsorizzato dagli Stati Uniti per allontanare l’Ucraina dalla Russia. All’epoca i rapporti tra la Russia di Putin e l’Occidente erano abbastanza gelidi. I mezzi d’informazioni occidentali definirono la rivolta arancione come una giusta protesta del popolo ucraino per affrancarsi dalla dipendenza «sovietica» e considerarono legittimo il desiderio «della giovane democrazia ucraina» di avvicinarsi all’Occidente e diventare parte dell’Unione Europea. Diversità di opinioni. La crisi economica mondiale ha spazzato via il «fascino arancione» sull’Occidente e i mezzi d’informazione europei e statunitensi parlano sempre di meno dell’«invadenza russa». Articoli come «L’Ucraina si sta movendo verso la bancarotta nazionale» del Wall Street Journal, apparso alla vigilia delle elezioni, ben caratterizza qual è, oggi, l’atteggiamento del business élite mondiale verso il Paese. I trentasette miliardi di dollari di debito estero il cui pagamento scade nel 2010, il 12 per cento di deficit del budget nel 2009, il pagamento del gas effettuato dall’Ucraina con denaro del FMI e l’uso di questo, secondo alcuni mezzi d’informazione russa, per le spese elettorali dell’ex Capo dello Stato preoccupano e irritano. Dall’inizio della crisi economica mondiale, la produzione in Ucraina è crollata del trenta per cento e la moneta nazionale, la grivna, si è svalutata del 60 per cento, sebbene la sua devalutazione sia ancora trattenuta dall’aiuto del FMI. Questa disastrosa situazione economica spinge sempre di più i cittadini ucraini verso l’estero, alla ricerca di un qualsiasi lavoro che garantisca la sopravvivenza. Dopo anni di regno arancione, l’Ucraina si ritrova più lontana dall’Europa e con rapporti logorati con la Russia. Le continue guerre del gas con furti di combustibile da parte ucraina, le minacce di espellere la flotta russa del Mar Nero dalla città di Sevastopol (la penisola della Crimea fu «donata» negli anni cinquanta all’Ucraina da Nikita Kruscev), il sostegno al Presidente georgiano Saakashvili nel conflitto con la Russia nell’agosto 2008, la proibizione della lingua russa nelle scuole e nelle sale cinematografiche (il russo è la madre lingua per almeno un terzo degli ucraini), l’asserito genocidio per fame negli anni trenta del popolo ucraino da parte dell’URSS e le celebrazioni di ex nazisti ucraini come Stepan Bandera hanno messo in serio pericolo i rapporti diplomatici con la Russia. Il neo-Presidente eletto Yanukovich vuole correre ai ripari e ha promesso nel suo programma elettorale la libera circolazione delle due lingue e rapporti più stretti con la Russia nel settore economico. Preoccupato, infatti, degli accordi tra la Russia e diversi Stati europei per la costruzione dei gasdotti alternativi «Corrente del Sud» e «Corrente del Nord», Yanukovich, per non far perdere all’Ucraina lo status di principale Paese trasportatore del combustibile blu russo, ripropone la realizzazione del
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«Consorzio Internazionale del Gas» relativo a un progetto tra Ucraina e Russia cancellato dall’ex Presidente Yushenko. Tale Consorzio prevedeva una partecipazione azionaria del 33,3 percento a testa del colosso russo Gazprom, di quello ucraino Naftogas e delle società europee. In questo modo, secondo Yanukovich, l’Ucraina potrà diminuire i prezzi d’acquisto del gas e modernizzare il sistema dei gasdotti. Il commento dei rappresentanti di Gazprom non si è fatto attendere: «Non ci sono motivi per cancellare i progetti di diversificazione di fornitura del gas». L’instabilità del Paese non assicura, infatti, sul futuro e i gasdotti durano molto di più del mandato di un Presidente. Certamente rimane il problema di chi assisterà l’Ucraina in questo difficile momento economico, la risposta sembrerebbe indicare la Russia, visto gli strettissimi rapporti economici tra i due Paesi e che un’iniezione di rubli russi nell’economia ucraina converrebbe tanto all’Occidente che alla Russia stessa, ma questa non rischierà facilmente il suo denaro data l’instabilità politica del Paese e l’ostilità dimostrata in passato. La Russia valuta Yanukovich con prudenza, il neo Presidente ucraino vuole dimostrarsi indipendente e sicuramente cercherà di apparire come un «bravo ragazzo» alla Russia, all’Europa e agli Stati Uniti. Per non alienarsi l’occidente non si azzarderà a riconoscere l’indipendenza dell’Abkhazia e Ossezia del Sud, ma anche non vorrà dispiacere alla vicina Russia e, se dovesse continuare a governare, alla scadenza del periodo di permanenza della flotta russa nel porto di Sevastopol, rinnoverà l’accordo. Il Presidente ucraino non è, comunque, un filorusso e non è una marionetta del Cremlino, cercherà di portare l’Ucraina fuori dalle «secche» in cui l’ha trascinata il suo predecessore. Oltre a rimediare alla situazione economica disastrosa, Viktor Yanukovich avrà il compito molto delicato di coinvolgere l’opposizione, giacché ha superato la sua rivale YuliaTimoshenko di solo un milione dei voti. L’Ucraina oggi ha bisogno di un leader forte, capace di conquistarsi l’appoggio sia delle regioni occidentali sia di quelle orientali del Paese che storicamente è stato regionalmente diviso e sotto l’influenza dell’Impero Russo, del Regno di Polonia e del Granducato di Lituania. In Russia si crede che Viktor Yanukovich, a differenza dal suo predecessore, non baserà la sua politica in antitesi al potente vicino, si auspicano, piuttosto, buoni rapporti tra i due Stati, i cui popoli oggi si respingono per colpa di cattive conduzioni politiche.
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LA SPAGNA ED IL PATTO ANTICRISI
SULL’ORLO del baratro di GIANPIERO DEL MONTE IL «PATTO anticrisi» anima la politica spagnola ma non si traduce in un accordo operativo efficace. Il Re è intervenuto in un’azione mediatrice che però è caduta in un vespaio di polemiche e di gelosie che investono soprattutto i principali partiti spagnoli. Dopo l’incontro del Sovrano coi rappresentanti sindacali di UGT e CC.OO i socialisti al governo hanno detto che l’iniziativa rientra nell’intento del Capo dello Stato di informarsi sulla situazione economica e sociale ma non va interpretato come uno stimolo al raggiungimento di un patto che spetta soltanto al governo perseguire. I popolari, pur apprezzando l’iniziativa del Re, hanno affermato che è necessaria una revisione integrale della politica governativa per conseguire un autentico patto di Stato. Zapatero ha dapprima smentito la crisi, poi ha detto che non riguardava gli Spagnoli, quando non l’ha potuta più negare l’ha accentuata con misure che hanno condotto la Spagna in coda ai Paesi sviluppati ed ora che non sa più cosa fare cerca di coinvolgere anche i partiti dell’opposizione «per affrontarla insieme». Nessuno ha più fiducia in lui, i sondaggi danno i socialisti al ribasso e i popolari in crescita e lui invita Rajoy a «responsabilizzarsi» in un’azione comune «davanti alla società spagnola». Ha tentato costantemente di isolare il PP, ha detto recentemente che era impossibile la collaborazione con il principale partito dell’opposizione per motivi ideologici, ed ora lo richiama. Rajoy non intende stare al gioco di chi non riesce più a governare e nella sua disfatta cerca di trascinare l’opposizione. Sottolinea di non essere insensibile ai problemi della società spagnola ma pone tre condizioni basilari: che Zapatero rettifichi a fondo la sua politica, che sciolga le Camere convocando nuove elezioni, che i socialisti stessi gli tolgano la fiducia che gli dettero nel 2008. Se Zapatero non è in grado di governare, se ne vada. Rajoy non vuole essere corresponsabile di una politica economica che ha prodotto 4,5 milioni di disoccupati. Se i socialisti hanno proposte valide, le presentino, dice, e il PP le appoggerà ma finora non l’hanno mai fatto. Ha evidenziato che il PP ha indicato sempre le sue proposte, puntualmente respinte dal governo. Zapatero dovrebbe ridurre le spese e non aumentare le imposte. Il «patto», così com’è, è un inganno per attrarre nel baratro anche il PP. Su questo sfondo si comincia a parlare di elezioni anticipate ed a pensare che per uscire dalla crisi occorra cambiare squadra e formarne un’altra dalle idee più chiare. Cominciano a correre anche voci di un cambio di governo a luglio quando sarà terminata la presidenza spagnola della UE. Zapatero non ha citato Celestino Corbacho, ministro del Lavoro dei 4,5 milioni di disoccupati né altri esponenti socialisti che sembravano andare per la maggiore fra coloro dei suoi che dovrebbero partecipare alla Commissione anticrisi fra tutte le forze politiche. Una decisione quest’ul-
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tima che non convince i popolari, orientati ad accettare soltanto una severa riforma strutturale del mondo del lavoro. I cittadini, dicono, vogliono un cambio e l’accordo deve servire per questo. Il PP non teme di rimanere solo rinnegando un possibile patto se il governo persiste in una condotta deleteria e questi movimenti sono soltanto una tattica senza contenuto per guadagnare tempo e coinvolgere le altre forze politiche nei problemi dell’ingovernabilità mostrando un’apparente apertura al dialogo che nasconde una sostanziale ipocrisia. Intanto Zapatero insiste sull’aumento dell’IVA che secondo gli esperti europei provocherà una nuova accentuazione della crisi nella prossima estate. Ed il «patto», in questo quadro desolante, appare aleatorio e privo di sviluppi concreti ed incisivi. La società spagnola è lacerata ed in preda alle discordie mentre fra la gente cresce la sfiducia nei politici. È venuto meno quello spirito della Transizione che aveva permesso alla Spagna del dopo-Franco di crescere ed inserirsi con successo nell’Europa. Zapatero ha diffuso il settarismo facendo saltare tutte le alleanze e stimolando la faziosità ed il contrasto frontale, ha demolito quei valori di coesione che avevano permesso il raggiungimento di una situazione sociale ed economica più solida. Quella Transizione che aveva consentito il superamento delle vecchie divisioni fra gli schieramenti della guerra civile, per lui non aveva portato tutti i chiarimenti ed ha voluto riprendere quella rivalità per cui adesso si vede nell’avversario il nemico da abbattere. La ripresa può fondarsi soltanto sul ritrovamento di uno spirito comune che permetta lo sviluppo di condizioni sociali più efficienti, al di là delle rivalità fra i partiti e dei pregiudizi ideologici. Il dialogo richiede la rinuncia a qualcosa fra gli interlocutori ma occorre cambiare mentalità e non credere che «rinuncia» significhi «sconfitta». È necessaria una disponibilità al sacrificio che appare carente in questa Spagna divisa e discorde. Veramente l’iniziativa migliore è quella del Re che cerca di tessere un filo di unione ma se non viene raccolta e compresa, dal buio del tunnel non si uscirà facilmente. La questione è morale e non soltanto economica. Il Paese appare smembrato. Le spese delle varie autonomie stanno diventando insostenibili con sperperi ad ogni livello e in ogni settore. Bisognerebbe riportare allo Stato centrale tante funzioni delegate che le autonomie non sanno più gestire. C’è un’esigenza di razionalizzazione che va raccolta per ritrovare l’unità smarrita. Ci vuole una maturazione sociale che investa ogni singolo individuo per contribuire al bene di tutti. Le beghe politiche ormai non interessano più i cittadini che vedono la disoccupazione, le tasse, la crisi ma non ci si deve nemmeno aspettare delle soluzioni che calino sempre dall’alto ed ognuno deve cercare di ingegnarsi nel fare il possibile ogni giorno combattendo lo scoraggiamento e adattandosi a condizioni di vita più dimesse nella prospettiva di una ripresa che dovrà comunque scaturire da questi atteggiamenti. Non è retorica ma la dura realtà delle cose. Se si va al fondo del discorso, dal punto di vista politico, è difficile che un partito, al governo o all’opposizione, dica esplicitamente e compiutamente tutto quel che occorre fare. Si dovrebbe parlare di blocco e abbassamento dei salari, di maggiore rigidezza del tenore di vita, di meno sussidi, più tasse e pensioni ritoccate. Quale forza politica ha il coraggio di dirlo apertamente, senza peli sulla lingua? Gli Spagnoli devono capirlo da soli ed assumersi le responsabilità relative. Sono disponibili a farlo?
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«GOLPE» STRISCIANTE NELLO SRI LANKA
SCENDERE dalla Tigre di FRANCESCO TORTORA COVA il fuoco sotto la cenere nello Sri Lanka. Il punto di non ritorno sembrerebbe essere stato l’arresto del generale Sarath Fonseka, avvenuto l’8 febbraio scorso, definito dai numerosi testimoni presenti, come un atto estremamente brutale nei metodi ed oltraggioso nei confronti di un vero e proprio eroe nazionale, un uomo carico di grande onore conquistato sul campo. Ma questo era esattamente l’intento di Mahinda Rajapaksa, rieletto alla fine di gennaio 2009 Presidente per un secondo mandato e che nell’ultima tornata elettorale ha sconfitto il suo avversario identificato proprio nel generale Fonseka, con il consueto corredo di numerosi sospetti circa i brogli elettorali. Il 27 gennaio 2010 l’ex generale Fonseka s’è trovato l’albergo Cinnamon Lakeside Hotel di Colombo dove risiedeva, attorniato da soldati del’Esercito cingalese, ha chiesto anche l’intervento protettivo di una qualche Nazione «vicina» allo Sri Lanka. Nessuna risposta. L’ex generale, eroe nazionale cingalese, s’è ritrovato completamente isolato. Non appena i conteggi delle schede sono stati completati Mahinda Rajapaksa ha proceduto all’arresto ed alla sua vera e propria deportazione in località segreta. L’accusa era alquanto fittizia. Fonseka tramava contro il Governo eletto ed in carica ed ha commesso atti fraudolenti. Dell’arresto e della connessa aggressione al generale Fonseka son filtrate pochissime foto nel sistema mediatico delle agenzie internazionali, altrettanto poche fotografie delle sommosse e delle manifestazioni dei giorni successivi sono state pubblicate, alcune sono visibili soprattutto via Web ma molte son già state rimosse. La moglie del generale Fonseka ha chiesto il supporto della Croce Rossa Internazionale e soprattutto che fossero somministrate le medicine che l’ex generale oggi a riposo assume quotidianamente. L’ONU si è detta «preoccupata» per le vicende svoltesi a Colombo, la Capitale dello Sri Lanka. Ora si assiste ad una progressiva trasformazione della forma repubblicana verso la dittatura militare, sebbene sanzionata dagli esiti delle elezioni presidenziali. Il giorno 9 febbraio il Presidente in carica Mahinda Rajapaksa nel frattempo ha sciolto il Parlamento per spianare la strada verso quelle che tutti ormai ritengono saranno elezioni legislative «addomesticate», le quali, secondo osservatori cingalesi, dovrebbero svolgersi intorno all’8 aprile 2010. Fonseka e Rajapaksa erano fortemente identificati l’un nell’altro nell’idea di abbattere le Tigri Tamil per sempre, in particolar modo tra il 2008 ed il 2009, uno scopo voluto strenuamente dallo stesso Rajapaksa. Un attacco potente e congiunto finalizzato a fare tabula rasa dei ribelli separatisti Tamil una volta per sempre. Fonseka però non approvava il metodo di Rajapaksa, brutale, definitivo, distruttivo, con contorno di esecuzioni sommarie, in specie dei leaders dei ribelli Tamil. Non si conoscono bene i contorni, ad esempio, della uccisione, se in battaglia o meno, del Capo dell’ex
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forza navale dei ribelli Tamil - le Tigri dei Mari - M. Soosai e del Capo dei Servizi di Informazione delle Tigri di Liberazione dell’Eelam Tamil (Ltte), Pottu Amman, i quali si è affermato siano stati uccisi mentre tentavano di fuggire insieme al capo delle Tigri Velupillai Prabhakaran. Insomma è come se Rajapaksa avesse voluto bruciare e cospargere di sale i luoghi dove i Tamil hanno vissuto ed operato fino a poco tempo prima. Alla fine della spedizione punitiva, i Generali Fonseka e Rajapaksa si separano in modo astioso. Entrambi hanno cercato di sfruttare a fini elettorali la gloria accumulata nel corso di quelle operazioni militari, i metodi machiavellici di Rajapaksa però hanno avuto il prevalere nelle urne e probabilmente con il buon viatico dei brogli lo hanno condotto a raggiungere la posizione di Presidente. L’ex generale Fonseka aveva paventato di denunciare tutto in merito ai brogli elettorali. Mal gliene incolse. Dopo di che è partita l’epurazione, prima isolando, identificando ed estromettendo tutti i vertici militari in odore di simpatie verso l’ex generale Fonseka, infine arrestando brutalmente l’ex generale Fonseka in persona. Le opposizioni non hanno più voce, la lunga catena di arresti ed epurazioni non ha fine, la figlia dell’ex Generale Sarath Fonseka ha aperto un profilo su Facebook e raccoglie adesioni, la Comunità cingalese diffusa in tutto il Mondo si cerca e si incontra nella Community virtuale, cerca di raccogliere informazioni e di renderle note per quel che poco che riesce a filtrare dalla Madrepatria ed i sparutissimi corrispondenti delle agenzie stampa internazionali. Tutto è censurato, paludato, fuorviato, nascosto. Ad esempio, il 30 gennaio 2010 le autorità dello Sri Lanka hanno chiuso l’ufficio di Colombo del settimanale cingalese Lanka, vicino al partito d’opposizione JVP. Il direttore della pubblicazione del giornale, Chandana Sirimalwatte, era stato arrestato alla vigilia e posto sotto sorveglianza a vista presso il Reparto investigativo penale. Successivamente gli uffici del sito d’informazione Lanka e news sono stati accerchiati dalla polizia. Il 31 gennaio, le autorità hanno revocato l’ordine di espulsione della giornalista svizzera Karin Wenger, la quale in fondo aveva fatto soltanto il suo mestiere di giornalista critica verso quello cui stava assistendo e realizzando un servizio sull’elezione presidenziale per la radio pubblica svizzera DRS. In base all’AFP, un portavoce del governo ha spiegato che «informazioni false» avevano indotto le autorità all’espulsione. La giornalista aveva però ricevuto una lettera dall’ufficio immigrazione, in cui era invitata a lasciare lo Sri Lanka entro e non oltre il 1° febbraio. Il mondo dei media, in ogni caso, è sotto scacco. Poco è passato, ad esempio, circa un corteo silenzioso degli avvocati tenutosi il 12 febbraio 2010 dopo tre giorni di proteste tenutesi nelle strade della Capitale Colombo per chiedere l’immediata liberazione di Fonseka. Lo scopo principale del Presidente Mahinda Rajapaksa è quello di conquistare la maggioranza assoluta, non vuole impedimenti ed opposizioni tra i piedi. Lo scontro tra Fonseka e Rajapaksa però è anche uno scontro di idee, di punti di vista, di prospettive politiche. Le divergenze di vedute sono nate a causa dell’azione militare condotta in modo pesante ed aggressivo, nello stile di Rajapaksa ma successivamente si sono estese anche a settori differenti come, appunto, la diversa idea di Stato dei due esponenti militari prima, politici poi. La data del 18 maggio 2009 è diventata il giorno della sconfitta definitiva delle Tigri per la Liberazione della Patria Tamil (acronimo del movimento politico LTTE) ponendo fine ad una sanguinosissima guerra civile durata ventisei anni, costellata da atti di guerriglia ed azioni
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militari sanguinosissime persino in tempi recenti, come accadde il 3 marzo 2009 quando la Nazionale di cricket dello Sri lanka avrebbe dovuto incontrare in un incontro amichevole la Nazionale di cricket del Pakistan a Lahore. Gli esiti sono stati drammatici: il pullman della Nazionale di cricket dello Sri Lanka è stato assaltato da un commando di uomini armati. Dodici persone, a volto coperto, hanno attaccato il mezzo a colpi di kalashnikov, granate e autobomba. Sei agenti di scorta del team e due passanti sono morti. Tra i feriti sei giocatori cingalesi e l’aiuto allenatore, il britannico Paul Farbrace. Quest’ultimo è stato ricoverato in ospedale insieme al giocatore Thilan Samaraweera. «Sono gli stessi terroristi che hanno attaccato la nazionale indiana a Mumbai», commentò a caldo il governatore della provincia del Punjap, Salman Taseer, «stiamo parlando di criminali addestrati, non di gente comune. Il tipo di armi a disposizione, il modo in cui hanno agito fanno ovviamente intendere che erano addestrati all’azione». Ma le Tigri Tamil non furono direttamente accusate dell’attentato. Che si trattasse di un’alleanza sinergica con frange fondamentaliste alqaediste non lo si può ancor oggi confermare. Ma i metodi applicati dall’Esercito cingalese non sono stati da meno: bombardamenti indiscriminati, senza tenere conto della folta componente civile inerme, battezzata come «scudo umano utilizzato dalle Tigri Tamil per difendersi» nella fuga ed in assoluto spregio alle richieste e raccomandazioni giunte da varie sedi governative nel Mondo e dall’ONU. Intanto, sulle teste dei civili sono giunte le bombe sia degli aerei dell’Esercito di Colombo, i famigerati caccia Kfir (prodotti in Israele) sia degli aerei delle Tigri Tamil, unica forza ribelle separatista al Mondo dotata di aerei. Come accennato, dopo la fine dei combattimenti e la distruzione totale della componente paramilitare delle forze indipendentiste delle Tigri Tamil dell’LTTE si procede ad elezioni. Il Parlamento viene sciolto ma sotto gli occhi di tutti in Sri Lanka ben cinque Ministri del precedente Governo restano in carica in identica posizione anche nel Governo del Presidente Rajapaksa e vengono anche pesantemente scortati dalla Guardia Presidenziale, tra di essi persino Karuna Amman, ritenuto da molti osservatori locali il mandante dell’assassinio di Rajiv Ghandi, in India. Nel Governo del Presidente cingalese Rajapaksa vi è anche il fratellastro Gotabhaya Rajapksa, vissuto in precedenza per 15 anni negli Stati Uniti, ben lontano dalla vita della sua Madrepatria, dedito al suo lavoro nel settore dell’informatica. Su tutto questo Rajapaksa pone anche la corona delle visite all’estero presso Governi «amici» e la rete intessuta con leader governativi alquanto discutibili, come nel caso del Myanmar, nel caso del Ministro degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese, nel caso di esponenti governativi del Pakistan, dell’India il cui ruolo non è mai stato ben decifrato finora nelle vicende di Colombo, così come il Presidente Rajapksa ha recentemente incontrato i vertici del colosso russo del gas Gazprom per discutere di semplici ed evidenti affari. Il 22 marzo 2010 si è svolta a Milano una manifestazione della Comunità Cingalese volta a richiedere l’immediato rilascio dell’ex generale Fonseka ed il suo pronto ritorno alla vita sociale e politica attiva nello Sri Lanka. Ma si può essere relativamente certi che da quest’orecchio il Presidente in carica Rajapksa ci sentirà poco e continuerà a negarsi a visite o richieste per ottenere incontri ufficiali che gli stanno pervenendo da tutto il Mondo. Intanto, il progressivo e duro golpe militare strisciante cingalese continua nel silenzio degli ipocriti, il silenzio dei media internazionali. In primis nel silenzio dei media italiani.
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LA VOCE DEI LETTORI Destra e sinistra Solo dal 1994, con la discesa in campo di Berlusconi, la Destra ha riacquistato piena dignità ed agibilità politica. Nei 50 anni precedenti, dopo la caduta del fascismo, nessuno in Italia, all’infuori del MSI e dei Monarchici, aveva il coraggio di dichiararsi di destra. Lo stesso Partito Liberale si era sempre rifiutato di far parte della «Grande Destra» proposta da missini e monarchici sostenendo che i liberali non erano di destra. Alla prima seduta dell’Assemblea Costituente del 1946 i banchi di destra della Camera dei Deputati rimasero deserti perché tutti i nuovi deputati eletti si precipitarono ad occupare i banchi del centro e della sinistra; alla fine soltanto i deputati dell’Uomo Qualunque, in segno di provocazione e sfida, si sedettero sui banchi di destra. Quindi per 50 anni in Italia, anche a causa dell’egemonia politicoculturale esercitata dai partiti di sinistra, destra è stato sinonimo di «male» e sinistra di «bene». Ma non è stato sempre così. Nei secoli precedenti «destra» è stato un termine positivo e «sinistra» è stato un termine negativo. Anche oggi nel linguaggio corrente, il termine destra richiama le parole «destrezza (grande abilità), dirittura (uomo di alta dirittura morale), rettitudine, addestrare (ammaestrare, allenare)» che hanno tutte una valenza estremamente positiva, mentre il termine sinistro, sia come sostantivo (è accaduto un sinistro) che come aggettivo (è un tipo sinistro, ha uno sguardo sinistro quindi truce, bieco, minaccioso), ha valenza grandemente negativa; neg a t i v o è a n c h e i l t e r mi n e «sinistrato» (paese sinistrato dal terremoto), come lo è il termine «manca» cioè la parte sinistra che è la parte più debole; infatti «destro» è il braccio attivo della spada e della lancia, cioè dell’attacco, mentre «sinistro» è il braccio passivo dello scudo, cioè della difesa. Negativo poi è il termine «maldestro», che è quindi non destro e significa goffo, sbadato, impacciato.
