“Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”
C TU A TT CC I A IA M C O A LI LC I MENSILE - ANNO XII - NUMERO 7 - LUGLIO 2012 - € 6
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Fausto Gianfranceschi Aforismi del dissenso
Mariano Rajoy Brey
Paul Kirchhof
Antonio De Pascali
Come cambierò la Spagna
Stato amico o nemico?
Donna Assunta Almirante
traduzione di Vittorio Bonacci pagg. 190 • euro 16,00
pagg. 122 • euro 13,00
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Regime Corporativo (1935 - 1940)
Controcorrente
Democrazia apparente
A cura di Gian Franco Lami pagg. 114 • euro 15,00
pagg. 150 • euro 14,00
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pagg. 174 • euro 16,00
La mia vita con Giorgio
prefazione di Gennaro Malgieri
prefazione di Fabio Torriero traduzione di Anna Teodorani
A cura di Alfonso Lo Sardo
pagg. 228 • euro 18,00
pagg. 96 • euro 15,00
Julius Evola Rassegna Italiana (1933 - 1952) A cura di Gian Franco Lami pagg. 180 • euro 16,00
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Luglio 2012
IL BORGHESE
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SOMMARIO DEL NUMERO 7 Mensile - Anno XII - Luglio 2012 - € 6,00 Piccola Posta, 2 Accanimento terapeutico, di Claudio Tedeschi, 3 Il vulcano Europa, di Riccardo Paradisi, 6 Facciamo il punto, di Filippo de Jorio, 7 Abbiamo già dato, di Franco Jappelli, 8 Vent’anni sprecati, di Gianfranco de Turris, 9 Povera Italia e carità di Patria, di Riccardo Scarpa, 11 La Destra di dopodomani, di Mario Bozzi Sentieri, 13 Occasioni perdute, di Gennaro Malgieri, 14 Rivoluzione in un solo Paese, di Carlo Vivaldi-Forti, 15 Voglia d’aria fresca, di Roberto Incanti, 19 Tribuna Politica-Un accordo per l’Italia, di Altero Matteoli, 20 Largo ai giovani!, di C.T., 21 Il Palazzo dei sogni infranti, di Senator, 23 Siamo ancora sudditi, di Emmanuel Raffaele, 24 La faccia ed il culo, di Adriano Segatori, 25 Non è vero, ma ci credo, di Gigi Moncalvo, 26 Una babele moderna, di Adalberto Baldoni, 28 Per Visco non esiste, di Mimmo Della Corte, 29 Ma quanto ci costa?, di Daniela Albanese, 31 Inquisizione politica, di Nazzareno Mollicone, 32 Strabismo giudiziario, di Romano Franco Tagliati, 33 Piccolo è bello, di Alessandro P. Benini, 34 Caos scatenato, di Hervé A. Cavallera, 35 «Mentre la cicala canta … », di Alessandro Cesareo, 36 L’isola di Malagrotta, di Mino Mini, 38 «Spending review» familiare, di Ruggiero Capone, 40 Scelte sbagliate, di Enea Franza, 41 Utili bancari, di Antonella Morsello, 42 Capitalismo impoverito, di Antonio Saccà, 44 Così affonda l’Europa, di Franco Lucchetti, 45 Non sparate sul pianista, di Giuseppe Cincotti, 46 Barack l’Africano, di Andrea Marcigliano, 48 La versione di Obama, di Francesco Rossi, 50 Affari del Caspio, di Daniela Binello, 51 Niente euro, siamo Inglesi, di Giuseppe de Santis, 52 La lezione del Re, di Giampiero Del Monte, 53 L’Italia arma i suoi droni, di Mary Pace,55 L’angolo della poesia, 79
IL MEGLIO DE «IL BORGHESE» Per un’Italia che non li meritava, di Libero Italiano Comandare e fottere, di Spartaco Il Palazzo ha paura, di Mario Tedeschi
LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Marcello Veneziani - Il «Pdl» non ha senso, ora torni la Destra politica, a cura di Michele de Feudis, 17 Erasmo Cinque - Presidenzialismo, strumento del popolo e non dei partiti, 22 Antonio Pimpini - Di chi è la moneta?, a cura di Anna Maria Santoro, 43
Direttore Editoriale
LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile
CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net HANNO COLLABORATO Daniela Albanese, Adalberto Baldoni, Alessandro P. Benini, Maurizio Bergonzini, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello, Vittorio Bonacci, Mario Bozzi Sentieri, Silvio Brachetta, Giuseppe Brienza, Ruggiero Capone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Giuseppe Cincotti, Michele De Feudis, Filippo de Jorio, Giuseppe De Santis, Gianfranco De Turris, Gianpiero Del Monte, Mimmo Della Corte, Enea Franza, Roberto Incanti, Franco Jappelli, Aldo Ligabò, Michele Lo Foco, Franco Lucchetti, Gennaro Malgieri, Andrea Marcigliano, Mino Mini, Nazzareno Mollicone, Gigi Moncalvo, Antonella Morsello, Mary Pace, Riccardo Paradisi, Alfonso Piscitelli, Emmanuel Raffaele, Riccardo Rosati, Francesco Rossi, Antonio Saccà, Anna Maria Santoro, Mauro Scacchi, Riccardo Scarpa, Adriano Segatori, Giovanni Sessa, Andrea N. Strummiello, Romano Franco Tagliati, Fernando Togni, Leo Valeriano, Carlo VivaldiForti
Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma
TERZA PAGINA Una storia ed un video, che fanno ancora paura, di A. N. Strummiello, 57-Immigrati ed indigeni, tra Milano e Ceppaloni, di A. Piscitelli, 58-Cosa insegnano le presidenziali francesi, di A. Ligabò, 59-Crisi: di che cosa?, di F. Togni, 60-Dieci argomenti (da integrare) per una politica (da rifare), di M. Bozzi Sentieri, 61
IL GIARDINO DEI SUPPLIZI «Rai», ma cos’è questa crisi?, di L. Valeriano, 63-Monti ed il problema «Rai», di M. Lo Foco, 64-Il grande professore obliato dalla modernità, di R. Rosati, 65-Cinema: Il capitalismo dal volto disumano, di A. Ligabò, 66
LIBRI NUOVI E VECCHI La risposta forte di Alain de Benoist, di G. Sessa, 67-«Ridisegnare» la Destra, di M. Bozzi Sentieri, 69-Librido, a cura di M. Bernardi Guardi, 70-Apocalissi 2012, di Mauro Scacchi, 71I libri del «Borghese», a cura di V. Bonacci, 73-È ora di finirla!, di G. Brienza, 74-Schede, di AA.VV., 75 Le foto e le vignette che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio.
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IL BORGHESE
Piccola Posta CONSIDERAZIONI E VOTO Egregio Direttore, due considerazioni dopo la lettura del numero di maggio. Manifesto costituente a pag.5: condivido, nel complesso, i punti 1-2 -3-6-8 e 10; non sono d’accordo con l’elezione del magistrato (punto 4), con la partita IVA per le famiglie (punto 7) e rivedrei i punti 5 (troppo complesso) e 9 (le province vanno soppresse e gli enti locali ridotti il più possibile). Una risposta a C. Vivaldi-Forti (pgg. 8 ss.). Alle prossime elezione voterò (se presenta una lista) Forza Nuova. Difatti, pur non condividendo tutti i punti del suo programma, alcune alleanze e certe forme di lotta ed azione, ritengo che sia oggi l’unico movimento di destra non corrotto dal potere condiviso con i moderati (Storace non può dire lo stesso) ed attivo sul territorio (la Destra sociale FT sembra ormai un’associazione di reduci); per certi aspetti FN ricorda il MSI della fine degli anni quaranta. E se poi non dovesse raggiungere il quorum…pazienza! La protesta deve sapersi accontentare anche dei prefissi telefonici: 0,6 - 0,8 ecc. MARCO MINGARELLI GLI ITALIANI ED IL CENTRODESTRA Egregio direttore, perché secondo la sua opinione molti italiani, che votano per il centrodestra che tiene a galla il governo Monti, si ostinano a non capire che soltanto una destra identitaria e sociale che non sia schiava delle banche e dell’Europa può salvare il popolo italiano dalla
catastrofe? Spero che il Borghese dia sempre più spazio alla vera Destra visto che gli altri giornali e le tv in generale oscurano e boicottano chi ha scelto di non tradire i propri valori quando gran parte di AN decise di vendersi al Cavaliere... REMIDIO ZANUSO. Caro sig. Zanuso, lei ha ragione. Però, le faccio notare che gli Italiani, che hanno votato per il PdL, lo hanno capito. Alle ultime amministrative, il crollo del centrodestra non ha rinforzato la sinistra, ma ha scelto per l’astensione oppure per Grillo, chiaro voto di protesta. Berlusconi ha compreso il messaggio e cerca di copiare il «sistema 5 Stelle», ma non ci riuscirà perché ormai la sua parabola è finita. E chi lo votava lo sa. CI SALVIAMO SOLTANTO CON UNA RIVOLUZIONE La politica italiana è agli sgoccioli. C’è chi fa le acrobazie per arrivare alla fine del mese e chi con quello che noi spendiamo in un mese si pulisce il naso. Se noi italiani non ci attiviamo e prendiamo davvero la situazione in mano finiremo come i popoli che ora pretendiamo di aiutare. A che pro far entrare gli immigrati quando non c’è lavoro neanche per noi? L’Australia ha adottato politiche restrittive perché giustamente vuole «rialzare la Nazione», e noi? Che stiamo aspettando? Cassaintegrati, disoccupati, inoccupati, gente che ruba pur di portare a casa il pane. Il vero motivo è che i politici di oggi lo fanno per i soldi. Se una persona come me non paga le tasse, la pago amaramente, se lo fanno loro è tutto normale perché hanno la possibilità di essere coperti da avvocati più delinquenti di loro. I miei genitori si son svenati per farmi studiare, ma oggi grazie ai nuovi
Luglio 2012 contratti ti sfruttano, ti prendono a lavorare per poco tempo e poi a casa. La pensione? Noi della mia generazione non la vedremo mai, e poi l’Istat mi parla di bassa percentuale di nascite? E come la campo una famiglia? Gli egiziani, pur nell’esagerazione, forse hanno ottenuto ciò che volevano, e noi che ci crediamo mondo civilizzato e «tanto avanti» ci piangiamo addosso e basta. Ricordiamoci che tutto ciò che c’è di positivo oggi è stato ottenuto con le sommosse e le rivoluzioni. Italiani iniziamo a guardarci un po’ intorno. LUCA RAPLI SALVAGUARDARE I MINORI NELLE CAUSE DI DIVORZIO Sta per essere discusso alla Camera il divorzio breve, giustamente contestato dai Vescovi. Da poco avveduti (il relatore Maurizio Paniz perdoni la mia franchezza) i politici presentano un disegno di legge partendo dalla fine della questione, non dalla base. Divorzi, separazioni e minori devono essere raggruppati in un unico tribunale speciale gestito da persone psicologicamente preparate e capaci che tengano in considerazione i diritti dei minori che devono essere difesi e salvaguardati. Se si procede da questo unico obiettivo, ne segue sicuramente il divorzio breve e celere con accordi sicuri senza litigi, ingiustizia e lungaggini. E se si difendono i diritti dei minori, la Chiesa è sicuramente d’accordo. IRENE RINALDI Le lettere (massimo 20 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net
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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 7 - LUGLIO 2012
ACCANIMENTO terapeutico di CLAUDIO TEDESCHI Roma, 19 giugno 2012 VOGLIO essere sincero. Fino all’ultimo ho sperato che la Grecia votasse per l’uscita dall’euro. In questo modo, avremmo potuto tornare alla lira. I giornali, le televisioni, tutto il circo dei media, lunedì mattina erano eccitati perché le borse salivano, lo spread scendeva. La vittoria socialista in Francia e l’esito delle urne in Grecia dava nuovamente fiato alle «sirene» della BCE. L’Unità del 18 giugno, titolava a piena pagina: «La paura spinge la Grecia a Destra», dimostrando di non aver capito nulla. Quello che aveva capito tutto, invece, era Bobo (alter ego di Staino) che, sempre su l’Unità, affermava che guardando alla Grecia gli si stringeva il cuore, guardando all’Italia gli si stringeva il didietro. Ciò che è successo in Grecia, che sta succedendo in Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia, come ci dicono i sacerdoti della BCE, crea problemi perché porta gli investitori internazionali a non fidarsi dell’euro. Quindi, per convincere gli investitori, occorre continuare con l’accanimento terapeutico per cercare di rianimare e salvare le economie dei Paesi in crisi. Ma chi ci crede? I pensionati che come pecore hanno pagato la prima rata dell’Imu? Gli esodati che protestano in piazza contro la Fornero, ma anche loro continuano a pagare le tasse? Sulla rete gira una foto con l’immagine di Monti e questa frase: «È fin troppo facile prendere per il culo questi italiani. Mettono in atto ribellioni per le partite di calcio, mentre per quel conta subiscono come pecore». Monti. Il salvatore della Patria. L’uomo in loden. Il professore. Colui che ha ridato prestigio all’Italia all’estero, dopo lo sputtanamento berlusconiano: ecco come in questi mesi tutti hanno visto Mario Monti. La realtà è un’altra. Ben consapevole di quanto sta facendo, il professore ci sta portando alla rovina. Dopo il suo viaggio a Berlino, nel corso di una conferenza stampa, grazie agli ascari della stampa presenti, gli fu posta la domanda fatidica: «Lei ritiene, signor presidente, che ci troviamo nella situazione in cui sarebbe il caso di prendere in considerazione l’ipotesi di dare il via alle dismissioni del patrimonio pubblico italiano?» Con il suo solito fare melenso, anche a presa per i fondelli, Monti tranquillamente dichiarò: «Le dirò di più, se è per questo. Posso tranquillamente dire che non soltanto è un’ipotesi, ma stiamo studiando il progetto che è in fase avanzata, l’abbiamo già preparato, e sarà mio compito e
dovere quello di informare molto presto sia il parlamento che l’opinione pubblica della scelta che il governo farà, in merito alla questione». Per capire questa frase, occorre tornare a quanto pubblicato a gennaio 2012 sul blog sergiodicorimodiglianji.blogspot.it. Allora Monti andava a mille, tutti lo adoravano. Sull’onda dell’entusiasmo, vola a Londra, dove rimane tre giorni, e torna con un sorriso a 24 carati. Le dichiarazioni ufficiali non dicono nulla. Nessuno capisce perché sia andato a Londra. Voci di palazzo lo definirono un viaggio d’immagine per coprire il periodo del barzellettiere di Arcore. In realtà, Monti era andato a Londra per incontrarsi, presso la Black Rock hedge funds gestito da Goldman Sachs, emiri arabi, gruppi oligarchici della massoneria conservatrice inglese, con il gruppo di comando finanziario che gestisce fondi d’investimento in Italia ed aveva chiuso un accordo. Monti dava in garanzia (in pratica vendeva) parte dell’oro della riserva italiana. Egli non è tenuto a darne conto al popolo italiano perché la notifica il Premier la deve dare al Ministro dell’Economia (Monti), sottoporre per approvazione al Ministro del Tesoro (Monti) e farla sottoscrivere al Governatore di Bankitalia, dal presidente e dal vicepresidente (eletti da Monti). In cambio la Royal Bank of Scotland e la Banca d’Inghilterra acquistavano titoli italiani fino a portare in tre mesi lo spread a 150 punti. Inoltre, si accordava con il potere finanziario per la vendita, da lì a sei mesi, dei gioielli italiani (dalla gestione delle risorse energetiche e militari, alle migliaia di opere d’arte ed edifici storici); del conferimento delle licenze d’esercizio ad uso capione della battigia di tutto il litorale adriatico da Ravenna al Gargano ai Lloyd’s di Londra ed alla Allianz di Francoforte. Alla finanza araba, anch’essa nell’accordo, venne garantito il passaggio del pacchetto di controllo dell’Unicredit ad un pool di dodici emiri degli Emirati arabi uniti, aprendo loro il controllo della finanza italiana. A febbraio il controllo dell’Unicredit passa alla Aqbar Investment, che sceglie come proprio rappresentante nel Cda Luca di Montezemolo. A questo punto la banca non è più italiana. A febbraio lo spread scende, non per merito di Monti ma grazie all’accordo di Londra. Oggi, dopo oltre tre mesi, lo spread risale a 480. Non è che i tecnici siano somari, anzi. Sono stati bravi. Perché loro stanno lì non per fare gli interessi dell’Italia, salvaguardando il patrimonio nazionale, finanziario, industriale, immobiliare, energetico, strategico, paesaggistico, geologico, artistico, culturale. Non sono lì per impedire la svendita del Paese. Loro sono lì proprio per gestire la svendita dell’Italia. Da otto mesi l’uomo del destino sta lavorando, per noi ed il Paese, ed i risultati sono sotto gli occhi tutti. È inutile continuare a sottoporre l’Italia a cure inutili, stacchiamo la spina. Usciamo dall’Euro e torniamo alla lira. Poi ci pensiamo noi a fare il culo alla Germania.
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MANIFESTO-COSTITUENTE per un
«MOVIMENTO CIVICO NAZIONALE PER L’ITALIA» (Aiutiamo la politica a rigenerarsi e i partiti a rinnovarsi)
PROMOTORI: «IL BORGHESE» E «LA DESTRA ITALIANA» 1) Rottamazione dell’attuale classe politica, incapace di governare la crisi e modernizzare il Paese, che ci ha consegnato nelle mani dei «maggiordomi» delle lobby internazionali, padrone del «governo mondiale dell’economia», a discapito degli Stati e dei popoli; primarie fatte non dai partiti, ma dalle forze sociali e produttive presenti nei territori, liberi da correnti, interessi, clientele, per fornire il vero quadro delle forze in campo e dei possibili nomi, espressione della società civile, da spendere per formare e selezionare gli amministratori del domani; 2) Riforma del Parlamento e del sistema elettorale - il Parlamento va scisso in due Camere distinte: il Senato composto da personalità di spicco della società non iscritte ad alcun partito, non remunerate; la Camera, in rappresentanza della sovranità collettiva di tutti i cittadini senza alcuna distinzione. La legge elettorale deve considerare il ritorno alle preferenze, proporzionale con premio di maggioranza per il partito che prende più voti, coalizioni e premier decisi prima del voto. Questo per garantire rapporto diretto tra cittadino e politica, e governabilità, chiarezza e trasparenza di idee e di programmi; 3) Riconoscimento della personalità giuridica dei partiti e dei sindacati, ora enti di fatto, per sottoporre a controllo giudiziale gli statuti, la democrazia interna e soprattutto, i meccanismi di finanziamento pubblico e privato. I bilanci del Parlamento dovranno essere posti sotto il controllo della Corte dei Conti e i Presidenti saranno responsabili penalmente e civilmente della gestione al pari di un amministratore privato; 4) Magistratura - Separazione delle carriere. I magistrati non saranno più vincolati ai concorsi ed alla carriera automatica, ma potranno svolgere il loro servizio allo Stato previa elezione diretta da parte dei cittadini del territorio dove eserciteranno la loro funzione. Il magistrato è responsabile civilmente del proprio operato; 5) Scuola e Mercato del lavoro - Finita la scuola dell’obbligo, nasce la figura dello studente-lavoratore. Chi proseguirà gli studi (superiori ed università) avrà una posizione Inps, legata al rendimento scolastico ed al periodo lavorativo estivo. Questo permetterà l’ingresso nel mondo del lavoro con anzianità contributiva ed esperienza di lavoro specializzata. L’inserimento nel mercato del lavoro sarà regolato con un contratto unico nazionale; l’apprendistato sarà obbligatorio soltanto in mancanza dei corsi estivi effettuati durante il periodo scolastico ed universitario. In caso contrario, il lavoratore entrerà immediatamente nel sistema lavorativo. Il licenziamento potrà avvenire per ragioni disciplinari e/o economiche. Qualsiasi controversia giudiziaria non sarà vincolata alla magistratura del lavoro, ma rinviata ad una commissione composta da rappresentanti dei datori del lavoro e dei lavoratori. Sempre regolata per legge, ma suddivisa per categoria lavorativa, potrà essere applicata la cogestione, intesa anche come collaborazione tra datori, sindacati e lavoratori. 6) Economia, Fisco, Statalizzazione e Burocrazia - L’economia dello Stato deve tornare sotto il controllo della politica del Governo, come espressione della volontà dei cittadini che si manifesta attraverso l’applicazione del programma elettorale che ha vinto le elezioni. Sarà ripristinata la funzione pubblica della Banca d’Italia come banca di emissione, con la cessione delle quote delle banche private attualmente presenti nel CDA di Via Nazionale. Una «nuova» Legge bancaria dovrà separare le banche finanziare dalle banche di raccolta e stabilirà i diritti e gli oneri delle banche esistenti. Le banche dovranno essere assoggettate a tassazione come qualsiasi attività economica. È vietato per legge il doppio incarico in più istituti di credito, da parte di coloro che hanno anche interessi economici legati alla attività pubblica; 7) Partita «Iva» per le famiglie - Lo Stato-Nazione fonda la sua esistenza sulla Famiglia ed il suo lavoro. Essendo una «società di persone» alla Famiglia va applicato il concetto stesso di persona giuridica. Tutte le spese legate all’andamento della «impresa famiglia» sono detraibili in sede di «bilancio» annuale, in quanto legate al bene strumentale. 8) Priorità dell’identità e unità nazionale e della tradizione del popolo italiano, emigrazione di qualità, cittadinanza a punti per gli immigrati; 9) Presidenzialismo, stella polare della riforma costituzionale per arrivare alla Terza Repubblica (elezione diretta del Capo dello Stato, suo ruolo arbitrale): abolizione delle Regioni a Statuto Speciale, ridimensionamento dei poteri e delle mansioni delle Regioni, con il mantenimento della figura della Provincia (una per regione, con sede nel capoluogo di Regione) come rappresentanza dello Stato federale sul territorio; completamento delle Città metropolitane e del municipalismo; 10) Referendum per la ratifica del trattato «Ue» - occorre ridiscutere le forme e la sostanza dell’attuale Ue, rinegoziare l’euro, per arrivare veramente a un’Europa politica, culturale e non unicamente economica, un’Europa «patria delle patrie».
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IL BORGHESE
DOPO LA FARSA ELETTORALE GRECA
IL VULCANO Europa di RICCARDO PARADISI SE NON si vuole incorrere nel paradosso di chi ragiona su questioni condominiali mentre è in corso un bombardamento aereo deve tenere uniti, in un’analisi che abbia almeno l’ambizione di non essere ridicola, lo scenario italiano e quello europeo. Anzi, deve subordinare il primo al secondo, inquadrare la vicenda italiana in un cerchio iscritto e direttamente dipendente dal più ampio cerchio della crisi europea. Una crisi ormai cronica che il responso delle urne greche, con la vittoria dei conservatori pro-euro, ha soltanto parzialmente sedato. Perché il piano di rientro inflitto alla Grecia è semplicemente insostenibile ed è molto probabile che il prossimo anno ad Atene si torni a votare con una crisi sociale moltiplicata. Nel momento in cui scriviamo queste note si è a meno di dieci giorni dal Consiglio europeo del 28 giugno, ultima possibilità per l’Unione di mettere in atto delle misure per evitare l’imminente collasso: da un mandato costituente al parlamento europeo all’adozione di eurobond e di un debito pubblico europeo alla costruzione reale di una soggettività politica continentale. Senza questi passi per invertire il trend suicida dell’unione lo smottamento comincerà dall’Europa mediterranea e come nelle distruzioni controllate degli edifici si porterà appresso, a velocità sempre maggiore, anche l’Europa centrale e settentrionale. Un suicidio collettivo a cui avrebbero contribuito tutti i componenti di questo capolavoro politico economico che è l’unione europea della finanza e delle banche ma la cui responsabilità principale sarebbe evidentemente tedesca e in particolare della cancelliera Merkel. La quale forse ha meno colpe di quanto le imputa il resto d’Europa - non può essere un delitto essere seri e rigorosi, aver fatto le riforme e vantare una classe imprenditoriale e lavoratrice decente - ma ha sicuramente la colpa di sacrificare alle elezioni di qualche land tedesco l’intera Europa e con essa la stessa Germania. Che dal default continentale verrebbe tirata giù appunto come l’ultimo piano di un grattacielo minato dalle fondamenta. Dunque è a Berlino e a Bruxelles che si decideranno i destini italiani, non certo a Roma, dove al massimo le forze politiche di maggioranza possono investire Monti del mandato di far sentire alla Germania la pressione dell’Italia che chiede politiche di crescita e una politica di concertazione e condivisione del debito. Scritta questa letterina - risposta differita alla letterona con i compiti a casa inflitti da Bruxelles al nostro Paese - i partiti sono tornati alle loro abituali occupazioni proprio nel punto dove erano rimasti. Le primarie del PD e quelle del PDL; il dibattito interno al partito di Alfano e quello di Bersani se sia opportuno affiancare ai due partiti liste civiche. E se queste si configurino più come liste per assorbire i colpi del grillismo montante, come sostengono i loro promotori o come opa ostili, come sostengono i loro detrattori. Di questa sostanza lunare oltre che di finte guerre di posizione sulla legge elettorale e il semipresidenzialismo,
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sulle nomine all’Agcom e su altre amenità si sostanzia il dibattito italiano. Sul quale come guarnizione si ammirano le pose «tatcheriane» del ministro del welfare Elsa Fornero in confusione presuntuosa su esodati e riforma del lavoro. Risse da assemblea condominiale e vanity fair mentre Bisanzio brucia. Sulla crisi nazionale ci mancava peraltro soltanto il sisma in Emilia, la cui scia non accenna a placarsi come quella dello spread che ha di nuovo lambito quota 500. Una cifra molto pericolosa, come è noto, di fronte alla quale qualcuno potrebbe domandarsi a cosa sia servito tanto rigore e una pressione fiscale ormai insostenibile - parole niente meno che del presidente di Bankitalia Ignazio Visco - se i risultati alla fine sono questi. Certo, come si diceva non è possibile tenere distinto il piano nazionale da quello europeo e ogni provvedimento nazionale rischia di essere inutile - come riempire le botti sfondate - se a Bruxelles non si riusciranno a trovare accordi per modificare le politiche continentali, inducendo i tedeschi a più miti consigli. Ma anche questo rischia di essere un semplice palliativo, un antibiotico che rimanda l’emersione del male. Perché alla fine è chiaro - a chiunque ragioni, sia a destra che a sinistra che al centro - che la vera partita è quella di rompere l’ordine tecnocratico e bancocentrico che sta devastando le società europee per ristabilire regole di civiltà e di democrazia liberale. Dotando l’unione di una politica che sia espressione della volontà dei popoli e delle nazioni. Di mettere un freno alla finanza scatenata e di riassorbire la speculazione se ne era cominciato a parlare già nel 2008 quando la crisi esplosa negli Stati uniti per le operazioni bancarie nel mercato immobiliare creò la bolla che in breve contagiò l’intero Occidente. Dopo tanti discorsi in questo senso i soldi pubblici, pompati con tassazioni da urlo specialmente ai cittadini italiani - i più vessati dell’occidente - sono stati messi nelle banche per riparare a sciagurati errori che queste hanno continuato a commettere nella roulette russa di speculazioni pericolose. E così, dopo il trilione messo a disposizione dal presidente della BCE Draghi al sistema bancario europeo, ora arrivano i cento miliardi di euro a Bankia, il cui attuale direttore generale è Aurelio Izquierdo, già responsabile di manovre speculative ad altissimo rischio. Una bolla speculativa quella spagnola del tutto simile a quella americana del 2008, un parallelo che il premio Nobel per la pace Obama dovrebbe tenere a mente prima di impartire lezioni di vita all’Europa dall’epicentro di tutte le crisi finanziarie: gli Stati Uniti d’America. Il fatto è che non soltanto Angela Merkel si fa condizionare dalle elezioni. È chiaro dunque quale sia la vera partita e dove essa si giochi. Ed è chiaro che per la politica europea come per quella italiana è suonato il campanello dell’ultima corsa. O qualcuno infatti è capace di rilanciare il mito mobilitante della nazione continentale, l’Europa nazione di cinquecento milioni di uomini dall’Atlantico agli Urali come la vedevano Charles De Gaulle, Adenauer e Schumann oppure l’Europa delle banche e della tecnocrazia continuerà a subire e assecondare le ultime speculazioni finanziarie, devastando - in mezzo a reazioni cieche di forze demagogiche e populiste - ciò che resta della civiltà giuridica, economica e politica europea. Un grande europeo, Friedrich Holderlin, diceva che «Dove maggiore è il pericolo là vi è anche la più grande salvezza». In tempi carichi d’angoscia e prossimi alla disperazione come questi ci si affida anche alle massime dei filosofi per ricavare un esorcismo delle proprie paure e dare un volano alle proprie speranze. E comunque nella consapevolezza che vale più un verso di Holderlin di tutti gli indici di Borsa di Francoforte o di Wall street.
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IL BORGHESE
A SEI MESI DAL «GOLPE»
FACCIAMO il punto di FILIPPO DE JORIO* A PIÙ di sei mesi dal cambio di governo e di squadra è più che lecito fare il punto della situazione che stiamo collettivamente vivendo e che - a parte qualche modestissima eccezione che riguarda i soliti «prenditori» di Stato e di denaro pubblico - vede un peggioramento generale di condizioni di vita e soprattutto di prospettive. Se prendiamo in esame e valutiamo oggettivamente i vari indicatori economici, il degrado è evidente: il debito è aumentato di una cinquantina di miliardi di euro, i redditi sono in flessione, a fronte di un aumento generalizzato dei prezzi e dell’inflazione, le occasioni di lavoro sono state ampiamente decurtate e la disoccupazione è aumentata. Tutto ciò nel quadro di uno spread soltanto lievemente «calmierato» rispetto alla situazione pre-Monti e con entrate fiscali beffardamente inferiori alle previsioni malgrado i nuovi, intollerabili prelievi. Evitiamo di parlare dei mercati azionari perché il quadro offerto è troppo negativo e fosco e v’è il concreto timore di esagerazioni al ribasso. (Ma se è vero, come è vero che la borsa sconta le previsioni sul futuro, anche da questo versante raccogliamo indicazioni disastrose!). Tuttavia, questo panorama sconfortante è nulla se lo confrontiamo al dato più negativo e socialmente per noi più importante: il decremento dei consumi e l’accentuata flessione della domanda interna. Dal nostro punto di vista è questo il fatto che dà maggiori preoccupazioni perché coinvolge il train de vie della maggioranza sofferente del Paese già ridotta allo stremo dalla decurtazione dei redditi e delle pensioni dovuto all’aumento delle imposte e delle sovraimposte, cui si accompagna quello delle tariffe pubbliche e semipubbliche che di certo non migliora la situazione che, non possiamo dimenticarlo, vede anche un aumento dell’inflazione e - come dicevamo prima - dei prezzi. Per dirla in una sola parola, la gente non ha più soldi! Siamo convinti che Monti non abbia tutti i torti quando, più che dirlo, per timore di dispiacere troppo al PDL, lascia capire che si è trovato di fronte ad una situazione estremamente negativa dovuta da un lato agli errori del suo predecessore e d’altro alla crisi del cosiddetto «debito sovrano» che ha messo in forse la stessa credibilità dell’Europa. Di certo l’immagine per così dire «bocconiana» e l’aplomb del nuovo premier ci accredita di più sul piano internazionale delle «pacche sulle spalle» di Berlusconi che ci avevano coperto di ridicolo, ma anche ai sacrifici c’è un limite e questo è stato abbondantemente superato. Dal decreto «salvaitalia» fino agli ultimi provvedimenti, subiamo soltanto misure draconiane, richieste dure e pesanti, senza alcun accenno di quel rinnovamento politico che, dopo gli anni di Berlusconi, era auspicato dalla gente e, soprattutto, reso indispensabile dalla situazione di decadenza in cui, tra una barzelletta e l’altra, tra una promessa e una rampogna, era stato ridotto il Paese.
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Tipico esempio di questa assenza di prospettazioni concrete per la crescita è appunto il cosiddetto «decreto per lo sviluppo» ove di sviluppo c’è poco o niente mentre abbondano le norme sulla giustizia, come quella sull’appello, sul ricorso per cassazione e sul processo breve che sopprimono o decurtano diritti sacrosanti in nome di inesistenti risparmi di spese. Et similia. Forse il difetto peggiore della gestione Monti è stato appunto questo: un deficit di decisività politica nel cancellare gli errori del passato iniziando una fase nuova. La corruzione politica, le ruberie della classe dominante, il costo della pubblica amministrazione delle Regioni, della Sanità insufficiente e carissima nello stesso tempo non sono stati affatto affrontati e si potrebbe continuare. Sono tutte cose sulle quali il governo ha evitato ogni vero intervento. Questa paralisi, di decisività politica la ritroviamo anche nelle vicende legate alla modifica della legge elettorale. Lui dice che questo è affare del parlamento ma sa benissimo che quasi tutte le forze politiche non vogliono una vera modifica del «porcellum» perché questo è troppo comodo affinché i capi dei singoli partiti si sbarazzino dei loro avversari interni e possano nominare deputati e senatori scelti tra i «fedelissimi» che non discutono, ma obbediscono ed eseguono. Però, la legge elettorale è un tema centrale per la stessa sopravvivenza della democrazia del nostro Paese, perché quella vigente è contro la Costituzione dato che obbliga gli elettori a rinunciare al potere-dovere di scegliere il loro rappresentante parlamentare. La legge fondamentale dello Stato dice testualmente (artt. 56, 57, 58 e 67) che il Parlamento è ELETTO, non NOMINATO e che ogni parlamentare, deputato o senatore che sia rappresenta la NAZIONE nella sua interezza e non il suo partito o peggio ancora chi lo ha nominato. Allo stato, secondo la legge vigente l’elettore è costretto a subire le scelte che altri hanno fatto per lui e non sceglie che il partito e non gli eletti. Stiamo preparando un ricorso agli organi di giustizia internazione contro questa stortura indegna di quel Paese che in tempi non ancora dimenticati veniva definita la «culla del diritto». Ebbene, su questo punto essenziale il governo ha declinato ogni responsabilità. Vorremmo tanto sbagliarci, ma tutto lascia prevedere che la legge elettorale non verrà cambiata, ma soltanto «ritoccata» mantenendo tuttavia le sue caratteristiche antidemocratiche. Questo articolo era terminato quando è giunta la notizia della sollevazione dei candidati al concorso per 3 posti all’Avvocatura Generale dello Stato. Di fronte alle solite manipolazioni, che tante volte abbiamo invano segnalato, (vedi l’esame per il notariato, per l’Avvocatura,etc.) la reazione dei concorrenti è stata durissima, anche se composta. (All’arrivo della Polizia hanno cominciato a cantare l’inno di Mameli!). Per noi questo esame con circa 1.000 concorrenti per 3 posti, probabilmente già oggetto delle brame dei soliti raccomandati, è un sintomo e un indice di una situazione di indicibile sofferenza giuridica e morale. Il numero dei concorrenti, ripetiamo con sgomento, circa 1.000 a fronte dei posti a disposizione, soltanto 3, ci dicono tutto sulla assenza di lavoro qualificato e sulla disoccupazione intellettuale. Quello che è successo durante l’esame è la spia infallibile del disagio che stiamo vivendo e della agonia dello Stato di Diritto. * Presidente della Consulta dei Pensionati e dei Pensionati Uniti
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DA SALÒ AD ITACA
ABBIAMO già dato di FRANCO JAPPELLI ANCHE su questo numero de Il Borghese prosegue - e non potrebbe essere altrimenti vista la situazione politica straordinaria che stiamo vivendo - il dibattito sul futuro della Destra. La Patria affonda e sulla scena manca proprio quella parte politica che alla Patria si è sempre richiamata come valore assoluto e non negoziabile. Ho usato, a bella posta, il termine «Patria», nel suo significato di «terra dei padri» e non il più ottocentesco e ideologicizzato «Nazione», perché ritengo che la drammaticità degli eventi che stiamo vivendo possa essere affrontata più ricorrendo alla sfera irrazionale della metapolitica, la quale si nutre di sentimenti e di emozioni, che a quella razionale della cosiddetta politica «spoliticata». Insomma: «Qui», per dirla con Bixio, «si fa (o si rifà) l’Italia o si muore». Trovo quindi più che logico e comprensibile che molti di noi vadano, proustianamente, alla «ricerca della Destra perduta» mentre altri, imitando Peter Pan, cercano «La Destra che non c’è», ed altri ancora, come Renato Besana su Libero, ipotizzano seducenti ed ammaliatori «ritorni a Itaca». A Besana ha risposto lo storico Franco Cardini con una lettera aperta ai «camerati» significativamente intitolata «Non passerò più da Itaca» che, nel contempo, risulta anche un poderoso «no» all’appello-invito lanciato da Veneziani dalle colonne del Secolo d’Italia ai «liberi e forti» rimasti in circolazione affinché si riuniscano a coorte e diano vita ad un nuovo soggetto politico di destra. Personalmente ritengo che Cardini abbia ragione. Oltre che un intellettuale egli è stato, in gioventù, anche un militante politico, prima nel MSI, e poi nel movimento «Giovane Europa». La sua delusione è quindi doppia. Cardini si sente tradito non soltanto sul piano delle idee - che già sarebbe grave - ma su quello che potremmo definire degli «affetti», il che è intollerabile. Difficile, dunque, non convenire con lui, quando, alludendo a quel 1994 in cui la Destra andò al potere assieme al partito di polistirolo espanso di Berlusconi, scrive: «Sono venuti i giorni in cui l’uva è miracolosamente sembrata infine matura per noialtri piccole volpi. Bastava camuffarsi solo un pochino, vendere appena qualche brandello dei nostri inutili sogni romantici et voilà: ecco che chi fino ad allora aveva sognato come massimo traguardo della sua vita un posticino di consigliere comunale si trovava sottosegretario; chi aveva sperato ardentemente di diventar segretario federale si trovava in Senato senza aver nemmeno capito bene come ci fosse arrivato; chi aveva gridato al miracolo perché i brandelli di lottizzazione di cui gli era toccato di godere lo avevano portato al livello di caposervizio, ora si vedeva fiondato dietro la scrivania di mogano e cristallo dei Direttori Megagalattici di Rete. Ed è così che il Burattinaio di Arcore, comprandosi a un tanto al chilo il nostro intemerato rigore e la nostra specchiata onestà, ci ha aiutato a liberarci dai miti e dai sogni: prima Fiuggi, poi la
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disgregazione della solidarietà interna frammentata in una miriade di cosche e di nicchie, infine il Magnus Opus, il solve et coagula del Popolo delle Libertà dove tutte le vacche son bige e dove gli ex bravi ragazzi che per decenni si erano rifiutati di piegarsi al mito conformista della Resistenza scoprivano lietamente il fascino di “quei bravi ragazzi venuti in Europa per darci la libertà” e applaudivano all’esportazione della democrazia nel Vicino Oriente, incuranti di quel po’ di “fuoco amico” e di “danni collaterali” che ciò poteva comportare. Qualcuno, più audace», annota Cardini, «si spinse oltre fino all’apologia dei libertarians statunitensi paragonati ai cavalieri medievali e alla lode della magna Europa liberal-liberista d’Oltreoceano proposta come esito della Tradizione da ex “reazionari cattolici” tutti d’un pezzo frettolosamente convertiti al Verbo theoconservative. Potrei parlare, e con ottima cognizione di causa, di alcuni di voi: delle sue scivolate, dei suoi compromessi, delle sue furberie, della ventata di megalomania che lo ha preso nei mesi nei quali tutta Roma dal Gianicolo a Via Veneto e dalle terrazze ai salotti (altro che borgate, altro che Acca Larenzia!…) gli pareva sua e aveva telefoni e segretarie o sperava di averne a breve, dei suoi eroici furori ora che tutto è finito e che qualcuno si sta dimenticando che a parte le Uri nel Paradiso di Allah - che sia sempre benedetto il Suo Nome - nessuno può riconquistare la verginità perduta. Non lo farò, per un senso di pietas». Ecco: il punto è questo. A Itaca non si può tornare non tanto per l’antistorica inutilità dell’impresa, ma anche, e soprattutto, perché l’isola petrosa e aspra che abitammo nei nostri anni verdi è infestata dai proci. Hanno banchettato nella reggia, hanno trascorso decenni dedicandosi alla crapula, al furto con destrezza ed al «bunga bunga». E ora che Itaca minaccia di sprofondare nel mare chiedono aiuto, per opporsi allo Tsunami che sta per arrivare, a quei poveri fessi che ci hanno sempre creduto al grido, decisamente interessato, di «Siamo tutti itacesi!». Eh no, cari camerati, post camerati, cripto camerati, ex camerati o come cavolo amate definirvi. Questa volta in tempo è veramente scaduto. Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. E siccome voi avete avuto troppo, e per di più, immeritatamente, cominciate a restituire il maltolto. Altro che ricostruire la Destra! Ringraziate il cielo se riuscirete a tornare a casa sulle vostre gambe ed a chiudere la partita senza altri danni. E poi, siamo proprio sicuri che
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Itaca sia la nostra «Patria sì bella e perduta»? Forse ha ragione Cardini quando sostiene che il nostro ideale d’uomo non è tanto il paraculo Ulisse quanto lo sfortunato Ettore. «Lasciatemi ai sassi aridi della mia Troade», conclude infatti lo storico, «alle memorie del mio Ettore domatore di cavalli, al riflesso della pira ardente che ne ha disperso per sempre le ceneri nel cielo.» Tanto più, aggiungiamo noi, che una nuova Troia si può sempre ricostruire, magari sulle rive del Tevere, come fece il pio Enea. Altro che la petrosa Itaca infestata dai proci! Per costruire il nuovo è però necessario mettere la prua verso il mare aperto e, portando con se i lari e i penati - simbolo di continuità - affrontare l’ignoto lasciandosi alle spalle le macerie fumanti di quello che fu. E non sarebbe male se, per andare più spediti, ci si liberasse della zavorra inutile, magari cominciando da quella parolina equivoca e fuorviante che è «Destra». Personalmente sottoscrivo la celebre affermazione di Ortega y Gasset: «Definirsi di destra o di sinistra è uno dei due modi che ha uomo per autoproclamarsi imbecille». Il mondo, in effetti, sta cambiando in fretta. La classe operaia è da tempo andata all’inferno e condivide la stessa bolgia con quei padroni «dalle belle braghe bianche» dell’oleografia ottocentesca distrutti dagli usurai della finanza. Pensare di interpretare la realtà ricorrendo a categorie come «destra» e «sinistra» è oggi non soltanto assurdo, ma anche fuorviante. Tra Gianfranco Fini che condanna il fascismo come «male assoluto» e il presidente venezuelano Hugo Chavez che dichiara pubblicamente di ispirarsi a Benito Mussolini chi dobbiamo scegliere? Grazie alla «Destra» che, come scrive Cardini, ha assaporato nel 1994 le delizie del potere abbiamo perso vent’anni. Difficile non dare ragione a Gianfranco De Turris quando scrive, melanconicamente, «Siamo così tornati al punto di partenza, e i giovani che oggi hanno vent’anni e hanno vissuto tutta la loro vita in questo clima si ritrovano ad essere come eravamo noi nel 1992, all’epoca di Tangentopoli, dei tecnici, delle mafie imperversanti, della corruzione…». Per pudore e per lo stile che lo contraddistingue De Turris tace delle miserie umane che hanno contraddistinto i comportamenti della Destra al potere. Come dimenticare, infatti, l’arruolamento in massa di maneggioni ex democristiani ed ex socialisti nelle segreterie particolari, negli uffici studi e negli uffici stampa dei ministri aennini? Per essere «cooptati» nelle stanze del potere il requisito indispensabile era infatti quello di «non» provenire dal MSI. Meglio, molto meglio, essere antifascisti. Se poi si aveva pratica di intrallazzi e furti con destrezza era il «top». Insomma, diciamola tutta: la Destra al potere è stata una duplice truffa. In primo luogo ideologica e poi storica. Grazie alla «discesa in campo» del Berlusca è stato bloccato, per vent’anni, quel cambiamento di cui l’Italia aveva ed ha disperatamente bisogno e che non riesce a trovare un progetto politico decente che lo interpreti. Stando ai sondaggi, alle prossime elezioni politiche il 40 per cento degli elettori si asterrà mentre più del 20 per cento voterà per l’antipolitica dei grillini. Detto in altri termini la stragrande maggioranza degli italiani - oltre il sessanta per cento - vuole cambiare, ma non sa come fare. Il vero nodo da sciogliere è questo. E soltanto una forza autenticamente nazionale e sociale può avere i titoli e la forza per recidere il viluppo gordiano che appare al momento inestricabile. Altro che patetici ritorni ad Itaca e adunate al grido stentoreo di «La Destra s’è desta». Passate un’altra volta. Per quanto mi riguarda ho già dato.
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BERLUSCONI E LA DESTRA
VENT’ANNI sprecati di GIANFRANCO DE TURRIS PARLARE di un «ventennio berlusconiano», ovviamente per fare riferimento al bieco (ma assai più serio) ventennio mussoliniano, non soltanto è improprio ma sostanzialmente errato. Fra il 1994 e il 2011, Berlusconi ha governato precisamente per soli 117 mesi (maggio-dicembre 1994; giugno 2001aprile 2006; maggio 2008-novembre 2011), vale a dire poco più di dieci anni su diciassette, salvo errori & omissioni. Certamente però ha condizionato e influenzato nel bene e nel male la vita italiana anche quando era all’opposizione, non fosse altro per il costante far parlare di sé grazie all’attenzione della giustizia nei suoi confronti. E di conseguenza della grande stampa che non lo ha mollato un solo istante: era il Nemico da far fuori ad ogni costo. Ma le centinaia di libri che gli sono stati dedicati, a parte le migliaia di articoli, non hanno di certo meritato gli sforzi intellettuali e polemici che filosofi, linguisti, storici, sociologi, massmediologi, psicologi, comici, teatranti e giornalisti di tutti i livelli e categorie hanno profuso nei suoi confronti. Assolutamente no, dato che il Mostro, il Tiranno, il Satrapo, il Sultano, il Grande Corruttore, etc., alla fine non è stato cacciato né con le elezioni vinte dalla Sinistra sciolta e a pacchetti, né dalla sollevazione popolare e da un nuovo Piazzale Loreto. Né da processi e condanne come molti avevano sognato. Semplicemente Berlusconi e il suo governo si sono «suicidati», come si «suicidò» il fascismo con il 25 luglio (unico punto in comune fra le due esperienze), andandosene spontaneamente avendo rassegnato le dimissioni per lasciar spazio al «governo del presidente», cioè al tecnico-senatore Monti sull’onda dello spread, spauracchio di cui non frega più nulla a nessuno dopo aver ottenuto l’effetto auspicato. Berlusconi e le forze di centrodestra sono dunque finiti così in modo inglorioso pur avendo avuto nel 1994, nel 2001 e soprattutto nel 2008 una maggioranza tale in Parlamento da non doversi preoccupare e quindi potendo fare effettivamente qualcosa di serio, che avrebbe potuto lasciare il segno. Ciò non è accaduto: la prima volta per il tradimento della Lega Nord, poi per aver dovuto far fronte all’euro voluto da Prodi e Ciampi e per la litigiosità esasperata delle varie componenti ex democristiane ed ex missine, infine da un lato per la scissione dei «finistei» e per non essere stati capaci di far fronte ad una gravissima crisi economica strisciante, con l’aggravante di aver perso la faccia a causa di questioni privatissime. In altri tempi non sarebbe avvenuto, o in maniera assai minore, ma oggi i media di sinistra ne hanno fatto per mesi e mesi il cavallo di battaglia (che un magnate dei media non abbia ingenuamente tenuto conto che viviamo in un mondo in cui la cosiddetta privacy non esiste più grazie alla moderna tecnologia, e non abbia valutato di avere sempre e comunque magistratura e stampa contro, è qualcosa difficile a capirsi). A ciò si aggiungano i vari scandali finanziari, le tante piccole tangentopoli, che hanno trascinato in primo piano esponenti del centrodestra (anche del centrosinistra, se è per questo, ma di essi poco importa alla cosiddetta «grande stampa»).
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È finita così ingloriosamente, purtroppo per noi, ripetiamolo, un’esperienza che avrebbe potuto essere importante per questo Paese, ma che non lo è stata per non aver capito sin dall’inizio, da quel lontano 1994, che la strada da percorrere non doveva essere la semplice gestione di una vittoria elettorale, ma che essa doveva servire a gettare le basi di una rivoluzione futura tale da capovolgere un sistema egemonizzato ad ogni livello sino a quel momento dal cattocomunismo, dalla DC e dal PCI, anche se non si chiamavano già più così. Insomma, non c’è stata la famosa discontinuità culturale con il «prima». In molti, sin dalla prima crisi del dicembre 1994, e poi nei due anni che precedettero le elezioni del 1996 perse dal centrodestra, scrissero che si doveva pensare a consolidare la svolta epocale avvenuta dopo aver battuto la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto quando si dimostrò l’esistenza di una base elettorale di centrodestra che desiderava capovolgere una situazione immobile da mezzo secolo. L’unico modo per consolidarla era creare un consenso che non fosse soltanto «politico», come tale effimero perché basato spesso sull’umore del momento, ma culturale, nel suo senso più ampio. Chi lo scrisse venne ignorato, se non sbeffeggiato. Adesso, trascorsi diciotto anni se ne raccolgono le conseguenze, con l’astensionismo accreditato soprattutto agli elettori del centrodestra, che alle elezioni amministrative di maggio ha raggiunto quasi il 40 per cento e, al secondo turno, ha superato il 50: abbiamo così sindaci di centrosinistra, o a cinque stelle o altro, che sono stati eletti con il voto del 60 per cento, ma anche del solo 40 per cento, ma della metà dell’elettorato che avrebbe dovuto votare… Figuriamoci perciò quanto rappresentativi della vera «volontà popolare». Gli elettori del centrodestra non hanno votato per sfiducia e per disgusto «politico» e non si sa come si comporteranno alle politiche del 2013. Non sono stati convinti o «fidelizzati», come si suol dire, da un approfondito lavoro ideale e culturale nel corso di quasi un ventennio. La cultura è una fregatura, hanno sempre pensato i governati del centrodestra al centro e in periferia e da ultimo lo ha fatto capire una persona che passa per intelligente, come Tremonti. Infatti, se pure il governo di Roma è stato in mano a Berlusconi per soli dieci anni in totale, le amministrazioni locali di centrodestra sono state moltissime, importantissime e variegate in tutta Italia e hanno avuto le mani nel potere per vari mandati consecutivi, più che a Palazzo Chigi. Si pensi soltanto alla Regione Lombardia che Formigoni governa lui sì da vent’anni ininterrottamente. Eppure in tutto questo tempo non è stato fatto assolutamente nulla di significativo, di duraturo, che abbia lasciato una traccia anche di discontinuità con il passato. Appunto in Lombardia, dopo la prematura e disgraziata morte di Marzio Tremaglia, assessore regionale alla cultura, c’è stato il vuoto assoluto: nessuno che nemmeno si ricordi i nomi di chi è venuto dopo di lui. Oggi anche questa Regione è sotto assedio con accuse di corruzione. La Lombardia sarà pure un modello per la Sanità pubblica, ma dal punto di vista culturale vent’anni sono trascorsi proprio invano, mentre se ne sarebbe potuto fare un vero e proprio laboratorio di novità anticonformiste. (E se è per questo: chi si ricorda il nome e le opere compiute dall’assessore alla Cultura della Regione Lazio della gestione Polverini, ex segretario della UGL, ex CISNAL, e nonostante ciò donna «non di destra» come lei stessa si proclama?) Ha detto Pierfrancesco Pingitore, che oggi ha 77 anni, al Corriere della Sera del 25 maggio: «Dov’è l’impronta del centrodestra nelle tivù, nelle fiction, nell’informazione (..) Il centrodestra sta agonizzando per colpa sua. La verità è che, in tanti anni di governo, non è mai riuscito a sconfiggere
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quell’egemonia culturale che, in questo Paese, è nelle mani della sinistra (…) La verità è che se non riesci a organizzare una classe intellettuale, un Paese non lo governi (…) Certo la colpa non è tutta di Berlusconi (…) La responsabilità di quelli che venivano da AN, dal MSI, con la tradizione che sappiamo, è ancora più grave. Avevano l’autorità morale ed etica per intervenire, frenare, indirizzare». Pingitore non è stato soltanto uno dei creatori del «Bagaglino» negli anni Sessanta, ma anche un giornalista in prima linea su testate di destra come Lo Specchio e poi proprio Il Borghese, quindi non soltanto un uomo di spettacolo: sa quel che dice. Ed è l’ultimo di una lunga serie che ha detto le identiche cose. Nessuno ha dato loro ascolto. Anzi, sono stati ghettizzati. Qualcuno ricorda le vicende di riviste come L’Italia settimanale e Lo Stato create da Marcello Veneziani e affondate dal centrodestra (mancanza di aiuti e boicottaggio)? Il centrodestra, dunque, raccoglie adesso quel che ha seminato, cioè il nulla. Non è stato capace nemmeno di creare organicamente una nuova classe dirigente all’altezza della situazione, ma soltanto - come scrissi tempo fa - un «poltronificio». Certo singoli, esperti e onesti amministratori e politici sono emersi negli anni, ma sono stati veramente troppo pochi, scoordinati, isolati in periferia, poco valorizzati, lasciati in ombra (soltanto adesso Alfano pare ricordarsi dei «giovani del PDL» ed escono allo scoperto i giovani «fornattatori», ma ho la sensazione che sia troppo tardi…). L’essersi poi voluti affidare alla cosiddetta «società civile» è stato un disastro: la catastrofe di Parma lo dimostra. L’aver voluto imporre personalità estranee come candidati è stato ancora peggio: si è stati capaci di perdere città come Trieste, grazie anche alle scissioni dei «finistei» locali. Le divisioni interne per motivi poco commendevoli hanno creato soltanto pesanti sconfitte: vedi il recente caso di Rieti. E si potrebbe continuare. Nessuno che si sia mai messo a tavolino per capire i motivi delle vari débacle e prendere rapidi provvedimenti: non si sono nemmeno puniti coloro i quali hanno creato situazioni pazzesche, come essersi fatti respingere le liste alle regionali del Lazio. In altri termini: una classe politica, messa alla prova dei fatti, ha fallito: gli uomini non si sono dimostrati in genere all’altezza delle situazioni. Chi ha ottenuto un posto importante non ha trovato la giusta via di mezzo tra il contornarsi dagli amici della parrocchietta che come unico merito avevano la tessera di partito, e la scelta di pseudo-esperti o pseudo-tecnici de sinistra per pararsi il posteriore dagli attacchi della opposizione. Il potere ha corrotto chi lo ha ottenuto dopo lunga attesa, non il contrario secondo il noto detto andreottiano. Il PDL (e le sigle precedenti) si sono dimostrati soltanto malaccorti gestori dell’esistente senza progetti a lunga scadenza, preoccupati di solito soltanto di se stessi. Come si poteva pretendere che le cose sarebbero andate per il meglio? E che gli elettori o non votassero disgustati o votassero per un oppositore in apparenza radicale ed onesto con il Movimento di Grillo? È mancata la nuova classe dirigente. È mancata una politica culturale che avrebbe potuto e dovuto inserire le persone giuste al posto giusto e innescare il riavvio in direzione diversa di tutti quei centri di potere culturale che la Sinistra ha conservato impunemente in tutti questi anni. Centri che sono stati tra quelli che hanno continuato a condizionare l’opinione pubblica in questi triste e sprecato «ventennio». Siamo così tornati al punto di partenza, e i giovani che oggi hanno vent’anni e hanno vissuto tutta la loro vita in questo clima si ritrovano ad essere come eravamo noi nel 1992, all’epoca di Tangentopoli, dei tecnici, delle mafie imperversanti, della corruzione…
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POVERA ITALIA
E CARITÀ di Patria di RICCARDO SCARPA LO STATO economico e sociale della Nazione è ben fotografato dall’Istituto nazionale di statistica nel suo rapporto annuale. Fra il 1993 ed il 2011 le buste paga sono salite soltanto di quattro decimi di punto l’anno, le retribuzioni sono rimaste ferme in termini reali, il mancato adeguamento dei salarî s’è tradotto in una riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, diminuito nel 2011 pel quarto anno consecutivo, con una perdita dal 2007 di milletrecento euro a testa. Di conseguenza gl’Italiani, in tendenza sparagnini, hanno dovuto intaccare quanto messo da parte per far fronte a spese obbligate e necessarie, il risparmio delle famiglie è sceso, nell’ultimo anno, all’8,8 per cento, e tutti sono costretti a ridurre i consumi. Così l’Italia, nel decennio tra il 2000 ed il 2011, ha prodotto una «crescita» media annua dello 0,4 per cento, fanalino di coda dei 27 Stati membri dell’Unione europea; il tasso di disoccupazione dei giovani sotto i trent’anni raggiunge il 20,2 per cento, ed oltre un terzo dei pochi fortunati impiegati nella stessa fascia d’età ha un lavoro precario a tempo determinato, che poi, a dieci anni dal primo impiego, il 10 per cento di loro perde, mentre un 29,3 per cento lo mantiene sempre e comunque a termine, senza certezza sul domani. Scoraggiati da queste difficoltà oltre due milioni di ragazzi né studiano né lavorano.
