“Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”
ISSN 1973-5936
U S N T A R «E O Q ZZ U AT A I » D U A SU R A MENSILE - ANNO XII - NUMERO 3 - MARZO 2012 - € 6
NOVITÀ
Jean Madiran
Antonio De Pascali
“La mafia addosso”
“L’accordo di Metz”
Donna Assunta Almirante
pagg. 110 • euro 12,00
Regime Corporativo (1935 - 1940) a cura di Gian Franco Lami pagg. 114 • euro 15,00
pagg. 150 • euro 14,00
Una rivista per nuove sintesi culturali diretta da Fabio Torriero
Antonio Razzi
Giuseppe Prezzolini
Le mie mani pulite
Intervista sulla destra
prefazione di Silvio Berlusconi
introduzione di Fabio Torriero
pagg. 162 • euro 18,00
pagg. 210 • euro 18,00
IMPERI Rivista Quadrimestrale di Geopolitica e Globalizzazione diretta da Eugenio Balsamo
LA PORTA D’ORIENTE
NOVITÀ
NOVITÀ
NOVITÀ
Julius Evola
La mia vita con Giorgio
NOVITÀ
pagg. 190 • euro 16,00
NOVITÀ
pagg. 228 • euro 18,00
Tra Cremlino e Vaticano introduzione di Roberto De Mattei traduzione di Milena Riolo
NOVA HISTORICA Rivista trimestrale di storia diretta da Roberto de Mattei
Rachele Mussolini
Benito ed io
Una vita per l’Italia prefazione di Alessandra Mussolini traduzione di Fabio Torriero revisione a cura di Anna Teodorani pagg. 270 • euro 18,00
Via G. Serafino, 8 - 00136 Roma - Tel. 06/45468600 - Fax 06/39738771 e-mail: luciano.lucarini@pagine.net
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Pagine Via G. Serafino, 8 • 00136 Roma Tel. 06/45468600 • Fax 06/39738771
Filippo de Jorio L’albero delle mele marce (60 anni di politica e di malapolitica in Italia) prefazione di Sforza Ruspoli pagg. 220 • euro 18,00
Rivista di studi sugli orienti diretta da Franco Cardini
NOVITÀ
Intervistato da Barbara Romano
LA DESTRA DELLE LIBERTÀ
NOVITÀ
prefazione di Fabio Torriero traduzione di Anna Teodorani
Saverio Romano
NOVITÀ
Controcorrente
NOVITÀ
NOVITÀ NOVITÀ
Marine Le Pen
Michele Giovanni Bontempo
Rick Boyd
Lo Stato sociale nel “Ventennio”
La verità sulla morte di Mussolini
pagg. 272 • euro 17,00
pagg. 234 • euro 17,00
Giancarlo Tomassi Per il tempo che verrà…
(vista da un bambino) Nota critica di Giuseppe Giuliani Aramis pagg. 70 • euro 10,00
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Marzo 2012
IL BORGHESE
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SOMMARIO DEL NUMERO 3 Mensile - Anno XII - Marzo 2012 - € 6,00 Piccola Posta, 2 Vent’anni dopo, di Claudio Tedeschi, 3 Dateci il «copyright», di Franco Jappelli, 6 Usciamo dalla farsa, di Carlo Vivaldi-Forti, 7 Aboliamo i partiti, di Adriano Tilgher, 8 Ricordate Berlusconi?, di Riccardo Paradisi, 9 Lacci e lacciuoli, di Riccardo Scarpa, 11 Le cure mortali, di Filippo de Jorio, 12 Quinta fase, di Emmanuel Raffaele, 13 Maroni mette cappello, di Gigi Moncalvo, 