Offrire il destro significa invece dare una occasione favorevole. Inoltre da «destra» deriva il termine «diritto» che è il fondamento di ogni civiltà. In tutte le lingue «destra» e diritto si traducono allo stesso modo: «droit» in francese, «right» in inglese, «recht» in tedesco, «derecho» in spagnolo e «direito» in portoghese. Nei tribunali anglosassoni si giura tenendo la mano destra sulla Bibbia. Quando ad una persona si vuole riconoscere una posizione importante si dice «dare la destra a» oppure «è il braccio destro di»; nella più importante preghiera cristiana, il «Credo», Gesù Cristo, morto, sepolto e resuscitato, «salì al cielo e siede alla "destra" del Padre»; sul Calvario dei due ladroni crocifissi accanto a Gesù, quello di destra si pente e salirà al Cielo mentre quello di sinistra sarà per sempre dannato. Nel Vangelo, Matteo versetti 3142, è scritto: «Quando il Figlio dell’uomo si siederà sul trono della sua gloria, saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno»; «Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno». Ma anche nel mondo pagano, greco e romano, le anime dei morti, giunte nell’Ade, si trovavano di fronte ad un bivio: una stretta via a destra per i buoni ed una larga via a sinistra per i cattivi. A loro volta gli stregoni africani esercitano le azioni sacre con la mano destra, preparano veleni e malefici con la mano sinistra, mentre sempre presso gli antichi greci per gli indovini i segni celesti per essere propizi dovevano apparire ad oriente, cioè a destra. Nella cultura islamica la Pietra Nera della Mecca è definita «la mano destra di Allah sulla terra» e nel Corano «gli eletti sono alla destra del signore e i dannati alla sua sinistra». Anche nell’arte «destra» è stato sempre un luogo sacrale: nei Giudizi Universali di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, di Michelangelo nella Cappella Sistina a Roma e di Nicola Pisano nel Pulpito del Bat-
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tistero di Pisa, a destra ci sono i beati che saliranno nel Regno dei Cieli e a sinistra i dannati che precipiteranno all’inferno. Nella letteratura latina vari autori usano il termine destra in modo altamente positivo. Virgilio: «iungere dextras» (darsi la mano in segno di amicizia); Cicerone: «dextram porrigere» (recare aiuto); Tacito: «dextras renovare» (rinnovare l’alleanza); Ovidio: «scripti dexter in omne genus» (abile in ogni genere letterario); frasi tutte che simboleggiano solenni promesse di devozione, di fedeltà, di alleanza. A sua volta Petrarca nel suo «Canzoniere» scrive «quel sol che mi mostrava il camin destro» (cioè la via propizia), oppure «ch’è bel morire mentre la vita è destra», mentre Dante, com’è universalmente conosciuto, inizia la sua Commedia così: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via (la via giusta cioè) era smarrita». A livello politico la distinzione tra destra e sinistra appare nel sistema parlamentare inglese dove, alla camera dei comuni, i deputati siedono su file di banchi contrapposte che si trovano a destra e a sinistra del Presidente (speaker). E poiché a destra sedevano i tory, rappresentanti della tradizione e della conservazione e a sinistra i whigs, che poi si chiamarono liberali/ laburisti, tale contrapposizione dette inizio alla differenza che ancora oggi esiste tra conservatori e progressisti. Fu però in Francia nel 1789, allorché si riunirono gli Stati Generali, che la contrapposizione fra destra e sinistra risultò ufficializzata. Dei rappresentanti del Terzo Stato quelli conservatori, capeggiati da Malouet, si schierarono alla destra del presidente, mentre quelli radicali di Mirabeau si collocarono alla sua sinistra. Questa separazione rimase costante in tutte le assemblee dei parlamenti successivi in Francia e nel mondo, anche se la distinzione ufficiale dei due termini al livello politico-filosofico avvenne nel 1837 a cura di D.F. Strauss (l’autore della «Vita di Gesù») che si qualificò come capofila della «sinistra hegeliana» in contrapposizione alla «destra hegeliana». L’Italia dopo il raggiungimento dell’unità fu governata dal 1861 al 1876 dalla «Destra Storica», lo schieramento politico che si distinse per il rigore e la correttezza in campo istituzionale, amministrativo e fiscale.
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La «Sinistra» che subentrò successivamente si ricorda soprattutto per il «trasformismo» di Depretis e per la «disinvoltura» amministrativa di Crispi ed anche di Giolitti (scandalo della «Banca Romana»). Nei decenni successivi il fascismo ed il nazismo, qualificati come movimenti di destra, con le rovine prodotte nella seconda guerra mondiale, travolsero con loro anche il concetto ed i princìpi di destra. Sono dovuti trascorrere 50 anni perché la destra riacquistasse in Italia, ma anche nel mondo, l’importanza e la dignità che ha avuto per millenni. NAZZARENO CAPPELLI
Legge sulla sicurezza e sulla immigrazione clandestina La legge sulla sicurezza, che ha introdotto il reato d’immigrazione clandestina e istituito le «ronde» (ex appartenenti alle Forze Armate) per collaborare con le Forze dell’Ordine nel prevenire eventuali atti delittuosi, ha suscitato critiche dell’opposizione e degli ambienti ecclesiastici. Finanche le «perplessità» del Presidente della Repubblica Napolitano, il quale, in ogni caso ha promulgato la legge, con una lettera al Presidente del Consiglio ed ai Presidenti di Camera e Senato, non tenendo conto dell’estremismo verbale e politico dell’On. Di Pietro, ex componente del pool «Mani Pulite» di Milano. L’opposizione dei postcomunisti, dipietristi e sinistri estremisti, fondandosi sul versante dell’antiberlusconismo e delle posizioni giustizialiste e giacobine, nonché sul massimalismo e sulla demagogia permanente, non trova un solo provvedimento proposto dal centrodestra che non sia «pericoloso, anticostituzionale, eversivo». La sinistra continua a difendere l’immigrazione anche clandestina, riversando sugli italiani (amati meno degli immigrati) i reati commessi dai vari Rumeni, Albanesi, Marocchini, ecc. come stupri, rapine, aggressioni, omicidi, furti ed altri reati contro la persona e contro i beni pubblici e privati. Un partito preso dei sinistri che trova «alleati» nella pietas di alcune gerarchie cattoliche e nelle toghe rosse, che sovente liberano
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IL BORGHESE dalla galera i delinquenti stranieri regolari e soprattutto clandestini. Riteniamo positiva la reazione del Governo Berlusconi di tener conto dei suggerimenti del Capo dello Stato, con la regolarizzazione in sanatoria di colf e badanti. L’opposizione sinistra peraltro contesta la legge Maroni ed accusa la Lega di condizionare il Governo sull’ordine pubblico e sulle riforme. In proposito bisogna fare qualche riflessione: 1 – È assodato che la Lega di Bossi tiene conto delle reali esigenze dei cittadini, perciò ha il sostegno e l’incoraggiamento di settori popolari già di area sinistrorsa; 2 - La popolazione, preoccupata dei continui reati di stupro, scippi, rapine, investimento d’innocenti cittadini da parte di ubriachi o delinquenti al volante di automobili, (reati per lo più consumati da immigrati irregolari) reclama provvedimenti diversi dal lassismo, buonismo e permissivismo mostrato - come sopra detto - con la scarcerazione degli autori dei reati prima descritti. Gli Italiani, in ogni caso, non condividono che il nostro Paese (con l’assenza assordante dell’Europa comunitaria) debba farsi carico dell’accoglienza di flotte d’immigrati (senza respingimenti di sorta) provenienti dal continente africano ed anche da Paesi dell’est europeo. L’immigrazione regolare è certamente una risorsa, ma non si è razzisti
o xenofobi, come vuole far credere una certa pubblicistica demagogica e distruttiva, se si pretende che gli immigrati regolarizzino la loro posizione e rispettino le nostre leggi e le nostre tradizioni, compresa la religione cristiana. Sbagliano pertanto quanti fanno l’accostamento ai nostri emigranti del tempo passato, perché gli Italiani sono andanti all’estero sempre e soltanto per lavorare rispettando le leggi, le tradizioni e la religione dei Paesi di destinazione. La sinistra riformista (se esiste) prenda atto che la gente ha paura di non poter circolare liberamente senza diventare vittime di delinquenti, come appunto quelli di Romania o d’Albania, che nei loro Paesi vengono incarcerati, mentre in Italia hanno moltissima comprensione ed ospitalità (anche quando sono colti in fragranza di reato). Cosa dire, infine, della continua «occupazione» (giovani, ragazze, madri con bambini ed adulti, dediti all’accattonaggio) di spazi pubblici nei pressi di semafori, chiese, supermercati e vie principali di paesi e città? Sindaci, forze dell’ordine e pubblici ministeri perché non eliminano l’accattonaggio, proibito dalla legge, non consentendo - tra l’altro che speculatori mafiosi organizzino l’accattonaggio sfruttando immigrati extracomunitari e clandestini? SANTE CASELLA
LE CONFESSIONI DI ACHILLE (Giuliano Nistri, «il Borghese» 14 giugno 1992)
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TERZA PAGINA PIO FILIPPANI RONCONI, A DUE MESI DALLA MORTE
Il privilegio di essere nato Romano Ricordo di un grande orientalista ed orientatore di ALFONSO PISCITELLI PIO FILIPPANI-RONCONI ha congiunto nella sua straordinaria esistenza la ricerca scientifica sulle tradizioni d’Oriente con la ricerca interiore di una via spirituale valida per l’uomo occidentale moderno. Per coloro che lo hanno conosciuto come professore universitario dell’Università Orientale di Napoli egli era l’accademico molto particolare che parlava correntemente decine di lingue, vive e morte; che ha lasciato splendide traduzioni dei Discorsi del Buddha o delle Upanishad, il capolavoro metafisico dell’India. Filippani aveva la capacità di cogliere attraverso la lingua lo spirito di un popolo e di una civiltà. La sua competenza scientifica copriva il vasto arco delle civiltà dell’Asia e lo rendeva esperto dei particolari anche minimi delle culture dell’India, della Cina, della Persia. Tuttavia chi conversava con lui si accorgeva che Filippani tendeva a restituire all’ascoltatore la visione di un mondo più vasto ed arcano: un mondo che abbracciava Oriente e Occidente, i Misteri di Eleusi e i culti indù. Attraverso l’etimologia, attraverso l’analogia degli insegnamenti mistici, Filippani-Ronconi ricostruiva la grande unità originaria dei popoli indoeuropei, seguendo il percorso intellettuale di Dumezil, ma anche di Eliade, ed altri storici delle religioni comparate del Novecento. Tuttavia, a differenza di altri esperti di tradizioni spirituali, Filippani era ben poco «arcaicizzante». A coloro che lo interpellavano, trasmetteva un ottimismo di fondo sulle sorti metafisiche dell’uomo. Gli Dèi antichi si sono velati, le tradizioni religiose lentamente si diradano nell’impatto con la modernità, ma l’uomo occidentale può ugualmente trovare la sua via spirituale. Senza rinunciare alle caratteristiche fondamentali della sua coscienza: il pensiero
lucido di veglia, l’attaccamento alla concretezza sensibile. Questo era il punto di partenza del messaggio spirituale di Filippani, un messaggio che si intrecciava con le suggestioni esoteriche di inizio Novecento: le dottrine teosofiche sorte a cavallo tra l’Inghilterra e l’India, e ancor di più la dottrina dell’austriaco Rudolf Steiner, e dei suoi continuatori italiani: Giovanni Colazza, Massimo Scaligero. «Due sono i massimi maestri dell’umanità», mi disse un giorno, «il Buddha e Zarathustra. Buddha perché insegna a liberare la mente, Zarathustra perché insegna ad amare la terra». Raccogliendo echi di antiche dottrine indù e buddhiste, perpetuando anche gli insegnamenti esoterici che in Italia erano stati affermati dal misterioso «Gruppo di Ur», Filippani proponeva una disciplina interiore volta da un lato a sviluppare la lucidità, la concentrazione, la consequenzialità del pensiero; dall’altro ad ampliare la percezione del mondo. Nel mondo stesso che ci circonda attraverso un esercizio continuo di presenza cosciente si possono cogliere i simboli di una realtà spirituale assoluta. Come si vede quello di Filippani è uno «yoga» ben diverso da quello di improvvisati maestri che spingono i loro discepoli ad «estinguere il pensiero» (che è poi lo stesso effetto di una visione prolungata del «Grande Fratello»…) e ad abbandonare la vita del mondo. Seguendo i due impulsi di Buddha e Zarathustra (liberare la mente/amare la terra) Filippani-Ronconi ha delineato una concezione spirituale venata di robusta, virile eticità. Gli uomini nascono in un luogo preciso, in un tempo preciso per compiere una precisione missione. Essi dunque devono amare la loro radice terrena e compiere fino in fondo il loro dovere: quel-
lo che gli indù chiamavano il Dharma, e che per i Romani era l’officium: il dovere personale del cittadino. Lui fu sempre orgoglioso di esser nato italiano e romano, al di là di tutte le sfumature cosmopolite e anche esotiche della sua personalità. Per l’Italia combatté con estremo coraggio e in posizione scomoda, difendendo la linea di Nettuno dall’avanzata degli Americani. Quando gli fu concessa, all’epoca del ministro di sinistra Berlinguer, la laurea honoris causa in filosofia della politica all’università di Trieste, dopo aver ascoltato l’Elogium, pronunciato secondo tradizione accademica in latino, rispose ugualmente in latino con poche e bellissime frasi: «Per le lodi immeritate, che ora mi tributate, vi rendo grazie. Sono stupito tuttavia perché sono lodato per aver fatto il mio dovere (meum officium). Sia in pace che in guerra, ho compiuto il mio dovere, offrendo alla Patria il giusto risarcimento per il privilegio che ho avuto di esser nato romano» (solvens patriae quod debebam ob privilegium nascendi romanus). Chi lo ha conosciuto ha avuto di lui una impressione splendida, la stessa impressione che trapela da queste misurate parole: un autentico patrizio romano. Pio Filippani è morto nell’ora meridiana dell’11 febbraio. Il giorno dopo Roma si è ricoperta di candida neve, di una luce bianchissima come quella che secondo il Libro Tibetano dei Morti, a lui assai caro, avvolge il defunto il secondo giorno dopo il trapasso. Il 13 febbraio, in una giornata di Sole meravigliosa, ha ricevuto la benedizione funebre secondo il rito russo-ortodosso. Le sue spoglie mortali giacciono al cimitero del Verano. La sua presenza spirituale è più vicina che mai in coloro che ebbero la straordinaria ventura di conoscerlo in vita.
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INTERVISTA ALL’ONOREVOLE OLIMPIA TARZIA
Un «tagliando» alla legge sull’aborto? A cura di GIUSEPPE BRIENZA NON tutti i politici italiani appartengono alla categoria degli improvvisati, egodistonici, mestieranti o approfittatori del potere pubblico per fini privati. La storia personale di Olimpia Tarzia, madre di tre figli, biologa e, fin dal 1977, impegnata nel volontariato e nell’associazionismo sociale (attualmente è responsabile della WWALF, World Women’s Alliance for Life & Family e vice-Presidente nazionale della Confederazione Italiana Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana), ne dimostra la profonda diversità dai colleghi che, ad esempio, incontrò nel 2000, al suo primo mandato elettorale, nel Consiglio Regionale del Lazio. È stata infatti nei cinque anni di giunta Storace consigliere regionale dell’allora Ccd e presidente della Commissione politiche familiari e dell’Osservatorio regionale delle famiglie nel Consiglio regionale del Lazio, scrivendo in pratica la legge sulla famiglia della Regione, che prevede il quoziente familiare, l’istituzione dei nidifamiglia condominiali e il riconoscimento di un forte ruolo all’associazionismo familiare. Uscita dal partito di Pierferdinando Casini, nel 2008 ha «provocato» la politica italiana con la lista al Senato di Giuliano Ferrara Aborto? No, grazie in cui è stata, senza successo, capolista in diverse Regioni. Si è quindi candidata nella lista civica Polverini per le regionali nel Lazio, perché? «Quando si è prospettata la candidatura di Renata Polverini alla Presidenza della Regione Lazio per la Pdl, Renata mi ha chiesto disponibilità a candidarmi nella sua Lista civica ed affiancarla in quest’avventura. Ho accettato con convinzione la sua proposta, particolarmente significativa, per quanto mi riguarda, per il fatto che la candidata concorrente per il PD sarebbe stata Emma Boni-
no, le cui idee e, soprattutto, i valori etici, e ancor prima, la stessa concezione antropologica di cui è portatrice (e su cui è impegnata da anni e che non rinnega in alcun modo) sono esattamente agli antipodi delle mie convinzioni e rappresentano tesi culturali e azioni concrete contro le quali combatto da trent’anni». Eppure alle elezioni del Comune di Roma del 2006 appoggiò pubblicamente un candidato che si era presentato nella lista civica di Veltroni… «Fu un errore che non ripeterei, anche se non muta il mio giudizio su Valerio Vicari, che allora appoggiai perché aveva 26 anni, era referente giovani del Movimento per la vita romano ed è stato mio validissimo capo segreteria nell’ultimo periodo di presidenza della Commissione consiliare per le politiche familiari durante la Giunta Storace. Veltroni, che, con tutta l’area politica progressista si è rivelato, particolarmente con l’imbarco dei radicali nelle politiche del 2008, un veicolo del relativismo e della cultura anti-vita in Italia, mi chiese allora di candidarmi nella sua lista civica al Comune, nella quale figuravano già altri esponenti del mondo cattolico romano. Rifiutai, ma non volli impedire un aiuto a chi pensava che, nel suo pantheon, ci fosse spazio da conquistare faticosamente per tentare di “ridurre i danni”, qualora eletto in Campidoglio come sembrava scontato, che sarebbero provenuti dalle componenti più laiciste e di sinistra che lo appoggiavano». Nicoletta Tiliacos su «Il Foglio» del 6 febbraio scorso ha riportato le conclusioni di un recente rapporto dell’«Igas», «Inspection général des affaires sociales», organismo dipendente dal ministero della Salute francese, nel quale si prende
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atto che la diffusione della contraccezione di massa non ha fatto diminuire il numero degli aborti in Francia, che si mantiene sui duecentomila circa l’anno. Anche in Italia l’aborto è diventato un mezzo di contraccezione? «Da noi si sta lentamente ma progressivamente verificando quanto vale già nel resto dell’Occidente individualistico e libertario. Se nel passato il non valere, l’insignificanza era caratteristica degli estranei alla tribù, degli stranieri, poi degli schiavi, poi dei negri, poi degli ebrei, etc. Oggi la grande questione si pone dinanzi all’uomo allo stato più debole, cioè iniziale o finale della sua vita. Se dell’embrione in provetta si può fare ciò che si vuole, se malattia e handicap appaiono sempre più estranei ad una società che premia solo il successo e la produttività, se la maternità è negata, se il figlio viene rappresentato come un peso, un limite ai propri programmi di carriera, sorge inevitabile la domanda: che ruolo gioca la dignità anonima di ogni essere umano, dal morente, al malato, al vecchio, al disabile, all’embrione in provetta, al bambino non ancora nato? Dall’approvazione della legge italiana sull’aborto del bambino non nato non si deve più assolutamente parlare, neppure in modo indiretto. L’offerta di alternativa e il colloquio che dovrebbero esserci nei consultori prima di autorizzare la cosiddetta “i.v.g.” non devono assolutamente essere considerati strumenti di prevenzione perché essi in qualche modo parlano del bambino che, a seconda della scelta, vivrà o morrà. L’unica prevenzione possi-
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Aprile 2010 bile, in questo contesto culturale, resta evitare il concepimento. Di qui l’enfasi sulla contraccezione, che viene tragicamente spacciata anche in quei casi in cui è invece strumento di aborto "chimicizzato" e "pillolizzato"». Negli ultimi anni si parla di un «tagliando» alla legge sull’aborto, che ne pensa? «Avevo vent’anni quando, insieme ad altri giovani appartenenti a diversi movimenti ed associazioni, partecipai ad un sit-in per la vita contro il disegno di legge sull’aborto allora in votazione in Senato (quella famigerata legge 194 emanata poi il 22 maggio 1978). Eravamo convinti che una legge così ingiusta non sarebbe mai stata approvata. Col passare delle ore le notizie che ci pervenivano dall’Aula erano sempre meno rassicuranti e poi successe quello che successe. Fondai quindi con altri il Movimento per la vita italiano: ad oggi: 600 tra centri di aiuto alla vita e movimenti locali, 80 case di accoglienza, 110.000 bambini strappati all’aborto ed altrettante donne salvate da un dramma indelebile. Questa è la migliore risposta all’aborto e, nel “tagliando” di cui lei parla, credo debba rientrarci l’impegno della società civile a difesa della vita, nel senso che è ora tempo di riconoscerne la funzione d’interesse pubblico e politico». Qualcuno, ancora, afferma che i temi cosiddetti etici non hanno a che fare con la politica ad esempio, delle Regioni, che invece hanno più il compito di amministrare. «Vorrei chiarire che non è assolutamente così: la Regione ha ruoli legislativi, ha competenze dirette in materia di sanità, di politiche familiari e sociali, di educazione. Impensabile che provvedimenti legislativi in tal senso siano “neutri”, avulsi da un sistema di riferimento etico di valori, umani e civili. Saranno, ad esempio, le Regioni a decidere le procedure di somministrazione della pillola abortiva RU486. L’Emilia Romagna ha già deliberato per la somministrazione in Day Hospital e il Piemonte ha optato per la libera scelta: la donna assume la prima pillola in ospedale e poi va ad abortire nel bagno di casa, nella clandestinità più assoluta, nella solitudine più dolorosa e angosciosa».