SCOSSA SISMICA PREVEDIBILE
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Ralf Gustav Dahrendorf, forse il maggiore sociologo del secondo millenovecento almeno in fatto di dinamica delle classi sociali, affermò che la democraticità d’una società non dipende da un astratto egalitarismo, in quanto ogni contesto richiede una classe dirigente, ma dalla fluidità del dinamismo sociale, cioè da quanto è estesa la possibilità di chiunque, anche nato ai margini di quella società, di ascendere alla classe dirigente in base alla propria capacità e cultura, e forse per questo identificò nel sistema d’istruzione uno dei nuclei dello Stato sociale liberale. È poi, questo suo, una sorta d’elitismo democratico che evolve dalla concezione di «circolazione delle classi elette» di Vilfredo Pareto. Sotto questo aspetto, il rapporto dell’Istituto nazionale di statistica denuncia, nell’Italia d’oggi, una crescente «bassa fluidità sociale», che fa sì che le opportunità di miglioramento rispetto ai padri si siano «ridotte», mentre «i rischî di peggioramento sono aumentati»: soltanto l’8,5 per cento dei figli d’operaî riesce ad accedere a professioni dirigenti. La forbice fra Nord e Sud è in continua divaricazione: nel mezzogiorno sono cadute in povertà circa ventitré famiglie su cento, contro le poco meno di cinque in alta Italia e non v’è paragone in merito ai servizî sociali, dagli asili nido all’assistenza per gli anziani, dalla sanità alle politiche ambientali. Quanto ai sessi, altro che pari opportunità! Quasi una madre su quattro, quando ha un pargolo perde il lavoro e, così, le coppie sposate con prole sono appena il 33,7 per cento, mentre aumentano i single, le unioni libere e le separazioni, che smembrano tre matrimonî su dieci, con un raddoppio del fenomeno negli ultimi quindici anni. Senza immigrati l’Italia sarebbe un territorio in via di spopolamento ed in geopolitica, come in fisica, il vuoto viene riempito. Ci vorrebbe un’Idea di Nazione, per acculturare chi si stanzia nel territorio ad una civiltà: parola che ha significativamente la stessa radice di cittadino. Se gl’immigrati mutuano oppur no un’identità nazionale dipende dalla cultura, coscienza e consapevolezza degli aborigeni e non dal territorio, per quanto forte sia il genius loci che lo abita: è una costante dall’approdo d’Enea nel Lazio agli sbarchi di Lampedusa, dovremmo saperlo. La politica economica e sociale del governo Monti ricorda molto da vicino quella vecchia medicina da flebotomi che uccideva i malati coi salassi. Quelli credevano che la malattia albergasse nel sangue cattivo, e per eliminarla dissanguavano il paziente. Le monete sono come le piastrine del sangue, la loro circolazione ossigena e nutre i tessuti, se vengono eliminate dai salassi il corpo sociale muore dissanguato. Per Mario Monti le monete nelle tasche degli Italiani fanno male perché è sangue cattivo, finito lì per sperperi pubblici, presunta evasione od elusione, ed egli è deciso a riprendersele coll’imposta municipale sugli immobili ed altri atti di vampirismo, per nutrire uno Stato anemico come il Dracula della vecchia pellicola in bianco e nero. Condizione ben fotografata dai volantini degli anarchici insurrezionalisti di rivendicazione degli attentati. Rivendicazione che mi lascia perplesso come lasciò perplesso Indro Montanelli l’attribuzione della strage di Piazza Fontana a Valpreda, in quanto l’anarchico, che si ritiene un tirannicida all’antica, agisce a capo scoperto e non nel mucchio. Per la verità gli attentati rivendicati dagli anarchici insurrezionalisti non colpiscono nel mucchio ma individuano persone ed istituzioni precise, simbolo di quel vampirismo del complesso bancario industriale sostenuto dalla StatoDracula fotografato all’opera dall’Istituto di statistica. Esso è descritto nei volantini con linguaggio molto vicino al
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Canto antiusurocratico di Ezra Pound. Resta la visiera dell’elmo abbassata, ma pel momento non mirano ad uccidere e le rivendicazioni, così diverse dalla ideologia irreale dei manifesti brigatisti, che descrissero e descrivono un proletariato oggi inesistente in termini marxengelsisti, sono come l’emblema araldico sullo scudo dei cavalieri in campo. L’appello a disfarsi d’uno Stato ridotto ad una sanguisuga può attrarre un consenso romantico, ma non è una risposta politica, in quanto il corpo sociale ha bisogno d’una organizzazione proprio nei settori sociali che servirebbe rianimare non con salassi ma colle trasfusioni ed il massaggio cardiaco, per mettere in circolazione ossigeno che faccia respirare la vita economica. Anche la sussidiarietà cooperativa fra le «officine» di Pierre-Joseph Proudhon è una «condizione» d’organizzazione pubblica (condizione=lat. status, tra cui lo Status rei publicæ). Sul versante opposto (forse) è la risposta del Manifesto-costituente per un Movimento Civico Nazionale per l’Italia promosso da il Borghese e La Destra Italiana: con la sua richiesta di «rottamare» un personale (chiamarlo classe implicherebbe una coscienza) politico che ha svenduto l’Italia a consorterie finanziarie internazionali ed apolidi; di riforma del Parlamento e del sistema elettorale, per una rappresentanza nazionale organica, in cui le personalità di spicco non di partito possano assurgere ad un Senato che cooperi con una Camera eletta da cittadini tornati sovrani nell’esprimere le loro preferenze, ed al contempo nel scegliere maggioranza e premier predefiniti al momento del voto e non frutto di cabale successive; con partiti e sindacati dotati di personalità giuridica e quindi legali rappresentanti responsabili civilmente e penalmente, come i Presidenti di Camere i cui bilanci siano vagliati dalla Corte dei Conti;
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con una magistratura inquirente e giudicante a carriere separate e sottoposta a controllo dei cittadini sui quali esercita la propria giurisdizione; col riconoscimento di personalità giuridica alle famiglie perché l’«impresa famiglia» possa detrarre a fini fiscali le spese del proprio mantenimento, anche nel quadro di un unità ed identità nazionale che consenta un’introduzione alla cittadinanza degli immigrati; un governo con l’autorevolezza del presidenzialismo ed autonomie locali che radichino la Patria nel territorio; un’Europa da rinegoziarsi per esaltare una vera unità federale, forte nella politica estera e militare, che metta l’Unione europea, anche grazie ad una ridefinizione dell’Euro e dei sistemi bancarî nazionali, in grado di resistere all’usurocrazia internazionale e non d’esserne la serva, ed in essa un’Italia che costruisca, assieme agli altri europei, facendo tesoro dell’esperienza tedesca, una compartecipazione dei produttori alle imprese ed alla politica economica. Una battaglia quasi identica conduce Arturo Diaconale da L’Opinione, con toni un poco più in doppio petto. I due disegni convergono. Sembra un sogno, ed è forte il pericolo che un’opinione pubblica disillusa e scorata, che non può più neppure godersi in pace il derby di calcio senza pensare a chi se lo sia comprato, stenti a credere veramente a qualcuno leale e senza macchia, rispettoso del danaro dei cittadini, sempre più scarso e sudato (leggi ritorno in massa di giovani all’agricoltura e persino alla dura pastorizia). Questa fiducia, però, la si deve riguadagnare, con la partecipazione, ingaggiandoci direttamente nella «Cosa Pubblica», per amor di Patria. Si deve, tutti assieme, trovare il coraggio di riappropriarci di questi Ideali ed in ciò, per quanto venga da una posizione politica molto lontana dalla nostra, dare ascolto al Capo dello Stato.
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F R A L E TA N T E R I S P O S T E A I N O S T R I B A N N E R
Non ha mai fatto una proposta di legge, volevano la caduta del governo, hanno fatto in modo che il mondo ridesse dell’Italia, come fai a non rimpiangere un uomo come Berlusconi Alessandro Lavorando per se stesso Berlusconi lavorava per l’Italia; lavorando per l’Italia Monti lavora per le banche, le multinazionali ed i poteri occulti del mondo... Alessandro Schembri Io vorrei un mondo più pulito, ecco perché invoco il ritorno di ZIO BENITO Pigi
Berlusconi? neanche se piange cinese, anzi meglio se va per sempre in Russia a trovare suo amico Putin. Paola Berlusconi. senza nessun dubbio Bertoldi Annamaria
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Un governicchio composto da persone che non hanno sangue nelle vene ma soltanto tasse in testa. In merito al premier: occhi di ghiaccio, cuore di pietra, sorriso velenoso; il vero Banchiere. - Corrado Sono un piccolo artigiano ho sempre dietro l’Equitalia che mi sta rovinando e sicuramente finirò pure io a chiudere l’attività cosa che se ci fosse al Governo Silvio Berlusconi non sarebbe successo. Io preferisco Silvio Berlusconi Antonio Cardamone Berlusconi se sparisce fa un gran bene all’Italia, Monti non saprei penso che al momento sia in balia di quei volponi dei politici- atinodemeio
Monti è stato messo al Governo dai maggiori partiti per mettere in atto decisioni impopolari che altrimenti avrebbero fatto loro perdere di immagini e consensi. Monti è stato un burattino nelle mani di A, B, e C. Renzo Tramontan Con Berlusconi, tutto era comunque liscio, tutti stavamo bene, Monti ci terrorizza, ogni giorno ne ha una... non da sicurezza... Sandro Arroni
Categoricamente Rimpiango Silvio Berlusconi. Se gli avessero lasciato fare quello che era il suo programma, oggi, non saremmo a questo punto. Pur di fare gioco sporco, hanno mandato l’Italia allo sbando. Mi vergogno di essere italiana. Elvira Cessari
A LT R E R I S P O S T E N E L P R O S S I M O N U M E R O ! !
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DIAMO VOCE ALL’ITALIA PROFONDA
LA DESTRA di dopodomani di MARIO BOZZI SENTIERI È IL TEMPO della destra. Non certo perché - in via di principio - ci piace sbandierarlo con un po’ di velleitarismo. È il tempo della destra perché siamo ormai al «dopodomani», evocato, a metà degli Anni Settanta del ‘900, da Giuseppe Prezzolini, che invitava al realismo, ma anche a dare «soluzione visibile» ai problemi, preparandosi a costruire l’alternativa alla sinistra, allora culturalmente e sociologicamente imperante. Tanto più i problemi irrisolti soffocano gli Italiani, si ingarbugliano e sovrappongono, tanto più appare come ineluttabile rimarcare, da destra, un’autonoma capacità alternativa, che sta nelle cose e nel senso di un percorso politico-culturale e che sa verificare i princìpi in ragione della loro rispondenza con la realtà. Ed in questo interrogarsi e confrontarsi allarga i suoi tradizionali confini manifestandosi come potenzialmente aggregante. È uno dei temi politici del momento, il quale riguarda, senza dubbio, i non facili rapporti interni al PdL e, più in generale, all’area del centrodestra, ma prefigura anche, sulla base di una nuova consapevolezza culturale e di una rinnovata concretezza politica, possibili sviluppi. La sfida oggi è quella di riuscire a dare voce all’Italia profonda, all’Italia non rappresentata dei piccoli centri d’eccellenza, delle identità nascoste, delle periferie, degli outsiders . Dunque ai giovani, a cui vanno offerti spazi entro cui manifestare la propria creatività e canali adeguati per farla emergere. Bisogna portare la cultura al popolo e con esso confrontarsi, superando finalmente ogni sterile atteggiamento intellettualistico. Bisogna mobilitare energie e fantasie nuove, favorendo l’integrazione pubblico-privato. Bisogna attrarre risorse ed investimenti. Tutto questo va proiettato a livello internazionale, accettando la sfida della globalizzazione, ma imponendole le regole della qualità, della «tracciabilità», del valore italiano. In questa direzione le vecchie distinzioni tra cultura colta e cultura popolare sono labili, nella misura in cui le contaminazioni tra ambiti diversi appaiono utili, se non necessarie, per il raggiungimento dell’obiettivo. Fin qui le scelte «di metodo». La sfida «di valore» si gioca, molto concretamente, nella capacità-possibilità di dare voce e spazio ad alcune idee di fondo, misurandole con le domande del Paese reale, con la creatività italiana, con la dinamicità giovanile, con le sfide della globalizzazione sopra enunciate. Pensiamo all’idea di Patria, insieme alla ricchezza delle culture locali, al senso del Sacro, al valore del Bello. Consideriamo questi elementi come i fattori costitutivi della nostra Storia, quella che ci parla agli angoli dei nostri borghi, dall’alto dei mille campanili, nelle piazze, nelle feste, nei riti dell’Italia profonda. E proviamo a mettere tutto questo patrimonio in confronto dialettico con la no-
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stra realtà contemporanea: radicamento vs. spaesamento; pathos vs. disincanto; partecipazione vs. egoismo; comunità vs. burocrazia; sacro vs. materialismo; merito vs. egualitarismo; bellezza vs. degrado e così via. Vi troveremo più di un’ipotesi di lavoro, nel segno di un’idea di cultura «aperta» e plurale, intorno alla quale avviare un confronto reale ed insieme una profonda opera di ricostruzione nazionale, che non può non passare anche dalla consapevolezza locale. Nella misura in cui è inderogabile portare i problemi reali della gente al centro del confronto, passando finalmente dalla critica corrosiva ed antipolitica alle scelte «di sostanza» appare bene evidente come il ruolo di una rinnovata azione «di destra» possa diventare centrale ed aggregante rispetto al generale riposizionamento delle forze politiche. Ciò proprio a partire dai problemi, dalle risposte che essi realisticamente sollecitano, evitando ideologiche riproposizioni (la mitica ed irrealizzata «rivoluzione liberale del ‘94»), prendendo finalmente coscienza che il mondo, negli ultimi anni, è profondamente cambiato e che sono quindi urgenti risposte all’altezza dei nuovi scenari. L’individualismo non basta, se poi si incrina il senso dello Stato, se si sfarina la burocrazia, se la corruzione dilaga, se la Scuola non riesce più a svolgere il suo ruolo primario, se la famiglia è in affanno. C’è bisogno di una nuova coesione sociale e di un nuovo «popolarismo». E c’è ancora bisogno di un’idea di Patria coniugata con una visione non demagogica di giustizia sociale, con una ritrovata dignità popolare, che sia fatta di tradizioni ma anche di aspettative condivise. Decisionismo, legalità, rigore, riforme, merito, partecipazione, senso dello Stato, equità fiscale, giustizia sociale, identità nazionale, destini comuni, coesione , ruolo della famiglia: è il tempo della destra, allorquando tutti questi fattori si fanno domanda sociale. Chi a questa domanda saprà offrire un conseguente, concreto progetto politico ed una classe politica credibile, in grado di incarnarlo, potrà dire di avere in mano le chiavi del «dopodomani».
BENZINA ALLE STELLE
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IN QUESTO PARTITO DI IGNAVI
OCCASIONI perdute di GENNARO MALGIERI LE MOLTE occasioni per ripensare la destra, sia pure all’interno del Pdl, sono andate tutte deluse. Una dopo l’altra le ha ingoiate l’ignavia di una classe dirigente, che pur da destra proveniva, che non si è resa conto della drammaticità della situazione politica generale e della caduta dei valori statuali e comunitari, causa del caos nel quale ci troviamo immersi senza sapere che cosa fare. Dopo la crisi politica del novembre scorso, culminata con le dimissioni di Berlusconi, ingenuamente immaginavo (e con me molti altri, tra cui i lettori ed i collaboratori del Borghese) che nel Pdl finalmente si discutesse concretamente e scevri da idiosincrasie, di progetti, programmi e dell’identità stessa del partito nato da una innegabile «fusione a freddo» i cui effetti sono stati immediatamente manifesti. La situazione era talmente critica, già dopo la scissione provocata da Fini, che la rottura del patto elettorale esigesse una indagine approfondita sulle cause della crisi del centrodestra e della inevitabile fine del berlusconismo. Sbagliavo nel ritenere che i vertici del Pdl cogliessero l’occasione, approfittando delle contingenze sfavorevoli e del doveroso impegno verso i propri elettori, per impostare una campagna di primavera all’insegna di una riflessione sul modello-partito e sulle nuove ragioni della politica a fronte delle convulsioni, non soltanto economico-finanziarie, che ci tengono in apprensione. Dopo otto mesi, punteggiati da contraddizioni oggettive sul piano politico, dall’acritico appoggio a Monti alla mancanza di elaborazione sul futuro del movimento, constato, con rammarico, che, dopo l’esito delle amministrative, niente ridesta dal torpore il partito di Berlusconi. Credo, tuttavia, che qualcosa può ancora essere rivitalizzato nell’ambito del Pdl: le diverse soggettività che lo compongono potrebbero assumere, prima che sia troppo tardi, quella libertà d’azione capace di attrarre segmenti diversi di elettorato e sottrarli all’obbligo di scegliere per scarsità di offerta politica un partito-contenitore nel quale l’amalgama auspicato non è riuscito. Ciò vale soprattutto per coloro i quali si sono riconosciuti e continuano a riconoscersi in una destra politicamente resa irrilevante dal continuo compromesso con altre sensibilità politiche che non ha portato alla nascita di un soggetto fornito di una nuova e riconoscibile identità come pure chi scrive sperava, fin dal 2002, conducendo una battaglia insieme con pochi altri amici, affinché nascesse il partito unico del centrodestra coerentemente con il bipolarismo, all’epoca fuori discussione. Rafforzato nella mia convinzione dagli avvenimenti recenti, penso che al disfacimento del centrodestra potrebbe opporsi proprio quella destra negata che in tale schieramento sopravvive tra risentimenti e scoramenti. Da qui la mia totale adesione all’appello dell’amico Marcello Veneziani lanciato sul Secolo d’Italia il 5 giugno scorso. Con la lucidità che lo caratterizza, ha proposto una prospettiva unificante le varie «anime» della diaspora della destra in vista di una nuova stagione politica «per far nascere un’Altra Storia». Insomma, «un movimento
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rigoroso e forte, duttile ai fianchi ma duro al centro, onesto e animato da passione civile, etica e ideale, un amor patrio di quelli che non odorano di stucco e rimmel ma vero e severo, che fa tornare il gusto della politica». Nei mesi scorsi mi sono impegnato con numerosi interventi su Libero, Il Tempo, Il Borghese, L’Occidentale.it e in tante occasioni pubbliche (per lo più carbonare) nel sostenere la necessità avanzata da Veneziani e condivisa, a parole, da numerosi esponenti dell’ex An oggi allocati nel Pdl, in «Popolo e Territorio», in «Coesione nazionale», in «Fare Futuro», nei «Cristiano riformisti», in Fli, ne «La Destra» ed in tanti altri soggetti meno conosciuti, ma non meno importanti. Finora non è sortita alcuna discussione degna di rilievo a testimonianza della grande confusione che regna tra coloro che pur non hanno mai rinnegato le proprie radici di destra (uso questo termine per esemplificare). È il momento di dare vita ad un movimento includente, sia chiaro, e non revanscista o caricatura di un raggruppamento di «combattenti e reduci», che tessa nuova tela politica guardando alle contraddizioni della modernità e riprendendo quei valori tutt’altro che caduchi intorno ai quali ricostruire una trama d’intervento da portare in dote ad un nuovo centrodestra. Ciò che rimane della destra, come presenza riconoscibile, dovrebbe agire da lievito per far crescere culturalmente e politicamente un grumo di idee, mai come oggi attualissime. L’identità nazionale, il sovranismo, l’improcrastinabile costruzione di un’Europa dei popoli e delle nazioni da contrapporre a quella dei tecnocrati e dei banchieri, il rilancio della centralità geostrategica del Mediterraneo, il recupero della cultura della tradizione quale fonte ispiratrice della modernizzazione sostenibile, la crescita e lo sviluppo «umanizzati» dalla salvaguardia dell’intangibilità dei diritti primari e naturali della persona, la funzione dello Stato come ente regolatore dei conflitti e promotore di una Big Society fondata sulla sussidiarietà costituiscono gli elementi di un patrimonio che la destra non dovrebbe gettare al vento, ma rivitalizzarlo. Intorno ad esso, chi nella destra si riconosce, potrebbe ritrovarsi riproponendo la Grande Riforma delle istituzioni (presidenzialismo credibile e non improvvisato), proponendo un’Assemblea costituente, garanzia di intervento popolare, facendola finita con le conventicole di «piccoli saggi» destinate al fallimento, dalla quale venga fuori un nuovo sistema fondato sulla democrazia partecipativa e decidente. Presidenzialismo e parlamentarismo, nel quadro di un bilanciamento di poteri chiaro e coerente con le esigenze che l’attuale crisi ha evidenziato in maniera drammatica, potrebbero proficuamente convivere come nel tempo hanno sostenuto inascoltati studiosi e politici lungimiranti da Costamagna a Pacciardi, da Vinciguerra a Operti, da Calamandrei a Valiani, da Almirante a Craxi, da Miglio a Segni. Perché dimenticare che la destra italiana, con la sua cultura , è stata all’avanguardia nell’immaginare l’avvenire del nostro Paese, la sua inevitabile crisi, i possibili rimedi? Perché condannarsi all’estinzione? Personalmente non mi rassegno. Sono certo, non si rassegnano coloro che riconoscono l’idea di una destra astratta percorrere gli impervi sentieri della modernità. Gettare a mare un patrimonio simile, riconoscendolo al massimo come reperto ideologico sarebbe una sovrana ingiustizia non soltanto nei confronti di una memoria tutt’altro che ignobile, ma anche un’offesa gravissima all’intelligenza. Ripensiamo a ciò che è stato, a quel che immaginavamo potesse accadere dagli inizi degli anni Novanta in qua e non è accaduto, a ciò che si potrebbe mettere in piedi se soltanto si battesse la pigrizia di tanti e l’ipocrisia di molti sepolcri imbiancati.
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SULLE ORME DI LENIN
RIVOLUZIONE in un solo Paese di CARLO VIVALDI-FORTI OGNI giorno ci viene ripetuto che viviamo in epoca di globalizzazione. Per questo, affermano molti, nessuna riforma e nessun cambiamento interno sarebbero possibili, in quanto la nostra esistenza verrebbe decisa altrove: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare. Ormai non ci si chiede neppure l’abdicazione alla nostra sovranità: semplicemente la si afferma come fatto scontato e irrimediabile. La nostra libertà di cittadini e di popolo trova perciò un limite assoluto nelle decisioni della cupola del malaffare e del malgoverno mondiale, contro cui tutte le armi sono destinate a spuntarsi. Tanto vale, allora, rassegnarci a questo moderno gulag, ringraziando il professor Monti e i suoi colleghi che, godendo le simpatie dei nuovi padroni della terra, riescono malgrado tutto a dialogare con loro, sia pure in un rapporto da servo a padrone, limitando i danni. Tale filosofia rinunciataria e disfattista ha contagiato gran parte dei veterani del centrodestra il quale, pur vincitore indiscusso delle elezioni del 2008, ha chiuso la legislatura regalando su un piatto d’argento il governo ai nemici di sempre: i comunisti. Invano gli scribi e i farisei si stracciano le vesti dopo la Waterloo delle amministrative! È inutile che tanti ex colonnelli del PDL, ormai degradati a caporali di un esercito in rotta, erompano nelle solite, ridicole giaculatorie di tutti gli sconfitti. Gli elettori non avrebbero compreso la nobiltà del sacrificio fatto da Berlusconi e dai suoi, nel compiere il famoso passo indietro per amore dell’Italia. In verità essi hanno capito perfettamente come stavano le cose: una classe dirigente imbelle e corrotta, priva di senso politico e di statura morale, ha preferito piegarsi ai ricatti delle sinistre e dei poteri forti piuttosto che affrontare la realtà e salire a testa alta il Calvario a cui l’impietoso giudizio della storia l’aveva condannata. La nostra, purtroppo, non è più l’epoca dei grandi lupi di mare che affondano sugli attenti insieme alla nave; al contrario, oggi proliferano gli Schettino, che qualcuno di mia conoscenza ha soprannominato Capitan Stecchino, proponendosi di titolare in suo onore un libretto satirico sulla situazione italiana. Questa disfatta ce l’aspettavamo, tenuto conto del modesto livello dei nostri politici, ma sinceramente ho provato una cocente delusione, come credo la maggior parte di chi lo aveva votato, quando ho visto il Cavaliere Nero comportarsi allo stesso modo, guidando la sua armata verso una vergognosa Caporetto, che lo accomuna, nel ricordo, a personaggi quanto meno discutibili quali Cadorna e Badoglio. Da uno dei primi imprenditori del mondo ci saremmo legittimamente aspettati qualcosa di meglio, non dico una morte eroica accanto allo stendardo insanguinato come quella del principe Andrej Bolkonski in Guerra e Pace, ma almeno una dignitosa uscita di scena, un ritirarsi su qualche isola selvaggia e solitaria a scrivere i suoi ricor-
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di. Il Memoriale di Villa Certosa lo avrebbe forse riconciliato con l’opinione pubblica, sempre pronta a indignarsi con i traditori ma pure a intenerirsi di fronte all’avversa fortuna dei grandi. Invece, la sua epopea è finita nel peggiore dei modi e nel più tradizionale giro di valzer all’italiana: il passaggio al nemico, a quei vituperati comunisti contro i quali aveva combattuto una vita intera! Simile voltafaccia ce lo hanno raccontato come un sacrificio sublime, segno di alta responsabilità morale. Guarda caso, però, gli Italiani non ci hanno creduto, privilegiando le realtà dei fatti a questa vana e stanca retorica. Il PDL, per tale insieme di motivi, è finito. I suoi elettori sono rimasti a casa o gli hanno preferito il comico genovese che, però, adesso comincia a fare sul serio. La Lega, altro asse portante del defunto centrodestra, è caduta nel vortice delle spese pazze e nel ridicolo delle lauree albanesi! La questione ci riguarda da vicino: su quali basi ci accingiamo a ricostruire la nostra area politica? Dopo una catastrofe di questa portata può apparire ragionevole che occorrano anni, se non decenni, perché una nuova destra, degna del suo bagaglio culturale e delle sue grandi tradizioni, possa nascere. Invece, per fortuna, non è così. Viviamo in tempi di rivoluzione, e come la storia insegna, durante le rivoluzioni l’impensabile diviene realistico, l’impossibile possibile. Più volte, anche su queste pagine, ci siamo dilungati circa i cambiamenti oggi necessari: riforma costituzionale per garantire la governabilità, seconda Camera a rappresentanza economico-sociale, Capo dello Stato eletto dal popolo, articolo 16 per l’esercizio dei pieni poteri temporanei in caso di grave pericolo per la Nazione, riforma radicale del Welfare, snellimento della burocrazia, sostanziale calo della pressione fiscale, abolizione degli enti inutili, risanamento dell’ambiente, nuovo modello di sviluppo. Tutto vero, tutto bello, osserveranno alcuni lettori, ma come realizzare simili obiettivi nella nostra piccola Italia, insignificante pedina sullo scacchiere internazionale ? Ecco di nuovo lo spettro della globalizzazione a demoralizzarci e tarparci le ali. A coloro che la pensano in questo modo consiglio vivamente di leggere, o rileggere, l’opera omnia di Lenin. Comprendo che non si tratta di un suggerimento facile da seguire: il primo zar rosso, come tutti i comunisti teoretici e dogmatici, è di una noia mortale nella maggior parte dei suoi scritti. Spigolando qua e là, tuttavia, qualcosa d’interessante ed istruttivo può venir fuori: per esempio, dalla sua polemica a distanza con Karl Marx circa la realizzabilità del progetto rivoluzionario. Secondo il filosofo tedesco -giudeo, la rivoluzione sarebbe stata impossibile se non avesse coinvolto l’intero mondo industrializzato: il capitalismo, affermava, funziona sulla base di mercati interconnessi fra loro a livello planetario, per cui nessun cambia-
È in rete
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mento autentico della struttura sociale può aver luogo, se non manifestandosi contemporaneamente per ogni dove. Certo, ammetteva pure che da una scintilla avrebbe dovuto comunque partire, e questa la supponeva erroneamente in Gran Bretagna, ma qualsiasi tentativo di rivolta sarebbe stato ben presto soffocato se non avesse preso piede dappertutto. Da vecchio, perciò, aveva abbandonato buona parte del suo spirito rivoluzionario, divenendo piuttosto scettico circa le prospettive di successo della palingenesi da lui prevista. Lenin, invece, agitatore politico e uomo pragmatico, prende su questo punto le distanze da Marx. Secondo lui, pur condividendo l’analisi del maestro circa il mondialismo e l’internazionalità del sistema capitalistico, non è affatto necessario attendere che l’intero globo s’infiammi per realizzare il cambiamento. Esso può aver luogo anche in un solo Paese, purché le sue condizioni economiche e sociali lo rendano permeabile al messaggio rivoluzionario; guarda caso, egli pensa proprio a quella Russia arretrata, agricola e semifeudale, esclusa a priori da Marx dai candidati alla rivoluzione. Proseguiva quindi affermando che il contagio era bensì da ritenersi inevitabile, ma avrebbe potuto attendere anche molti decenni, prima di manifestarsi altrove. Ciò che si doveva fare, per espandere il comunismo, era realizzarlo e rafforzarlo nella sola Russia, destinata a diventare l’esempio trainante per le altre nazioni. La storia ha dato ragione a Lenin e torto a Marx. L’evento principale che condusse all’espansione del comunismo fu la guerra, a seguito della quale la Russia diffuse i suoi errori nel mondo, per dirla con Nostra Signora di Fatima. Ovviamente, se quell’immane conflitto non fosse scoppiato, o se Hitler avesse vinto, con ogni probabilità il comunismo sarebbe morto nella Russia stessa senza raggiungere altri Paesi, ma il destino aveva disposto diversamente. Da questo esempio possiamo però trarre un insegnamento fondamentale: non è vero, in linea di principio, che in un pianeta globalizzato, con i mercati intercomunicanti, per costruire un modello sociale alternativo sia necessario farlo tutti insieme. Naturalmente ciò sarebbe auspicabile, ma difficilmente gli auspici si trasformano in realtà. Il più delle volte è necessario che qualcuno cominci, o tracci il solco, parafrasando Mussolini, e di sicuro altri seguiranno. Tale concetto è notissimo alla cupola del malaffare, che esercita bensì il potere in forma totalitaria, privando uno dopo l’altro i singoli Paesi della loro legittima sovranità, ma lo fa in modo incerto e traballante, consapevole che qualunque scossa, in qualsiasi punto o segmento del sistema, può provocare l’implosione dell’intera struttura. Basta la minaccia di un piccolo, marginale ed economicamente insignificante Paese come la Grecia, per far correre i brividi lungo la schiena agli gnomi di Wall Street, di Francoforte, di Londra e di Pechino. E allora, coraggio! Non ascoltiamo la propaganda di chi, nel proprio esclusivo interesse, vorrebbe convincerci della vanità dei nostri sforzi e della nostra battaglia per il cambiamento! È pur vero che l’Italia da sola non può gran cosa, ma qualora essa divenisse il teatro di una moderna ed audace rivoluzione umanistica, tornando a porre l’uomo al centro dell’economia e della società, i riflettori di tutto il mondo si accenderebbero sulla Penisola, schiere di giornalisti, cineoperatori e fotografi stranieri sciamerebbero fra noi, per raccontare ai loro attoniti lettori, o spettatori, il folle coraggio mostrato da questo insignificante David nello sfidare il Golia della tirannide finanziaria. Quest’ultima, di sicuro, ci darebbe molto filo da torcere e, per un certo periodo, ci
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infliggerebbe probabilmente dure punizioni, ciò che successe anche agli Ungheresi, ai Cecoslovacchi, ai Polacchi in lotta contro l’invasore sovietico. Alla fine, però, come nel gioco del domino, molti altri ci seguirebbero, e la barbarie finanziaria globalizzata avrebbe finalmente termine. Disegno troppo audace? Forse, ma la fortuna arride agli audaci, ripetevano i nostri antenati latini. Un sussulto di questa portata era ciò che ci saremmo aspettati dal centrodestra, se fosse stato serio, e da Berlusconi, se fosse stato quel leader storico per cui amava spacciarsi. Purtroppo né l’uno né l’altro erano ciò che sembravano. Ormai lo sappiamo: la storia li ha messi alla prova, non l’hanno superata e sono stati spazzati via, come sempre accade in casi simili. Forti di questa esperienza negativa, però, dobbiamo ricominciare daccapo. Più volte ho affermato che non occorre essere in partenza un esercito numeroso, e non occorre neppure disporre di miliardi. Il Cavaliere possedeva l’uno e gli altri, ma né questo né quelli gli sono serviti. Ciò che gli mancava era la fede in una idea, l’inflessibilità di carattere e la determinazione ad andare fino in fondo, costasse quel che costasse, anche a prezzo della vita, se necessario. Simili qualità, che distinguono i grandi leader dai piccoli amministratori, ignoro se qualcuno di noi le possieda. So per certo, però, che dobbiamo farcele venire, perché tale è il nostro dovere verso la Patria e i nostri discendenti, in questo momento tragico e risolutivo. Convochiamo quindi una prima Convenzione nazionale in tempi stretti, e agli intervenuti, pochi o molti che siano, proclamiamo queste cose e parliamo questo linguaggio. Il giorno dopo, di sicuro, saremo molti di più e molto più conosciuti. Ed è questo che ci vuole, non i miliardi, per scrivere la Storia con la S maiuscola, compito che è stato da troppo tempo negletto, ma che noi dobbiamo tornare a perseguire, senza paure o false timidezze!
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INTERVISTE SULLA DESTRA - MARCELLO VENEZIANI
IL «PDL» NON HA SENSO, ora torni la Destra politica a cura di MICHELE DE FEUDIS tica che re-interpreti e attualizzi le specificità IL DIBATTITO sulla possibilità di aggregare spirituali, antropologiche e sociali incarnate a destra un nuovo soggetto politico dopo il dalla destra italiana. tracollo elettorale del PDL nelle ultime amministrative è aperto. Con un intervento sul Secolo d’Italia, Veneziani, con l’articolo sul «Secolo Marcello Veneziani, scrittore, editorialista d’Italia», dopo anni di impegno predode Il Giornale e già direttore dei periodici minante nel campo culturale, ha scelto di Intervento, Pagine Libere, L’Italia settimainviare un chiaro messaggio alla politica. nale e Lo Stato, ha invitato a superare la Perché questo cambio di registro? «Perché siamo alla fine di un ciclo polidicotomia Berlusconi/Fini e a recuperare tico e nel pieno di una crisi civile ed ecospecificità politiche e tematiche non rapnomica tremenda e non possiamo far finta presentate nell’attuale panorama nazionale. di niente. Non ho alcuna intenzione di laSulla ricchezza e sulle prospettive della sciare la mia scelta di vita dedicata al pendestra italiana, il Borghese ha iniziato nel siero e alla scrittura, ma non voglio rifu2011 un ampio giro d’orizzonti tra intelletMARCELLO VENEZIANI giarmi in Seneca e Plotino mentre muore tuali e scrittori, partito proprio con una inla mia patria.» tervista all’autore de La rivoluzione conservatrice in Italia, senza dimenticare nell’ultimo numero gli interventi di Carlo Vivaldi-Forti e Franco Jappelli. C’è un aneddoto su questo appello? «È stata un’iniziativa del tutto personale, maturata Il tema è rovente, le prossime elezioni politiche sono dopo aver scritto alcuni articoli per la rubrica “Cucù”, su sempre più vicine. Sui media non sono mancate le risposte Il Giornale, dedicati alla crisi presente, al vuoto politico e al manifesto proposto dall’autore de La Rivoluzione conall’amor patrio. E ho voluto lanciarlo dal Secolo d’Italia servatrice in Italia (Sugarco) di esponenti di primo piano che fu il punto di partenza di quasi tutte le destre disperse del PDL e delle altre destre, insieme ad interventi di inteld’oggi, e anche mio personale. A questo si aggiunge l’aplettuali ed editori. pello dello scrittore Renato Besana a tornare a Itaca...» Da Ignazio La Russa sul Secolo d’Italia («La Fondazione AN fissi un incontro-seminario anche di più giorni, di qualche decina o forse più di soggetti giovani e meno A quando risaliva il suo ultimo articolo su quotidiagiovani, politici e intellettuali, amministratori ed esponenno fondato da Franz Turchi? ti della vita civile. (…) Si apra la strada a decisioni impegnative ma ineluttabili») a Franco Freda su Libero («La destra doveva stare, non mutare, non correre ad adeguarSarà lo spirito del tempo, sarà la forzata convivenza si. Doveva continuare a contemplare le proprie idee»), a nei contenitori partitici postmoderni, sarà il sistema Giorgia Meloni con una intervista su Il Messaggero e a politico tendenzialmente bipolare che tende a smussare Francesco Storace che ha raccolto l’invito di Veneziani diversità e omologare differenze. Il perimetro di un durante l’assemblea de «La Destra» a Napoli: le posizioni arcipelago culturale che si è riconosciuto - pur tra che stanno emergendo sono diversificate ma tutte convercontraddizioni e ossimori - in una visione spirituale della gono sulla necessità di non disperdere un patrimonio ideavita e nell’umanesimo del lavoro, visione declinata a le che corre il rischio di polverizzarsi nell’immobilismo. destra dal Msi e da una miriade di circoli, case editrici, Tra i realisti c’è Gennaro Malgieri: «Che fare? Credo sia associazioni, comitati civici e riviste, sembra adesso arrivato il momento di dare vita ad un movimento incluattraversare un momento di forte disorientamento. Oltre i dente, sia chiaro, e non revanscista o, peggio, caricatura rassicuranti confini del «nostalgismo» e dei paletti di un raggruppamento di “combattenti e reduci”, che tesnovecenteschi, però, persistono idee forti, autori di sa nuova tela politica guardando alle contraddizioni della riferimento e nuove battaglie da combattere. Per questo modernità e riprendendo quei valori tutt’altro che caduchi Il Borghese pubblicherà un ciclo di interviste con intorno ai quali ricostruire una trama d’intervento da porscrittori, filosofi ed intellettuali per analizzare gli scenari tare in dote ad un nuovo centrodestra». presenti e futuri, offrendo ai nostri lettori le possibili Veneziani, escludendo un suo impegno diretto in qualsiasi coordinate delle nuove rotte nel mare della politica organizzazione, punta a smuovere le acque, dichiarandosi italiana. (m.d.f.) disponibile soltanto per un periodo temporalmente limitato a svolgere il ruolo di “ostetrico”, per far nascere una forza poli-
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«Era firmato Marcello Bello. Il direttore che lo firmava era Giano Accame, diciamo al ‘90. Nel passato avevo scritto sul Secolo in due periodi differenti: da ragazzo alla fine degli anni settanta - sono stato pure tre mesi in redazione - e poi nel periodo 87-88 quando “nacque” Marcello Bello e scrissi una pagina ogni giovedì di viaggio nelle idee.» L’èra della Seconda Repubblica, caratterizzata nel centrodestra prima dall’alleanza tra «AN» e «FI», poi dal partito fusionista (malriuscito) «PDL», è agli sgoccioli. Cosa salva di questa esperienza? Quale eredità resta virtuosa per un possibile nuovo percorso? «Il problema vero del PDL è che non lascia eredità, né mostri né valori. Per anni ho tradotto PDL in Partito Del Leader, venuto meno il leader non ha più molto senso, perché nel frattempo non si è dotato di una sua linea, un punto d’incontro fondato su solide consonanze.» Una nuova proposta politica ha un Pantheon e una declinazione programmatica definita in pochi punti. Da cosa non si può prescindere per intraprendere la strada verso una aggregazione delle destre? «Eviterei i Pantheon che sono sempre dei supermercati di autori utili al momento. Però penso che occorra partire dalla tradizione culturale unita all’esperienza di vita. Con il preciso proposito di non declinare soltanto al passato la propria appartenenza, come una mera testimonianza, ma di renderla viva nel presente, animando una nostalgia del futuro.» Spazio alle eccellenze e ai giovani. Oltre l’enunciazione di pensiero, questo bando di arruolamento culturale e politico a chi è rivolto? «Mi sono riferito ai giovani, alle donne e agli outsider, sono le tre categorie di riferimento per rigenerare la politica e rinnovarne la guida. Certo non bastano i dati anagrafici per selezionare un ceto, ma in certi momenti sono punti di partenza validi, seppur flessibili. Lo allargherei a tutte le destre presenti e possibili, compreso quelle sfuse.» Il patrimonio immobiliare della Fondazione «AN», e la sua missione, sembrerebbero coincidere con gli intenti da lei delineati sul «Secolo». Al momento la fondazione è sostanzialmente ingessata, dopo le polemiche interne tra finiani e pidiellini. Che si aspetta a imbastire un programma di elaborazione culturale? «Beh, fossi in loro, investirei tutto quel patrimonio in un’iniziativa prepolitica di formazione quadri, idee e proposte e di propagazione nel paese, con la finalità di accorpare tutte le “destre”, piuttosto che dividermi sulla spartizione della proprietà degli immobili.» Le prime reazioni degli esponenti di destra nel «PDL» e fuori dal partito guidato da Alfano
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sono state disomogenee. Attenzione per il dibattito sui giornali insieme a prudenza giustificata dal non voler celebrare ancora il funerale della sigla battezzata sul Predellino. Da Malgieri alla Meloni, da Gasparri a La Russa, tutti si dicono toccati e partecipi delle sue preoccupazioni per la dispersione di un’eredità ideale. Sul piano delle soluzioni da adottare, invece, sembra di essere in alto mare? «Il problema di fondo è che chi è dentro giudica con gli occhi di dentro e non vuole azzerare la casa in cui abita, chi è fuori vede con gli occhi di fuori ed esige l’azzeramento. Tre anni fa avevano ragione i primi, il centrodestra era in salute e al governo. Oggi hanno ragione i secondi.» Con questo appello Veneziani, ha abbandonato il bosco jungheriano. Che rischi comporta questo cambio di orizzonte? «No, si tratta di un impegno prepolitico, non politico, per far politica bisogna avere doti e vizi che io non ho ma che sono entrambi necessari. Non ho secondi fini né voglia di incarichi politici. Dicevo in un mio corsivo che bisogna trovare chi mette incinta l’Italia per salvarla dalla sua sterile depressione. Mi piacerebbe essere, socraticamente, un ostetrico, impegnato per nove mesi, salvo poi tornare alla filosofia, alla lettura e alla scrittura dei libri, quando parte la campagna elettorale. Lo faccio per una questione d’onore e per rispetto verso chi ha speso una parte importante della sua vita, me incluso, nel seguire quei princìpi e quelle esperienze, pagandone prezzi anche alti, e ora non voglio che quella parte importante della mia, della nostra vita, finisca in una discarica o svanisca nel nulla. Voglio che quell’albero antico con cui siamo cresciuti dia frutti e non solo legna da ardere.»
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IL BORGHESE
I GIOVANI ED IL «PDL»
VOGLIA d’aria fresca di ROBERTO INCANTI SITUAZIONE di stallo, quella attuale, nell’ambito della politica giovanile. Certo, il particolare momento storico non favorisce di certo la fioritura di particolari ottimismi ed, in questo, il crollo dei partiti tradizionali accentua tali difficoltà, però, proprio in questi momenti, i giovani dovrebbero esprimere quei sentimenti di positiva ribellione, al fine di liberare tutte le energie represse di cui dispongono, canalizzandole verso percorribili mete di salubre novità. Ma, per il momento, tutto questo sembra non accadere anzi, la situazione appare aver preso una piega quanto mai naftalinica e soporifera. Prendiamo ad esempio quello che avviene all’interno del movimento giovanile del Popolo della Libertà. Come su base nazionale si ha l’idea di un partito in via di destrutturazione e di rapido disfacimento - con le varie correnti in lotta tra di loro, per assicurarsi la meno dolorosa exit strategy dalla fase del berlusconismo - nel giovanile ancora non si ha l’idea precisa di quale sia il sentiero giusto da percorrere. Giusto qualche settimana fa l’Onorevole De Micheli, consigliere di Roma Capitale in quota PdL, ha sferrato un lucido e duro atto di accusa nei confronti dei vertici del partito, constatando che, in quanto privi di uno statuto, di un atto costitutivo, di un codice etico e dei relativi regolamenti interni, nonché di una propria sede, il movimento giovanile azzurro, fosse privo di una naturale e logicamente consequenziale direttiva politica. Tutto questo corrisponde al vero, e fa bene l’Onorevole De Micheli a rimarcarlo, ma la sensazione che si avverte è più quella di uno spolvero della sua persona politica, nell’imminenza dell’apertura della campagna elettorale 2013, e, finanche, di una vera e propria guerra tra bande, all’interno della nomenclatura partitica, di un vero e proprio atto d’amore nei confronti del movimento. I concetti medesimi già ebbi modo di sottolinearli nel 2009, allorquando iniziarono le mie frequentazioni in tale contesto, per cui: niente di nuovo sotto il sole. Il caso specifico di questa entità è, quindi, ben noto: necessita di una vera e propria costruzione ex novo, che sarebbe positivo avvenisse in tempi brevi, giustappunto alla luce della contingenza del momento politico che necessita, atavicamente, della propulsione di forze nuove. Diverso è il caso dei cosiddetti formattori: si tratta di un gruppo di persone, all’interno del partito, chi con incarichi nelle pubbliche amministrazioni chi, viceversa, senza questo tipo di mandato, che si propongono, sulla base dell’esperienza, all’interno del Partito democratico, di Renzi e dei suoi formattatori, di archiviare una stagione politica e di andare, sempre più, verso una forma di PdL 2.0; vale a dire verso una forma di partito più snella, attenta alle esigenze del territorio e che sappia padroneggiare abilmente i social network.
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Tentativo, questo sì, da non sottovalutare pienamente ma, anzi, da prendere come spunto per una seria riflessione politica; il punto, però, è un altro: se queste persone verranno cooptate dalle segreterie, dalle nomenclature, dalle correnti e dai loro singoli capobastone, verranno «insabbiati» nelle attuali secche del partito, venendo così depauperati del loro spirito critico e del loro afflato di cambiamento, teso a far entrare il PdL - o quello che ne rimane - nella terza repubblica. Si avverte l’esigenza, quindi, non soltanto di facce nuove, bensì di persone competenti e valorose, scevre da qualsiasi condizionamento «dall’alto», che rappresentino appieno il coraggio del cambiamento, con la conseguente apertura, di una nuova fase politica. Possono anche essere affiancati dalle più promettenti leve cooptate dai dirigenti del partito ma, qualora non ci fosse la spinta propulsiva dal basso, il tutto si rivelerebbe come la solita, sterile ed inutile operazione gattopardesca, tesa soltanto alla conservazione, mediante una banale restaurazione di facciata, di antichi privilegi acquisiti. Qual è la risposta, in tutto ciò, dei vertici ufficiali del Popolo della Libertà? Eh, bella domanda: chi ci capisce è bravo. * * * Dal lontano 2004 (sic!) in poi, non si è più organizzato un evento di rilevanza nazionale, che abbia coinvolto il movimento giovanile. A margine di otto anni, una distanza siderale in politica, e soprattutto considerando la crisi attuale del partito, in cui si ravvisa la consapevolezza di essere arrivati clamorosamente in ritardo, si è deciso di organizzare una «tre giorni» di riflessione e condivisione politica, atta a stilare, sulla base di una nuova e diversa piattaforma programmatica, alcune linee guida, che possano formare parte integrante del programma del partito, alle prossime tornate elettorali. Premesso che ancora non sappiamo, vista la situazione, se nel 2013 ci sarà, sulla scena nazionale, e soprattutto in quella locale, il PdL, pensare che questo possa veramente rappresentare il rinnovamento, fa quasi tenerezza. La sensazione che si ha, invece, è quella di un partito allo sbando, di un movimento giovanile inesistente in cui, la stessa coordinatrice, Onorevole Annagrazia Calabria, sia mandata allo sbaraglio a raccogliere i cocci di quello che resta del movimento giovanile; ammesso che qualcosa ne resti. Sembra, parimenti, che il vero scopo di questa «tre giorni», sia quello di coagulare, intorno alla sua figura, quanti più giovani possibili, per dimostrare ad Alfano, e agli alti vertici, il consenso di cui gode sul campo, al fine di una sua rielezione, in seno alla Camera dei Deputati, per il prossimo anno. A pensar male si fa peccato… diceva un famoso «giovane». In ogni caso noi giovani siamo, pur nel momento attuale, garantisti e fiduciosi: attendiamo di conoscere i risultati di questa «tre giorni», con la speranza che possano fornire realmente degli spunti concreti sui quale lavorare nei prossimi mesi, per ricostituire le fondamenta di un partito allo sfacelo. Non ci dimentichiamo, invero, che il movimento giovanile va costruito per intero. Qualche suggerimento l’ho fornito, vediamo se corrisponderà alle proposte di questa «tre giorni».
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TRIBUNA POLITICA
UN ACCORDO
per l’Italia di ALTERO MATTEOLI
Riceviamo e pubblichiamo È ARRIVATO il momento di sedersi attorno ad un tavolo e aprire un negoziato serio che veda protagoniste tutte le forze politiche rappresentate e non in Parlamento che non si riconoscono nella sinistra e vogliono ad essa essere alternative. Il ping pong quotidiano che si registra sui giornali a colpi di interviste, di dichiarazioni, di commenti serve poco, anzi in più occasioni danneggia la possibilità concreta di realizzare una nuova alleanza del blocco moderato. Credo si debba porre fine ai meri tatticismi dei leader sulle alleanze da presentare agli elettori alle prossime politiche e portare al negoziato ognuno le proprie idee, proposte e programmi per il futuro del Paese. Io sono moderatamente ottimista sulle possibilità di un accordo in quanto le idee di Alfano, Casini e quanti altri vorranno sedersi al tavolo se non sono uguali sono certamente simili e comunque conciliabili e condivisibili. Il tempo che ci separa dalle elezioni politiche, siano esse fissate al naturale termine della legislatura o siano anticipate al prossimo autunno, è davvero poco e pensare che i leader moderati che aderiscono al partito popolare europeo si debbano continuare a parlare attraverso le interviste in cui prevale quasi sempre la tattica rispetto alla strategia e alle proposte concrete sarebbe sconcertante e pericoloso allo stesso tempo. Significherebbe favorire la balcanizzazione dell’area moderata e quindi servire su un piatto d’argento la vittoria alle sinistre. Le quali – attenzione - non offrono al Paese una prospettiva di governabilità, divise come sono su programmi e soluzioni per fronteggiare la grande crisi economica che non è passata e purtroppo non si esaurirà in tempi rapidi. Ed allora serve una mossa. Per questo ho auspicato, e torno a farlo, che il segretario del Pdl, Angelino Alfano, assuma l’iniziativa di convocare il tavolo dei moderati per costringere tutti alla concretezza. È ovvio che il Pdl a questo tavolo porterà le sue proposte e tra esse certamente il semipresidenzialismo già lanciato e di cui in questi giorni si discuterà al Senato, ma porterà anche una proposta complessiva sull’economia, su come l’Italia dovrebbe impostare la sua presenza in Europa da cui non si potrà prescindere per riuscire nel difficile tentativo di non esser schiacciati da politiche sbagliate e per nulla solidali da parte soprattutto della Germania. Non escludo che al tavolo prevalgano egoismi o comportamenti velleitari che non consentano di costruire una nuova alleanza che si contrapponga alla foto di
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Vasto, ossia alla riedizione riveduta e corretta dell’Unione di Prodi. Non me lo auguro ma comunque si farebbe chiarezza, quella chiarezza che si attendono gli elettori che non votano a sinistra e che magari, come nel caso delle ultime amministrative, hanno preferito astenersi lanciando un messaggio preciso a Pdl, Udc, Lega e alle altre forze di centrodestra: «Basta divisioni! Diversamente i nostri voti potranno confluire in altri lidi». Un messaggio che va invece assolutamente colto a costo di sacrifici ed in primo luogo bisognerà escludere che qualcuno ambisca ad annettere qualcun altro. Il presupposto di una nuova alleanza è che nasca su basi politiche paritarie, che sia aperta al concorso di chi offrirà validi apporti e contributi. E sotto questo aspetto sono certo che il Pdl non porrà vincoli di supremazia, se non quello delle proprie convinzioni programmatiche che, al netto degli errori che abbiamo commesso sul piano della loro traduzione in atti e fatti, restano valide. Battersi per un’Italia più liberale e solidale, in cui il merito a tutti i livelli sia premiato, in cui l’intrapresa privata sia favorita ed agevolata nella prospettiva di una maggiore e migliore occupazione e non affogata da uno Stato sempre più invadente, in cui finalmente il cittadino sia chiamato a pagare tasse giuste e non quelle che il governo dei tecnici senza neppure un po’ di fantasia ha propinato agli Italiani, questi e tanti altri, sono obiettivi che un partito come il Pdl deve continuare a perseguire e su di essi chiedere la fiducia. Non penso - sarò forse tacciato di troppo ottimismo - che Casini e l’Udc vorranno chiamarsi fuori da questa partita perché non ho mai creduto che il loro elettorato abbia idee contrapposte alle nostre e perché non credo che Casini possa farsi annettere nella foto di Vasto. Tradirebbe la sua storia politica di una vita. Al tavolo che spero si apra presto il Pdl ha un argomento politico forte da portare: abbiamo votato finora tutto quanto i tecnici ci hanno proposto, pur sapendo che i provvedimenti avrebbero penalizzato maggiormente il blocco sociale ed elettorale che vota o potrebbe votare Pdl, e lo abbiamo fatto per buon senso e per responsabilità come anche Casini e Cesa ci hanno chiesto di fare. Nessuno può chiederci ora di consegnare il Paese alla sinistra senza neppure lottare.
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IL BORGHESE
RICORDANDO BEPPE NICCOLAI
LARGO ai giovani! NESSUNO può mettere in dubbio l’importanza di Altero Matteoli, prima nel Msi, poi in Alleanza nazionale ed infine nel Pdl. Il suo percorso politico lo testimonia: consigliere comunale di Castelnuovo di Garfagnana (Lucca) e di Livorno per quattro legislature, nonché consigliere provinciale di Livorno. Ed infine, dopo la rinuncia dell’indimenticabile Beppe Niccolai al seggio di deputato, nel 1983 Matteoli diviene parlamentare del Msi nel collegio PisaLivorno-Lucca-Massa Carrara. «Una legislatura mi basta, ora spazio ai giovani», aveva detto agli amici Beppe Niccolai, favorendo in tal modo il più giovane Matteoli che fino a quel momento lo aveva seguito come un’ombra nella difficile, ostica, rossa Toscana. Matteoli è sempre ritornato in Parlamento, raggiungendo sei legislature alla Camera e una al Senato. Con la destra al governo, è stato ministro dell’Ambiente e poi delle Infrastrutture e dei Trasporti. Un uomo di potere, insomma, che senza porsi in mostra come tanti suoi colleghi, ha sempre contato, prima nella segreteria di Gianfranco Fini e successivamente in quella di Silvio Berlusconi. Non lo hanno neppure scalfito le bordate degli ambientalisti che, a suo tempo, lo hanno accusato di avere ritardato l’approvazione del piano nazionale di assegnazione delle emissioni, varato soltanto a febbraio 2006 dopo vari richiami Ue, di essere rimasto in silenzio sull’applicazione concreta del Protocollo di Kyoto, di avere accettato che l’esecutivo di cui faceva parte, approvasse il condono edilizio e, cosa più grave, di non essersi battuto contro la nuova ondata di abusivismo che avrebbe visto nascere 180 mila nuovi edifici fuorilegge… Il tutto mentre Matteoli dirigeva il dicastero dell’Ambiente... Abbiamo brevemente accennato alla carriera di Altero Matteoli (da fare invidia anche a La Russa, Gasparri, Alemanno e Storace) per fare comprendere ai nostri lettori le varie sfaccettature del suo percorso politico, di tutto rispetto. Un pezzo da novanta, insomma, che assieme a Denis Verdini ha controllato e controlla il partito in Toscana, tanto di avere permesso, alla faccia della democrazia interna e della meritocrazia, di paracadutare nelle elezioni del 2008, gente che non aveva mai, ripetiamo mai fatto politica sul territorio. In tal modo sia al Senato che alla Camera figurano romani, pugliesi, napoletani, in rappresentanza della Toscana che, è probabile, non hanno mai conosciuto. Raccomandati da Fini e Berlusconi che, con l’assenso di Matteoli e Verdini, hanno scippato il posto a militanti toscani. Ora, ce lo faccia dire senza peli sulla lingua, le sue esternazioni rafforzano in noi la convinzione del fallimento politico ed etico del Pdl, nato nel 2009 sotto il segno padronale di Berlusconi (ed a cui non risulta che il presunto erede di Niccolai si sia opposto). Marcello Veneziani, nel suo appello a tutte le destre, ha affermato, tra l’altro, che Berlusconi e Fini costituisco-
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no «inevitabilmente un ciclo concluso. La loro parabola di leader è finita (…) Si deve fare un passo oltre. Ma», continua Veneziani, «si chiede un passo indietro anche a coloro che hanno rappresentato in questi venti anni la destra e si selezionino giovani, donne, e outsider per costituire il nucleo costituente» per far nascere un nuovo soggetto politico. Anche noi siamo del parere che la nascita di un partito allo spezzatino, così come vagheggiato da Veneziani, ci riporterebbe indietro e non avanti (nel merito ottima la riflessione di Marcello De Angelis apparsa sul Secolo d’Italia). Ma non è questo il punto. Quando Matteoli boccia la proposta di Veneziani, difende le proprie posizioni e quelle di chi ha ridotto il Pdl ad uno stato comatoso. Nel suo articolo apparso sul Secolo d’Italia (8 giugno scorso), l’ex ministro ha affermato che il partito ha soltanto bisogno di rifondarsi, migliorando la macchina organizzativa, riprendendo il contatto con gli elettori, con il territorio, con chi ci vota o ci voterebbe ancora soltanto se il Pdl saprà ritornare ad essere più credibile. Ma, accanto a questi buoni propositi, nelle sue parole non si intravede uno straccio di autocritica, né si enuncia un programma politico, breve e a lungo termine, per raddrizzare la barca del Pdl. Ha scritto di recente Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera (2 giugno) che «ai deputati e ai senatori del Pdl dovrebbe apparire preziosa l’occasione odierna di poter parlare, di aprire una vera discussione critica, anche per provare ad acquistare finalmente quella statura politica che finora non sono mai riusciti ad avere. Un’occasione che tra l’altro potrebbe rivelarsi anche al’ultima. Invece ancora e sempre nulla. Sorprendentemente nel Pdl continua a non sentirsi alcuno dotato di qualche autorevolezza capace di parlare con la voce della verità». Caro Matteoli, l’appello agli affetti che ha lanciato sia a noi che al Secolo d’Italia, non incanta più nessuno. Servono cose concrete, immediate, sincere. Agli italiani non gliene frega niente delle riforme costituzionali, del semipresidenzialismo, delle mosse politiche del povero Angiolino Alfano. Come ha ben detto Galli della Loggia, è il momento di parlare ai cittadini con «la voce della verità». [C.T.]