16 La resa dei conti, di Ruggiero Capone, 17 Da Stato a Società, di Adriano Segatori, 19 Marchette per sopravvivere, di Federico Maffei, 20 «Noi non lo rimpiangeremo», di Adalberto Baldoni, 21 Nebbia sul Naviglio, di Romano Franco Tagliati, 24 E Monti dà i numeri, di Mimmo Della Corte, 25 Il giorno della vergogna, di Gianfranco de Turris, 27 Eterno antifascismo, de Il Franco Tiratore, 28 Poteri negati, di Daniela Albanese, 30 Italiani a spasso, di Alfonso Piscitelli, 31 Problema non poco falso, di Enzo Schiuma, 32 Obbligo di risposta, di Felice Borsato, 33 In compagnia pena più leggera, di Alessandro P. Benini, 34 Il mistero si infittisce, di Mary Pace, 35 La fine della cultura, di Hervé A. Cavallera, 37 Media, scuola non cifre, di Alessandro Cesareo, 38 «Pierferdy», di Enzo Nardi, 39 La cintura dell’emarginazione, di Mino Mini, 42 Capitalismo criminale, di Antonio Saccà, 43 A volte è penoso, di Antonella Morsello, 44 Aziende al tracollo, di Daniele Lazzeri, 46 Oligarchi e ribelli, di Andrea Marcigliano, 47 «C’est fini la grandeur», di Gennaro Malgieri, 49 La pace è lontana, di Massimo Ciullo, 51 Contentino alle proteste, di Daniela Binello, 54 «Vip» ed internauti, di Inna Khviler Aiello, 55 Il vento delle «Highlands», di Giuseppe de Santis, 56 L’angolo della poesia, 79
IL MEGLIO DE «IL BORGHESE» Ritorno al passato, di Mario Tedeschi «Invito» al socialismo, di Vintila Horia Compagno «travet», di Pietro Del Tura
LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Erasmo Cinque: Chi difende il voto, espressione di volontà del cittadino?, a cura de «il Borghese», 15 Marco Pomarici: La politica è presenza, a cura di Roberto Incanti, 29 Gabriele Marconi: Sovranità nazionale, giustizia sociale e bellezza, a cura di Michele de Feudis, 40
TERZA PAGINA Comprendere l’autorità, di M. Scacchi, 57-Carceri ai privati, di A. Salina, 58-Un periodico che non cede sui valori, di G. Brienza, 59-Il Museo quale fonte di ispirazione letteraria, di R. Rosati, 60-Quando la politica falsa la storia, di V. Ciaraffa, 61-Ed è sempre Natale, di A. Spaziano, 62-Una storia vera e qualcos’altro, di F. Togni, 63
IL GIARDINO DEI SUPPLIZI Commissari di ferro tra cinema e «tv», di F. Melelli, 65-Quando la fantasia stravolge i fatti, di F. Rossi, 66-Scherzando sulla crisi, di M. Lo Foco, 67-In ricordo di Eros Macchi, di M. Lo Foco, 67-Le Idi di Marzo, di L. Valeriano, 68-L’anima e le forme della musica dannunziana, di A. C. Ambesi, 69
LIBRI NUOVI E VECCHI I Neomarxisti si sono arresi all’Impero, di G. Sessa, 71-Librido, di M. Bernardi Guardi, 72-I Libri del «Borghese», di F. Pizzuti, 74-Schede, di AA.VV., 75 Le foto e le vignette che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio.