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USCIRE DAL DESERTO - 4
All’origine del totalitarismo di MINO MINI IL MOMENTO dell’economia e della tecnica, argomento di questo quarto articolo sull’«Uscire dal deserto», ci porta a trattare di una delle scienze tecniche nate dall’avvento del razionalismo analitico di cui abbiamo scritto nel precedente articolo sul momento della logica. Scienza e prassi di mezzi che dovrebbe connettere gli elementi del sapere elaborati dalla logica, ovvero dalla conoscenza, a formare strutture costitutive del mondo, ma che nei suoi effetti si è rivelata sintomo della crisi attuale della civiltà. Sintomo ed anche causa perché, tra le scienze settoriali derivate dall’illuminismo, è l’economia che ha impersonato il rapporto tra la limitata coscienza della cultura ufficiale e la società inceppando gravemente il processo civile. Chi ci ha seguito sin qui (sia reso omaggio alla sua tenacia) ricorderà la metafora della vite dalla geometria particolare lungo la spira della quale si sviluppa il percorso della civiltà. Per rimanere nella metafora, diremo che le scienze settoriali, ciascuna protesa al proprio fine a scapito dell’unità della conoscenza, hanno messo in atto propri processi logico-operativi di tipo lineare (matematici) che, per essere tali hanno abbandonato, uscendo per la tangente, il processo ciclico provocando la «spanatura» del passo della vite. Il processo civile, incappando nella spanatura, non è più riuscito ad avanzare, ma girando inutilmente in tondo ha dissipato la sua energia propulsiva nelle fughe tangenziali che ciascuna scienza si è trovata a dover seguire. Il nostro obiettivo, come si ricorderà, è di «oltrepassare la crisi delle scienze e della ragione filosofica». Per farlo occorre superare la spanatura e «reimmettere in orbita» il processo civile che per sua natura non può essere settoriale ma organico. Nell’organicità il momento dell’economia e della tecnica rappresenta, come abbiamo detto, la struttura costitutiva del mon-
do e, in quanto tale, è parte dell’organismo civile e ad esso connessa in moltissimi modi tutti, però, organicamente riportabili ai capisaldi dei suoi quattro fattori costitutivi: l’imprenditore, il capitale, il lavoro ed il consumo. Pur essendo struttura, però, esso è un cosmo organico con propri gradi di complessità o di interrelazione dell’operatività economica. Tali gradi sono: ideazione, tecnica, lavoro, mercato. Nell’individuazione di questi fattori e nella concezione del diverso ruolo che gli stessi debbono avere nell’ambito dell’economia sta tutta la storia dei successi e dei fallimenti che hanno portato all’odierna crisi civile. Vediamo dunque questi fattori costitutivi incominciando dall’«imprenditore». «…Rappresenta l’attore dell’operazione economica, colui che la concepisce e la gestisce e ne rimane insieme l’ideatore e costitutore, l’operatore, il responsabile e l’insopprimibile legittimo rappresentante» (S. Muratori, Civiltà e territorio,1967). La figura dell’imprenditore rappresenta, nel quadro economico, il momento logico. È colui che intuisce un interesse economico - ad esempio le possibilità applicative della produzione scientifica - e ne costituisce i termini per conseguirlo. Si presenta in diverse forme e categorie. Nella sua personificazione più evoluta avendo
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come logica operativa la «massimizzazione del profitto» e con approccio dinamico, direbbe Schumpeter, mette in atto innovazioni tecniche, realizza nuovi prodotti, apre nuovi mercati, cambia o inventa le modalità organizzative della produzione riducendo al minimo i costi e utilizzando nel modo più efficiente possibile, le risorse produttive a propria disposizione. Quale che sia l’estensione del suo settore operativo, sia alla piccola scala che a quella più ampia come lo Stato o l’umanità intera, dovrà sempre - se non vorrà fallire - tenere ben ferma la distinzione dell’utile economico dagli altri aspetti o momenti. Vediamo ora «il capitale». È il mezzo per attuare l’interesse economico individuato dall’imprenditore. Naturalmente esistono diverse forme e categorie di capitale. Capitale è la terra così come le materie prime e le sue fonti e mezzi di rifornimento; capitale sono la strumentazione tecnica, le scorte di materiali necessari, il credito e il circolante; ancora capitale è la disponibilità di mano d’opera addestrata, salariata e tecnica - la cosiddetta forza lavoro - ed altrettanto lo è la disponibilità delle basi di mercato, pubblicità, attrezzatura commerciale e trasporto. Senza capitale nessuna possibilità operativa, ma il capitale - è bene ribadirlo - è soltanto uno strumento. Fondamentale nella fase operativa, non è fondamentale invece in quella costitutiva che le è antecedente. Ai fini della validità dell’intervento risulta condizionante e pregiudiziale così come sarà condizionante per le operazioni seguenti dello sviluppo economico. Veniamo al «lavoro». Va subito sgombrato l’equivoco generato da considerazioni di ordine sociale, politico o umanitario che portano ad identificare il lavoro con la forza lavoro, ovvero con la mano d’opera. Come abbiamo visto la sua disponibilità, il suo reperimento, attrezzatura e pagamento fanno parte del capitale, ma la mano d’opera non rappresenta ancora il momento strumentale e come tale decisionale. Ne è la prova la migrazione dei capitali finanziari nelle regioni del mondo alla ricerca di forza lavoro a basso costo, quando la stessa non sia più convenientemente sostituibile con macchinari. Il lavoro, invece, è un’altra categoria e rappresenta il momento di convergenza di diverse e complementari operazioni decisionali a più livelli (ricerca ed elaborazione, orga-
IL BORGHESE nizzazione, direzione e controllo del lavoro, pianificazione e gestione delle risorse materiali e finanziarie etc.) a costituire un organismo produttivo caratterizzato, operativamente, dalla partecipazione al rischio nell’impresa e compensata con partecipazione all’utile. Il famoso «plus valore» di marxiana formulazione che non compete affatto alla mano d’opera puramente strumentale come affermava Marx. Infine «il consumo». Esso rappresenta l’ambiente di assorbimento del prodotto dell’attività economica. È il fattore che determina il successo economico. Per capirci: ricordando che senza imprenditore, ovvero senza intuizione di interesse economico, non ha senso parlare di capitale e senza imprenditore e capitale non ha senso parlare di lavoro, ne consegue che senza imprenditore, capitale e lavoro non ha senso parlare di consumo, ovvero di merce e di mercato. Come si noterà, finora non si è fatto cenno di fenomeni come capitalismo, comunismo, mercatismo e simili «ismi» che denunciano invariabilmente una deviazione ideologica del termine che fa da radice (capitale, comune, mercato etc). Non è un caso che il termine «ideologia» nasca alla fine del Settecento, in pieno secolo dei lumi, e venga poi usato in senso dispregiativo da Marx ed Engels per indicare ogni costruzione intellettuale che rappresenti la realtà vera dei fatti e delle cose con immagini e giustificazioni illusorie. Ebbene, per comprendere la crisi civile che stiamo attraversando occorre partire proprio dalla alterazione del significato di economia. Non risaliremo, questa volta, alla Grecia anche se il termine deriva proprio dal greco oikos «dimora» e nomìa, regolamentazione, come dire «governo della casa» e più estensivamente «governo del territorio» nei suoi gradi intermedi. Risaliremo al periodo pre-capitalistico quando l’economia era intesa come il modo per produrre le risorse da impiegare «nella costruzione del mondo», come dice H. Arendt: consolidare il potere o conseguire maggiore influenza politica, praticare il mecenatismo per favorire la creazione della bellezza commettendo edifici, opere d’arte e letteratura, ostentare il decorum del proprio status sociale anche tramite il lusso oltre, naturalmente, soddisfare le proprie esigenze (oggi si direbbe: consumare). Tutto il profitto veniva tra-
Aprile 2010 sformato in opere per il mondo ovvero in vita per il mondo, in produzione di cose o eventi che prima non c’erano. Questa dura, feroce e splendida età dell’oro esaltante la individualità dell’uomo, durò fino al consolidarsi della Riforma alcuni decenni dopo lo scisma provocato da Lutero nel 1517. All’inizio del Seicento, nella repubblica dei Paesi Bassi, nacque il capitalismo moderno con la colonialista Compagnia delle Indie Orientali (1602) e si consolidò lo spirito capitalistico che dette inizio ad una nuova età. Più dura ed ancora più feroce della precedente, ma senza alcuno splendore, Infatti tutto ciò che caratterizzava la costruzione del mondo venne considerato secondario e trascurabile: ciò che acquisì importanza fu l’accrescimento continuo del profitto mediante il reinvestimento dei frutti del capitale. Ancora oggi il vero capitalista, impersonato dal finanziere (singolo o in corporations) è quello che ottiene la massima soddisfazione dal conseguimento del profitto in sé e non dai piaceri che il guadagno può procurare. Ne fa fede la definizione che viene data della finanza: «è quella scienza che studia le modalità di allocazione del denaro tra usi alternativi, al fine di massimizzare la propria soddisfazione». Ecco il punto. In una economia organica, come era quella pre-capitalista e come quella più evoluta che dobbiamo reimmettere in orbita, le diverse forme di capitale furono strumento di attuazione dell’interesse economico individuato dall’imprenditore il quale remunerava tale capitale mediante pagamento degli interessi, pagamento della mano d’opera e delle scorte etc. Nella situazione attuale, invece, il capitale finanziario, nella logica della massimizzazione del profitto finanziario, ha assunto una preponderanza determinante fino ad asservire le altre forme di capitale, prima fra tutte la forza lavoro e poi gli altri fattori costitutivi dell’economia. Ma non si è fermato a questo. Non accettando di limitarsi al ruolo di struttura del processo civile, cioè della realtà, si è sostituito ideologicamente ad essa impersonando anche il ruolo politico. Nei fatti il capitalismo finanziario si è sostituito surrettiziamente allo Stato mentre, nel caso della forza lavoro, il capitale si è fatto palesemente esso stesso Stato. Mediante la tecnica ha permeato la vita dell’uomo fino a capovolgere i termini del rapporto che aveva con lui.
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Non più la tecnica al servizio dell’uomo, ma l’uomo al servizio della tecnica fino a raggiungere quella perfezione prefigurata da Friedrich Georg Jünger, il fratello di Ernst. Da strumento la tecnica si trasforma in processo ordinatore impositivo (mobilitazione totale) che trova il suo compimento nella riduzione del mondo a macchina. Ma vediamo di allargare l’angolo della nostra visuale prospettica sul fenomeno della deviazione dell’economia dal processo civile e poniamoci il quesito: cosa è accaduto? Quello che era nelle premesse della modernità che, si ricorderà, pretendeva di comprendere il tutto a partire dalle proprietà delle sue parti. Ideologicamente l’economia fu pensata in termini cartesiani e fu ritenuto reale ciò che fu pensato in astratto perché matematizzabile, cioè riducibile a forme e regole matematiche. Occorre porre bene in mente questo fenomeno di devianza dal reale che riassumiamo: la parte - nel caso in questione l’economia - pensa se stessa come il tutto, ma senza acquisire le proprietà dell’organismo totale perché la parte non le possiede. Costruisce un mondo virtuale a misura delle limitate proprietà della struttura - l’economia e costringe l’uomo, per sua natura organico, ad adeguarsi alla ridotta dimensione economica. È così che è stato modellato il marcusiano uomo ad una dimensione e nello stesso modo l’uomo a taglia unica di Tremonti. È così che nacque il totalitarismo, la malattia più disastrosa della modernità. Ad esserne affetto fu il capitalismo nelle due forme parziali: dapprima il capitalismo finanziario, di poi ed in reazione ideologica allo steso, il comunismo espressione della forza lavoro, anch’esso capitale, destinato secondo il materialismo storico, ad instaurare la dittatura del proletariato per liberare l’umanità dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Per eterogenesi dei fini, fu proprio il comunismo che trasferendo sul piano politico - quindi ad una scala superiore - un conflitto che era interno al capitale, ricadde nell’errore ideologico che imputava agli altri nel momento che volle anche esso sentirsi totalità del processo civile piuttosto che un aspetto parziale della economia. La lotta interna al capitale, come ognun sa, vide la vittoria del capitalismo finanziario per implosione dell’avversario, ma non la fine del totalita-
IL BORGHESE rismo il quale, più che una categoria politica negativa, è una deviazione della modernità dal processo della civiltà. Il totalitarismo, nel nostro caso, si chiama economismo ovvero visione ideologica del mondo «sub specie oeconomiae» generatore di una struttura fittizia con tutte le caratteristiche di una forma cancerosa, metastatica, in conflitto insanabile con la struttura reale del corpo civile di cui ha pervaso profondamente tutti i centri decisionali. Rimane isolata dall’economia reale del corpo civile e pertanto, nell’imporre il proprio meccanicistico funzionamento, si strumentalizza tecnicamente e si burocratizza - talvolta si criminalizza - provocando una conseguente forma di proletariato, cioè un’umanità schiavizzata e sterilizzata nella sua autonomia e nella sua totalità spirituale, governata da una tecnocrazia e controllata da una tecnoburocrazia. Basti pensare a quel che sta avvenendo nell’attuale crisi economica, manifestazione tipica del fallimento della finanza speculativa virtuale. Da parte dei governi viene messo in essere il salvataggio del sistema bancario responsabile della crisi facendo ricorso ai soldi dei contribuenti senza reazione alcuna da parte di questi ultimi. Oppure alle manovre in atto da parte di organismi finanziari americani che si apprestano ad attaccare l’euro allo stesso modo con cui fu attaccata la lira nel 1992. Altro esempio è quello della grande impresa, drogata dal capitale finanziario che può aprire o chiudere i rubinetti che la alimentano sia mediante il credito bancario o azionario che attraverso l’aiuto dello Stato totalmente condizionato dal capitale nelle sue diverse forme. Balza chiaro, crediamo, quanto il totalitarismo senza volto sia vitale oltre che parassitario. La realtà economica, tuttavia, sopravvive. Quella di certa imprenditoria e del lavoro libero e responsabile. Ma sempre più stentatamente. Ogni tanto una di queste strutture cede sotto l’attacco del capitale, ma senza che si levi alcun grido di allarme. Com’è il caso del lavoro autonomo e della libera professione. Nessuno lamenta la fine del lavoro perché nell’ottica del capitale dominante soltanto la forza lavoro - l’altra faccia del capitale - è funzionale alla sopravvivenza del sistema economico imperante. Purché costi poco, ovviamente. Tuttavia anche la struttura cancerosa che ci pervade ha dei punti deboli
53 ed è su quelli che occorre puntare per reimmettere in orbita l’economia. Uno di questi è «la creatività», un ingrediente della produzione che di tutti è il più difficile da analizzare. La creatività ha due aspetti: quello proteso ad inventare modi innovativi della produzione e l’altro proteso alla ricerca della qualità e della esclusività. Il primo è quello che caratterizza il ruolo dell’imprenditore, ma come intuì Schumpeter, tale ruolo nella grande impresa verrà sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all’immobilismo dei managers con l’inevitabile declino del sistema. Il secondo aspetto, invece, è proprio del lavoratore responsabile che vive, appunto, del proprio mestiere o professione. Egli può sottrarsi all’implacabile processo del mercato producendo un prodotto esclusivo che nessun altro sia in grado di riprodurre facilmente. Va da sé che la creatività dovrà essere supportata dalla conoscenza necessaria ad applicare il sapere scientifico alla produzione e distribuzione di merci, ma soprattutto va ridato al lavoro il suo effettivo ruolo caratterizzato, oltre che dalla convergenza di diverse e complementari operazioni decisionali a più livelli, anche dalla partecipazione al rischio dell’impresa ed alla ripartizione dell’utile della stessa. Ma non basta. Perché se il totalitarismo nasce come deviazione economicistica del processo civile, significa che ha pervaso - come abbiamo visto anche l’organismo politico e quindi la lotta per l’oltrepassamento dovrà spostarsi su questo terreno in forme nuove e soprattutto più mature.
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IL BORGHESE
LA TECNICA IN EVOLA E GALIMBERTI
Quando gli estremi si toccano di MAURO SCACCHI LA SCIENZA e la tecnica, l’industria e l’economia. Il mondo di oggi. Per noi che ci viviamo è d’obbligo una riflessione che parta dal constatare che «siamo soliti considerare la tecnica come uno strumento a disposizione dell’uomo, quando invece la tecnica oggi è diventata il vero soggetto della storia, rispetto al quale l’uomo è ridotto a funzionario dei suoi apparati», e che «si svolgono processi distruttivi, ritorcendosi quasi contro di lui lo strumento che l’uomo aveva creato per dominare la natura, la tecnica, a guisa di un Golem». La prima frase è di Umberto Galimberti, dal testo La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica (Alboversorio), la seconda è di Julius Evola, da L’Operaio nel pensiero di Ernst Junger (Ed. Mediterranee). Il primo, filosofo e psicologo, non certo di destra. Il secondo, filosofo, esoterista e pittore, non certo di sinistra. Nonostante le differenti ideologie politiche è impossibile non ravvisare tratti comuni a entrambi gli autori. I continui richiami a Marx e Heidegger da parte di Galimberti non inficiano la convergenza di vedute tra lui ed Evola che qui si vogliono evidenziare. Marx sul denaro diceva che esso, divenendo la condizione universale per soddisfare qualsiasi bisogno, non era più un mezzo ma il principale fine in funzione del quale tutto dipendeva. Galimberti trasla questa affermazione sulla tecnica, e finché si rimane in tale ambito le opinioni di Marx non stridono con quelle di Evola. In Cavalcare la tigre Evola critica l’Esistenzialismo di Heidegger da lui ritenuto incapace di proporre soluzioni convincenti in merito a tematiche squisitamente filosofiche quali l’essere e l’esserci. Ma sul piano della tecnica Heidegger rileva che «l’umanità non è ancora in grado di reggere un
confronto adeguato con ciò che sta emergendo nella nostra epoca», e come si vedrà il pensiero di Evola, in tale contesto, è pressoché il medesimo. Indipendentemente dalla propria estrazione culturale, Galimberti ed Evola sono entrambi convinti che l’agire umano, che porta seco il senso di responsabilità, è oggi divenuto mero «fare». La «febbre d’azione» (Evola) è quella che ha condotto ad un sovvertimento dei ruoli, in cui la «tecno-scienza non ha altro scopo che non sia il suo massimo autopotenziamento», dove «la tecnica non è più un mezzo ma diventa il vero fine» (Galimberti), in una società in cui ad opera di un «orgasmo industrialistico, i mezzi divengono fine» (Evola). Ne Gli uomini e le rovine Evola scrive che «gli aspetti esteriori del progresso tecnico-industriale dipendono dal carattere involutivo della civiltà contemporanea» e ancora, nell’articolo «Quelli della contestazione globale» (Il Borghese, 1968) egli scrive: «I processi automatizzati hanno preso la mano all’uomo che, per così dire, non riesce a stare al passo con le sue stesse creature». Come non vedere analogie con quanto Galimberti asserisce, cioè che «la tecnica è l’ambiente all’interno del quale anche l’uomo subisce una modificazione»? Per entrambi i filosofi l’economia condiziona la tecnica. Ma presto sarà il contrario perché, come giustamente ci ricorda Galimberti citando Hegel, la ricchezza non è più determinata dai beni bensì dagli strumenti, i primi potendosi consumare, i secondi potendo costruire nuovi beni. Per Evola «la scienza nelle sue applicazioni (la tecnica) va al di là del dominio dei semplici mezzi», e in ciò Galimberti non potrà che trovarsi d’accordo. Entrambi gli autori stimano che la tecnica sia nata con il pensiero giu-
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daico-cristiano, dove Dio ha dato all’uomo il dominio sulla natura. E per dominare c’è bisogno di mezzi, cioè di tecnica. È l’abuso della tecnica che sta portando l’uomo a considerarla lo scopo principe della sua esistenza, l’obiettivo primario. Una vera ossessione di fronte alla quale l’uomo si svuota, perde la propria stabilità e ne rimane soggiogato. Gli autori riportano gli esempi di Prometeo e di Epimeteo, simboli della tecnica ingannatrice che promette conoscenza ma che in realtà allontana l’umanità da Zeus (dai valori olimpici) il primo, e della tecnica stupida che non sa capire gli effetti del proprio agire il secondo. Galimberti ci ricorda che a non capire gli effetti del proprio agire è l’uomo di oggi, che è da considerarsi bravo nel suo lavoro quando lo compia tecnicamente bene, al di là d’ogni giudizio morale. Ed è Galimberti stesso a porsi il problema della morale esattamente come faceva Evola quando affermava che «la macchina è immorale perché può rendere potente un individuo senza farlo superiore»!; e che «Potenza senza superiorità diventa prevaricazione sciocca perché si ritorce sull’uomo danneggiandolo spiritualmente». Per Galimberti la tecnica può uccidere la democrazia. Infatti, in un mondo retto da super specialisti come può esistere la democrazia? Dovremmo essere tutti specialisti di tutto per poter esprimere democraticamente con competenza il nostro parere su ogni argomento! Evola non dissentirebbe. Cada pure la democrazia. Non è detto che tutti la amino (anche se Galimberti è sicuro del contrario). Però, mentre Galimberti ci delinea un futuro nero senza proporci soluzioni decisive, Evola qualche consiglio in più ce lo dà: qualunque cosa riservi il futuro, l’uomo non dovrà più essere atomo-particella di un sistema aberrante, in cui ad una economia del necessario si è sostituita una economia del superfluo, ma dovrà essere un uomo in grado di infrangere il circolo chiuso della «demonìa economica», riconoscendo che il fattore economico non è quello decisivo, che va voluto e esaltato (ciò che invece accade sia nel marxismo che nel capitalismo). L’uomo deve tornare ad agire, non essere passivo, tornare ad avere in sé «quel principio che un’antica filosofia chiamò il “Sovrano Interiore”», l’Egemonikon (intervista in L’Italiano, novembre 1970).
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L’OPINIONE PUBBLICA CONDIZIONA LA POLITICA
Buttatela fuori, quella puttana! di ADRIANO SEGATORI JACQUES Julliard, editorialista del «Nouvel Observateur» e autore del libro La regina del mondo (Marsilio 2010), affronta con maestria il problema che è quotidianamente sotto ai nostri occhi: può coesistere una èlite democratica che sia sganciata dal continuo ricatto dell’opinione pubblica? Lo sviluppo del pensiero è molto rigoroso e approfondito: dalla critica dell’apparenza e del monopolio delle candidature, alla dipendenza dai sondaggi e dal ricatto della piazza, fino alla diagnosi del morbo che limita e avvelena il politico dell’attualità, la doxocrazia, cioè il potere dell’opinione, dei sondaggi. Alla fine, però, quella che poteva essere una onesta conclusione ragionevolmente documentata diventa un appello retorico all’impossibile: «Un leader democratico non può avere per unico programma quello di essere compreso, e ancor meno quello di essere amato. Ma conduce il popolo a volere ciò che è suo superiore interesse». Nell’analizzare questo ossimoro, che dal punto di vista della filosofia politica è soltanto un assemblaggio di contraddizioni, partiamo dal considerare il significato di leader. Leader dovrebbe essere colui che, per una serie di eventi di vita particolarmente significativi e storicamente ricchi di significati simbolici, condensa ed emana un carisma che lo rende punto di riferimento di una certa visione del mondo. Carisma, per altro, tanto per fare sfoggio di cultura, deriva da kharaktér (carattere), arnese che lascia un segno e segno medesimo, nonché carattere come destino, secondo il pensiero di Eraclito. Ora, c’è qualcuno che percepisce una natura trascendente e di provvidenza nel gallico Sarkozy, nella teutonica Merckel, nell’albionesco Brown, nell’italico Berlusconi o nello yankee Obama? Una peculiare visione del mondo che caratterizzi in maniera distintiva i singoli uomini di Stato? Una biografia
individuale dove si documenti la partecipazione ad un evento storico, una competenza significativa, un segnale di vocazione? Nulla. Gli attuali leader sono soltanto dei manager costruiti attraverso quei canali di informazione di massa che trovano la massima capacità invasiva e condizionante nel web e nella realtà virtuale; sono il frutto di operazioni mediatiche studiate a tavolino da tecnici della propaganda, grazie ai quali un qualunque sconosciuto diventa, da un giorno all’altro, il portatore di una pseudoidea e di un progetto politico. Essi sono la personificazione profetica di quella società dello spettacolo di cui Debord ne denunciava la micidiale pervasività nel lontano 1967 e che «definisce il programma di una classe dirigente e presiede alla sua costituzione». Sono, quando riescono bene nel loro ruolo, solerti ed efficaci funzionari che presiedono al controllo e all’andamento tecno-funzionale di un apparato burocratico sempre meno nazionale e sempre più globalizzato. Oltre alla distorsione del termine, emerge il problema del consenso quantificabile dall’indice di gradimento dell’opinione pubblica. Assodato il fatto che nessun regime può reggersi senza un controllo del pensiero e della piazza, perché anche i sistemi totalitari più sanguinari alla fine cedono di fronte alle pressioni di quelli che oggi vengono definiti social network, nella democrazia rappresentativa (quella partecipativa di massa è una pia illusione da utopisti e illusionisti della politica) la questione è più complessa e ambivalente. Se da un lato è vero che il leader ha bisogno di uno o più apparati preposti al consolidamento e al prolungamento della sua posizione favorevole, è altrettanto vero che la stessa opinione pubblica creata ad hoc è quella che ha in mano le sorti del suo stesso creatore. Per questo motivo l’affermazione di Julliard è palesemente ingannevole e truffaldina. Parlare di un democratico
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«superiore interesse» del popolo è negare la realtà, è oscurare fatti e comportamenti che sono davanti agli occhi di tutti. Il popolo democratico esige che il potere favorisca le sue voglie, le sue pulsioni, le sue istanze vegetative, altro che ideali e destini. Nel momento in cui, citando François Guizot, afferma: «Sempre retta, l’opinione pubblica? Neanche per sogno. Ma onnipotente, sì», lui sa che questo è vero, ma gli dà fastidio ammetterlo. L’opinione pubblica ha il potere di fare ascendere e far tracollare un leader, ma un leader non ha mai la possibilità totale di organizzare e tenere per sempre l’opinione pubblica. Ha perfettamente ragione, invece, il prefatore del suo libro, Ferruccio de Bortoli, quando analizza ed auspica: «La politica non è più un’attività separata ed elitaria che guarda la società dall’alto in basso e che si arroga un ruolo educatore delle masse. (…). Una politica che torni ad ascoltare il territorio, a battere i marciapiedi, a sporcarsi le mani con le paure più inconfessabili e i bisogni più elementari può avere un futuro». Se è per questo, il futuro della politica è già passato e presente per quanto riguarda battere i marciapiedi e sporcarsi le mani, ma questa non è in fondo l’aspirazione della democrazia? Un testo antico, forse di Crizia, avverte testualmente: «Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono nemici della democrazia: giacché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e di ingiustizia, e il massimo del bene; nel popolo invece c’è il massimo di ignoranza, di disordine e di cattiveria (…). Il Popolo di Atene sa ben distinguere i cittadini dabbene dalla canaglia. Ma, pur sapendolo, predilige quelli che gli sono benevoli e utili, anche se sono canaglie, e la gente dabbene la odia proprio in quanto per bene». È sulla bassa utilità, sul tornaconto egoistico e sulla gratificazione degli appetiti che fa leva l’opinione pubblica per condizionare il potere costituito. Perché, per confermare la fama e la pedanteria, c’è una bella differenza tra popolo e massa. L’entità che fa opinione è la moltitudine, o anche una minoranza rumorosa e violenta, è l’insieme di più solitudini egocentriche unite da interessi contingenti, non certo da aspirazioni trascendenti. Il popolo, invece, si forma dall’attivazione di un sentimento di appartenenza e di un destino condiviso che non si ottiene con l’adescamento verso il basso, ma con l’attrazione verso l’alto.