GIUSEPPE NICCOLAI
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A COLLOQUIO CON ERASMO CINQUE
Presidenzialismo, strumento del popolo e non dei partiti Il nuovo governo politico deve ridiscutere Maastricht Erasmo Cinque, riprendiamo la nostra consueta conversazione mensile. Dopo il voto greco, italiano e quello politico francese (dove sono stati confermati i rapporti di forza delle presidenziali; avanzata dei socialisti, forte ascesa della Le Pen, crisi dell’«Ump» ex sarkozista), c’è qualcosa di nuovo e, nello stesso tempo, di tristemente solito nello scenario italiano: ulteriore crollo dei parametri finanziari ed economici, ulteriore crollo di credibilità dei partiti tradizionali, smottamento del «Pdl». Gli argomenti, da mesi, ruotano intorno a Grillo, alla riforma elettorale, le primarie, il calcioscommesse, a Monti che comincia a perdere colpi e a Berlusconi che torna a comunicare. A proposito, il Cavaliere riscenderà in campo? «Non so in quale ruolo, o con quali forme (partito, lista civica), ma certamente continuerà a dare il suo contributo per rilanciare il centro-destra. Leadership e premiership, va ricordato, sono due cose diverse. Nonostante l’investitura dall’alto, Alfano stenta ad aggregare un partito che deve rinnovarsi subito e rinnovare la sua classe dirigente. Per questo le primarie, a condizione che servano veramente a trovare l’uomo giusto che traghetti il centro destra verso la terza repubblica.
correzione semi-presidenzialista alla francese della nostra Costituzione al sistema elettorale a doppio turno. Un sistema che mi lascia perplesso, impedisce alle forze nuove di decollare, stabilizzando il vecchio quadro politico. Da noi, infatti, se guardiamo ai numeri e alle statistiche, col doppio turno vince quasi sempre il centro-sinistra che si coalizza contro la destra; mentre i moderati fanno il pieno unicamente al primo turno. Al secondo, spesso preferiscono il mare alle urne. Forse questo dato statistico ad Alfano è sfuggito.» Napolitano è un presidente adatto per una Repubblica presidenziale? «Di fatto già lo è. Il suo attivismo, la sua capacità di unire e mediare ci fa capire quanto sia utile rafforzare i poteri del Capo dello Stato.» La seconda frase di Berlusconi riguarda l’euro, ha detto che «potremmo stamparcelo da soli»… «Più che considerarla una battuta o una provocazione, preferisco ritenerla una proposta meritevole di attenzione. Nell’attuale euro c’è qualcosa che non riesco a comprendere, si tratta di una moneta che fa ricca soltanto la Germania, mentre dovrebbe aiutare tutti i 26 Paesi europei. Il tema naturalmente riguarda il peso e il ruolo della Germania. Lo possiamo sintetizzare con un gioco di parole: è la Germania che si deve europeizzare, non l’Europa che si deve germanizzare. D’altra parte, lo stesso Obama ha censurato la Merkel. Le sue mire sono molto simili ai progetti che nel Novecento ha portato avanti un altro tedesco, facendo un disastro.»
Però, due cose importanti Berlusconi le ha dette. La prima, ricalcando la scia di Pacciardi, ha spinto per l’opzione presidenzialista… «Beh, direi opzione italiana, visto che erano, e lo hanno dimostrato anche in seguito, presidenzialisti convinti, uomini dalle fedi trasversali, come Calamandrei, Pacciardi, Segni, i dc di «Europa Settanta», Almirante, Craxi. Una proposta positiva, stando molto attenti a non vanificarne le Noi italiani cosa dobbiamo fare? qualità sistemiche. Il presidenzialismo non può essere una «Bisogna tornare ad avere un Paese governato. La soluzione partitocratica, il classico coniglio che esce dal politica, deve riappropriarsi dei propri spazi, la fase moncilindro di una nomenclatura vectiana della sospensione della politichia, autoreferenziale, incapace di ca si deve concludere. Il futuro goreagire, di capire la realtà, che penverno politico italiano dovrà porre sa unicamente a ingessare, bloccare alla Germania dei drastici e secchi costituzionalmente il nuovo che proout out, dovrà contribuire a costruimana dalla società civile, si pensi ad re un’Europa politica, dove gli Stati esempio, al grillismo. Al contrario, nazionali siano tutti paritari, orgadeve essere la risposta democratica nizzando una vera banca europea e del popolo sovrano, che riprende in modificando una volta per tutte, i mano il proprio destino e l’avvio patti scellerati di Maastricht, che ci della stagione della democrazia dihanno imposto regole sbagliate, in retta: la scelta dei massimi vertici primis il cambio lira-euro. Una dello Stato e del governo, senza meriflessione: il patto di stabilità, badiazioni partitiche. Ma per far questerebbe nell’emergenza recessiva sto bisogna fare un grande salto di rivederlo nell’ottica di un rilancio qualità e avere maggiore coesione dello sviluppo, e già avremmo una nazionale. E poi, Alfano ha legato la ERASMO CINQUE ripartenza dell’economia.»
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IL PALAZZO dei sogni infranti di SENATOR È PALAZZO Chigi, la sede del Governo italiano, il «Palazzo» per eccellenza, più del Quirinale, di Palazzo Madama e di Montecitorio, dove pure si gestiscono attribuzioni essenziali per il buon funzionamento della Repubblica, come la funzione legislativa, per quanto riguarda le sedi delle Camere, o la più alta autorità dello Stato, nella sede che fu dei Papi e poi dei Re di Casa Savoia. Palazzo Chigi, non soltanto nell’immaginario collettivo ma anche nella realtà istituzionale, è il motore della politica e quindi della gestione del potere, la stanza dei bottoni da dove prendono le mosse le iniziative per dare attuazione all’indirizzo politico amministrativo oggetto della esposizione programmatica del Presidente del Consiglio approvato dalle Camere. Quell’indirizzo politico amministrativo a sua volta ispirato dall’indirizzo politico elettorale convalidato dal voto popolare. Ebbene, non c’è dubbio che nel 1994, poi nel 2001 e nel 2008 una larga maggioranza degli Italiani abbia scelto i partiti del Centrodestra, con entusiasmo, nel momento in cui il tradizionale orientamento moderato dell’elettorato, che per decenni si era identificato essenzialmente nella Democrazia Cristiana e nei partiti alleati (Liberali, Monarchici, Missini), ha scelto Forza Italia, Alleanza Nazionale, Unione dei Democratici di Centro e Lega e poi Partito della Libertà e ancora Lega. È sembrata ai più una scelta naturale di fronte all’inconsistenza dei governi della sinistra guidati da Prodi, Amato e D’Alema che avevano, inoltre, largamente scontentato vasti settori dell’elettorato. Così gli Italiani hanno dato crescente forza al Centrodestra ed in primo luogo al partito di Silvio Berlusconi che si era presentato nel 1994 sulla base di un programma di indubbio fascino, la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro, la riduzione delle imposte, la riforma dell’Amministrazione e la semplificazione dei procedimenti amministrativi che interessano i cittadini e le imprese. E, in prospettiva, un restyling della Costituzione per rendere più funzionale l’esercizio del potere di governo e di quello legislativo. In corrispondenza, da un lato, all’esigenza di attribuire al Presidente del Consiglio maggiori poteri nell’impulso e nel coordinamento dell’attività dei ministeri, e, dall’altro, alla razionalizzazione del bicameralismo che avrebbe dovuto prendere atto di una prospettiva federalista della Repubblica, con superamento della perfetta parità di funzioni delle Camere e creazione di un Senato delle Regioni. Tutte ipotesi largamente condivise nei partiti e nella dottrina del diritto costituzionale. È stato il sogno della maggioranza degli Italiani, orgogliosi della propria bandiera, come aveva intuito il Cavaliere, esperto di indagini di mercato, ostili al Comunismo, individualisti quel tanto che può farli sentire liberali in uno con la tradizione solidari sta cattolica. Per cui i richiami alla mozione degli affetti, patriottici e familiari, hanno consolidato nel tempo le adesioni alla leadership di Berlusconi, nonostante fosse presto evidente che i posti di lavoro non sarebbero cresciuti e
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imposte e tasse non sarebbero diminuite e le riforme costituzionali sarebbero state ancora sbandierate quale argomento di polemica politica. Mentre la «riforma» della Giustizia, che avrebbe dovuto interessare soprattutto il processo civile, è stata usata come minacciosa arma di pressione nei confronti della Magistratura accusata di «perseguitare» il Premier, al quale venivano imputate responsabilità penali in relazione ad attività svolte nel «pregresso» ruolo di imprenditore. Le delusioni non hanno tardato a farsi sentire. Ma l’incapacità di governare di Prodi, per due volte a Palazzo Chigi, Amato e D’Alema, chiamati a governare con una risicata maggioranza nel 1996 e nel 2006 (quando il centrosinistra prevalse solamente per 24 mila voti) ha convinto gli Italiani a votare ancora per il Cavaliere e per i suoi alleati dandogli sia nel 2001 che nel 2008 una maggioranza mai vista prima, nonostante la quale nessuna delle riforme promesse nel 1994 (più posti di lavoro, meno tasse) è stata realizzata. Così, mentre perdeva pezzi della maggioranza, prima l’Udc, poi i fedelissimi di Gianfranco Fini costretto a lasciare («che fai mi cacci?», è stata la reazione del Presidente della Camera alle critiche del Cavaliere alla sua condotta nel partito), infine la Lega, che non ha condiviso l’appoggio al Governo Monti, Silvio Berlusconi ha dovuto fare i conti con un disastroso appuntamento elettorale che suona come l’ennesimo campanello d’allarme in vista delle elezioni del 2013, un appuntamento importante anche perché, appena eletto, il nuovo Parlamento dovrà anche eleggere il successore di Giorgio Napolitano. Uno sfascio prevedibile e ampiamente previsto da commentatori e sondaggisti, non da Berlusconi e dai suoi, che sta provocando un diffuso maldipancia tra i parlamentari «nominati», quindi senza consenso elettorale che sentono a rischio una poltrona conquistata soltanto in virtù della scelta del Cavaliere, basata su requisiti, la giovane età, un bell’aspetto e, spesso, l’avvenenza (nelle donne), che nulla hanno a che vedere con la politica, della quale la maggior parte non aveva e non ha nessuna esperienza, come dimostra l’andamento dell’attività parlamentare che non ha prodotto nessuna delle riforme tanto sbandierate alla vigilia delle elezioni, nonostante i numeri dei gruppi parlamentari di maggioranza. Ma siccome «Dio fa impazzire coloro che vuol perdere», sulla barca che affonda Berlusconi può ancora contare su rematori che, con la forza della disperazione, continuano a vogare diretti da colonnelli ormai incapaci di vedere l’orizzonte. Ricordano tanto i generali di Hitler ai quali il dittatore nazista ordinava di spostare, a difesa di Berlino, divisioni che non c’erano più o i fedelissimi di Mussolini che evocavano la mitica «ridotta della Valtellina» dove avrebbero potuto resistere in attesa dei «liberatori». A Palazzo Grazioli, la «ridotta» di Silvio Berlusconi sotto assedio, si muovono come automi ex ministri, ex sottosegretari, capigruppo senza seguito. È l’immagine della fine di un’esperienza politica, come se ne sono viste tante nella storia. Un sogno «infranto» per milioni di italiani che si chiedono sconsolati a chi potranno dare il voto tra un anno.
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STRATEGIA DELLA TENSIONE FISCALE
SIAMO ancora sudditi di EMMANUEL RAFFAELE SUDDITI. Che dalla Rivoluzione francese ad oggi poco fosse in realtà cambiato, di questo noi ne siamo sempre stati convinti. Che la retorica sullo status di cittadino e la libertà dell’individuo insita nella sua stessa esistenza e non più concessione dello Stato fosse niente più di una bugia, anche di questo ne abbiamo sempre avuto le prove sotto mano. Oggi di tutto ciò si sta avendo, finalmente, la prova più evidente. Non bastavano le intercettazioni utilizzate come strumento preventivo per scovare reati (di chi è poco gradito alla magistratura) più o meno reali, non bastava la libertà di parola valida soltanto per chi delle parole sa farne uso consono alla volontà della casta. L’oppressione è oggi fiscale, palpabile, medievale: tutti sudditi spaventati dallo sceriffo di Nottingham di turno. Ed è lo sceriffo Equitalia, di cui ci siamo occupati tra i primi in Italia, a ricevere la solidarietà di Monti, non certo i sudditi. Loro, quelli della casta, intanto, continuano a fingere di dimezzarsi stipendi e rimborsi, ma intanto i partiti italiani ricevono ancora il doppio dei rimborsi dei colleghi di tutta Europa, come certifica Pierluigi Mantini, responsabile riforme Ist. La pressione fiscale nel nostro Paese è al 50 per cento, mentre le rendite finanziarie sono tassate a malapena al 20 per cento, tanto per non disturbare lor signori, non sia mai vadano altrove a lucrare sul sudore dei lavoratori. D’altra parte, asserisce Victor Uckmar, noto tributarista italiano: «In questo momento sono attestato sulla linea del Piave come chiede il governo. Bisogna obbedire e tacere. Pagare le tasse, riequilibrare i conti pubblici. Poi riprenderemo a discuterne». È in atto, insomma, una sorta di strategia della tensione fiscale con lo spread ed il debito pubblico enfatizzati a tal punto da far sentire in colpa il suddito ribelle, brutto e cattivo, che prova soltanto a pensare all’iniquità di una tassazione simile, di pensioni pignorate, di case prese dalle banche per pochi spiccioli di debito. E come la limitazione dei diritti civili, soprattutto negli Usa, è stata giustificata dall’11 settembre, così l’invadenza del fisco è giustificata dal capro espiatorio, l’evasore, il nuovo kulak. Intendiamoci: pagare le tasse e pagarle tutti, ma - siamo franchi - una pressione fiscale così sembra fatta apposta per giustificare i furbetti. O chi, semplicemente, non arriva a fine mese, distinzione sottovalutata quanto essenziale. Oppressione fiscale, dunque: entro il 30 settembre i gestori telefonici dovranno comunicare al fisco ogni dettaglio sui contratti stipulati dai clienti, dalla tariffa alla spesa, se si tratti di una ricaricabile o di un abbonamento, di una linea fissa o mobile, di un privato o di una società. Il fisco vuole conoscere tutte le nostre abitudini. Prevenzione fiscale. Controllo assoluto. Sovietico. Nel frattempo, però, le fondazioni più vicine ai partiti intascano ben 10 milioni di euro: l’Istituto «Antonio Gramsci» del deputato pci Giuseppe Vacca, con Cda composto da Piero Fassino e Ugo Sposetti, ex tesoriere ds; l’Istituto «Luigi Sturzo», dell’ex parlamentare e banchiere dc Roberto Mazzotta; la fondazione «Lelio e Lisli Basso»,
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dell’ex parlamentare europea Elena Paciotti; la fondazione «Alcide De Gasperi», guidata da personaggi come Franco Frattini e Giulio Andreotti; la fondazione «Bettino Craxi» della figlia Stefania, la fondazione «Liberal» del deputato Ferdinando Adornato; la «Magna Carta» del senatore Gaetano Quagliariello. Elargizioni più o meno generose, tutte giustificatissime sulla carta, che sembrano però confermare l’adagio popolare «piove sempre sul bagnato». Una sensazione che pervade l’italiano medio e genera qualunquismo, ma nasce da una realtà oggettivamente ineccepibile: in Italia le dieci persone più ricche hanno ricchezze per l’equivalente degli averi dei tre milioni di connazionali in fondo alla classifica. Il 10 per cento delle famiglie più ricche possiedono il 40 per cento della ricchezza. Nel frattempo, però, Equitalia, società per azioni, non paga l’Iva per la sua attività di riscossione, come in realtà dovrebbe stando al parere della Commissione Europea che sta valutando attentamente la situazione e considerando la possibilità di portare avanti una procedura per infrazione della direttiva europea in materia. Equitalia agisce da monopolista pur avendo natura privatistica e, fortunatamente, qualcuno se n’è accorto, mentre i Comuni stanno cominciando a predisporre soluzioni alternative. Chi fa da sé fa per tre. È chiaro che la saggezza popolare sta tornando di moda. Tempi in cui il qualunquismo sembra quasi l’unica via. Ma attenzione: non lo è ed ad assecondare questa tendenza si fa soltanto il loro gioco. Sconti per Equitalia, dicevamo, nessuno sconto per gli anziani ricoverati all’interno di strutture sanitarie o case di riposo, che rischiano di pagare l’Imu per intero. Saranno i Comuni, infatti, a decidere se esentarli o meno, il che - in tempi di bilanci bloccati dal Patto di stabilità - sarà una decisione quanto meno coraggiosa. Ma Monti è stentoreo: 15 miliardi di tasse per l’anno 2012, il 25 per cento in più rispetto allo scorso anno. Peccato che in previsione all’appello manchino già 3,5 miliardi. Peccato, soprattutto, che il pagamento dell’Imu, ad esempio, si stia rivelando un caos. A metà giugno c’era da pagare la prima tranche, ma senza conoscerne l’aliquota che verrà decisa dai comuni soltanto a settembre. In tutto ciò, lo spread sale e scende, il Fiscal Compact avanza a rilento e, finalmente, si può parlare di uscita dall’euro. Quello che era tabù fino a poco tempo fa, è ormai argomento di punta di filoamericani estremi come Magdi Allam, mentre anche il finanziere George Soros dichiara il fallimento dell’euro e della sua classe dirigente: «Se dovessi investire, scommetterei contro l’euro […]. L’introduzione dell’euro, anziché creare convergenza, ha innescato delle divergenze», ha affermato puntando il dito contro l’ortodossia della Bundesbank che spingerebbe alla deflazione. Tema quanto mai attuale in Italia, dove l’accusa principale al governo Monti è divenuta esattamente quella di accelerare la crisi del sistema economico italiano con le sue politiche di austerità. Preoccupazioni filo-keynesiane che si acuiscono con l’introduzione nella Costituzione italiana del pareggio di bilancio, una scelta talmente assurda - e soprattutto dubbia in tempi in cui sono necessari investimenti - che perfino De Magistris ha sancito: «L’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione è una svolta antidemocratica». Fortuna che nella nostra situazione la decisione ricordi molto da vicino le innocue ma retoricamente perentorie «grida manzoniane». Certo, se anziché lasciare ogni volta che siano i fatti a decidere per noi, fossimo noi a guidare il cambiamento i risultati sarebbero sicuramente migliori. Ma allora saremmo un Paese coraggioso e non la vile repubblichetta nata dall’odio antifascista, festeggiata con tutti gli onori anche questo 2 giugno, a dispetto di terremoti e tagli ai costi. I dogmi sono dogmi.
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ALTERNANZA
LA FACCIA ed il culo di ADRIANO SEGATORI LA DOPPIA morale non è una caratteristica antietica imputabile ad un individuo originale, o ad un popolo piuttosto che ad un altro, o ad una ideologia particolarmente corrotta e deviante: è una modalità di pensiero che favorisce i propri (sodali) rispetto agli estranei (nemici). Un esempio classico è la famosa affermazione di Mao Tse-tung per il quale esistono vite che pesano come piume ed altre pesanti come montagne: un esempio di come si debba scegliere in una visione di difesa della propria idea e della propria comunità, rispetto a ciò che è diverso e contrario ad un destino condiviso. Che nessuno si scandalizzi! È questa la storia. Come è altrettanto ovvio e scontato che se un individuo uccide un suo simile è un assassino, se invece è un militare diventa un difensore della propria Patria. Il resto, quello delle anime belle e dei pacifisti inetti, che sognano una beatitudine terrena ed una fratellanza universale, è soltanto buonismo accattone e meschina vigliaccheria. Un sentimento di superiorità che viene fastidiosamente ostentato e buttato in faccia agli avversari, confermando quanto scrisse Pasolini, che «c’è gente che fa della propria mitezza un’arma che non perdona». Tutto questo in generale. Un caso a parte è il fenomeno italico. Da noi la doppia morale funziona in termini fratricidi, nel senso che non viene usata come tattica di guerra contro gli allogeni, ma come lotta intestina, come modalità di prevaricazione nello scontro per bande che ha sempre caratterizzato il nostro Paese. Questa è una caratteristica, peraltro, di quei cascami della sinistra che, scomparsa come disvalore partitico ed entità elettorale, continua a mantenere il monopolio della disinformazione, dopo aver vinto decenni fa, per manifesta inettitudine e stupidità degli avversari, la cosiddetta guerra delle parole. Un esempio per tutti: democrazia. Non c’è interlocuzione nei discorsi del vecchio comunismo che non ricorra questa usurata e vuota parola: lotta al fascismo per la rinascita della democrazia; vittoria della democrazia nei risultati elettorali favorevoli alla sinistra; Repubblica Democratica Tedesca, quella della repressione della Stasi; la democrazia popolare della Repubblica Cinese, quella dei massacri della Rivoluzione Culturale e delle sempre odierne fucilazioni alla nuca. Dove c’era e c’è un sistema totalitario comunista, c’è sempre la democrazia; dove non c’era e non c’è comunismo al potere, non c’è mai democrazia. Ed è proprio all’interno di questo simulacro demagogico, di questa superstizione populistica, che maggiormente si scatena la manovra della doppia morale. Una parola magica, che mette in evidenza questo dispositivo e che ricorre frequentemente nelle omelie dei politicanti, è «sobrietà». Mai una incentivazione così pressante alla morigeratezza e alla frugalità è stata pronunciata
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dai detentori di un potere, quanto dagli oligarchi che hanno gestito in modo fallimentare e bancarottiero questi sessant’anni di repubblicanesimo resistenziale. Negli ultimi tempi della gestione montiana del sistema Italia, il vocabolo sobrietà, associato al senso del sacrificio, della rinuncia e del decoro, è diventato un mantra per allenare il popolo muggente al periodo buio che lo aspetta. Poi, tanto per fare un po’ di gossip, ecco che si scopre l’onorevole Finocchiaro che va a fare la spesa con il supporto dei tre uomini di scorta; oppure, ecco spulciare i congrui emolumenti dei nostri illustri parlamentari. Pensiamo soltanto ad un breve tempo addietro, quando l’esilarante ex presidente Repubblica Oscar Luigi Scalfaro esortava i propri concittadini alla rinuncia e alla temperanza, mentre le pensioni stranamente accumulabili del giudice fucilatore, post ingestione dell’ostia consacrata, si aggiravano attorno ad alcune decine di migliaia di euro. Per i rappresentanti di questo logoro e logorante sistema vige il motto inossidabile del «armiamoci e partite, e quando ritornate la vittoria sarà nostra», oppure quello pretesco del «fai quello che dico, ma non fare quello che faccio». Un vezzo, questo, particolarmente fastidioso che dimostra scarsa considerazione dell’intelligenza e della capacità critica della plebe governata. La doppia morale trova luogo e modalità di espressione dovunque. Lo abbiamo sottolineato, in altre occasioni, nel gioco d’azzardo: il sistema fa fiorire plebei casinò dovunque (leggi macchinette mangiasoldi) mentre istituisce centri contro il gioco ed invita alla moderazione e al risparmio. I tenutari dello stesso gonfiano i petti e mettono sotto pressione le corde vocali per incitare alla lotta contro la droga, mentre alcuni deputati presi a caso cascano sotto il controllo di sostanze da parte delle «squadre speciali» delle Jene…denunciandole. Esprimono esorbitanti acrobazie demagogiche sulla flessibilità del lavoro e sulla valorizzazione delle competenze, mentre il sordo e grigio parlamentarismo esibisce la più nutrita accozzaglia di politici secolari, inamovibili a tempo pieno, o comunque tranquillamente riciclati e recuperabili nelle mansioni e nei dicasteri più svariati e multiformi. Mentre un qualunque cittadino, per le attività più neutre ed innocue, deve esibire una fedina penale pulita, lorsignori si permettono curricola giudiziari tra i più fioriti e fantasiosi, È inutile che ci nascondiamo dietro la fluttuante cosiddetta foglia di fico: questa è l’informe struttura della democrazia rappresentativa. Un dispositivo che, dietro alla scusa della «possibilità a tutti», nasconde la strategia di creare un bivacco per mediocri, a quel punto facilmente gestiti e manovrati da un’oligarchia altrettanto scadente, ma con un incontrollabile potere ricattatorio e minaccioso. Le elezioni, per il valore qualitativo e quantitativo che hanno, documentatamente grossolano, diventano una specie di unzione, una discesa dello spirito democratico, grazie al quale uno qualunque diventa un qualunque intoccabile, nei suoi privilegi e nelle sue prebende, in più con la consacrazione della parola nell’incitare a quell’agire etico che ad ogni piè sospinto squalifica e rinnega. Da qui nasce la doppia morale: dalla presunzione data dall’incoronamento delle urne che determina una superiorità morale degli eletti rispetto a quella inferiore degli elettori, e quindi il diritto democratico al privilegio e all’immunità, con l’approvazione beota della maggioranza restante, che a parte saltuarie indignazioni è soltanto in posizione invidiosa della furbizia dei suoi meritati rappresentanti.
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«SUPERMARIO» ED IL LATO «B»
NON È VERO ma ci credo di GIGI MONCALVO RICORDATE Don Ciccillo o’ Musicante di professione jettatore? Era quel pittoresco personaggio partenopeo, agghindato con vistosi paludamenti funerei, che veniva convocato dal presidente Corrado Ferlaino per assistere a tutte le partite del Napoli calcio, in casa e fuori, con lo scopo di portare jella alle squadre avversarie e preservare gli azzurri dal malocchio. Per accentuare le sue caratteristiche di «spargitore» di jella, veniva mandato preventivamente a fare le macumbe anche nei ritiri, negli alberghi, negli allenamenti degli avversari. Il rituale prese talmente piede che Silvio Berlusconi, alla vigilia di un Milan-Real Madrid di «Coppa dei Campioni», fece arrivare dalla Spagna un omologo catalano di don Ciccillo, che si diceva venisse utilizzato dal Barcellona contro gli odiati blancos della capitale spagnola. Il Cavaliere invitò a pranzo ad Arcore i dirigenti del Real e posizionò personalmente nella stanza accanto il porta-jella a comando affinché trasmettesse il suo fluido malefico. Non si sa se anche per questo, il Milan vinse cinque a zero. Ovviamente Berlusconi si prese tutti i meriti. Di don Ciccillo l’originale non si sa nulla da anni. Sotto il Vesuvio qualcuno sostiene che a un certo punto fece confusione tra i suoi due ruoli e tra i destinatari delle sue «arti», insomma non si capiva più se preservava dalla jella o la spargeva. In ogni caso fu rovinato dalla credenza popolare che, in un caso o nell’altro, s’era convinta che chillo, comunque, sempre colla malasorte teneva a che fare. Ci sono giorni in cui il Professor Monti sembra avere nella sua stanza accanto proprio don Ciccillo o un suo emulo contemporaneo. Ma, in tal caso, Mr. Loden deve aver fatto un po’ di confusione, anche lui, sui reali poteri del suo «collaboratore», tecnico ovviamente anche se probabilmente non bocconiano. Il Professore infatti certi giorni appare «fortunato»: la bomba di Brindisi, il terremoto, lo scandalo del calcio. «Fortunato» anche perché, in tal modo, ciò consente di non parlare più dell’articolo 18, degli «esodati», dell’inadeguatezza del ministro del lavoro «Frignero» e della strana elasticità dei suoi dati, della lealtà di Catricalà, delle ambizioni di Passera e del suo «pacchetto-sviluppo» (una sorta di riedizione di Aspettando Godot), dello spread, del debito pubblico, di Berlusconi che scalda i motori per il Quirinale 2013. L’elenco è lungo e ogni giorno si allarga sempre di più. Se non fosse che, all’improvviso, Monti viene colto da qualche «macumba al contrario» del don Ciccillo appostato a Palazzo Chigi, magari accanto al sottoscala dove hanno relegato il povero Enrico Bondi affidandogli l’impossibile incarico di tagliare 5 miliardi di sprechi: lui l’elenco lo ha preparato ma chi oserà metterlo in pratica? Il Professore spesso vanifica le virtù e gli effetti del suo «lato B» - di fronte al quale impallidisce perfino il famoso «culo di Sacchi» ai mondiali di calcio degli Stati Uniti - aprendo la
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bocca e cominciando a sussurrare le sue monotone giaculatorie. Ha avuto la fortuna dello scandalo scommesse nel calcio - un evento che si ripetete periodicamente, come i casi Luttazzi-Walter Chiari, quando occorre distrarre le plebi (vedi caso Moggi proprio in contemporanea con la «misteriosa» vittoria di Prodi per 24 mila voti nel 2006, con successiva elezione di Napolitano) - e invece di starsene zitto e incassare i vantaggi della situazione, ha commesso l’errore di parlare. «Bisognerebbe fermare il calcio per due-tre anni», ha detto il Professore. Senza pensare e capire che lui deve molta della sua fortuna proprio alle distrazioni create dal calcio. Ragione per cui bisognerebbe raddoppiare la dose di calcio e non invece sospenderla. Per sua fortuna sono arrivati gli Europei. Ma rigor-Montis ha capito che era meglio non farsi vedere negli stadi, anche perché Napolitano lo ha preceduto andando perfino a bagnarsi del sudore di Buffon negli spogliatoi e confermando che è in piena campagna elettorale per un «Quirinale bis». Ora sarà curioso vedere in caso di vittoria finale degli azzurri (o eliminazione: mentre scriviamo non è possibile prevedere il futuro), come farà Monti a salire sull’autobus scoperto degli eventuali trionfatori continuando a indossare la giacca e la cravatta (niente a che fare con la collezione di Gianfranco Fini), mantenendo la solita espressione che non ha nulla di genuino e popolare. Una cosa è certa: in caso di sconfitta, chiederà di sostituire Prandelli con un vero «tecnico», magari il tesoriere del CONI. Il professore, il suo «lato B» e il suo amato consulente «tecnico» don Ciccillo, comunque, vivono «splendide» situazioni e continuano a tacere sui misteri che li circondano e che ci fanno pensare se davvero questi siano adeguati al momento e, soprattutto, «tecnici». Lanciamo alcuni coriandoli , telegraficamente e in gran disordine. Il governo deve vendere la RAI per avere i soldi da prestare alle banche che compreranno la RAI? Con le nomine RAI, Monti ha confermato di meritare la sgridata che gli ha fatto Edward Luttwak a «Ballarò»: «Il potere lo ha e quando vuole lo usa pure. Che cosa aspetta a farlo?» Oppure: ma se prima eravamo governati dai politici, a loro volta controllati dal sistema bancario, ora che i banchieri hanno preso il comando diretto, i politici che li paghiamo a fare? Di Pietro & C. dicono che la RAI è un’azienda «culturale»: ma prima non dovrebbe avere dirigenti che almeno sappiano leggere un bilancio? Perché l’ex ministro Brambilla ha ancora la scorta? A che cosa è servita la farsa dei curricula se poi alle authorities, per sette anni, sono finiti gli amici degli amici e la moglie di Vespa? Perché le banche non vengono «obbligate» dal governo a utilizzare il denaro ricevuto dalla BCE all’1 per cento di interesse, per il rilancio dell’economia italiana? Come mai le banche, gestite tanto bene al punto che i loro massimi dirigenti sono stati mandati al governo, hanno continuo bisogno di denaro e aumenti di capitale? Perché le indagini sul banchiere Gotti Tedeschi, sono coordinate dal NOE, il Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri, che notoriamente si occupa soltanto di discariche abusive e traffico di rifiuti? Matteo Renzi si candiderà alle primarie del PD o del PDL? Che cosa ha fatto in sette mesi, nonostante un frenetico attivismo di facciata al Ministero della Giustizia, la signora Severino, avvocato penalista coi migliori clienti d’Italia e introito lordo nel 2010 di 7milioni di euro? La signora ha davvero rinunciato al suo redditizio lavoro visto che al ministero prende uno stipendio «soltanto» di 195.255 euro? Che cosa aspettano i «tecnici», dopo tutte le tasse che hanno inventato, a colpire l’evasione fiscale derivante dal-
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la prostituzione? È difficile prevedere un radioso avvenire per Fabrizio Barca, figlio di un grande amico del Capo dello Stato? Perché, la prossima volta che incontra la Merkel, Monti non le chiede come mai i tedeschi attribuiscono maggiore importanza al 1923 (l’anno dell’iperinflazione) che al 1933 (l’anno che segnò la morte della democrazia)? Non farebbero meglio a ricordarsi come una crisi bancaria europea, due anni prima del 1933, contribuì direttamente allo smantellamento della democrazia, non soltanto nel loro Paese, ma da un capo all’altro dell’Europa? L’Unione Europea è stata creata per evitare il ripetersi dei disastri degli anni Trenta: perché Monti non fa capire alla Merkel che è venuto il momento in cui tutti i Paesi europei - ma specialmente la Germania - devono rendersi conto di quanto sono pericolosamente vicini a lasciarsi travolgere dagli stessi errori? Quando comincerà il Professore a dire la verità e cioè che i grandi investitori privati hanno già abbandonato, dopo le sponde della Grecia, anche le altre banche dell’area mediterranea? Come mai non c’è un giornale italiano che abbia mandato un inviato ad Atene o Madrid a raccontarci come sta avvenendo nelle banche a causa del prelievo dei depositi da parte dei risparmiatori? Perché Monti non dice la verità e cioè che è un «burattino» nelle mani dei grandi poteri continentali? In mezzo a tutti questi «coriandoli», bisogna tuttavia dare atto al primo ministro di compostezza, stile, misura, tutti ovviamente sobri. Si capisce subito che è uno che odia la sguaiatezza. Ma, se avete notato, ultimamente, all’espressione calibrata tra l’arcigno ed il severo ha aggiunto qualcosa di mistico, quasi intravedesse un futuro che soltanto alle menti superiori come la sua è consentito scorgere. Non vorremmo che, anche a causa della presenza di don Ciccillo o’ Musicante, il Professore s’immaginasse vestito di nero con bombetta e guanti, mentre accompagna il feretro dell’Italia all’ultima dimora con il suono di una banda composta dai ben noti soliti suonatori.
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COSA RESTA DEL «PDL»?
UNA BABELE moderna di ADALBERTO BALDONI SEGUENDO le evoluzioni dei partiti della seconda Repubblica ci sembra di assistere ad uno spettacolo avvilente, deprimente e sotto alcuni aspetti indecoroso. I due maggiori partiti, preoccupati dalle incazzature degli Italiani per le tasse, dall’astensionismo che li ha colpiti (entrambi) alle recenti amministrative, dal clamoroso successo del Movimento «5 Stelle», non sanno far altro che criticare le iniziative del governo Monti ma al tempo stesso continuano a sostenerlo, senza avere il coraggio di staccargli la spina, nonostante lo spread sia risalito sopra i 400 punti, ai livelli delle dimissioni del Cavaliere. Il Pdl, allo stato attuale, assomiglia ad una moderna Babele, dove i suoi massimi dirigenti parlano lingue diverse, generando disordine e confusione non soltanto nella base ma anche nella pubblica opinione. Si avverte la sensazione che le proposte, i pareri, i suggerimenti, le iniziative della sua classe dirigente sia rivolta ad un fine: salvare la propria poltrona da un probabile tsunami che dovrebbe travolgere il partito. Pertanto c’è chi avanza l’idea di imbastire liste civiche (la governatrice del Lazio, invece di sanare i buchi del bilancio della regione, ha già costituito la sua «Città Nuove»), chi esorta a costituire un nuovo partito, chi ritiene che le primarie (fissate in autunno) siano un toccasana miracoloso per fare risorgere il Pdl (la donna di plastica e il festaiolo, chiacchierato presidente della Lombardia hanno annunciato, ahinoi, la loro partecipazione), c’è chi discute persino su possibili liste di animalisti, di volontari della Protezione civile, di «nostalgici di Forza Italia» (la definizione è di Maurizio Gasparri). C’è chi sostiene una forza politica under 45, ritenendo che gli anziani debbano necessariamente lasciare il campo ai più giovani. Ma ci sono under 45, anche all’interno del Pdl, che sono già «vecchi» dentro. Appassiti, senza la molla della passione, privi persino di un’adeguata preparazione politica, cresciuti senza alcun merito, all’ombra di qualche personaggio politico. Anche il segretario del Pdl, Angelino Alfano non è immune da colpe. Per mesi ha annunciato grandi novità politiche che avrebbero consentito al partito di operare una svolta decisiva. Ma le «novità politiche», illustrate ai sempre più smarriti parlamentari pdl, si sono limitate ad un annuncio del varo di una riforma costituzionale «profonda e radicale» come il semipresidenzialismo alla francese, ovvero elezione diretta dal capo dello Stato e doppio turno per assicurare governabilità. L’idea, non poteva essere altrimenti, è stata di Berlusconi secondo cui se non si affronta seriamente un «processo costituente», se non si dà vera forza al potere esecutivo «il Paese è destinato all’immobilismo e al declino». Però bisogna fare subito, ha detto Alfano, suscitando le proteste dell’alleato (sì, proprio così) Pd che accusa il
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Pdl di ritardare, con questi espedienti, l’approvazione della nuova legge elettorale. La gente della strada, quella che andrà a votare, si domanda perché questa «grande novità» sia stata avanzata soltanto a pochi mesi dal rinnovo del Parlamento e non quattro anni fa quando la destra aveva vinto nettamente le elezioni. Infine, al di fuori del Pdl, c’è chi, come Renato Besana su Libero, lancia un appello sottoscritto subito (e poi rielaborato e rilanciato) da Marcello Veneziani per un «ritorno ad Itaca», ossia alla casa madre. Un appello - specifica Veneziani - a tutte le destre che circolano nel Paese (partiti, movimenti, circoli, galassie giovanili, lupi solitari) per unirsi, lasciando a casa ogni rancore. Come può constatarsi, ci troviamo in una vera e propria Babele, causata dal tramonto di Berlusconi che, nel marzo 2009, con l’assenso di Gianfranco Fini (che aveva sciolto in precedenza Alleanza Nazionale) era divenuto il padrone assoluto del nascente Pdl. Parliamoci chiaro. Prima il masochistico distacco di Fini dal Pdl (accettazione della carica di presidente della Camera, pretestuose polemiche con il Cavaliere fino a farsi deliberatamente cacciare, costituzione di un partitino di latta, ecc), poi il fallimento dell’azione di governo, la batosta elettorale delle recenti amministrative, hanno intaccato pesantemente la figura carismatica di Silvio Berlusconi, facendo precipitare il Pdl in una crisi di cui non si intravede la soluzione. Crisi resa ancora più pesante dal fatto che la sua classe dirigente, oltre che blaterare su liste civiche, primarie, «ritorno a Itaca» o altro, non ha la forza morale di discutere e quindi individuare le soluzioni alle cause che hanno determinato la consegna di Palazzo Chigi ai tecnici di Mario Monti. Qualche voce critica nei confronti di Silvio Berlusconi si è levata (tra gli ex An, Ignazio La Russa e Altero Matteoli) ma, dopo qualche schermaglia, tutto è tornato nella piatta normalità. Il perché è intuibile: gli esponenti del Pdl, ex Forza Italia o ex Alleanza nazionale, sanno che, benché azzoppato, il padrone del partito è ancora il Cavaliere. In queste condizioni e con i risibili accorgimenti di cui abbiamo accennato, le speranze di una rifondazione o di un rinnovamento del Pdl, sembrano appartenere al libro dei sogni. Purtroppo scritto da un romanziere folle.
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«BANKITALIA» ED IL MEZZOGIORNO
PER VISCO non esiste di MIMMO DELLA CORTE MI RICORDO che da bambino, quando ero arrabbiato con qualcuno che ritenevo mi avesse fatto un torto e minacciavo «fuoco e fiamme», mio nonno mi chiamava da parte e mi ripeteva che «il miglior disprezzo è la noncuranza». L’antica saggezza insegna che non è necessario parlare male di qualcuno per dimostrargli la propria avversione nei suoi confronti. Per questo, è più che sufficiente - ed anche più offensivo ignorarlo del tutto. Probabilmente è stato per questo che, dopo aver ascoltato dalla sua viva voce e successivamente letto, le sue prime «considerazioni finali» sull’economia italiana nel 2011, all’assemblea «generale dei partecipanti», del napoletano Vincenzo Visco, dal novembre scorso, Governatore della Banca d’Italia, mi sono chiesto: si può non essere orgogliosi quando un figlio della tua stessa terra assurge ad un incarico tanto prestigioso e di così grande risonanza e riferimento, non soltanto nazionale, qual è quello di primo banchiere d’Italia? Assolutamente no. Non si può non essere soddisfatti per un conterraneo che ha saputo fare così tanta strada. Allora il dubbio è diventato: si può essere delusi nel rendersi conto, che avendo fra le mani il documento e l’occasione ideali (la presentazione ufficiale dello stesso), perché catalizzatori (nel momento di difficoltà economica, che il Paese sta attraversando, crisi accentuata dal doppio sisma in Emilia e Romagna e dalle sue conseguenze) dell’attenzione generale - quando, cioè, tutti gli italiani (addetti ai lavori e non), cosa che lui sapeva benissimo, sarebbero stati appesi alle sue labbra, per trarre dalle sue parole un qualche motivo di speranza per il futuro e, sottolineando ciò che occorre fare per far ripartire l’Italia, lui avrebbe potuto spendere qualche parola a favore della propria terra, se non altro, per far comprendere agli altri che fino a quando il Sud non riuscirà a rimettersi in moto, taglio e rimodulazione delle spese, riduzione della pressione fiscale, nascita dell’Unione politica europea e istituzione del fondo per i debiti sovrani eccessivi (soluzioni, oltretutto, già proposte e riproposte) non saranno sufficienti a rilanciare il Paese, che continuerà a restare fermo al palo ed in ritardo rispetto al resto dell’Europa, in fatto di competitività - questo illustre conterraneo, se ne dimentica completamente? Assolutamente, sì! Non lo dico per mero campanilismo, bensì in forza della realtà delle cose che vede l’Italia, nelle posizioni di coda di tutte le graduatorie internazionali di competitività per questo, rifuggita dagli investitori stranieri - in conseguenza dell’arretratezza socio-economica ed infrastrutturale del Mezzogiorno. Tanto più, si può - ed, a parere personale, si deve - essere delusi, perché questa dimenticanza, fa il paio con quelle di quanti, da tempo immemorabile, hanno scelto «l’Italia del tacco» quale capro espiatorio, cui addossare tutte le colpe e le responsabilità per i guai del Paese e lavorano per la cancellazione dalla cartina geografica del «Belpaese». Basta pensare al «no» del Governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, ed il titolo d’apertura: «Allarme pirateria napoletana sul tesoro dei sindaci del Nord» (anche questo
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assolutamente ripetitivo e fuori luogo) con il quale il quotidiano della Lega Nord, La Padania ne ha rilanciato il «niet», alla proposta del suo collega campano, Stefano Caldoro, di istituire - con le risorse che i Comuni italiani (anche quelli meridionali, quindi) non hanno potuto utilizzare per non sforare il Patto di Stabilità Interno - un Fondo Nazionale di Garanzia, affidato alla gestione del Governo e dal quale attingere le risorse per il pagamento delle imprese creditrici della Pubblica Amministrazione; o, alla recentissima decisione de Il Sole 24 ore di eliminare - dopo esser passato da bisettimanale a settimanale - l’inserto «Sud» e averlo sostituito con quello «Impresa e Territori» che guarda a tutto il Paese e nel quale lo spazio dedicato al Mezzogiorno è ridotto ai minimi termini. Ancora, all’ennesima invettiva antimeridionale lanciata da Il Giornale, che fa parte ogni giorno della mazzetta dei giornali che il sottoscritto - come tanti «sudisti» - acquista regolarmente ed altrettanto regolarmente legge, che per attaccare Il Fatto - testata che il sottoscritto non compra e neanche spulcia - che, riferendosi ai disagi creati agli emiliani, dal recente sisma, si era permesso di sostenere (guarda che sfrontatezza!) che «i terremoti sono tutti uguali», ha scatenato tutto il livore antimeridionale di Vittorio Sgarbi che prima ha definito Roberta Covelli, che aveva firmato la nota, meritevole di essere nominata «tra le penne faziose, incapaci di leggere e di riconoscere l’evidenza dei fatti» perché «con straripante affetto per ladri ed imbecilli, nega l’evidenza dei soldi dati al Meridione per la ricostruzione, senza che nulla sia stato fatto». Dato per scontato che quello emiliano è certamente uno dei più pesanti e lunghi degli ultimi 50 anni ed i danni che ha prodotto, e sta producendo: all’economia, alla cultura, alla storia ed alle tradizioni, sono davvero enormi, rispondere come ha fatto Sgarbi, con la complicità de Il Giornale - alle affermazioni contenute in un articolo, per offendere tutti i meridionali bollandoli come «ladri ed imbecilli», sembra al sottoscritto, e non soltanto a lui, un attentato al buon senso, frutto di lombrosismo razzista e figlio dell’arroganza di chi crede di essere più colto, intelligente e, quindi, al di sopra di tutti e guarda con sdegnato disprezzo gli altri. Nella fattispecie, noi, poveri, terroni! Ciò non significa che io chiuda gli occhi davanti all’evidenza dei fatti e finga di non vedere sprechi, ruberie ed incapacità che si sono verificati nel Sud e neanche voglio scatenare una guerra fra vittime del terremoto. Non accetto, però, che su questo qualcuno speculi, per tirare acqua al proprio mulino, che come ampiamente dimostrato al Nord come al Sud - ha più buchi di un pezzo di gruviera, ma anche tante parti sane e pulite che meritano il rispetto di tutti. Anche di Vittorio I° e II°, al secolo Feltri e Sgarbi. Ovviamente, in ordine alfabetico. Così nessuno si offende. Non è da meno il Governo che con un decreto, pomposamente denominato «Bonus Sud», definisce agevolazioni - in pratica uno sgavio fiscale del 50 per cento dei costi salariali, per i datori di lavori - alle aziende per le assunzioni a tempo indeterminate effettuate dal 14 maggio 2011 e fino al 13 maggio 2013, al di qua della riva meridionale del Garigliano. Non si può non ritenere la cosa «buona e giusta». Teoricamente sì, in realtà, tutt’altro! Non manca, infatti, più di qualche inghippo. A cominciare dall’ammontare complessivo della dotazione finanziaria messa a disposizione dell’operazione, 142milioni, che consentirà di agevolare non più di 6.672 assunzioni. Ovviamente, l’assunzione in questione deve incrementare il numeri dei dipendenti mediamente occupati a tempo indeterminato nei dodici mesi precedenti la data di assunzione. Nel caso d’imprese aventi unità produttive localizzate anche fuori dal Mezzogiorno, l’incremento va verificato non soltanto rispetto al numero dei lavoratori occupati nella sede dove il
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neo assunto sarà chiamato ad operare, ma rispetto al numero delle unità produttive occupate a tempo indeterminato su tutto il territorio nazionale ed al netto delle diminuzioni, eventualmente, avvenute, oltre che nell’azienda madre, anche nelle società collegate, partecipate e facenti capo allo stesso soggetto. Non basta assumere a tempo indeterminato al Sud per meritarsi il credito d’imposta. Bisogna aver mantenuto l’intangibilità degli organici aziendali di tutte le unità produttive esistenti sul territorio nazionale. Sul piano generale non fa una piega ed è anche giusto, ma, allora lo si chiami «bonus occupazione» e basta. Anche per i tecnici, insomma, i ritardi del Sud, servono soltanto a coprire il lombrosismo strabico dei cosiddetti «poteri forti». Sicché ancora una volta, il Mezzogiorno rischia di non riuscire a trarre alcun vantaggio da un provvedimento che sul piano teorico, dovrebbe essere stato scritto per aiutarlo a crescere. Come mai nessuno se ne è accorto? La verità, è che se ne sono resi conto tutti, ma - come troppe volte, in anni vicini e lontani - hanno preferito tacere. Si sa mai, i «tecnici» di palazzo Chigi, potrebbero arrabbiarsi. Silenzio che, invece, non c’è stato in relazione al decreto per la «compensazione» dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica Amministrazione, dal quale il governo, cercando (tentativo di risparmiare o volontà punitiva?) di applicare a questo caso una norma concepita in altri contesti e con altre finalità, pretendeva di escludere le imprese meridionali, sottoposte a piano di rientro dal debito sanitario. Dopo il danno della sanità malata e fallimentare, anche la beffa dell’economia punita. Nessun tecnico, però, ha mai spiegato quale sia il nesso tra le imprese e gli sprechi della pubblica Amministrazione, per cui le prime e, naturalmente, i loro lavoratori e la Campania, dovessero essere chiamati a pagare per le mani bucate della seconda. Ma stavolta il Sud ed i suoi rappresentanti, parlamentari e consiglieri regionali, ma anche imprenditori e sindacati, hanno trovato il coraggio far sentire la propria voce, costringendo i tecnici a far retromarcia ed allargare questa opportunità anche al Mezzogiorno. Proprio in considerazione del perpetuarsi negli anni di questi atteggiamenti e delle conseguenze, tutte negative, per il Sud che ne sono derivate, ed alla luce del fatto che l’unica volta che il Sud ha messo in vetrina coesione e forza di reazione, palazzo Chigi ha dovuto far dietrofront, che l’assenza del Mezzogiorno dalle «considerazioni finali» del numero di Palazzo Koch, mi hanno deluso e lasciato perplesso. Per carità, nessuno - tantomeno il sottoscritto - intende attribuire alcuna responsabilità per i ritardi di sviluppo meridionali, al silenzio in questa occasione del Governatore di Bankitalia e di quanti lo hanno preceduto nell’incarico. Anzi, qualcuno di loro, a proposito dell’Italia del tacco, non è rimasto silente, attirandosi addosso, le polemiche e le invettive degli antimeridionalisti in servizio permanente effettivo. Forse è stato proprio questo il motivo che ha spinto Visco a glissare. Comprensibile, ma inaccettabile. Anche perché - e questo è innegabile - se la situazione del Sud è quella che è e continua a peggiorare, lo si deve principalmente al mutismo interessato dei suoi rappresentanti, di fronte ai soprusi ed agli affronti che gli sono stati portati nel corso degli anni. È ora di farla finita! Il Mezzogiorno è stanco di continuare ad interpretare la parte della vittima sacrificale, all’altare dello sviluppo altrui. Sono un meridionale, credo nell’Italia, ma in un’Italia che, a sua volta, creda nel Mezzogiorno e non mi faccia leggere sui giornali titoli d’apertura come, quello apparso recentemente su Il Mattino di Napoli: «Piano crescita, incentivi anche al Sud». Laddove i diritti dell’Italia del tacco, vengono fatti passare come concessioni «a buon rendere». I meridionali non vogliono regalie, ma pari opportunità.
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L’ITALIA E LA CULTURA NEL MONDO
MA QUANTO ci costa? di DANIELA ALBANESE LA LETTERATURA sulla casta è abbondante e variegata, c’è l’imbarazzo della scelta tra inchieste giornalistiche, rassegne incalzanti, blog che ripropongono continuamente il tema dei tagli e degli sprechi: Parlamento e Quirinale? e le Provincie? e gli evasori in Svizzera? e i doppi incarichi? e il tetto ai dirigenti? e i finanziamenti ai partiti? Eppure basta mettere un po’ il naso fuori dall’Italia per aggiungere a questa lunga lista quegli ambienti ideali di incontro e di dialogo per intellettuali, artisti ed operatori culturali, ma anche per i semplici cittadini, sia italiani che stranieri: per chi ha sempre viaggiato non è difficile scovare questi luoghi vetrina dell’Italia nel mondo. Novanta non sono pochi, dislocati nelle principali città dei cinque continenti, gli IIC - Istituti Italiani di Cultura rappresentano il centro propulsore della lingua e cultura italiana nel mondo e punto di riferimento per i nostri connazionali all’estero. Il panorama culturale italiano all’estero è inoltre arricchito dalla fitta rete scolastica composta da 183 scuole italiane e 111 sezioni italiane presso scuole straniere per un totale di 294 istituzioni. Complessivamente sono utilizzate 504 unità a carico del bilancio del Ministero degli Affari Esteri. Delle 294 scuole, la maggior parte si concentra, come gli IIC, in Europa (152), seguono le Americhe (96), il Mediterraneo e Medio Oriente (30), l’Africa Subsahariana (14), l’Asia e Oceania (2). La Farnesina spende una barca di soldi ogni anno per la nostra cultura. Il personale delle scuole pubbliche di lingua all’estero vale 62 milioni di euro. Ad essi spettano anche un milione di euro per i trasferimenti all’estero e 1,5 milioni per la sistemazione. Altri 2 milioni vanno per la fornitura di materiale didattico alle scuole non governative, mentre 1,2 milioni vanno a istituti e università straniere che intendano promuovere l’insegnamento dell’italiano. Le norme che le gestiscono sono vecchie di quarant’anni, quando il supporto scolastico era destinato agli immigrati sperduti nel mondo e bisognosi di radici culturali. Oggi invece le scuole italiane hanno perso quella funzione di aggregazione e otto alunni su dieci sono stranieri. Per gli IIC un valore di circa 17 mln di euro per l’anno 2010 è stato già ridimensionato arrivando a 12-13 mln di euro circa nel 2011 con una media di circa 135.000 euro per singolo istituto. Sotto un certo punto di vista è uno scandalo che si trovino tanti soldi per un Istituto di Cultura, come ad esempio quello di Pretoria, di cui lo stesso console ne raccomanda la chiusura, mentre non si trova una lira per sostenere l’insegnamento della lingua italiana da parte della «Dante Alighieri» che produce infinitamente più risultati e mantiene viva la cultura della patria d’origine fra gli italiani delle nuove generazioni. La recente e contrastata soppressione delle sedi di Grenoble, Innsbruck e Lille ed il declassamento di altre dieci sarà certo una soluzione drastica e dagli effetti immediati ma, non contribuirà a colpire la radice di una gestione dalla mano trop-
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po larga, né tanto meno a togliere la possibilità di far conoscere qualcosa in più di noi, che non siano luoghi comuni su pizza e spaghetti, che da sempre ci accompagnano. Chi vive all’estero sa perfettamente che il più delle volte si tratta di carrozzoni statali che hanno costi molto ingenti, spesso trasformati in parcheggi di amici degli amici, ricettacolo di una blasonata parentopoli culturale, dove il cosiddetto direttore di chiara fama, che solitamente è un bravo intellettuale italiano, non è sempre in grado di gestire un istituto di cultura, perché la chiara fama a volte contrasta con la gestione di un ente, di un istituto complesso, con una capacità promozionale e organizzativa. La nomina per via politica dei direttori è si alla luce del sole poiché legalizzata grazie alla legge 401 del 1990 (art. 14 comma 6) che permette al potente di turno di collocare ben dieci personalità nelle dieci più prestigiose capitali del pianeta ma, ad un modico prezzo di circa 10-15.000 euro al mese. Parliamo di circa centoventimila euro l’anno e non vi è sempre una così forte risonanza che lasci un qualunque timido segno di eccellenza italiana nel panorama culturale del Paese ospitante. Difensori di piccole fortezze, spesso avulse da un contesto multimediale come quello di oggi, direttori e impiegati accumulano nelle loro biblioteche riviste che, per non dire inutili, si possono considerare poco rilevanti per promuovere la cultura e l’immagine del Sistema Italia all’estero, mentre le pubblicazioni più interessanti che rappresentano più da vicino la realtà italiana restano in Italia. Al contempo, agenzie consolari che offrono assistenza a decine di migliaia di connazionali vivono nella perenne precarietà a rischio di chiusura per mancanza di fondi. Una poco chiara ed equa distribuzione delle risorse che farebbe pensare all’idea di un consolato che possa condividere i suoi spazi sfarzosi con quelli di un Istituto di Cultura e vedere lavorare il personale in esubero presso gli sportelli consolari semi deserti che non riescono ad offrire la giusta assistenza al pubblico. Un’immagine utopica questa per cui sarebbe da ridefinire radicalmente l’attuale impostazione: snellire soprattutto la burocrazia, rimettere mano alla normativa, probabilmente ripensare anche alla strutturazione attuale interna degli istituti. Non è possibile trovare ancora degli istituti totalmente inefficienti e degli istituti che lavorano egregiamente con finanziamenti esorbitanti senza accrescere la competitività della nostra offerta culturale. L’assoluta necessità di ridurre spese e sprechi è da tutti condivisa, ma è pur vero che non è possibile rinunciare alla cultura, depauperare il Paese di quelle ricchezze di storia e produzione artistica che sono la nostra carta d’identità sulla scena internazionale ed asset principali per la competitività di città e territori La recessione culturale rappresenta un danno troppo grave che il Paese non si può permettere e i cui effetti negativi si farebbero sentire per molti anni ben al di là della crisi economica. «Un risultato importante e un punto di partenza per le strategie future», così il Ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha commentato le nuove Linee di Azione per gli Istituti Italiani di Cultura approvate alla Farnesina nel marzo scorso. «La cultura», ha detto Terzi, «è la proiezione più significativa dell’identità italiana nel mondo e risorsa strategica per l’ economia nazionale». Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Europa, riferendosi alla formazione dell’Europa comunitaria, ebbe a dire: «Se dovessi ricominciare, ricomincerei dalla cultura», un principio seppur giusto difficile da concretizzare.