Il Borghese - marzo 2012 pagina 1
Direttore Editoriale
LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile
CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net HANNO COLLABORATO Daniela Albanese, Alberto C. Ambesi, Adalberto Baldoni, Alessandro P. Benini, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello, Felice Borsato, Giuseppe Brienza, Ruggiero Capone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Vincenzo Ciaraffa, Massimo Ciullo, Michele De Feudis, Filippo de Jorio, Giuseppe de Santis, Gianfranco de Turris, Mimmo Della Corte, Roberto Incanti, Franco Jappelli, Inna Khviler Aiello, Daniele Lazzeri, Aldo Ligabò, Michele Lo Foco, Federico Maffei, Gennaro Malgieri, Andrea Marcigliano, Fabio Melelli, Mino Mini, Nazzareno Mollicone, Gigi Moncalvo, Antonella Morsello, Enzo Nardi, Mary Pace, Riccardo Paradisi, Errico Passaro, Alfonso Piscitelli, Federica Pizzuti, Emmanuel Raffaele, Riccardo Rosati, Francesco Rossi, Antonio Saccà, Angelica Salina, Mauro Scacchi, Riccardo Scarpa, Enzo Schiuma, Adriano Segatori, Giovanni Sessa, Angelo Spaziano, Romano Franco Tagliati, Adriano Tilgher, Fernando Togni, Leo Valeriano, Carlo Vivaldi-Forti
Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma
tel 06/45468600 Fax 06/39738771 em@il luciano.lucarini@pagine.net PAGINE S.r.l. Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000 Stampato presso Mondo Stampa S.r.l. Via della Pisana, 1448/a 00163 Roma (RM) Per gli abbonamenti scrivere a: IL BORGHESE Ufficio Abbonamenti Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma
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IL BORGHESE
Piccola Posta
Forse per l’ulteriore stipendio? Con un suo mensile una normale famiglia ci vive un anno. ROBERTO TIGONI
PRESUNZIONE UMANA
LA «FIAT» HA TROVATO L’AMERICA
Antonio Saccà ha scritto un articolo su Augusto Del Noce e la necessità di credere in Dio per avere una base filosofica e non cadere nel nichilismo. Egli ritiene che, col suo problematicismo, Ugo Spirito, fosse intellettualmente onesto, ossia ineccepibile, quando affermava che, come il Tutto, anche Dio non spiega se stesso, non spiega perché esiste. Ma il ragazzino che studia il catechismo, o dovrebbe impararlo, sa che Dio, come il suo operato, oltrepassa di moltissimo l’umana comprensione. Infatti non siamo in grado di concepire il primo inizio di ogni cosa, e mai ne verremo a capo, sebbene sia cosa che deve spiegarsi: e la spiegazione in Dio perfettissimo. LORENZA CAVIGIOLO lorenza.cavigiolo@teletu.it OLTRE IL DANNO, LA BEFFA Lo Stato tuteli più i delinquenti che gli onesti cittadini. Quando iniziai a lavorare, le feci sapendo di avere davanti 35 anni di «lavori forzati» per arrivare alla pensione, poi portata a 40 anni, e chissà poi... Se quando iniziai, fossi finito in prigione, oggi, tra amnistie, indulti e buona condotta, sarei già fuori da oltre vent’anni e, come ex detenuto, avrei anche la sicurezza di trovare un lavoro. Inoltre, quando andrò in pensione, con il sistema contributivo, la mia pensione sarà inferiore a chi ha lavorato meno di me ma ha smesso di lavorare qualche mese prima di me. Perché il capo del governo è stato nominato senatore a vita anche se non è un requisito indispensabile?