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«KONSERVATIVE REVOLUTION»
Una Rivoluzione tradita di ANDREA NICCOLÒ STRUMMIELLO PER UNA certa generazione di uomini - quella che combatté sotto le insegne del Reich tra il 1914 ed il 1918 - il passaggio dalle tempeste d’acciaio vissute nelle trincee, ad essere proscritti in Patria fu breve, quasi naturale. Non avrebbe potuto essere altrimenti: un’intera generazione di uomini, questa, vinta al fronte ma non nello spirito che, trasfigurata dall’esperienza bellica, decise di non smettere di combattere. Questi soldati, segnati dall’esperienza estrema e mistica della guerra moderna, meccanizzata e scientificamente letale, tornati in Patria, anziché deporre le armi, decisero di rivolgerle contro quello stesso sistema che li aveva dimenticati, uccidendoli due volte. Prima nella dignità di uomini al fronte, e poi nell’onore di soldati, poiché non sconfitti sul campo ma, pugnalati alla schiena dal tradimento del fronte interno. Dopo il 1918 cambiava soltanto il nemico ed il fronte: le malsane trincee erano sostituite dalle stazioni, dalle birrerie e dalle piazze, scelte come nuovo campo di battaglia, ed il nemico non era più il soldato dello schieramento opposto ma, la democrazia di Weimar e le sue istituzioni decadenti ed egualitarie. È esattamente la cronaca dei convulsi anni successivi la resa del 1918 che ci racconta Ernst Von Salomon nei Proscritti (Baldini & Castoldi, 2001). Questi combattenti, spesso poco più che ragazzi, abbandonate le loro case, le loro famiglie ed i loro affetti, con le loro passioni ed i loro sogni infranti avevano acceso un rogo, dove ardevano le loro speranze, e con il quale avrebbero bruciato le leggi borghesi e democratiche di una Germania che non riconoscevano più, e che non riconosceva più quest’ultimi come figli propri. Figli di nessuno, questi soldati votati ad abbattere il nuovo regime, avevano giurato odio eterno alla loro epoca: materialista e
borghese. Non poteva essere altrimenti vista l’esperienza vissuta in guerra così come raccontataci da Ernst Jünger nelle sue Tempeste d’Acciaio (Guanda, 2007) - che ne aveva determinato un cambiamento ontologico, esistenziale, trasformandoli da soldati mandati dai vertici di Berlino a morire, in soldati autonomamente politicizzatisi. Spontaneamente questi combattenti, nazionalisti e rivoluzionari allo stesso tempo, presero a riunirsi nei Freikorps, o in circoli culturali più o meno elitari, ritrovando il clima ed i vecchi compagni del fronte in confraternite cameratesche o in organizzazioni a carattere politico-esoterico. Parallelamente ad essi, molti uomini - pur non provenendo dall’esperienza bellica - presero a frequentarli, ad istruirli, o a seguirli identificandoli come punti di riferimento. La Konservative Revolution che nacque da questo vasto, eterogeneo, mondo, fu l’espressione violenta e radicale d’una avanguardia dotata di un’insopprimibile esigenza di rinnovamento che, dall’attentato dinamitardo fino alla cura di riviste combattentistiche, prepararono il campo per l’abbattimento del regime democratico, fragilmente sorto sulle ceneri dell’onore dei combattenti tedeschi. È proprio questo quello che emerge dallo straordinario studio di Adriano Romualdi Correnti politiche ed ideologiche della destra tedesca dal 1918 al 1932, edito (e purtroppo mai ristampato) nel lontanissimo 1981 per i tipi de L’Italiano. Proprio quel destino comune, che al di là delle contingenze, delle incomprensioni o delle diverse vedute politiche, legò uomini come Ernst Jünger, Ernst Von Salomon, o Oswald Spengler, passando per Arthur Moeller Van Den Bruck ed Othmar Spann, nell’opera di Romualdi è ben evidenziato. Fu, dunque, quell’innato senso del cameratismo, fondato su di un vinco-
Aprile 2010 lo di servizio che l’etica spartana e militare appresa dall’esperienza anzitutto interiore - della guerra, direttamente ed indirettamente, aveva insegnato loro, a legarli indissolubilmente. Non fu, pertanto, lo Stato o il governo a fare di questi uomini dei proscritti, parafrasando Von Salomon, cioè dei «senza patria». Checché ne possa dire la cultura ufficiale, sempre pronta a psicanalizzare il sacrificio e lo slancio di questi uomini, questi furono, invece, proscritti per scelta, poiché non potevano, né volevano, più tornare indietro. Non potendo riconoscersi, infatti, nella Germania di Weimar ma, nemmeno nella decadente Germania guglielmina, vollero provare a edificare uno Stato nuovo, fondato sulla mobilitazione totale e permanente, che avrebbe trasformato l’uomo qualunque in un combattente fervente votato al sacrificio disinteressato. L’ascesa al potere del movimento nazional-socialista nel 1933 coinvolse alcuni di questi uomini, escludendone, anche violentemente, altri. Armin Mohler - massimo studioso dei fermenti culturali della destra di Weimar - nel suo libro La Rivoluzione Conservatrice (Akropolis, 1990) non a caso avrebbe collocato l’esperienza della Konservative Revolution in una sorta di posizione «trotzkista» rispetto al nascente regime hitleriano. Per alcuni, questo fu la realizzazione dei loro sforzi, per altri, invece, poco più d’una rivoluzione abortita e tradita. Finiva, in ogni caso, il sogno d’una Germania prussiana e socialista, rivoluzionaria e conservatrice.
IL LATINO (Gianni Isidori, «il Borghese» 3 luglio 1977
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LA TECNICA IN EVOLA E GALIMBERTI
L’Europa medio - orientale di RICCARDO SCARPA TRE eventi degli scorsi mesi sono intimamente connessi, nella geopolitica del mediterraneo: 1° Silvio Berlusconi, durante una visita di Stato in Israele, ha espresso il favore dell’Italia ad una eventuale adesione dello stesso Stato d’Israele, unica democrazia liberale del Medio oriente, all’Unione europea; 2° in Turchia sono stati arrestati alcuni ufficiali delle forze armate, accusati di tramare un colpo di Stato, ed in alcune manifestazioni anti-israeliane è apparso un manifesto nel quale, con un fotomontaggio, il Capo dello Stato d’Israele, il premio Nobel per la pace Simon Peres, si china di fronte al Primo ministro turco Erdogan, in atto di sudditanza; 3° la Grecia, inginocchiata da una crisi economica senza pari, che la mette in seria difficoltà sul mercato interno dell’Unione europea, scivola in una instabilità politica dai chiari connotati balcanici, con violenti tafferugli ad Atene ed a Salonicco.Le tre questioni sono intimamente connesse, e rischiano di essere reali fattori destabilizzanti in Europa, almeno ché l’Unione europea, profittando del quadro istituzionale rafforzato col Trattato di Lisbona, non si decida a darsi una politica estera ed uno strumento militare unitarî, cioè che gli Stati membri rinuncino, in queste materie, ad una sovranità fittizia, meramente di bandiera, come le questioni di precedenze onorifiche tra gli Stati italiani del rinascimento, per dotarsi di strumenti unitarî d’intervento nel concerto internazionale, prima che sia troppo tardi per tutti. Occorre iniziare dalla prima questione. Il Primo ministro italiano, Silvio Berlusconi, non s’è inventato nulla, quella dell’adesione d’Israele all’allora Comunità europea fu un’idea del primo laico ad arrivare a Capo del Governo in Italia, quando iniziò ad incrinarsi l’egemonia democristiana, cioè di Giovanni Spadolini. Lo si sa, Giovanni Spadolini fu più volte, in
vita, bersagliato da il Borghese, che amava ricordargli gli scritti in cui descrisse la Repubblica Sociale Italiana quale pura attuazione dell’ideale mazziniano, e di cui lo storiografo che da «repubblichino» si fece repubblicano liberaldemocratico tendeva a scordarsi; ma rispetto alle smemoratezze della «seconda repubblica» fu fior di coerenza, in fondo non si staccò mai da Mazzini, pur leggendolo in modo diverso. Forse cambiò occhiali, è colpa dell’ottico, mettiamola così. In quanto ad Israele e l’Europa fu lui per primo a considerare quest’ultima non un’espressione geografica ma culturale, un luogo d’un certo tipo di democrazia liberale. Lo Stato d’Israele, liberale e democratico all’europea, sarebbe, così, uno spicchio d’Europa finito in mezzo ad arabi, così come i Regni crociati medievali furono un’espressione dell’Europa occidentale latina e franca collocata in quello stesso luogo. In fondo Berlusconi, non citando né Spadolini né il Visconti Venosta del Prode Anselmo, s’è rifatto a tutti e due: Israele nell’Unione europea perché è una democrazia liberale ed in quanto l’Europa avrebbe radici giudaico cristiane. Certo, in fatto di genealogia ed erboristeria ideale, «aridateci» Valéry Giscard d’Esting colle sue radici ellenistico romane. Comunque la prospettiva geopolitica è chiara, e sta bene anche a molti della Destra, che hanno sempre visto dello Stato d’Israele più la riproposizione d’una cittadinanza-milizia di tipo spartano-romano che altro. L’impatto di quella mentalità coll’Europa pacifistico-«zapaterista» potrebbe avere anche risultati positivi. Attorno alla stessa idea d’Europa come sede d’un modo di pensare, invece che un luogo geografico, gravita la questione turca. I Turcomanni che si sono spostati ad occidente, approdando da prima in Anatolia, hanno sempre pensato ad impadronirsi dell’Europa co-
57 me d’un tipo ideale di civiltà, d’organizzazione dello Stato, che da principio identificarono coll’Impero romano ellenistico. Penetrativi sin dal XII secolo i Turchi chiamarono sé stessi Rnjm, in quanto gli Arabi e gli altri popoli mussulmani chiamarono, come il Corano, ar-Rnjm i sudditi dell’Impero Romano d’Oriente, che in greco definivano loro stessi Romaîoi. Dopo la conquista di Costantinopoli, nel 1453, il Sultano si fece chiamare SulĠan-i Rnjm, cioè Imperatore dei Romani, titolo che mantenne sino alla fine della Monarchia, nel 1922. Niccolò Machiavelli, nel Principe descrisse anche i caratteri dell’esercito romano, e scrisse come nell’Europa del suo tempo l’unica armata che ne avesse mantenuto il carattere fosse l’esercito turco. Poi anche la dinastia ottomana decadde, si ridusse a quello che è oggi, fini signori attualmente residenti oltre oceano, nella «Grande Mela», ma del tutto privi d’interessi politici in quanto, spossati da secoli d’esercizio d’un dispotismo in cui fu difficile sopravvivere anche da Sultani, erano «giunti alla frutta» già molto prima della prima guerra mondiale. Sarebbe, con loro, finito anche lo Stato Turco, se non fosse insorto Mustafà Kemal detto «Atatürk», è da dire Padre dei Turchi. Nato a Salonicco, allora ancora parte dell’Impero Ottomano, fu un ufficiale d’idee radicali, che fondò nel 1908 un movimento laico denominato Unione e Progresso. Nel 1919 formò in Anatolia un movimento nazionalista che s’oppose all’arrendevolezza del governo di Costantinopoli verso i vincitori, respinse i Greci da Smirne, dalla restante costa anatolica e dalla Tracia orientale, impedendo agli stessi di liberare Costantinopoli. Nel 1922 abolì il Sultanato, nel 1923 proclamò la repubblica, e nel 1924 abolì il Califfato, cioè una sorta di papato islamico di cui, da ultimi, s’erano fregiati gli Imperatori Ottomani, trasformando Costantinopoli in una sorta di Roma pontificia del mondo mussulmano, ch’ebbe nella basilica d’Aya Sophia ed ai Topcapi, il palazzo sull’Acropoli, una sorta di Vaticano. La Costantinopoli sultaniale, infatti, e lo Stato Ottomano tutto, erano diventate una sorta di mosaico religioso, in cui coll’islamismo di Turchi ed Arabi convivevano il Cristianesimo ortodosso dei Greci e non solo, quello nestoriano di molti Siri e Caldei, quello precalcedoniano dei Copti,
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cioè Egizî, gli Armeni, gli Ebrei, e quant’altro. L’Atatürk, per evitare complicazioni religiose, impose alla nuova Turchia uno Stato laico alla francese: tutte le religioni tollerate purché fatto privato, proibizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici e, per i membri di qualunque clero, di andare vestiti per strada con abiti diversi da quelli borghesi. Disposizioni formalmente ancora viventi, tant’è che lo stesso Erdogan, che come islamico un poco baciapile lo è, quando fu sindaco d’Istambul, come venne ribattezzata per nazionalismo Costantinopoli nel 1922, si fece qualche giorno al gabbio in quanto consentì che si leggesse ad alta voce il Corano in una sala del Palazzo dei Topcapi, ora museo, che è il corrispondente maomettano del romano Sancta Sanctorum alla Scala Santa, del Laterano. Tra l’altro, oltre alla barba del Profeta, la Pace sia con Lui, nella stanza è conservata la bandiera delle guerra santa, quella che agitata in modo rituale ne segnerebbe l’inizio, l’atto di dichiarazione formale. Atatürk, con queste misure, intese fare della Turchia una Nazione europea, dove si scrive con caratteri latini e non colle calligrafie arabe, si giudica in base a codici scritti sul modello di quello napoleonico, d’ordinario si legifera in parlamento. Di qui la gran voglia turca d’essere europei. Israele, quando sorse la Turchia laica fu il primo Stato a riconoscerlo. Questa Turchia, aderente al Consiglio d’Europa, cercò d’entrare nel processo d’integrazione supernazionale una prima volta all’epoca del negoziato che portò ai Trattati di Roma del 1957. Allora le venne replicato, semplicemente, che uno Stato anatolico, con in Europa soltanto Costantinopoli e la Tracia orientale, è uno Stato asiatico. In realtà, i diplomatici dettero, così, una risposta semplice ed asettica ad un questione più complessa: l’arretratezza dell’economia e della società turca, ancora preindustriale, che avrebbe rappresentato un problema per il processo d’integrazione, una sorta di palla di piombo al piede per tutti. Oggi questo aspetto è più lieve, la laicità dello Stato turco è di tipo europeo, se non ché, come s’è detto, l’ottomano Signore dei Turchi fu sia sulĠan-i Rnjm, che Califfo dei credenti (islamici), e lo svilupparsi dell’integralismo nel mondo mussulmano attuale fa sempre più leva, in Turchia, sulla pietà popolare. Certo, la Turchia
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neo, dal Atatürk ora sembra ferma, e più di qualche d’uno pare abbia sentito l’ordine del dietrofront. Infine due parole sulla Grecia. Si teme somigli troppo all’urbanistica di Atene: splendidi i monumenti dell’antichità, belle le poche e piccole chiese bizantine che vi restano, pittoresca la «placa» ottomana ma, poi, la delicata città giardino neoclassica, sorta tra otto e novecento, è completamente distrutta dallo scempio edilizio degli anni settanta, il vero ed imperdonabile crimine della tirannide dei colonnelli, una distruzione del tessuto urbano a cui neppure le opere fatte per le recenti olimpiadi hanno potuto porre rimedio. Insomma l’aspetto cittadino e sociale ha subìto la sorte della Monarchia: distrutto da quella tirannide non venne più restaurato. In fondo, l’economia e la società greca non si distinguono gran ché da quella turca, ma agli irreparabilmente decaduti nipotini di Pericle, dei fondatori delle arti apollinee e delle drammatizzazioni dionisiache, agli spensierati discendenti dei pensosi fondatori della filosofia occidentale, ai custodi della ortodossia cristiana nessuno se la sente di dire che non sono più europei.
d’Erdogan non è l’Iran di Ahmmadinejad, il primo capo di governo sta al secondo come un democristiano italiano degli anni cinquanta del secolo scorso stava ad un inquisitore spagnolo delle controriforma. Tuttavia le manifestazioni contro Israele, inedite in Turchia, c’indicano come una sorta di ideologizzazione fondamentalista della società turca sia in atto. Atatürk fu essenzialmente un ufficiale, e la vecchia pagina di Machiavelli ci dice come l’esercito fosse ancora «romano», e quindi in buona sostanza laico, già prima della battaglia di Lepanto o dell’assedio di Vienna, quando Eugenio di Savoia bloccò la conquista turca dell’Europa. Atatürk investì l’esercito della missione d’intervenire quando la laicità dello Stato turco, di spirito europeo, fosse stata minacciata, e gli arresti degli ufficiali dei mesi scorsi, accusati di tramare contro il governo «demoislamico» di Erdogan sembrano preventivi, quasi che Erdogan voglia mettere le mani avanti per non cadere indietro. Insomma, se l’Europa non è un’espressione geografica ma ideale, se Israele vi si avvicina, la marcia turca d’avvicinamento iniziata, in senso contempora-
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SOLILOQUIO DI UN CITTADINO ITALIANO
In una triste domenica di fine Febbraio di ROMANO FRANCO TAGLIATI ULTIMA domenica di febbraio. Una giornata grigia e piovigginosa. La primavera nel Nord sembra lontana anni luce. Milano e Torino si svegliano immerse in un cuscino di bambagia. Per tutta la giornata non circoleranno automobili. Così ha deciso il sindaco. Lotta alla polveri sottili. Su 134 comuni, 132 hanno espresso parere negativo. Di 12 capoluoghi lombardi, soltanto 8 hanno risposto positivamente alla proposta avanzata da tempo al presidente dell’ANCI Sergio Chiamparino e accolta con entusiasmo da Letizia Moratti. Se la domenica la passiamo di solito in casa a leggere, appena saputo dell’impedimento, colti da un impulso corale inatteso, siamo addirittura tentati di scendere in garage e prendere la macchina. Siamo allergici ai divieti. Per entrare in centro, a Milano le automobili più vecchie, quelle ritenute più inquinanti, da oltre un anno pagano un ticket. Chi abita nella zona sorvegliata dalle telecamere, dopo una giornata di lavoro, paga il biglietto per poter tornarsene a casa. Cosa importa se sono le macchine dei meno abbienti. E chi glieli dà a costoro - mi chiedo - i soldi per comprarsi una macchina nuova? Il comune? In ogni caso, se paghi puoi anche inquinare. L’intenzione era sicuramente onesta, francamente non vedo però cosa possa cambiare, in un giorno come questo, un simile divieto. La domenica circolano nelle città un quinto delle automobili che vi entrano nei giorni feriali. Bloccare la città di domenica è come vietare ai barbieri di tagliare i capelli il lunedì. Il problema, di non facile soluzione, si porrebbe casomai nei giorni feriali. Tram, autobus e metropolitana raggiungono oramai in pochi minuti e a costi risibili i posti più lontani. Un amico, presidente di una multinazionale che abita a Milano in piazza della Repubblica, usa la sua potente Mercedes blu per raggiungere il suo ufficio
in via Manzoni. Cinquecento metri. Noblesse obblige: più che un fatto di censo mi sembra un atto di tracotanza. Inutile spiegargli che persino re Gustavo di Svezia va a piedi in Parlamento e passeggia a piedi per le vie di Stoccolma. L’automobile, per quanto tartassata e presa di mira in ogni senso come il capro espiatorio di ogni male, nel nostro Paese è per molti ancora uno status symbol. Un presidente, in ufficio «deve» andarci in macchina! A me non verrebbe mai in mente di impedirglielo. Eppure tutto dovrebbe cominciare proprio da lì. Ma è un fatto di cultura nazionale, un discorso che avrebbe dovuto iniziare tanti anni fa nella scuola, un fatto di costume che ognuno avrebbe dovuto concordare con sé stesso. In quanto alle domeniche senz’auto, come voler disinquinare il Lambro con il classico cucchiaino da caffè. Rispetto allo scorso anno, quando ancora il divieto non esisteva, i valori sono infatti rimasti pressoché identici. Un po’ meglio stanno invece le casse comunali. Una operazione inversamente proporzionale. Gioiscono le assicurazioni. Un po’ meno i benzinai. Sorridono le centinaia di coloro che - giornalisti, politici impegnati nella campagna elettorale, addetti alla moda, tifosi diretti alla stadio - avendo ottenuto permessi speciali, riconquistano la città e viaggiano su strade praticamente vuote mentre fumano indisturbati i camini delle case, le ciminiere delle fabbriche, le centrali termoelettriche che, a pochi passi, nell’hinterland producono piogge acide a tutto spiano. Meglio di niente? No, signori sindaci, quando un provvedimento non serve a nulla, meglio niente. La storia è antica. Non potendo - o non sapendo - come metter mano a soluzioni strutturali, la via più facile resta sempre quella della proibizione. Per quella basta una firma. Se poi sgarri, paghi. Da anni, per spostarmi in città non
59 uso più l’automobile. Eppure la cosa ha finito per mettermi di cattivo umore. Dio ci guardi dai tutori. Il comune di Milano, forse ignorando che già esisteva una legge dello Stato in proposito (art.689 cp.) ha proibito ai minorenni sotto i 16 anni di consumare alcool nei locali. In America, per la stessa ragione, negli anni trenta proibirono di bere alcolici. Un disastro. In molti Paesi dove vige da alcuni anni il divieto di fumare nei locali pubblici, il numero di fumatori - dopo un calo nel primo anno - è aumentato. Fumare fa male. A causa del fumo, le morti previste nel mondo fino al 2025 si aggirano sui dieci milioni. Sul pacchetto delle sigarette sta scritto che il fumo uccide. Eppure tutti fumano, in strada, nelle toilettes delle fabbriche e degli ospedali, nelle automobili. Fumano, nei cortili delle scuole, anche ragazzini di dodici anni. E fosse soltanto tabacco! È vietato anche spacciare droga. Bastasse un divieto. Proibendo si formano forse coscienze? Niente è più affascinante di una trasgressione. A nessuno è venuto in mente che quando al posto di campagne di sensibilizzazione si generano atti coercitivi, la prima tentazione è quella di disubbidire? Ci sono divieti che sfiorano il ridicolo. Il decreto legge 92 del 2008 ha allargato il potere dei sindaci attraverso la modifica dell’articolo 54 dell’ordinamento degli enti locali. In passato il sindaco poteva emanare «atti che gli sono attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica». Ora è incaricato della vigilanza «su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico, informandone preventivamente il prefetto». Le leggi s’interpretano. A Voghera, il sindaco ha vietato di sedersi sulle panchine dopo le 23. A Novara si fa divieto a più di due persone di sostare nei giardini pubblici. A Capri è vietato sedersi sugli scalini della piazzetta. A Roma, Venezia, Firenze è vietato trasportare merci nei borsoni. Vietato, anche in piena estate, rinfrescarsi nelle fontane pubbliche. Ad Eraclea, durante l’estate, è fatto divieto ai bambini di costruire castelli di sabbia sulla spiaggia. In alcune città, è vietato fumare nei parchi pubblici, a Genova è vietato bivaccare dopo le 22 nei vicoli del centro storico. A Eboli il sindaco ha vietato agli amanti in macchina di baciarsi… Per richiedere la residenza, a Cittadella di Padova, bisogna avere un reddito minimo di 5.000 euro. A Capri e a Positano, i sindaci
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hanno proibito di passeggiare con gli zoccoli. Speriamo che i signori sindaci non vengano a sapere che una delle maggiori fonti d’inquinamento sono gli uomini e gli animali. Nessuno mette in dubbio la loro integrità. Tanto meno quella dei vigili che, si dice, facciano soltanto il loro dovere. Il problema comincia quando essi si trovano costretti a far rispettare provvedimenti ridicoli. E cosa faranno se lo zoccolaro di Capri si rifiuterà di togliersi gli zoccoli e di comunicargli il suo nome? Chiederà l’intervento della polizia? Lo trarrà in arresto? O si arriverà a stampargli una targa sulle mutande? I padri di famiglia - quelli avveduti - sanno benissimo che il solo modo per non essere disobbediti, è quello di non proibire ma di consigliare. A meno che …Il peggio che possa accadere è quello di un tutore che diventa aguzzino. Dov’è il limite? Dopo la proibizione dell’alcool ai minorenni - incoraggiata invece dalla pressante pubblicità di alcolici in tutte le televisioni (No Martini, no party), il transito in centro a pagamento, Milano e Torino sfornano la domenica senza macchine. Si trattava proprio di un’emergenza? Nei regni si emanavano ordini. I cittadini ubbidivano supini. In democrazia, dove sovrano è il popolo, non è piuttosto il sindaco che deve adattarsi alle sue necessità, combattendo dove possibile le cause ma facendo soprattutto attenzione che provvedimenti restrittivi vengano presi soltanto in casi di assoluta necessità? Mai deve nascere il sospetto che le decisioni vengano prese con troppa leggerezza, che rappresentino un esercizio di potere o - peggio - uno dei tanti assurdi sistemi per rimpinguare le casse dei comuni. Sfoglio il giornale, accendo la televisione. A Napoli un figlio ha fatto a pezzi il padre. Un gioielliere aggredito in via X, un gruppo di extracomunitari di Milano si sono presi a randellate in via Padova. A margine di una partita di calcio, una rissa tra tifosi ha mandato una decina di persone al pronto soccorso. Se le polveri inquinano, certe notizie avviliscono. Ci sono avvenimenti che assai più delle polveri sottili inquinavano la vita di tutti i giorni. Ma sì, signori sindaci, proibiamo. Proibiamo ai figli di ammazzare i padri, agli spacciatori di smerciare, ai delinquenti di assalire i gioiellieri, ai tifosi di azzuffarsi sugli spalti dopo la partita. Basta una firma.
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DOPO LA FUGA DI «GOOGLE» DALLA CINA
La «Diga Verde» salverà Pechino? di FRANCO LUCCHETTI COME già si sapeva, la Cina aveva assaporato l’idea di installare un filtro su tutti i computers che si sarebbero venduti nel Paese asiatico. Un escamotage per controllare cosa gli utenti cercavano su internet, cosa gli interessava, dove erano diretti, ma soprattutto cosa stavano leggendo. Un controllo, quindi, sulle azioni delle persone di fronte ai motori di ricerca. Per farla breve, un vero e proprio controllo sui contenuti che le persone leggevano e magari, assorbivano. In sostanza, con questo piccolo programma, chiamato «Green Dam» («Diga Verde»), le autorità cinesi, grazie ai loro intelligentissimi informatici, decidevano cosa le persone dovevano leggere e cosa invece no. Tutti sappiamo quanti controlli siano attivi nel sistema cinese, quanto non sia sviluppato il loro sistema democratico nonostante la loro crescita economica che ha caratterizzato questi anni, ma l’introduzione di un sistema di controllo su tutti i computer venduti agli utenti ha fatto notare quanto sia sviluppato, invece, il sistema di censura in Cina. Pechino aveva annunciato che la politica alla base di questo programma sarebbe stata quella di tutelare i giovani dalla violenza e dalla pornografia. Nonostante questo argomento necessiti il dovuto rispetto e la dovuta considerazione, su un sistema «nato democratico» come è quello della rete, dove ognuno deve, nel rispetto degli altri, poter scrivere quello che vuole su qualsiasi cosa, dovrebbe garantire la trasparenza e la libertà di espressione nonché la riservatezza e il rispetto della persona, come aveva ribadito in quel momento un rappresentante della Microsoft insieme ad Ed Black, presidente della Computer & Communication Industry Association che affermava che «è troppo facile usare la medesima tecnologia per aumentare la censura». E le autorità cinesi erano troppo accorte per non lasciare che questo
modo di controllo dei contenuti, con il loro avallo, si sarebbe spostato su altri campi come quello della denuncia del non rispetto dei diritti umani nel loro Paese. Basti pensare a tutte le associazioni per la tutela della libertà di espressione che venivano, e sono, chiuse non trovando spazio nel web. Dopo varie polemiche, la Cina aveva deciso di non continuare, per il momento, su questa strada e quindi per alcuni mesi questo tema non è più stato considerato dai vari media. Solamente nelle ultime settimane, quando il motore di ricerca più importante del mondo, Google, aveva espresso la volontà, vera o presunta, di voler abbandonare il mercato cinese per i troppi filtri, la «Diga» sembrava essere ritornata a funzionare. Il controllo dei contenuti, comunque, è un sistema che potrebbe riguardare non solamente la Cina. Ne abbiamo già, parlato, dalle colonne di questo giornale, di come il sistema dei contenuti che circolano in rete sia un argomento controverso di non facile soluzione. Come si possono controllare i contenuti che sono pubblicati sui siti internet? Ci devono essere delle regole? Quali? Quelle del rispetto degli altri? Sicuramente. Ma stiamo comunque parlando di regole non scritte, che ognuno dovrebbe avere e che sono guidate dal buon senso che in ognuno dovrebbe albergare. Delle linee guida comportamentali su cosa scrivere e come. È ovvio quindi che i contenuti dovrebbero avere delle regole. Ma non è mai stato semplice applicare delle regole alla mente, ai modi di pensare e alle idee. Non si può circoscrivere una cosa nata per non avere limiti. D’altro canto l’intenzione di controllare i modi di pensare è sempre stato uno degli obiettivi più appetibili e potenzialmente raggiungibili nella storia dell’umanità. Quindi il pericolo e gli interessi che gravitano attorno alla rete sono di varia natura e di non poco conto. Dagli a-
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spetti economici a quelli politici. Quindi il potere di influenzare le masse attraverso la creazione di contenuti divulgabili liberamente attraverso un apparato ben strutturato come può essere quello di una organizzazione politica o governativa con vari interessi. Avevamo anche accennato all’utilizzo di vari social network e alla loro funzione prettamente politica sulla divulgazione dei contenuti ora in buona parte in mano ad una parte politica. Quindi, il problema di cosa leggiamo. Come vengono divulgate informazioni false, come queste possono essere giudicate comunemente come vere perché magari si trovano su un sito interessante e che ha un elevato «Tust» (termine che si usa in gergo per definire l’autorevolezza di un sito). Esempio su tutti Wikipedia, «l’enciclopedia libera» in cui ognuno può scrivere di tutto su argomenti vari in base alle proprie conoscenze. Ma se qualcuno ha delle conoscenze e delle informazioni non corrette? Se leggessimo la descrizione di Wikipedia troveremmo: «Enciclopedia aperta gestita da editori volontari. Ha come aspirazioni fondamentali contenuto libero ed articoli oggettivi». Ma come si fa a giudicare l’oggettività? In base a che cosa una opinione, o una idea, per esempio, può essere definita oggettiva? Sarebbe interessante, a questo punto, scoprire l’oggettività delle cose. Una domanda da porsi ora, è come gestire una cosa illimitata nata per non esserlo, com’è appunto internet. Come ostacolare, quando non si trovano delle informazioni per esempio non complete, l’autorevolezza dei siti, e quindi dei contenuti? Soprattutto quando questa autorevolezza è già stata attribuita. Molte volte abbiamo notato persone affidarsi a questa Wikipedia, con la sola speranza che chiunque abbia scritto l’informazione che stiamo cercando possegga la completezza necessaria. Chi attribuisce l’autorevolezza a Wikipedia? La risposta è Google. Il più importante motore di ricerca mondiale che genera l’80 per cento di traffico di ricerca nel pianeta. Uno dei più importanti organismi dei nostri giorni dal punto di vista economico, e quindi, politico. Il Tribunale di Milano condanna i dirigenti di Google per concorso nella violazione della riservatezza di un ragazzo. Il Dipartimento di Stato Usa si è detto negativamente sorpreso. Il cerchio si chiude perfettamente.