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IL CASO VATTANI ED IL «MAE»
INQUISIZIONE politica di NAZZARENO MOLLICONE QUELLO che sta avvenendo in questi mesi al Ministero degli Esteri, sotto la guida dell’Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata (cui il giornalista Giancarlo Perna ha fatto un ritratto impietoso e sarcastico sul Giornale del 21 maggio scorso), è veramente sconcertante anche in considerazione della tradizionale discrezione con cui la diplomazia ha sempre affrontato i suoi problemi interni, ammesso che siano tali, e sta suscitando l’attenzione curiosa e sorpresa dell’opinione pubblica. Riepiloghiamo i fatti. Al Ministero degli Esteri opera come Console Generale ad Osaka, in Giappone, il dott. Mario Vattani che non è un nobile marchese come il suo ministro ma è più semplicemente il discendente di una famiglia di diplomatici, e suo padre era quell’Umberto Vattani rimasto per decenni al Ministero con cariche importanti, fino a quella di segretario generale. Mario ha raggiunto il grado di Ministro Plenipotenziario, grado che non si consegue con estrema facilità e che ha dimostrato di saper esercitare molto bene essendo fra l’altro ottimo conoscitore del giapponese e con buone conoscenze in quel Paese. Ma egli ha un difetto, finora non emerso: è dichiaratamente di destra. Forse in tanti lo sapevano, forse egli stesso lo dichiarava, ma il casus belli è scoppiato quando egli ha cantato in un concerto organizzato da «Casa Pound» e questo è bastato a l’Unità per accusarlo di essere un «fascista»: terminologia buona per tutti gli usi, tant’è che la nostra memoria (e quello dell’archivio storico del Borghese) ricorda come quell’epiteto fu attribuito niente di meno che al Papa Pio XII senza contare una sfilza di politici italiani e stranieri sgraditi al potente PCI di cui l’Unità di oggi è un pallido epigono. Dinanzi a questa denuncia politica, il coraggioso ed inflessibile Ministro Terzi ha richiamato subito in Patria da Osaka il Vattani, il quale però ovviamente ha fatto ricorso impugnando il provvedimento innanzi al TAR del Lazio. Il Tribunale amministrativo, analizzando la cosa dal punto di vista giuridico, non trovandovi i requisiti di necessità ed urgenza, ha sospeso il provvedimento (che spesso non si applica neanche nei confronti dei pubblici funzionari accusati di peculato o concussione od altri reati penali). Il Ministero ha fatto ricorso al Consiglio di Stato e qui viene il bello, anzi il ridicolo se non fosse per le conseguenze. Nel ricorso, gli avvocati (di Stato!) del Ministero hanno affermato che il provvedimento di sospensione nei confronti di Vattani era motivato anche sulla base dei precedenti, in quanto il suddetto da giovane era stato iscritto alla massoneria, pensate voi? A qualche ‘ndrangheta calabrese? A qualche sètta segreta, magari satanista? Al Pci, che fino a prova contraria era un partito legato ad un Paese straniero da cui riceveva anche denaro? No, il povero Vattani era iscritto al «Fronte della Gioventù»!
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Ora, ammesso e non concesso che essere iscritti ad un’associazione studentesca giovanile collegata ad un partito politico presente in Parlamento che eleggeva i suoi rappresentanti nei consigli d’istituto e di facoltà fosse un fatto incidente sulla vita professionale di un funzionario pubblico, se ne sono accorti soltanto adesso, quando era già stato nominato Ministro Plenipotenziario superando chissà quante prove interne e valutazioni del suo curriculum anche personale? Ma questo sarebbe niente. Forse, lo sconosciuto (da noi) avvocato dello Stato non sa che quella organizzazione giovanile così sospetta era presieduta da un personaggio il quale è stato anche Ministro degli Esteri, ed ora è Presidente della Camera. Che fanno ora alla Farnesina, buttano dalle finestre il suo ritratto da ministro e si rifiutano d’incontrarlo nella sua veste istituzionale attuale? E non sanno neanche che un altro segretario nazionale è ora Sindaco di Roma e quindi potrebbe incontrare il Ministro in qualche incontro istituzionale. Che fanno i funzionari del MAE, si rifiutano d’incontrarlo? E lo stesso dicasi per il presidente della Regione Calabria, anch’egli segretario nazionale del «Fronte della Gioventù», Giuseppe Scopelliti? Pensiamo che questi esempi, che stanno dilagando sulla «rete» ed anche su qualche quotidiano, non facciano altro che gettare il ridicolo su un Ministero finora ritenuto uno dei migliori per quanto riguarda il proprio comportamento esterno. Ma d’altra parte, se si aspettano tre mesi per richiamare in Patria un Ambasciatore dopo il sequestro illegittimo di due nostri militari in missione internazionale di sicurezza, cosa volete aspettarvi… Piuttosto, la cosa grave è l’atteggiamento inquisitorio che una certa sinistra, parlamentare e non, continua a manifestare nei confronti di simpatizzanti della destra politica. Dinanzi allo sfascio dell’economia nazionale e del lavoro, dinanzi al prevalere delle banche, dinanzi al dominio di quel capitalismo finanziario contro cui già Marx (oggi totalmente dimenticato a Via del Nazareno e dintorni) polemizzava due secoli fa mentre Brecht affermava che il vero reato non è rapinare una banca ma fondarla, ci si rifugia in una piccola e squallida inquisizione nei confronti di una persona rispettabile sotto tutti i profili. Ma forse l’Unità non voleva neanche questo, gli bastava scrivere un articolo polemico. È stata tutta la struttura del Ministero, a cominciare dal suo più alto esponente, a praticare una discriminazione politica che reitera comportamenti di decenni fa. Comunque, ora Mario Vattani deve riprendere il suo posto, anche se il Consiglio di Stato ha dato (temporaneamente) ragione al Ministero.
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I FATTI DI RIGNANO
STRABISMO giudiziario di ROMANO FRANCO TAGLIATI CI SONO voluti sei anni. Sei anni di torture, ma alla fine il processo si è concluso con la piena assoluzione di tutti gli accusati. Non per mancanza di prove o per qualche sospetto vizio di forma, ma con l’assoluzione di tutti gli accusati perché innocenti, anzi proprio perché il fatto è risultato assolutamente inesistente. La vicenda era salita all’onore delle cronache quando, con la denuncia di alcuni genitori, si era affacciato il dubbio che certi bambini di 4/5 anni, avessero subìto abusi sessuali da parte di due insegnanti e di una bidella di una scuola materna di Rignano Flaminio, un paese di diecimila abitanti in provincia di Roma. Il fatto mi aveva fortemente indignato. No, non soltanto per il dubbio atroce che i bambini avessero o no subito quegli abusi, la qual cosa, soltanto in caso affermativo, avrebbe rappresentato un fatto di per sé gravissimo. Per quanto anch’io fossi convinto della necessità che si scoprisse al più presto la verità, devo tuttavia ammettere che, superato il primo momento, più del sospetto in sé, per quanto grave, mi aveva irritato l’atteggiamento di quei genitori. Fosse accaduto a me – avessi avuto io, il sospetto che una cosa simile fosse capitata ai miei figli - di sicuro anch’io avrei varcato i cancelli di quella scuola come una furia. La verità è importante e il pericolo che simili atti - se realmente appurati - si possano ripetere, lo è ancor di più. Perciò non è nemmeno escluso che, non ricevendo risposte convincenti, nell’incertezza, anch’io mi sarei rivolto al giudice. Fin qui la logica di un qualunque padre di famiglia, che dovrebbe essere anche la stessa alla quale s’ispira la scuola, l’etica, la morale e la stessa dignità di un Paese. E, fin qui, anche ciò che i genitori di Rignano, fino a quel momento, avevano fatto, e che mi trovava assolutamente d’accordo. Le due insegnanti e la bidella, accusate di violenza sessuale nei confronti di quei bambini, per quanto si fossero difese negando fermamente qualsiasi addebito, erano state subito inquisite, giudicate per direttissima, e finite in galera. Qualcosa non quadrasse in quella storia. Le tre donne, tutte sposate e madri a loro volta, vivevano da sempre nello stesso paese e stavano in quella scuola ininterrottamente da decenni senza che mai, in tutti quegli anni, ci fosse stato il minimo sentore di violenze o di abusi di sorta. E allora? Come era stato possibile formulare un’accusa così infamante? Da ciò che avevo letto, avevo saputo che una delle madri aveva rivelato ad alcune amiche - i cui figli frequentavano la stessa scuola - di aver notato da qualche tempo come suo figlio di quattro anni ostentasse atteggiamenti insoliti, facendo strani giochi e mostrando particolare interesse per i suoi attributi sessuali. Di qui la convinzione, da nulla provata, che la ragione si dovesse
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ricercare nella scuola: «Con chi giocate? Che giochi fate? Cosa dicono, cosa fanno le maestre?» Passaparola. Non trascorse una settimana e altri genitori (una ventina) su evidente suggerimento della denunziante, si riunirono in gruppo, anche loro affermando di aver rilevato nei loro figli strani atteggiamenti e convinte, dopo aver interrogato gli stessi bambini, che le ragioni non potessero che essere riconducibili agli «strani giochi» che le maestre da qualche tempo organizzavano in quella scuola. Già dopo i primi accertamenti le accuse si erano però rivelate insussistenti e tutti gli insegnanti erano stati scarcerati. Difficile, a quel punto - trattandosi di bambini di quattro/cinque anni - trovare il bandolo della matassa. La verità è un gatto che fugge e che forse nemmeno quei bambini sarebbero mai più riusciti a catturare. Se, nonostante tutto, un dubbio a me fosse rimasto, non potendo venire a capo di nulla, non avrei potuto far altro che togliere i miei figli da quella scuola. I genitori di Rignano no. Si riunirono questa volta in comitato. Assunsero avvocati di grido, organizzarono dibattiti, rilasciarono interviste a giornali e televisioni, trasformando un dubbio in un sospetto, poi in un’ipotesi, e infine, in un caso nazionale. Da un giorno all’altro, oltre che un Paese di malfattori, di mafiosi, di evasori, ci scoprimmo essere un Paese di pedofili. «Cosa importa? Importante è scoprire la verità!» Prima il Paese, poi tutta la nazione, si divise in innocentisti e colpevolisti. Fu in quel momento che incominciai a capire che ciò che costoro stavano cercando non era affatto la giustizia. Cos’è che non andava? Non andava quella voglia sfrenata di vincere ad ogni costo. Quell’odore di vendetta e di denaro. Non andava, soprattutto, che quei bambini venissero ogni volta coinvolti, interrogati, manovrati, citati, smentiti... Entrarono in scena psicologi, psichiatri, investigatori che, rincorrendo i «si dice», entravano con disinvoltura inimmaginabile nelle case degli insegnanti (innocenti fino a prova contraria) ai quali (chissà perché) al momento dell’arresto era stato sospeso lo stipendio, con il rischio di mandare in fumo le loro famiglie, alla ricerca di prove, di oggetti, di immagini che collimassero con le frasi, con i racconti forse estorti , ma certamente contorti dei loro figli. Poteva bastare? No, perché ora, più che di ricercare la verità con il minor danno per i bambini, si trattava di vincere: A la guerre comme à la guerre! E, intanto che le maestre e il marito di una di esse perdevano la loro onorabilità, e dopo che durante il periodo di carcerazione erano state insultate e persino percosse da altre detenute, i genitori di Rignano che fecero? Accettarono di sottoporre i bambini - gli stessi che dichiaravano di voler difendere - a un test «attitudinale» per verificare se fossero in grado di testimoniare e, a quel punto, l’interrogatorio partì. «Certo che è vero!» Questo nostro Paese, avvezzo oramai a ogni genere di nefandezze, vide anche questo: i pargoli di Rignano alla sbarra! Per quanto gravi si potessero immaginare i presunti abusi denunciati, un bimbo di quell’età, con il conforto di una buona famiglia e una parola giusta della mamma, dopo un mese di sicuro se ne sarebbe dimenticato.Ognuno diventa adulto nella propria epoca, e la nostra - chi lo può
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negare? - è una inaudita stagione di sesso e di inqualificabili volgarità: per convincersene basta andare una volta allo stadio, al cinema, in un bar, camminare semplicemente per la strada o capitare casualmente davanti alla TV dopo l’orario «protetto». (Non è raro che molti bambini abbiano ormai l’apparecchio nella loro stanzetta). Come si può oggi affermare con assoluta certezza che il comportamento un po’ strano di un bambino sia stato indotto da questo, piuttosto che da quell’avvenimento? Nella vita di tutti i giorni le cose si mescolano e si sovrappongono. I bambini velocemente apprendono e - se nessuno ci mette il becco - velocemente dimenticano. Chi, come il sottoscritto, ha avuto l’avventura di vivere quell’età durante gli ultimi anni della guerra, ha visto, udito, e spesso vissuto, cose inenarrabili. Basterebbe, a questo proposito, rileggere Malaparte. Eppure, eccoci qua! Quelle immagini, una volta metabolizzate e collocate nel ripostiglio della memoria, sono semplicemente diventate parte del nostro patrimonio di conoscenza. Così facendo, i genitori di Rignano le hanno invece mantenute vive. Le hanno anzi rinvigorite ogni volta che sono tornati sull’argomento, stimolando la fervida fantasia dei loro figli, che, a quell’età, è più vivace di quanto essi non possano immaginare. Ogni volta che quei bambini si apprestavano a ripetere le loro storie davanti a un giudice o a uno psicologo, io provavo un profondo senso di sgomento e di rabbia. Davvero quei genitori così zelanti amavano i loro figli più della verità e della giustizia? Per tentare di stabilire la verità tra due donne che si contendevano la maternità dello stesso bambino, Salomone propose di tagliare il bambino a metà. Solo quella delle due che si oppose era certamente la vera madre. Ieri, dopo sei anni di dibattimenti processuali, di marchette televisive, di sermoni di azzeccagarbugli, di ingiurie, di dolore, tutti gli insegnanti sono stati finalmente assolti per non aver commesso il fatto. E adesso, chi chiederà scusa alle maestre e al marito di uno di esse, esposti al pubblico ludibrio per sei lunghi anni? Non ho fatto in tempo a respirare profondamente, quando ho sentito alla televisione le urla di quei genitori che ora, di fronte all’assoluzione inattesa (e ai loro figli che nel frattempo hanno compiuto dieci anni) hanno inscenato l’ulteriore azione di protesta e... deciso, seduta stante, di ricominciare tutto da capo ricorrendo in appello. Se fosse vissuto ai tempi nostri, temo che il prudente Re Salomone - passato alla storia per la sua saggezza - si sarebbe ben guardato dal lanciare la famosa salomonica provocazione.
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LA SANITÀ IN PROVINCIA
PICCOLO è bello di ALESSANDRO P. BENINI «…VOGLIAMO intervenire con equilibrio. Il nostro sistema sanitario pubblico è un bene che ci viene invidiato e molti Paesi ci prendono a modello…» Così si è espresso il Ministro della Salute Renato Balduzzi in una intervista al Corriere della Sera: parole ispirate ad un ottimismo più vicino al tempo dei passati governi, quando l’orizzonte appariva dipinto di rosa, che alle odierne, plumbee tonalità. Mentre si cerca di identificare un prezzo medio, al quale fare riferimento, per quanto riguarda prestazioni sanitarie e acquisti di farmaci, una spesa uguale per tutte le Regioni, il Commissario alla «spending review» Enrico Bondi, avrebbe già quantificato il taglio dei servizi sociosanitari in un miliardo e duecentomila euro. Già in almeno tre altri Paesi dell’eurozona la scure dei tagli sulle prestazioni mediche e farmaceutiche è calata rovinosamente, decimando la moltitudine degli assistiti: in Portogallo, dove la nuova povertà presente in larghe fasce della popolazione, ha contribuito a far abbassare la quota dell’aspettative di vita, la sanità privata ha, al contrario, visto salire il giro d’affari. Qui da noi, invece, ad aumentare la preoccupazione dei cittadini si è aggiunta la corsa alla soppressione dei piccoli ospedali di provincia: una operazione inutile e pericolosa, che priva le popolazioni di grandi aree d’Italia di quel riferimento sicuro, rappresentato dal locale nosocomio. Eppure l’esigenze della sicurezza sanitaria, forse, dopo il lavoro, la principale necessità della gente, non sembra condizionare l’operato dei cacciatori di teste, o meglio, di pazienti. Per una efficace lotta agli sprechi si deve agire sui costi: non è possibile, a proposito di spesa per i farmaci, che un medicinale sia pagato da una ASL, duecento euro in più, di quanto erogato, per il medesimo farmaco, dall’altra ASL, distante appena dieci chilometri. L’elenco, poi dei costi «differenziati» è lungo ed è sufficiente fare un paio di esempi: uno stent coronarico è fornito mediamente ad un prezzo di 150 euro, contro un massimo di 669 euro pagati da altri centri ospedalieri, per non parlare di una protesi dell’anca, uguale modello, che può pesare in bilancio da un minimo di 284, fino alla bella cifra di 2.575 euro. Soltanto adesso prende corpo l’authority per i contratti pubblici, in applicazione della legge 111/2011 voluta dal precedente governo, per l’elaborazione dei prezzi di riferimento. Dal 2000 al 2009 sono stati tagliati ben 45.000 posti letto e questa politica non sembra essere stata abbandonata, visto che si tende a chiudere gli ospedali di dimensioni ridotte, cioè tutti quei centri di cura ed assistenza su cui poggia il sistema sanitario delle nostre provincie. In particolare i tagli effettuati a pioggia hanno colpito quelle regioni meridionali già sprovviste di nosocomi adeguati e di istituti per la riabilitazione. È vero che proprio in alcune di queste regioni sono sopravvissuti, per decenni, ospedali in cui il numero dei posti letto era molto inferiore al numero
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di primari, medici ed ausiliari, con costi certamente proibitivi, ma è altrettanto vero che nosocomi con posti letto intorno alle centoventi unità, rappresentano la dimensione giusta per garantire le necessarie cure. I grandi, quasi spaventosi, policlinici operanti nelle metropoli, con la loro concentrazione di malattie e di pazienti, con i reparti d’eccellenza accanto a reparti obsoleti e gremiti da folle pressanti di malati, non sono umanamente e scientificamente idonei a fornire soccorso ed assistenza alla stragrande maggioranza della popolazione. Le Regioni, nel tentativo di ripianare i bilanci, non trovano di meglio che mettere fine alle attività dei piccoli ospedale. In Abruzzo, Molise e Lazio l’opera demolitrice ha trovato, però, degli ostacoli nei Tribunali Amministrativi, che, in alcuni casi, con le loro sentenze hanno permesso di lasciare in vita i piccoli nosocomi, come quello di Bracciano, un ospedale che raccoglie i pazienti di un vasto territorio che dal litorale tirrenico risale fino ai monti del viterbese. Purtroppo agli abitanti di Ronciglione non è andata altrettanto bene; un piccolo ospedale che garantiva una assistenza di buon livello è stato sostituito da un modesto «pronto soccorso», dove gli utenti, secondo la complessità del caso, vengono frequentemente smistati nel più organizzato ospedale «Belcolle» di Viterbo, comunque a circa 45 minuti di automobile. È proprio questo uno dei motivi dominanti le discussioni pro e contro la presenza dei nosocomi di provincia, se i famigerati quarantacinque minuti di distanza dal primo centro ospedaliero, l’ormai nota «golden hour», siano effettivamente un margine di sicurezza. I casi di emergenza, i cosiddetti codici rossi, non possono affrontare un percorso stradale dove qualsiasi ritardo determinato dalla viabilità può causare la perdita di vite umane, ed è questo il principio ispiratore del Tribunale Amministrativo molisano, che ha sospeso i lavori di ridimensionamento in case di lunga degenza degli ospedali di Larino, Venafro ed Agnone, regalando un bel sospiro di sollievo agli abitanti della zona. In tempi in cui le certezze del lavoro, la conservazione del risparmio, la crescente disoccupazione sommano timore ed incertezza in tutti i ceti sociali, sarebbe doveroso garantire al nostro Paese almeno la tradizionale rete d’assistenza sanitaria: un ospedale piccolo, di ottanta o centoventi posti letto, ha la funzione di deterrente contro i costi ingiustificati, il numero stesso dei degenti e del personale rende facile un monitoraggio utile per le tasche del contribuente e per la salute dei pazienti. Non si spiega, se non per meri interessi di cassa e di controllo più politico che amministrativo, la spinta regionale a dismettere questi centri. Che, se ben diretti ed organizzati, sono un presidio per la salute, in luoghi dove policlinici universitari e grandi centri ospedalieri sono lontani per chilometri e per umana sensibilità.
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TRASFORMAZIONE DELLE UNIVERSITÀ
CAOS scatenato di HERVÉ A. CAVALLERA LE GIORNATE della politica spaventano. La Grecia, l’Italia, la Francia, la Germania… ovunque si vota si riscontra il malessere, l’astio non soltanto verso i vecchi potenti, ma verso il sistema nella sua interezza. Si diffonde l’antipolitica e si rinforzano le posizioni estreme. Qualcuno prevede il ritorno del terrorismo. Vi sono in effetti ragioni profonde di stanchezza e di irritazione. Obama, che per raccogliere denaro e consensi, è disposto a concedere qualunque cosa a chicchessia. La politica spettacolo e i politici sempre più distanti dalla gente. C’è chi guadagna sempre di più (o continua a guadagnare sempre più) e chi paga le tasse. Ci sono quelli che si suicidano e la moltitudine che si impoverisce. Sì, si spera nel ritorno a giorni sereni, ma quando? Il pessimismo si diffonde e aumenta la violenza, anche quella privata. Sono i giorni del disordine. L’attenzione al business ha fatto crollare prima la cultura, poi i Paesi stessi. Il trionfo dell’economico sull’etica ha rivelato il volto demoniaco di chi non ha un’anima. Gli ospedali sono da tempo aziende e le prestazioni devono essere rapide ed efficienti. Cresce la malasanità. L’Università sta diventando azienda. I poteri si concentrano in poche mani, formazione vuol dire addestramento. La Confindustria vuole tecnici. E la televisione ci dice che mancano infermieri specializzati, camerieri specializzati, contadini specializzati. C’è il recupero di tutti i vecchi mestieri, ma con specializzazione e con conseguente patente europea per l’informatica e padronanza della lingua inglese, che alcuni propongono come lingua unica nei corsi universitari. Anzi, i docenti universitari devono scrivere in lingua straniera! L’italiano è svalutato come lo è il concetto di nazione. Poi, paradossalmente, un tribunale riconosce come lingua, da utilizzarsi in un processo, il dialetto sardo. Intanto alcuni giornalisti fanno i giudici e alcuni magistrati fanno i politici. Non è il mondo alla rovescia, che aveva ancora un suo senso: è un mondo senza senso, ossia che si sta svuotando di ordine. Ciò che soltanto si percepisce è l’impoverimento del ceto medio-alto. Quello che era il ceto medio-basso è già da tempo povero e i veri poveri continuano ad essere quelli di sempre: poveri e basta. Quando, tanti mesi fa, si è cominciato ad insistere sul dire che la trasformazione dell’Università in azienda sarebbe stato il primo passo di un processo più ampio, si coglieva nel segno. Il discorso è divenuto essenzialmente economico. Sarebbe fin troppo facile ricordare come un’unità europea non si possa costruire semplicemente su accordi economici, sperando poi che a questi segua una coesione sociale, come sarebbe falso sottacere come l’introduzione dell’euro abbia dimezzato gli stipendi pubblici e scatenato un aumento del costo della vita, introducendo ovunque un perverso gioco. Ora, non si sa che fare e i governi dei tecnici non hanno saputo far altro che tagliare,
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lasciando intoccati i privilegi di una classe politica che non è stata all’altezza della situazione e delle lobbies finanziarie che hanno provocato di fatto questa crisi. Certo, lo storico ha il dovere di distinguere e di chiarire. Non tutti sono responsabili e le responsabilità poi variano. La demagogia non risolve problemi, ne crea altri e soprattutto crea malcontento. Distruggere non vuol dire progettare e non si può fare a meno, Platone lo sapeva molto bene, dei reggitori. Gli sbandamenti di piazza sono comprensibili, umani se si vuole, ma pericolosi, oltre che inutili. E bisogna imparare a ragionare più che ad arrabbiarsi senza costrutto. Non a caso personalità ben assennate propongono una nuova costituente per il passaggio alla terza repubblica. Il problema del solidarismo si fa più pressante rispetto a quello dell’edonismo e dell’individualismo. Una fase della storia è in pieno declino e gli uomini di buon senso devono comprendere che, per uscire non distrutti da una guerra senza confini e senza nemici ufficiali, occorre ricostituire il senso delle cose, cominciare a poter vivere insieme. E ritorna il problema dei giovani, del lavoro ai giovani. Ma se i giovani che si affacciano al mondo del lavoro sono esortati a prendere in considerazione mestieri manuali o umili, mestieri che più nessuno vuol fare, in barba all’istruzione che è stata loro impartita, e alle ambizioni che una carriera di studi comporta: ma allora perché specializzarsi fra lauree, master, ecc., per poi sentirsi dire da esperti (?) commentatori sui media che diventare panettieri o giardinieri è bello? Oppure, al contrario, sono spronati ad approfondire la propria formazione (per usare un termine più in voga, le loro competenze) all’infinito, moltiplicando lauree, master, corsi di specializzazione, meglio se all’estero, tirocini, concorsi, stages ecc., in una corsa all’accumulo titoli che ha come risultato più tangibile il decadimento del valore dei titoli di studio stessi e la dilazione del posto di lavoro auspicato, che si allontana quando lo si sta per raggiungere, come la dannazione di Tantalo. Se questa dilazione è utile a qualcuno, a chi organizza corsi e concorsi, stages e tirocini, ovvero aziende e accademie ad esse legate a doppio filo, certo non giova all’occupazione giovanile, che pure, a parole, è al primo posto nelle preoccupazioni dei governi europei. Non sarebbe ora che lo fosse realmente?
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APPRENDISTATO E FORMAZIONE
«MENTRE la cicala canta ...» di ALESSANDRO CESAREO E DOPO le copiose, fervide lacrime ministeriali, perché qualcuno non pensa davvero ad offrire qualche, reale opportunità di lavoro, almeno estivo, per i nostri ragazzi? Basterebbe, infatti, anche creare delle concrete occasioni per una vacanza intelligente, ma intelligente davvero. Si sono infatti notati, in questi ultimi tempi, diversi interventi in favore del problema, ma il silenzio del Ministro del lavoro è, in questo come in altri, importanti ambiti, assordante. Ed imbarazzante. Assai. Soprattutto da parte di un governo che sostiene di aver rimesso a posto i conti pubblici; bontà loro! Dunque, abbiamo come governanti dei veri santi, esseri miracolosi, che in pochi mesi risanano debiti colossali contratti nell’arco di decenni... ma non ce ne siamo ancora accorti... siamo davvero distratti! C’è quasi da credere che stiano dicendo il vero, no? Io, infatti, credo a quanto loro sostengono. Quasi ciecamente. O meglio, vorrei credere. Vorrei poter almeno credere che, in realtà, le cose stessero davvero così. Ma non so se posso farlo e, comunque, non credo di essere abbastanza intelligente per farlo. Tempo fa, però, ho avuto modo di leggere un articolo un po’ meno teorico ed un po’ meno fuorviante di tanti altri in materia di lavoro e, soprattutto, di lavoro giovanile. Sul Resto del Carlino del 26 aprile, infatti, leggo che il Deputato pdl Claudio Di Lorenzo si è fatto promotore di un ordine del giorno volto a facilitare, o meglio a rendere possibile, il lavoro estivo dei giovani studenti di età ancora inferiore ai diciotto anni. È l’onorevole stesso, infatti, ad inviare uno stimolo al Ministro affinché agisca in tal senso, ed è un’iniziativa che merita attenzione. Le norme attualmente in vigore in merito ai programmi di apprendistato, infatti, non consentono ciò, e il danno, educativo ed economico che, quasi automaticamente, ne deriva è di non poco conto. Sarebbe dunque auspicabile che il problema venisse adeguatamente esaminato nelle sedi opportune ed al momento giusto, onde aprire almeno una finestrella per il futuro. È di questo che si ha davvero un gran bisogno. Ed è facile intuire il perché. Un solo esempio in merito può risultare utile. Finite le scuole, ovvero dal 9 giugno in poi, salvo in presenza di esami, per molti ragazzi inizia la fase del ciondolamento-bamboleggiamento che, a prescindere dal meritato valore che rivestono le vacanze, non si rivela utile a nessuno, soprattutto se totalmente privo di contenuti. Un’esperienza lavorativa, invece, anche se di breve durata e non totalizzante durante il trimestre estivo, risulterebbe indubbiamente efficace. Avremmo così ragazzi che non si annoiano, che sanno come impiegare il (troppo) tempo libero e che imparano già precocemente a non essere di peso alle famiglie. È sbagliato affermare questo? Stu-
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pisce che dei politici così illuminati come i «nostri» non l’abbiano ancora capito, o neppure pensato, forse. Basterebbe dare un’occhiata a certe leggi degli anni ‘20 e ‘30 per vedere quale attenzione quale dignità venissero riservate al lavoro ed alle politiche giovanili. Ma di quel tempo, pena il totale ostracismo, pare sia proibito parlare, se non per dire male. È questo che vuole, che esige la nomenklatura di stampo sovietico in vigore in Italia. Attualmente, siamo il Paese più comunista del mondo, ma senza saperlo, ed è questa la cosa più grave, per cui ci illudiamo che le cose possano andare meglio, un giorno o l’altro. Ma non è così. È il frutto di questa desolante illusione, infatti, che ha regalato alla sinistra, in quest’ultima tornata elettorale, delle vittorie del tutto immeritate. Le stesse sono infatti da attribuirsi non alla bravura dei comunisti, ma all’insipienza ed all’inettitudine di chi non ha saputo sconfessarli e, così facendo, contrastarli, almeno in un ambito prettamente elettorale. E che Dio ci aiuti (Lui si che può farlo) in vista delle politiche del 2013. I cittadini di L’Aquila, ad esempio, hanno deciso di riconfermare alla guida della città il sindaco uscente, forse senza accorgersi delle condizioni nelle quali si trova, effettivamente, L’Aquila. Certo, i locali nei quali i giovani possono bere fino a notte fonda non mancano, nel bel mezzo di un centro storico squarciato dal terremoto. Ed il resto? Dunque, Ministro Fornero, ci promette che farà qualcosa per impegnare i ragazzi con un proficuo apprendistato già nell’estate che sta arrivando, o dobbiamo attendere le prossime elezioni? Già, Lei è un tecnico... e quindi a Lei i voti non stanno a cuore: possiamo capirla in questa sua condizione di privilegio, ma a noi sta a cuore l’oggi e il domani immediato di quel che resta della nostra Italia, ed è per questo che vorremmo qualcosa di buono per impiegare bene il tempo delle vacanze. Se proprio non se la sente di prometterci qualcosa, almeno ci dia ascolto. Sempre se può, ovvio. Nelle nostre città ci sono biblioteche che hanno bisogno di manutenzione e di cura: tra le loro vetuste pareti, decine e decine di volumi attendono di essere inventariati e catalogati, così come ci sarebbe bisogno di coadiuvarne il personale, sempre più oberato dagli inutili e dannosi orpelli burocratici, mediante l’ingresso di giovani leve. Dunque, le chiedo, anzi le chiediamo, e siamo in molti a farlo: sarebbe così sbagliato se i nostri liceali, finite le lezioni, anziché andare bighellonando sotto i portici o nei vari locali, impegnassero un po’ del loro tempo libero in attività formative del tipo: «adotta un libro», oppure: «scopri la tua biblioteca», ma anche: «entra in un fondo antico», dove incontrare i
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classici, scoprire le regole della codicologia e, perché no? imparare ad amare libri e lettura? Tutto questo potrebbe essere fatto a costo zero,. Oppure con dei compensi simbolici di un paio di centinaia di euro per un periodo di due settimane: tutto questo servirebbe a coinvolgere i ragazzi in qualcosa di bello e a trasmettere loro l’amore per la cultura. Oppure no? Certo, per chi è già ultramilionario del suo...e non aggiungiamo altro! Cosa sono duecento euro in confronto ai venticinquemila euro che guadagna ogni mese (e non sono gli unici...) un senatore a vita? Un’altra forma di apprendistato proficuo, soprattutto in termini educativi e formativi, consisterebbe nel fare compagnia ad anziani soli ed abbandonati, vittime delle rapaci badanti di turno, innamorate dei loro libretti di risparmio e delle loro (almeno in certi casi) copiose pensioni: non sarebbe bello se un giovane dedicasse una piccola parte dell’esteso tempo a disposizione a fare compagnia ad un vecchietto solo ed abbandonato da figli e nipoti, troppo presi dal lavoro prima e dalle vacanze poi? Si potrebbe prevedere, anche in questo caso, un compenso simbolico per il ragazzo, il quale resterebbe indubbiamente edificato dall’esperienza, Signor Ministro: così, forse, si potrebbe pensare ad un domani leggermente migliore dell’attuale, e non impegnandosi per far licenziare i padri di famiglia, augurandoci che il buon Dio dia loro la forza di non compiere gesti inconsulti. Mi pare ci sia materia da riflettere con ampiezza: tutto sta a volerlo fare, e la responsabilità non è mai, in questi casi, di una sola persona, ma è importante che qualcuno, almeno qualcuno, inizi. E lo faccia al più presto. Ecco perché l’iniziativa promossa da Claudio Di Lorenzo sembra voler davvero inaugurare una stagione nuova dell’apprendistato e della formazione. Tutto sta che il Governo non spenga sul nascere quest’incipiente entusiasmo, ed i motivi per sperare bene pare non debbano mancare. Staremo a vedere quel che accadrà.
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«NIMBY» A ROMA
L’ISOLA di Malagrotta di MINO MINI UN ANNO fa, commentando la sindrome di NIMBY (Not In My Back Yard) che colpì Napoli allorché si trattò di individuare le aree indispensabili per le discariche o per la realizzazione degli inceneritori, delineammo le dimensioni del problema. Riproponiamo una valutazione dimensionale per Roma nel momento in cui esplode, anche per lei, l’annunciata sindrome di NIMBY ed i medici che dovrebbero prevenirla o curarla si rimpallano fra loro la decisione circa la individuazione dell’area o delle aree dove realizzare la discarica che dovrebbe sostituire la ormai ipersatura Malagrotta. In questo ridicolo balletto di competenze Alemanno, Zingaretti e Polverini non sembrano avere chiara la posta in gioco né sembra avvertano il montante disgusto dei loro amministrati per l’insipienza dei governanti. Qual è l’entità del problema? Siamo in presenza di un’entità demografica produttrice di rifiuti di 4.225.244 abitanti censiti nel 2011 nell’area metropolitana di Roma. Nella realtà la popolazione effettiva è molto superiore a quella censita, ma non potendo disporre di dati certi ci riferiamo a quelli ufficiali. Facciamo un po’ di conti. A 536,55 kg di produzione annua di rifiuti pro capite totalizziamo 2.267.054,67 tonnellate di rifiuti in un anno. Per aiutare chi ci legge a visualizzare questa enorme quantità, trasformiamola in volume: sono 2.667.122,73 mc., ovvero, ipotizzando di esprimerlo come un edificio, avremmo un muro pieno profondo 12 metri e mezzo, alto 37 metri come la «stecca» più alta di Corviale, ma lungo 3,79 volte la stessa e cioè 5 chilometri e 762 metri. Per chi conosce Roma: da ponte Milvio al Circo Massimo compreso. Adesso la domanda da 100 milioni di euro: come smaltiamo questa mostruosità? La risposta ce la saremmo aspettata da un sindaco laureato in ingegneria ambientale che, oltretutto, era stato ministro alle Politiche agricole e forestali e, in un più lontano passato, uno dei fondatori di Fare verde. Tanto più che in campagna elettorale aveva promesso che avrebbe risolto l’emergenza rifiuti e avrebbe chiuso la discarica più grande d’Europa: Malagrotta. Non soltanto. Aveva anche promesso che avrebbe dato valore industriale all’azienda pubblica AMA. Sennonché il 17 novembre 2010, tra la goduria dell’opposizione che soffiava sul fuoco guardandosi bene dal proporre soluzioni alternative, il sindaco confessava di non poter rispettare l’impegno per la chiusura della discarica entro la fine del mandato e nel dicembre dello stesso anno passava la patata bollente alla «governatrix» del Lazio. Al momento in cui scriviamo, dopo che era stata scongiurata la destinazione di Corcolle-San Vittorino, il NIMBY si è scatenato a Pian dell’Olmo mentre le 6.211 tonnellate giornaliere prodotte nell’area metropolitana di Roma, vanno a riversarsi a Malagrotta.
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La vicenda, come è logico, è commentata da tutti i principali quotidiani nazionali ed ancora una volta, dai giornaloni del nord, viene riproposto il sistema virtuoso di smaltimento rifiuti di Brescia a base di raccolta differenziata, discariche di trattamento e termovalorizzatori. A parte l’ovvia considerazione che l’area «metropolitana» di Brescia comprende 500 mila abitanti a fronte degli oltre 4 milioni dell’area metropolitana di Roma e quindi risulta più facilmente gestibile, sono note le contestazioni che vengono mosse circa l’impiego del termovalorizzatore: possibili emissioni di gas tossici quali diossine, furani o ossidi di divinilene e SVOCs (Composti Organici Volatili Semilavorati), produzione di scorie e ceneri di fondo contenenti materiali incombusti e metalli pesanti nonché le temute ceneri volati (nanopolveri) contenenti metalli pesanti in forma di aereosol (cadmio, mercurio, piombo etc.). Data la scrupolosità della società Aprica che gestisce lo smaltimento rifiuti di Brescia, i rischi sono senz’altro ridotti ma non si possono escludere del tutto. E basta un semplice dubbio che - come dice Ettore Ruberti ricercatore ENEA e docente universitario presso l’Università Ambrosiana - «…l’opera devastante dei cosiddetti “profeti di sventura”, ossia di variopinti personaggi (ambientalisti, opinionisti, comici, attori etc) che, lungi dall’affrontare tecnicamente le problematiche, diffondono una sottocultura del rifiuto a prescindere da qualsiasi tecnologia …» fa scatenare la sindrome di NIMBY. Se le cose stanno così non risolveremo mai il problema dei rifiuti? Mai dire mai. Chi scrive non ama l’atteggiamento totalitario della tecnica lasciata senza controllo; la sindrome dell’apprendista stregone nel settore dei tecnici è diffusa quanto quella del NIMBY. Tuttavia, inserita in una visione organica e dalla stessa guidata, la tecnica può portarci alla soluzione di molti problemi. Anche quelli dello smaltimento rifiuti, come vedremo. Occorre, però, vi sia una presa di coscienza da parte dei produttori di rifiuti, quali tutti noi siamo, e a questo fine si faccia lo sforzo di apprendere un minimo di conoscenza dei termini scientifici che stanno alla base dell’innovazione che ha caratterizzato la tecnica di smaltimento dei rifiuti. Diversamente finiremo vittime di quei «profeti di sventura» di cui si è detto precipitando nella sindrome di NIMBY. Non è per polemica che è stato criticato il caso virtuoso di Brescia, ma per introdurre il problema dello smaltimento mediante inceneritore o termovalorizzatore che dir si voglia. Spieghiamo: nei processi di termodistruzione dei rifiuti la temperatura di processo nei forni tradizionali, come appunto il termovalorizzatore, è di circa 1.500K (si legge 1.500 Kelvin) che tradotto in gradi Celsius, quelli con cui misuriamo la febbre o la temperatura di cottura del forno a microonde, corrisponde a 1.226,85°C ovvero 1.226,85 gradi. A questa temperatura i rifiuti, specie quelli pericolosi, non vengono completamente distrutti e si hanno tutti quei residui gassosi e solidi di cui si è detto e tutti i pericolosi effetti conseguenti alla loro dispersione. Non a caso tali residui devono essere smaltiti in discariche rigorosamente controllate per diversi anni. Esiste, oggi, la disponibilità di una tecnica innovativa messa a punto, a suo tempo, dai laboratori della NASA: la torcia al plasma. Cosa sia il plasma non è facile esprimerlo in parole povere. È un gas ionizzato, ma non ha nulla a che fare con il terzo dei tre stati della materia (solido, liquido, aerifor-
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me). Essendo costituito da elettroni e ioni, «ionizzato» indica che una frazione significativamente grande di elettroni è stata strappata dagli atomi. Si trovano sotto forma di plasma il sole, le stelle, le nebulose. Affascinante vero? Ma ai nostri fini non serve andare oltre nell’esposizione se non per far intendere che stiamo parlando di uno stato della materia - definito addirittura quarto stato - che mediante un opportuno dispositivo, la torcia al plasma appunto, è in grado di raggiungere altissime temperature. Da 7.000 a 13.000°C, a seconda del tipo di torcia utilizzato. Senza raggiungere livelli così spinti, l’applicazione della torcia al plasma sui rifiuti permette di generare una «zona» di reazione ove la temperature è compresa tra i 3.000 e i 4.000°C. Ed è in quella «zona» che il problema dello smaltimento dei rifiuti si risolve. Infatti i rifiuti inorganici vengono fusi e trasformati in una roccia di tipo vulcanico chiamata Plasmarok. Una specie di lava totalmente inerte e non tossica nella cui matrice vetrosa sono inglobati e totalmente inertizzati i metalli pesanti. I rifiuti organici contenuti nei RSU (Rifiuti Solidi Urbani) si decompongono molecolarmente, cambiano natura e si trasformano in gas di sintesi (syingas), essenzialmente composti di idrogeno (˜53 per cento) e da monossido di carbonio e metano, utilizzati per produrre energia elettrica. Non si hanno le emissioni di gas tossici che si riscontrano nei termovalorizzatori, non si hanno scorie, né residui carboniosi (char),né idrocarburi pesanti (tar). Non si hanno ceneri di alcun tipo né le tanto temute nanopolveri. D’altronde l’utilizzo delle torce al plasma è un sistema già ampiamente utilizzato per il trattamento di rifiuti industriali tossici, delle ceneri prodotte dagli inceneritori, dei terreni contaminati, dei rottami metallici ferrosi e in lega. In Francia vi sono due impianti funzionanti e uno in Norvegia. Altri sono sparsi in America, Giappone, Regno Unito. E in Italia? Non domandate dove si possa visitare un impianto di torcia al plasma. Semplicemente: non c’è. Però ci sono già gli oppositori che strillano «No alla torcia al plasma» e motivano tale presa di posizione con dubbi e diffidenze basate su ipotesi prive di alcuna conoscenza del fenomeno. Eppure abbiamo in Italia un motore di ricerca per la tecnologia del plasma: è il CNR, precisamente il suo Istituto di fisica del Plasma di Milano che da oltre tredici anni si occupa delle applicazioni del plasma nell’industria, nella metallurgia e nello smaltimento dei rifiuti. C’è qualche università che svolge qualche timida ricerca su questi impianti analizzando qualche modello teorico, ma nessuna concreta realizzazione. Ebbene: chi più di un ingegnere ambientale con oltre 4 milioni di produttori di rifiuti e con velleità di dare valore industriale all’azienda pubblica di smaltimento rifiuti, avrebbe dovuto impegnare una branca della stessa nella ricerca e nella realizzazione sperimentale di un impianto con tecnologia al plasma? Ragioniamo: un impianto di medie dimensioni non può trattare più di 100mila tonnellate l’anno di RSU; questo significa che può servire 186mila abitanti circa. Esistono due municipi romani che si avvicinano a questa dimensione: il X° con 184.197 abitanti su 38,680 kmq e il XIX° con 184.911 abitanti ma con la disponibilità di 131,283 kmq. Ipotizziamo di prendere in considerazione il XIX° Municipio dove installare sperimentalmente l’impianto con tecnologia al plasma. Avremmo bisogno di una discarica dove effettuare il pretrattamento che dovrà accogliere 273,97 tonnellate al giorno. Se separiamo il materiale organico per produrre il compost che costituisce dal 30 al 40 per
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cento del RSU, ridurremo quest’ultimo a 178 tonn. circa ovvero a 209,50 mc.. Stratificandolo con uno spessore di 70 cm, avremmo che la discarica avrebbe una dimensione minima di 300 mq senza odori di sorta. Situazione facilmente smaltibile in un giorno e troppo bella per essere vera. Se invece il RSU fosse, come si dice, «tal quale» allora - sempre nell’ipotesi dello smaltimento giornaliero necessiteremmo di 461 mq di discarica. Potremmo divertirci a lungo a calcolare le superfici necessarie alla discarica, al trituratore (il RSU va triturato, separato magneticamente e compattato ), all’impianto di termocombustione con tecnologia al plasma, ma non è questa la nostra intenzione. Vogliamo mostrare come un’accorta politica di ricerca e sperimentazione avrebbe permesso di poter valutare, in termini di costi, di fattibilità, di servizio, di sicurezza della salute pubblica, la validità di un sistema articolato in diversi impianti con tecnologia al plasma di medie dimensioni oppure l’opportunità di realizzare un megaimpianto magari a tecnica mista: torcia al plasma e Thor a forno elettrico ad arco. Il primo per vetrificare i residui del secondo più adatto allo smaltimento del RSU «tal quale». Già disponiamo di alcune valutazioni che sono, però, da verificare sperimentalmente. Secondo Ettore Ruberti, più sopra citato, «l’efficienza delle torce al plasma rende tale tecnologia più economica dei termovalorizzatori di ultima generazione, consentendo una riduzione dei costi di costruzione e di gestione anche del quaranta per cento». Ma c’è di più. I conti sommari ed un po’ limitati con i quali ci siamo divertiti, fatte le debite tare all’ottimismo espresso dalle cifre, mostra una prospettiva interessante: risolvere il problema dei rifiuti per entità urbane dimensionalmente equilibrate senza ricorrere alle megadiscariche. La tecnologia al plasma, priva di quegli inconvenienti che pregiudicano l’accettazione dei termovalorizzatori, consentirebbe la collocazione degli impianti all’interno dei quartieri urbani per i quali potrebbero essere, oltre che smaltitori di rifiuti, fonti di energia basata sull’idrogeno. Non ci dilunghiamo sulle implicazioni di natura urbanistica che la prospettiva accennata lascia intuire. Le rinviamo ad un’altra dissertazione. «In cauda venenum» potremmo deliziarci con questa considerazione poco «politicamente corretta» perché realistica: se al posto dei nostri attuali governanti ci fosse - con i suoi poteri - Mohammed bin Rashid Al Maktoum, lo Sheik emiro del Dubai, avremmo risolto il problema: costruiremmo una fantastica laguna artificiale sui bassi fondali del mare laziale e su un’isola, anch’essa artificiale, al suo interno adibita a discarica piazzeremmo il relativo impianto con tecnologia al plasma dall’architettura fantastica.