Mi ha indignato la presenza di Sergio Marchionne, Ad di Fiat, all’incontro tra Obama e Monti. Quasi che sulla visita del presidente del Consiglio negli Usa aleggiasse la questione Fiat, quella dei tanti licenziamenti e del trasferimento di testa e corpo della multinazionale dell’auto a Detroit. Certo l’Italia ha per più di mezzo secolo dato soldi al colosso torinese, oggi a garantire quegli aiuti c’è soltanto Obama, gli Usa. Così Fiat abbandona l’Italia e passa oltre Atlantico. Sono certo che gli operai Fiat d’Italia finiranno tutti per strada, e senza gli ammortizzatori sociali che la Fornero s’affretta a togliere. MARIO CERINI Torino POVERTÀ DA RICICLARE Sempre più gente fruga nei cassonetti. Volevo spedirvi delle foto che ho scattato a Roma, su via Boccea, oltre ai soliti zingari si possono scorgere sempre più anziani che frugano tra i rifiuti. Mi chiedo dove possano risiedere tutti i ricchi che dovranno fare sacrifici. Mi sorge il dubbio che i provvedimenti del governo vengano ispirati da una visione limitata, quella di gente che stima la ricchezza pro capite su un ristretto campione, che forse oscilla tra le case di Celentano, Montezemolo, Lusi e Tronchetti Provera. PIETRO BARBA Macerata MA PER CHI LAVORA MONTI? I dissidenti di sinistra dicono che Monti è fascista e quelli di destra che è
Marzo 2012 comunista. È evidente che nessuno sa cosa stia facendo Monti. Soprattutto questo governo lavora in totale disprezzo delle conquiste sociali che sono state garantite dal Ventennio prima e dalle battaglie sindacali socialiste dopo. L’Italia dopo Monti sarà un Paese svuotato di garanzie, voglia di lavorare, certezze per i più deboli. Un governo che promette tasse e galera non ha mai migliorato la qualità della vita d’un popolo. Ora siamo anche più spiati di quando c’era Berlusconi, basta pochissimo perché si venga intercettati, controllati sui computer, nelle mail, nell’uso del tempo libero. Il nuovo redditometro pare indagherà su ogni aspetto della vita di 50 milioni d’Italiani. Ho la netta impressione che nel Terzo millennio siano finite le illusioni democratiche: i governi li fanno i potenti, gente non gradita al 99 per cento della popolazione. chi non approva può migrare. ALFIO MANGANÒ Messina FASE DUE DEL GOVERNO MONTI: LA REPRESSIONE Nell’aria già si respira l’effetto Grecia. Il 9 marzo la Fiom ha indetto lo sciopero generale, sempre per marzo manifestazioni di Cobas dei precari e disoccupati. Poi c’è la Lega che si rifiuta di versare allo Stato centrale i depositi delle tesorerie comunali. In tanti parlano di effetto Grecia, di contaminazione sociale. Il ministro dell’Interno ha promesso le maniere forti con operai e manifestanti vari. È questa la fase due che garantirà la crescita? MIMMO VANNINI Firenze Le lettere (massimo 20 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net
PUBBLICITÀ Il Borghese - marzo 2012 pagina 2
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IL BORGHESE
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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 3 - MARZO 2012
VENT’ANNI dopo di CLAUDIO TEDESCHI Roma, 19 febbraio 2012 SONO passati più di tre mesi da quelle idi di Novembre, quando un vecchio comunista nominò senatore della Repubblica il proconsole in Italia della Finanza Internazionale. Da allora, grazie alla complicità forzata del Parlamento, governano i «tecnici». Parola inventata per non rispondere ai cittadini del proprio operato. Nel frattempo, il «popolo» ignorante è stato narcotizzato con una settimana di frizzi e lazzi sanremesi. Manifestazione che ha visto la presenza del vecchio «ragazzo della Via Gluck» (ormai ha più di 74 anni), pagato con i soldi della «tassa sul televisore», che ha spaccato, è il caso di dire, i «santissimi» a più della metà del Paese. Ed a giudicare dalle nevicate che hanno sconvolto l’Italia, anche al Padreterno. L’intervento di Celentano ha realizzato lo stesso indice di ascolto di Benigni dell’anno scorso. Noi non amiamo Benigni, ma quella sera capimmo che anche un guitto «con il portafoglio a sinistra» era capace di emozionare un popolo di scettici per costituzione. Celentano no. Ha preteso di imporre a tutti il marchio della religione. Tanto è vero che sui social network, da Twitter a Facebook, il coro delle proteste è stato «pesante». Il «panem et circenses», una volta funzionava. Oggi, che la tassa infuria e il pane manca, i «molleggiati» pagati