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IL CASO ENGLARO ED IL BIO-TESTAMENTO
Il «libero arbitrio» regolato per legge di DANIELA SERPI CASO Englaro. Un problema che ha diviso l’Italia in due: favorevoli e contrari. A prescindere da orientamenti politici o religiosi. Ci si domanda se sia lecito porre fine ad una vita «non vita», attaccata per anni ad una macchina, o se sia più umano fare in modo che questa agonia si perpetui nel tempo chissà per quanto ancora. Una legge che costringe chi cade in coma irreversibile ad una vita artificiale per quasi vent’anni, sembra non rispettare i princìpi di libertà e il sacrosanto diritto di autodeterminazione delle persone. A poco più di un anno dalla morte di Eluana, avvenuta il 9 febbraio dello scorso anno, le polemiche etiche e morali non sono ancora cessate e continuano a infervorare gli animi. Cattolici e laici, esponenti politici e non, che un anno fa erano divisi sul destino di Eluana, nel triste anniversario dalla sua morte l’hanno ricordata con fiaccolate, veglie ed incontri. Per non parlare dei blog e dei vari gruppi formatisi su Facebook. Uno contro l’altro. Proprio come un anno fa. Si è arrivati ad una strumentalizzazione del dolore senza giungere però ad alcuna soluzione legislativa. Lo stesso Beppino Englaro ha dichiarato che la sua battaglia non è ancora finita: «Oggi il mio calvario, il senso della vita e della morte di Eluana è lottare per una legge decente che consenta ai cittadini di poter decidere per loro stessi. Perché il tormento più grande è essere costretto a scegliere per chi ami». A gran voce si continua ad invocare una legge in grado di porre fine a simili situazioni, ma la discussione sul biotestamento in Parlamento è ancora in alto mare. I temi etici dividono sempre in maniera trasversale gli schieramenti politici, con posizioni diverse all’interno dei singoli partiti e della maggioranza di turno. Se tutto andrà bene, la normativa dovrebbe vedere la luce soltanto la
prossima estate. Il disegno di legge sul testamento biologico, che era stato approvato dal Senato il 26 marzo dello scorso anno, è stata bloccato alla Camera. Il testo varato a palazzo Madama è controverso. Più gradito a molti cattolici, osteggiato dal fronte laico, ma non solo. Lo stesso presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha auspicato più volte una revisione sostanziale del testo. Sono ben duecento gli emendamenti da discutere e votare. Qualche passo in avanti è stato fatto, seppure sia ancora difficile trovare un accordo. Lo scorso 23 febbraio la commissione Affari sociali di Montecitorio ha approvato un emendamento che modifica, in parte, la normativa in questione. Innanzitutto amplia la platea di persone a cui è riferita la legge sul biotestamento, comprendendo non soltanto soggetti in stato vegetativo ma anche i malati terminali. Alimentazione e idratazione artificiali, comunque, potranno essere sospese soltanto in casi eccezionali. A deciderlo sarà il medico, dopo aver constatato che il paziente non sia più in grado di assimilare. Le critiche non sono mancate, sia da destra sia da sinistra. Soddisfatta la Chiesa. Oggetto di scontro: la nutrizione. Secondo la maggioranza idratazione e alimentazione artificiali vanno mantenute fino all’ultimo, per l’opposizione invece dovrebbe essere possibile interromperle, secondo parametri medici stabiliti, nel caso in cui il paziente abbia fatto esplicita richiesta. Il senatore Domenico Di Virgilio, relatore dell’emendamento approvato, ha spiegato che questo «è volutamente studiato per allargare la platea dei soggetti a cui è riferita la legge rispetto al testo uscito dal Senato, che faceva riferimento solo alle persone in stato vegetativo. Noi invece vogliamo ampliarla anche a tutti i soggetti che hanno perso la capacità
62 di intendere e di volere in modo permanente, certo non in modo transitorio». E riguardo alla valutazione dello stato clinico del paziente, Di Virgilio ha aggiunto che «è formulata da un collegio medico formato da un anestesista rianimatore, un neurologo, il medico curante e il medico specialista della patologia di cui è affetto il paziente». Quanto fosse urgente un intervento legislativo in materia emerse già nel 2006, quando scoppiò il caso Welby. Oggi più che mai assistiamo al protrarsi di tragiche vicende che vedono come «incarcerate» in un letto numerose persone in stato vegetativo. Situazioni, queste, destinate a moltiplicarsi considerati i progressi della biomedicina e l’opposizione di molti cattolici vincolati a dogmi ecclesiastici che impongono una visione «talebana» del diritto alla vita influenzando anche molti politici. Perché per il Vaticano e tutto il mondo cattolico il caso Englaro è definibile con un solo termine: eutanasia. Senza alcun distinguo. È giusta l’ottica cristiana che la vita vada tutelata ad ogni costo. La vita però, non un surrogato di esistenza ridotta per decenni ad uno stato neurovegetativo, che esala qualche respiro soltanto grazie ad una macchina. Qual è il limite tra cure mediche e accanimento terapeutico? Soprattutto quando la persona tenuta in vita, come Eluana, aveva espresso la volontà di non continuare a vivere in quelle condizioni. L’articolo 32 della Costituzione italiana parla chiaro: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Le legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È proprio per rispettare la volontà della figlia che Beppino Englaro intraprese il suo lungo cammino per porre fine a quella sopravvivenza forzata, cercando di dimostrare l’inconciliabilità dello stato di Eluana con le sue precedenti convinzioni sulla vita e sulla dignità individuale. Lo stato vegetativo persistente è diverso dal coma e viene definito «la porta del non-ritorno». In Italia, attualmente, sono circa 2.500 le persone che versano in questa condizione. Da più di un anno è in atto il Progetto nazionale CCM (Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie) su «Funzionamento e disa-
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prevalente di persone che si oppongono all’accanimento terapeutico, privilegiando la scelta individuale del malato o della sua famiglia. La maggioranza delle persone interpellate, in caso di coma prolungato, preferirebbe la morte. E a gran voce, si schierano quasi tutti in favore del testamento biologico, a qualsiasi elettorato appartengano. Soltanto tra i cattolici praticanti emergono alcune divergenze, anche se non in tutti. Eppure, anche tra i praticanti assidui, emerge una posizione netta: la Chiesa deve limitarsi a intervenire sulle coscienze dei fedeli, senza però fare pressione sullo Stato. Da ciò emerge un dato incoraggiante: molti cattolici sembra si siano scrollati di dosso certi dogmi clericali che tentano di ostacolare il percorso di normative importanti come quella sul biotestamento. L’attuale vuoto legislativo in materia va colmato al più presto, nell’interesse di tutti, affinché la vita possa essere tutelata insieme alla giusta volontà di chi chiede che sul proprio corpo non ci si accanisca inutilmente.
NUOVA DISCIPLINA (Giuliano Nistri, «il Borghese» 9 luglio 1978)
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SUL SEMINARIO DELL’EGEMONIA GRAMSCIANA
La Resistenza, uno scippo alla Storia di ENZO SCHIUMA NON C’È dubbio che uno dei primi atti della strategia gramsciana per la conquista del potere sia stato, dopo l’uccisione di Giovanni Gentile (vedi Giovanni Gentile e la «RSI», morte necessaria di un filosofo, di Alessandro Campi, Asefi Terziaria, Milano 2001), l’aver posto i suoi paletti sulla storia dell’ultimo conflitto, marchiandoli con i noti stereotipi: «guerra fascista» (la guerra è soltanto del popolo che vi versa il sangue), «occupazione tedesca», «resistenza» e «liberazione». Erano i tempi in cui Stalin dettava legge, la guerra fredda non era iniziata e sia gli Inglesi che gli Americani lasciavano fare. Ma oggi - si chiederà il lettore - hanno ancora una ragion d’essere queste definizioni? E a che servono? La strategia gramsciana tutt’ora operante - come si sa - è una guerra di parole che servono tanto da arnesi da scasso che da puntelli d’interdizione. Parole, che inserite artatamente nel circuito mediatico: radio, televisione, stampa e letteratura d’evasione, di cui poi s’alimenta l’Uomo comune, fanno si che i riferimenti mentali e i parametri di confronto con cui si fanno le grandi scelte orientino le masse nella direzione voluta. Non a caso la strategia gramsciana è definita anche «rivoluzione per consenso». Nel nostro caso, la parola chiave del marchingegno è la voce «Resistenza» che, priva della specificazione «partigiana» e retrodatata al 1922 si da includere l’intero ventennio fascista, introduce meglio alla successiva «Liberazione», facendo sua l’esclusiva del merito strappandolo agli americani. Merito, qui s’intende, di aprire le porte al confronto elettorale con cui la strategia gramsciana, fattasi «egemonia», avrebbe poi portato al raggiungimento dell’obiettivo. Un obiettivo, che se poi è scomparso dall’orizzonte per implosione del comunismo sovietico, ciò non ha impedito che alcuni «cocci» di quell’egemonia fossero recuperati e fatti propri dal «pensiero unico» statunitense, a seguito
delle note intese dalemo-clintoniane, per cui il Partito Democratico degli Stati Uniti d’America ha il suo omonimo ed equivalente ,in italia, Ne parlo più ampiamente nel mio libro Frantumi d’Italia (Pagine, Roma 2009). Ma tornia mo al la no stra «Resistenza» che «nostra» - come vedremo - potrebbe esserlo a pieno titolo. Di «resistenze», infatti nel 1943, in Italia, ce n’è stata più d’una: quella contro gli Angloamericani sbarcati in Sicilia; e quella contro i Tedeschi, già presenti in Italia come alleati, e diventati poi occupanti, loro malgrado, per l’imprevisto sviluppo degli eventi. Orbene, premesso che il termine è di conio militare, c’è da chiederci: quale delle due ha maggiore rilevanza per passare alla storia come «La Resistenza» dell’intera nazione? In un’analisi storica ispirata alla democrazia e alla libertà di pensiero, non può valere soltanto la legge di Brenna, ma il modo con cui le due «resistenze» si pongono di fronte al diritto internazionale e alla suscettibilità - come s’è detto - di riferirsi all’intera nazione. Vediamole. Se prendiamo a campione di «resistenza legittima» quella francese, prima e dopo la resa ai Tedeschi, e con essa quella polacca, belga, olandese, sovietica, greca e jugoslava, se ne astrae la massima che essa sia tale, quando un esercito, trascinato in conflitto, «resiste» alla pressione di quello rivale che cerca di sopraffarlo. E poiché l’oggetto del contendere è il territorio, essa non può non esplicarsi, che contendendo il territorio stesso all’avanzata nemica, salvo proseguirla a territorio occupato, nel rispetto delle condizioni fissate dalla convenzione di Ginevra del 1927. Diversamente ogni altra forma di «lotta armata» in clandestinità, cioè: senza divisa, ubicazione e identificazione, che nel linguaggio giuridico militare è definita «guerriglia», non ha legittimazione nel diritto internazionale. Non risulta, peraltro, che le nostre frammentate «bande armate», che agi-
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vano all’insegna del «mordi e fuggi» producendo esclusivamente attentati, si siano fisicamente opposte al tedesco invasore contendendogli qualche lembo del territorio. E neppure che si siano conformate alle condizioni fissate dalle predette Convenzioni (dell’Aja del 1889 e del 1907, poi ratificate a Ginevra nel 1927) , in base alle quali i «legittimi combattenti» operanti in territorio occupato dal nemico sono tali, soltanto se «identificabili a vista». Dov’è dunque la «legittima resistenza» partigiana? Ma impropria la definizione lo è anche dal punto di vista dell’ordine temporale, perché attribuita a un evento che, nell’atto del suo compiersi, era privo dell’aggressore di riferimento, quali potevano essere i Tedeschi presenti in Italia al momento dell’Armistizio, tutti in regola con il «permesso di soggiorno», poiché chiamati in soccorso come «alleati» dal legittimo governo in carica, onde aiutarci a «resistere» contro «il nemico invasore», quali si configuravano, alla data del 9 luglio 1943, gli Angloamericani sbarcati in Sicilia, tra Gela e Licata. Resistenza, questa, che fuor d’ogni dubbio si appalesa, per analogia coni casi sopracitati, come l’unica con valenza «nazionale», verificatasi in quel conflitto, e proseguita dalla RSI fino al 25 aprile del 1945, sia pure con la massiccia partecipazione germanica, controbilanciata da analogo e maggiore sostegno degli «alleati» alla lotta partigiana. Ecco dimostrato come l’egemonia gramsciana ha avuto il potere di far passare alla storia, quale «Resistenza nazionale», quella minoritaria e terroristica della lotta partigiana, rappresentativa di quell’esigua parte che dette luogo alla guerra civile, negandola a quella dell’Italia intera, soltanto perché allora era fascista. A ciò si aggiunga che, negando questo agli Italiani tutti di ieri e di oggi, si nega anche il sacrificio, di fronte alla storia, della grande quantità di vittime tra la popolazione civile, causata dai non meno terroristici bombardamenti angloamericani «resi necessari per fiaccarne la resistenza». Questa - quale miglior riconoscimento - la parola usata dal generale inglese Arthur Arris, Comandante in capo delle Forze Aeree Alleate. Vergogna! In Inghilterra, in Francia, in Germania e negli Stati Uniti non sarebbe mai avvenuto. Ma qual è, tornando all’egemonia gramsciana, si chiederà il lettore: il processo metabolico mediante il quale una
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«parola magica» - così le chiamava Amintore Fanfani - interviene a modificare il pensiero di chi la usa? Lascio la parola ai fatti. Correva l’anno 1948, lo schieramento dei partiti era vastissimo. In prima fila c’erano la Democrazia Cristiana e il Blocco del Popolo, che comprendeva comunisti e socialisti, in seconda fila: liberali, repubblicani, azionisti, monarchici ed altri. Ebbene, la propaganda del PCI riassunse la sua posizione programmatica nell’aggettivazione di «progressista», lasciando alla DC quella di «conservatrice». Ad ambedue il distinguo stava bene: ai primi perché l’immagine del progresso li favoriva presso i giovanissimi, alla seconda perché il mantenimento dello status quo era rassicurante per chi temeva «salti nel buio». In quelle elezioni vinse nettamente la DC che, facendo leva sulla paura del comunismo, tolse molti voti ai partiti minori, ma il Blocco del Popolo ebbe una notevole affermazione. Affermazione, che si riconfermerà sempre di più nelle successive elezioni, fino a raggiungere il sorpasso della DC, che avvenne nel 1975. Cosa era avvenuto? Non soltanto che i giovani vedevano nel «progresso» l’immagine stessa del loro futuro, ma che, essendosi estesa tale distinzione anche alle correnti interne degli altri partiti - definendo «di sinistra» i democristiani progressisti e «di destra» i conservatori, e così per i liberali, monarchici e repubblicani - la maggioranza degli elettori finì per considerare che, se la sinistra d’ogni partito era la parte progressista, il PCI, che era la sinistra di tutte le sinistre, era per ciò stesso la quintessenza del progresso. Ma non è il solo caso di successo pieno. Ancora oggi «La Resistenza» continua in certe «parole magiche» che fanno da paletti d’interdizione al comune sentire, mettendo a cuccia chi non si adegua al «politically correct». Si pensi alle parole «xenofobo» e «razzista» usate contro chiunque osi preoccuparsi dell’invasione di immigrati che sta sommergendo il Paese, e si ha la misura di quanto più efficace sia l’uso paralizzante del terrore, in luogo d’una corretta disputa democratica. Xenofobo, infatti, è uno dei termini con finale fobica usati in psichiatria per definire chi è affetto da turbe mentali; e razzista, lungi dall’essere il difensore delle razze tutte, quale dovrebbe essere secondo corretta lettura, è un insulto rivolto a chi «disprezza le razze altrui» (?), che sta anche per «assassino», perché nella storia tanto è avvenuto.
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L’ART. 52 SOSPESO, MAI ABROGATO
Leva obbligatoria o volontari? di ODOARDO GAIBA IL RECENTE arresto di molti generali ed ammiragli turchi (la Turchia è membro della NATO ma non dell’Unione Europea) accusati di aver complottato, a partire dal 2003 contro il governo dell’attuale primo ministro, sostenuto dal Partito islamico, induce ad alcune riflessioni. I militari di truppa sono chiamati obbligatoriamente a far parte delle tre Forze Annate (Esercito, Marina, e Aeronautica) con periodi più o meno lunghi, dai due a i quattro anni. Con la Costituzione di Ataturk le Forze Armate, considerate la parte più evoluta del Paese assunsero l’onere della Difesa della Repubblica (laica) e divennero le custodi della laicità dello Stato, sottraendosi all’influenza perniciosa dei mullah ed allo strapotere di molti governanti. Questo fatto, sottaciuto da molta stampa ed altri apparati informativi, è sorprendente in quanto per la prima volta un membro della NATO si è trovato in una gravissima crisi politica interna (eccezion fatta per la Grecia del 1967). Se l’arresto degli alti ufficiali ha rafforzato - come logico il governo in carica, lo ha indebolito
nei confronti dell’Unione Europea, allontanando nel tempo l’entrata della Turchia nell’Unione, in quanto, a parere della stragrande maggioranza dei governi europei, uno Stato con oltre 90 milioni di abitanti islamizzati viene ritenuto una fonte di rilevanti preoccupazioni politiche, culturali e di sicurezza per l’Unione stessa. Quando ho espresso il concetto che i militari turchi sono i custodi della laicità dello Stato, ho inteso affermare che tutti, comprese le truppe, sono consapevoli, di questa loro prerogativa. E i nostri militari di truppa? Non è possibile fare parallelismi con quelli Turchi in quanto diversa è la situazione delle nostre Forze Armate. È bene ricordare a chi legge che dal 2000 (governo D’Alema, centrosinistra) le Forze Armate sono formate da: Carabinieri, (costituiti in quarta Forza Amata), Esercito, Marina, Aeronautica, con militari di truppa volontari. Infatti l’articolo 52 della Costituzione («La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge...»), è stato sospeso, ma non abrogato. Talché oggi la truppa è interamente formata da volontari con ferma triennale, rinnovabile. Naturalmente anche alle donne è stato concesso di far parte del nuovo sistema di arruolamento. Dal 2000 ad oggi la qualità della vita militare per la truppa è migliorata non di poco, elevando positivamente il lavoro ed il rendimento del personale. Ai professionisti spetta un trattamento giuridico ed economico dignitoso, pur dettando nei redditi mediobassi, con retribuzioni oscillanti tra i 900 ed i 1.600 euro mensili netti, con l’eccezione dì quanto percepito dal personale militare impiegato nelle operazioni internazionali più che soddisfacente e sostanzialmente in
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linea con quello degli altri Paesi occidentali. Le Forze Armate professionali hanno consentito un sostanziale ridimensionamento del personale, riducendolo a meno di 100.000 unità. Allo stato attuale vi è un esubero di ben 13.000 sottufficiali, riassorbito entro il 2017. Tutti i servizi di caserma e dei comandi sono attualmente svolti da personale civile, talché i reparti sono impiegabili immediatamente, rimanendo a presidiare gli immobili militari soltanto nuclei di personale specificamente destinato a questo fine. L’utilità delle Forze Armate deriva dalla capacità di finalizzare il loro impiego a vantaggio degli interessi nazionali: il bilancio della Difesa deve dare il massimo ritorno politico, economico, psicologico, di fiducia dei cittadini, di prestigio e di peso internazionale. Ciò non è del tutto vero. L’opinione pubblica si chiede se l’impiego sia proficuo e se i quattrini non sono gettati via inutilmente nelle missioni estere. D’altro canto soltanto gli USA oggi sono in grado di garantire e regolare una parvenza - pur discutibile - di questo ordine internazionale. Ecco il supporto dei Paesi della NATO ed anche dell’Africa, Asia e America del Sud. Personalmente sono contrario a questo dispiegamento di forze all’estero. Quanti miliardi spende l’Italia ogni anno? Di là dalle cifre ufficiali, bisogna triplicare i miliardi di euro conosciuti dal Parlamento e dalle Commissioni. Vi sono spese che riguardano il vestiario, l’equipaggiamento, il vettovagliamento, l’armamento, l’intelligence, che non sono nemmeno menzionate. È ormai opportuno, anzi indispensabile che venga costituito il cosiddetto «esercito europeo» costituito da reparti di ogni Stato dell’Unione. Le forze disponibili di pronto intervento operativo dovrebbero essere di circa 100.000 unità. Il problema principale è quello dell’organizzazione di comando, un altro problema da risolvere è inerente alla standardizzazione degli armamenti e dei munizionamenti (per Eserciti, Marine e Aeronautiche di tutti i Paesi membri). Quello del comando sembra quasi insormontabile talché si è pensato più volte di «sfruttare» l’organizzazione di comando della NATO, che metterebbe un comando operativo snello e
IL BORGHESE più rispondente alle esigenze immediate. Ma le discussioni continuano e non sembra facile mettere d’accordo i Paesi più importanti. Vorrei far presente che di fatto vi sono solchi e cesure fra i giovani professionisti e gli altri giovani che non intraprendono la condizione militare. Ai primi si indicano come valori essenziali e portanti della vita del Paese: sentimento nazionale, educazione, rispetto, autodisciplina, cura della persona anche della salute. Dall’altra parte ovunque si notano torme di giovani nullafacenti, alla ricerca di facili guadagni., dediti alle droghe, agli alcoolici, tesi alla violenza ideologizzata o semplicemente criminale. Direi che tra gli uni e gli altri vi è la stragrande maggioranza di giovani dediti allo studio, al lavoro, alla famiglia, agli affetti. È il caso di ricordare che in caso di emergenza qualsiasi governo, con la maggioranza parlamentare può
Aprile 2010 ripristinare la chiamata obbligatoria. Ciò comporterà o meglio comporterebbe numerosi problemi di difficile soluzione sia politicamente che socialmente. E allora? Dalle colonne del «Borghese» lancio una proposta, Perché oltre al volontariato non si procede ad una chiamata - quasi obbligatoria - (valida soltanto per giovani con un profilo fisico-psicoattitudinale soddisfacente) con cadenza mensile e da esaurirsi in trenta giorni, ciò consentirebbe - pur con un costo cospicuo ma pienamente redditizio sul piano sociale - a molti giovani di rendersi, conto dei princìpi informatori della vita militare ed un addestramento socio-integrativo, con benefici notevoli sul piano della conoscenza dei diritti e dei doveri dei cittadini. Tutti ciò è possibile o sarà possibile. Me lo auguro vivamente per il nostro Paese.