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IL BORGHESE
PER SCONGIURARE QUELLA PUBBLICA
«SPENDING review» familiare di RUGGIERO CAPONE «PER TAGLIARE la spesa pubblica in Italia come altrove non si può usare l’accetta: e la spending review affidata dal governo Monti al manager Enrico Bondi è l’unico modo, bisogna capire dove e come tagliare», ha ribadito Pier Carlo Padoan (vice segretario generale dell’Ocse) intervistato dall’Ansa. «Siamo preoccupati per l’approvazione in Consiglio dei Ministri del Dpcm sulla revisione della spesa, perché contraddice i contenuti dell’intesa raggiunta tra Governo, sindacati ed enti locali», affermano in Rossana Dettori, Giovanni Faverin, Giovanni Torluccio e Benedetto Attili, segretari generali rispettivamente di Fp-Cgil, FpCisl, Uil-Fpl e Uil-Pa, intanto chiedono che il Ministro Patroni Griffi «convochi immediatamente le parti firmatarie per verificare la sussistenza di quell’accordo e se ne faccia garante». Intanto s’apprende che la riduzione della pianta organica del personale del pubblico impiego non toccherebbe tutte le amministrazioni: la percentuale del 5 per cento
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costituirebbe soltanto un’indicazione di media. Per quanto riguarda i dirigenti, l’esonero dal servizio riguarderebbe coloro che hanno 40 anni di contributi e che manterrebbero l’80 per cento dello stipendio (non del trattamento economico complessivo) fino al raggiungimento dei requisiti per la pensione. Su tutte queste misure è ancora tutto da decidere. Ci sarà un decreto legge o un ddl, o entrambi? Per ora l’unica spending review prossima al varo è quella familiare. Secondo indiscrezioni, è molto più concretamente all’orizzonte di quella pubblica. La revisione della spesa pubblica (spending review vera e propria) incontrerebbe enormi resistenze da parte di tutta la politica, a destra come a sinistra ed a centro. Per scongiurare il baratro, Monti ci dice che necessita stringere la cinghia, fare dei tagli. Ancora una volta il taglio delle spese viene chiesto al cittadino, e per salvare sia l’economia europea che quella italiana. Secondo queste indiscrezioni, il piano prevedrebbe la possibilità di limitare sia l’entità dei prelievi presso gli sportelli automatici delle banche (bancomat) che i prelevamenti in contante presso le casse ordinarie, nonché l’applicazione di controlli alle frontiere e l’introduzione di controlli su chi accantona capitali in contante e nelle abitazioni private della «zona euro». A dare manforte a Monti per una simile linea di «polizia valutaria» ci sarebbe il portavoce della Commissione europea, che ha affermato: «L’articolo 65 del Trattato di Shengen prevede la possibilità per gli Stati membri di ristabilire alcune forme di restrizione alla libera circolazione dei capitali per motivi di ordine pubblico, per questioni di sicurezza e di natura economica». Indiscrezioni parlano d’un limite massimo di 100 euro giornalieri, sia dai bancomat che dalle casse ordinarie, con l’introduzione di sanzioni per chi fermato con scorte di contante superiori ai 1.000 euro. In parole povere si commetterebbe un reato valutario accantonando in casa somme di danaro, anche lecitamente guadagnate. Le uniche istituzioni deputate all’accantonamento del risparmio sarebbero le banche, e chiunque lo faccia per proprio conto opererebbe in danno della stabilità economico-finanziaria dell’Italia e dell’UE. Di quest’argomento hanno discusso i funzionari dell’Unione europea, e cioè della possibilità di limitare per legge l’entità dei prelievi agli sportelli automatici delle banche, nonché di spingere gli Stati membri a varare leggi che impediscano di fatto la creazione di risparmi privati eludendo l’accantonamento presso istituti di credito. Per scongiurare la libera circolazione di capitali non censiti superiori ai 1.000 euro, verrebbero applicati controlli alle frontiere, ed in nome «delle leggi che introducono controlli sui capitali nella zona dell’euro». Ovviamente i controlli si sarebbero fatti più pressanti e certi nel caso avesse vinto la linea della Grecia fuori dalla moneta unica: secondo i commissari UE, la popolazione greca avrebbe tesaurizzato privatamente enormi quantità di moneta contante. Al punto che, secondo gli esperti, la divisa europea starebbe nelle case dei greci ma non nelle banche greche. Al momento nessuna decisione è stata ancora presa ma, secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, Monti farebbe svolgere all’Italia il ruolo di capofila in una serie di «piani d’emergenza» per far fronte allo scenario d’una crisi ancor più devastante. Il governo italiano farebbe così preparare la popolazione all’eventualità che comunque Atene possa abbandonare l’euro: è noto che verreb(Continua a pagina 41)
FOTOGRAFIE del BORGHESE
AAA ITALIA SVENDESI - SIAMO AL BOCCONE DEL PRETE? (Nella fotografia, Mario Monti)
CAMBIO DI ROTTA DEL «PD» - IL «TESTIMONIAL» È NUOVO . . . (Nella fotografia, Roberto Saviano)
. . . MA LA «BARCA» È VECCHIA (Nella fotografia, Fabrizio Barca)
L’«API» DI RUTELLI NON VOLA PIÙ . . . (Nella fotografia, Francesco Rutelli)
. . . MENTRE MONTEZEMOLO RISCHIA DI FINIRE SOTTO UN TRENO (Nella fotografia, Luca Cordero di Montezemolo)
«ESODATI D’ITALIA» - IL MINISTRO «SFIDUCIATO» (Nella fotografia, Elsa Fornero)
«PREVIDENTI D’ITALIA» - PRENOTATA LA PANCHINA AI GIARDINETTI (Nella fotografia, Antonio Mastrapasqua, Presidente dell’«INPS»)
SCHERZI DA PRETI - OBBEDIENZA E SILENZIO OLTRE LA MORTE (Nella fotografia, Paul Casimir Marcinkus)
SCHERZI DA LAICI - UN BEL TACER NON FU MAI SCRITTO (Nella fotografia, Ettore Gotti Tedeschi)
L’EURO È FINITO AL CESSO (Nella fotografia, dal sito www.rischiocalcolato.it)
SE NE SONO ACCORTI ANCHE A FRANCOFORTE (Nella fotografia, Mario Draghi)
ITALIA IN FIAMME - ASSALTO AL PARLAMENTO (Nella fotografia, gli scontri del 14 giugno davanti alla Camera , dal sito www.ilsecoloxix.it)
È GIUNTA L’ORA DI FARE PULIZIA
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IL MEGLIO DEL BORGHESE
Per un’Italia che non li meritava di LIBERO ITALIANO QUANDO gli hanno chiesto «perché è stato ucciso Giovanni Falcone?», il Capo della Polizia, una delle poche persone serie in circolazione in questo Paese, ha risposto con queste parole: «Per fermare l’uomo che poteva guidare la Superprocura. Per vendicarsi dei successi che aveva ottenuto contro la Piovra. Per intimidire il Paese». Tradotta in parole povere, questa risposta ha un significato preciso: Giovanni Falcone è stato ucciso perché, da magistrato, stava attuando la strategia del Governo Andreotti contro la criminalità organizzata. Dunque, non è vero che questo Governo è complice dei criminali, come dice la Sinistra, ma è vero il contrario: esso combatte questa piaga della nostra società nazionale, nella sola maniera possibile. Tanto è vero che, nel giro di poco tempo, i criminali hanno prima tentato di intimidire il Presidente del Consiglio, uccidendo in Sicilia Salvo Lima, capo della corrente andreottiana; poi sono passati ad assassinare direttamente l’uomo che, se non fosse morto, di lì a pochi giorni sarebbe divenuto il capo della Superprocura. Ma la mafia, il crimine organizzato, i trafficanti di droga, non sono i soli nemici da battere. Forse più difficile è riuscire a sormontare le opposizioni parlamentari. Lo ha sottolineato Giulio Andreotti a Montecitorio il 25 maggio scorso, rispondendo alle interrogazioni sull’assassinio di Falcone: «Non posso non ricordare che alla conversione in legge del decreto -legge sulla cosiddetta Superprocura, disegnata proprio a partire dalle esperienze palermitane di Falcone e dei suoi colleghi del “pool antimafia”, si pervenne con difficoltà tant’è che il Governo fu costretto a ricorrere al voto di fiducia... Purtroppo, quando siamo sotto l’emozione dei crimini della mafia, unanime è la spinta per mezzi più energici di lotta, senza uscire mai, ovviamente, dalla legalità. Ma dinanzi alle proposte concrete non sempre si mantiene lo stesso rigore e la necessaria coerente fermezza. Non posso dimenticare infatti che l’accoglienza a dir poco perplessa che l’Associazione Nazionale Magistrati riservò al progetto della cosiddetta Superprocura, creò momenti di grande ed ingiustificata tensione istituzionale, e si acuì proprio quando Giovanni Falcone presentò domanda per l’incarico di Procuratore Nazionale Antimafia... «...Nella dolorosa gravità dell’ora che attraversiamo, è significativa la lettura che Giovanni Falcone, in una conversazione con il corrispondente palermitano dell’ANSA, aveva dato di alcuni dei più recenti episodi della violenza mafiosa. Il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata lo portava a valutare nella giusta luce la complessa strumentazione normativa e funzionale alla cui realizzazione egli aveva attivamente contribuito, ma anche a prevedere che il rafforzamento dell’azione di contrasto messa in essere da parte dello Stato non avrebbe mancato di produrre la feroce reazione di un potere mafioso che si sente marcato sempre più strettamente. Anche se non era certo uomo da cedere alla paura, non poteva sfuggire a Giovanni Falcone il filo che legava misure radicali, quali quelle che avevano impedito
prima la scarcerazione dei boss per la scadenza dei termini e che, quando ciò era accaduto. li avevano riportati in carcere nel giro di ventiquattro ore, con la ripresa della ”attenzione” della mafia verso bersagli particolarmente significativi. In questo quadro, lo stesso assassinio dell’onorevole Lima appariva a Giovanni Falcone, sono sue parole, un delitto “logico”, dopo il quale erano da attendersi ulteriori reazioni da parte di un’organizzazione che (e cito) “se non vuole perdere potere e prestigio, deve dimostrare di essere ancora la più forte”». In confronto a queste parole, così scarne e precise, di Giulio Andreotti e del Capo della Polizia, Parisi, appare ancora più incredibile la serie di buffonate che si sono registrate dopo la strage di Palermo. Nella foga dell’informazionespettacolo, si è parlato all’inizio addirittura di mille chili di tritolo, e si è andati avanti, sui giornali, alla radio e alla tivù, ripetendo per quarantotto ore questa balla: evidentemente, nelle redazioni non c’è persona capace di rendersi conto di quel che significhi trasportare e nascondere in un cunicolo sotto l’autostrada una tonnellata di esplosivo. Poi si è detto che Falcone era stato ucciso perché da Roma una «talpa» annidata nelle strutture dello Stato aveva segnalato il suo arrivo a Palermo: e anche qui è intervenuto il prefetto Parisi dicendo: «Non credo alla tesi della “talpa”. L’aereo era protetto. Del resto, c’era una certa abitudinarietà negli spostamenti del giudice Falcone: il fine settimana veniva sempre a Palermo, il problema era se tornasse il venerdì o il sabato. Chi ha fatto l’attentato sapevano quali erano le scorte e bastava controllare quando si muovevano. In realtà è stato più facile di quanto si immagini». Ma la ricerca del sensazionale non era finita, e così è nata anche la leggenda dell’esplosivo azionato a distanza, da bordo di un aereo da turismo, «un misterioso Piper sui cieli di Capaci al momento dell’esplosione», scriveva l’Unità. Anche questa, una favola smentita. Per non parlare delle farneticazioni di Leoluca Orlando, il quale ha continuato a ripetere che «l’assassinio di Falcone, della moglie e degli uomini della scorta ha tutti i tratti carat-
GIOVANNI FALCONE
IL MEGLIO DEL BORGHESE teristici di un delitto di regime; qualcosa che ci riporta indietro fino a Piazza Fontana o addirittura alla strage di Portella delle Ginestre, al passato e al presente di una strategia della tensione mai finita». Ha detto giustamente il Ministro della Giustizia, Martelli, che di Falcone era amico ed estimatore: «Orlando è troppo interno al sistema di potere siciliano, e da troppe generazioni, per non sapere anche far finta di fare il pazzo o l’estremista pur di portare avanti un’opera di depistaggio e di intossicazione. La mafia, per lui, prima era Lima, Gunnella e Ciancimino. Ora è diventata Craxi, Andreotti, Vassalli! Assurdo: chi dice queste cose, o è in preda a un delirio, o ha un preciso obiettivo». Per completare l’opera, la decisione di affidare le indagini alla Procura di Caltanissetta, che è praticamente inesistente, ridotta ad un Procuratore in via di trasferimento e due sostituti alle prime armi. Decisione presa perché la moglie di Falcone, magistrato anche lei, era assegnata al Tribunale di Palermo. Domenico Sica ha commentato, giustamente: «Mi sembra che sia stata applicata la solita regola medievale. I giudici di Palermo sarebbero stati guidati da un sentimento di vendetta e di sdegno? E allora? Magari sarebbe servito...». Non sono mancati, nel quadro generale di queste buffonate, i «concerti rock» per protestare contro la mafia e gli scioperi studenteschi, culminati nella giornata di sabato, tanto per imbastire un bel «ponte» festivo. Il colmo del ridicolo si è raggiunto però a Palermo, dove gli studenti hanno deciso di andare a fare il bagno alla spiaggia elegante, quella di Mondello, ma indossando tutti «una maglietta rossa, per un lavaggio purificatore contro i troppi “delitti di mafia e di Stato”». E l’Unità del 28 maggio, contemporaneamente all’annuncio dell’incriminazione di Gianni Cervetti, «ministro ombra» di Occhetto per lo scandalo di Tangentopoli, annunciava con un titolo a sette colonne: «E il mare si porterà via il sangue versato». Poveri coniugi Falcone, poveri agenti Di Cillo, Montinaro e Schifano: hanno dato la vita anche per questa gente. (il Borghese, 7 Giugno 1992)
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Comandare e fottere di SPARTACO IL PREMIO di latta «Verità e Simpatia» va diviso ex aequo fra il Presidente del Consiglio, i Ministri delle Finanze e del Bilancio, il Sottosegretario alla Presidenza. Amato ha detto che la sua manovra economica ci ha «salvati dal baratro» e si è vantato di avere evitato le «piccole cattiverie» delle altre volte. Reviglio, senza modestia, ha assicurato che si tratta della «migliore tra le manovre possibili». Goria ha sproloquiato: «Sappiano i cittadini che questa volta sono chiamati a far fronte allo sforzo decisivo. L’obiettivo è ridurre l’inflazione al due per cento: se ci riusciremo, non romperemo più le scatole ai contribuenti». Ha concluso per tutti il Sottosegretario alla Presidenza, Fabbri: «Mi compiaccio di constatare che le misure adottate dal Governo incominciano ad essere apprezzate dagli Italiani». Tutto questo, nelle prime ore seguite all’annuncio della manovra economica, fra martedì 14 e mercoledì 15. Poi, arrivati a venerdì 17 luglio, già si sapeva che: 1) la manovra non bastava e si stavano studiando nuove tasse per tirar fuori dalle tasche dei contribuenti da un minimo di 30mila miliardi (valutazione Goria) ad un massimo di 60mila miliardi (valutazione Isco); 2) il comportamento «virtuoso» del Governo nel rinunciare all’addizionale sull’IRPEF era soltanto l’ennesimo inganno, perché con la legge delega sulla finanza locale Amato & C. avevano semplicemente trasferito ai Comuni questa forma di tassazione; 3) i danni provocati dalla Banca d’Italia per difendere la quotazione della lira portando
ATTENTATO DI CAPACI
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IL MEGLIO DEL BORGHESE
GIULIANO AMATO
Presidente del Consiglio è stato nominato da un Presidente della Repubblica che ai suoi bei dì, nel 1945, dopo aver chiesto e ottenuto in tribunale, come magistrato, una condanna a morte, pretendeva anche di essere perdonato dal condannato? E compariva la sera in cella a torturare il disgraziato col racconto dei suoi patemi d’animo, per poter poi andare a dormire rasserenato, lasciando il prigioniero in cella a rodersi l’anima in attesa del plotone d’esecuzione? Torniamo a ripeterlo: non è solamente questione di cifre, di paragoni, di stangate periodiche; è l’incredibile faccia di bronzo di chi governa, quel che più irrita. Il simulare e dissimulare (maldestramente, il più delle volte) è pratica quotidiana. Così, appare intollerabile il tono con cui i vari Amato (già Ministro del Tesoro), Goria (già Presidente del Consiglio e più volte Ministro), Reviglio (Ministro più volte e noto quand’era Presidente dell’ENI per una manovra di scambio lire contro dollari su una piazza finanziaria tedesca, che fece rizzare i capelli al Governatore della Banca d’Italia), predicano agli Italiani il «necessario rigore» per uscire dalla crisi economica, per evitare «il baratro che si è spalancato dinanzi a noi». Chi piovesse in Italia da un altro pianeta crederebbe di ascoltare le giuste rampogne e la conseguente terapia a base di amare medicine che saggi e troppo pazienti maestri e medici impongono ad un’indisciplinata accozzaglia di lazzaroni, colpevoli di avere dissipato i patrimoni comuni e ammalati di incoercibile, sciagurata megalomania. E invece è vero il contrario: i lazzaroni sono loro, che hanno dissipato i frutti del lavoro e del risparmio di tutti noi. E adesso, perché l’inganno sia completo, nel momento stesso in cui parlano di «privatizzazioni», questi tipi in realtà statizzano il risparmio: chi ha una casa è colpito dalla patrimoniale, chi ha i soldi in banca o alle poste deve lasciarsi taglieggiare il capitale, chi vuole investire i risparmi in titoli finanziari non può far altro che comprare quelli dello Stato. E i protagonisti di tanta bella manovra vorrebbero pure che gli Italiani gli battessero le mani e li acclamassero come salvatori. Dice un vecchio e famoso proverbio siciliano che «comandare è meglio che fottere». Evidentemente, quando si riesce a comandare e contemporaneamente a fottere la gente, il gusto è doppio. (il Borghese, 26 luglio 1992)
alle stelle il costo del denaro non erano serviti a nulla, perché la lira era nuovamente «sotto schiaffo» sui mercati internazionali. È «sesquipedale», avrebbe scritto il nostro vecchio amico Enrico Mattei, la supponenza di certi governanti e dei politicanti (inapplicabile la definizione di «politici» per certi carrieristi del «Palazzo») nel credere che il popolo italiano sia composto in prevalenza di cerebrolesi, incapaci di capire, imbesuiti dal vociare della tivù, ridotti come povere bestiole che leccano la mano di chi li bastona. Eppure così è, tanto che il Presidente del Consiglio si consente di richiamare all’ordine gli scontenti della mazzata fiscale dichiarando impavido e impudico dagli schermi della RAI: «In fondo chiediamo alla maggior parte degli italiani di contribuire con 150 mila lira migliaio di lire in più migliaio in meno, ossia il prezzo che pagano per una cena con due amici». Il prezzo l’onorevole Amato l’ha forse preso all’«Augustea», la «povera mensa» sotto la sede romana di via del Corso, dove i socialisti consumano i loro «ranci di magro»? Non sa, l’onorevole Presidente, che la maggioranza della gente certe «cenette da 150200mila lire» non se le sogna neppure, perché con quella somma paga i libri e le tasse scolastiche del figlio o, nei casi fortunati, la pigione di un modesto appartamento in una casa-dormitorio della periferia? Più che la patrimoniale del due per mille sulla casa, più che il prelievo forzoso del sei per mille sui depositi bancari e postali, più che tutte le odiose misure di una manovra che bada a «mungere» e rinvia ancora una volta il «tagliare», quel che offende è la sensazione d’essere presi in giro. Non soltanto costoro «mazzo-lano» il cittadino, ma pretendono anche d’essere considerati bravi e, quasi quasi, ringraziati. Un fatto inevitabile, del resto, visto che questa è la mentalità di chi oggi comanSCALFARO SALE AL QUIRINALE DOPO L’ELEZIONE da. O non è vero forse che il A PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
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del Governo. Che è un Governo fatto per metà dagli eredi spirituali (e non solo) dell’avvocato Tino e per l’altra metà da «tecnici» in vago odore di sinistrismo (ma la Sinistra degli affari, sia chiaro, quella gradita al grande capitale). Tutta gente che è perfettamente capace di portare avanti programmi economici e finanziari di vasta portata, ma ha la coda di paglia, perché sa che ancora una volta questi programmi si tradurranno nella vecchia regola di Enrico Cuccia, secondo cui gli utili vanno ai pochi amici (o di MARIO TEDESCHI «fratelli» che siano) e le perdite ricadono sulla collettività. Ma proprio per questo, perché sanno bene quello che i big del capitale e del sistema bancario si attendono da loro, FU UNA scena comica, degna di Ridolini, quella che la Ciampi e i suoi Ministri hanno paura di tutto quanto porti mattina del 29 aprile movimentò il cortile di Palazzo Chigi con sé l’impronta della politica. Una politica che è stata e il tratto di Piazza Colonna antistante la Presidenza del demonizzata massicciamente, grazie alle inchieste Consiglio. Azeglio Ciampi stava per lasciare il palazzo. giudiziarie e per colpa di alcuni corrotti, ma non per Nel momento stesso in cui la sua auto blu si mosse, questo può essere ridotta al ruolo delle plebi urlanti, dinanzi al portone si infilò, al posto della staffetta, aizzate dalla televisione e dalla disinformazione, pilotate anticipando la vettura della Polizia che era destinata a quel dai comunisti e dai loro amici. compito, un'auto dei Carabinieri con a bordo un alto Ciampi ha volentieri accettato di essere presentato ufficiale. Costui assunse il coordinamento della dalla propaganda come «il traghettatore», ma non sa operazione, preoccupandosi pure (secondo l’Ansa) «di nemmeno lui dove andrà a finire la sua barchetta. Anche impedire alla volante della Polizia di accodarsi all'auto tra quelli che gli hanno dato fiducia, nessuno può che trasportava il Capo del Governo». escludere che egli in realtà sia un Caronte in sedicesimo, Ha avuto inizio così, come nelle liti di paese per la destinato soltanto a trasportare nell’oltretomba le anime scorta alle Madonne pellegrine, la Presidenza Ciampi. E morte della Prima Repubblica. E su tutte le paure, a l’episodio, che sarebbe da ridere se non fosse da piangere, dispetto delle smentite, pesa il timore per le affermazioni tradisce, non soltanto il desiderio di impadronirsi della degli analisti americani: «Il collasso del vostro sistema è scorta di tanto personaggio, ma anche la preoccupazione e simile a quello sovietico. Siete in un passaggio il cui esito la paura che hanno accompagnato la nascita del nuovo è incerto. La trasformazione del sistema politico italiano Governo. pone in prospettiva la possibilità che la finanza pubblica Una paura che il Go-verno tradisce in ogni suo atto, fin sfugga ad ogni gestione. La dalle prime battute. Paura crisi tremenda dell’Italia di non apparire ossepotrebbe avere sbocchi quiente ai messaggi ancora più problematici di paralleli del Presidente quelli attuali». della Repub-blica e della Sono questi i problemi, piazza, a propo-sito della che una nuova legge riforma elettorale. Paura di elettorale non basterà certo disturbare troppo il ad esorcizzare. La riforma Parlamento e, al tempo stes elettorale è uno specchietto -so, di risultare tanto rispetper le allodole, per far toso da far finire in dimenticare alla gente il secondo piano le pretese milione e settecentomila presiden-zialiste del miliardi di debito pubblico. Quirinale, che vorrebbe Ciampi lo sa benissimo, imporre, oltre alle sue idee tanto è vero che proprio su nelle scelte dei ministri e questo punto, in preda alla nella preparazione del agitazione ed alla preoccuprogramma, anche limiti di pazione, egli addirittura si è tempo al Ministero ap-pena sbagliato nel dare le cifre nato. Paura di non durante il discorso alla mostrarsi sufficientemente Camera. Un errore lapsus, rispettoso della volontà dei da parte di un ex giudici e di quella dei Governatore della Banca «pentiti» loro alleati. Paura d’Italia, che su tutto può della propria stessa ombra, commettere errori, tranne tanto da preoccuparsi di che sui numeri. Ma quello stabilire una linea di sbaglio ha tradito l’insuccessione alla Banca certezza; la paura di chi ha d’Italia per evitare chiesto al Parlamento una sorprese. «fiducia morale», in cattiva Paura di tutto e di tutti, coscienza. insomma; come del resto è (il Borghese, 16 maggio 1993) logico, data la formazione CARLO AZEGLIO CIAMPI
Il Palazzo ha paura
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bero spalmati sui Paesi della zona mediterranea UE ben 11mila euro procapite di debito greco. E la vittoria in Grecia del partito dell’Euro non ha certo messo una pietra tombale sul ritorno alla Dracma. Per preparare gli Italiani a questo cataclisma finanziario, il governo starebbe accelerando sulla «spending review familiare»: tagliando drasticamente le disponibilità di ciascun cittadino s’inciderebbe sulla spesa corrente. Qualche consulente avrebbe suggerito a Monti che l’effetto dei tagli su 60milioni di famiglie sarebbe più salutare d’una spending review ai piani alti dei palazzi pubblici. Così auto blu e costi della politica non verrebbero toccati, mentre l’uomo di strada non comprerebbe più acqua minerale e bibite ma s’accontenterebbe dell’acqua del rubinetto, e poi acquisterebbe meno pasta, pane, carne e biscotti. Un piano che Monti aveva già palesato, e quando insediandosi disse che l’Italia doveva tornare ad una spesa familiare da fine anni ‘70. * * * Anche il ministro delle Finanze austriaco (Maria Fekter) ha accennato alla possibilità che l’Italia ricorra a un piano di salvataggio europeo. In una intervista alla televisione austriaca il ministro Fekter ha detto che «può essere che l’Italia possa anche chiedere un aiuto, visti i tassi elevati che già paga per rifinanziarsi sul mercato». E l’unico modo che avrebbe l’Italia per rifinanziarsi sarebbe bloccare i risparmi di 60milioni di cittadini, mettendo il livello di spesa familiare per circa un anno alla stregua della qualità della vita che correva nei Paesi dell’ex blocco sovietico. L’imperativo della «spending review familiare» sarebbe tagli ai costi del tempo libero (palestre e centri estetici), drastica riduzione della spesa in abbigliamento e cibi, tagli a cure sanitarie, cambio degli elettrodomestici soltanto in caso di rotture irreparabili, azzerare l’uso dei mezzi privati (auto e moto) nell’orario di lavoro, drastico taglio a cinema, ristoranti e vacanze. In questo quadro gli Italiani dovrebbero ricorrere ben dieci volte di meno alla richiesta di prestiti personali, o certamente intaccherebbero molto i propri risparmi. Così il governo italiano starebbe per varare delle pubblicità che inviterebbero i cittadini a non spendere soldi, ad andare a piedi per risparmiare sulla benzina, a spendere meno in cibo perché si diventa più snelli e belli, a competere a chi indossa il vestito più vecchio, casomai aggiustandosi quello della mamma o del nonno. Ed ancora a vedersi film in casa con amici, ad andare al mare con la corriera e colazione al sacco, i più audaci porterebbero la loro bella sulla canna d’una bici. Un’Italia per tanti mai conosciuta, che ci ricorda quando da ragazzi ci veniva detto di non giocare a pallone, perché si consumavano le scarpe. Quanto è difficile farci tornare a quei tempi. E per il bene dell’Italia e dell’UE, e perché furbescamente qualcuno non tesaurizzi in casa, sarebbero già pronti a scattare i «cash-dog» della Guardia di finanza: ovvero un corpo cinofilo specializzato nel dare la caccia a chi nasconde danaro liquido. I cani, grazie al loro fiuto, scoprirebbero i soldi nascosti dentro i materassi o sotto i mattoni. L’unità è entrata in servizio la scorsa estate: riescono ad identificare i denari grazie all’odore dell’inchiostro delle banconote. Più sono i soldi e maggiore è il profumo che li attira. Così Monti ci ha spiegato come superare la crisi, rassegnandosi a sopravvivere senza soldi.
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IL COSTO DELL’ENERGIA
SCELTE sbagliate di ENEA FRANZA CON la crisi i nodi di sempre vengono al pettine. Nel Paese dove la politica ha cavalcato le mode e gli istinti del momento senza imporsi per la costruzione di infrastrutture capaci di supportare adeguati livelli si sviluppo, la politica energetica costituisce uno dei nodi più delicati del sistema. Partiamo da un assunto, sul quale sono certo in molti avranno da ridire, ma su cui nonostante tutto mi permetterò di insistere. I c.d. settori maturi costituiscono l’ossatura che ha permesso al nostro Paese di rimanere a galla, nonostante le note difficoltà della finanza pubblica. I c.d. settori maturi sono certamente quello dell’acciaio e, più in generale della siderurgia, della ceramica e della carta. È indubitabile che essi abbiano dato, in questa fase di crisi, un alto contributo in termini di Pil e sono voci importantissime, in termini di fatturato, della nostra bilancia commerciale. Ma ecco l’altra faccia della medaglia. Le attività citate sono caratterizzati da un basso tasso di crescita della domanda, una scarsa differenziazione del prodotto, e sono molto aperti alla concorrenza internazionale. La natura del loro vantaggio competitivo è legata, quindi, moltissimo ai fattori di costo. I settori maturi in altre parole (e, scusandomi per le forzature che farò per amore della sintesi), sono caratterizzati da concorrenza, specialmente quella di prezzo, molto intensa. Stabili posizioni di vantaggio competitivo sono spesso associate ai vantaggi di costo generati da economie di scala o di esperienza, mentre un vantaggio legato alla differenziazione è generalmente frutto della fedeltà al marchio. Ciò premesso, voce di costo primario è quello dell’energia. Il problema di fondo, infatti, è che i settori maturi sono molto energivori, E qui veniamo al punto. Nel nostro Paese, negli ultimi anni, il costo dell’energia è andato per tali soggetti fortemente aumentando. Infatti, mentre il costo complessivo ha registrato un beneficio dalla scelta del solare, il costo medio per giga wattora per tali soggetti sembra essere aumentato in modo esponenziale. Quali sono le ragioni di questo apparente paradosso? Bene, come ho accennato, la responsabilità deve imputarsi alla politica energetica che ha spinto molto sulle energie alternative ed in particolare la scelta per il solare. Vediamo più in dettaglio. Fatto pari a cento la produzione di energia nazionale, soltanto fino a tre anni fa poco più del 10 per cento della produzione nazionale veniva dal solare. Ora la produzione di energia proveniente da fonti alternative è salita al 33,3 per cento. Quello che è un indubbio vantaggio per il nostro Paese, ha però per i settori maturi una conseguenza a dir poco devastante. L’effetto sembra essere stato quella di un incremento molto forte del costo dell’energia durante le ore notturne, orario nel quale le industrie metallurgiche assorbono gran parte del fabbisogno di energia nazionale. Il
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risultato complessivo - come confermano i dati che la Confindustria palesa in ogni possibile incontro sul tema dell’energia, è un aumento medio del costo dell’energia per tali imprese nell’ultimo biennio che sfiora il 15 per cento. Una esagerazione confindustriale ? Lasciamo ai tecnici del settore stabilire l’esattezza di tali calcoli, e quindi un’analisi più accurata. A noi basti rilevare che, oltre confine, e non nel lontano Belgio, ma in Serbia, Slovenia, Romania il costo dell’energia è molto inferiore e tale fatto determina un elemento di competizione non trascurabile. Appare lecito a questo punto domandarsi quale politica industriale, in particolare nel settore energetico, stia seguendo il governo dei professori, a cui certamente, vista la loro acclamata competenza nel settore non può sfuggire il problema. Ma in realtà non c’è traccia di notizie che si stia intervenendo nel campo con specifiche iniziative. Se così è forse si dovrà dare retta a chi, osservando quello che ne è delle Università Italiane, ritiene che il valore attuale di «professore» sia prossimo allo zero, essendo oramai quegli ambienti un luogo autoreferenziale e di pressoché nullo valore scientifico. Siamo arrivati a rimpiangere i vecchi politici ladroni e questa è indebitamente la cosa peggiore!
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A SERVIZIO DEL DEBITO PUBBLICO
UTILI bancari di ANTONELLA MORSELLO ALL’OVEST niente di nuovo, bellissimo film del secolo scorso. Anche oggi si replica. Nessuna notizia sconvolgente sul fronte occidentale, soltanto diverse notiziole che non fanno storia, ma che messe insieme , ci danno un quadro da cui si può facilmente dedurre che ci stiamo avviando rapidamente verso il fondo del baratro. Nonostante la cura da cavallo impostaci dal Governo Monti, riduzione delle pensioni, aumento quasi quotidiano delle accise, aumento di tassazione a tutti i livelli, disoccupazione dilagante, il famoso spread rispetto ai bond tedeschi è risalito ai livelli berlusconiani, le aste dei titoli si reggono sugli aumenti dei tassi di interesse, il che vuol dire in termini poveri e concreti che la spesa per pagare il debito sovrano assorbirà interamente tutti gli spiccioli che i tecnici stanno racimolando, rovinando le famiglie, e la crescita col tubo che partirà! La cosa da fare è stampare moneta. L’Europa dice: facciamo subito un’unione bancaria per completare l’unione monetaria, in modo tale che il Fondo anti crisi, anziché destinare i fondi ai Governi sovrani che poi li girano alle Banche per ricapitalizzarle (come avviene oggi) possa destinare i fondi direttamente alla ricapitalizzazione delle Banche, eliminando quindi un doppio passaggio e spezzando il legame perverso crisi bancaria-debito sovrano. Insomma una semplificazione in grande stile, l’importante è che i cittadini di tutta Europa continuino a pagare e che questi fondi giungano direttamente alle Banche per la loro ricapitalizzazione. Già perché quei fondi che gestisce il Fondo anti-crisi non sono nient’altro che i soldi che tutti noi versiamo per finanziare l’Europa, la quale pensa che allorquando poi le Banche ritornano a macinare utili da 5 miliardi netti all’anno, li distribuiranno a tutti noi per ricompensarci. Si usa dire che «il più grande inganno del diavolo sia stato far credere all’umanità che lui non esiste» ed è proprio a questa diabolica tecnica che il signoraggio è padrone del mondo ma in maniera trasparente per tutti noi. Tecnicamente il signoraggio è il lucro che si genera dal creare moneta. La legislatura internazionale prevede attualmente che siano le banche centrali a creare moneta, sia contante che strutturale. La banca centrale europea che stampa la nostra moneta è proprietà di privati, quindi i guadagni della produzione di moneta non vanno restribuiti al popolo. Ma a quali costi stampa e cosa guadagna? Il costo maggiore è il materiale di cui è composta la moneta, che insieme a tutti i vari costi di creazione va a determinare il suo valore di produzione denominato «valore intrinseco». La moneta però riporta sulla facciata un numero che è il «valore nominale». Sia il valore intrinseco che quello nominale differiscono tra loro e la loro differenza determina il «signoraggio», ossia il guadagno che ha chi ha creato quella moneta. In pratica una moneta (banconota) da 100 euro costa al cittadino 103 euro e al banchiere solo 30 centesimi. Questo è il signoraggio. Bankitalia possiede il 15 per cento circa della banca centrale europea,
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quindi il denaro che essa stampa. La Banca d’Italia è una società per azioni privata e svincolata dallo Stato. E sono moltissimi i partecipanti di questa azienda privata denominata «Bankitalia Spa»: Banca San Paolo spa, Unicredit spa, Assicurazioni generali spa, Cassa di risparmio in Bologna spa, Inps e Inail, Banca Carige spa, Banca Nazionale del Lavoro spa, Fondiaria Sai spa, Monte dei Paschi di Siena, Cassa di Risparmio del Veneto spa, Cassa di Risparmio di Venezia spa, Milano assicurazioni e molti altri istituti di credito italiani. Tutti questi sono i reali padroni del nostro denaro. Ufficialmente il proprietario è la Banca Centrale Europea, quindi i suoi azionisti, la quota «italiana» è di Bankitalia, quindi delle banche private citate e non del popolo italiano. A chi presta il denaro Bankitalia? Al Governo italiano, il quale lo dovrà restituire con gli interessi e ovviamente lo pagherà con le tasse dei cittadini. Quindi nell’effettivo ognuno di noi paga a Bankitalia, col proprio lavoro, l’intero valore nominale della banconota, e non, il costo di produzione di essa. Siamo convinti che le banche private prestino ai cittadini i soldi guadagnati coi guadagni delle partecipazioni a Bankitalia, derivati dal signoraggio,ma non è così, quei guadagni vanno divisi tra gli azionisti, il denaro che la banca ti presta è quello dei correntisti. Quando ci si reca in banca per chiedere un mutuo o un finanziamento la banca è ben felice, perchè ci darà dei soldi che non sono i suoi e riceverà soldi che diventeranno suoi. Questa truffa legalizzata si chiama «riserva frazionaria» che permette alla banca privata di prestare il 98 per cento dei soldi che riceve dai propri correntisti. Le banche centrali devono tornare ad essere enti pubblici gestiti dallo Stato. La moneta deve essere emessa dalle banche centrali non a prestito dei governi, ma equamente a credito del popolo, così che essa venga spesa nell’interesse e per il benessere di tutti e non di pochi, soltanto in questo modo il problema del signoraggio cesserebbe, in quanto l’emissione della moneta diventerebbe un guadagno di ogni singolo appartenente alla comunità. Alle banche deve essere fatto assoluto divieto di applicare ai cittadini tassi usurai, commissioni illegittime ed interessi non previsti per legge. Le banche dovrebbero inoltre rispondere penalmente, nella persona dei loro responsabili per qualsiasi errore commesso nei confronti dei cittadini, e le loro passività non dovrebbero mai essere colmate dallo Stato come già accaduto negli anni scorsi. Il cittadino deve essere tenuto solamente a pagare i tributi soltanto su guadagni reali e se lo Stato ritiene che un tributo che gli sia dovuto non sia stato versato, deve agire, senza bisogno di enti di strozzinaggio come Equitalia/Serit in Sicilia, lasciando al cittadino la possibilità di saldare il debito o di dimostrare l’eventuale errore della pubblica amministrazione, che mai comunque si deve permettere di pignorare beni basandosi su mere ipotesi di insoluti vecchi da anni. Soltanto quando la moneta tornerà ad essere di proprietà pubblica dal momento della sua stampa, il popolo sarà realmente libero.
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A COLLOQUIO CON ANTONIO PIMPINI
DI CHI È la «moneta»? a cura di ANNA MARIA SANTORO ANTONIO Pimpini. 48 anni. Patrocinante in Cassazione. Quando nel 1986, ancora studente universitario, conosce il Professor Auriti per l’assegnazione del titolo della sua tesi di laurea, ne diventa subito amico. È estate. «Eravamo a casa sua in largo delle Botteghe 3 a Guardiagrele.» Dopo una lunga conversazione sugli studi «io allora avevo una piccola azienda agricola, lui mi dice “dove vai adesso?” “In campagna.” “Anch’io. Vuoi venire con me?”». Da quel momento la loro frequentazione si fa assidua. Quotidiana. Dopo la laurea nel 1987, diventa suo assistente e avvocato. Esperto conoscitore della teoria auritiana sulla proprietà popolare della moneta che nel 1998 viene portata a compimento con la stampa e la circolazione del SIMEC, Pimpini continua a sostenere le idee del professore, ancora oggi a distanza di sei anni dalla sua scomparsa. Una filosofia della scienza monetaria derivante da una lettura attenta del De Rerum Novarum; un’applicazione della dottrina sociale della Chiesa basata sugli ideali di Giustizia; sulla convinzione che l’uomo, in quanto creazione da atto libero, non debba sottostare a usure o costrizioni. «Quella che abbiamo oggi è una moneta che nasce di proprietà della banca che la emette per poi prestarla; è un sistema fondato sul debito, in cui l’individuo è ineludibilmente destinato al fallimento e al suicidio. La dottrina auritiana, invece, vuole una moneta che nasca di proprietà del popolo e venga ad ognuno accreditata come “reddito di cittadinanza”. L’emittente dunque non partecipa alla sua circolazione. «Il Professore ha sostenuto queste idee da sempre. «Durante le prime conferenze, la gente ci tirava le pietre. Ci dicevano “Siete dei matti”. Ci aggredivano, anche perché lui era visto come una persona di destra, marcatamente di destra e questo dava fastidio». Stime recenti informano che ogni bambino che nasce in Italia ha un debito pubblico di 90mila euro. «Noi viviamo in una società di sacrifici. Dire che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro equivale a dire che è il prodotto ad essere ricchezza; è come negare il valore dell’uomo.» In che misura l’entrata nell’«UE» e l’adozione dell’euro hanno influito sulla recessione? «Solo in parte perché non è un problema di lira o di euro ma di natura giuridica della moneta, perché sia la lira che l’euro sono monete-debito, non moneteproprietà.» Se fosse stato attribuito un valore più basso all’euro, avremmo potuto evitare la crisi?
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«Un cambio più basso avrebbe sicuramente consentito una maggiore importazione e vendita dei prodotti italiani ma non avrebbe modificato nella sostanza la struttura del mercato, perché il discorso di fondo della grande truffa, con la quale un “tipografo” si trasforma in proprietario, rimane. C’è poi da aggiungere che l’UE non è un’unione politica e con il Trattato di Maastricht si è sancito che ciò che decide la BCE è assolutamente indiscutibile. La sovranità italiana oggi dipende dalla BCE, proprietaria della moneta in circolazione. E anche un’eventuale nostra volontà di reintrodurre la lira non sarebbe garanzia di miglioramento per la natura patologica della moneta.» A maggio 2012 i «leader» del «G8» si riuniscono a Camp David, dove è ribadito l’auspicio per la Grecia di rimanere nell’eurozona. Con un eventuale ripristino della dracma, potrebbero esserci conseguenze sull’euro? «Innanzitutto la rappresentanza dell’UE è stata fatta da soggetti, quale Barroso e Van Rompuy, che non hanno potere decisionale; inoltre, il fatto che tutti auspichino di continuare ad avere la Grecia all’interno del sistema monetario europeo, non è certo per il bene dei Greci o per il bene comune dell’Europa, perché lo strozzino ha sempre bisogno del debitore; ma quand’anche la Grecia dovesse onorare tutti i debiti, impossibile dal punto di vista giuridico, contabile ed economico, i benefici non sarebbero certamente goduti dall’UE ma dalla greppia che sta alla BCE; anche un eventuale ripristino della dracma non avrebbe alcuna conseguenza sull’euro perché è una moneta-debito, come l’euro. Per riavere un minimo di speranza di sopravvivenza, il fondo monetario europeo, la banca mondiale e le banche di emissione devono essere distrutte, perché sono strutture che indebitano, non arricchiscono.» Che cosa pensa della «pazza idea» di Berlusconi e delle iniziative contro il signoraggio? «Berlusconi aveva detto “La BCE deve stampare più euro, se non lo fa, lo facciamo fare dalla Zecca di Stato” il che vuol dire che, se fosse così letta, Berlusconi sembrerebbe aver compreso la filosofia auritiana; si stampa un euro di proprietà, da contrapporre all’euro-debito, attraverso la nostra Zecca. Se l’ha capito, un plauso a Berlusconi. «Alcune iniziative contro il signoraggio, ad esempio di Marra, sono apprezzabili ma l’introduzione del principio della moneta di proprietà del cittadino eliminerebbe tutte le altre consequenzialità, anche gli aspetti dell’anatocismo.» Quali possibili strategie? «Adotteremo una moneta territoriale a Santo Stefano di Sessanio. Con l’appoggio dell’Amministrazione comunale e del Presidente della Camera di Commercio de L’Aquila Lorenzo Santilli, lì faremo convegni, ricerche e studi. «Ci interessa che l’idea di Auriti sia diffusa il più possibile. «In aggiunta, un’iniziativa provocatoria sarebbe quella di trasformare i BOT da simboli di debito pubblico a nota di Stato, come fece Kennedy con l’ordine esecutivo 11.110 del 4 giugno 1963. Poco dopo fu ucciso e quel provvedimento non ebbe più applicazione. Ovviamente tali note, a differenza di quelle di Kennedy, dovranno essere dichiarate di proprietà del cittadino, altrimenti continueremmo ad avere un fantasma giuridico, che è lo Stato.»
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AD UN PASSO DAL COLLASSO
CAPITALISMO impoverito di ANTONIO SACCÀ CHI SA che accadrà. Stiamo nel possibile. Ogni possibile è possibile. Persino l’impossibile diventa possibile nel nostro meandrico universo economico. L’umanità, la famosa storia universale hanno mai sperimentato condizioni pari alle odierne? Questa equilibratura sull’abisso, un giorno che sembra rechi la perdizioni, il giorno dopo rifiatiamo. Da controllare le cadenze del cuore. Chi sa come, quando, se ne usciremo. Certo, un’uscita vi sarà. Ma che genere di uscita? Anche il terremoto è un’uscita. Ma non conviene. E che divertimento: ormai non c’è chi non voglia «coniugare» rigore e sviluppo. Per un certo periodo prevaleva il termine «rigore», adesso rigore e sviluppo, «coniugati» in varie modalità, prima il rigore e quindi lo sviluppo, oppure il rigore come condizione connessa allo sviluppo; ha perso fautori il rigore assoluto, ormai pure i cani miagolano che il rigore strenuo ammazza lo sviluppo. Grande spolverio stanno avendo le attività dello Stato, un nuovo New Deal, e le infrastrutture, forse addirittura perverremo ai fantastici «eurobond», con i quali le sorti dell’Europa balzeranno a tali meraviglie che tutte le altre economie e le monete del Pianeta si bagneranno i mutandoni. Intanto, nel reale, stiamo precipitando, e gli Stati arraffano soldi o decurtano soldi per concederli alle Banche, le quali sono come il cavallo tagliato in due del Barone di Munchhausen che beveva e non tratteneva l’acqua, sì che beveva, beveva vanamente. Ma insomma, possiamo fermarci, arrestare questa dilapidazione, interrogarla? Che serve continuare a dare soldi alle Banche strappandoli alla società, se poi le Banche si ripresentano con la sete di prima, persino con il piede sul fallimento, o nel fallimento? Possiamo chiederci se c’è qualcosa di insensato, di malsano, distruttivo in questo procedere che non ha dato un minimo risultato o, comunque, non ci ha riparati conclusivamente? Per questa via, collasseremo, dico: la società, forse le Banche saranno in sicurezza, come si dice. Un assurdo. Come è un assurdo spostare il costo della gestione della società sui ceti accertabilmente tassabili, mi scuso per l’orrida fraseologia, degna dell’orrendo fenomeno. Si arriva all’accattonaggio a scapito dei vecchietti, che, supposti pensionati, dovranno esibire dichiarazione di disgraziati con reddito di affamati per avere, da ora, lo sconticino sugli abbonamenti ai trasporti. A non dire le tassazioni sulla casa, ché se un disgraziato ne ha due viene punito come benestante, e poi il gas, la luce, la spazzatura malefica, e il condominio, e il riscaldamento... Insomma, l’abitazione diventa inabitabile, se poi non hai casa di proprietà, spàrati prima di essere ucciso da affitti mortali, e una stanza, dico: un posto letto, arriva a trecento Euro, e se uno può consentirsi un posto letto figurarsi che sono per lui trecento Euro. Se hai la cattiva idea di generare, insomma:fare prole, la sconterai. Dal latte in polvere al ciuccetto, le scarpine, la carrozzina, i bavaglini... ti fanno sentire
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la sofferenza di voler curare un bambino, per il quale ci si toglie il pane di bocca, e te lo tolgono veramente. Ma che società degenerata, spostata nei valori etici, pazza di ferocia arricchitiva è quella che malmena vecchi e bambini! E si lacrima per lo scemare della presenza «bianca»! Ma se sono i «bianchi» che ladroneggiano coloro che generano con costi abominevoli su ogni minima necessità dei figlioletti. Molti stranieri, che non conoscono il benessere, generano in situazioni di penuria, per adattamento. Certo che ci sopravanzano. Ci spazzeranno. Società storte come le nostre non ne esistono. Intendo: società tendenzialmente autoannichilenti. La tecnologia espelle lavoro; il capitalista, licenzia; il capitalista reca i capitali dove paga meno tasse e il lavoro costa meno; il capitale finanziario specula rovinando il risparmiatore e spesso se stesso; lo Stato sociale è presso che interamente sulla schiena degli onesti, degli «accertabili»; le canaglie ingrassano, spesso del tutto immuni da controlli; i giovani non hanno futuro in quanto il profitto odierno si fonda su lavoro instabile, non garantito, non pensionato; dobbiamo concorrere con Paesi con bassissimo costo di lavoro. Da questo agglomerato, che sta uscendo? Che pochissimi banchettano sui moltissimi. È il modo feudale di mantenere e imporre la ricchezza: sulla miseria. Durerà? La corda tirata all’eccesso è come la dilazione dell’Universo, si rompe. Bisognerebbe ridiscutere la ricchezza e forgiare una società senza profitto demoniaco. Ne ho scritto da millenni. Al presente, è l’Età dei Vampiri. Finché c’è sangue. Domanda: ma come mai il vampirato non si rivolta? Risposta: perché abbiamo una classe dirigente che illude la gente che il dissanguamento è in finalità del rinsanguamento. Come il salasso e le mignatte di un tempo. E soprattutto perché non si scavalca la «vecchia» concezione del profitto come base del benessere sociale. Si dirà: ma il profitto adesso non c’è più! C’è, non per tutti, ma c’è. Ed è la modalità con cui avviene attualmente: licenziamenti, bassi salari, Stato sociale caduto...che impoverisce la società. Se non si coglie che il profitto odierno è contro la società, non parliamo di sociologia erconomica, non cogliamo il cambiamento del capitalismo. Il capitalismo impoveritivo.
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È UNA CRISI, MA POLITICA
COSÌ AFFONDA l’Europa di FRANCO LUCCHETTI IL MOMENTO economico dell’Eurozona non è dei migliori. Anzi. Possiamo benissimo affermare che il momento di recessione che attraversa il vecchio Continente ormai da più di due anni non accenna a diminuire. E senza farci attribuire appellativi non politicamente corretti, potremmo anche affermare che se non si trova immediatamente una soluzione per risollevare le sorti dell’economia più vecchia del mondo, la situazione da drammatica potrebbe diventare catastrofica. Non servono dei momenti di crisi, la buona retorica politica di facciata e le affermazioni dalle belle speranze, perché sono destinate a rimanere delle belle parole scritte da accorti giornalisti sui quotidiani finanziari, e assorbite da lettori poco avveduti. La situazione in Europa è critica, e soprattutto, capiscano i nostri politici, che non è una crisi strettamente economica, quanto una crisi politica. La crisi economica, deriva da una crisi politica. Deriva da una crisi d’intenti comuni, deriva da una mancanza di obiettivi comuni reali su cui doveva essere fondata la Comunità Europea. Invece vediamo quotidianamente diversità d’intenti e, percorsi e obiettivi. Non ci stancheremo mai di dire dalle colonne di questo giornale, che un’unità politica è propedeutica ad una unità economica e monetaria. Non ci può essere una unità politica con le Nazioni che marciano a diverse velocità. Ogni nazione deve fare i conti con la politica interna, con le difficoltà interne ad un Paese che spesso sono lontane dalle logiche eurocratiche che vengono imposte dalla grande finanza e dalle grandi banche. L’Europa, cosi com’è adesso, è un elemento astratto agli occhi dei cittadini. A distanza di tanti anni dall’Unione, la gente non capisce ancora quali sono gli effettivi benefici reali che ha portato tali vedute unitarie che all’epoca sembravano cosi lungimiranti, a parte la comodità di viaggiare con le frontiere aperte e la moneta unica (di cui i reali benefici per la popolazione comune siamo ancora in attesa di vederli concretamente). Ma la lungimiranza è nulla senza una reale visione storica del presente e soprattutto del passato. Siamo sempre più consapevoli che i leader europei attuali sono incapaci di far fronte ad una crisi di tale portata, in cui i Paesi sono sull’orlo sul fallimento, la gente non guadagna abbastanza da garantirsi la copertura mensile delle spese e la pressione fiscale raggiunge livelli insostenibili, in primis in Italia, dove per far fronte alla crisi economica che stiamo vivendo si aumentano le tasse, inoltre nei settori dove la gente attinge di più nel quotidiano, ovvero nei trasporti e nei carburanti. E intanto la disoccupazione giovanile supera 35 per cento (dato più alto dal 2000). Si aumenta la pressione fiscale lì proprio dove la gente necessità di più e dove non può fare a meno. Bastonate all’Europa arrivano anche dagli altri Continenti. La Cina è sempre più preoccupata del futuro
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dell’Eurozona. Nei giorni scorsi il capo del fondo sovraEUROPA, EURO E L’ITALIA no, Lou Jiwei, in un’intervista al Wall Street Journal, ha detto che «il rischio che la zona euro possa disintegrarsi sta aumentando». Lou ha aggiunto di aver diminuito l’esposizione ai titoli di Stato dei Paesi periferici e ridotto il portafoglio di azioni e obbligazioni europee. Ha inoltre mostrato poca fiducia in investimenti in eurobond: l’Europa non è ancora pronta «perché non ha ancora creato un’adeguata disciplina fiscale». Il Wall Street Journal pubblica un’intervista quindi, la di GIUSEPPE CINCOTTI prima in cinque anni a un organo di stampa occidentale al presidente della Cina Investment Corp., il quale esprime parole che riflettono lo sgomento crescente a Pechino sull’inefficacia dei summit europei chiamati ad affrontare L’ODIERNA crisi economico/finanziaria globale ha riportala crisi della zona Euro. Un’inazione che preoccupa non to d’attualità le formulazioni teoriche di J.M. Keynes per la poco Pechino perché la crisi dell’Europa è quella del quasi contemporaneità dell’autore con un’altra grande crisi, mercato che assorbe il maggior quantitativo di export quella del capitalismo americano dei passati anni trenta del della Cina. «C’è il rischio che la zona euro possa andare Novecento, alla quale egli appunto prestò dottrina e suggerì in pezzi e questo rischio è in aumento», ha detto Lou al rimedi necessari sino almeno agli accordi di Bretton Woods Wall Street Journal. La Banca Popolare di Cina taglian(1944). In realtà la crisi USA del 1929 si differenzia notevoldo il tasso di interesse di riferimento di un quarto di punmente da quella in atto sia per le cause scatenanti (la prima to ha dato un segnale, agli occhi di tutti gli investitori, di riguardò piuttosto il capitalismo industriale, la seconda attiene quanto anche in Cina, dilaghi la preoccupazione per le precipuamente al sistema degli intermediari finanziari), sia ricadute globali della crisi in Europa. per l’estensione (la prima oltre che negli Stati Uniti ebbe rilieA bacchettare l’Europa ci pensa anche Obama, che vo soprattutto in Germania, già in recessione per gli effetti suggerisce all’Europa rapidità di decisione nelle scelte. della guerra perduta, mentre la seconda appare globalizzata). Per superare la crisi l’Europa deve agire immediataSuperfluo sottolineare infine la diversità dei periodi storici mente e adottare misure dure. Dopo un periodo di avvernonché dei segnali premonitori. Variamente differenziate ed timento dalla Casa Bianca, è arrivato un altro duro appelaggiornate (es.: Krugman) ricompaiono infatti le tesi keynelo del presidente degli Stati Uniti, che ha affermato: «C’è siane le quali - assai riassuntivamente - sollecitano l’uso della un percorso da seguire, delle misure specifiche da adotfinanza pubblica per stimolare la domanda, la crescita, la pietare adesso per evitare che la situazione peggiori». Il Presidente degli USA ha però anche avvertito che «non si può soltanto tagliare».͒͒ Parlando dalla Casa Bianca, Obama si è detto «preoccupato» per la crisi dei paesi Euro: «In Europa deve aumentare la collaborazione per arginare la crisi (...) noi possiamo pungolarli, ma sono i leader europei, con cui Evola Rajoy Brey 36Mariano 32 Julius Rassegna Italiana Come cambierò ho contatti costanti, a dover prendere Italo Inglese (1933-1952) la Spagna le decisioni (...) E prima i leader euroEccentrici, a cura di Gian Franco Lami Traduzione di Vittorio Bonacci pei agiranno, prima il mercato e la Eretici, Atipici pagg. 180 • euro 16,00 pagg. 186 • euro 16.00 Venti necrologi gente potranno tornare ad avere fidufuori tempo cia e potrà esserci la ripresa».͒͒ Gianfranceschi Romano Collaborazione tra i Paesi, quindi, 33 Fausto pagg. 290 • euro 17,00 37Saverio Aforismi del dissenso Democrazia apparente Prefazione di Marcello Veneziani che come dicevamo poc’anzi, manca a cura di Alfonso Lo Sardo totalmente e «stabilizzazione del sistepagg. 180 • euro 16,00 pagg. 96 • euro 15.00 ma finanziario, iniettando capitale nelle banche». Ha inoltre affermato Kirchhof che è «nell’interesse di tutti che la Inglese 34 Paul Stato amico 38Italo Eccentrici, o nemico? Grecia resti nell’Eurozona, rispettanEretici, Atipici Prefazione di Gennaro Malgieri Venti necrologi fuori tempo do gli impegni». Obama ha inoltre pagg. 122 • euro 13.00 avvertito il popolo greco che, uscendo pagg. 155 • euro 15.00 dalla moneta unica, «la situazione Saverio Romano potrebbe peggiorare». de Benoist Democrazia 35 Alain “Nuova Destra, Ma che cosa ne pensa la popolazioapparente nuova Europa” ne greca delle misure durissime che A cura di Alfonso Lo Sardo Prefazione di Fabio Torriero deve adottare per rimanere nell’euro? pagg. 110 • euro 14.00 pagg. 96 • euro 15,00 Aumento di tagli, pressione fiscale e disoccupazione? Di chi sarebbero realmente gli interessi se la Grecia, come informazioni al 339 8449286 gli altri Paesi, rimanessero nell’Euro?
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NON SPARATE sul pianista
PUBBLICITÀ
Luglio 2012
IL BORGHESE
na occupazione e quindi battere la crisi. Peraltro l’Occidente ed in particolare l’Unione Europea da sempre non appare pronto politicamente (deficit di democrazia parlamentare mancata cessione di porzioni di sovranità necessaria). Tutt’altro ogni nazione (es. eclatante la Germania) prepone i suoi interessi a quelli dell’Unione, iniziando proprio dalla gestione monetaria dell’euro, che al contrario avrebbe dovuto essere, per intenzione univoca, un passo di accelerazione verso l’unione politica. Ma la BCE, almeno sino all’inizio della recente gestione Draghi, comunque ancora condizionata dalle decisioni franco-tedesche, ha messo in atto per anni programmi di austerità fiscale che hanno aumentato la depressione, mentre confermano lo strapotere del sistema bancario. Invece l’Unione Europea ha necessità di politiche monetarie più espansive seppure con un aumento controllato dell’inflazione. Ma non esiste un governo dell’Unione. Al contrario con il recentissimo «fiscal pact» (in conferma del patto di stabilità del trattato di Lisbona) le nazioni occidentali insistono nel tentativo di risolvere i loro problemi economico-finanziari e la conseguente elevata disoccupazione con la citata austerità fiscale (ed oltre: rialzo dei tassi da parte della BCE, mancato aumento del «fondo salva Stati», che si spera avvenga almeno nel 2013 con la sua trasformazione in ESM, «meccanismo europeo di stabilità»). La soluzione, da ottenersi a medio termine, non è certo un’utopica regolamentazione globale proposta come «uscita di sicurezza», né tantomeno un’uscita dall’euro. Quest’ultima, traumatica, è contraria ai trattati sottoscritti e sovratutto è contrastata da motivazioni tecniche riguardanti il costo dei debiti pubblici, la svalutazione attesa e quella effettiva, la denominazione in euro dei debiti contratti, l’apprezzamento di alcune monete nazionali e il deprezzamento di altre ecc.ecc.. Occorre quindi che il condominio europeo rivisiti Keynes giungendo ad un nuovo coordinamento spaziotemporale fra il piano di sostegno ai Paesi in difficoltà e il piano di sviluppo politico-istituzionale dell’Unione. In definitiva si conferma che reazione e introduzione dell’euro sono state troppo anticipate, come a suo tempo lo fu l’allargamento dell’Unione (per Germania desiderosa di nuovi mercati e per USA come cuscinetto con nuova Russia), il quale invece di rafforzarne l’assetto costituzionale lo ha indebolito. Infatti l’Unione, senza legittimità politica, non ha potuto/voluto usare gli strumenti per fermare la recessione, perseguendo invece e contemporaneamente deflazione, liberismo, stabilità. In tal modo eliminando l’essenziale «piena occupazione» e senza tener presente che mentre l’euro è una moneta federale, il debito è confederale, cioè dei singoli Stati, i quali ormai non possono più reagire con una politica monetaria e/o di bilancio ovvero dei cambi, dato che sinora è stata la moneta più forte, cioè il marco tedesco a dettare il passo dell’euro. Per fermare il rigore recessivo una soluzione potrebbe essere l’unificazione del debito in eurobond, supplendo con una controllata quota parte di esso al mancato aumento della liquidità della Banca europea degli investimenti. In uno, come detto, ad un congruo aumento del fondo salva Stati (e non «salva banche»), ora EFSF, dal 2013 ESM e con appositi finalizzati project bond. Nel contesto descritto l’Italia si è adeguata, affidandosi ad un governo cosiddetto «tecnico», costretto a mediare fra caste, corporazioni e partiti declinando parole d’ordine quali rigore, equità, crescita. Sinora appare perseguita, con una certa determinazione quando possibile, soltanto la prima pur con numerose omissioni di rilievo (vedasi privilegi delle sovrabbondanti classi politica, bancaria, burocratica, in grado di resistere per collusione) ed in uno a molti errori ed anche ripensamenti. Qualche esempio: la reintroduzione, sotto falso nome, dell’ICI con aggiornamento
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catastale e risibile tripartizione rateale a distanza di qualche mese nonché con regolamentazione tuttora incerta; la creazione tragicomica fra i lavoratori, della categoria degli «esodati» che però non si riesce a quantificare ed inoltre trasformazione del decreto legge in disegno di legge il che procrastinerà la riforma del lavoro; decreto svuota carceri che non ottiene risultati; pseudo «fondo taglia tasse» annunciato due volte e altrettante cancellato; retromarcia nelle liberalizzazioni, che restituisce ad avvocati, notai, farmacisti ecc. ampia facoltà anticoncorrenza; annuncio di ritassazione dei capitali scudati senza regolamentazione per assolverla; mancato accordo con la Svizzera per tassazione di capitali esportati; richiamo in servizio, per risparmi mirati nella Pubblica amministrazione, dello spendingreview di Padoa Schioppa memoria (ma con commissari ad acta a fare da mediatori altrimenti la casta non viene toccata da paracasta tecnica), al fine di tentare di evitare il secondo futuro aumento IVA, chiaramente recessivo per i derivanti aumenti dei prezzi; aumento dell’età pensionabile, in sicuro contrasto con l’occupazione giovanile. A proposito della quale si permette facile terrorismo psicologico a) includendo fra i disoccupati giovani ancora in età scolare obbligatoria, b) includendo due milioni di soggetti che pretendono di avere lavoro corrispondente al titolo di studio posseduto (quando l’abolizione del valore legale del predetto?), c) ignorando che oltre un milione di posti di lavoro sono appannaggio di immigrati regolari e non, d) che le generazioni anziane non soltanto consumano, ma anche investono in beni strumentali, strutturali e non, di cui fruiscono e fruiranno le generazioni future (KeynesHirsch) contribuendo altresì al mantenimento di queste ultime, e) infine dimenticando l’esistenza di decine di migliaia di posti di lavoro manuale-tecnologico disponibili. Da quanto esposto si può agevolmente dedurre che il governo Monti è espressione e mediatore di varie caste tuttora imperanti, ma che per diversi motivi (es. quella politica: per motivi elettorali) sono state costrette a delegare ai cosiddetti «tecnici», con molti se ed altrettanti ma, il compito di rispettare i parametri dettati dall’UE (piuttosto rigorosi). L’occasione tuttavia dovrebbe essere colta per ottenere altresì equità (assolutamente dimenticata a favore di rigore e crescita) mediante redistribuzione del reddito, iniziando con dare un taglio al sovrannumero in ogni settore (istituzionale-pubblico-privato) delle classi politicodirigenziali e burocratico-manageriali e alle agevolazioni di cui godono (es.: politici che da tempo e senza conclusione stanno distraendo l’opinione pubblica con discussioni su legge elettorale e finanziamento dei partiti). Ma riportare equità non è facile, tenuto conto che la formazione montiana comprende in prima o seconda battuta almeno una decina di rappresentanti del predetto sovrannumero (paracasta e corporazioni) e che è il Parlamento che le dà la maggioranza necessaria. Il presidente del consiglio per ora non può recidere il cordone ombelicale che lo lega ai partiti (e quant’altro predetto). Ma in parallelo al fatto che il presidente della Repubblica e la magistratura (pur con qualche ragionevole supponenza) intervengono appropriatamente per inadempienza principale della casta politica, non può escludersi del tutto che il professore in loden partecipi quale leader politico alle elezioni del 2013. Potrebbe coagulare in prima persona il vasto consenso ora invece delegatogli: così sarebbe pienamente legittimato alle varie riforme (alcune delle quali richiedono tempi lunghi ovvero un’intera legislatura). Ed infatti, dopo rivisitazione con applicazione in
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toto della Costituzione, occorrerà fra l’altro: 1) Estendere al settore pubblico la riforma del lavoro; 2) Rivedere la «specialità» di alcune regioni, essendo venute a mancarne le motivazioni. Sola necessità per il Trentino-Alto Adige e la Val d’Aosta, regioni di frontiera per trattato internazionale, lingua, usi e costumi; 3) Ridurre il numero delle Province e di conseguenza il numero degli alti burocrati ad esse dedicati nella struttura del Ministero dell’Interno; 4) Ridurre il numero delle «autorità amministrative indipendenti» a quello indispensabile per evidenti carenze dell’Amministrazione Statale. Le dette autorità sono politicizzate al massimo per nomina e composizione e quindi poco indipendenti, molto costose e con effimeri risultati; 5) Censimento del patrimonio statale disponibile e sua alienazione affidata alla Cassa depositi e prestiti e/o ad apposito Ministero. L’introito dovrebbe essere impiegato unicamente nella diminuzione del debito pubblico; 6) Divisione della RAI in due aziende, una pubblica con canone e con programmi di ogni genere, senza gestione di pubblicità. L’altra privatizzata e con regolamentazione commerciale; 7) Revisione di regole e norme del sistema bancario con diversificazione di compiti, tassazioni finanziarie e con giusta attenzione alla legislazione dal 1936 in poi ( e i molti miliardi di euro ricevuti dalla BCE?); 8) Immediata abolizione dell’IMU sulla prima casa e sua sostituzione con modesta patrimoniale con aliquota proporzionale sui grossi patrimoni, ovvero con una forte tassazione una tantum (Einaudi); 9) Combattere urgentemente l’evasione fiscale anche facendo emergere al meglio il contrasto di interessi per la possibilità di detrazione di parte delle spese documentate. And so on, direbbero gli inglesi.
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SUSSULTI IMPERIALI
BARACK l’Africano di ANDREA MARCIGLIANO BARACK Obama è notoriamente solito rispolverare le sue «radici» afro-americane soltanto nell’imminenza dei cimenti elettorali, per accaparrarsi il voto, tradizionalmente favorevole ai Democratici, della numerosa, organizzata e sempre più influente comunità «nera». Radici, per altro, millantate almeno in parte, visto che il nostro è sì un «afro» per lo meno per metà - la madre era una ragazza bianca del Kansas, discendente da una dinastia di proprietari terrieri (e di schiavi) imparentata con il falco repubblicano Dick Cheney, e per di più con un’oncia di sangue Kiowa nelle vene - ma assolutamente non è un autentico afro-americano, visto che il padre era uno studente keniota di passaggio negli States. Un padre che se ne andò quasi subito, poco dopo la nascita di Obama, mentre la madre che evidentemente doveva avere una natural predilezione per immigrati dal Terzo Mondo - si risposava con un indonesiano, islamico fervente. Il che, per inciso, spiega perché il futuro Presidente frequentò, nell’infanzia, una madrasa, una scuola coranica, argomento ripetutamente (e abbastanza vanamente) utilizzato dai suoi avversari politici. Comunque, un figlio di madre bianca e ricca - ancorché un po’ «alternativa» e di padre keniota di passaggio non corrisponde affatto all’identikit del perfetto afro-americano, tant’è che, quattro anni or sono, i principali leader neri si risolsero di mala voglia ad appoggiarlo nella sua corsa verso la Casa Bianca. Non lo sentivano, non lo percepivano come uno di loro, quel «mezzo sangue» che non discendeva da schiavi, e che era stato cresciuto nella bambagia dalla ricca nonna materna. Alla fine, naturalmente, prevalse la real-politik, ovvero meglio un dubbio (o fasullo) afroamericano che un bianco repubblicano e conservatore. E poi c’era la moglie, la prorompente Michelle, lei sì orgogliosa discendente di schiavi; lei che aveva costruito la carriera del marito passo dopo passo. Comunque, in occasione delle sue prime Presidenziali, Obama ritrovò addirittura la nonna paterna in un villaggio del Kenya e corse a farsi fotografare con lei. Foto che, nel clima agiografico ed apologetico che lo circondava, fece il giro di tutti i rotocalchi del mondo, commuovendo le anime belle di zitelle radical chic ed occhialuti intellettuali in sedicesimo. Povera Africa, con un «africano» alla Casa Bianca Peccato che, poi, da Presidente, Obama abbia radicalmente tagliato gli aiuti americani ai Paesi africani, anche quelli destinati a combattere le piaghe endemiche dell’AIDS e della fame. Programmi che, invece, il suo cattivissimo predecessore, quel falco neocon ed imperialista di George W. Bush, aveva notevolmente incrementato. Ma, per zitelle ed intellettuali di cui sopra, George W. resta il cattivo per antonomasia, e Barack il buono per definizione. Per altro, tutte, o quasi, le politiche di questo suo mandato non si sono rivelate né particolarmente attente alle popolazioni
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africane, né agli interessi della comunità afro-americana. Che, a ben vedere, aveva ottenuto molto di più durante l’Amministrazione di George W., con ben due Segretari di Stato - Powell prima e la Rice poi - che la rappresentavano al vertice della gerarchia di Washington, e con quel «conservatorismo compassionevole» che cercava di promuovere la crescita sociale dei ceti più deboli. Obama, invece, ha favorito in tutto e per tutto le grandi Merchant Bank finanziarie, le stesse che hanno provocato l’esplosione della bolla speculativa del 2008 che, fra le sue ricadute, ha avuto anche quella di far perdere la casa a centinaia di migliaia di cittadini. E fra questi una gran fetta di afroamericani da poco sollevatisi al livello di Middle Class e subito ricacciati nella «fogna». Mentre quello che avrebbe dovuto essere il «loro» Presidente si circondava di uomini come Larry Summers che delle Merchant Bank erano, e sono, espressione, e rifinanziava sontuosamente quegli stessi Istituti che della crisi erano stati gli «untori». Quanto all’Africa, poi, basti pensare che Obama ha promosso la produzione di bio-carburanti, venendo per questo osannato dagli ambientalisti dell’intero globo. Soltanto che questo incentivo alla produzione della «benzina verde» ha dirottato una massa enorme di granaglie originariamente destinate all’uso alimentare, provocando nel Terzo Mondo e, quindi, essenzialmente in Africa, una crescita esponenziale della fame. D’altro canto il nostro Presidente «abbronzato» - per prendere a prestito un’icastica battuta di Berlusconi era stato riccamente foraggiato, durante la campagna elettorale, oltre che dalle Merchant Bank, dai produttori di bio -combustibili. E certi debiti vanno pagati. Se non si vuole fare la fine di Kennedy. Inoltre, la crisi di approvvigionamento, è stata la causa scatenante delle cosiddette «Rivolte del pane» del Maghreb, che nella Primavera del 2011, hanno sconvolto il quadro geopolitico nord-africano, spianando la strada all’ascesa dei partiti islamisti dall’Egitto, alla Tunisia, al Marocco, tutto con il placet, se non proprio la benedizione di Obama. Che, per altro, è tra i responsabili di un altro disastro non da poco che sta, pesantemente, riverberando sui già precari equilibri dell’Africa: l’eliminazione di Gheddafi. Certo, in questo caso più che di una colpa si dovrebbe parlare di correità, visto che la sciagurata avventura libica è stata più che altro voluta da Sarkozy. Ma già il semplice fatto che un Presidente americano si sia lasciato dettare l’agenda dal piccolo Napoleone da operetta, la dice lunga sulla statura politica di Obama. Poi, il dopo Gheddafi, si sta trasformando in un incubo non soltanto per la Libia ormai in preda ad una guerra tribale fra bande armate - ma un po’ per tutta l’Africa sub-sahariana. Infatti, il Colonnello libico, con tutti i suoi enormi «difetti», esercitava un ruolo fondamentale nel tenere sotto controllo gli instabili Paesi della cintura sub-sahariana. Certo, si era autoproclamato - con quella tracotanza da mitomane che lo contraddistingueva - Re dei Re dell’Africa Nera, ma, al di là della fuffa folkloristica, di fatto impediva a quelle terre di precipitare nell’abisso delle guerre tribali e nell’autodistruzione. Soprattutto, inibiva interessi finanziari più o meno occulti, ed occhiuti, che di tali conflitti civili si nutrono. E forse questa è stata, alla lunga, una delle concause della sua rovina. Senza Gheddafi, dunque, e soprattutto senza più uno Stato libico, e per di più con l’Egitto in una tormentata transizione - che potrebbe portare al potere i Fratelli Musulmani - per l’Africa nera si profila una, probabilmente lunga, stagione di tensioni, guerre civili, fame e morte. Una lunga stagione nera.