con i soldi delle tasse non sono più sufficienti. Molti, mentre fanno la spesa ai discount fra offerte e svendite sperano in un «effetto Grecia» anche da noi. Questa è la verità. Il Fmi, la Bce e le banche d’affari americane hanno spezzato la Grecia, facendo accumulare debiti che hanno portato alla fame milioni di cittadini. Quanto avviene in Grecia è legato all’incontro sul Britannia, il 2 giugno del 1992. Vent’anni fa, grazie a Prodi, il capitalismo internazionale stava per appropriarsi delle maggiori realtà economiche italiane. Il Fato, o la disattenzione degli Dèi, gli mise tra i piedi un industriale di Arcore. Oggi, dopo aver fatto al Cavaliere «una proposta che non poteva rifiutare», la Cupola della mafia capitalistica internazionale ha ripreso da dove aveva iniziato. «Oggi Monti regna su Roma come un nuovo Cesare. In effetti, il processo democratico è stato sospeso per permettere a un tecnocrate non eletto di mettere in atto politiche che i politici eletti non riuscivano a far passare.» Michael Schuman (Time magazine, 9 febbraio 2012) Perché il ‘92? Perché allora iniziò la fase che avrebbe portato all’euro e la crisi di oggi è figlia dell’unificazione monetaria. Nel cui nome, furono manomessi i conti pubblici
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dei Paesi europei, per rispettare Maastricht (sempre del 1992). In molti casi la gestione dei conti pubblici, in vista dell’Euro, fu affidata a banche come Goldman Sachs e S&P, principali artefici della crisi economica globale dei sub prime. Crisi che ha visto interi Paesi alla bancarotta, mentre le Banche ripianavano i «buchi» con i soldi dei Governi, ottenuti grazie a tassazioni selvagge. Che il capitalismo internazionale abbia dichiarato guerra al mondo, lo si comprende dal fatto che, prima dell’11 settembre, soltanto sette Paesi non avevano la loro Banca centrale sotto il controllo dei Rothschild: Afghanistan, Iraq, Sudan, Libia, Cuba, Corea del Nord e Iran. Dopo il 2003, toccò ad Afghanistan ed Iraq soccombere. Dopo il 2011 fu la volta della Libia e del Sudan. Oltre a controllare la Banca d’Inghilterra, la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca dei Regolamenti Internazionali, i Rothschild posseggono anche la maggior parte dell’oro del mondo, così come il London Gold Exchange. In questi giorni si dice, da parte di ricercatori obiettivi, che la demonizzazione dell’Iran non sia legata alla minaccia nucleare, ma alla politica di conquista della Banca centrale iraniana da parte della Rothschild. Oggi parlare di rivoluzione eccita molti cuori, la si sogna e si guarda alla Grecia, così come guardavamo a Budapest nel ‘56 o Praga nell’89. Poi, quando vai a tirare le somme, in tanti si defilano perché «noi stiamo meglio, ci risolleviamo, non siamo a quel punto». Eppure è evidente che ogni giorno, un pezzetto del nostro «piccolo mondo antico» muore. Oggi il piccolo emporio di paese, dove l’estate andavamo a fare la spesa durante le vacanze, non esiste più. Con esso è scomparso anche un pezzo della nostra vita. Oggi, chi guida una rivoluzione? Un uomo, una donna, un gruppo di persone, la disperazione? O forse sono quegli stessi poteri forti che ci hanno portato a questo punto. Vedi la Libia, la Tunisia e l’Egitto. Oggi guardiamo ai fatti di Atene come se fosse un film. Passato l’attimo, e cambiato canale, ci troviamo a guardare il Festival di Sanremo. In molti no, ma più di sedici milioni sì. Allora ci prende lo sconforto. Mentre nel Paese muoiono per asfissia economica, ogni giorno, migliaia di botteghe, piccoli imprenditori, intere famiglie, Sanremo non muore mai e diventa il simbolo, ogni volta, di quella rivoluzione che verrà. Intanto Celentano si è mangiato oltre settecentomila euro delle nostre tasse, mentre Monti dice che abbiamo di fronte 20 anni di sacrifici e quindi le Olimpiadi non si possono fare. Celentano sì, le Olimpiadi no? Io non sono disposto a vivere altri vent’anni nell’incertezza, per ritrovarmi anziano il giorno nel quale (e sono soltanto ipotesi) torneremo a come stavamo prima. Prima di cosa? Basterebbero queste parole di Monti a scatenare una rivoluzione, sempre che la maggioranza degli Italiani riuscisse a staccarsi dal televisore per affrontare questa crisi che non è soltanto economica ma di princìpi e valori, persi nel fango dell’economia guidata dal capitalismo internazionale. Basterebbe che gli Italiani si ricordassero chi erano.