Maggio 2008
IL BORGHESE
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IL GIARDINO DEI SUPPLIZI LA LOTTA DI CLASSE COPIA LA «TV»
L’«Isola dei Cassaintegrati» di FRANCO JAPPELLI SI SONO incatenati ai cancelli della fabbrica e non è successo nulla. Sono saliti sui tetti e non è successo nulla. Hanno bloccato il traffico sulla vicina strada statale e non è successo nulla. Il massimo che hanno ottenuto i 120 operai in cassa integrazione, e che rischiano di perdere il posto, della Vinyls, ex Enichem, azienda chimica di Porto Torres, in Sardegna, è stato qualche striminzito trafiletto sui quotidiani locali. Poi qualcuno di loro ha avuto un’idea originale. Andiamo sull’isola dell’Asinara, quella del supercarcere per superdelinquenti per capirci, e facciamo un reality. Il nome, ovviamente, è stato trovato in un baleno: L’isola dei cassintegrati. In quindici sono così sbarcati sull’isola e hanno «occupato” un braccio in disuso dell’ex carcere. «In risposta all’opulenza dell’Isola dei famosi, abbiamo inventato l’Isola dei Cassintegrati. Come i famosi», ha spiegato Tino Tellini, del gruppo degli «irriducibili», «ci prepariamo ad affrontare anche noi le prove di sopravvivenza, finché non avremo risposte certe sul nostro futuro». Gli operai hanno portato sull’Isola fornelli e coperte per scaldarsi e scorte di cibo regalate, in segno di solidarietà, dai dipendenti di un’azienda casearia di Thiesi. Il colpo di genio che ha fatto diventare la protesta delle tute blu dell’Isola dei cassintegrati un «caso» nazionale lo ha però avuto Michele Azzu, studente di musica in Gran Bretagna e figlio di uno dei cassintegrati. Michele, il mese scorso, decide di aiutare l’iniziativa creando una pagina sul social network Facebook. In pochi giorni al gruppo dell’Isola dei cassintegrati si iscrivono decine di migliaia di persone. I grandi giornali cominciano ad occuparsi del fenomeno ed ora anche il governo sembra intenzionato ad in-
tervenire per salvare i posti di lavoro dei Cipputi sardi. Tutto questo avveniva mentre milioni di italiani assistevano, inchiodati davanti al televisore, alle scenate isteriche di «Alda» Busi e allo sfacelo fisico in diretta di Sandra Milo nella «vera» Isola dei famosi. Sul piano dei numeri, ovviamente, il confronto tra i due reality, quello attivo sulla rete e quello che va in onda in televisione, è improponibile. È evidente che la televisione, ancora oggi, è l’unico media in grado di catturare l’attenzione di milioni di persone. Quando, però, dalla quantità si passa alla qualità il confronto si risolve a tutto vantaggio della rete. Lo spettatore televisivo, per forza di cose, è acritico, pressoché soggiogato e ipnotizzato dal piccolo schermo e non può intervenire se non con quella ridicola pagliacciata del televoto. Su Facebook, al contrario, tutti possono dire la loro e contribuire a creare la pagina in una sorta di scambio dialettico in costante aggiornamento. Qualcuno osserverà che anche sulla rete c’è molta spazzatura e molto trash,per non parlare della pornografia dilagante e delle chat demenziali per adolescenti che si esprimono in un linguaggio elementare a metà tra il simbolico e il sincopato. Verissimo. Ma su Internet esistono anche migliaia di siti e di blog di qualità sui quali chi naviga può, non soltanto informarsi, ma anche «formarsi». La televisione, invece, incatenata dalla logica dell’Auditel che condiziona il mercato delle inserzioni pubblicitarie, non può esimersi dal mandare in onda la «spazzatura» nelle ore di maggior ascolto confinando qualche raro programma di qualità a notte fonda o addirittura all’alba. E perdente, poi, la televisione risulta anche sotto il profilo «etico».
Le due «isole», quella dei cassintegrati su Internet e quella dei famosi su Rai2, veicolano, infatti, messaggi e valori completamente diversi, per non dire opposti. Sulla rete trionfa la solidarietà, la serietà della vita, la difesa della dignità personale. In tivvù, al contrario, vince l’esibizionismo sfrenato, il birignao garrulo delle checche sculettanti e delle vecchie puttanone in disarmo, l’alterigia cogliona dei figli di papà e l’arroganza plebea del coattume gossipparo. È un mondo di «serie B» (ad essere di manica larga) popolato da nani, ballerine, veline, escort e tronisti, ma, duole dirlo, non è affatto un mondo irreale o minoritario. A ben guardare aveva profeticamente ragione Ennio Flaiano quando, nei lontani anni Sessanta, sentenziò: «fra trent’anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione». L’autore de La solitudine del satiro, anche se pessimista, non poteva però prevedere quanto becera e gaglioffa sarebbe stata questa nostra sventurata Italia contemporanea plasmata dalla tivvù. La verità è che i reality televisivi hanno successo perché riproducono, davanti all’occhio delle telecamera, la società come essa è, anzi, come è stata creata dal Moloch televisivo. «Questi popolarissimi show televisivi», scrive infatti il sociologo Zygmunt Bauman, «sono manifestazioni pubbliche della superfluità dell’uomo. Racchiudono in un’unica storia una forma di compiacimento e un monito. Nessuno è indispensabile, nessuno ha diritto alla propria parte dei frutti derivanti dallo sforzo comune... La vita è un gioco duro per gente dura... In ogni istante del gioco ciascun giocatore deve badare solo a se stesso, e per andare avanti - e tanto più per arrivare in fondo - deve prima tessere alleanze per eliminare i molti contendenti che gli si parano innanzi, solo per poi tirare lo sgambetto a quelli con cui si è alleato. Se non ti dimostri più duro e con meno scrupoli degli altri, verrai fatto fuori da loro, subito e senza rimorsi. È il più idoneo (leggi: quello con meno scrupoli) a sopravvivere.» Siamo insomma lontani anni luce dal «tutti per uno, uno per tutti» delle tute blu dell’Isola dei cassintegrati. I reality
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rappresentano l’espressione più autentica e genuina del modello «liberale, liberista, libertario e libertino» dominante oggi in questo nostro sgangherato Occidente. Con un colpo solo queste trasmissioni hanno cancellato, oltre al buon gusto e al senso del decoro, anche ogni idea tesa a contrastare la crudeltà ferina dell’homo homini lupus. Grazie al Grande fratello e all’Isola dei famosi onorevoli tradizioni politiche e culturali, come il solidarismo cattolico, il socialismo umanitario, il cooperativismo mazziniano, lo Stato etico fascista, l’utopia comunista, sono finite nell’archivio polveroso della storia. Trionfa l’individuo, meglio se coatto, cinico, trasgressivo e magari anche un po’ frocio. «Nostra signora televisione», come la chiamava Luciano Cirri, è lì, pronta a coccolarlo, vezzeggiarlo, scusarlo ed esaltarlo. L’unica speranza di salvezza, a questo punto, rimane Internet o, meglio, quella parte di Internet che serve a veicolare idee, cultura e iniziative politiche. Fenomeni come il «grillismo» e il cosiddetto «popolo viola» dimostrano che la rete è un formidabile strumento d’aggregazione e di organizzazione del dissenso. E non va dimenticato, come testimoniano i casi della Cina e dell’Iran, che è anche un potente strumento di libertà, difficile da censurare anche per la più occhiuta e intransigente delle tirannidi. Ma in Italia - è doveroso ammetterlo - la lotta per la libertà sarà sicuramente più lunga e difficile. Un conto è infatti sconfiggere Ahmadinejad o l’assolutismo del comunisti cinesi e ben altro paio di maniche è vincere contro la subdola pervasività della coppia Maurizio Costanzo-Maria De Filippi, vera e incontrastata padrona di questi nostri desolati giorni televisivi. Da queste parti, infatti, la madre dei «tronisti», purtroppo, è sempre incinta.
Aprile 2010
IL BORGHESE
«Festival» e tempi moderni di MICHELE LO FOCO QUAL è la circostanza che il festival di Sanremo ha reso indiscutibile? Non certo che la presentatrice grossa e goffa sia gradita alla casalinga di Voghera, né che la regina di Giordania sia una delle donne più belle del mondo, e nemmeno che Cassano sia totalmente illetterato. Queste sono realtà già acquisite mentre non era ancora chiaro, ed ora lo è per tutti, che la musica è morta. Non tutta la musica, ma quella che una volta era destinata alle famiglie, una sorta di bene comune tra i bambini ed i genitori, quella di cui si discuteva a tavola con una certa animosità. Quella musica è morta ed è stata sepolta dentro Sanremo ed a cura di Sanremo e ci sono anche i nomi dei killer, nemmeno tanto nascosti. Innanzitutto il direttore artistico, Mazzi, che ha selezionato i «nonbrani» e poi la RAI che, con il concorso esterno di Mediaset, ha preparato l’operazione a tavolino. Molto pubblico e molto successo: questo era l’obiettivo della emittente pubblica, e per ottenerlo si è ricorsi a quello che è divenuto ormai da anni il dado vegetale degli spettacoli, la spudoratezza. Condimento essenziale di qualunque proposta, dal «Grande fratello» ad «Amici» a «La vita in diretta» è l’ospite shock, colui che non ti aspetti, colui che dice l’indicibile o che mai ti saresti aspettato di trovare sul piccolo schermo. Uno capace di orinare in diretta o di aggredire per nessun motivo, di spogliarsi o di scrivere la Divina Commedia stando in piedi. Soprattutto uno capace di cantare senza vergognarsi. Ed ecco che quella che era definita, con un termine vetusto, gara canora diviene una specie di corrida nella quale non vince la melodia ma vincono gli sfacciati che hanno saputo conquistare un pubblico pronto a tutto. Infatti l’arma segreta dell’anno prossimo sarà quello di eliminare le canzoni e di presentare di seguito
nani e ballerine senza intervallo alcuno. Tanto la musica non si vende, i dischi sono desueti, internet è gratis e Sanremo è Sanremo, con i fiori, il mare e gli alberghi di Montecarlo. Il festival sarà presentato direttamente dalla De Filippi con l’aiuto sostanziale del Principe, mentre la gara partirà dalla fine, premiando direttamente il primo arrivato, un allievo della De Filippi stessa, così da evitare di ascoltare i brani. Sono certo che garantendogli il silenzio assoluto, parteciperebbe anche Celentano. Lo spettacolo e le intercettazioni Convivere con qualcuno che registra ed ascolta le conversazioni è una realtà alla quale dobbiamo abituarci. In un certo senso la magistratura sta anticipando il giudizio universale, fa una prova casareccia della valutazione finale, nella quale saremo giudicati per le nostre azioni e per i nostri pensieri e saremo destinati al paradiso, all’inferno o al purgatorio. Perché qui non si tratta più di aver commesso un reato penale, magari di quelli classici, ma di aver pensato e espresso uno stato d’animo, forse malevolo o astioso, ad un’altra persona, o di aver ricevuto le lamentele, le raccomandazioni, gli inviti di qualcun’altra. Non possiamo più far finta, non è più permesso prendere in giro, né adattarsi alla conversazione, non possiamo usare le nostre arti dialettiche per gestire le nostre giornate o i nostri affari. Qualcuno registra trascrive e giudica esattamente in base alla successione fisica delle parole, … ma «vaffanculo» diventa precisamente «vai a fare in culo», un’offesa mortale, una minaccia orrenda. Così Berlusconi non può sfogarsi con il suo consigliere dell’Agcom, Giancarlo Innocenzi, quello accanto al quale c’è sempre la sigla PDL, non può, perché pensare male di Santoro è reato, ormai tutti lo sanno. Parliamo di quel Santoro che è stato parlamen-
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tare dei DS, (non professore universitario alla normale di Pisa), che è lì e pontifica perché un magistrato ha obbligato la RAI a tenerlo, a pagarlo e a farlo vedere. Lo ripeto e scrivo per la decima volta: un direttore di RAI 3, succeduto a Minoli, chiamò un produttore cui era stato firmato da tempo un contratto per dieci puntate e gli disse: «Senta, io non ce l’ho con lei, non ci conosciamo, ma io il suo programma non lo posso fare perché sono obbligato a fare la Dandini. Sono talmente obbligato, che lei può farmi causa ma non cambierò nulla». Quella conversazione, come tante altre, non è stata intercettata, ma il produttore è vivo e vegeto e può testimoniare. Se andiamo per «fatti concludenti» usando un brutto termine legale, questi sono fatti e le altre sono chiacchiere. Santoro è lì, Floris è lì, la Gabbanelli è lì, la Dandini è lì, guadagna circa un milione di euro l’anno, e la produce Fandango, la storica società di produzione di estrema sinistra che non può fallire. Fazio è lì, guadagna circa due milioni di euro l’anno e sembra un sopravvissuto. Dov’è l’ingiustizia che ha colpito costoro, e dove sono gli intercettatori folli che ascoltano tutti tranne loro? Perché nessuno interroga quel direttore di RAI 3? Berlusconi è sempre incriminato per qualcosa di diverso, anche soltanto perché dice al suo consigliere PDL che la faccia di Di Pietro non è telegenica! Ma perché, ha torto?
Questo grandioso e costoso spettacolo è entrato nell’agone dei prodotti come una Ferrari in una corsa di cocchi ed ha stracciato il primato che deteneva la povera commedia all’italiana con un distacco tale da sorprendere gli stessi distributori della Fox. Mai si era visto un film, parliamo di Avatar, quadruplicare l’incasso del miglior film precedente, e mai si era potuto prevedere che ciò avvenisse in neanche due mesi. Un vero miracolo della tecnica e della promozione: si calcola che gran parte dei ragazzi siano andati a vedere il film due volte. Un vero miracolo anche per le finanze della Fox che chiude con un utile del 170 per cento migliore di quello precedente, ed un ottimo squillo di tromba per il cinema che poltriva e che invece ha cominciato a batter cassa. Tutti o quasi i film dignitosi hanno portato a casa risultati lusinghieri mentre le truppe del «3D», galvanizzate dai primati, hanno attaccato in massa con Alice, altro grande film di un grande regista. Sembra l’alba di un nuovo giorno per la vecchia settima arte, che si lascia alle spalle Fellini e corre sulla strada del futuro, mentre milioni di spettatori con gli occhiali entrano in scena da veri protagonisti. La stessa pirateria si arrende: troppa tecnica, troppi soldi, mentre il cinema erotico, ormai abbandonato da tutti, trova nuova linfa nel coinvolgimento estremo degli utenti. Certo essere lì, in scena, poter quasi toccare, è un’altra vita.
La nuova vita del cinema Nessuno, l’anno scorso, avrebbe scommesso un centesimo sulla vittoria del cinema, anzi veniva qua e là suonato il de profundis per un genere ormai antico che aveva perso il carattere di divertimento quotidiano per prendere quello di svago episodico ed eccezionale. Ma non bisogna mai sottovalutare gli Americani e la loro, forse l’unica, capacità vera, cioè quella di far trainare il loro mondo, e quello collegato, dalla tecnica e dalle nuove invenzioni. Seminaufragato lo sforzo per far diventare l’alta definizione una sorta di rinascita per il prodotto, ecco che le grandi e potenti compagnie di oltreoceano decidono di buttare sul tavolo l’asso, cioè un misto di tecnica, spettacolo, classicità avventura e buoni sentimenti, cioè il «3D» per tutti, dai neonati ai nonni.
Un signore modesto e riflessivo Fino a questo momento mi sono trattenuto, pur con grande fatica, dal commentare le attività del Ministro della Cultura perché, in un eccesso di affettività, aspettavo che prendesse, con calma, cognizione delle vicende e se ne facesse una ragione. Sono rimasto in mortificante silenzio di fronte alle prime nomine, alle prime indicazioni su Cinecittà, ai primi indirizzi, pur sapendo che la strada intrapresa era esattamente quella sbagliata, il sentiero più rapido per il burrone. Ho cercato di ottenere l’attenzione dei direttori sul rispetto di alcune regole, ho visto infrangere anche quelle più elementari e non ho potuto far altro che correre in soccorso dei produttori indipendenti, quelli che non hanno divinità che li proteggono, con i pochi strumenti a disposizione.
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Faccio un passo indietro: il mio affetto per Sandro Bondi nasce nel momento in cui, agli inizi di Forza Italia, erano stati creati i dipartimenti ed il centro studi. Avevo costituito il Dipartimento cultura e spettacolo regionale e lui era un operatore del settore, silenzioso, dignitoso, modesto, schivo e mal pagato. Ma aveva una grande fede nella nuova politica ed era assolutamente deciso a sacrificarsi senza ulteriori scopi. Non aveva la tecnica e la determinazione di altri, non era scaltro e preveggente, era fedele e fatalista e soprattutto viveva con poco. Per questo affetto, e per questa sincera ammirazione, ho gioito della sua valorizzazione, fino ad augurarmi che diventasse Ministro di quell’area che ci aveva visto collaborare dal basso senza particolari speranze. Ma sono stato subito deluso e non ho più potuto ragionare con lui proprio nel momento in cui i fatti della vita lo hanno portato a determinare le regole. Non so perché, ma ne ho preso atto e mi sono limitato ad osservare in silenzio. I danni del cinema, quelli veri, profondi, morali e materiali, li aveva causati Veltroni con il suo «fondo di garanzia». Mille miliardi buttati ed un’industria statalizzata nel modo peggiore. Urbani aveva ereditato il disastro e vi pose rimedio, con una legge ancora troppo «educata» ma almeno strutturalmente esatta: introdusse un vero, dico vero, reference, quello che, un po’ più severo, in Francia funziona da anni, il product placement, ed il limite per l’aiuto di Stato. Le case cinematografiche cominciarono ad andare meglio, la barca si raddrizzò leggermente e soltanto il credito, sotto l’impulso di idee sconnesse e velleitarie, non ritrovò l’equilibrio. Ma quel reference, quello «educato», non piaceva a chi doveva successivamente gestire le sorti del mercato ed è stato modificato nella struttura e nei significati negli ultimi due anni. Il ministro Bondi non si è accorto di nulla, e mentre i suoi generali mettevano a ferro e fuoco il settore, lasciando solo relitti fumanti, ha pensato che le sorti del cinema nazionale, del teatro, e delle strutture fossero rosee. Non soltanto non lo erano e non lo sono, ma non potranno che peggiorare!
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Il mondo del cinema, è forse ora di dirlo, è rimasto allibito di fronte a uomini sbagliati, a regole sbagliate, ma non ha potuto reagire, come mai possono reagire coloro che sono allo stadio della sopravvivenza. Miseria e burocrazia portano alla sudditanza e all’accattonaggio, e se il culturame cinematografico di veltroniana memoria continua a proliferare grazie ad uno stuolo di sopravvissuti messi a gestire il potere, il settore, nel suo insieme, quello che la destra non ha mai valorizzato, quello che dovrebbe servire a descrivere un’Italia bella e buona, muore di stenti e di raccomandazioni. Voglio ancora pensare che il ministro Bondi non sia stato informato con esattezza di quali siano le esigenze e di quali riforme questo Paese ha bisogno, ma credo fermamente sia giunto il momento che qualcuno gli dica la verità sui fatti, sulle regole, sulle strutture e sugli uomini. Voglio ancora pensare che quel signore modesto e riflessivo sia capace di un esame di coscienza e di invertire il senso di marcia prima che la voragine inghiotta tutto il patrimonio culturale e le speranze di chi ancora crede e lavora.
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IL BORGHESE
Il «film» che non s’ha da fare di ERRICO PASSARO NEL TEMPO della Rete, il cinema non mostra segni di crisi. La settima arte, anzi, è sempre più rilevante nel dibattito culturale e rischia di soppiantare la letteratura (se non l’ha già fatto) nel suo ruolo centrale di magnete di pensieri e creazioni. Eppure, anche in questo settore a metà fra arte e industria, non mancano le criticità. Uno dei nodi problematici è rappresentato dall’«avvento delle tecnologie digitali», e, in particolare, della rivoluzionaria ripresa in tre dimensioni, che ha in Avatar di James Cameron il suo campione. Alla vigilia dell’uscita del film, i giornali italiani hanno registrato una polemica alquanto provinciale fra i suoi detrattori, timorosi di una disumanizzazione dell’arte filmica, e i suoi estimatori, convinti che il cinema ha sempre ricercato lo stupore e la meraviglia dello spettatore. Alle critiche sugli aspetti formali dell’operazione si sono aggiunte quelle sugli aspetti sostanziali: si è detto che il film non è altro che una riproposizione in uno spazio ed in un tempo remoto della classica storia di cowboy e indiani, con l’aria di giudicarla una sorta di «baracconata», e non il mito di fondazione e l’epica nazionale di un Paese che sulla conquista della nuova frontiera ha poggiato le sue fortune imperiali (qualcuno si è spinto a censurare come anticattolico il panteismo naturalistico dei ‘Navi, la popolazione aliena del pianeta Pandora, i cui riti a noi hanno ricordato per certi versi le celebrazioni elfiche della Terra di Mezzo). Staremo a vedere se il tempo darà ragione a Cameron e alle sue innovazioni. Per il momento, si sa che ad «Avatar» seguirà l’adattamento in 3D di «Guerra Eterna» di Joe Haldeman da parte di Ridley Scott, al suo grande ritorno alla fantascienza dopo i fasti di «Blade Runner» e «Alien», e quello di «Fondazione» di Isaac Asimov da parte di Roland Emmerich, noto per «Stargate», «Indipendence Day» e «2012», peraltro al momento alquan-
to scettico sull’effetto visivo finale di questa tecnica. Il film di Emmerich ci introduce al secondo, grande nodo problematico della cinematografia d’oggi e di sempre, ovvero la «trasposizione dell’opera letteraria su celluloide», le sue modalità, le infedeltà che ci si può concedere rispetto al prototipo su carta. Nel trasformare la trilogia narrativa originaria in un trittico di film, il cineasta, da una parte, deve guardarsi dalle invettive furenti dei appassionati del libro, pronti a scatenare una guerra mediatica contro qualsiasi tradimento dell’originale; dall’altra parte, deve tenere conto delle esigenze commerciali dell’industria del cinema (in questo caso, la Columbia Pictures), che, per attirare il grande pubblico, deve fare qualche concessione alla spettacolarità. Come è noto, Emmerich ha un approccio «pachidermico» all’arte registica, sulla carta poco adatto ad un ciclo letterario basato più sulla speculazione intellettuale che sugli effetti speciali; ma la scelta come sceneggiatore di Robert Rodat («Salvate il soldato Ryan», «The Patriot»), esperto e profondo conoscitore della saga - l’avrebbe letta quattro o cinque volte per arrivare a conoscere al meglio i personaggi e le situazioni di quell’immenso affresco di storia futura - dovrebbe rendere giustizia ad una delle saghe più lette di tutti i tempi, controbilanciando la tendenza di Emmerich al «pop-corn movie». C’è molta curiosità e, insieme, preoccupazione su come Rodat stenderà lo «script»: la saga di «Fondazione», che rappresenta per la fantascienza ciò che «Il Signore degli Anelli» simboleggia per la fantasia eroica, è incentrata sulla disciplina della psicostoriografia, capace di prevedere statisticamente i comportamenti delle masse di popolazione; da queste basi parte un progetto che, dalla caduta dell’Impero Galattico, dovrà portare alla costituzione di un Secondo Impero, riducendo l’interregno dai previsti trentamila anni a soli
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mille anni; in questo progetto, giocano un ruolo da protagonisti Hari Seldon, l’inventore della psicostoriografia, il Mule, mutante ultrapotente, e gli scienziati della misteriosa Fondazione, nascosta con l’Enciclopedia Galattica sul remoto pianeta Terminus. Di una versione per il grande schermo si vociferava fin dagli anni ‘90, ma soltanto le drastiche riduzioni di costi ottenute con lo sviluppo delle tecnologie digitali hanno reso fattibile un progetto così ambizioso. Da principio, per la regia era stato scelto Sheckar Kapur (Elisabeth), ma poi le esigenze del box office hanno dirottato la scelta su un regista che ha sempre sbancato i botteghini. Un ulteriore problema che il mondo del cinema sta affrontando è quello della «distribuzione». Con l’avvento del multisala, era lecito attendersi più spazio anche per i film di nicchia, quelli, per intenderci, che un tempo si sarebbero definiti «d’essai». Al contrario, si osserva un accaparramento degli spazi di proiezione da parte delle pellicole di maggior richiamo, a discapito dei film di culto. In alcuni casi, produzioni di cassetta già apparse all’estero restano al palo in Italia, per non creare concorrenza con i prodotti nazionali. In altri casi, film giudicati (a torto o a ragione) «deprimenti» non vengono neppure distribuiti nel nostro Paese per timore di clamorosi insuccessi di pubblico: l’esempio ci viene dal lungometraggio tratto dal romanzo La Strada di Cormac McCarthy, pur interpretato da una stella di prima grandezza come l’attore Viggo Mortensen (l’Aragorn de Il Signore degli Anelli). Insomma, giusto o sbagliato che sia, il mercato condiziona il libero dispiegarsi della creatività umana anche in questo settore. Non è più vero che l’artista crea e poi si preoccupa di trovare l’editore, il produttore o il mecenate di turno a cui vendere il frutto del proprio ingegno. Oggi più che mai l’artista, in qualsiasi disciplina, lavora in funzione del pubblico. Offre un servizio. Produce quel che ci si aspetta da lui. E questo è male, perché l’artista, il vero artista, non deve mai compiacere il suo pubblico, non deve ricercare il suo consenso, non deve rassicurarlo, non deve trattenerlo ed intrattenerlo con lavori insulsi, neutri, accattivanti, ma deve scuoterlo, turbarlo, sorprenderlo, fin quasi a farsi odiare. E l’artista del cinema più di ogni altro.