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E intanto, Barack Obama, il figlio dell’Africano, recluta, proprio nell’Africa Nera, uomini, di fatto mercenari, che, per fame e disperazione, vadano a combattere le «sue» guerre. La nuova strategia di Washington, in Iraq come in Afghanistan, prevede, infatti, un crescente disimpegno militare, sino al completo abbandono di quei teatri di guerra. Ma questo non significa una rinuncia agli interessi americani in quelle regioni cruciali tanto per gli equilibri economici che per quelli più squisitamente geopolitici. Così, all’inglorioso ritiro delle forze militari - che ha mandato su tutte le furie gli alti comandi del pentagono sta corrispondendo un crescente impegno di «agenzie di contractors», che reclutano le loro «truppe», vera e propria carne da macello, prevalentemente in Africa. Con tanti saluti alla vecchia nonna keniota. Se Condy scende in campo... - Però, siccome anche negli States non tutte le ciambelle escono col buco, per Obama si sta profilando una tornata elettorale sempre più difficile. Già, perché non soltanto la crisi economica e, soprattutto il galoppare dell’indice di disoccupazione stanno erodendo il consenso del Presidente nella Middle Class e tra i lavoratori, ma si stanno addirittura profilando degli scenari che potrebbero fargli perdere una, consistente, fetta dell’elettorato afro-americano. In molti nel Partito Repubblicano pensano, infatti, che Mitt Romney sia un candidato troppo scialbo, troppo carente di appeal per poter davvero riuscire trionfatore a Novembre prossimo nel confronto con un Obama pur ai minimi storici di popolarità. E in molti, soprattutto, pensano che per risollevare, e rilanciare le speranze del GOP di riconquistare lo Studio Ovale, sia necessario affiancare all’ex governatore del Massachusetts un candidato Vice Presidente che abbia tutte le qualità che a questi mancano. Dunque: un conservatore autentico, capace di ricompattare l’elettorato di destra del Partito, e, al contempo, un realista, con esperienza di governo. Meglio ancora, con quell’esperienza di politica internazionale che al buon Mitt manca completamente. E poi un esponente della Middle Class (Romney è miliardario) e, possibilmente capace di attrarre il voto femminile e quello delle «minoranze», in particolare di quella afro-americana, per minare alla base le forze di Obama. Insomma, il ritratto, fatto e finito, dell’ultimo Segretario di Stato repubblicano: Condoleezza Rice. E, a quanto dicono, Condy, nel suo studio di Stanford, ci starebbe facendo un pensierino.
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MATRIMONI « GAY» IN AMERICA
LA VERSIONE di Obama di FRANCESCO ROSSI IL PRESIDENTE Barack Obama si è schierato a sostegno del matrimonio tra omosessuali. Che le sue vedute fossero alla sinistra del partito Democratico era sconosciuto soltanto a chi non voleva vedere; ora si ha l’ennesima conferma. Era stato il suo predecessore democratico, Bill Clinton, a firmare la legge a difesa del matrimonio, che definiva questo istituto come unione tra uomo e donna, e che Obama si è rifiutato di difendere nei tribunali. Obama ha anche fatto abrogare la legge che vietava il reclutamento nell’esercito di uomini e donne apertamente omosessuali, la legge che veniva definita come «non chiedere, non raccontare», ed in base alla quale gli omosessuali potevano essere reclutati a patto che tenessero tutto per sé (fermo restando il divieto da parte delle autorità militari di fare indagini al riguardo). Da segnalare la strada che ha portato a questa presa di posizione e la sostanza, cioè la motivazione, che Obama ha fornito per giungervi. Il suo vice-Presidente, il Democratico del Delaware Joseph Biden, ha abbracciato l’idea del matrimonio omosessuale durante una trasmissione televisiva, «Incontra La Stampa» della NBC, e stavolta il suo difficile controllo della parola ha forzato la mano del Presidente: può il vice - il cui ruolo istituzionale è di sostenere la politica del Presidente - prendere una posizione non condivisa dal suo superiore? È così che dunque Barack Obama, anch’egli nel corso di una trasmissione televisiva pochi giorni dopo, «Buongiorno, America» della ABC, ha dato esplicitamente supporto al matrimonio omosessuale, una posizione che si sospettava già avesse assunto e che soltanto per ragioni elettorali non veniva manifestata. Questa è la strada che ha portato a questa «storica» svolta. Quale la ragione intellettuale? Secondo quanto spiegato da lui stesso, il Presidente ha avuto scambi di opinioni con amici omosessuali, con sua moglie e le sue figlie. E così, la sua posizione al riguardo, che già «si stava evolvendo» (ancora, parole dello stesso Barack Obama), sarebbe divenuta di aperto sostegno al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Prima Obama credeva che le unioni civili fossero sufficienti per tutelare certe coppie, poi si sarebbe ricreduto. Ci sarebbero infine le credenze religiose. «Ero sensibile al fatto», ha affermato Obama alla ABC, «che per un sacco di persone, la parola matrimonio era qualcosa che evoca tradizioni molto forti e credenze religiose. La cosa alla radice di ciò che pensiamo è, non solo Cristo che si sacrifica per noi, ma anche la regola aurea - tratta gli altri nel modo in cui vorresti essere trattato.» Quindi, riepilogando, i fattori influenti sarebbero stati i colloqui con amici omossessuali, con i familiari e le sue credenze cristiane. Per quanto riguarda i primi, Obama avrebbe dovuto ampliare il proprio campione di riferimen-
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to, valutare quella situazione su scala generale e non certo limitarsi alle consultazioni con gli amici. Per i colloqui intrafamiliari, ritorna in maniera opprimente questo suo mettere la famiglia ed in particolare le figlie al centro delle sue decisioni. Si capisce che Obama vuol dare l’immagine di colui che prende in considerazione le opinioni e le istanze dei più giovani e per il quale le figlie conterebbero come i suoi più esperti consiglieri, ma tutto questo è tremendamente retorico e segna indubbiamente il carattere dell’individuo, sempre propenso a nascondere le proprie vere motivazioni dietro uno schermo lucente. Da questo punto di vista, il suo precedessore George W.Bush gli dà certamente una lezione di stile: anch’egli è padre di due figlie, eppure non risulta mai che le citasse in continuazione per mostrarsi un Presidente attento alle idee dei giovani o per ricordare che fosse un padre di famiglia. Per quanto riguarda infine i riferimenti cristiani, questi seguono lo stesso modello delle giustificazioni di cui sopra: si tratta di citazioni fatte a sproposito. Che c’entrano il sacrificio di Cristo e la regola aurea con il matrimonio tra persone dello stesso sesso? Tutti apprezziamo la regola in base alla quale dovremmo trattare gli altri allo stesso modo in cui noi vorremmo essere trattati, ma questo forse significa che negare l’estensione del matrimonio agli omosessuali costituisce una violazione di quella norma? Il punto è stabilire se un’istituzione come il matrimonio (letteralmente, a protezione della donna) possa essere utilizzata anche per situazioni che mancano di alcuni dei presupposti fondamentali: un soggetto debole da tutelare, la possibilità di mettere al mondo dei figli. La scelta di Obama, indipendentemente dalle opinioni o dalle pretestuose giustificazioni, può essere definita politicamente coraggiosa? Se ne può dubitare. Il dato sorprendente della campagna elettorale di Obama, soprattutto se lo si confronta con quello delle precedente campagna del 2008, è la ridotta disponibilità di fondi, decisamente al di sotto, e per diverse decine di milioni di dollari, rispetto a quanto programmato. Con questa premessa in mente, si deve considerare che due giorni dopo la sua clamorosa presa di posizione, Obama è intervenuto nella casa di Los Angeles dell’attore George Clooney per una raccolta fondi che dovrebbe aggirarsi sui 12 milioni di dollari, ottenuti da gente di Hollywood, gran parte della quale è attiva nelle cause per i diritti degli omosessuali. La settimana successiva, il Presidente ha partecipato alla cerimonia di consegna dei diplomi alla Berbard College di New York, nel corso della quale ha ricevuto una medaglia insieme ad Evan Wolfson, il fondatore e presidente di «Libertà di Sposarsi», un’associazione sostenitrice del matrimonio tra omosessuali. Nello stesso giorno Obama ha parlato ad un’iniziativa di raccolta fondi per sostenitori dei diritti degli omosessuali. Infine, il 6 di giugno, il Presidente ha fatto ritorno a Los Angeles per parlare ad un galà a beneficio delle comunità omosessuale, bisessuale e transessuale. Il 20 per cento dei volontari nella raccolta fondi di Obama è costituito da omosessuali e molti di loro sono attivisti. Sally Susman (vice-Presidente di Pfiizer, compagnia biofarmacetica di fama mondiale) ha raccolto almeno 500.000 dollari per la campagna per la rielezione, la stessa cifra raggranellata dal magnate Eugene Sepulveda. È vero che la comunità nera è per la maggior parte opposta al matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma forse la presa di posizione di Obama li dirotterà verso il bianco Repubblicano Mitt Romney?
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Ci sono comunque, indubbiamente, delle ripercussioni politiche negative della scelta del Presidente. Ben cinque senatori democratici in cerca delle rielezione, Joe Manchin (Virginia Occidentale), Robert Casey Jr. (Pennsylvania), Bill Nelson (Florida), Jon Testor (Montana) e Claire McCaskill (Missouri), hanno preso le distanze da Obama; lo stesso ha fatto il candidato al Senato per lo Stato della Virginia, l’ex governatore Tim Kaine. Per quanto concerne i voti elettorali per le presidenziali, lo Stato della Carolina del Nord è stato il 31esimo ad approvare un referendum con larga maggioranza (61-39 per cento) con il quale è stato approvato un emendamento costituzionale che definisce il matrimonio un’unione tra uomo e donna. La Carolina del Nord non è proprio uno Stato tra i tanti, perché ospiterà quest’anno il convegno del Partito democratico; è uno Stato che entrò nella colonna di Obama nel 2008 ed il Presidente vorrebbe mantenerlo nella stessa posizione anche quest’anno. Anche altri Stati hanno approvato simili emendamenti della Costituzione: il Colorado, la Florida, il Missouri e l’Ohio. Sono Stati che hanno un totale di 66 voti elettorali e questi ovviamente hanno la loro influenza sul risultato delle elezioni. In altri Stati, insieme al voto per la scelta del Presidente, si voterà per emendare la Costituzione per limitare il matrimonio alle coppie eterosessuali. Se è vero che il tema dominante delle elezioni del 2012 sarà lo Stato dell’economia, non si può negare che il sostegno o l’opposizione al matrimonio per gli omosessuali avrà la sua rilevanza e chi lo negasse potrebbe farlo a proprio pericolo.
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SINERGIA TRA MOSCA E PECHINO
AFFARI del Caspio di DANIELA BINELLO FU NEL giugno del 2006, durante il summit sui temi dell’approvvigionamento energetico a Pudong (il distretto finanziario di Shanghai), che il presidente Putin lanciò per la prima volta ad alcuni Paesi dell’Asia centrale la proposta di fondare una rete nell’ambito della quale si potessero creare le condizioni per consolidare sinergie e competenze in materia di gas e petrolio. La visione di Putin, sebbene non abbia ancora affondato le sue radici, fu però al centro di un altro vertice della stessa cifra, quello del 23 settembre 2011 in cui i ministri dell’energia di Cina, Kirghizistan, Tagikistan e Russia approvarono il cosiddetto Progetto di Xi’an, al fine di costruire la rete dei Paesi aderenti alla Shanghai Cooperation Organization (SCO). La SCO, fondata nel giugno 2001 a Shanghai, è un organismo intergovernativo che ha ottenuto il consenso dei capi di Stato del Gruppo dei Cinque (Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan). Gli obiettivi della SCO sono molto ampi (molto di più di quelli del Progetto di Xi’an che verte essenzialmente sui temi dell’energia) e vanno dagli scopi politici, per il rafforzamento di un’effettiva cooperazione, a quelli economici, commerciali, scientifici e tecnologici. Con il Progetto di Xi’an si metterà in campo una rete per l’energia, ma è del tutto evidente che da questa rete saranno per così dire «escluse» alcune grandi nazioni della medesima regione, come l’India, il Pakistan, l’Afghanistan e altri Stati confinanti con la Russia, le attuali repubbliche post sovietiche e la Cina. Il Progetto di Xi’an recita nel suo dettato di aver raccolto lo spirito di Shanghai “fondato sulla fiducia, il vantaggio, l’uguaglianza e la collaborazione, nel rispetto della multiculturalità, per la ricerca di uno sviluppo reciproco». Bella frase, ma un po’ generica. In realtà, l’idea del presidente russo è di creare un cartello molto forte che ponga le condizioni per il controllo sul Mar Caspio, sia per quanto riguarda il trasporto delle risorse energetiche, ma anche per quanto riguarda il controllo degli approvvigionamenti, avendo ben chiaro che il «mercato interno», da solo, rappresenta oltre un terzo della popolazione mondiale in un territorio di 30 milioni e 189mila chilometri quadrati (pari ai tre quinti del continente euroasiatico). Perché per la Russia e per la Cina il Mar Caspio è così importante? Il Mar Caspio non è solamente un’area di scambi commerciali, così come avvengono già oggi, ma, vista la ricchezza dei suoi giacimenti, è invece una zona strategica ad altissimo potenziale per lo sviluppo industriale e tecnologico di tutta l’Asia centrale. L’Asia centrale va intesa, perciò, come un centro di produzione energetica emergente, in grado di produrre un’enorme somma di vantaggi sia per soddisfare le esigenze industriali dello Xinjiang (il mercato cinese dell’energia
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è senza dubbio il più stabile e il più vantaggioso), sia per garantire le future riserve strategiche. Per far questo, però, dovranno essere messi in sicurezza i gasdotti e gli oleodotti dello Xinjiang, così come tutto il resto delle infrastrutture (in gran parte ancora da costruire) quali ferrovie, autostrade e fibre ottiche, man mano che le città e lo stile di vita della regione si rivitalizzeranno. L’oleodotto dell’Asia centrale, da ovest a est, se completato e messo completamente in sicurezza, farebbe risparmiare sui costi legati allo sviluppo dell’area, aumentando il prestigio e l’influenza della Russia «occidentalizzata» sull’Asia centrale. In qualità di Paesi membri della rete, i produttori dovranno tenere conto delle esigenze energetiche dei Paesi consumatori. offrendo loro vantaggi e priorità. Peraltro Pechino, con la sua partecipazione alla rete, procurerà alle società cinesi l’opportunità di venire coinvolte nello sviluppo del trasporto di gas e petrolio in Asia centrale, dando vita a un boom commerciale che potrà appianare anche alcuni contrasti con la Russia riguardo al costo dell’energia. Nel momento in cui venisse stabilito un sistema efficace di determinazione dei prezzi, Cina e Russia potrebbero «finalmente» dare inizio a una vera cooperazione e, chissà, anche a molte più cose «da congetturare insieme». Insomma, una Russia con la «C» maiuscola. La particolarità di questa rete, quindi, non è soltanto di essere a due punte di forbice, con dentro altri Paesi a cascata, ma anche di essere l’unica che, a differenza di tutte le altre reti (ad esempio IEA e OPEC), unisce gli interessi dei Paesi produttori con quelli degli Stati consumatori. Ma questa rete basterà a fare funzionare le relazioni fra la Cina e la Russia nell’Asia centrale? Se si pensa che nel 2003 è stato costruito il primo oleodotto transnazionale che collega la Cina con il Kazakistan e che nel 2005 sono iniziati i lavori per la costruzione del gasdotto in Asia centrale e di quello che collega la regione occidentale a quella orientale (due opere che porteranno il gas fino a Shanghai, Jiangxi, Guangdong), la risposta sembra essere decisamente affermativa. Inoltre, nel 2015 sarà finito anche il gasdotto turkmeno e uzbeko, un’opera che porterà in Cina altre decine di milioni di metri cubi di gas. Sono tutti numeri impressionanti che, se li raffrontiamo alle austerità europee per un po’ di neve invernale, fanno davvero rabbrividire. Nell’ottobre prossimo, intanto, Putin dovrebbe convocare per la prima volta a Mosca il gruppo di lavoro principale del Progetto di Xi’an che, facendo combaciare gli interessi nazionali dei Paesi partecipanti, non può che essere destinato al successo, anche se non verrà certo guardato di buon occhio dalle nazioni che finora hanno guidato la governance del mercato dell’energia. Ma il vento sta cambiando e se la Primavera araba avrà un impatto di lungo periodo sul controllo e il prezzo delle risorse energetiche destinate all’Europa, per quanto riguarda il grande mercato dell’Asia centrale il Progetto Xi’an potrebbe dettare le sue proprie condizioni. Gettando uno sguardo al 2011, infatti, si può dire che in quell’anno si è segnato un punto di svolta non soltanto per l’andamento delle dinamiche del mercato petrolifero, ma anche per il modo in cui gli attori di quel mercato interpretano i loro rapporti reciproci, nonché il modo in cui valutano i rischi e le opportunità che scaturiscono dalla ricchezza di possedere il greggio. Il Progetto di Xi’an (o di Putin) sembra avere tutta l’aria di non volersi fare travolgere, impreparati, come lo siamo stati noi.
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LA CRISI DELLA MONETA UNICA
NIENTE EURO siamo Inglesi di GIUSEPPE DE SANTIS PER avere un’idea della gravità della crisi della moneta unica basta vedere come la comunità internazionale ha reagito all’esito del referendum che è stato tenuto in Irlanda il 31 Maggio dove gli elettori si sono recati alle urne per votare sull’adozione del Trattato di stabilità fiscale europeo. Questo trattato ha lo scopo di coordinare le politiche fiscale degli Stati membri dell’Unione Europea ma è stato criticato da molti non solo perché trasferisce decisioni di carattere economico, fiscale e finanziario a oscuri burocrati europei ma anche perché esiste il timore che future decisioni possano imporre ai vari Stati membri misure di austerità che possono aggravare la già pessima situazione economica. Vista l’importanza di questo trattato sarebbe stato logico che l’attenzione di tutti i mezzi di informazione si fosse concentrata sull’esito di questa consultazione che, di fatto, è un parere su tutte le politiche lacrime e sangue che hanno portato molte, troppe persone alla disperazione e causato diverse dimostrazioni, alcune anche violente. L’affluenza alle urne è stata bassa e, a sorpresa, il 60 per cento degli Irlandesi ha votato a favore di questo trattato però questa rara vittoria per gli europeisti è passata quasi inosservata e ha fatto poco o niente per ridurre il pessimismo riguardo al futuro della moneta unica. A questo proposito è interessante notare come molti osservatori diano per scontato che l’euro non sia destinato a sopravvivere e quindi il dibattito è orientato su come minimizzare gli effetti negativi del collasso della moneta unica e questo dibattito è particolarmente acceso in Gran Bretagna, la quale non solo non ha adottato l’euro ma non ha neanche sottoscritto il Trattato di stabilità fiscale europeo. Il primo ministro David Cameron ha sottolineato come il collasso dell’euro possa avere effetti molto negativi sull’economia britannica dovuti in parte al crollo delle esportazioni nell’Europa continentale ma soprattutto al fatto che se la Grecia non onora il suo debito o qualche altro Paese europeo dovesse diventare insolvente le banche inglesi potrebbero a loro volta diventare insolventi con conseguenze devastanti. Queste affermazioni non sono state accolte molto bene dall’opinione pubblica la quale accusa il premier britannico di usare i soldi dei contribuenti per aiutare i suoi amici banchieri. Ad aggiungere benzina sul fuoco è stata la notizia che il governo britannico si impegna a dare decine di miliardi di sterline al Fondo Monetario Internazionale per fornire prestiti ai Paesi dell’eurozona che si trovano in crisi. Se la Gran Bretagna è fuori dall’euro perché i cittadini britannici devono farsi carico del salvataggio della moneta unica? Questa domanda sta creando non pochi grattacapi all’interno del partito conservatore perché rischia di riportare a galla la divisione che c’è nel partito riguardo la questione europea tra coloro che vogliono che la Gran Bretagna esca dalla UE e coloro che invece vogliono una maggiore integrazione.
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Gli euroscettici hanno sempre goduto dell’appoggio dei giornali conservatori e tra questi vi è il Daily Express che da qualche tempo sta facendo una campagna per far uscire la Gran Bretagna dall’Unione Europea e non si è certo fatto sfuggire l’occasione di mettere sotto pressione David Cameron al fine di concedere un referendum per dare l’opportunità ai cittadini britannici di decidere se vogliono restare nella UE o no. La maggioranza dei membri del partito conservatore vorrebbe questo referendum ma la loro richiesta è stata pesantemente criticata dal ministro della giustizia Kenneth Clark, uno sfegatato europeista e lo stesso David Cameron non è mai stato propenso a consultare gli elettori in questa materia. Al momento non è chiaro se e come l’unione monetaria è destinata a sfaldarsi e come questo possa avere effetti nefasti sull’economia britannica ma quel che è certo è che la pressione sul governo è destinata ad aumentare e ogni tentativo di ignorare la richiesta dell’opinione pubblica di avere un referendum sull’Unione Europea rischia solo di aumentare il rischio di rivolte popolari. Certo tali richieste sono state ignorate da molti, troppi anni e non è successo nulla ma la situazione adesso è completamente diversa. Non soltanto il tasso di disoccupazione è molto più elevato e la recessione sta impoverendo parecchia gente ma quello che spaventa è che nessuno vede una via d’uscita e nessuno ha la minima idea di cosa possa accadere se, per esempio, la Grecia esce dall’euro o la Spagna necessita di un piano di salvataggio. Al momento la Gran Bretagna è in una situazione migliore rispetto ai Paesi dell’eurozona ma il vantaggio non è poi così elevato e decisioni politiche sbagliate possono far precipitare le cose. Se c’è qualcosa che caratterizza la Gran Bretagna rispetto agli altri Paesi è un consenso diffuso riguardo ai benefici che ci sarebbero se si uscisse dall’Unione Europea e questo grazie alla presenza di una stampa euroscettica e di tante organizzazioni che per diversi anni hanno pubblicato studi e ricerche che dimostrano come i cittadini e l’economia britannica abbiano soltanto da guadagnare da una fuoriuscita della Gran Bretagna dalla UE. Questo aspetto è estremamente importante perché l’intera classe politica italiana (anche se questo è vero per quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea) insiste nel convincere l’opinione pubblica che non esiste alternativa all’euro e all’Unione Europea e questa convinzione è supportata da tutti i mezzi di informazione i quali hanno avuto un certo successo nell’impedire di far credere che tale alternativa esista. Per questo motivo è radicata l’idea che il Regno Unito sia un mondo a parte e che la sua presenza all’interno della UE ha solo effetti negativi, una idea che non corrisponde affatto alla verità. Certo la Gran Bretagna è un Paese diverso ma lo stesso vale per ogni Paese che fa parte dell’Unione Europea ma i cui cittadini sono tenuti all’oscuro riguardo gli aspetti negativi di questa istituzione autoritaria e antidemocratica e ignorano le intenzioni malefiche dei burocrati comunitari. La crescita dei partiti nazionalisti in tutta Europa è un segno che la gente inizia a capire e a opporsi all’euro e all’Unione Europea però sarebbe ora che iniziasse un serio dibattito sul futuro di ogni Paese al di fuori della UE e questo sarebbe specialmente utile in Italia dove sono ancora in troppi a credere che un’alternativa esista. Sarebbe ora che si prendesse esempio dalla Gran Bretagna.
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SPAGNA E MONARCHIA
LA LEZIONE del Re di GIAMPIERO DEL MONTE FORTI polemiche dopo un viaggio in Africa in cui il Sovrano è rimasto ferito. La crisi si fa istituzionale? Un viaggio in Africa del Re, una caccia all’elefante, una caduta, la frattura di un’anca, il ricovero in ospedale e l’operazione conseguente. Si scatena un’altra caccia, quella al Re, si muove l’inquisizione antimonarchica: che fa il Re? Va a caccia mentre in Spagna c’è la crisi? Perché non ha avvisato? Dovrebbe chiedere perdono. Si scatenano i partiti di sinistra: «Ecco che cos’è la Monarchia, bisogna instaurare la Repubblica, chiediamo un referendum, moralizziamo la situazione del paese…» Juan Carlos ricompare, quando esce dall’ospedale chiede scusa senza attenuanti, attaccato alle stampelle, dice che ha sbagliato e che non accadrà più. Nessuno se l’aspettava, quel-
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sindaci e i presidenti delle autonomie? È tutta una masnada di le parole colpiscono, il Re si rimette al lavoro e riceve il capo politici che volgarmente ciarlano e rimarcano gli errori altrui del governo, il principe ereditario lo sostituisce in varie circoma non impiegano la stessa virulenza nel reclamare atteggiastanze, si fornisce un’immagine di normalità e di impegno da menti di ravvedimento per se stessi e i loro compagni di partiparte di tutta la famiglia reale. to, imputati e condannati per le più ampie malversazioni. La Spagna è in fibrillazione ma rischia di compromettere Il Re ha dimostrato una dignità che loro non hanno, ha il suo recupero. La caccia in Africa del Re può creare qualche dato una lezione ad una classe politica che non ammette mai interrogativo ma è un viaggio privato, non è costato nulla niente. Le sue parole hanno colpito la gente perché non si è all’erario statale ed altre volte il Sovrano è andato a sciare o abituati a sentir chiedere perdono nella vita pubblica. Qualcualtrove, si è anche fatto male ma non è successo nulla. Ora si no voleva che si scusasse in privato, qualche altro voleva che approfitta di ogni indizio per scatenare pregiudizi alla ricerca non lo facesse per niente ed altri ritenevano che dovesse far di un colpevole di tutto. Tagliamo la testa al Re e sfoghiamo passare un po’ di tempo ed aspettare che la situazione si tranla nostra frustrazione. Siamo nel fango, buttiamoci anche lui e quillizzasse. Li ha sorpresi tutti, specie i compagni di Izquierfacciamola finita. da Unida ed altri partiti di sinistra che intendevano continuare Ogni tanto si risvegliano in Spagna tendenze autolesionia speculare sulla situazione. È la dimostrazione di un punto di ste incapaci di mantenere quanto fino allora ha sostenuto la riferimento istituzionale ed emozionale in tempi di grande casa che crollava. Ogni cittadino conosce l’elenco dei servizi avversità. che Juan Carlos ha reso ad una nazione che aveva bisogno di Il principe ereditario Felipe è sempre stato accanto al paricostruire il suo percorso e dalla Costituzione del ‘78 e per dre ed ha seguito passo dopo passo lo sviluppo dei fatti. Il suo tutto il periodo della Transizione ha retto e guidato una nave ruolo cresce. Ha mantenuto nel trambusto gli atti previsti che che aveva bisogno di mantenere la sua rotta per non sprofondoveva assolvere ed ha sostituito il Re nelle circostanze in cui dare di nuovo. Alcuni hanno pensato che tutto fosse superato non ha potuto essere presente per l’incidente subito. I suoi e crescita, sviluppo, concordia ritrovati si possano ora accancompiti, con crescente sicurezza ha continuato a svolgere sua tonare per buttarsi sulla via di una nuova distruzione. La Momoglie principessa Letizia, senza tralasciare nulla. La Regina narchia è stata una delle poche cose che ha funzionato in SpaSofia ha fatto lo stesso, soffrendo in silenzio, ed ha ricevuto al gna. Buttiamo a mare pure questa e distruggiamo tutto. Sono palazzo della Zarzuela la Regina Silvia di Svezia, in visita in impulsi di decomposizione e di smembramento nazionale che Spagna con il Re Gustavo Adolfo, il quale a sua volta ha sotcercano di colpire quel che ancora può salvare l’equilibrio tolineato «il valore del perdono, che bisogna saper dare e sociale. Liquidiamo la Monarchia parlamentare, le nostre saper chiedere». Sono attitudini morali che bisogna rimarcare libertà costituzionali e consentiamo ai cosiddetti movimenti in una situazione politica e sociale complicata. popolari di procedere sulla via della «catarsi» della società. La Spagna vive un momento davvero difficile e si cerca di Tiriamo fuori le bandiere della repubblica migliore che mai montare da parte di alcuni un processo alla Monarchia accusia apparsa sulla faccia della terra, quella che provocò la guerra civile e che in Spagna è stata sempre un insuccesso, quella che ha diffuso il settarismo, la rivoluzione, le tendenze autonomiste catalane e via dicendo. È la repubblica delle illusioni, della perfidia e delle crudeltà che hanno portato il Paese allo sbando più completo ed in nome del quale si vuole colpire un uoRivista Bimestrale mo che sa parlare alla gente, che ha Per nuove sintesi culturali diritto di vivere comunque una sua vita diretta da Fabio Torriero privata e che sa rimanere al di sopra della baraonda dei partiti accesi dalle cupidigie insaziabili e dalle brame di potere. Il Re ha chiesto perdono. Perché adesso non lo chiedono tutti coloro che hanno portato la Spagna al collasso? Non era obbligato a farlo, non c’è una legge che lo induca per forza ad agire in questo senso ma ha risposto all’inquietudine che si era generata. Dove sono i caporioni di quella sinistra radicale protagonista di scandali, abusi e arbitri a tutti i livelli e che ora reclama una «palingenesi» morale? Quei rappresentanti sindacali che hanno assistito alla distruzione di tanti posti di lavoro menRivista Quadrimestrale tre il governo socialista si riempiva le di Geopolitica e Globalizzazione tasche con le varie commissioni, i falsi diretta da Eugenio Balsamo corsi di lavoro e le tante sovvenzioni? Le loro negligenze hanno affossato il mercato del lavoro, imprenditori, operai Via G. Serafino, 8 • 00136 Roma • Tel. 06 45468600 • e-mail: luciano.lucarini@pagine.net e tanta gente al limite della pensione. E i
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mulando fatti come l’incidente del piccolo nipote del Re, Felipe Juan Froilàn, dovuto a uno sparo di fucile e i procedimenti giudiziari contro suo genero Iñaki Urdargarìn, cui si aggiunge ora il viaggio di Juan Carlos in Botswana. È un’offensiva sviluppata dal governo socialista di Zapatero, volto a distruggere i punti di unione e a ricreare le faziosità che alimentano gli scontri per sovvertire il sistema e determinarne un altro favorevole all’accettazione totale di principi abnormi e pseudoprogressisti. Nella Monarchia, però, la legittimità del Re è storica, la sua persona e l’istituzione che rappresenta si sottraggono ai contrasti delle parti politiche ed incarnano una Nazione precedente alle scelte politiche del momento. La Nazione è un’eredità ricevuta dalle generazioni anteriori, bisogna gestirla nel modo migliore e proiettarla nel futuro per quanti dovranno ancora nascere. Se si vuole salvare la Spagna bisogna salvare queste concezioni. Nell’incontro con il capo del governo Rajoy, subito dopo l’uscita dall’ospedale, il Re non ha scartato la possibilità di migliorare l’informazione sui suoi movimenti. Il PP al governo intende lasciare ogni decisione al riguardo nelle sue mani. Il governo appoggerà le misure da adottare ma non se ne farà promotore e non darà impulso a cambiamenti della situazione attuale. L’informazione sui viaggi privati del Re fa supporre che ogni viaggio comporti un dispiego di sicurezza a spese di tutti gli spagnoli, il che è assurdo. Interrogato sul viaggio del Sovrano il governo ha fatto sapere che «conosceva quel che conosceva», ossia dove stava il Re. Le scuse di Juan Carlos sono scaturite dai colloqui con il principe Felipe, che si sta assumendo gradualmente sempre maggiori responsabilità. Fonti della Casa Reale hanno affermato che lo stesso principe ereditario è favorevole alla redazione di uno statuto che regoli le funzioni della Famiglia Reale ed ha deciso di farlo sapere all’Esecutivo. Nulla si farà, però, finché non terminerà il processo in cui è implicato il genero del Re perché ogni alterazione legale rispetto ai membri della Casa Reale potrebbe supporre una perturbazione dello stesso processo, ciò che la Zarzuela non desidera in alcun modo. Terminato il giudizio, il governo manderà avanti questa riforma legale. Intanto, dopo l’operazione subita a seguito dell’incidente in Botswana e dopo aver mantenuto per un mese e mezzo soltanto un’attività ufficiale all’interno del Palacio de la Zarzuela, il Re ha presieduto il due di giugno il Giorno delle Forze Armate a Valladolid ed è partito il giorno dopo per il Brasile al fine di preparare l’incontro dei Paesi iberoamericani che quest’anno si svolgerà a Cadice, in Spagna, nel mese di novembre.
CORINNA SAYN-WITTGENSTEIN, LA COMPAGNA-OMBRA DEL RE JUAN CARLOS
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TRA BUGIE E COMPLOTTI
L’ITALIA arma i suoi droni di MARY PACE NEL CORSO del suo mandato come Ministro della Difesa, Ignazio La Russa di errori ne ha commessi diversi. Nel 2010, in Afghanistan, nel corso di una imboscata dei Talebani, quattro nostri alpini della «Julia» morirono a seguito dell’esplosione che distrusse il blindato «Lince» sul quale si trovavano in servizio di scorta ad una colonna di camion civili. A seguito di questo ennesimo tragico episodio che vedeva coinvolti i nostri soldati, La Russa si attivò presso gli USA per l’acquisto di una serie di droni senza pilota. L’arrivo in Italia coincise con la guerra libica al termine della quale Gheddafi fu ucciso, proprio dopo che la sua colonna fu attaccata da droni americani. L’Italia ha acquistato sei Reaper da ricognizione. Due di essi sono di base presso Sigonella, sede operativa della centrale di controllo dei nostri droni. Gli altri quattro dovrebbero arrivare per la fine del 2012. Ormai lo sappiamo tutti che sono arrivati in Italia e sono stati dislocati in alcune basi militari, nascosti agli occhi dei curiosi. Per ora si limitano a fare soltanto voli di ricognizione, ossia osservare o pedinare qualcuno sospetto. Attivare un Drone per fare il lavoro di intelligence è troppo costoso, sarebbe opportuno ricorrere ai soliti mezzi di uomini esperti del settore, come è stato sempre fatto. L’Italia non è un Paese che può fare la corsa agli armamenti, nonostante la crisi economica già in atto; si fece questo passo gigantesco ed ora ne pagheremo le conseguenze. Tra l’altro i Droni che debbono essere pilotati a terra, hanno necessità di avere piloti esperti e per addestrare le nostre truppe ci vogliono almeno dodici mesi. Alcuni Droni italiani già si trovano in Afghanistan e fu proprio un nostro Drone in attività di ricognizione, che segnalò un gruppo di attentatori che stavano sistemando un ordigno lungo una strada. Ora il Governo italiano ha fatto pervenire la richiesta agli Stati Uniti per poter armare i nostri Droni che sono in Afghanistan. Quello che è lecito è chiedersi perché armare i Reaper o Predator B18 (nome dei Droni) quando combattono una guerra perduta e che al nostro Paese non porterà nulla? Essi non essendo armati non possono svolgere le stesse missioni distruttive di quelli americani ed allora necessitano di missili e bombe per essere operativi al massimo. Al Congresso americano, tenutosi ultimamente, nessuno si è soffermato sul problema, ma al prossimo Congresso che sarà a breve gli USA daranno l’assenso per l’acquisto delle armi da parte italiana. Alcuni membri del Congresso sono favorevoli alla vendita di bombe e missili per incassare milioni di dollari, altri invece, che rappresentano una minoranza, sono contrari che queste nuove tecnologie vengano divulgate anche agli alleati. Per il momento soltanto l’Inghilterra ha usufruito della vendita di Droni equipaggiati di armi.
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I Droni in Afghanistan vengono usati quotidianamente ed è lo stesso Presidente Obama che presenta la lista degli appartenenti ad Al Qaeda da colpire sul fronte afgano, nel vicino Pakistan, nello Yemen ed altrove. Il martedì chiamato «terror twesday» si riuniscono nella «situation room» della Casa Bianca il Presidente, il consigliere dell’antiterrorismo John Brennan, nella CIA da 25 anni, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Tom Donillon e lo stratega politico David Axelrod. In collegamento video con il Pentagono essi vengono informati se qualche personaggio di spicco di Al Qaeda è stato eliminato e chi debbono eliminare. Ultimamente è stato ucciso con un Drone lo yemenita Al Awlaki ed il numero due di Al Qaeda a Kabul, Sakhr al -Taifi. La lista che Obama fornisce ai suoi comandanti si chiama, non a caso, «Kill List». Ma il Drone non può verificare quando vede molte persone raggruppate se sono civili innocui o talebani armati, comunque si preme il bottone e spesso ci sono vittime innocenti, come accadde in Pakistan e nello stesso teatro di guerra afgano. Quando Bush dichiarò che lo scudo spaziale (Progetto dell’ex Presidente Reagan) si era fermato per tranquillizzare il popolo americano, non era vero. Oggi ne abbiamo le prove che nello spazio gli americani ci tengono molto e vogliono essere i primi ad avere bombardieri spaziali. Tom Donnelly, l’esperto di armamenti dell’American Interprise Institute, è uno dei pochi a conoscere bene i misteri del Pentagono. Si sa che è in orbita una navicella o shuttle intorno alla terra,
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ma è stato chiamato il super-drone del mistero. La sua missione rientra nel programma «Prompt Strike» cioè lanciare armi convenzionali ad una velocità ipersonica in qualsiasi momento ed in qualsiasi posto della terra. Tutto ciò significa militarizzare lo spazio e una guerra spaziale porterebbe alla distruzione dei satelliti che hanno un alto valore strategico e sono indifesi, il Drone misterioso servirà proprio a difendere i satelliti. L’esperto Donnelly non esclude una guerra spaziale, ma prima di quella afferma che ci sarà quella cibernetica. Per il momento questa navicella o Drone sorveglia i Paesi nemici come: la Corea del Nord, l’Iran ed altri Paesi. Donnelly aggiunge che il bombardiere X 37B può sostituire le armi atomiche., e se lo afferma lui dobbiamo crederci. Quindi gli USA costruiscono armi sempre più sofisticate e che quasi sicuramente non metteranno sul mercato, ma l’Europa non è rimasta a guardare. Forse non molti sanno che la Germania, l’Inghilterra, la Spagna e l’Italia, si sono impegnati nella realizzazione di un caccia assemblato in mega fabbriche di tutti i Paesi partecipanti al progetto. L’aereo si chiama Eurofigter Typhoon, vola al doppio della velocità del suono ed ogni pilota sogna di salirci. Questo aereo ha molti ruoli ed è ritenuto il più avanzato nel mondo per le sue tecnologie all’avanguardia. È dotato di una capacità offensiva senza pari ed ha altre caratteristiche ineguagliabili. Chissà cosa succederebbe se questi Paesi sopra citati invece di correre ad armarsi pensassero a risolvere i problemi interni dei loro popoli?
TERZA PAGINA SERGIO RAMELLI
Una storia ed un video, che fanno ancora paura di ANDREA NICCOLÒ STRUMMIELLO
QUARANT’ANNI non sono pochi, eppure fa ancora paura. Di che cosa stiamo parlando? Non certo del terrorismo, che pure in questi giorni ha fatto la sua ricomparsa, né della congiuntura economica, che è ciclicamente critica. Ma, di un ragazzo di diciott’anni, o meglio, morto a diciotto anni. Sergio Ramelli, uno dei tanti ragazzi caduti in anni terribili in cui uccidere un fascista non era reato, bensì prassi politica dell’antifascismo, non soltanto extraparlamentare. La storia di Ramelli è emblematica di un clima e di una generazione. Anni che solo chi li ha vissuti sulla propria pelle può realmente comprendere. Per tutti gli altri, da quelli della generazione «del riflusso» negli anni ‘80 fino ai «nativi digitali» del terzo millennio, c’è soltanto il racconto dei vecchi militanti o, al massimo, la lettura di qualche libro sul tema. Magari - oltre al danno, la beffa! - scritti o curati proprio dagli eredi morali e politici di chi l’antifascismo lo praticava nella sua forma militarizzata e violenta: in piazza, nelle scuole o dalle colonne di un giornale. Oggi, invece, possiamo contare su di uno strumento in più per conoscere e diffondere la storia di Ramelli. È il video Milano burning. Storia di Sergio, quasi un’ora e mezza di documentario su quella infame vicenda. Per la sua realizzazione dobbiamo ringraziare Paolo Bussagli, che del documentario è il regista, e che a Ramelli aveva già dedicato l’opera teatrale Chi ha paura dell’uomo nero?. Il documentario è un concentrato di interviste, ricostruzioni tridimensionali, rielaborazioni audio del processo agli assassini di Ramelli, che centra in pieno l’obiettivo: restituire allo spettatore il clima di quegli anni visti, per una volta, non dalla parte della «meglio gioventù», bensì
dall’altra parte della barricata. Il risultato, verrebbe da dire se la vicenda narrata non fosse così tragica, è eccellente e nonostante quello che si potrebbe ragionevolmente pensare, sin troppo equilibrato. Tanto che la sua produzione è stata possibile anche grazie al contributo del Ministero della Gioventù. Ciononostante il documentario, uscito ufficialmente il 29 aprile, data della morte di Ramelli, ha avuto sin ora una scarsa diffusione: presentato circa cinque volte, e soltanto una nella capitale grazie agli sforzi della comunità romana di Raido. Un po’ troppo poco per uno sforzo così intelligente e ben indirizzato, e soprattutto tenuto fuori dal contesto istituzionale e civile che quest’opera meriterebbe. Ecco, perché questa è una storia che fa «ancora paura». A una cronica disattenzione della «Destra» verso la propria storia tanto che personaggi quantomeno ambigui come un Telese possono trovare ampi spazi nel voler raccontare ad essa la sua stessa storia - fa eco il muro di gomma creato intorno al progetto. Si pensi soltanto che il liceo frequentato da Ramelli ha negato alla produzione ogni autorizzazione a girare immagini all’interno della scuola, senza fornire motivazione fondata. Quella stessa scuola da cui quarant’anni prima partì la segnalazione ai capi zona di Avanguardia Operaia affinché quel fascista dai capelli lunghi, reo di non voler dismettere l’impegno militante nonostante botte, minacce e umiliazioni subite, fosse colpito. Parlare di «muro di gomma» non è fuori luogo, né la solita lagna vittimistica di certa Destra. Non lo è perché la gran parte del gotha della Sinistra del tempo non soltanto si schierò a fianco degli assassini, ma anche perché gli stessi dirigenti di Avan-
guardia Operaia, e di altre formazioni radicali, sono poi andati a comporre l’élite istituzionale e culturale di questo paese. L’elenco sarebbe lungo: dal sindaco di Milano Pisapia, già difensore di uno degli assassini di Ramelli, così come l’attuale piediellino Pecorella, fino a Sofri (padre) o il più «raffinato» Carlo Rossella che prima di ergersi a paladino del bon ton, fino al 1974 vergava libri di vera e propria schedatura dei «fascisti». Che tipo di ricezione aspettarsi dunque da questa Italia, governata, rappresentata ed educata da questa generazione? Tra gli assassini di Ramelli, figuravano già dei giovanissimi medici e docenti universitari, non proprio degli operai in tuta blu. Figurarsi «cosa» e «chi» siano diventati oggi i tanti antifascisti di ieri che mai sono balzati all’onore delle cronache per le loro gesta efferate e inutili, ma che pure hanno contribuito attivamente a quella stagione. Delle loro «gesta», appunto, resta oggi una traccia in più, un documentario. Non restituirà a Ramelli la vita, né alla famiglia gli anni di persecuzione subita dopo la sua morte - immondizia gettata quotidianamente sul luogo della morte, lapidi imbrattate, minacce, vita sotto scorta della sorella minore e cambio di residenza per il fratello più volte minacciato - tuttavia, restituirà a chi non ha conosciuto Ramelli uno spaccato fedele e coraggioso della sua storia. Della storia di Sergio.
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CRONACHE DELL’IMMIGRAZIONE
Immigrati e indigeni, tra Milano e Ceppaloni di ALFONSO PISCITELLI Le guide pakistane - Li incontri appena arrivi alla stazione Termini o nella piazze d’arte della Capitale. Ti avvicinano con un sorriso e una gentilezza davvero urbana. Ti fanno capire che loro possono esserti d’aiuto se vuoi conoscere quella che un tempo era la capitale del mondo. Dai depliant che recano in mano e che illustrano i percorsi guidati dell’Urbe, capisci che sono guide turistiche. Piccolo particolare: il colore della pelle, il tipico colore scuro degli asiatici di Pakistan e dintorni. Effettivamente sono pakistani o indonesiani questi «romani di Roma» esperti conoscitori delle ricchezze trimillenarie della Città. Non vogliamo fare della ironia sulla esperienza maturata negli anni da parte di questi presunti conoscitori: in effetti basta poco per prepararsi e diventare guide turistiche. Se poi il ruolo si limita a distribuire volantini e a indicare la scaletta di accesso a un pullman con posti al sole il periodo di formazione diventa ancora più celere. E tuttavia la domanda sorge spontanea: considerando i tassi di disoccupazione italiana è possibile che questi lavori debbano essere integralmente coperti da persone venute non da un’altra provincia, ma da un altro continente? Ormai le facoltà di lettere e filosofia, di scienze della comunicazione, di conservazione dei beni culturali sfornano quasi esclusivamente disoccupati. L’attualità conferma il motto degli antichi latini secondo i quali «Carmina non dant panem», le lettere e i versi poetici non fruttano buoni guadagni, a differenza dei mestieri di elettricista, idraulico, meccanico, falegname, riparatore di caldaie … E tuttavia se qualche giovane, per insopprimibile vocazione umanistica, si è incamminato in quell’iter di studi sarebbe proprio il caso che si proponesse per svolgere il ruolo di guida turistica. Perché allora a svolgere il ruolo sono dei romani così
improbabili come i Pakistani della stazione Termini? Ipotesi numero uno: il lavoro è sottopagato. Ipotesi numero due: ai giovani italiani è mancata la fantasia di inserirsi in questo settore lavorativo ed essi hanno lasciato che gli extracomunitari riempissero il vuoto e si organizzassero per fornire «conoscenze» di storia e civiltà latina. Probabilmente le due ipotesi sono complementari. E tuttavia noi crediamo sempre meno alla storia dei lavori «sottopagati», perché il sottopagato è pur sempre qualcosa di più consistente rispetto allo zero del non-lavoro. Crediamo che agli Italiani sia venuta sempre di più a mancare la predisposizione a compiere lavori che vengono a torto considerati umili. Ero l’estate scorsa in una città importante tanto quanto Roma, per aver dato i natali a un illustre personaggio: Ceppaloni, patria di Clemente Mastella. Tenevamo un convegno organizzato da una associazione che studia l’emigrazione italiana e la mia relazione consisteva nell’indicare le analogie di base e le vistose differenze tra l’emigrazione italiana dell’Otto -Novecento e il flusso migratorio attualmente in atto verso l’Italia. Attorno alla sede del convegno vi era aria da festa paesana. Assente soltanto l’illustre Mastella, giustificato per un improrogabile impegno di presenzialismo matrimoniale. Mentre parlavo, attorno a me vedevo le bancarelle consuete di ogni fiera: bancarelle di giocattoli, di dolcetti, di vestiti a poco prezzo. Ma dietro i banconi in maggioranza erano immigrati. Erano loro che godevano dei proventi del consumismo spicciolo suscitato dalla festa di paese. Da notare: chi gestisce una bancarella non può essere considerato un povero dipendente sottopagato; a suo modo è un piccolissimo lavoratore autonomo. Le spese sono poche, i guadagni non sono così disprezzabili. In epoca di crisi un abitino femminile a 20 euro è qualcosa
Luglio 2012 che tira molto di più che non l’abito firmato di una boutique. In passato vulcanici commercianti con negozi ben avviati non trascuravano di improvvisarsi ambulanti nelle fiere di paese. Erano persone che si umiliavano a fare un lavoro sottopagato? O erano furbacchioni col portafoglio stragonfio di banconote? Rivolgiamo il quesito agli immigrati che si lanciano con entusiasmo in queste attività disprezzate da quegli italiani che nel frattempo si lamentano per la loro ingiusta disoccupazione … Il clandestino Ambrogio - Divertente gaffe di Pisapia: «Anche il nostro vescovo Ambrogio era uno straniero» ha detto compiaciuto l’avvocato comunista accogliendo Benedetto XVI in visita alla diocesi di Sant’Ambrogio. Evidente il contesto ideologico di tale travisamento: se anche l’illustre padre della cristianità milanese era una sorta di «immigrato» allora davvero la deitalianizzazione è il destino doveroso e ineluttabile che attende la grande città del Nord. Ma fulminea è intervenuta la correzione dell’unico vescovo effettivamente «straniero» presente al discorso, Ratzinger, che con il soave accento bavarese che lo caratterizza ha ribattuto: ma quale straniero, Ambrogio era romano … Non soltanto era romano - aggiungiamo noi - ma aveva anche trascorsi da alto funzionario italico dell’Impero Romano. La frase di Pisapia poteva avere un qualche senso soltanto se si suppone che il primo cittadino di Milano si fosse posto nell’ottica etno-nazionalista della Lega Nord: in tal caso si sarebbe potuta considerare coerente l’affermazione secondo la quale il latino Ambrogio era un elemento estraneo rispetto all’humus celtico-padano di Mediolanum. Temiamo invece che l’avvocato comunista abbia confuso Ambrogio con Agostino, che effettivamente era di Ippona vicino Cartagine, nel territorio dell’attuale Tunisia. Volendo essere ancora più intriganti, ci viene il sospetto che nella mente confusa di Pisapia essere un nord-africano nell’antichità corrisponde all’essere maghrebino oggi. Come se Agostino, grande avvocato e quindi collega del Nostro, fosse diverso da quello che era: un europeo di cittadinanza romana, cultura greco-romana-cristiana, lingua latina ed etnia italica stanziato nel NordAfrica …
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CRONACHE DEI «CIRCOLI DEL BORGHESE»
Cosa insegnano le presidenziali francesi di ALDO LIGABÒ IL CIRCOLO «Leo Longanesi» raddoppia. Sabato 26 maggio 2012, presso la sala «Contento» della facoltà di Giurisprudenza di Bari, in collaborazione con la Fondazione «Magna Carta» presieduta dal Senatore Gaetano Quagliarello del PdL , si è svolta la seconda manifestazione promossa dal circolo «Longanesi». Si è trattato di un interessante incontro-dibattito dal titolo: «Il futuro dell’Europa dopo le presidenziali francesi vinte dall’esponente della “gauche” transalpina Hollande». Dopo i saluti di rito del Presidente Aldo Ligabò, dell’editore de Il Borghese Luciano Lucarini e del prof. Michele Buquicchio, presidente del comitato scientifico della sezione pugliese del think-tank del Popolo della Libertà, il convegno è entrato nel vivo. * * * Moderatore dell’evento è stato il valido giornalista e copresidente del circolo, il dott. Mimmo Loperfido, che ha incalzato efficacemente entrambi i relatori: Il Senatore Gaetano Quagliarello e l’acuto direttore de La Destra Italiana nonché docente universitario di comunicazione, Fabio Torriero. Durante i loro interventi è emersa chiaramente una diversità evidente: Torriero è un giornalista, un intellettuale, uno studioso mentre Quagliarello è un politico. Il direttore de La Destra Italiana ha auspicato una evoluzione del nostro sistema politico pur sempre in un ambito bipolare. Per lui non sarebbe un dramma la vittoria alle elezioni politiche della sinistra. Se vogliamo diventare una democrazia matura fondata sul principio del reciproco riconoscimento dell’avversario politico, dobbiamo accettare in maniera consapevole il principio dell’alternanza. Solamente così il nostro Paese potrà crescere non soltanto in termini di Prodotto interno lordo ma
anche di stabilità politica. Certo l’Europa, così come è oggi strutturata, non funziona. Abbiamo una moneta unica ma non abbiamo il resto, cioè né l’unita politica né una comune politica di bilancio. Quagliarello, con grande diplomazia ha incassato le provocazioni bonarie di Torriero ma, inevitabilmente ha confermato la sua natura: cioè quella di essere essenzialmente un politico, che, ovviamente non prende neanche in considerazione l’ipotesi di perdere le elezioni. Sicuramente la parte più interessante del suo intervento ha riguardato la genesi dell’Unione Europea e, soprattutto, la costituzione dell’asse francotedesco che ha dominato la costruzione prima della Comunità Europea e dopo dell’Unione Europea, culminata con l’adozione della moneta unica: l’Euro. Il pubblico, presente in sala, ha seguito con grande interesse l’evento, angosciato dal futuro che ci aspetta, dal terrore che assale ogni cittadino tutte le mattine per l’andamento del maledetto spread (il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e i più affidabili Bund tedeschi), oggi vero termometro
GAETANO QUAGLIARELLO della situazione economica europea. Una cosa è certa: i partiti devono cambiare, hanno l’obbligo di dare risposte concrete ai cittadini altrimenti l’antipolitica cavalcata da Grillo crescerà in maniera esponenziale. Oggi abbiamo un governo tecnico di Unità nazionale, guidato da Mario Monti. Su di una cosa Giuliano Ferrara ha ragione: durante la guerra fredda i colpi di stato si facevano con i carri armati, oggi lo si fa con lo spread, imponendo ad un popolo sovrano, (questo recita la nostra Costituzione), un governo che non passa dalle elezioni. Forse il messaggio delle presidenziali francesi da cogliere è questo: ripristinare il primato della politica sulla Finanza, altrimenti il valore per cui l’umanità ha lottato tanto, la democrazia, non esisterà più.
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IL BORGHESE
Crisi: di che cosa? di FERNANDO TOGNI
CARO Amico Lettore, mi rivolgo proprio a te, direttamente e con i verbi in prima persona, e pregandoti notare in che ordine ho messo i due sostantivi vocativi. Riprenderemo il concetto alla fine dell’articolo: è ciò che spero. Un discorso sotto un titolo come quello posto in testa - già contraddittorio tra una affermazione e una domanda generica ed enorme appare quasi ridicolo per uno scritto giornalistico, poiché lo spazio nol consente. Ci sono argomenti per riempire un libro - molto serio - anzi già tanti libri, sul tema, occupano le biblioteche. Con onestà riconosco che quando avrò dichiarato il «che cosa», potrò suscitare la tua ironia o indignazione. Sappi che ho il massimo rispetto della tua libertà di giudizio e che, in buona fede, cerco esporti la mia opinione con semplicità, al di fuori di scienze difficili e delle relative diatribe dialettiche. La CRISI è oggi una realtà unica e chiara: non soltanto in Italia, o in Europa (l’Europa dell’Unione o quella fuori, costituita dai decisi, o dai desiderosi, o dai raffinati furbastri che tengono un piede dentro e un altro altrove). Così crediamo che sia. Infatti vale per tutti i continenti del pianeta, per ogni razza, lingua, cultura, tradizione, colore della pelle. È una crisi economica: nessuno può negarla. Ma è una conseguenza, non la causa. Le cause possono essere: le risorse, brama, ignoranza, egoismo, stupidità, pazzia. E le risorse sono: petrolio, uranio, ferro, carbone, gas. eccetera (li hai o non li hai).Le braccia non contano più molto, perché ormai anche le piramidi si potrebbero fare a macchina. Si adoperano ancora, ma in prevalenza per gli impieghi più vasti e ingrati di una umanità pericolosamente crescente; o per fare le guerre che non sono più di conquista, ma per tutelare la pace! Però forse pure le arti sono risorse, i sentimenti, l’eroismo silenzioso, la bellezza e - terra terra - anche la salute e la buona volontà. Ma allora la causa più lontana è culturale? No, è un’altra, ancora più profonda. È una crisi religiosa.