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liberi
per tradizione
Crisi economica, corruzione, caste intoccabili, nessun ricambio della classe politica, perdita dei princìpi spirituali dell’uomo e della comunità nazionale:
VUOI REAGIRE? Aderisci pure tu ai Circoli de
Per tutti coloro che si assoceranno e che sono già abbonati del «Borghese», la quota 2012 sarà già compresa nell’abbonamento …………………...……..……………………………………………...………………………………........ SCHEDA DI ISCRIZIONE COGNOME ……………………………………………….. NOME …………..………………………………………… NATO A …………………………………………………. PROV …… IL ___/___/______ DOMICILIATO A ………………………………………… PROV …… CAP ……………... VIA ………………………………………………………… N. ….. INT ….. SC ………… TEL/AB ……………………….. TEL/UFF …………………….. CELL ………………… EM@IL ………………………………………………………………..@.......................................... DATI PERSONALI TITOLO DI STUDIO…………………………………………………. PROFESSIONE ……………………………… ATTIVITÀ …………………………………………………………… ABB. NUM. ………………………………….. Dichiaro di accettare le norme dello Statuto, i programmi e le direttive dell’Associazione dei Circoli del «Borghese» Ricevuta l’informativa sull’utilizzazione dei miei dati personali, ai sensi dell’Art. 10 Legge 675/9, consento al loro trattamento nella misura necessaria per il proseguimento degli scopi associativi. DATA ___/___/______
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(DA INVIARE PER FAX ALLO 06/39738771 oppure CIRCOLIBORGHESE@EMAIL.IT)
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Grazie a coloro che hanno aderito in gran numero ed invitiamo tutti a fare opera di proselitismo, costituendo sempre più nuovi «Circoli» (minimo 10 soci). Tutti coloro che hanno documenti visivi possono inviarli, noi provvederemo a metterli in rete sul sito www.il-borghese.it
SALVIAMO L’ITALIA 1) Dai professori che stanno portando alla rovina lo Stato per venderlo a saldo 2) Da una Lega che ha fallito il suo progetto, ma non se ne è accorta 3) Dai «mercenari» della politica, che fanno le «manovre» per non pagare le tasse 4) Dalla dittatura delle «lobbies» che guardano ai cittadini come pecore da tosare 5) Dalla presenza dell’euro, arma letale del potere finanziario internazionale 6) Dall’invasione straniera nel nome di una cooperazione a senso unico 7) Dall’assassinio della cultura commesso dai «reality» 8) Dalla vecchia politica che non ha capito di essere ormai preistoria 9) Dalla schiavitù economica delle banche che porta il Paese al suicidio per debiti 10) Dalla vita sociale «sepolta» sotto i «partiti-spazzatura» Estratto dallo Statuto costitutivo dei «Circoli del Borghese» Art. 3 - Scopo e finalità L’associazione è senza fini di lucro ed opera senza discriminazione di nazionalità, di carattere politico o religioso. Si propone di promuovere ogni iniziativa culturale e politica tesa a restituire al cittadino il senso del dovere e l’etica della responsabilità. Denunciare il malcostume nel contesto politico, economico e sociale. Avversare caste e privilegi in ogni comparto della società. Educare le nuove generazioni ad assumere l’impegno di essere futura classe dirigente, onesta, libera, professionale e responsabile A questo fine si predispone per svolgere qualsiasi attività si ritenga necessaria al perseguimento degli scopi istituzionali con particolare attenzione a: Organizzazione e promozione di incontri, dibattiti e pubblicazioni per incidere nel processo culturale e sviluppo della Nazione. Esercitare, in via meramente marginale e senza scopi di lucro, attività di natura commerciale per autofinanziamento: in tal caso dovrà osservare le normative amministrative e fiscali vigenti. L'Associazione ha facoltà di organizzare, anche in collaborazione con altri enti, società e associazioni, manifestazioni culturali connesse alle proprie attività, purché tali manifestazioni non siano in contrasto con l'oggetto sociale, con il presente Statuto Sociale e con l'Atto Costitutivo. Le attività di cui sopra sono svolte dall'Associazione prevalentemente tramite le prestazioni fornite dal propri aderenti. L'attività degli aderenti non può essere retribuita in alcun modo nemmeno da eventuali diretti beneficiari. Agli aderenti possono solo essere rimborsate dall'Associazione le spese effettivamente sostenute per l'attività prestata, previa documentazione ed entro limiti preventivamente stabiliti dall'Assemblea dei soci. Ogni forma di rapporto economico con l'Associazione derivante da lavoro dipendente o autonomo, è incompatibile con la qualità di socio.