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«FARE FUTURO» E IL TRIO DI SANREMO
Il Pupo della discordia di MATTEO SIMONETTI SI ERA nel bel mezzo del Festival di Sanremo e tutto andava come doveva andare. Anche quest’anno il carrozzone confermava che, musicalmente, poco ha da dire e che, soprattutto, di italianità (leggasi melos) quasi non c’è più traccia. Anche il pubblico ribadiva la propria distanza dal carrozzone, rendendo un sogno la partecipazione popolare di decenni addietro. Tutto nella norma quindi, quando d’un tratto ecco l’incredibile dichiarazione di Filippo Rossi, direttore di «Farefuturo», la fondazione di Gianfranco Fini. Eccola: «Nel caso sventurato che a Sanremo vinca quell’inno imbarazzante, nazionaltrombonesco, cantato dall’inarresta-
bile e incontenibile trio “PupoFiliberto-Canonici”, il sottoscritto inizierà immediatamente uno sciopero della fame … perché non sono solo canzonette. Sono cultura di un Paese. Sono immaginario. Sono etichette appiccicate addosso agli Italiani. E nel nostro caso sono tatuaggi fatti a forza sulla pelle di una destra che in gran parte non è più così, che non vuole essere così». E ancora: «Sarà uno sciopero della fame tutto culturale e soprattutto politico, perché c’è qualcuno che deve far capire al Paese che, a destra, in Italia, c’è anche altro … c’è qualcosa di diverso da chi si riempie la bocca di patria, religione e famiglia».
IL «TRIO» DI SANREMO? PER QUELLI DI «FAREFUTURO» SONO DA SCIOPERO DELLA FAME (Nella foto, da sinistra, Luca Canonici, Emanuele Filiberto e Pupo)
72 Bisogna dire che qualcuno c’è stato a far proprio questo manifesto e a riproporlo. Infatti l’ho scaricato dal sito gaynews24, qualcosa vorrà dire? Innanzitutto complimenti a «Farefuturo» per il grande senso di responsabilità e per la coraggiosa esternazione. Per annunciare uno sciopero della fame per una canzone, senza aver mosso un dito né una penna, né organizzato un dibattito, inscenato proteste di piazza, su temi politicamente, socialmente e culturalmente cruciali, ci vuole davvero un gran coraggio. Accenniamo a qualcuno di questi temi: lo sfruttamento operato dalle banche, centrali e commerciali, ai danni del popolo, la psicosi da insolvenza, la globalizzazione imperante, l’aggressività delle lobbies che fagocitano la politica, la miope politica energetica del Paese, l’aggressione statunitense in Medio oriente… ognuno di noi potrebbe continuare l’elenco per ore. Ma evidentemente sono temi che per «Farefuturo» non meritano scioperi della fame, semmai lauti banchetti. Occorre dire che «Farefuturo» è nome pressoché sconosciuto, sia per quanto riguarda le battaglie politiche che per quelle culturali. E ce ne sarebbero per questa sedicente Destra (è un mistero perché ancora continui a chiamarsi così) di battaglie da fare. Pensiamo ad esempio alla lotta contro l’avanguardismo artistico, musicale e figurativo, protesi del nichilismo filosofico; oppure ad una reazione contro la speculazione edilizia che deturpa l’aspetto delle nostre città. Eppure nulla, se non lo sdegno per la canzonetta. Si tratta di ignoranza o di menefreghismo? Questo qualunquismo culturale confonde i luoghi del mercato e dell’intrattenimento, come la musica leggera odierna, con quelli della riflessione. Un amico poco addentro alle questioni politiche mi ha chiesto: «Ma questa “Farefuturo” è una casa discografica, una associazione musicale?» Mi sono vergognato di rispondere che si tratta del maggiore Think tank della nuova destra e così ho risposto che sono soltanto un gruppetto di amici di Fini. Ciò che salta agli occhi, in questa vicenda, è innanzitutto la mancanza di lucidità, da parte degli amici di Fini, nella scelta dei loro nemici. A Sanremo, se proprio volevano esercitarsi su quello, ce n’era uno potentissimo, che fa quasi gli stessi danni dei grandi temi prima menzionati. Si
IL BORGHESE tratta della grossolana superficialità di «Amici», vincente e straripante, questa sì, al contrario della soltanto pittoresca enfasi patriottica del principe. A causa della monnezza televisiva della De Filippi, col suo contorno di reality e talentscout che ormai ammorba ogni canale pubblico e privato, i giovani di oggi hanno, come modelli, poco mascolini cantanti e ballerini e isteriche ragazzine che zampettano, piangono e si arrabbiano per futili motivi, che nulla sanno della musica come comunicazione e dell’arte come fonte di conoscenza. Ragazzine che, dedite al culto dell’apparenza, hanno nel video la loro ragion d’essere. Per loro la musica, danzata o cantata che sia (fortunatamente non hanno ancora coinvolto gli strumentisti), è semplice imitazione, replica di un modello che la De Filippi mostra davvero, un esercizio di in autenticità, un puro tecnicismo per nulla trascendentale, per dirla alla Liszt, che si risolve in gorgheggetti alla moda, vibratini e vocali leggermente inglesizzate. Il messaggio morale è il solito: chi appare in Tv vince, mentre il detto decoubertiano si trasforma i n «l’importante non è sapere, ma telepresenziare». Questa inadeguatezza culturale di «Farefuturo» si rispecchia in quella del suo guru Gianfranco che mostrò entusiasmo eccezionale nei confronti del peggior prodotto della musica odierna, quell’Allevi che, scrivendo banali musiche da reclame e ammiccamenti scopiazzati, ha pure la spudoratezza di paragonarle a quelle dei
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grandi della musica. Non diciamo poi della supponenza di questo pianista quando dice di aver rivitalizzato e attualizzato la «musica classica». Nulla è casuale e questa mania di rivedere, di rivitalizzare, di attualizzare e infine di «declinare», vocabolo tanto caro alla fondazione, è la sua cifra ideologica. La corsa alla modernità è l’assillo di «Farefuturo» e di tutta la ex AN, che proseguono su questa strada incuranti del fatto che oggi qualsiasi cambiamento dovrebbe forzatamente assumere l’aspetto di un ritorno. Si tratta di errori non soltanto culturali ma anche strategici da un punto di vista del consenso, infatti su tali strade Fini parte da posizioni arretrate, sia sulla via del centrismo cristianeggiante che su quella del progressismo illuminato. Ritornando alla canzone, che è meglio, bisogna dire che poi non è nemmeno così male. È orecchiabile e meno artefatta delle altre, nelle quali ricorrono i soliti stilemi di origine rap o jazz. La voce molto diversa dei tre cantanti, che a turno cantano identiche frasi, vivifica la musica e sembra suggerire quasi una comunità d’intenti tra strati sociali diversi. Ma forse mi sbaglio e non c’è soltanto ignoranza dietro al gesto di «Farefuturo». Forse sono molto più accorti di quel che si intuisce e nelle vetuste parole di «Dio, patria e famiglia», gli ideologi della fondazione scorgono scogli ancora pericolosi per la corsa senza freni della mondializzazione, per la vittoria della «desacralizzazione» del mondo, che evidentemente essi promulgano.
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LIBRI NUOVI E VECCHI LIBRIDO a cura di MARIO BERNARDI GUARDI OTTONE ROSAI Il libro di un teppista Vallecchi, pp. 138, € 10,00 «TU HAI qualcosa da fare nel mondo e non puoi sparire prima di averlo fatto»: così scrive Ardengo Soffici ad Ottone Rosai il 3 dicembre del 1915. Ardengo ha trentasei anni e già un bel carico di esperienze: la «vie de bohème» a Parigi, dove ha conosciuto Guillaume Apollinaire, Max Jacob, Pablo Picasso; la presenza attiva nel «vivaio» prezzoliniano de la Voce - la «serra calda» da cui sarebbero usciti il fascismo e l'antifascismo - ; e poi, insieme a Papini, la fondazione della spericolata Lacerba, organo del futurismo fiorentino, una volta esplosa la pace col «dinamitardo» Marinetti (perché fiorentini e milanesi, in nome di una diversa idea del «futuro», se l'erano date di santa ragione al Caffè delle Giubbe Rosse, luogo eletto delle intelligenze «sovversive» nella Città del Giglio). Ottone è un ragazzo di vent’anni, e sono proprio quelli di Lacerba, Soffici in testa, che lo hanno scoperto. Fiutando il valore di questo «teppista», alto quasi un metro e novanta, di sano ceppo popolare (il padre è intagliatore e falegname) e di dichiarata vocazione ribelle. Proprio un fatto «di natura», visti e considerati gli arruffati trascorsi scolastici: 1908, espulsione dall’Istituto d’Arti Decorative; 1913, espulsione dall’Accademia di Belle Arti, dopo una lite col maestro Calosci. Il fatto è che a Ottone la scuola va stretta: meglio l’aria aperta, la campagna che si intrufola in città, e poi le strade, i quartieri della Firenze ruspante, con i bottegai, gli artigiani, gli avventori delle osterie e dei caffè, i giocatori di biliardo, le prostitute, i ladruncoli, i poveri cristi. È la sua materia prima, è già il suo mondo: quello che gli gonfia il cuore e gli sboccia sulle tele. Il Rosai nudo e crudo, insomma, che abbiamo ammirato due anni fa nei cinquanta dipinti esposti a Palaz-
zo Medici Riccardi (Catalogo a cura di Luigi Cavallo, Edizioni Pananti,pp. 269,€ 20,00). Ora, un tipaccio che aveva spaccato la tavolozza sulla testa del suo maestro di disegno poteva non inciampare nella colorita banda che aveva scelto come proprio covo la «terza stanza» del già menzionato Caffè delle Giubbe Rosse al fine di partorire l'indiavolata Lacerba? Ha ricordato bene l’«atmosfera» della saletta Alberto Franci nel Servitore di piazza (Vallecchi, 1922). Guardiamo e ascoltiamo: c'è Soffici che «enuncia e spiega, con la chiarezza che gli è propria, le più rivoluzionarie teorie sulla pittura, servendosi del lapis per tracciare sul tavolino qualche disegno catastrofico»; c’è Papini che «demolisce, tra una sigaretta e l’altra, tutti i sistemi filosofici esistenti e di là da venire, e spennacchia, da maestro, i pavoncelli della letteratura contemporanea»; c’è Palazzeschi che «crea tiritere di versi ironico-fumistes», e c’è Ottone, pronto sempre a improvvisare «uno di quei suoi saporosi dialoghi fiorentini tutti moccoli e parole da bordello». Davvero, par di vederli e di sentirli. Maledetti, anzi stramaledetti, toscani che ce l’hanno col mondo, lo rovistano, lo rovesciano. Bèrci, risate, eresie che diventano programmi, quadri e libri,grazie anche al mecenatismo lungimirante di Attilio ed Enrico Vallecchi (cfr. Giampiero Mughini, L’invenzione del Novecento, Vallecchi, 2001 e La collezione, Einaudi, 2008). Ottone respira e si ispira. E nel luglio del ‘13 espone in un locale di via Cavour. Nella stessa strada, dal libraio Gonnelli, c’è la mostra futurista di Lacerba. Scambio di visite. Questo ragazzo vale, dice Papini. E Marinetti, Palazzeschi, Boccioni, Carrà, Severini, Tavolato approvano convinti. Più che mai convinto è Soffici: gli rivolge un elogio che Ottone accoglie come «un'enorme ricompensa». Nasce un vincolo di quelli
«finché morte non vi separi». Pur tra alti e bassi, perché Rosai,pur sempre grato,addirittura devoto, all'amicomaestro, è un tipo tutto spigoli e impuntature, si lamenta di questo e di quello, bussa di continuo a quattrini, mentre Soffici ora lo rincuora e lo aiuta, ma ogni tanto lo strapazza. Due amiconi, comunque. Che troviamo, sbronzi di arte e appelli patriottico- rivoluzionari nelle piazze interventiste. E poi in guerra, da volontari. Come altri sodali: Boccioni, Serra, Prezzolini, Marinetti, Ungaretti, Jahier, Slataper e giovanissimi come Maccari e Kurt Suckert (il futuro Malaparte). Qualcuno - Boccioni, Serra, Slataper, Sant’Elia - si brucia le penne, lasciando eredità di affetti e una consegna: cambiare l’Italia. Il bravo soldato Ottone combatte tra i granatieri, segnalandosi per la sua allegra spavalderia: viene ferito due volte, si ammala di febbre spagnola, guarisce con la terapia d’urto di una solenne sbornia,viene decorato con medaglia d’argento. E non gli basta perché si arruola tra gli Arditi in un reparto d’assalto, «pugnal tra i denti, le bombe a mano», «monte Grappa tu sei la mia patria» e una nuova meritata medaglia al valore. Naturalmente non ha smesso di disegnare e di dipingere. Naturalmente torna a casa con in corpo tutte le frenesie dell’artista patriota, che sui campi di battaglia si è dato da fare anche per aver poi il «diritto» a sbaraccare la vecchia Italia. Nel suo diario di guerra, Il libro di un teppista, pubblicato da Vallecchi nel '19, ed ora riproposto sotto lo stesso prestigioso contrassegno editoriale nella collana «Avamposti» (dove è apparso di recente il geniale Manifesto della destra divina di Camillo Langone), c'è il ritratto di un popolano «libero da pregiudizi, padrone di sé e pieno di cuore», che, dopo aver sparso e sudato sangue, dal futuro si aspetta qualcosa. Ed allora eccolo in camicia nera: un metro e novanta di rissosità plebea. Vigoroso e generoso, fiero di essere un «umile» figlio del popolo, ma con un'alta idea di sé. Insomma, l'artista ci tiene a difender la sua «identità». In una lettera a Soffici del 22 gennaio ‘22 si legge infatti: «Vedi,
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Ardengo, tu ài infinita ragione di dirmi come mi dici, ma anch’io ne ò altrettanta per dire come dico io (…). Vedrai che un giorno si decideranno a prendermi come gli capito, con tutti i miei difetti e le mie qualità, con tutta la mia ignoranza e la mia intelligenza» (cfr. Vittoria Corti, Rosai e Soffici. Carteggio 1914-1951, Giorgi & Gambi Editori, p.62). E, non soltanto all'insegna dell'avanguardia, ma anche di quella di Masaccio. Testa dura e cuore tenero, Ottone. Cuore che sanguina quando, un mese dopo, babbo Giuseppe, malato e travolto dai debiti, si ammazza buttandosi in Arno. Gli voleva un gran bene a quel babbo, tutto dignità antica e amore per il mestiere. Ottone scrive di lui, con un ricordo così puro e pulito, che meriterebbe di essere accolto in ogni antologia scolastica che si rispetti. La scena: hanno ripescato il corpo in Arno, vicino al Ponte della Carraia, Ottone si avvicina, con una desolazione struggente che da allora non lo abbandonerà mai: «I suoi occhi castani erano rimasti aperti e guardavano fino a farmi subir l’impressione volesse ancora dirmi che il suo più grande dispiacere era di non sapermi suo successore nella piccola industria di mobili che con tanta fatica e infinito dolore era riuscito a crearsi. Questa volta non seppi né mal rispondere né tacere e di tra i denti che battevano dal tremito lasciai passare le parole di promessa che salivano dal cuore e, chinatomi infine su quel capo grigio, posai un bacio tra quei capelli che erano così fini e profumati quanto l’erba nuova dei prati in ogni primavera». A bottega, adesso, Ottone ha più che mai da fare per mantenere decorosamente la madre e la sorella. Continua anche la battaglia d’artista: una mostra a Firenze e una a Roma, in entrambi le occasioni presentato da Soffici. E siccome l’artista è anche un fascista, la Marcia gli appare una occasione storica ed esistenziale. Ottone - vien fuori con chiarezza dal Libro di un teppista - è uno di quelli che testardamente credono a miti, riti, prospettive della GuerraRivoluzione; uno dei tanti intransigenti,che ce l'hanno non soltanto con la «teppa bolscevica», sovversiva e antinazionale, ma soprattutto con l'Italia liberale e borghese, restìa a ogni rinnovamento sociale, sorda ad ogni entusiasmo creativo; insomma, uno di quelli che, negli anni a venire,
IL BORGHESE mai daranno tregua al fascismo «normalizzato» e al paternalismo autoritario del «regime», e sempre faranno propri umori e malumori del «movimento». Fascisti «rossi» o veraci custodi dell’«Idea», così come era stato partorita in origine, nell’infuocata fucina della guerra e nei giorni baldi e ribaldi dello squadrismo (per un dibattito sul tema si veda Paolo Buchignani, La rivoluzione in camicia nera, Mondadori, 2006)? Sia come sia, Ottone da subito fa parte della variegata banda «movimentista»: estrosa, vivacissima, polemica, anticonformista, con in canna proiettili di provocazione, da sparare uno dopo l’altro, come aveva fatto da «teppista» sul Grappa. Di buon grado, dunque, collabora al Selvaggio, battezzato da Mino Maccari nel '24, proprio nei giorni del «delitto Matteotti», quando Mussolini se la vede brutta e ha bisogno di avere accanto gente di provata fede. Come, appunto, quella «tribù» di strapaesani, inneggianti al «santo manganello» e al «sugo di bosco». Poi, intendiamoci, ritornato in sella senza più timore di esserne sbalzato, Mussolini richiamerà all'ordine i chiassosi intemperanti attraverso i prefetti, ma continuerà a tenerli come «esercito di riserva», nell'attesa della «seconda ondata». Ovviamente, rivoluzionaria. Oddìo, non è che a Ottone piacciano i compromessi, ma nel Fascismo continua a credere, e, cessata nel ‘29 la collaborazione al Selvaggio, comincia quella con Bargello, settimanale della Federazione provinciale fascista fiorentina. Lo dirige Alessandro Pavolini, un intellettuale in camicia nera allora tra i più aperti, ma destinato a diventare, di lì a tre lustri, un repubblichino tanto integerrimo, quanto fanatico, con la «bella morte» sullo sfondo. Grandi gli attestati di stima nei confronti di Rosai che è l’illustratore ufficiale delle prime annate. Poi, nel ‘31, Berto Ricci, tira fuori L’Universale. Bel tipo, Berto: poeta e professore di matematica, alla Marcia non c'è stato perché allora era anarchico, successivamente si è convertito al Fascismo, ora, a modo suo e senza avere la tessere del Partito, crede, obbedisce e combatte. A modo suo, abbiamo detto: perché se è vero che Ricci si farà, da volontario, le guerre di Mussolini, morendo nel '41 in Abissinia, è altrettanto vero che il suo
Aprile 2010 giornale (una testata che Montanelli e Bilenchi, appassionati collaboratori e grandi amici di Berto, ricorderanno come una delle più significative del Ventennio) ha chiamato a raccolta tutti gli anticonformisti all'insegna del motto «Impero e Rivoluzione». Ottone tra quei ragazzi ci sta bene. E loro vogliono bene a quell’omone che un anno prima ha pubblicato, con la prefazione di Soffici, Via Toscanella, una raccolta di prose e disegni. Gli vogliono bene e lo venerano come una specie di maestro fiorentino e italiano nelle più intime fibre, ma «universale» come chiunque senta che una rivoluzione è una missione di civiltà -, al punto che gli hanno dedicato un opuscolo: Il Rosai (cfr. Paolo Buchignani, Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio, Il Mulino,1994). «Giovane, più di noi giovane, e nostro capo», scrive di lui Berto, che lo chiama «artista puro», «santo», «fanciullo», «poeta dei poeti». Ma Rosai «santo» non è. Si è sposato nel ‘21, ma tutti sanno che è un «pederasta» (allora si diceva così). Va a caccia di ragazzini proletari, ne fa i suoi modelli, i suoi allievi, i suoi amanti. Il fascismo «macho» gli spara addosso. Aria di confino? No, perché Ottone è stato squadrista. Comunque, quando nel ‘34, Mussolini convoca a Palazzo Venezia la «banda» de l’Universale, Ottone non c'è. Un camerata «scomodo»? Uno scandaloso «peccatore»? Beh, fino a un certo punto, visto che i cattolicissimi fascisti del Frontespizio lo accolgono a braccia aperte, convinti che il suo umanesimo cristiano esprima «il sentimento dell'universo». E visto che, dopo anni difficili in cui ha dovuto tirar la cinghia e ha dovuto difender la sua arte contro non pochi critici malevoli, nel '39 è nominato da Bottai professore per chiara fama al Regio Liceo Artistico di Firenze e nel '42 gli viene assegnata la cattedra di pittura all’Accademia di Firenze. Ma le sorti della guerra precipitano. «Precipita» anche il fascismo nel cuore di Rosai e dell’amico Bilenchi, ora comunista. Ma lo squadrista Ottone, ai suoi tempi, si è messo troppo in vista, e dopo l’8 settembre viene aggredito dai soliti «vendicatori». I quali, dopo la Liberazione, chiedono il suo allontanamento dalla cattedra. Eppure Ottone, durante la guerra (Continua a pagina 75)
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CARDINALE MARIO F. POMPEDDA
La fornace cristiana ha forgiato l’Europa a cura di DELFINA METZ CARDINALE MARIO F. POMPEDDA Il Vangelo della Giustizia (a cura di Marco Cecilia) Luciano Editore, 2009, pp. 352, € 30,00 Il titolo di questo bel libro Il Vangelo della Giustizia (a cura di Marco Cecilia, Luciano Editore, Napoli) riassume l’importante contenuto dei testi originali dal 2001 al 2006 (alcuni dei quali ancora inediti) del compianto Cardinale Mario F. Pompedda, eminente personalità della Chiesa, il quale ha saputo cogliere l’essenza e la connessione tra cultura, scienza e fede. Il libro è stato presentato a Roma in Via della Conciliazione. «I manoscritti del Cardinale, che fu prefetto del supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e presidente della Corte di Cassazione dello Stato della Città del Vaticano», mi dice l’avvocato Cecilia, Cavaliere di Gran Croce di Merito, che fu suo amico e collaboratore «mi sono stati messi a disposizione dai duchi di Castro, Carlo e Camilla di Borbone delle Due Sicilie, e dall’ordine Costantiniano di S. Giorgio, di cui il principe Carlo è Gran Maestro, e a (Continua da pagina 74)
civile, ha nascosto a casa sua fior di antifascisti, compreso il gappista Bruno Fanciullacci, l’assassino di Giovanni Gentile. Rimproverandolo aspramente di aver sparato addosso a un vecchio. E tutto questo in nome della pietas umana e cristiana, che ormai è diventata la sua cifra. Non avrà però pietà di lui, anzi gli farà uno sberleffo, la morte, sorprendendolo di notte - lontano da casa, lontano da Firenze, dall'Oltrarno «degli omini, delle viuzze, delle osterie» - in una cameretta anonima dell'albergo Dora ad Ivrea. È il 13 maggio del '57. Il giorno dopo Ottone avrebbe dovuto inaugurare una mostra, con sessanta di-
cui va il mio dovuto ossequio». Il Cardinal Pompedda, che nei suoi ultimi cinque anni fu anche priore dell’Ordine Costantiniano, è stato, per unanime riconoscimento, pioniere di quell’esigenza post-conciliare di assimilazione «senza paura» della nuova visione dell’uomo, del matrimonio, dello sviluppo delle scienze psicologiche e psichiatriche, senza farsi intimorire dal luogo, dal dialogo, dal confronto e dall’apertura verso gli altri. Egli scrive inoltre sempre supportato da una solida fede e da carità cristiana. Per ben trent’anni fu Pastore presso una chiesa parrocchiale di un popolare quartiere romano. Mario F. Pompedda non tollerava la superficialità, l’arroganza dell’ignoranza, l’apatia dei luoghi comuni. Lo stimolavano di continuo invece il nuovo, la ricerca, la sfida di coniugare fede e razionalità. La prefazione del libro è impreziosita dai ricordi sul Cardinale di Albert Vanohoye, dell’ambasciatore Giuseppe Belloni Acqua, ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede e segretario generale dell’Ordine; di Maria Fratangelo e di Giuseppe Pisanu (tutti presenti all’evento). «Come primo magistrato della Chiesa», scrive Belloni Acqua, «si è battuto per il rinnovamento della giustizia e della giurisprudenza...». «Analizzando», prosegue la Fratangelo, «la situazione non solo dell’istituzione del matrimonio, oggi in un momento di delicata trasformazione, ma anche del significato antropologico delle unioni di fatto, e chiarendo il contesto in cui inserirle». Legato alla sua terra d’origine, la Sardegna, con un «vincolo intangibile» (così lo definiva lui stesso) Mario F. Pompedda credeva fermamente che il Mediterraneo, piccolo mare delle grandi civiltà, era ed è la culla delle tre religioni monoteistiche, lo spazio dove da secoli ebrei, cristiani e musulmani vivono faticosamente e tessono dolorosa-
75 mente le tela del dialogo. Credeva profondamente anche nelle radici cristiane dell’Europa Unita (come affermava lo stesso S. Benedetto) e delle nazioni europee, che non possono essere unificate né dai mercati comuni, né dalle monete uniche, ma soltanto dai valori e dagli ideali condivisi. Infatti scrive: «La fede cristiana è stata come la fornace, in cui l’eredità antica greca e latina, le singolarità ancestrali dei popoli celtici e germanici, slavi e ugo-finnici, assieme alla cultura ebraica e a quella musulmana, si sono fecondate reciprocamente così da far sorgere una nuova civiltà veramente ricchissima». «Il Cardinale», disse Papa Benedetto XVI nell’omelia funebre del 23 ottobre 2006, «comunicava a quanti lo incontravano, la solidità della sua fede e illuminava le coscienze con i princìpi e la conoscenza della dottrina cattolica». Presenti all’evento numerosi invitati, amici ed estimatori del Cardinale, nonché le personalità dell’Ordine: Antonio Marino, presidente del Tribunale ecclesiastico; il professor Leonardo Saviano, segretario generale della Real Casa; Giuseppe Pinto, giudice della Sacra Rota; Maurice Monier, Uditore di Rota; il delegato dell’Ordine del Veneto; Il delegato dell’Olanda, Paulus van Hanswjek de Yonge; i principi Ruffo di Calabria e Guido D’Aquino di Caramanico; Donna Eduarda Crociani, la Contessa Guia Viola di Compalto; e la sottoscritta, quale Donna di Giustizia dell’Ordine.