E scatta all’istante un automatismo esteriore, benché si tratti d’una conoscenza difficile, irrazionale. Perché appena esprimi un concetto del genere sei subito considerato un eretico da una cultura e da una massa umana che su quel tema accettano per valido un assioma che tale non è. Da cosa può derivare quell’atteggiamento? Sono millenni che l’umanità si fa domande, cerca risposte e confeziona affermazioni sull’argomento. Senza negare la nobiltà dello sforzo e la mole delle tracce che di esso sono state lasciate, confesso umilmente la mia ignoranza specifica, anche se ciò non mi impedisce di vivere la problematica. Chiunque intuisce, e può pure comprendere alla luce di una logica elementare, che se quel preciso tema vien pilotato sui binari di una ortodossia, c’è poco da fare: o sei dentro, o sei fuori. Ma non sono più tempi di monopensiero, e men che meno si può ostacolare la conoscenza in nome dell’ortodossia. La fede è invece parola d’un altro mondo, cioè per la mente una verità irrazionale. Ma ho soltanto la mente come linguaggio (tramite) umano per conoscere: me stesso, e gli altri e il mondo che mi circonda, mettendomi in rapporto con loro. Perciò uso la mente, per capire e farmi capire nel modo più semplice, cioè alla portata di tutti, non esclusivo. RELIGIONE: re-ligo=rilegare= legare insieme. Che cosa? Gli elementi del mistero di esistere: in ogni sua espressione, in ogni tempo, in ogni luogo ed evento particolare, per qualunque essere umano - femminile e maschile - d’ogni estrazione e collocazione. (M’è sembrato giusto oltre che razionale anteporre la donna all’uomo, poiché è la femmina che in via diretta o indiretta dà alla luce esseri vivi.) Tutto ciò può sembrare comunque prevalentemente irrazionale. Ma non è così importante l’apparenza. Mi spiego con un esempio. La parola Amore è forse la più diffusa del linguaggio umano. Concretamente sappiamo cos’è? No. Però possiamo negare la sua esistenza nella vita umana? La chiave di lettura
Luglio 2012 è l’accettazione del mistero, che soprattutto rappresenta non una comoda scappatoia della ragione, ma il fascino d’un esistere: per realizzarsi e continuare a cercare nel buio con la lanterna di Diogene, per dar senso a una meravigliosa avventura, ancorché inspiegabile. È prendere coscienza (ciascuno a suo modo) dell’indimostrabile, cioè di una realtà più vera della sua descrizione: un mondo di armonia, di arti, di emozioni, di sentimenti; un prodigio umano astratto, ma l’unico possibile insieme alla continuità materiale della specie. Ecco, ridare voce, legare insieme nella incomprensibile coerenza dell’infinito tutte queste pulsioni è religione, cioè bisogno spirituale: non paura, partita doppia, antropomorfismo, architettura mostruosa di pensiero. L’émpito, il colpo d’ala sopra abbozzati non sono troppo poetici, sogni: sono piuttosto ciò che a tutti, A CIASCUNO oggi manca; e ognuno li cerca disperatamente, anche inconsciamente. Amico Lettore, sono convinto che tu abbia inteso, non perché è una vita che penso e scrivo queste cose, e nemmeno perché percepisci che ci credo e sono sincero, e nemmeno perché purtroppo sono venute d’attualità. Tu hai captato cosa intendo per crisi religiosa, quale sia il legame tra quello status e la crisi economica mondiale in corso, cioè qual è la lontana causa di essa. Si leggono chilometri di lagne, denunce, proteste, opinioni, proposte, condanne sulle quali tutti, credo, potremmo fare una semplicissima considerazione, invece che parteciparvi. Se si continua a parlarne e non cambia niente, può venire il dubbio che ci sia un difetto in partenza. Intendo dire che le riforme fatte con e per gli stessi uomini non servono a niente; l’unica risorsa è cambiare gli uomini. Che però non sono in vendita nei supermercati, né si improvvisano. Si possono soltanto selezionare nuove sementi, metterle a dimora, curarle con pazienza e tenacia, e vedere se piante diverse danno frutti diversi. È una terapia molto lunga - ne convengo - e che può avere effetti collaterali o controindicazioni verso lati della nostra personalità sociale, quali anarchismo, superficialità, ignorante presunzione impastati col legante di un’ipocrisia calcolata o indotta. Abbiamo enormi qualità, ma è di alcuni difetti che dobbiamo preoccuparci. In questo modo e
Luglio 2012 col tempo perderà valore 1’allegra diceria popolare per la quale ogni Italiano abbisogna di due carabinieri per controllarlo (perché due? perché pure i due custodi potranno controllarsi a vicenda). Navigando tra pagani, animisti, politeisti, monoteisti, gnostici, panteisti, buddisti, taoisti, induisti, atei, materialisti, agnostici; tra ortodossie, dogmi, eresie, liturgie, scismi, editti, abiure, esilii, sconfessioni, assoluzioni, concordati, guarentigie, lungo i pochi millenni di cui abbiamo traccia, documenti, ipotesi, abbiamo incontrato Sumeri, Egiziani, Persiani, Ebrei, Indiani, Mongoli, Cinesi, Germani, Celti, Vichinghi, Greci, Etruschi, Latini, Cristiani, Musulmani, Maya, Aztechi, Incas. Popoli, storia, religioni, civiltà sono cominciate, rifulse, finite. La vita e l’avventura umana continuano. L’inizio di questo terzo millennio che gli Occidentali chiamano cristiano per collocarne la partenza convenzionalmente dalla nascita di Cristo (l’Ebreo Gesù figlio putativo di Giuseppe della stirpe di Davide) chiude la precedente epoca storica, cioè l’età contemporanea dell’evo moderno. E l’avvio di questo futuro è più o meno coinciso con un evento negativo: la crisi economica planetaria. Caro Lettore, io - che sono un Italiano qualsiasi - concludendo non dubito che tu - alla tua maniera - abbia compreso contenuto e forma del mio pensiero. E, come auspicavo, spero avere un amico in più, o almeno non un nemico. Posso aggiungere: «Alla sera NON andavo in Via Veneto», né prima «Vestivo alla marinara». Dopo un certo giorno - infaustamente famoso - andai invece volontario a fare la guerra perché ritenevo che la parte giusta del Muro non sarebbe stata quella che i vincitori stavano sbandierando davanti agli occhi dei perdenti. Adesso infatti stiamo remando nella crisi: economica, di identità, dei valori, delle idee, dei sentimenti; una crisi religiosa. Le guerre sono sempre soltanto tragiche, e le mie ultime righe non vogliono affatto plaudire ai genocidi d’ogni colore. La storia non torna mai indietro, anche se talvolta i corsi si ripresentano. È il senso religioso della vita il sole nascosto oggi. Ma è quando c’è tristezza che occorre rafforzare l’impegno di fede nella vita e in se stessi. Tu Lettore hai inteso. Grazie. Passa Parola.
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Dieci argomenti (da integrare) per una politica (da rifare) DIFFICILE dire se siamo veramente al tramonto della Seconda Repubblica (quella del 1994 dopo «Tangentopoli»), sta di fatto che di fronte alla diserzione delle urne e all’emergere di nuove forme di scomposizione e/o aggregazione del quadro politico locale e nazionale, niente, d’ora innanzi, sarà, a destra e a sinistra, uguale a prima. Non è perciò arbitrario iniziare a pensare ad un «dopo» che è dietro l’angolo (ipotizzando nella primavera del 2013 le elezioni politiche generali), ma che già prefigura importanti rivolgimenti, dentro e fuori i partiti. Che ne sarà del PdL, del Pd, della Lega, dell’Udc? Verso quali orizzonti traguarderanno l’Italia? Dopo il governo tecnico arriverà la Grosse Koalition? E gli elettori daranno il loro consenso o sceglieranno le sirene della post politica (grillina e non soltanto)? Tanti sono i quesiti. Altri ancora ne potremmo formulare, registrando le inquietudini che, in Rete o nei colloqui più diretti, turbano l’elettorato di centrodestra (lasciamo da parte, per carità, il termine ben poco qualificante di «moderati»). Per cercare di riannodare il discorso, che è appena agli inizi, proviamo ad offrire alcuni temi di riflessione, ognuno dei quali può essere declinato e sviluppato in modo più approfondito. Per dirla alla maniera del ‘68 francese «Ce n’est que un debut», non è che l’inizio… Quanto accaduto alle ultime amministrative non può essere letto banalmente come un passaggio di routine, né - per il centrodestra - camuffato dietro la sommatoria tra voti di appartenenza e liste civiche (oggi vince chi lavora «per inclusione», riuscendo a superare vecchi personalismi e logiche ad excludendum). Lo smottamento elettorale non ha soltanto un significato numerico, ma porta con sé gravi conseguenze politiche, sociali e perfino antropologiche (negli ultimi anni il mondo è cambiato, pensare di richiamarsi a suggestioni e modelli vecchi di
vent’anni, la mitica «rivoluzione liberale», significa non avere capito quello che è accaduto). Cambia l’approccio della gente nei confronti della politica, delegittimata dagli scandali e dalle proprie incapacità (al punto da abdicare ad un governo tecnico). Il rifiuto del voto è la più immediata arma di protesta usata dai cittadini elettori, a cui si affianca il consenso dato a liste protestatarie (che non rappresentano soltanto l’antipolitica, ma la domanda di una «nuova politica»). Di fronte a queste trasformazioni, le forze politiche non possono pensare di trincerarsi dietro una persistente autoreferenzialità (fatta di apparati, di lontananza dal Paese reale, di formalismo, di retorica, di bizantinismi). Per essere credibili bisogna dimostrare di essere coesi, portatori di un chiaro messaggio politico, determinati nella sua attuazione. Occorre privilegiare il progetto rispetto alle vecchie appartenenze, ma occorre anche essere capaci di incarnare, in modo credibile, progetti ed idee (e dunque élites nuove, sperimentate sul campo). La gente, oggi, chiede rigore, moralizzazione pubblica e privata, una classe dirigente (politica e non soltanto) in grado di chiedere sacrifici perché pronta a farne. La partecipazione politica è la nuova frontiera dell’appartenenza, realizzata attraverso le nuove tecniche della comunicazione e della Rete. Il «medium» da solo non è però sufficiente, occorre chiaramente individuare gli avversari reali e farsi portatori di un «pensiero forte», in grado di parlare al cuore e alla mente delle persone, che rompa con le vecchie ipocrisie e si faccia carico dei nuovi problemi emersi negli ultimi anni (economia di carta contro economia reale; mondialismo contro territorio; rigore di base contro privilegi di vertice; tecnocrazia contro cultura popolare; speculazione contro lavoro). MARIO BOZZI SENTIERI
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«Rai», ma cos’è questa crisi? di LEO VALERIANO
CHE LA televisione sia in crisi lo dicono soprattutto gli ascolti. Un calo preoccupante che si aggiunge al rosso delle spese e ai conseguenti tagli sui finanziamenti. Ovviamente, questo riguarda anche la Rai che in questo momento è nell’occhio del ciclone. E persino il settore della radiofonia. Figuratevi che Radiouno (l’ammiraglia) non è più la rete radiofonica più ascoltata ed è addirittura finita al 5° posto. Ma non è che nel settore televisivo le cose vadano molto meglio. Le tre reti generaliste vivono una seria crisi di ascolti, come non era mai avvenuto, negli ultimi anni. I dati preoccupanti sono quelli standard giornalieri, quando non ci sono eventi particolari a tenere banco. Prendiamo come esempio una giornata tipo degli ultimi tempi: le tre reti Rai raggiungono il 25 per cento di share, di cui la metà Raiuno. Questa rete, nell’arco della giornata, fa registrare una media di poco più del 15 per cento. Comunque, circa 1,7 punti in più di Canale 5. Sky, invece, riesce ad arrivare quasi al 10 per cento. Raidue è scivolata in sesta posizione tra le tv generaliste, ed è stata superata persino da Retequattro. Settimo posto va a La7, a cui accennerò in seguito. Qualcosa in più, invece, guadagnano le altre reti minori della galassia Rai e Mediaset conquistando piccole fette di ascolti. Come sempre, viene data la colpa ai dirigenti di turno e dobbiamo constatare che (ma non è una novità) si registrano piccoli movimenti di rivolta, all’interno della Rai. Del resto, in tutto il settore televisivo, l’incertezza regna sovrana. Tutto questo movimento deve avere spinto il Presidente del consiglio a quella che molti hanno considerato come una mossa strategica e repentina. Mentre tutti seguitavano a discutere su programmi e dirigenze, il governo, come sanno anche i nostri lettori, ha fatto alcune nomine a raffica. Così,
altri personaggi delle banche e dell’economia sono stati inseriti ad alti livelli di dirigenza. Luigi Gubitosi il nuovo direttore generale della tv di Stato era a capo della Bank of America, in Italia. Invece Anna Maria Tarantola, nuovo presidente della Rai, vestiva gli abiti di vicedirettore generale della Banca d’Italia. Oltre a loro è stato nominato Marco Pinto, come neo consigliere Rai in quota Tesoro. Adesso, naturalmente, toccherebbe alla Commissione di Vigilanza aprire il seggio elettorale per scegliere i sette consiglieri Rai di nomina parlamentare e si sa che i sette membri del CdA dovranno avere il voto della maggioranza di due terzi della commissione, così come il presidente. Il Professore ha detto di aspettarsi dai partiti nomi di prestigio che garantiscano indipendenza e pluralismo. Non ci crede nessuno. Inoltre, come è noto, Pier Luigi Bersani ha confermato che il Pd voterà il presidente come necessario per superare la quota dei due terzi della Vigilanza. Ma anche che i democratici non indicheranno nessun nome per il nuovo CdA. E allora? In teoria nulla vieta a Udc e Pdl di eleggere da soli il nuovo consiglio, anche se sarebbe un CdA fortemente sbilanciato. Al momento di andare in macchina, tutto sembra ancora fermo su queste posizioni, ma ci aspettiamo diverse sorprese, a breve tempo. Sappiamo che, normalmente, le cose si aggiustano con estrema facilità, in quel settore. Va detto anche che, per quanto riguarda il mondo delle telecomunicazioni, sempre su proposta del Presidente del Consiglio Mario Monti, il Consiglio dei Ministri ha designato il Prof. Angelo Marcello Cardani a Presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Costui è un bocconiano di lungo corso, ma anche un amico personale di Mario Monti, con cui ha
condiviso gli anni di Bruxelles. Sarà lui a dover gestire partite delicate come l’asta delle frequenze tv, la regolamentazione del copyright sul web e della nuova rete in fibra ottica e la questione dell’emendamento sull’ultimo miglio della rete di Telecom Italia. Sempre per quanto riguarda la Rai, Monti nella sua qualità di Ministro dell’Economia e delle Finanze ha dichiarato che intende sostenere importanti modifiche di governance che consentano al Presidente della Rai di approvare, su proposta del Direttore Generale, gli atti e i contratti aziendali che, anche per effetto di una durata pluriennale, importino una spesa superiore ai 2.582.284 euro fino a 10.000.000 euro; di nominare, su proposta del Direttore Generale, i dirigenti di primo e secondo livello non editoriali e determinarne, sempre su proposta del Direttore Generale, la collocazione aziendale. Non male, vero? Nell’attività di revisione delle deleghe dovrebbero essere naturalmente coinvolti gli organi sociali e la Commissione parlamentare di Vigilanza RAI. Naturalmente, sull’operato del governo sono piovute critiche da più parti. Antonio Verro, che viene considerato come il vero rappresentante del Pdl nell’attuale consiglio, si è detto in completo disaccordo. Verro, che era subentrato in Parlamento pochi mesi fa e si era subito dimesso per restare in Rai, sarà con ogni probabilità anche nel nuovo CdA. Come dovrebbe restare il centrista Rodolfo De Laurentiis, molto più disponibile ad accettare le indicazioni del governo. Ma sulle caratteristiche dei componenti del nuovo CdA, vi informeremo a dovere in seguito. Intanto sembra essersi risolta la vicenda di Augusto Minzolini, rimosso per il processo a suo carico per peculato nei confronti dell’azienda. Ha ricevuto dal CdA ancora in carica, la nomina alla direzione corrispondenti esteri. La proposta è passata all’unanimità con otto voti a favore. Come ovvio, questa nomina è stata duramente criticata dal centro sinistra. E naturalmente, per tutti, c’è il problema dei palinsesti per la prossima stagione. Oggetto di contrasto è soprattutto quello di Rai2, ritenuto da molti esperti non all’altezza della rete. Al centro delle discussioni in corso, anche il programma informativo del giovedì sera, che doveva essere affidato
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IL BORGHESE
Monti ed il problema «Rai» di MICHELE LO FOCO QUANDO un Paese non è democratico si vede dalla televisione. Non c’è nulla da fare, non c’è tecnica che tenga, non c’è sviluppo che basti. La nostra azienda di Stato è sempre rimasta ancorata alla politica, ma non alla politica alta, di spessore, quella che vuole dare un messaggio alla nazione e pretende il suo megafono. No, magari parlassimo di quel tipo di meccanismo che guarda alle strategie! Qui da noi la politica è quella bassa, che come l’acqua che fuoriesce da un tubo si infiltra in ogni angolo mentre tu sei distratto, la politica del potere più torvo e frazionato. Così ragionando la Rai non è una azienda, ma una federazione di direzioni, ognuna con un riferimento politico, una strategia, i suoi affari, il suo membro nel CdA. Quello che Faucould temeva è esattamente quello che avviene nella televisione di Stato, il potere politico entra nella vita delle persone, le guida, le istruisce, le domina. Non resta nulla della professionalità, al punto che chiunque può fare qualunque attività, dirigere il marketing, l’ufficio stampa, la rete 1, non parliamo della rete 2, un canale tematico. Non conta nulla sapere qualcosa di spettacolo, poter interloquire con i produttori e con gli sceneggiatori, conoscere scene e inquadrature, obbiettivi e tecniche di ripresa. Basta essere un ex onorevole, un ex burocrate di provincia, un attachè politico e conoscere la liturgia dello «spezzatino» e del «ci sono anch’io». Dove sono finiti i Brando Giordani che lavoravano modestamente nell’ombra? Dai e dai si sono esauriti, sono invecchiati, sono andati in pensione. Così dalla nostra televisione sgorgano programmi inutili e fiumi di denaro spesi per far contento qualcuno, mentre gli ascolti crollano e la pubblicità scompare. Non sarebbe più sano, in tale contesto, riportare veramente la Rai al servizio pubblico? Ci sarebbe qualcosa di male se venissero eliminati gli inutili programmi di intrattenimento, creati soltanto per favorire le donzelle di qualche politico, e fossero trasmessi filmati destinati a creare un minimo di conoscenza? Qualcuno protesterebbe se non ci fossero più Vespa o Fazio o «L’isola dei famosi»? Piangerebbero le nostre nonne se le fiction megamiliardarie fossero sostituite da un bel film o da un bel documentario? No, la realtà è che siamo costretti ad assistere allo spettacolo indegno di stipendi faraonici a dirigenti ambiziosi che non vogliono soltanto soldi, ma esserci, comandare e gestire un mondo di attori e di presentatori così attraente per la borghesia che circonda la Rai con le sue spire. Un noto avvocato penalista diceva che se l’energia sessuale che promana dal palazzo di Viale Mazzini potesse essere incanalata e utilizzata, la Rai risparmierebbe i costi dell’elettricità. Non aveva torto, ma purtroppo nessuno è ancora riuscito nell’impresa, e le lampadine funzionano ancora con i sistemi tradizionali. Speriamo che la presenza della Banca d’Italia serva almeno a soffocare i bollenti spiriti e a riportare al centro del discorso il conforto di chi della televisione ha bisogno.
Luglio 2012 in un primo momento a Gianni Minoli e successivamente ad Andrea Vianello. Ma entrambe le ipotesi hanno trovato ostacoli e opposizioni. Parliamo, ora, de La7. Anche qui c’è crisi di ascolti. La rete, che comunque è riuscita cogliere qualche minimo successo, deve decidere se continuare sulla scia intrapresa e poco entusiasmante dei tribuni di sinistra travestiti da comici, o effettuare una vera inversione di tendenza. Per quanto riguarda l’informazione, comunque, dopo la constatazione che la rete stava perdendo diversi affezionati, Enrico Mentana ha annunciato le novità più importanti della prossima stagione. Intanto, Alain Elkann, ha lasciato per sua scelta la testata e l’azienda. Marco Fratini è stato nominato caporedattore economia ed esteri. Tiziana Panella, che ha raggiunto un accordo con l’azienda, esce dai quadri della testata. Intanto, è stato lanciato il nuovo programma di prima serata dedicato ai fatti eclatanti di cronaca affidato a Luca Telese, transfuga da Il fatto Quotidiano. Andrà avanti fino a giugno 2013. Quindi è previsto lo sdoppiamento di Omnibus, trasmissione che raccoglie sempre un certo numero di telespettatori. Oltre all’edizione del mattino, per la prossima stagione, ne è prevista un’altra in terza serata con Andrea Pancani responsabile della fascia mattutina ed Edgardo Gulotta di quella notturna. Una vera novità nel mondo della televisione ci arriva dall’editore Guido Veneziani che ha lanciato sul canale 137 del digitale terrestre il suo nuovo canale «Vero tv» con un palinsesto fatto di almeno diversi programmi molto snelli sullo stile dei talk show e reality show. L’obiettivo dichiarato è quello di superare entro fine anno almeno l’1 per cento degli ascolti. Per il nuovo pubblico tv sono stati pensati, quindi, programmi su moda, benessere, cucina, attualità e vip, viaggi e hobby oltre che consigli pratici per la vita quotidiana; il tutto affidato a Marco Columbro, Laura Freddi, Marisa Laurito, Corrado Tedeschi e Margherita Zanatta. Al di là, della diretta, la programmazione quotidiana riproporrà non soltanto i contributi di diverse trasmissioni classiche, ma anche ulteriori brevi spazi in diretta per collegare i contenuti dei diversi format. La direzione creativa del canale è affidata a Riccardo Pasini del service «Prodotto», mentre come direttore editoriale è stato preso l’immancabile Maurizio Costanzo. Un bell’esempio di novità e di rinnovamento, no?
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IL BORGHESE
LA CASA MUSEO «MARIO PRAZ»
Il grande professore obliato dalla modernità di RICCARDO ROSATI CONOSCIUTO principalmente come padre della anglistica in Italia, Mario Praz (1896-1982) è ricordato anche come un attento collezionista e un uomo dalla leggendaria cultura, la quale spaziava dalla letteratura fino alla storia dell’arte. Il Professore - come veniva chiamato dagli amici - è stato un esteta del gusto ottocentesco, nonché raffinato esperto di antiquariato. Peccato però che gli scritti di questo Grande Italiano, una categoria di intellettuali oggi sconosciuta ed estinta, siano ormai da tempo accantonati, specialmente per volontà di quella sinistra che dalla nascita della repubblica in poi detta legge nelle cattedre universitarie. Uomo scomodo Praz, poiché lui, differentemente dagli accademici organici, non ambiva a nessun potere se non a quello della conoscenza. Lui era quel tipo di uomo universale, figlio del Rinascimento, amante perciò della cultura a 360°. Il Professore, inoltre, era ben poco affascinato dalla modernità e diffidente nei confronti della politica; due «colpe» gravissime che gli hanno fatto fare la fine di tanti altri eccellenti intellettuali nostrani: gli ultimi anni di vita circondato dalla diffidenza e poi il tentativo di cacciarlo nell’oblio dopo la morte. Fortuna vuole che egli ci abbia lasciato una splendida casa museo, la quale serve non soltanto a contenere la sua suggestiva collezione, ma anche e soprattutto a mantenere viva la memoria di uno studioso unico nel suo genere. In Italia vi sono luoghi della Bellezza talvolta negletti dal vasto pubblico. Tale e tanta è la qualità del panorama museale italiano che risulta difficile conoscere tutti i musei del luogo in cui si vive; impresa poi quasi impossibile in una città come Roma. Eppure nella Capitale ci sono piccoli musei che meriterebbero di essere visitati, giacché ogni museo riserva sempre una quantità sorprendente di informazioni. Ciononostante, siamo spesso incantati dallo sfarzo di collezioni imponenti come quelle dei Musei Capitolini o dei Musei Vaticani. Purtroppo questo fa sì che ci
si dimentichi sistematicamente di molti musei meno famosi e che avrebbero invece tante cose da insegnarci. La suggestiva collezione del Museo Mario Praz, ospitata negli storici ambienti di Palazzo Primoli, in via Zanardelli, si attesta come una delle più curiose e interessanti case museo della Penisola. La raccolta venne aperta al pubblico nel giugno del 1995, in seguito alla donazione che lo stesso Praz fece allo Stato, che ne formalizzò l’acquisizione nel 1986. Essa accoglie oltre mille opere ed è il risultato di sessant’anni di appassionata ricerca da parte di Praz. Gli ambienti che ospitano il museo posseggono lo stile di una dimora nobiliare del secolo XIX, arredata in tutti i suoi dettagli con mobili, dipinti, sculture, tappeti, tendaggi, lampadari, bronzi, cristalli, porcellane, miniature, argenti e marmi, che vanno principalmente dal XVIII secolo fino a metà dell’Ottocento. Praz si trasferì al terzo piano di Palazzo Primoli nel 1969, quando lasciò la sua abitazione storica in Via Giulia 147, all’interno di Palazzo Ricci, da lui definita «la casa della vita». La sua raccolta si era, infatti, formata in questo luogo, molto più ampio degli ambienti di Palazzo Primoli. Praz dovette perciò imporsi una sorta di horror vacui, sensazione che si ha visitando il museo, con dipinti fitti alle pareti e libri un po’ ovunque. Se da un lato si percepisce la mancanza di spazi, dall’altro si ha la piacevole sensazione di essersi intrufolati in una casa il cui padrone è andato via da poco. Emozione difficile da provare in un grande museo. Acquistati su gran parte del mercato antiquario europeo, gli arredi offrono una godibilissima panoramica di una filosofia dell’arredamento che spazia dal gusto neoclassico della fine del secolo XVIII, passando per lo stile impero, fino alla più domestica maniera biedermeier che caratterizza la seconda metà dell’Ottocento. Stanze per ricevere e camere da letto, biblioteche, studio e camera da
65 pranzo si offrono al visitatore, accolto come in una dimora ancora abitata, con i fiori freschi nei vasi e i libri aperti sui tavoli. Più che in un museo, sembra di addentrarsi in un sentiero lungo la vita di uno tra i più grandi studiosi italiani del Novecento. Praz non è stato soltanto un ricercatore, ma anche un difensore del gusto borghese della prima metà del XX secolo, cosa che non gli ha certo attirato le simpatie dei cosiddetti progressisti; i quali hanno sì ottenuto di emarginare la sua figura dalle università, ma non dal mondo della cultura, nella quale, almeno per quegli esponenti non ideologizzati, egli è ancora visto come un uomo che incarnava perfettamente il prezioso retaggio ottocentesco nella modernità, oggi completamente dissolto nell’insipido brodo globale. Possiamo considerare il Museo Mario Praz come una delle piccole meraviglie di Roma, esempio eccellente di abitazione che si fonde con i libri che essa ha in parte ispirato, facendo sì che la storia della casa sia indissolubilmente legata alla vita del suo padrone. Nelle sale del museo, il lettore si aggirerà per un luogo «vivo» che ricorda anche una specie di foresta incantata, che un potente artificio tiene divisa dalla volgarità della vita quotidiana, per catturare la esistenza segreta delle immagini riflesse nei suoi tanti libri e nel bel mobilio, ovvero quella di illustri personaggi della cultura europea degli ultimi due secoli e mezzo. Dunque, la visita di questo luogo, come accade spesso per le case museo, non rappresenta soltanto un momento culturale, visto che questa collezione perfora la barriera tra opera d’arte e visitatore. Mentre infatti si cammina attraverso le stanze silenziose e colme di oggetti talvolta persino bizzarri ospitati nell’appartamento di Palazzo Primoli, si ha la possibilità di ripercorrere la vita di Praz, col suo fascino da «schedatore universale», che considerava gli oggetti quale testimonianza del fare dell’uomo, ovvero un pezzo di storia di quella stessa società che ha ispirato tali opere. Così facendo, egli ha permesso una autentica redenzione degli oggetti custoditi nella sua casa e che alcuni visitatori potrebbero troppo celermente liquidare come il risultato dell’eccentrico gusto di un sofisticato e colto borghese. Pur tuttavia, il valore fondamentale di questa collezione è il fatto che in essa pulsa ancora il gusto di una epoca e con esso l’anima materiale dell’essere umano, la quale si trova per l’appunto nelle opere che egli crea per la sua civiltà.
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IL BORGHESE
ANDIAMO AL CINEMA
Il Capitalismo dal volto disumano di ALDO LIGABÒ LA GRAVISSIMA crisi economicofinanziaria che sta sconvolgendo il mondo intero nasce nel 2008, negli Stati Uniti. Nella storia il capitalismo ha sempre vissuto periodi di recessione, seguiti da fasi di ripresa e crescita economica. Sicuramente oggi non è più così principalmente per tre motivi: la globalizzazione, il sopravvento della finanza sull’economia reale ed un comportamento criminale da parte delle grandi banche d’affari e società finanziarie. Un film, appena uscito nelle sale cinematografiche, utile per comprendere meglio questi fenomeni è Margin Call, (in gergo finanziario «ultima possibilità»). Diretto e sceneggiato da J. C. Chandor, narra le vicende di una società finanziaria statunitense ed è ambientato nel 2007 a New York, precisamente a Manhattan. Il film comincia con una spietata ristrutturazione del personale della società, con decine di licenziamenti, tra cui quello del responsabile rischi Eric Dale (Stanley Tucci), che innescherà un escalation finanziaria. Prima di andarsene, Dale affida ad un giovane trader, Peter Sullivan, una sua ricerca sui margini di volatilità dei prodotti finanziari. L’analista, dopo aver studiato la ricerca del suo ex capo, si rende conto del gravissimo rischio che corre la sua corporation. I derivati nel bilancio (della società) sono valutati secondo una equazione sbagliata, non valgono nulla. Se la società non vendesse questi titoli fallirebbe. Sullivan avvisa, nonostante sia notte, il suo capo Sam Rogers (Kevin Spacey). Rogers decide di convocare una riunione notturna con tutti i managers, tra cui una bellissima Demi Moore, che si conclude con la decisione di informare il numero uno della società: John Tuld. La riunione è splendidamente diretta dal regista Chandor, che riesce a trasmettere al pubblico le emozioni dei protagonisti. Tuld (Jeremy Irons), per salvare l’azienda, decide
di vendere questi titoli, sapendo che sono carta straccia e che così ucciderebbe il mercato, tradendo la fiducia degli acquirenti. Tuld chiede a Rogers che sia lui a coordinare le vendite. Rogers accetta quasi costretto ma nella sua coscienza si apre una profondissima crisi. La società è salva ma ormai la crisi è esplosa. Tutto lo svolgersi della vicenda evidenzia alla perfezione il cinismo e la spietatezza del mondo finanziario.
Luglio 2012 Irons e Spacey sono straordinari nell’interpretare l’uno il classico squalo della finanza, che guadagna milioni di dollari speculando sui risparmiatori, e l’altro il manager che ama il suo lavoro, legato alla sua azienda ma, soprattutto, una persona onesta, con un etica professionale, e che non condivide il comportamento criminale del suo capo. Girato con un cast stellare e con soli tre milioni di dollari, il film dimostra che si può fare buon cinema anche con pochi soldi, perché ciò che conta, per la riuscita dell’opera, sono un buon soggetto e una valida sceneggiatura. Per gli appassionati del genere è consigliata la visione del capolavoro Wall Street di Oliver Stone e Too Big to Fail di Curtis Hanson. Il messaggio del film, indubbiamente percepito dallo spettatore, è la minaccia rappresentata dalla finanza speculativa nei confronti sia della società civile sia della comunità politica mondiale.
SOBRIA SOLIDARIETA’ PER I TERREMOTATI Tutta la nazione in lutto per il terremoto in Emilia, nonostante che i morti siano stati un decimo di quelli dell’Aquila e paesi circonvicini. Potrebbe essere anche giusto se: 1) non si sputasse ancora su quel che il governo di centrodestra e Berlusconi in persona fecero per l’Abruzzo, e 2) se il governo dei tecnici si muovesse con solerzia pratica e legislativa. Sembra invece che tutto si sia impantanato e abbia trionfato soltanto la «politica dell’annuncio». Tutti a predicare, anche in questa occasione, la sobrietà, per prima cosa riducendo ad una commemorazione funebre la sfilata del 2 giugno che costerà pure, ma è un simbolo fondante di questa nazione, indipendentemente dalle idee politiche si possano avere (e il sindaco di Roma, Alemanno, ha commesso una idiozia a non presenziare manco fosse un leghista qualsiasi). Si è voluto risparmiare un paio di miliardi rendendola, appunto, sobria senza fanfare, aerei, mezzi corazzati e cavalli. E nessuno ha pensato a granché, a parte l’aumento delle accise sui carburanti per destinarle all’emergenza (crediamoci), o chiedere la solidarietà dei privati con sottoscrizioni tramite giornali e TV. Tutto qui? Ai nostri politici non è venuto in mente altro? Che so: devolvere un mese di stipendio di senatori e deputati alle vittime del sisma. Oppure rinunciare alla rata del finanziamento pubblico dei partiti e destinarlo alla ricostruzione. Nessuno, né di sinistra, né di centro, né di destra, né Di Pietro, né Vendola, ha avuto questa semplicissima idea, che di certo avrebbe avuto un notevole effetto. E il Caro Leader? Il presidente Napolitano non ha avuto l’ardire di dare il buon esempio avanzando questa banale proposta. Lui così attento a certe cose, così pronto a esortare, ammonire, giudicare, redarguire non ha lanciato neppure l’ipotesi: l’avesse fatto per primo chi avrebbe avuto il coraggio di tirarsi indietro? Insomma, una sobria solidarietà. E guai a toccare certi privilegi. In questo caso tutti, ma proprio tutti, d’accordo alla faccia degli italiani, terremotati e non. Però il criticatissimo Joseph Ratzinger, più noto come papa Benedetto XVI, durante la Giornata della Famiglia a Milano ai primi di giugno ha devoluto 500mila euro del suo appannaggio personale ai sinistrati. Si può essere anticlericali quanto si vuole, ma non si può non notare la differenza. Pochissime parole e fatti concreti. G.D.T.
LIBRI NUOVI E VECCHI DI FRONTE AL BARATRO DELLA CRISI
La risposta forte di Alain de Benoist di GIOVANNI SESSA I LIBRI importanti e, più in generale i sistemi di pensiero destinati a lasciare un segno nella storia, nascono come tentativo di fornire risposte chiare, ai problemi di una determinata epoca. Il mondo, e non soltanto la sua area geografica opulenta, l’Occidente, sta vivendo una crisi senza precedenti, epocale. Pertanto, molti tra i commentatori e gli intellettuali, hanno prodotto analisi per comprendere quanto sta accadendo, per individuare possibili conseguenze politiche, esistenziali ed economiche della crisi. La cultura ufficiale e dominante, quella sorta attorno alla difesa dei valori mercantili della Nuova Classe, l’establishment amministrativo ed economico-finanziario del mondo contemporaneo, nel migliore dei casi, è giunta a parlare della necessità di una revisione, di una riforma dei meccanismi che presiedono al modo di produrre e di distribuire merci e ricchezza nel mondo capitalista. Anche esponenti della cultura «alternativa», hanno, il più delle volte, elaborato analisi parziali, incapaci di individuare le vere ragioni della congiuntura attuale e una possibile uscita di sicurezza dal sistema vigente. Unica eccezione davvero lodevole, è rappresentata dal recentissimo libro del filosofo francese Alain de Benoist, Sull’orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro, in libreria per i tipi di Arianna Editrice (per ordini: 051/8554602; redazione@ariannaeditrice.it). Il testo è l’esito di un lungo percorso di pensiero. De Benoist, da tempo punto di riferimento ideale per quanti guardano in termini critici alla realtà contemporanea, presenta una diagnosi e una terapia della crisi. La cultura delle Nuove Sintesi di cui è latore, anche in questo lavoro, fa da sfondo teorico, e si propone come destrutturante la geografia politica consueta,
ormai obsoleta, costruita sulle categorie dicotomiche di destra e di sinistra. Più nello specifico, l’autore suggerisce in queste pagine, di superare la stessa formula «né di destra, né di sinistra», che taluno ultimamente ha riproposto in funzione della creazione di una via di pensiero antagonista, in un più appropriato «e di destra e di sinistra», al fine di individuare una trasversalità ideale più ampia, e nuovi spartiacque ideologici. Comunque, il merito maggiore del libro, ulteriormente impreziosito dalla Nota editoriale di Eduardo Zarelli e dalla prefazione di Massimo Fini, sta nell’aver colto con chiarezza le molteplici ragioni del momento che stiamo vivendo, e nell’averne descritto, in termini storico-statistici, estremamente informati ed alla luce della più recente letteratura specialistica, il carattere unico ed epocale. Le argomentazioni del pensatore transalpino muovono dalla constatazione che, leggere la crisi attuale come crisi ciclica, rappresenta un’insufficienza teorica-esegetica. Infatti, essa è sistemica, e ha tre momenti costitutivi e paralleli: è crisi del sistema capitalista, della mondializzazione liberale e dell’egemonia americana. Più in particolare, de Benoist sostiene che lo sviluppo attuale del capitalismo, si sia definitivamente lasciato alle spalle il momento fordista, la fase nella quale il correttivo «sociale» mitigò, con le politiche di crescita salariale, gli aspetti predatori del capitalismo delle origini. A quest’ultimo, paradossalmente, in un processo di regressione graduale, siamo tornati, a partire dal 1975, anno in cui si chiuse la fase espansiva del secolo XX, indotta dalla politiche keynesiane. Con il pieno dispiegarsi del liberoscambismo, a partire dagli anni Ottanta, epoca del duopolio Regan-Thatcher, si ritorna al capitalismo d’assalto,
dimenticando la pratica degli aumenti salariali. La ripartizione dei redditi tra capitale e salariati, viene intesa come un gioco a somma zero. Ciò che viene guadagnato dagli imprenditori, è sottratto ai secondi. Si tratta del capitalismo «a bassa pressione salariale», descritto da Frédéric Lordon. Nella fase discendente di un ciclo economico, come aveva compreso, già nel 1926, Nicolas Kondratieff, si assiste, al fine di far aumentare i profitti, all’inevitabile finanziarizzazione del capitalismo. Si spiega in questi termini, l’attuale indebitamento degli Stati e dei privati, in quanto il rafforzamento del potere finanziario diventa la leva determinante di ogni strategia mirante ad aumentare la redditività del capitale. Ma ciò conduce, come fatti recenti stanno a dimostrare, alla distruzione generale del valore. Infatti, nello stadio finale le «bolle» speculative esplodono, determinando disoccupazione, fallimenti, drastica riduzione dei consumi. Il capitalismo, posto di fronte alla riduzione tendenziale del tasso del profitto, ricorda de Benoist, ha tre possibili soluzioni: l’allungamento dei tempi di lavoro (che produce effetti perversi sulla vita quotidiana dei singoli e delle famiglie), il ricorrere a mano d’opera a buon mercato, gli immigrati (ciò spiega come l’antirazzismo sia funzionale alle logiche della FormaCapitale), e infine il ricorso al credito. I Paesi occidentali hanno, dalla metà del Novecento, secondo tempi diversi, fatto ricorso alle tre possibili soluzioni, puntando, in particolare, sulla terza. Se il consumo, come è accaduto, viene individuato come il motore della crescita, la gente per poter spendere, in periodo di diminuzione salariale, dovrà essere indotta ad indebitarsi. La solvibilità del debito non è però certa, dato il ristagno e la regressione delle retribuzioni. Ciò fa comprendere come si sia giunti al gravissimo livello di indebitamento delle famiglie americane, pari al 120 per cento nel 2008 e, più in generale, all’indebitamento privato nel mondo occidentale. La situazione è stata aggravata dal fenomeno della «titolarizzazione», che consiste nel tagliare a fette, le «obbligazioni», i prestiti accordati da una banca o da
68 una finanziaria, e nel rivendere l’ammontare ad altri agenti finanziari appartenenti al mondo dei fondi di investimento. Questo mercato del credito, che è un mercato del rischio, ha finito con l’implodere su se stesso nel 2008. Il fenomeno non può, in se stesso, spiegare la gravità della situazione attuale. Bisogna far ricorso alla crisi della mondializzazione liberale. L’ideologia della deregolamentazione ha reso possibile il sovra indebitamento americano. Globalizzazione ha significato, da un lato, delocalizzazione e, quindi, declassamento della produttività reale del mondo occidentale e, dall’altro, organizzazione dei mercati finanziari attorno al polo americano. Il dollaro è stato per lungo tempo, e in parte lo è tuttora, moneta nazionale e sovranazionale. Svincolato dal cambio in oro fin dal 1971, ha rappresentato l’arma di cui gli Usa si sono serviti per esercitare la loro egemonia. Grazie ad esso, gli Stati Uniti hanno venduto il loro debito all’estero. Se oggi il 70 per cento delle riserve estere del mondo è costituito ancora da dollari, segnali provenienti dai Paesi emergenti, dal Brasile alla «Cinindia», stanno a testimoniare la prossima fine di questa centralità. De Benoist, ha pertanto ragioni da vendere, nel sostenere che il dollaro è al centro della crisi. Quando si uscirà dalla crisi? Essa può involvere, come in passato è accaduto, in una situazione di conflitto aperto? Difficile rispondere a queste domande, sostiene il filosofo francese. La guerra è stata lo strumento che, accompagnandosi ai provvedimenti del New Deal, permise al sistema capitalistico di superare la «Grande Depressione», successiva al 1929. La cosa certa, è che la situazione presente ha decretato la fine storica del sistema di relazioni nate nel 1944 a Bretton Woods. Pertanto, oltre a rischi realistici ed evidenti, essa, come tutte le congiunture critiche, potrebbe aprire spazi politicamente interessanti. Potrebbe far riflettere, suggerisce de Benoist, intorno a un possibile ritorno al protezionismo, da intendersi quale strumento atto a stimolare una ripresa della domanda interna dell’Eurozona. Naturalmente, tale rilancio della domanda passa da una crescita del valore dei salari e dalla possibile limitazione delle delocalizzazioni determinate dal dumping (costo del lavoro) del Terzo Mondo. Il protezionismo può svolgere il ruolo di un correttivo par-
IL BORGHESE ziale e limitato, rispetto agli effetti della crisi. Infatti, la Forma-Capitale è qualcosa di articolato e complesso: non è riducibile a una semplice forma economica. Essa produce un’antropologia, un immaginario, quello desiderativo, un modo di vivere ad esso conseguente. Per superare lo stallo contemporaneo è necessario, pertanto, tornare a contrapporsi al capitalismo come «fatto sociale totale». La cosa era stata esemplarmente compresa da Marx, che aveva apostrofato questo modello di civiltà, con espressione forte e realistica, quale «prostituzione universale», in quanto fondata sui processi di reificazione di ogni aspetto del reale. In questo senso, si tratta di superare anche l’incomprensione di fondo, implicita nel marxismo, negante l’immanenza della teoria dell’utilità alla generalità della sfera economica. Sulla scorta di tale errore, Marx ha sviluppato un’antropologia economicista, che rappresenta l’altra faccia della medaglia del capitalismo. Probabilmente, soltanto l’integrazione della vocazione antimercantile del marxismo, con la descrizione della devastazione prodotta dal Gestell, dall’Impianto tecnoscientifico, colta da Heidegger, permette di comprendere la proposta «forte» di de Benoist: l’istituzione di un reddito di cittadinanza. Alternativa alla folle corsa verso l’illimitato e la dismisura, che connota dall’interno il capitalismo stesso. Si tratta di riconoscere ad ogni cittadino, un reddito minimo uguale e cumulabile con qualunque altro reddito, senza detrazione che quella del sistema fiscale in vigore. Idea antica, presente nel Platone de Le Leggi e nell’istituzione della mistoforia periclea, giunta fino a noi attraverso un lungo percorso storico-teorico. È un reddito accordato per il fatto di esistere in quanto cittadini, è un riconoscimento del valore politico e comunitario della vita dell’uomo, che nasce in un approccio al mondo, totalmente scevro dai valori utilitaristici. Strumento pratico, per tentare di imbrigliare le perverse logiche sociali indotte dal capitalismo. In esso, viene meno l’interscambiabilità degli uomini imposta dai processi di alienazione, si sfilaccia l’idea dell’unicità del mondo, cosicché l’appartenenza a un luogo e ad un passato, possono tornare a segnare l’esistere dei popoli. Lo stesso immaginario individuale, può trovare in questa pratica so-
Luglio 2012 ciale, un’occasione di purificazione, perdendo il suo riferimento unidimensionale al consumo, a un «qui e ora» senza consistenza, legato ai desideri immediati dell’infantilismo narcisista imperante. Il capitalismo non può autoriformarsi, ma il suo orizzonte può essere superato riscoprendo rapporti diversi, rispetto a quelli vigenti, tra «l’io e il noi», in cui l’attenzione torni a cadere sul «noi», sul bene comune. Condizioni propedeutiche a ciò, sono la riconquista dell’autonomia esistenziale del singolo, l’aver contezza dell’inadeguatezza delle attuali famiglie politiche, destre e sinistre presenti su piazza incluse, ma soprattutto, aver coscienza della storia come apertura inesausta, come regno del sempre possibile. A chi si rivolge, conclusivamente, questo libro di de Benoist? Si rivolge a un potenziale lettore critico, che di fronte alla miseria dei tempi ultimi, torni ad interrogarsi in modo pressante sulla possibilità di un altro mondo, di un’altra e più degna vita per la Comunità degli uomini. Insomma, le analisi e le proposte del filosofo francese, possono trovare eco e corrispondenza in uomini che, interiormente, non si siano arresi al presente e non vogliono, più in generale, essere partecipi o complici dell’esproprio perpetrato dal capitalismo. Per riferirmi a uno slogan assai diffuso durante la mia giovinezza, ma oggi dimenticato, queste pagine sono un appello coraggioso, informato e accorato, a riprenderci la vita. Facciamo in modo, che esso non si trasformi nell’ennesima vox clamans in deserto.
Luglio 2012
IL BORGHESE
L’INVITO DI MADIRAN
«Ridisegnare» la Destra di MARIO BOZZI SENTIERI COSA resta, alla luce delle trasformazioni non soltanto politiche ma anche antropologiche, dell’ultimo ventennio, dei concetti di «destra» e «sinistra»? L’argomento rischia di apparire usurato, tali e tante sono le proposte interpretative, che si sono via-via affastellate, alla ricerca del classico bandolo di una matassa, in verità sempre più ingarbugliata, che ne citiamo soltanto alcune - ha fissato il discrimine lungo l’asse eguaglianza -diseguaglianza (Norberto Bobbio), emancipazione-radicamento (Dino Cofrancesco), razionalismo politicopaura del disordine (Carlo Galli), fino ad annunciare la fine di questa dicotomia (Alain de Benoist). La bibliografia sul tema viene ora ad arricchirsi di un originale contributo di Jean Madiran, La destra e la sinistra (Fede & Cultura, Verona 2011). Il testo di Madiran, se è una novità per l’Italia, in realtà ha visto la luce in Francia molti anni fa, nel 1977, per le Nouvelles Editions Latines. Per quanto datato, il saggio offre l’occasione per un’ulteriore riflessione sull’argomento, riletto da una prospettiva coerentemente «alternativa». Madiran è infatti uno dei massimi pensatori cattolici d’impronta maurassiana. È - in definitiva - figlio di un’idea nobile ed antica, di una destra controrivoluzionaria, che da un lato affascina per i suoi bagliori inattuali, dall’altra invita ad ulteriori ripensamenti, a partire dalla tesi di fondo dell’autore, secondo il quale la destra è un’invenzione della sinistra e fuori della sinistra non vi è il che il cristianesimo ad offrire una valida risposta alle utopie e al messianesimo politico-ideologico del comunismo. «Lavorare per sostenere l’esistenza di una destra», scrive Madiran, «fosse anche verbalmente, nell’ambito dei concetti, è già fare il gioco della sinistra, poiché precipua specificità della sinistra consiste nell’inventare arbitrariamente l’esi-
stenza della destra e la necessità di combatterla politicamente.» Per quanto segnata da riferimenti legati alla storia francese, l’analisi sollecita una necessità di fondo, di stringente attualità anche per l’attuale stagione politica italiana: «ridesignare» la destra, il suo ruolo, i suoi valori fondanti, evitando di subire le regole imposte dall’avversario. In questo la sinistra, soprattutto quella sostenuta dal potere culturale, dimostra di essere sempre uguale a se stessa, per la sua storica capacità di «inventare arbitrariamente l’esistenza della destra e la necessità di combatterla politicamente». L’alternativa a tale metodologia rivoluzionaria, molto articolata, malgrado gli oggettivi fallimenti del comunismo, può tuttavia passare esclusivamente attraverso la «porta stretta del Cristianesimo»? Per l’autore di La destra e la sinistra il richiamo al cristianesimo immutabile e la ricerca principale del Regno di Dio dovrebbero garantire la soluzione. In realtà, qui il testo di Madiran appare oggettivamente datato, oggi la sfida politica e culturale non può non essere portata a livello di una società desacralizzata e postideologica, a cui gli appelli fideistici appaiono insignificanti e lontani. Ciò - sia chiaro - non significa abdicare di fronte al relativismo contemporaneo, ma certamente individuare idee e programmi in grado di parlare alla più ampia opinione pubblica, dando, da destra, risposte adeguate ai problemi contemporanei. Il che vuole dire rifiutare l’idea di una destra «inventata» da sinistra, e, di conseguenza, elaborare adeguati e credibili modelli alternativi. Appare insomma inattuale, troppo inattuale, l’idea di Madiran e con lui di certo tradizionalismo cattolico, di una destra la cui principale inclinazione sembra essere la conoscenza morale (pressoché immutabile) dell’uomo in generale, piuttosto che la coscienza
69 curiosa, concreta (e mutevole) delle realtà contemporanee. Così come appare lontano il tempo di una destra «di testimonianza», eroica e sentimentale, formalmente anticomunista ma incapace di elaborare e proporre una valida risposta alla sinistra. L’idea moderna e vitale della destra va piuttosto ripensata e «riassunta» nell’ampio retroterra culturale delle destre, nella complessità delle scuole, degli autori, delle sintesi via via elaborate, perfino nelle contrapposizioni di scuola ricordate in apertura, che portano in primo piano fattori valoriali, quali l’antiegualitarismo, il radicamento, l’idea di un nuovo comunitarismo, il senso della nazione, la visione spirituale della vita. In un tempo di passaggio come l’attuale, «ridesignare» una proposta politica non può perciò non passare da questa rielaborazione culturale, in grado di intercettare la complessità di una tradizione spirituale che non può certamente esaurirsi nella mera affermazione del messaggio salvifico, pur senza ignorarlo, affrontando spregiudicatamente le sfide della modernità. Su tutto la consapevolezza - per dirla con Giuseppe Prezzolini - che le vecchie definizioni, di destra e di sinistra, sono necessarie, ma hanno le «braccia corte», riescono cioè ad abbracciare sempre meno la realtà. Laddove, invece, oggi, un’esigenza primaria appare proprio capire ed abbracciare la realtà, la complessità della crisi contemporanea, individuando soluzioni originali, alternative e credibili, perché culturalmente fondate.
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IL BORGHESE
Librido a cura di MARIO BERNARDI GUARDI CHI È per il «nostro mondo» il barone Roman Nikolaus Max von Ungern -Sternberg? Attenzione: quando diciamo il nostro mondo non abbiamo in mente il Partito Popolare Europeo e altre flaccide democristianerie. Non pensiamo di trovarci insieme a dei «moderati», vista la nostra insopprimibile vocazione alla «smoderatezza». Ci offenderemmo se qualcuno ci definisse «liberal-democratici». Reagiremmo con male parole se qualcun altro volesse fonderci/ confonderci con quello che rimane del PdL, un partito che non è mai esistito. Anarchici di Destra? Va già meglio. Fascisti? Neofascisti? Postfascisti? Fuochino. «Al di là della Destra e della Sinistra»? Fuochetto. Il fuoco vero fiammeggia da un’altra parola, preposizione o avverbio, variamente «sostantivati» e di sconfinata, deliberata enfasi: siamo «oltre». Un «oltre» politico-culturale che ha fatto i conti con il Novecento delle ideologie, ha elaborato e superato ogni sua invenzione, provocazione, sollecitazione, e scommette da anni su potenti sfide trasversali dove la memoria storica e l’immaginario hanno uguale dignità. Siamo matti? Siamo matti. Ed è così che nel nostro mondo, ovvero in questo stravagante «paesaggio» dello spirito, non può non «abitare» - miscela esplosivi di avventure e sfide, imprese eroiche e cerche spirituali, sogni e simboli di vastissimo spettro - il «folle» von Ungern- Sternberg. Insieme ad alcuni libri «di culto» che ce ne offrono il fascinoso profilo: da Bestie, uomini, dèi di Ferdinand Ossendovski (1924; Il Basilisco, 1988) al Re del mondo
Vladimir Pozner Il barone sanguinario (Trad. di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti) Greco/Adelphi - 2012 pp. 320, euro 22,00
di René Guénon (1927; Adelphi, 1977) a Un sogno in rosso di Alexander Lernet-Holenia (1939; Adelphi, 2006) ad Al di là della Grande Muraglia, scritto nel 1940 dal giornalista Mario Appelius. Sì, proprio lui, il corrispondente del Popolo d’Italia nonché commentatore politico dai microfoni dell’EIAR, giustamente celebre per l’epiteto «perfida Albione» affibbiato alla Gran Bretagna. Nonché per l’invettiva «Dio stramaledica gli inglesi» con cui chiudeva il suo quotidiano notiziario radiofonico. A presentarlo come un fascista ottuso e fanatico, però, gli si farebbe torto. Infatti, il tonante «megafono del Duce» non era nemmeno iscritto al PNF e se ne vantava; e poi non era davvero il classico funzionario di regime, tutto ossequi e veline. Aveva, anzi, la vocazione dell’avventuriero (insomma, un «fascio-movimentista»). Scappato da casa a quindici anni, se n’era andato in giro per il mondo, visitandolo in lungo e largo. Gli mancava soltanto l’Oceania, ma non disperava di inserirla nel Baedeker. Purtroppo gli andò male: i fascisti lo licenziarono nel febbraio del ‘43; gli antifascisti, nel dopoguerra, lo schiaffarono in galera. Megafono senza più voce, Appelius si spense nel ‘46 a cinquantatré anni. Una storia italiana. Da ricordare rileggendo i libri scritti dall’appassionato viaggiatore. In particolare, Al di là della Grande Muraglia (riproposto col titolo La cosacca del barone von Ungern dalla «Librette di controra» delle Edizioni Ar), dove, per bocca di una nobile cosacca, viene rievocato quel tipo «estremo» che fu Roman: crociato antibolscevico nell’Eurasia del primo dopoguerra, combattente feroce e spietato, mistico e visionario. E già che si parla di eurasiatiche visioni non prive di slanci progettuali ci piace citare una casa editrice di geniacci anticonformisti come la trentina Vox Populi che, tra il 2008 e il 2011 ha pubblicato Imperi delle steppe. Da Attila ad Ungern Khan, Porte d’Eurasia. Il Grande Gioco a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, L’Aquila nel Sole. Leadership e carisma da Kül Tegin a Nursaltan Nazarbayev, con contributi di studiosi come Franco Cardini, Pietrangelo Buttafuoco, Angelo Iacovella, Ermanno Visintainer, Aldo Ferrari, Pio Filippani Ronconi, Daniele Lazzeri, Andrea Marcigliano, tanto per limitarsi ad alcuni nomi.