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IL BORGHESE
«IL BORGHESE» AVEVA SCRITTO TUTTO
DATECI il «copyright» di FRANCO JAPPELLI CARO Direttore Scusami se non Ti invio il consueto articolo, ma questa lettera aperta. Dovendo parlare di «affari di famiglia», ovvero del nostro giornale e di coloro che lo fanno, a cominciare da Te, mi è sembrato infatti più logico ed appropriato farlo con una formula, quella appunto della lettera, che ritengo più colloquiale ed adatta allo scopo. Ma veniamo al punto. Sotto la Tua direzione Il Borghese ha raggiunto risultati importanti e, soprattutto, ha saputo anticipare con raro tempismo temi, situazioni e problematiche sui quali soltanto oggi, e con innegabile ritardo, gli altri giornali, sia di destra che di sinistra, cominciano a confrontarsi. A Tuo merito - e, ovviamente, a quello dei Tuoi collaboratori - va ascritto il fatto di aver compreso, in tempi ormai lontani, che avremmo vissuto tempi difficili e tormentati e che certe logore categorie mentali, alcune pigre abitudini caratteriali e determinati consunti schemi ideologici andavano, salvando quanto vi era di buono in queste cose, consegnati al reliquario della storia. Mentre altri si attardavano a descrivere il teatrino della politica e parteggiavano ora per uno ora per l’altro dei contendenti, Il Borghese, pur senza rinunciare a occuparsi dell’attualità, ha trovato lo slancio per «andare oltre». Fummo noi, voglio ricordarlo, che anni fa, quando nessuno ne parlava, denunciammo lo strapotere, usuraio e soffocatore, delle banche e della grande finanza. Prevedemmo, con notevole anticipo, che il sistema economico avrebbe finito per collassare sotto il peso delle sue contraddizioni e che presto i popoli si sarebbero trovati di fronte ad una semplice alternativa: diventare sempre più poveri per arricchire gli usurai o fare la rivoluzione. Quanto sta avvenendo in queste settimane in Grecia, in Romania, in Ungheria, dimostra che avevamo visto giusto. A tal proposito ti voglio ricordare quella splendida e preveggente copertina de Il Borghese del novembre 2007 in cui si vedeva un uomo impiccato ad un albero mentre il buio della notte era rischiarato da una sinistra luna fatta a forma di euro. Stiamo parlando di oltre quattro anni fa, quando criticare la moneta unica e l’Unione Europea veniva considerato una sconcia bestemmia. E, visto che ci siamo, vorrei ricordare quel convegno, da te organizzato presso la sala conferenze della Federazione Nazionale della Stampa, e significativamente intitolato «Morire per Maastricht». Nel luglio del 2010, quando nessuno avrebbe mai ipotizzato che si sarebbe parlato di default per molti Stati europei. Ma, se mi consenti, abbiamo fatto anche di più. Armati della nostra preziosissima palla di vetro abbiamo infatti saputo prevedere la fine della seconda Repubblica, la cacciata di Berlusconi e la crisi degli attuali partiti rappresentati (ancora per poco) in Parlamento. Nell’elenco delle nostre «profezie» figurano anche la nascita di movimenti
Il Borghese - marzo 2012 pagina 6
Marzo 2012