IL PAPA ED IL CARDINALE Nella foto, S.S. Benedetto XVI e S.E. Cardinal Pompedda
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SCHEDE AUGUSTO GRANDI Razz, politici d’azzardo D. Piazza Editore, 2009, pp. 230, € 17,00 «Abbiamo, finalmente, un Celine italiano». Tra il serio e lo scherzoso Carlo Sburlati, assessore alla Cultura del Comune di Acqui Terme, ha presentato così Augusto Grandi e il suo romanzo Razz, politici d’azzardo (Daniela Piazza editore, 230 pagine, 17 euro). E l’intervento dell’eurodeputato, Mario Borghezio, presente, assieme ad altre personalità di spicchio, tra il folto pubblico ha ribadito il concetto: «Grandi utilizza nel romanzo un linguaggio che sconvolgerà le educande, che sarà un pugno nello stomaco per gli ipocriti, ma è il linguaggio vero di questo Paese alla deriva». Paese alla deriva e politici allo sbando, in questo romanzo scritto dal giornalista del Sole 24 Ore e incentrato sulle vicende di politici impegnati a dare il peggio di sé. Già il titolo è indicativo: Razz è il nome del poker californiano in cui si vince con il punteggio più basso. Si gioca a perdere, insomma, come i politici ed i loro amici che compaiono nel racconto. Personaggi impegnati a tradire tutto e tutti, a cominciare dai compagni di partito, dalle mogli, dai figli. In nome di un potere piccolo piccolo, senza ideali da raggiungere, senza scopi che non siano quello di far sesso nei fine settimana in barca o in Costa Smeralda. Voglia di apparire per il gusto di farsi ammirare dall’entourage di sfigati cronici. Ad ogni costo, accordandosi con gli avversari politici pur di superare di una spanna il collega di partito. Politici tristi, incapaci di apprezzare ciò che, a caro prezzo, stanno conquistando. Privi di strategie, con tattiche patetiche, improvvisate. Politici, e amici loro, di una ignoranza abissale, nemici di una cultura che vivono come pericolo poiché totalmente estranea alle loro squallide esistenze. In questo scenario si insinua un personaggio strano, in arrivo dall’Est. Che comincia a gestire e ad indirizzare le scelte dei «politici d’azzardo», dimostrando loro come si possano ottenere grandi risultati anche con
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mezzi modesti. A patto di usare il cervello. Una presenza che ai protagonisti di Razz serve, eccome. Ma che infastidisce poiché li priva della possibilità di decidere autonomamente. Meglio evitare di svelare intrighi e finale del romanzo. Dove, pure, compaiono un paio di personaggi che lasciano sperare in un futuro meno indecente, se non migliore. Personaggi veri od inventati? Politici reali? Nella presentazione di Acqui, la prima in assoluto (ormai la città termale, dopo il successo internazionale di pubblico, mediatico e televisivo delle ultime due edizioni dei Premi «Acqui Storia» e «AcquiAmbiente», è considerata la sede portafortuna per iniziare i tour nazionali delle presentazioni dei libri di maggior successo), Grandi assicura ridendo che «ogni riferimento è puramente casuale». Eppure parrebbe di rivedere, nei personaggi di Razz, qualche riferimento a politici noti, non soltanto in Piemonte dove il romanzo è ambientato. Forse perché lo squallore è dilagato e molti esponenti politici di medio e basso livello - ma anche alcuni imprenditori, e nemmeno tanto piccoli - hanno comportamenti che ricordano quelli narrati nel romanzo. Arroganti, presuntuosi, indifferenti al mondo che, infastidendoli, li circonda. Reali sono invece i ristoranti descritti in Razz. Dal Cambio al Vintage, dal Pepe al Cadran Solaire. Testati e consigliati, precisa Grandi. Così come è reale l’Asso di Bastoni, circolo «nero» torinese che compare nel libro. Romanzo, dunque, ma con indicazioni precise, e anche consigli su come è possibile agire diversamente in politica. Non manca neppure un «giallo» su una misteriosa vicenda reale relativa ai servizi segreti: i nomi sono di fantasia, ma la vicenda è tragicamente vera. [ALBERTO SBURLATI] MARIO GAZZOLA Rave di Morte Mursia, 2009, pp. 176, € 12,00 Mala tempora currunt: non ci piace il ruolo di barboso fustigatore dei costumi, ma neppure quello degli struzzi che infilano la testa nella sabbia. Nessuna analisi della realtà può negare l’evidenza di un decadimento dei valori correnti nella nostra società, o di minimizzare il declino mora-
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le della nostra civiltà, sostenendo che ogni epoca ha i suoi vizi e le sue degenerazioni. Senza voler indulgere a considerazioni catastrofiste, l’osservatore più spassionato non può non rilevare intorno a sé un quadro d’assieme deprimente, per non dire desolante. La crisi delle ideologie ha scatenato incontrollate tendenze centrifughe, che hanno lasciato le masse in balìa delle sirene dello scetticismo e del relativismo. La secolarizzazione selvaggia dei nostri tempi ha portato alla nascita di una società fortemente individualista, con una proliferazione dei diritti e delle pretese ed un pluralismo rissoso quanto inconcludente. L’eclisse dei valori morali è sotto gli occhi di tutti: basta sfogliare le pagine di un qualunque quotidiano, in un qualunque giorno dell’anno, per averne la drammatica riprova. I cittadini, ogni giorno di più, sono attraversati da dubbi laceranti sulla condotta più opportuna da tenere, di fronte al dilagare dei particolarismi, dei piccoli e grandi arrangiamenti con la coscienza, delle comode ed allettanti scorciatoie verso il successo, la ricchezza, la fama. Il cosiddetto «homo oeconomicus» ignora le dimensioni della «compassione verso l’altro» e la «questione morale», nonostante gli episodi di malaffare di cui è punteggiata la cronaca, non è nell’agenda dei lavori della politica. Il problema tocca soprattutto le giovani generazioni.. Esistono disvalori uguali e contrari che non di rado fanno parte del giovane nel momento in cui decide, magari sull’onda di eventi contingenti o di mode effimere, di adottare una certo stile di vita: egoismo, utilitarismo, personalismo, clientelarismo, disimpegno, arbitrarietà della condotta, chiusura corporativa sono la «metà oscura» dei valori etici, i loro antagonisti o, nella migliore delle ipotesi, la loro patologica esasperazione. L’esistenza di questi disvalori è altrettanto pericolosa dell’assenza di qualsiasi valore ed andrebbe combattuta con non minore determinazione. Il comportamento etico è, innanzitutto, il frutto di un retroterra personale costruito nel contesto della famiglia d’origine, di quello sociale e culturale di provenienza. Accanto a giovani che praticano il volontariato nell’ambito di organizzazioni laiche o religiose, ci sono larghe fasce di coetanei che, invece, si lasciano an-
Aprile 2010 dare alla cultura dello «sballo», con i costi umani e sociali che ne conseguono: l’aumento esponenziale del consumo di droghe pesanti e leggere e l’abuso di alcool, a cui si riconnettono le «morti del sabato sera», gli episodi di pirateria stradale, gli episodi di microcriminalità per finanziare l’acquisto di stupefacenti, i casi di stupro fuori dalle discoteche e dai luoghi di ritrovo clandestini. Questi fenomeni, tratti dalle pagine di cronaca, sono destinati ad aumentare per effetto dell’emulazione di condotte che, in carenza di altri modelli, sono additate come esempi di comportamento «giusto» e riti di iniziazione per entrare a pieno titolo nel «gruppo». È evidente che non è possibile e neppure desiderabile una gioventù cloroformizzata, priva degli slanci vitalistici che hanno contraddistinto da sempre le «età difficili». Del pari evidente è che l’energia degli anni verdi non può dissiparsi in pratiche autodistruttive, in cui il rischio dell’incolumità fisica e dell’integrità mentale dei protagonisti si somma agli attentati alla salute altrui e alla coesione del corpo sociale nel suo insieme. Chi può, in tutta onestà, considerarci dei novelli Savonarola, se diciamo forte e chiaro che le istituzioni, le famiglie e, per la loro parte, gli intellettuali devono condannare ogni forma di eccesso e, insieme, suggerire alternative praticabili per convogliare la voglia di fare dei giovani in direzioni positive e costruttive?! Non siamo solo noi a dirlo. Anche i romanzieri dell’ultima generazione ci provano, con i loro ritratti di «gioventù bruciata» per nulla compiaciuti e collusi. Soltanto un esempio fra i tanti che si potrebbero fare: Mario Gazzola, famoso critico musicale e ottimo conoscitore dei culti della generazione Internet, ci mostra nel suo recente Rave di morte (Mursia) un ipotetico 2025 in cui le attuali tendenze sociali sono esasperate all’inverosimile, come è tipico della fantascienza sociologica. Così facendo, l’autore pone in cattiva luce le devianze individuali e collettive senza ergersi a giudice, ma soltanto mostrando a cosa potrebbe portare l’attuale deriva se non ci si ingegna a contrastarla con l’educazione, la persuasione e soprattutto l’esempio. «L’artista», lo dice lo stesso Gazzola in un passaggio del romanzo, «è come un’antenna, che capta le vibra-
IL BORGHESE zioni e da loro forma, indipendentemente da un discorso di messaggio politico preciso e intenzionale…la funzione dell’artista…aiutare le persone a risvegliare la propria coscienza in modo tale da assumere consapevolmente le proprie posizioni». Ben detto e ben fatto. Ecco, allora, un mondo alle soglie della Quinta Campagna irachena, attraversato da profughi religiosi e mutanti di bioesperimenti falliti. Ecco un’Italia del futuro trasformata in una Confederazione, dove i Comuni si fanno la guerra come nel basso Medioevo. Ecco città incitate di quartieri-canaglia e TAZ (zone temporaneamente autonome) clandestine, squassate attentati terroristici o ecopacifisti giunti a diventare una lugubre consuetudine quotidiana, dominate da un clima di paranoia e di rilassatezza morale. Ecco giovani e meno giovani ridotti a zombie in stato di REM chimico, rincoglioniti dalla musica tribale metropolitana e da altre forme di psichedelica postindustriale, dediti al narcisismo di finti innesti cibernetici ed iniezioni di collagene colorato, flagellati da autentiche epidemie di suicidi. È questo che vogliamo? [ERRICO PASSARO] RIVISTERIA «Raido» (Numero speciale dedicato alla Scuola di Mistica Fascista) Anno XIV, numero 38, Solstizio d’Inverno 2009 La Scuola di Mistica Fascista, di cui abbiamo già parlato nello scorso numero della rivista, sta conoscendo un rinnovato interesse: o per meglio dire, un interesse che mai prima aveva suscitato nella cultura ufficiale (e non). Costretta per decenni all’oblio, nel dimenticatoio della damnatio memoriae di democratica matrice, questa straordinaria pagina della storia d’Italia sta venendo via via scoperta, pezzo dopo pezzo. Così quel velo di Maya che per anni l’ha costretta nel ruolo, assai riduttivo e semplicistico, di «scuola dei gerarchi» d’un Fascismo retorico, bizantino e arrivista, sta finalmente venendo rimosso. E se questo avviene, lo dobbiamo soprattutto a coraggiose iniziative che, spesso ai margini della cultura ufficiale quando non del tutto estranee ad essa, hanno permesso negli anni di
77 tornarne a parlare: seriamente. Non che nella cultura ufficiale non se ne sia mai parlato: ma il più delle volte è stato fatto in modo incompleto o pregiudiziale. Ad ogni modo non possono non rammentarsi alcuni volumi sul tema, come quello di Aldo Grandi dedicato a Niccolò Giani, di sicuro valore. Ma non possono dimenticarsi, come troppo spesso la Destra ha fatto, in generale, col suo passato: più o meno recente, gli sforzi in tal senso profusi da Nino Tripodi che, con un’enorme quantità di scritti, ha contribuito molto a chiarire clima e vicende della Scuola di Mistica Fascista (SMF), dei Littoriali e vicende annesse. È per tutti questi motivi che non si può non salutare con piacere una nuova iniziativa editoriale dedicata al tema della SMF. Anche perché questa segue di poco i recenti convegni che in Gennaio le sono stati dedicati a Roma: uno a «Casa Pound », ed uno proprio dall’Associazione Culturale «Raido», che ora dedica un numero monografico dell’omonima rivista alla SMF. E per dare il polso della situazione, e dell’interesse suscitato da queste iniziative, basterà ricordare il vasto seguito di pubblico che entrambe hanno richiamato soprattutto tra giovani e giovanissimi - pur non potendo queste godere di padrini né santi: come invece la sinistra è ancora ampiamente dotata. Ora a parlare sono direttamente i protagonisti di quell’esperienza. La rivista consta, infatti, di un gran numero di articoli estratti direttamente dagli introvabili numeri di Dottrina Fascista, e degli altri organi d’informazione più o meno vicini alla SMF. Niccolò Giani, Julius Evola, Guido Pallotta, Gastone Spinetti e gli altri: sono tutti lì coi loro scritti, mai ripubblicati in questi anni, e con la forza espressa al loro interno. E per una volta il lettore è posto dinnanzi a loro, senza mediazione né filtri, potendo così cogliere con mano la straordinarietà di quell’esperienza: l’esperienza di quella che viene giustamente definita come «la prima linea della Rivoluzione». La «prima linea», infatti, è quella che subisce l’urto dell’attacco iniziale, è quella che lancia il cuore oltre l’ostacolo, oltre il nemico, per ritrovarsi armi in pugno in mezzo ad esso. Proprio questo fu la SMF: e chi, ancora,
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vorrà ridurla a semplice accademia di letterati o di fondamentalisti dell’ideologia fascista, dovrà necessariamente ricredersi. In queste pagine emerge tutta la leggerezza dei vent’anni donati dai «mistici» incondizionatamente, senza remore né odio: soltanto fede e intransigenza, verso se stessi, innanzitutto. E poco importa se molti da quell’esperienza, e dall’ambiente in cui questa si sviluppò, sono poi migrati su tutt’altre sponde: non dimentichiamo che nei Littoriali del tempo ad emergere, infatti, erano i Fanfani ed i Moro. Considerare quindi l’esperienza della SMF in maniera così riduttiva, dimostrerebbe quanto ancora l’Italia debba fare i conti, serenamente e con onestà, con quell’esperienza che, volenti o nolenti, fa parte della storia patria: anche se a qualcuno questo non andrà proprio giù. A completare le molti fonti dirette di quegli anni, stanno i contributi di L. L. Rimbotti, M. Rossi, G. Giraudo nonché di M. M. Merlino, e dei curatori della rivista. A necessario complemento di scritti che, pur avendo quasi settant’anni, trasmettono ancora immutata la carica di quei giovani di Mussolini che li hanno redatti pensando ai giovani del domani. [ANDREA NICCOLÒ STRUMMIELLO] PINA CUSANO, P IERO INNOCENTI Le organizzazioni criminali nel mondo Editori Riuniti 1996, pag. 216, € 3,05 Tra i numerosissimi problemi che affannano la società di oggi sicuramente uno dei più gravi è quello relativo alle organizzazioni criminali. In particolare da più fonti è arrivato l’allarme dell’inesorabile insinuarsi della mafia (o dei suoi affini) nel tessuto economico e sociale italiano, anche al di fuori degli «storici» terreni in cui sono germogliate queste associazioni a delinquere. Sul Corriere della Sera del 29 gennaio 2010 un titolo ci fa rabbrividire: «La ‘ndrangheta avanza a Milano». L’articolista, Elio Veltri, riporta l’affermazione della Commissione Antimafia che conferma senza mezzi termini il pericolo mafioso al nord e in quasi tutti i Paesi europei. Non manca di citare la presidente della Confindustria signora Emma
IL BORGHESE Marcegaglia secondo la quale «i numeri sono impressionanti», riferendosi al «fatturato» stimato mafioso che supera i 420 miliardi all’anno, tutti naturalmente «esentasse». Addirittura nell’articolo viene citato John Kerry, ex candidato alla Casa Bianca, che afferma che le prime cinque «mafie» mondiali riunite costituiscono la terza potenza economica mondiale! Una sola recriminazione: questo articolo, secondo noi ben fatto ed importantissimo, è relegato nel quotidiano a … pagina 44, in mezzo a varie notizie più o meno facete ed interessanti. Questo la dice lunga su un certo modo di «fare» informazione, che spesso cerca di «manipolare» le opinioni, magari soltanto con il mettere in risalto certe notizie, o magari con il non evidenziarne altre. La probabile «globalizzazione» delle associazioni di tipo mafioso era già stato messo in risalto nel volume di cui trattiamo. Già il titolo, asciutto e senza «fronzoli», ed il sottotitolo «Da cosa nostra alle triadi, dalla mafia russa ai narcos alla yakuza» ci introducono in un volume ben fatto, pieno di dati e riscontri, al limite tra un testo tecnico ed uno di ampia divulgazione. Pina Cusano, insegnante e pubblicista e Piero Innocenti che fa parte del servizio antidroga della Polizia hanno nella loro opera descritto le differenze tra le numerose organizzazioni di tipo mafioso, ma soprattutto ne hanno evidenziato le tendenze trans-nazionali, non senza accennare ad una analisi sociale ed economica dei vari Paesi in cui sono attecchite. Alcuni passi poi sono molto interessanti, come quello in cui si cita la tradizione che farebbe risalire la nascita della yakuza giapponese ad alcuni samurai che, alla caduta del sistema feudale, sarebbero diventati banditi, per rubare ai ricchi e donare ai poveri! Questa asserzione conferma l’origine (culturalmente parlando) medievale della mafia, che ripropone il sistema tiranno (crudele, potente) e suddito (sottomesso e sfruttato). Con buona pace per Roberto Saviano, che nel suo successivo e famosissimo Gomorra parla di una «nuova borghesia mafiosa», concetto ripreso più volte sui giornali di sinistra, in primis sul Manifesto, concetto assolutamente errato, in quanto proprio la borghesia ha reso possibile l’affrancamento dalle pastoie economiche e sociali tipiche della sta-
Aprile 2010 gnante società medievale, una delle cui fonti primarie era . l’assalto al castello del vicino e la conseguente spoliazione e depredazione delle altrui risorse. Proseguendo nella lettura ci ha impressionato la descrizione della mafia russa. In particolare gli autori ricordano il legittimo desiderio di ricchezza a lungo represso a causa dei regimi totalitaristi del secolo scorso, e le condizioni socioeconomiche che non permettevano una rapida fonte di arricchimento legale, con la conseguenza che «molti boss sono visti come modelli da imitare». Nel testo si cita anche Aleksandr Rutskoj, vicepresidente del Parlamento russo, che affermò (nel lontano 1992!): «Se le riforme continuano a muoversi nella stessa direzione in cui si stanno muovendo adesso, la mafia italiana verrà in Russia a prendere lezioni». Altrettanto interessante è l’analisi delle «mafie» africane: coltivazione di droga, prostituzione, «baroni» locali che hanno a disposizione interi eserciti sono realtà che sembrano lontane ma con cui dovremo confrontarci non appena il continente africano si risolleverà dalla crisi in cui è oggi avviluppato. Agghiacciante l’analisi di Paesi in cui le organizzazioni criminali sono «in embrione»: dalla Germania alla Corsica, al Marocco al Pakistan soltanto per citarne alcuni. Vorremmo concludere citando una frase degli autori, che è un incoraggiamento alla speranza: «Il cammino è composto di piccoli passi, e si tratta di compierli con determinazione per invertire una spirale negativa, di attivare un circolo virtuoso che possa accelerare sempre di più, una volta avviato, un processo di reale sviluppo delle politiche globali elaborate…va da sé, per questo fine, che un’opinione pubblica consapevole, attiva, vigile ed esigente può svolgere un ruolo decisivo, può essere il volano che lo mette in movimento. Del resto il fenomeno criminale viene a colpire gli interessi di tutti, mette in pericolo la nostra sicurezza, mette a rischio le possibilità di sviluppo, di pace, chiama in causa le nostre scelte politiche e civili, implica le nostre grandi e piccole responsabilità. Possiamo concludere che questa faccenda è…COSA NOSTRA». [PAOLO EMILIO PAPÒ]
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L’angolo della Poesia LETTERIO SICLARI Foibe Bieca ferocia di barbarie in armi; orridi ammassi di morenti ignudi, ai polsi stretti da lungo acciaio; inermi Cristi. Dalle doline carsiche urlo profondo e cupo che oltre montagne e steppe il vento estingue. Se di noi vivi è ipocrita l’oblìo sia lieve almen la terra che tutto vela, anche la vergogna. LUCA DE RISI Ogni sera al sicuro sui loro appoggi tiro in secca le mie parole. Sciolte le cime dei loro ormeggi, mormoranti, le allineo sui moli astratti del pensiero. E nella solitaria quiete della mia darsena celeste, carezzando poroso il fasciame delle parole, l’eco ascolto di un antico richiamo che, inabissato, invoca il mio ritorno.
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lasciarono nei nostri cuori. In silenzio,camminavano i nostri sogni e, fu così, che diventammo dei numeri, delle ombre, mucchi di tenebre, poi, leggeri, leggeri, uscimmo da alti camini
ARMANDO BETTOZZI Nun c’è gnente da fà… Mó, visto che nu’ ll’ha sarvati l’urna e manco le biastime de Di Dietro e manco le piazzate der Sór Peppe o la tigna de certi artotogati o la bava de quer Cantoro llà, né er ciarvello frullato de Fravajo, mo proveno cor tizzio scimunito che tira er dòmo in testa ar Cavajere; ma quello aregge er dòmo... er Culiseo... la tóre Eiffelle... e tutt’er monn’intero. Perciò’n sapenno più che pesci pià deggià ce sta chi sta inizzianno ‘a crede che quello è proprio un santo pe davero e che pe lloro è mejoa lassà stà! LIANA BRAIDA Una bandiera Ho visto sventolare una bandiera e, dietro lei, il vortice del vento impostava figure del passato. Le piume al vento dei bersaglieri in corsa. Il grigioverde degli umili soldati. L’azzurro cielo degli aviatori in volo. I marinai schierati sulle navi. L’alzabandiera … il suono del riposo La tromba squilla per indicar l’attacco. E poi gli eroi: Enrico Toti che lancia la stampella ultimo insulto al vincitor nemico. Nel silenzio di Buccari la beffa. Salvo d’Acquisto, l’eroico altruista che salva a Palidoro i cittadini. E poi di tutti, i tanti eroici episodi Che rivivo negli occhi trasognati. E la bandiera che sventola orgogliosa Mi ricorda … che anch’io sono italiana.
GINA TOTA Per non dimenticare
SEVERINO STORTI GAJANI
Un giorno, fummo presi da uomini di ghiaccio e portati lontani dal sole, non un frammento di luce
Non so come possan chiamarsi versi quelle strane cose fatte di frasi con degli accapo ad «bischerum segugi». si posson esprimer le stesse idee
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parlando, scrivendo in prosa, o meglio tacendo piuttosto che la metrica ignorar come regola inutile ed estranea alla vera poesia. Oh, rendetemi gli almi vati antichi: Dante, D’ Annunzio e gli altri tra di loro, di gloria pieni e di virtù preclari, si ch’io possa ritemprar lo spirto ferito, infranto dalla presunzione di chi, fallace, credesi poeta. ANNA MARIA ZANCHETTA S. Valentin Essare el santo protetore de l’amore fa pensare chel sia on compito da gnente. Jutar la jente rabià, farghe capire che on soriso el pol sempre essar donà, dirghe ciao a la jente anca se no te importa gnente, solo on santo tanto paziente pol considerarlo on compito da fare fazilmente. Jutar quei malà, quei che ga tute le reson de lamentarse, che te ciapa la man e no i domanda gnente, quelo l’è on compito par chi che crede ne l’Onipotente. Tegner saldo l’amore de i morosi in te sti tempi de fadighe e delusion, darghe la speranza ai veci, corajo ai preti, ghe vole on santo che gabia i cosideti. On santo par i toseti, uno par le spose, par el casolin e le suore, on santo pa sta gioventù che fa finta de no credare a gnente e inveze, la semena amore a man verte. On santo pa i vegneti che no i c’entra gnente ma i produse el vin che fa rima co San Valentin! ENZO SARTORELLO Magistrati Lo spazzo della strada tra fogli e rantoli diviene rincorsa al pensiero quanto tutto il tuo diritto di uomo Cessa. con la colpa dell’innocenza, mentre se ne stanno intoccabili.
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Emozioni intense che, penetrano tutt’ora nel mio essere! Un sogno, estasiante di un amore unico, perfetto, irradiante da una bellezza universale! Un amore unico, senza riscontro, senza confronto,apodittico, visibile, ma irraggiungibile! PAOLO DEL PRETE 27 Marzo 1994 Quella sera c’ero anch’io nella Storia. Dopo anni di lotte: Vittoria! «Nasce la nuova Italia». Illusione! Stesse parole, stessa musica È la stessa ancora la canzone. Ciò che è cambiato sono solo le persone. ANIANO DURANTI Memoria Ricordi la luna di ieri? Io sì. E ricordo tutto quel che le mie mani han sentito, ma io non ho veduto. E ricordo la tua pelle calda sotto la veste e le mie dita. E tutti quei baci bollenti come una colazione d’inverno al bar. Ti vorrei qui, ora. E poterci rifugiare, correndocene via mano nella mano, in qualche anfratto segreto, e starcene là abbracciati, nudi. Il tuo corpo da cavallerizza circense sul mio, qual corrosa rupe salmastra. SAVERIO CICCIMARRA Andare via Bianco, di bianco autunnale e schiumoso vedo il mare di lontano. Non come Isabella Morra Non attendo alcun ritorno, non miro «se alcun legno spalmato in quello appare». Brama il mio cuore partenza. Sono qui e aspetto, aspetto ancora un altro tramonto e una notte ancora che si consumi. Però domani, forse domani…
ADOLFO SALA Un amore nascosto-Invisibile Nel mondo della mia insicurezza, si era aperto uno spiraglio, uno spiraglio e un desiderio; profondo per un grande amore! Un amore forte e irraggiungibile!
Per proporre poesie per questa rubrica (max 20 versi), spedire una email con nome, indirizzo e numero di telefono a: luciano.lucarini@pagine.net con la dicitura «per il Borghese».
ISSN 1973-5936