Luglio 2012 A completare il quadro ungerianeuroasiatico, crediamo faccia una splendida figura il fumetto Corte Sconta detta Arcana in cui Hugo Pratt fa incontrare il Barone col suo (e nostro) eroe Corto Maltese. Ed ecco che adesso, ad aggiungere suggestione a suggestione, arriva il romanzo biografico di Vladimir Pozner Il barone sanguinario. Un intellettuale stravagante, Pozner: di famiglia russa, emigrata negli Stati Uniti dopo il 1917, e in odore di attività spionistica, fu per anni simpatizzante comunista. In seguito «pentito», ma pur sempre con un «retrogusto» di complicità per quella che era ormai diventata una «causa persa». Diremmo - e in qualche modo le pagine iniziali del libro ce ne offrono un riscontro - che von Ungern entra nella sua vita carico della fascinazione esercitata dall’«opposto», soprattutto quando si tratta di un «opposto» di rango, aureolato di forza e audacia, mistero e morte. Il barone - radici germaniche, magiare e vichinghe - è, durante la Grande Guerra, un fiero soldato dello Zar, che sprigiona fascino da tutti i pori («come tutti i guerrieri con intenzione è una figura in sé erotica» ha scritto Anna K. Valerio, curatrice delle «Librette di controra») per la sua straordinaria «irregolarità». Cresciuto in Estonia, che fa parte dell’impero zarista, frequenta la Scuola militare di San Pietroburgo. Di stanza in Siberia, rimane affascinato dallo stile di vita nomade dei mongoli e dei buriati. Sotto le insegne imperiali combatte in Galizia e in Volinia, conquistando onorificenze come la Croce di San Giorgio e la Spada d’onore. Allo scoppiare della Rivoluzione bolscevica, raggiunge l’atamano Semenov nei territori orientali della Siberia, tra il Baikal e la Manciuria, diventando capo di stato maggiore del primo esercito «bianco» e organizzando una divisione di cavalleria composta da mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, tibetani, coreani, giapponesi, cinesi. Il suo ardire è senza limiti come lo sono il suo carisma e la sua crudeltà. I nemici lo chiamano «Barone sanguinario»; per i seguaci è un austero e severo «Piccolo Padre» (come lo Zar). Von Ungern - che si è convertito al buddismo - vuole risalire alle fonti dei grandi maestri dell’India e studia il sanscrito. Si considera una sorta di angelo sterminatore. Dio lo
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ha incaricato di schiacciare il serpente dalle mille teste: il bolscevismo. Lotta senza quartiere, dunque, tra marce forzate e spaventose battaglie. E siccome truppe cinesi, in combutta con Mosca, hanno occupato la Mongolia, von Ungern, il 3 febbraio 1921, ne attacca la capitale, Urga, al comando di quattromila uomini e celebra la vittoria con una strage e un saccheggio che ricordano i terribili fasti di Attila, Gengis Khan e Tamerlano. Venerati maestri, «ça va sans dire». Von Ungern, tra un assalto e l’altro, ha intanto liberato dalla prigionia il Dalai Lama, che gli conferisce il titolo di Primo Signore della Mongolia. Una bella insegna per la sua volontà di potenza. Il Barone, nemico non soltanto del bolscevismo, ma di tutte le ideologie moderne, accarezza il disegno di una grande reazione politica e spirituale, che si fondi sulla restaurazione della monarchia e su una santa alleanza di imperi: quello russo, quello mongolo-manciù e quello cinese. Contro il comunismo e contro l’Occidente «corrotto e avvelenato». La marcia verso la Siberia, dove ad attenderlo c’è il «Napoleone rosso», il generale bolscevico Blücher, all’inizio è coronata da importanti successi. Ma poi, presso Vercheneudjiusk, von Ungern è investito da forze dieci volte superiori. Combatte fino all’ultimo, qualcuno lo tradisce, viene catturato. Blücher gli propone salva la vita se passerà dalla parte dei «rossi», lui rifiuta sdegnosamente e ingoia la medaglia con la croce di San Giorgio per non consegnarla nelle mani dei bolscevichi. Condannato a morte, viene fucilato il 21 agosto 1921. Insomma, la sua epopea finisce così. Chissà… Perché la vita di un uomo eccezionale è inevitabilmente piena di misteri. E tutti i biografi del Barone, qualunque sia il giudizio che danno della sua folle avventura, accennano a varie ipotesi più o meno fantasiose sulla sorte del Guerriero. E anche quando disdegnano, deprecano, demonizzano (ma c’è bisogno di demonizzare un Dèmone? E tra angeli e dèmoni, poi, non corre un’antica parentela?), subiscono l’«attrazione fatale» di Roman - testa piccola, spalle ampie, occhi d’acciaio, capelli biondi arruffati, baffi rossicci, volto magro emaciato. Un’icona bizantina scagliata in faccia alla modernità.
VENTIQUATTRO FINI DEL MONDO
Apocalissi 2012 di MAURO SCACCHI «SE LA visione apocalittica ha a che fare con il giudizio, con il rendere conto e genericamente con la fine, il millenarismo si occupa dei nuovi inizi: ricostruzione e rigenerazione». Così scriveva Eugen Weber, professore emerito dell’UCLA (Università della California a Los Angeles), scomparso nel 2007, nel suo Le Apocalissi, «Profezie, culti e millenarismi attraverso i secoli» (Garzanti, Milano 2000). Le profezie, di ogni tempo e luogo, hanno sempre avuto la caratteristica d’ispirare nelle persone atteggiamenti contrastanti tra loro nei contenuti, ma accomunati nella forma quasi devozionale: vi era chi si martoriava anima e corpo nell’attesa del disastro e chi già pregustava, invece, un’èra di luce successiva alla fine del mondo così come noi lo conosciamo, in ambo i casi mostrando una condizione psicologica incline all’entusiasmo più morboso. La profezia che
oggi giorno va per la maggiore è senza dubbio quella dei Maya, popolo precolombiano e dunque mesoamericano. In realtà, la particolarità della profezia Maya è che non è una profezia. Semplicemente, tutto ruota attorno a un calendario che riporta come data iniziale l’11 agosto 3114 a.C. e come data finale il 21 dicembre 2012 d.C.. Perché tale inizio? Perché, soprattutto, tale fine? Le speculazioni, le ipotesi più azzardate, le fantasie inconsistenti e financo le teorie pseudo scientifiche hanno trovato fertile terreno in cui germogliare. Un calendario termina e, di conseguenza, si può parlare della fine del mondo. Ecco la nascita della profezia. Ecco che, in pieno XXI secolo, l’umanità scientista e tecnologica si lascia irretire da visioni apocalittiche e millenariste, anche se infondate (ma quali non lo sono?, qualcuno dirà). Sull’onda di un interesse ormai dilagante, non fosse altro che
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72 ormai nel 2012 ci siamo proprio nel mezzo, Gianfranco de Turris ha avuto l’ottima idea di chiamare a raccolta una squadra di scrittori per riproporre in maniera originale, brillante e, cosa non di poco conto, culturalmente rilevante, il tema della fine del mondo relativa all’ultima data del calendario Maya. Un divertissement, quello di creare l’antologia di racconti Apocalissi 2012 (Edizioni Bietti, Milano 2012), ma ancor più quello di sfogliarla e di godere delle sue storie; nel nugolo di pubblicazioni che vanno dal palesemente ridicolo al serioso passando per un’ampia gamma di astruse congetture, Apocalissi 2012 non poteva che portare aria fresca in un settore altrimenti saturo, preda quando del catastrofismo più bieco, quando dell’ottimismo più ingenuo dal taglio New Age. «Ventiquattro variazioni sulla fine del mondo», cita il sovra titolo, perché ventiquattro sono i racconti di altrettanti autori. Come si legge nell’introduzione del de Turris, cui si deve la superba cura del tomo: «Ce n’è per tutti i gusti, per chi ci crede e per chi non ci crede, toccando le innumerevoli corde dell’Immaginario; storie fantascientifiche, fantastiche, orrorifiche al limite di un duro splatter; storie enigmatiche e simboliche sino alla metafisica “alla Borges”; storie collettive o al contrario intimistiche; storie di distruzione ma anche di resurrezione; storie ironiche, satiriche e grottesche, ma anche tragiche e senza speranza; storie “realistiche” in cui ci si fa beffe di tanti luoghi comuni, oppure in cui partendo dai luoghi comuni si cerca di giungere a una nuova dimensione dell’essere. Gli interpellati all’impresa si sono messi d’impegno per dar vita a un risultato variegato e originale, almeno così ci pare, soprattutto da parte di quei nomi che potrebbero essere definiti “non addetti ai lavori”, illustri medievisti, filosofi della scienza, biochimici, informatici, sociologi, tutti ovviamente amanti dell’Immaginario e che si sono prestati gentilmente (ma anche con entusiasmo) a questo nostro “gioco”». Non è possibile elencare tutti e ventiquattro i nomi, ma menzionare almeno alcuni dei lavori potrà rendere l’idea del contenuto di questo libro d’eccezione. Antonio Bellomi scrive Finismundi, dove la fine del mondo coinciderà con la fine dell’èra della Chiesa così come noi la conosciamo e così come previsto anche da un’altra profezia, quella di San Malachia.
IL BORGHESE Millenius, di Mariano Bizzarri, descrive un mondo dipendente da calcolatori che funzionano con circuiti al Dna. Un virus portato da una coppia di Catusiani, primitivi abitanti della sperduta isola di Catuso, aggredisce il Dna dei computer e il mondo si ferma; l’umanità riscoprirà, dopo un primo momento di terrore, i benefici derivanti dal vivere in armonia con la natura. Franco Cardini ci porta nella Firenze del 1944, con un racconto elaborato, erudito e coinvolgente, Il Console e l’Anticristo. Il ventenne Attilio Mordini effettuerà uno studio approfondito sul cosiddetto «Manoscritto Latino 666», un codice attorno al quale aleggiano e si raccordano i nomi di Pico della Mirandola, Savonarola, fino a Solovëv, passando per la cabbala e gli Oracula Chaldaica, e che svelerebbe la data della fine del mondo. Un racconto, quello di Cardini, che potrebbe ben inserirsi in un contesto più ampio, ad esempio un romanzo, a guisa di capitolo. In Priorità, Marco Cimmino ci fa entrare negli oscuri meandri di un Ministero; mentre proveremo sempre più simpatia per il Sindaco di un paesino qualunque, che si ostina a non cedere alle lusinghe del potere, del Ministro di turno che vorrebbe corromperlo costringendolo a chinare il capo di fronte alle esigenze d’una politica avida e corrotta, vedremo il cielo crollare e impareremo che sarà meglio prestare più attenzione, d’ora in poi, a chi ci chiamerà al telefono. È di Mario Farneti Niche, un piccolo gioiello fantascientifico, dove la Luna rivelerà i suoi segreti. Ottima idea anche quella di Carlo Formenti, Il broker dei Maya, in cui nel più totale rispetto delle profezie autoavveranti, un discendente dei Maya si prodigherà per realizzare quanto predetto dai suoi antenati. La fine e il suo racconto proviene da quel pozzo di fantasia, venata di psicologia, ch’è la mente di Errico Passaro, e narra il viaggio introspettivo di uno scrittore in crisi esistenziale; alla catabasi, in cui si profila l’annientamento di sé stesso, seguirà un’anabasi mistica, una risalita e un rinnovamento, che si compirà grazie all’aver maturato nuove consapevolezze, compreso il significato di «detonazione spirituale». Pierfrancesco Prosperi ci delizia con Ultimo, storia quasi tragicomica dell’ultimo sopravvissuto al nuovo diluvio universale, che si salva navigando tra i flutti dentro una vasca in vetroresina dell’Ikea; un viaggio folle, descritto con maestria, quasi con umo-
Luglio 2012 rismo, non fosse per l’agghiacciante situazione narrata, spaventosa, che alla fine potrà rattristare gli animi più sensibili, allergici all’idea che, chissà, magari l’umanità è soltanto un esperimento malriuscito. Ambientato proprio tra i Maya all’età dei conquistadores, commuove e incide potente nell’animo del lettore Così parlò Nachi Cocom, narrazione d’esordio - riuscitissimo - di Alessandra Selmi; il vecchio Nachi Cocom accetterà i compromessi con gli invasori stranieri per salvare il suo popolo, ma la vendetta, si sa, è un piatto che va servito freddo, e con una calma sconcertante sarà rivelato ai soldati giunti d’oltre mare il destino riservato ai loro discendenti. Non è possibile ora riassumere ogni contributo presente in Apocalissi 2012, pur tuttavia, per ragioni di rispetto e di meritata stima, è doveroso elencare i nomi dei restanti narratori, ognuno dei quali, col suo stile e la sua immaginazione, apporta un’indiscutibile e continua buona linfa al panorama letterario italiano: Tullio Bologna, Paolo Di Orazio, Giulio Giorello, Francesco Grasso, Giulio Leoni, Giuseppe O. Longo, Giuseppe Magnarapa, Marco Marino, Gianfranco Nerozzi, Bruno Pezone, Maurizio Ponticello, Enrico Rulli, Dino Simonelli, Antonio Tentori e Nicola Verde. In aggiunta, si fa notare che alcune preziose indicazioni sul calendario Maya sono state fornite agli autori da Antonio Aimi, docente all’Università degli Studi di Milano, massimo esperto italiano di culture maya e azteca, al fine di dotare ogni narrazione di un substrato scientifico mirato, utile allo scopo. Gli autori, chiaramente, hanno fatto poi il loro mestiere: inventare e scrivere storie, tanto più piacevoli al palato dell’intelletto, quanto più immaginate e libere da vincoli prefissati.
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I LIBRI del «BORGHESE» Mariano Rajoy Brey Come cambierò la Spagna pp. 190 - € 16,00 «Ho scritto su proposte e misure in un grande ventaglio di politiche: economica e sociale, occupazione, immigrazione, giustizia, interni, famiglia, politiche di eguaglianza, Europa, politica estera e di sicurezza, istruzione e università, imprese ed energia, sport e cultura, sanità, gioventù e anziani… «L’ho fatto attraverso il filo conduttore della mia stessa biografia e della mia carriera politica, degli avvenimenti di politica interna della Spagna e della prospettiva dei grandi cambiamenti che hanno avuto luogo nel mondo negli ultimi venti anni. Basandomi sulle esperienze che durante questi anni siamo andati accumulando come nazione, e io personalmente. «È anche una narrazione sulla storia del Partido Popular, una delle due grandi forze politiche del nostro Paese; una storia che rivela l’impegno perseverante di molte persone per costruire un grande partito integratore, di centro e riformista, in Spagna, portarlo al governo ed ottenere, una volta al governo, una delle fasi di maggior benessere e crescita della nostra storia recente. Non si tratta tuttavia di un obiettivo di partito, bensì di un grande obiettivo comune. «Ho utilizzato tale esperienza di governo e tali risultati per dimostrare che anche ora l’uscita da questa situazione critica in cui ci troviamo è possibile. Lo facemmo una volta, e possiamo farlo di nuovo, con il contributo e il concorso di tutti. Torneremo nuovamente a creare occupazione, torneremo alla crescita economica, all’ottimismo e alla buona salute del paese, ad una presenza più coerente e rafforzata nel mondo, alla tutela del nostro futuro e dei nostri figli. «Sono convinto che ciò sia possibile, che vi sia un futuro. Siamo fiduciosi. Mettiamoci subito a lavorare insieme». MARIANO RAJOY, In confidenza L’esperienza e il programma politico del leader del Partido Popular spagnolo, esposto in prima persona, con
IL BORGHESE chiarezza e persuasione, in un libro di scorrevole e avvincente lettura, pubblicato dalla casa editrice Pagine di Roma nella collana I libri del Borghese, alla vigilia delle ultime elezioni politiche iberiche che lo hanno visto vincitore dopo otto anni di strapotere socialista. Dagli anni della Transizione dal franchismo al sistema democratico e costituzionale - sui quali Rajoy pone l’accento come momento di elaborazione di una serie di regole e di valori condivisi su cui si è uniformata la Spagna democratica e ai quali egli richiama nei periodi di difficoltà delle istituzioni -, passando per i governi socialisti di Felipe González negli anni ‘80, fino all’accesso al potere del Partido Popular nel 1996 con José María Aznar e ai suoi otto anni di governo volti al risanamento e al rilancio istituzionale e di prestigio della nazione spagnola, viene ripercorso il tragitto politico degli uomini e delle forze politiche che diedero luogo prima alla formazione del Partido Popular e, in seguito, ne resero possibile la proficua esperienza di governo. Nelle differenze caratteriali non trascurabili, Rajoy mostra di saper portare in maniera assai disinvolta l’eredità della forte personalità di Aznar, di cui è peraltro prosecutore in merito a una politica caratterizzata da minimo intervento statale, forte impulso al mercato e all’iniziativa privata, rilancio dell’istruzione pubblica e della identità culturale spagnola nell’ambito delle forti individualità autonomiche che contraddistinguono la tradizione federale della Spagna. Ad accomunare i due personaggi è l’esordio lavorativo come funzionari del registro immobiliare, una professione la cui preparazione ha fortemente contribuito a formare il senso del diritto, dello Stato, delle istituzioni e quella sensibilità per il rispetto delle regole che contraddistinguono il programma culturale ancor prima che politico di Mariano Rajoy Brey. Dopo le prime esperienze mosse dall’Autore in ambito politico come consigliere provinciale nella natìa Galizia, vengono ripercorsi gli anni della gestazione del progetto politico del Partido Popular nel contesto, ricco di fermenti e di entusiasmi, della Transizione fino al governo Aznar - in cui Rajoy entra come Ministro della Pubblica Amministrazione per divenirne successivamente Vicepresidente e ministro dell’Interno - e oltre, passando per il difficile periodo di opposizione ai governi di Zapatero che avrebbero formato la preparazione alla direzione del Paese del Partido Popular, pre-
73 miandone la costanza e la coerenza in sede elettorale. L’introverso e riservato esponente politico spagnolo non manca di esaminare, alla luce degli sviluppi più recenti, i cambiamenti intercorsi a livello planetario in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001. A proposito delle sfide imposte da tali cambiamenti epocali, la posizione del leader galiziano è chiara: la globalizzazione in sé non è un male: essa va governata, non subìta, in quanto essa apre alle economie mondiali - e segnatamente a quella spagnola - un vasto ventaglio di opportunità di affermazione e sviluppo. Nell’ambito, poi, delle relazioni tra l’Europa e gli Stati Uniti, Rajoy ripercorre efficacemente le ultime tre crisi economiche mondiali che si sono succedute dal 2001 in poi, sottolineando la necessità di una mutua cooperazione tra i principali attori della politica occidentale - Europa e Stati Uniti, appunto - al fine di arginare i danni di simili eventi recessivi legati troppo spesso ad improvvide speculazioni finanziarie, e di creare gli strumenti che consentano agli Stati di attutire l’impatto sociale di tali episodi. Particolare risalto, inoltre, viene dato al ruolo della Spagna nel mondo, al prestigio internazionale che merita una nazione che, nel corso dei secoli, ha guidato l’espansione verso nuovi orizzonti dell’Occidente e che vuole tornare ad assumere un ruolo comprimario nella politica internazionale. Si tratta del tema della Hispanidad, di quella identità culturale e tradizionale spagnola, cioè, presente nei legami e nella comunanza linguistica con il mondo latinoamericano e del cui rilancio si fa da sempre interprete il Partido Popular. Questa memoria di Mariano Rajoy Brey propone il Partido Popular degli anni Dieci del XXI secolo come forza politica e culturale mobilitante e risponde esaurientemente alle domande circa il suo programma, la sua storia, il suo retaggio. Essa è altresì il resoconto di colui che ha saputo guidare questa forza politica attraverso i difficili anni all’opposizione e ne ha contribuito in maniera determinante a plasmarne le qualità e le capacità che si sarebbero in seguito rivelate essenziali in sede di governo, raccogliendo l’eredità dell’esperienza dei governi Aznar e ripropronendola aggiornata alle nuove esigenze della nazione e dell’economia spagnola. Il suo valore è pertanto quello duplice di compendio di una tradizione culturale e di manifesto programmatico per una attuazione di governo. VITTORIO BONACCI
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«DAMNATIO MEMORIAE» DI PIO XII
È ora di finirla! di GIUSEPPE BRIENZA
NEL 1999 lo storico inglese John Cornwell guadagnò un sacco di soldi con un libro dedicato al «Papa di Hitler», cioè quello che era stato secondo lui Pio XII (cfr. Hitler’s Pope: The Secret History of Pius XII, Penguin, Londra 1999). Guarda un po’ questo volume è stato prontamente ristampato, con una nuova Introduzione dell’autore, subito dopo l’approvazione, nel 2007, del decreto con il quale la Chiesa cattolica ha riconosciuto le «virtù eroiche» di Eugenio Pacelli (1876-1958), con ciò portando Benedetto XVI a dichiararlo finalmente, il 19 dicembre 2009, Venerabile, cioè il «gradino» immediatamente precedente la sua beatificazione. Sul carattere sistematicamente antinazista dell’intero pontificato di Pio XII (1939-1958) ha già scritto, in risposta a Cornwell, il rabbino conservatore americano David G. Dalin (cfr. The Myth of Hitler’s Pope. How Pope Pius XII Rescued Jews from the Nazis, Regnery Publishing, Washington, 2005). Sull’avversione di Pacelli al regime hitleriano fin da quando era cardinale segretario di Stato di Pio XI, però, mancavano documentazioni inoppugnabili cui ora rimediano i tredici volumi dell’archivio del cardinale Isidro Gomá (1869-1940), primate di Spagna durante gli anni Trenta, relativi alla Guerra civile spagnola. Uno dei curatori di questa raccolta inedita di documenti, presentata il 26 aprile scorso all’Archivio Storico Nazionale di Madrid, José Andrés Gallego, professore di ricerca presso il Consiglio Superiore per la Ricerca Scientifica (CSIC nell’acronimo spagnolo, che sta per Consejo Superior de Investigaciones Científicas), ha affermato al proposito: «Non ci aspettavamo di trovare tante testimonianze del cardinale Pacelli contro il nazismo» (cit. in Nieves San Martín, L’archivio del cardinale Gomá e la Guerra Civile spagnola, in Zenit, 26 aprile 2012). Era molto che si attendeva l’apertura e la messa a disposizione per gli studiosi dell’archivio del cardinale Gomá, un fondo di varie migliaia di documenti, fra i quali in più di dieci anni i due curatori spagnoli della mo-
numentale opera pubblicata dal CSIC hanno operato una selezione giunta a termine con il tredicesimo volume, di quasi 500 pagine, inerente il solo periodo gennaio-marzo 1939 [cfr. José Andrés Gallego-Antón M. Pazos (a cura di), Archivo Gomá: documentos de la Guerra Civil, Madrid 2010]. Abbondano nella documentazione di Gomá, le testimonianze esplicite della posizione fortemente contraria al regime ed alla politica nazionalsocialista del cardinale Pacelli in qualità di segretario di Stato di Pio XI (19221939). In particolare Pacelli, assieme al cardinale Giuseppe Pizzardo (18771970), allora membro della Curia romana e di lì a poco Prefetto della Congregazione dei Seminari dal 1939 al 1968, s’impegnò appunto attraverso Gomá per garantire che i vescovi spagnoli diffondessero l’enciclica in lingua tedesca Mit brennender Sorge («Con viva ansia»), del 14 marzo 1937, nel quale Pio XI denunciava l’incompatibilità tra i presupposti razzisti e pagani del nazionalsocialismo ed il cattolicesimo. La questione, ha commentato in una recente intervista il prof. Gallego, si presentava allora alquanto delicata: «primo, perché i nazisti erano alleati di Franco, secondo, perché la diffusione dell’enciclica coincise con la decisione di Franco di unire Falange e Requeté in un solo partito e, poiché molti degli uni e degli altri la accettarono malvolentieri, si temeva che l’enciclica venisse interpretata come un rifiuto della Falange; infine, perché c’erano dei vescovi che pensavano - e lo dissero a Gomá, nella corrispondenza privata - che il tema dell’enciclica non aveva nulla a che fare con la Spagna. È stata ritardata per questo, per scegliere il momento migliore. E furono i gesuiti della rivista Razón y fe che costrinsero Gomá ad accelerare la pubblicazione; gli spiegarono che in Razón y fe venivano pubblicate tutte le encicliche del Papa e che non avrebbero fatto alcuna eccezione» (cit. in N. San Martín, art. cit.). Tale comportamento della rivista Razón y Fe (Ragione e Fede), pubblicazione «corporativa» della Compa-
Luglio 2012 gnia di Gesù in Spagna, analoga all’italiana Civiltà Cattolica appare, allo stesso tempo, significativo per comprendere l’origine e lo svolgimento degli eventi e, paradigmatico del pensiero cattolico tradizionalista dell’epoca. Razón y Fe, infatti, durante gli anni 1930 aveva elaborato, come documentato in un mio recente studio (cfr. Il Clero durante la «guerra civile spagnola»: la rivista Razón y Fe, in Nova Historica. Rivista internazionale di storia, anno X, n. 38, Roma lugliosettembre 2011, pp. 55-73), un’articolata ed incisiva «risposta» della dottrina cattolica tradizionale alle teorie ed alle prassi rivoluzionarie che, nella Spagna del tempo, erano incarnate dai socialcomunisti, anarchici e massoni promotori degli atti e delle Istituzioni della seconda Repubblica spagnola (19311939). Il fatto che Razón y Fe fu l’unica rivista a diffusione nazionale a pubblicare, sebbene oltre un anno dopo la sua uscita, cioè nel maggio 1938, quella enciclica che, fin dalla sua più corretta traduzione italiana del titolo, Con viva preoccupazione (anziché «ansia»), manifestava chiaramente l’atteggiamento della Santa Sede riguardo agli eventi politici che accadevano in Germania, non significava affatto che il clero dell’epoca, in questo caso rappresentato dai gesuiti, venisse meno alla fiducia fino allora riconosciuta al Generalissimo Franco, che non aveva autorizzato la diffusione dell’enciclica di Papa Ratti nei territori controllati dalle forze nazionali solo a motivo della congiuntura politica e bellica del momento. È significativo, a questo riguardo, l’editoriale del primo numero di Razón y Fe uscito a Burgos (allora sede del governo dei nacionales) che, così descriveva la situazione ad un anno dall’inizio della guerra civile: «Dopo un anno di forzato silenzio, Ragione e Fede torna in comunicazione con i suoi lettori. Il glorioso Movimento nazionale ne ha attirato la Redazione da Madrid, dove si trovava impantanata nella incertezza e soggetta a pericoli continui [la battaglia per la conquista franchista di Madrid sin svolse da novembre 1936 al febbraio 1937], beneficando la amorevole provvidenza del Signore con l’aprire ad alcuni dei suoi redattori le porte della libertà. Ad alcuni solamente, però, perché altri o sono già caduti abbracciando un glorioso martirio, o sono ancora esposti a costante minaccia della loro vita» (Razón y Fe a sus lectores, in Razón y Fe, tomo 112, n. 476, Burgos settembre 1937, p. 5).
Luglio 2012
SCHEDE Ettore Beggiato Lissa (1866). L’ultima vittoria della Serenissima Il Cerchio (collana Gli archi) - ill., brossura - 208 p. - € 15,00 Molti anni fa rimasi affascinato dalla lettura di un testo poco citato di Prezzolini (ora rintracciabile in versione pdf) Dopo Caporetto in cui emerge un’analisi della natura del nostro popolo e della «sostanza» delle nostre classi dirigenti che anche oggi appare attuale. Certo in Prezzolini emerge un amore, sofferto, per l’Italia che non si trova in Lissa, l’ultima vittoria della Serenissima (20 luglio 1866) di Ettore Beggiato (fondatore della Liga Veneta e poi deputato regionale e assessore della regione Veneta nel periodo 1985-2000) che pure è utile ai fini di questa analisi. Beggiato infatti si riconosce e ama il popolo veneto e la sua storia e la sua cultura. Ma ciò amplifica l’interesse del testo - edito da Il Cerchio - che analizza in modo documentato e spietato la sconfitta di Lissa un episodio, come osserva lo storico Denis Mach Smith, «di guerra civile» perché come scrive Sergio Romano «le navi appartenevano a due Paesi nemici, ma gli equipaggi parlavano italiano, con una prevalenza di genovesi, piemontesi e napoletani da una parte, veneti e dalmati dall’altra: e gli ordini, naturalmente, venivano dati in italiano». E su questo carattere della flotta dell’Imperial Regia Veneta Marina insiste Beggiato che ne analizza la diretta discendenza dalla marineria veneta, la preponderanza del personale veneto-dalmato nei quadri e negli equipaggi, sull’uso dell’italiano/veneto nei rapporti. Tanto è vero che viene ricordato come l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, assassinato a Sarajevo, non sapeva dar del tu ma usava la forma «Lei la sa». Come è da ricordare che all’affondamento della corazzata Re d’Italia si levò possente dalle navi di Tegetthof il grido «Viva San Marco». Assai interessante anche l’analisi del «dopo Lissa» con una particolare attenzione al plebiscito (numerosi i
IL BORGHESE dati storici ma, francamente, non sorprendenti per chi ricordi il colloquio tra il principe e Don Ciccio ne Il Gattopardo) e i dati, terribili, dell’emigrazione veneta negli anni fino al 1900 percentualmente ben più massiccia di quella meridionale. Non privo di interesse il racconto di Lissa dalla parte della Marina unitaria: l’eroismo di Faa di Bruno e il posizionamento dell’Ammiraglio Persano - abbandonata la Re d’Italia - al di fuori della linea di battaglia, le prudenze dell’Ammiraglio Vacca e le sue spietate accuse al Persano, la sentenza dell’Alta Corte con la perdita, per il Persano, del grado e della pensione, l’offerta di una somma di denaro da parte del Re e il rifiuto di Persano. E non dimentichiamo episodi assurdi, ma che purtroppo appaiono anch’essi attuali, come il fatto che il ministro non aveva disponibilità di una carta di Lissa e autorizzava Persano «a qualsiasi spesa» per procurarsela. La sensazione è che manchi nella nostra cultura antropologica la capacità di comprendere il senso profondo di episodi come la trattenuta economica di cui fu oggetto Tegetthof per aver fatto distribuire vino agli equipaggi dopo la battaglia, E questo testo può contribuire ad aiutare a sopperire a questa mancanza. MAURIZIO BERGONZINI Massimo Fini La guerra democratica Chiarelettere, 2012, 289 p., € 14,90 Le posizioni controcorrente di Massimo Fini contro l’ipocrisia dei media nel presentare all’opinione pubblica ogni guerra, camuffata con propositi ora umanitari ora donchisciotteschi, vengono da lontano. Ne La guerra democratica l’intellettuale lombardo ha raccolto articoli ed editoriali - pubblicati su periodici come L’Europeo o L’Italia settimanale e su quotidiani che vanno dal Gazzettino al Fatto Quotidiano - che analizzano gli ultimi otto conflitti di rilevanza internazionale degli ultimi vent’anni: guerra del Golfo (1991), Somalia (1992), Bosnia (1995), Serbia (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Somalia ed Etiopia (2006), Libia (2011). Da questa rassegna emerge un filo rosso come grimaldello per «bypas-sare» il diritto internazionale: i diritti umani. Su questo tema gli scritti di Fini si incontrano con le
75 analisi del filosofo francese Alain de Benoist, perché entrambi hanno messo in risalto come «la guerra democratica» la si combatta senza dichiararla, utilizzando perifrasi che ne celano i fini economicistici legati ad una nuova declinazione dell’imperialismo americano: «operazioni di polizia internazionale» o di «peacekeeping» che cancellano o superano le prerogative degli Stati sovrani. Il passaggio successivo è la criminalizzazione del nemico di turno, non secondo il canone schmittiano che prevede lo «justus hostis», ma descrivendolo come un terrorista, un assassino, un torturatore. E in questo identikit sono finiti leader politici e capi di Stato come Saddam Hussein o Slobodan Milosevic che, soltanto qualche anno prima di finire nel mirino dei giustizieri internazionali, erano alleati affidabili per mantenere specifici equilibri geopolitici. Per Fini questo interventismo armato, legato ad un uso quasi esclusivo dell’aviazione per vincere la resistenza degli insorti, sottende all’esistenza di «una sorta di Santa Inquisizione planetaria», incentrata su un totalitarismo democratico che cerca di imporre con la forza un decalogo di valori occidentali a popoli che hanno differenti tradizioni millenarie altrettanto rispettabili. La riflessione sul tema della guerra capovolge anche molti luoghi comuni degli occidentali, «non più abituati al combattimento in senso proprio. Lo scontro ravvicinato, il corpo a corpo, la vista del sangue gli fa orrore». Risalta chiaramente, infine, che in Afghanistan o Iraq di fronte ai soldati delle coalizioni umanitarie non ci sono mostri, ma «uomini armati quasi solo dei loro corpi, del proprio coraggio, della feroce determinazione a difendere i propri valori, giusti o sbagliati che siano e che si implicano totalmente». MICHELE DE FEUDIS Nino Galloni Chi ha tradito l’economia italiana? Come uscire dall’emergenza Editori Riuniti, 2012 - 116 p. - € 15 Stiamo assistendo, vivendolo, al maggiore episodio di impoverimento di taluni ceti sociali in tempo di pace e senza catastrofi naturali. Ormai nessuno può dubitare che non ne usciremo con le ossa pestate. Sono di un pessimismo onesto. Voglio dire: chi è onesto vede nero perché
76 vede il nero dei disonesti. Voglio dire: non è che i fenomeni economici si giudichino eticamente, ma quando la disonestà causa malanni economici, il giudizio economico si congiunge a quello etico. Vi è «anche» un proposito in questa crisi, l’ho definito, su questa spregiudicata pubblicazione, Il Borghese, il «profitto interno». Abbassare stipendi e salari reali, accrescere l’età dei pensionati, catastrofizzare le pensioni, togliere lacerti dello Stato Sociale, rendere i giovani base di una derelitta disponibilità a qualsiasi lavoro con qualsiasi salario e con in tasca la licenziabilità appena cominciano a lavorare, togliere il respiro con l’accrescimento di ogni tassazione o pedaggio, costruire sulla palude. Si taglieggia il connazionale essendo incapaci di concorrenza internazionale. Come ormai sanno tutti gran parte del danaro tirato a morsi dalla società viene concesso alle Banche, allo scopo di «ripianare» le loro deficienze. Ma per quale sciagurata causa le Banche sono in tali condizioni afflittive? Si può capire o dobbiamo prenderne atto e coprirle di moneta, così, perché altrimenti fallirebbero? Possiamo capire, spiegare perché fallirebbero o falliscono e che compiono con il «nostro» denaro? Di solito, chi fallisce è un incapace. Nel caso delle Banche, chi fallisce o sta sul fallire viene soccorso. E almeno servisse. Dopo qualche anno, ritorna il rimosso... Nino Galloni nota che la confluenza tra Banche di speculazione e di credito ha sorpassato il confine che escludeva le Banche dalla speculazione, e lo sappiamo, aggiunge, ed è opportuno, che «la pretesa di ottenere, promettere o fornire rendimenti dalle attività finanziarie puramente speculative superiori a quelli dell’economia reale e agli stessi tassi di sviluppo, è la causa determinante l’origine dello squilibrio». Il che, oltretutto, suscita operazioni sbagliate o corrotte, e denaro all’aria. La classe politica odierna non viene a capo, in quanto è impastoiata con le Banche. Galloni invoca disciplina, regole; considera il «rigore» assoluto depressivo, giudica opportuno evitare che le spese di investimento siano considerate al fine del pareggio di bilancio. Ma la notazione più radicale del testo è da riferire: «…e se l’obiettivo (dei cosiddetti poteri forti internazionali) fosse
IL BORGHESE proprio la catastrofe finanziaria per evitare una crescita nello sviluppo umano e politico delle persone e degli Stati?» E per avere a disposizione milioni di disgraziati disposti a lavorare per niente e Paesi disposti a offrire i loro patrimoni a minimi costi? Questo lo aggiungo io. ANTONIO SACCÀ Alfio Caruso Milano ordina uccidete Borsellino Longanesi 2010 - 356 p., € 15,00 Il 1992 è stato un anno drammatico per il nostro Paese. A febbraio, a Milano, vi fu l’arresto del «mariuolo» Mario Chiesa, che diede l’inizio all’inchiesta «Mani Pulite» della Procura della Repubblica meneghina che travolse la cosiddetta «Prima Repubblica», retta dal Pentapartito formato da Dc, Psi, Pli, Pri, Psdi. Nei mesi che precedettero le uccisioni dei magistrati Falcone e Borsellino si respirava un’aria foriera di tragici avvenimenti. È cosi fu. Milano ordina uccidete Borsellino, scritto da Alfio Caruso e edito da Longanesi, è un libro sconvolgente, che ogni cittadino italiano dovrebbe leggere per cercare di comprendere la genesi della stagione delle stragi, che ha sconvolto l’Italia tra la primavera del ‘92 e l’estate del ‘93. «U curtu», al secolo Salvatore Riina, aveva deciso di sfidare lo Stato italiano con una strategia terroristica e spietata. La Prima repubblica, sotto le inchieste della magistratura di mezz’Italia, stava crollando e molto probabilmente i referenti politici di «Cosa Nostra» non erano più in grado di mantenere le loro promesse. A marzo, a Palermo, fu assassinato Salvo Lima, considerato il proconsole di Giulio Andreotti nella regione siciliana. All’epoca, i nemici più acerrimi della mafia, comandata dai corleonesi di Riina e Provenzano, erano i due magistrati, nonché amici d’infanzia e per la pelle, Falcone e Borsellino. Entrambi avranno il loro appuntamento con la morte rispettivamente il 23 maggio e il 19 luglio di quel maledetto anno. Falcone collaborava con l’allora ministro di Grazia e Giustizia Martelli, per cui spesso era a Roma. Il ministro socialista era intenzionato a nominare Falcone a capo della Direzione Nazionale Antimafia, struttura creata, assieme alla Direzione Investigativa Antimafia, dal governo presieduto da Giulio Andreotti. Falcone sapeva di essere nel mirino del-
Luglio 2012 la mafia. Un primo attentato, quello dell’Addaura del 1989, era fallito, seppure in circostanze misteriose. Ma la mafia non sbaglia una seconda volta. A premere il telecomando dell’esplosivo, che fece saltare in aria Falcone, la moglie e la scorta, nell’«attentatuni» di Capaci, fu Giovanni Brusca. La spettacolarità dell’attentato fu una precisa volontà di Riina. Dopo la morte di Falcone, Borsellino ne aveva raccolto il testimone. Il magistrato sapeva di essere un morto che cammina, sapeva che presto sarebbe toccato a lui. A distanza di diciotto anni ci sono molti punti oscuri sulla strage di Via D’Amelio. Gli investigatori, cui furono affidate le indagini dalla Procura di Caltanissetta, erano guidati dal capo della squadra mobile della questura di Palermo Arnaldo La Barbera. Le prime conclusioni a cui giunse La Barbera furono due: qualcuno aveva avvisato i killer degli spostamenti di Borsellino e chi azionò il telecomando non poteva trovarsi nelle vicinanze di Via D’Amelio, altrimenti sarebbe stato investito dall’esplosione. Ci sono forti sospetti, non suffragati da prove, che un ruolo nell’attentato di Via D’Amelio lo abbiano ricoperto alcuni esponenti del Sisde, il servizio segreto civile, collusi con la mafia. C’è chi giura che, dopo l’esplosione che costò la vita a Borsellino e la sua scorta, Bruno Contrada fosse presente in Via D’Amelio. Circostanza mai comprovata. Uno dei due punti fondamentali di quest’appassionante libro è che Milano è la capitale della mafia. Falcone tra il ‘91 e il ‘92 rilascia delle dichiarazioni che lo condannano a morte. Il magistrato spiega che «”Cosa Nostra” si è infiltrata nella Borsa. Per Borsa non s’intende il semplice mercato azionario, bensì un reticolo molto più vasto che ha il proprio epicentro nella Milano delle banche, delle imprese, delle finanziarie, delle multinazionali, in cui si coagulano interessi illeciti spesso cementati dall’appartenenza alle logge massoniche e operanti attraverso branche dei due servizi segreti, il Sismi e il Sisde». Il Procuratore Nazionale Antimafia in pectore ha colpito nel segno, ha individuato i legami tra la mafia e il mondo della Finanza, dell’Economia e della grande Industria. Ecco perché è stato ucciso: bisognava impedirgli di scoprire complicità insospettabili. Per lo stesso motivo è stato assassinato Borsellino. Se la strage di Capaci è stata
Luglio 2012 voluta da «Cosa Nostra» e appoggiata da una entità esterna, quella di via D’Amelio è stata decisa dall’entità esterna e benedetta dalla mafia. Per sconfiggere definitivamente le cosche bisognava far luce sulle operazioni di riciclaggio del denaro sporco, frutto del traffico internazionale di stupefacenti, che si svolgevano nel capoluogo lombardo. È quasi certo che Falcone abbia rivelato le sue intuizioni al collega Borsellino. Ma l’assalto a Milano, alla sua imprenditoria collusa con «Cosa Nostra», ai clan presenti nel listino della Borsa s’inserisce in un mosaico molto articolato. Conoscendo i perversi intrecci delle famiglie con i mille misteri d’Italia, Falcone voleva approfondire anche il ruolo svolto da «Gladio» nei delitti politici di Palermo (Reina, La Torre, Mattarella). «Gladio», anche conosciuto come Stay behind, era una struttura militare segreta, che avrebbe dovuto organizzare la resistenza nell’eventualità di un’invasione sovietica. Purtroppo le intenzioni di Falcone resteranno lettera morta. Questo nella prima parte. La seconda parte del libro è incentrata sulla presunta trattativa tra Stato e «Cosa Nostra» al fine di far cessare le stragi. Ci sono diversi indizi che fanno ritenere verosimile una trattativa tra «Cosa Nostra» e i vertici istituzionali ma certezze non ve ne sono. Le richieste della mafia, oggetto della trattativa, sarebbero state contenute nel famoso «papello» rivelato da Massimo Ciancimino, figlio di Vito, sindaco di Palermo colluso con «Cosa Nostra». Il «papello» era composto da dodici punti: 1) Revisione sentenza Maxiprocesso; 2) Annullamento decreto 41 bis (il carcere duro); 3) Revisione legge Rognoni-La Torre [la confisca dei patrimoni mafiosi]; 4) Riforma Legge pentiti; 5) Riconoscimento benefici dissociati«Brigate Rosse»-per condannati di mafia; 6) Arresti domiciliari dopo i 70 anni; 7) Chiusura super carceri; 8) Carcerazioni vicino le case dei familiari; 9) Niente censura posta familiari; 10) Misure prevenzione-Rapporto con familiari [esclusione di mogli e figli dalle misure di prevenzione]; 11) Arresto soltanto in flagranza di reato; 12) Levare tasse carburanti come ad Aosta. Sulla presunta trattativa non ci sono in modo assoluto prove al di là di ogni ragionevole dubbio. Secondo un’ipotesi, piuttosto verosimile, sarebbe stato Provenzano a «vendere» Riina, consegnandolo ai
IL BORGHESE carabinieri del capitano «Ultimo». Il ruolo svolto dai carabinieri, nella cattura di Riina, è stato oggetto di un processo in cui è stato coinvolto il generale Mori, accusato di aver omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di osservazione alla casa [di Riina, N.d.R.] era stato sospeso, accusa da cui è stato assolto. Un’altra supposizione, contenuta nel libro, è che Mori e «Ultimo» non avrebbero perquisito il nascondiglio di Riina dopo il suo arresto, come corrispettivo della cattura. Secondo molti collaboratori di giustizia ma soprattutto secondo Massimo Ciancimino, in quella villa venivano conservate carte che avrebbero riscritto la storia d’Italia. Il generale Mori è attualmente sotto processo a Palermo, assieme al colonnello Obinu, accusato di favoreggiamento alla mafia, a causa della mancata cattura, nel 1995, di Provenzano. Secondo il teste d’accusa colonnello Michele Riccio, smentito e querelato da Mori e Obinu, furono quest’ultimi ad avergli impedito la cattura di Provenzano in un casolare di Mezzojuso (PA), indicato dal suo confidente Luigi Ilardo. Ilardo sarà assassinato poco dopo aver accettato di collaborare con la giustizia. Nel processo si è incastonata la testimonianza di Massimo Ciancimino, il quale riferisce di contatti, già ammessi in più sedi da Mori, con il padre Vito. Secondo Ciancimino jr, quei contatti avevano come obiettivo la sospensione delle stragi in cambio dell’accoglimento delle richieste contenute nel «papello». Secondo Mori, invece, quei contatti servirono per acquisire notizie sui clan e per giungere alla cattura dei grandi padrini di «Cosa Nostra». Mori ha dichiarato in Tribunale che il Ros nutriva parecchie riserve su Riccio e sui suoi metodi d’indagine. Dov’è la verità? L’Arma dei Carabinieri è scossa dalle accuse reciproche di Riccio e Mori. Entrambi sono validi militari, fedeli al proprio Paese e sicuri di servirlo al meglio. Ciò che li divide è l’idea del servizio da rendere. L’insanabile contrapposizione tra i due alti ufficiali pone l’Arma in una situazione molto delicata: non importa chi dei due ne uscirà vincitore. I veri perdenti saranno i Carabinieri. Se prevarrà la tesi di Riccio, significherà che Mori ha cospirato per anni contro lo Stato, che avrebbe dovuto difendere e invece è sceso a patti con la mafia. Se sarà Mori a vincere, vorrà dire che
77 Riccio ha manovrato, corroso inchieste molto delicate senza che i suoi superiori ne avessero il benché minimo sospetto. Un altro aspetto molto importante dell’inchiesta sulla morte di Borsellino è rappresentata dai presunti legami tra «Cosa Nostra» e il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, attraverso Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Bisogna, tuttavia, sottolineare che non ci sono assolutamente riscontri di un coinvolgimento di Berlusconi. Il mistero ancora irrisolto di Via D’Amelio, uno dei peggiori nella storia del nostro Paese, perdura a diffondere i suoi veleni. ALDO LIGABÒ FONDAZIONE UGO SPIRITO Annali della 2010-2011 (XX-XXI) FUS Roma 2011 pp. 329 € 20 Trentunesimo anno di vita per la Fondazione Ugo Spirito che, dal 2012, assume anche l’aggiunta del nome di Renzo De Felice. Costituita a Roma nel 1981 con l’intenzione originaria di custodire la Biblioteca e l’Archivio del filosofo Ugo Spirito (1896-1979) e di trasmetterne il pensiero, a partire dalla presidenza attuale, di Giuseppe Parlato, ha esteso sempre più il suo raggio d’azione, non limitandosi quindi soltanto all’ambito dei contributi di Spirito e De Felice, ed incrementando l’impegno editoriale e pubblicistico. Tra i periodici sono certamente da evidenziare gli «Annali» (con periodicità annuale o biennale), che propongono a più studiosi la riflessione su un certo argomento. Per il biennio trascorso, è disponibile la raccolta «Annali della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice 2010-2011», la cui tematica proposta - per la sezione monografica - è verosimilmente ispirata al 150° Anniversario dell’Unità d’Italia: «La costituzione dello Stato italiano tra modello centralistico e tradizione municipalista». In ogni caso, sono presenti anche le sezioni «saggi», «studi» e «inediti», non necessariamente attinenti al tema scelto. I contributi più corposi della sezione monografica sono quelli del filosofo Vittorio Mathieu, che riflette su «Risorgimento italiano e Rivoluzione francese» (pp. 3-56), sottotitolo dell’ultima sua opera: Sciagure parallele (Mimesis, 2011) e di France-
78 sco Bonini, ordinario di Storia delle Istituzioni politiche all’Università di Teramo che, in «Centralismo e autonomie nella storia costituzionale dell’Italia liberale», spiega seguendo le tesi di Stefano Jacini perché l’unità e la disunità dell’Italia contemporanea sono necessariamente legate al quadro europeo (pp. 164-178). Importante novità di questo numero degli Annali è la sezione «Inediti» che, insieme a testi di Guido de Giorgio e Giovanni Gentile, presentati rispettivamente da Angelo Iacovella (pp. 298-320) e Carlo Vivaldi Forti (pp. 321-327), include un lavoro dal titolo «Edmondo Cione, il MSI ed il ‘blocco d’ordine’ cattolico nel secondo dopoguerra» sulla figura di Domenico Edmondo Cione (1908 -1965) (pp. 273-297). Il saggio introduttivo di Giuseppe Brienza presenta la vita e le opere del filosofo personalista napoletano, noto per l’approdo al cattolicesimo e per le sue capacità di mediazione politica. Mediazioni, in effetti, Cione ne realizzò almeno tre, evidenziate da Brienza. Del tutto peculiare la prima, che lo vide impegnato nella cosiddetta «operazione ponte», ordita negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale: il tentativo - fallito - di un’alleanza politica tra i repubblichini di Salò e i socialisti, al fine di evitare la guerra civile. Alleanza proposta direttamente a Benito Mussolini e avallata, addirittura, dallo stesso. Nel medesimo periodo (25 aprile 1945) Cione tentò di mediare per la costituzione di un «blocco
IL BORGHESE d’ordine moderato» tra le forze conservatrici italiane. La terza mediazione è relativa al dopoguerra e alla ricerca di una strategia di opposizione al comunismo, dilagante in ambito nazionale e internazionale: iscrittosi al MSI, Cione sostenne il tentativo di fondazione di un «“fronte comune” anti-comunista», che vedesse alleate le forze cattoliche più sensibili al problema - peraltro già molto attive e supportate da Pio XII - e la destra politica nazionale (il MSI, appunto). Brienza scrive puntualmente della formazione filosofica e politica di Cione, allievo e frequentatore abituale di Benedetto Croce. S’intuisce, dunque, l’impostazione teoretica originaria, ereditata da Croce e ispirata all’immanentismo neoidealista filosofico, al liberalismo e alla visione storicistica della realtà. Con tali presupposti, prima della guerra, Edmondo Cione si ritrovò convinto antifascista e simpatizzante socialista. Per un giudizio, poi, sulle scelte compiute dal filosofo non va esclusa la componente caratteriale, fortemente autarchica e antigerarchica. In ogni caso, dopo l’arresto e l’invio al confino (1940), Cione riconosce nei compagni di cella e di sventura socialisti, comunisti, antifascisti l’apologia dei medesimi «mezzi coercitivi» utilizzati dal Fascismo. In Cione, quindi, si opera una sorta di conversione filosofica, religiosa e politica: revisione del sistema crociano ed elaborazione di una filosofia personalista; concezione di Dio
Luglio 2012 non più immanentista, ma cristianamente trascendente; rottura con l’antifascismo. È su questa nuova base d’idealità che maturano le premesse per un incontro con il Duce in persona. Evento che si realizza il 21 agosto 1944, dopo la lettura e l’apprezzamento da parte di Mussolini dell’opera Benedetto Croce (Ed. Perinetti Casoni, 1944), nella quale Cione critica il pensiero del vecchio maestro. Da Mussolini Cione ottenne di poter istituire una forza politica affrancata dal Partito fascista repubblicano (PFR) - il Raggruppamento nazionale repubblicano socialista (RNRS) - nonché il nulla osta per la stampa del periodico L’Italia del Popolo, organo del RNRS. Molti furono coinvolti nell’operazione e l’obiettivo era la realizzazione del Manifesto di Verona, documento programmatico del PFR, ovvero «coniugare socialismo e nazionalismo» per la socializzazione. Forse del tutto prevedibile l’epilogo: gli estremisti di destra (Farinacci, Mezzasoma, Pavolini) e di sinistra (Basso, Pertini) osteggiarono l’iniziativa fino a impedirla. La guerra civile non fu arrestata, né fu possibile impedire ulteriori rappresaglie. Quanto al summenzionato terzo impegno di mediatore, relativo all’attività anti-comunista, Brienza riferisce di Edmondo Cione che si trovò a contattare tra il 1949 e il 1950 mons. Roberto Ronca (19011977). Il prelato aveva raccolto le «tendenze nazionalitarie ed anticomuniste cattoliche» raggruppandole nell’Unione nazionale civiltà italica (UNCI). L’interlocutore di Ronca fu il neoeletto segretario del MSI Augusto De Marsanich (18931973), che riuscì a imporre una linea più moderata in sostituzione alle precedenti «posizio-ni più antisistemiche e sinistreggianti». Riuscì anche a eliminare dal movimento le forze massoniche e anti-clericali. Ne scaturì quello che lo storico Andrea Riccardi chiama «partito romano» e che, invece, Giuseppe Brienza preferisce definire come «“blocco d’ordine” cattolico». In appendice Brienza riporta un memoriale inedito di Cione - «La nostra ideologia e la Chiesa cattolica» - inviato a mons. Ronca, nel quale sono illustrati «i connotati ideali e politici di un MSI quale “Partito profondamente, intimamente, sinceramente cattolico”». SILVIO BRACHETTA
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che avvolgono la tepida piscina i cespugli di mirto e rosmarino che accolgono le ipnotiche cicale le aiuole di gerani, rose e viole tripudio di colori e di profumi. La brezza che dolcemente accarezza sembra sussurri aeree parole indistinguibili, vaghe che il mare ci vuol donare a guisa di malia FrancESco caroLi Se fossi un Dio
Luciano cirri Un paese come il mio Venti che geme forte nel canneto piegando alberi stanchi rassegnati calde gocce di pioggia sul pineto odor di pane e di tetti bagnati. Lo sento sempre in bocca quel sapore di pane impastato con il canto di donne che sapevano l’amore ma non sapranno mai cos’è il rimpianto. oltre il monte passato la pianura c’è un antico paese orami perduto per quelli come me che l’han venduto in cambio di due soldi di paura. Marco BEttoni Stanno come alberi curvati sulla sera le povere foglie secche perdute e abbandonate lungo un viale impietoso. Esalano il respiro della loro ultima vita, d’ultimo istante il breve colore, gelida parvenza o speranza. GaEtano caricato Bianche vele nell’ampia baia Da punta imperatore all’alta rupe di pietre rosse un morbido arenile e tenui increspature della placida azzurra superficie si dileguano lentamente. Bianche vele nell’ampia baia s’inebriano di luce ed il profumo che una lieve brezza ci reca invita a un dolce abbandono. rivedo i bianchi muri delle case adorni di splendenti buganvillee le palme, gli oleandri, e tanti olivi
Se fossi un Dio che guarda il Bel Paese dove il “S” suona, come disse Dante, avrei qualcosa da dire sulle spese di chi governa, che son troppe e tante. ad ogni Senatore o Deputato darei volentieri un bello specchio per farsi schifo di quanto Lui ha rubato non per fargli vedere quanto è vecchio. Darei le gran ricchezze della chiesa a quanti in questo mondo disonesto non hanno vesti e a cui la vita pesa senza cappotto e con un viso mesto. Marchionne, Monteze’ anche Geronzi con le liquidazioni piene d’oro! Han come noi un letto per gli sbronzi, la bocca senza rumine ed un foro. Potranno aver la gotta anche il diabete, perché i ricchi son anche un po’ poltroni avranno come noi sempre la sete, noi d’acqua, loro di soldoni. a questi personaggi vanno dati non tanti soldi, già ce n’hanno tanti onorificenze, titoli e attestati ma non di certo tutti quei contanti. anni fa, quando non c’era niente vivevano felici senza un matto né pensieri per la loro mente: mi riferisco al tempo del “baratto”. SE fossi un Dio certo vorrei vedere tutti al lavoro e niuno più a sedere. FrancESco ciotti I tuoi cari che dolore vedere invecchiare i tuoi cari tuo padre e tua madre prepararsi al volo finale e tu non lo puoi fermare La ruga che allunga il suo solco la voce che si fa più lontana la mano che cerca il bastone lo sguardo che vaga ormai invano Ma se la tua anima alta protendi negli occhi tu cogli una luce che brilla e sussurra l’eterno.
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torno nel sogno che m’accompagna con orme di vita.
Enza GroSSi ogni pensiero sfilaccia d’universo mi parla di albe tradite
da Il filo rosso, ed. il collegio cHriStian ruiu La luna
Essere pienamente ombra è quasi il tutto Sembra stupefacente l’accordo diluire nel trapasso di una notte una vita da La fucina dell’aurora
ed. il collegio
DaViDE GuaLtiEri Per mia moglie Vincenzina in quel dì S. Valentino, manducando un torroncino, con quel gusto e quel sapore ho pensato a te “mio amore”! Di gianduia mi son fatto e “nocciola” t’ho scoperto e orben son più che certo che d’amor il cor è ratto! Mino LocorotonDo Ausonia, terra mia! italia, giorno per giorno ti imbrattano di sangue! nella mia mente passi come cristo, malmenato e trafitto dai Giudei e sanguinante sei condotto al Golgota. Mi chiedo, quando finirà il tuo supplizio? chi conterà all’alba della tua agonia? Belli e degeneri figli tuoi? o ignobili stranieri? no! tu non morrai! il fato ti battezzò immortale, altrimenti, nel firmamento dell’umana civiltà avremmo avuto meno spazi fulgenti: aforisma che ascolto nel mio io, sarà errato! Pur mi ritempra d’un grande adorabile amore, per te, ausonia terra mia!
con occhi tristi la luna guarda attenta accenna lamenti che paiono antichi rumori, ancora piena di fantasie abbassa il suo volto stanco e lacrima miele e stelle. L’amore che la riempie lo dona ogni notte e santa col suo disco illumina veli d’avorio di quiete e d’infinito mostrando passato e presente. La luna tende le dita sottili del mistero accarezza la stagione dell’amore e invadente stravolge le maree dei sogni le ninne nanne dei bambini i pensieri più intimi, per fare vivere in noi dopo questa notte magica la sua pace. Franca SantacrocE Poeti si diventa quando il dolore trafigge il cuore e bagna l’anima di lacrime che bruciano. Poeti si diventa quando la gioia esplode nel corpo e ti riveste di luce. Le parole escono allora chiare, pulite di tutte le macchie che sporcano il vero e scorrono limpide ornate di fiori profumati. Poeti si diventa per ridipingere il cielo ripopolare il deserto rinfrescare l’arsura riscaldare il gelo. Poeti si diventa per non morire mai.
toMMaSo Mitrotti ora ho te oasi ristoratrice al tramonto infuocato dei miei giorni accesi dal sogno bambino Disarmo i nostri volti troppo felici per non ferire e dietro il velo sulla serenità trovata
Per proporre poesie per questa rubrica (max 20 versi), spedire una email con nome, indirizzo e numero di telefono a: luciano.lucarini@pagine.net con la dicitura «per il Borghese»
Una rivista per nuove sintesi culturali diretta da Fabio Torriero
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LA DESTRA ITALIANA
NOVA HISTORICA
IMPERI
Rivista trimestrale di storia diretta da Roberto de Mattei
Rivista Quadrimestrale di Geopolitica e Globalizzazione diretta da Eugenio Balsamo
Antonio Razzi Le mie mani pulite prefazione di Silvio Berlusconi
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pagg. 150 • euro 18,00
Jean Madiran
Giuseppe Prezzolini
“L’accordo di Metz”
Intervista sulla destra
Tra Cremlino e Vaticano introduzione di Roberto De Mattei
introduzione di Fabio Torriero
Francis Elliott & James Hanning
Enea Franza Crack finanziario Il perché della crisi di oggi prefazione di Silvano Moffa
CAMERON, nuovo conservatorismo
traduzione di Milena Riolo
pagg. 230 • euro 16,00
pagg. 418 • euro 18,00
Filippo de Jorio
Michele Giovanni Bontempo
Saverio Romano
L’albero delle mele marce
Lo Stato sociale nel ventennio
“La mafia addosso”
Enea Franza Giampaolo Bassi L’Italia e la crisi, un Paese al bivio pagg. 234 • euro 16,00
NOVITÀ
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pagg. 210 • euro 18,00
NOVITÀ
pagg. 110 • euro 12,00
(60 anni di politica e di malapolitica in Italia) prefazione di Sforza Ruspoli pagg. 220 • euro 18,00
pagg. 290 • euro 17,00
Intervistato da Barbara Romano
pagg. 180 • euro 16,00
Via G. Serafino, 8 - 00136 Roma - Tel. 06/45468600 - Fax 06/39738771 - e-mail: luciano.lucarini@pagine.net
ISSN 1973-5936