popolari «trasversali» (leggi “Forconi”) e il dilagare di partiti e formazioni nazionalpopuliste in tutta Europa. Ora, caro Direttore, ti chiederai perché ho stilato questa parzialissima lista di previsioni che si sono avverate. Ti rispondo, molto semplicemente, che, da qualche tempo, ne ho le scatole piene di gente che sui giornali, ovviamente senza citare Il Borghese, rimastica, con anni di ritardo, idee e concetti che noi abbiamo espressi in passato. La collezione del nostro giornale sta lì a dimostrarlo. Insomma: carta canta. Vuoi le prove? Tempo addietro in un fondo scritto sul quotidiano Il Tempo, il direttore Mario Sechi, parlando della crisi greca ha sostenuto che «il risultato sarà l’innesco di una tensione sociale senza più limiti, la depauperazione della ricchezza, la fuga degli ultimi capitali rimasti e la nascita di un fascio-comunismo che si propagherà al resto dell’Europa». Il termine «fascio-comunismo», per la verità, non è il più indicato a spiegare un fenomeno che appare ancora in embrione, ma dimostra che ci si sta rendendo conto che qualcosa di nuovo sta nascendo in Europa. Non a caso, sempre su Il Tempo, il corsivista Marlowe ipotizza, nell’immediato futuro, una deriva «peronista» o «nazionalcomunista». Avrà letto Il Borghese e i nostri articoli sul peronismo? Quello che Sechi teme, il buon Marcello Veneziani, dalla pagine de Il Giornale, invece, lo auspica. «Ma possibile», si chiede il sapido corsivista, «che non ci sia nessuna opposizione sociale nel nostro Paese? Nessun soggetto politico che nel nome di una tradizione europea antica e plurale, cristiano-democratica, sociale e nazionale, socialdemocratica e socialista, insorga contro questo liberismo declamato con vent’anni di ritardo? Ed è possibile che un grido del genere debba provenire, seppur a titolo personale dell’autore, dal Giornale che queste tesi reaganiane e thatcheriane le sostiene dai tempi di Montanelli?» Anche Veneziani, insomma, scopre che, pur provenendo da destra, si può criticare e combattere questo «liberismo proclamato con vent’anni di ritardo». E anche lui è alla disperata ricerca di un’opposizione che dovrebbe esserci e che ancora non c’è. Ma, se non la trova, il motivo è semplicissimo. La sinistra non può più rappresentare i deboli e gli sfruttati per il semplice motivo che, in questo momento, si è alleata in Parlamento con la destra per agevolare il massacro sociale organizzato dal governo Monti. A questo punto non c’è che una soluzione. Se destra e sinistra si sono unite per puntellare il Palazzo in cui abitano ed evitare il crollo che le travolgerebbe, nel Paese debbono nascere nuove unioni trasversali che, invece, questo benedetto ed auspicato crollo sono decise ad accelerarlo. Insomma: se la casta si è unita per salvarsi il culo anche il popolo deve unirsi, al di là delle vecchie e stantie divisioni, per salvarsi le terga. Sopravvivranno i vari sistemi democratici all’imminente tsunami che sta per abbattersi su di loro? Difficile dirlo. In un fondo scritto per il Corriere della Sera Angelo Panebianco ammette che «la democrazia può anche fallire». «Non è prevedibile, infatti,», scrive, «la natura dei movimenti politici che potrebbero affermarsi. Sarebbe una vera beffa del destino se dalla crisi in corso uscissimo non solo con una Europa a pezzi ma anche con istituzioni democratiche (nazionali), in alcuni Paesi almeno, indebolite o compromesse». Che dire Direttore? Quando queste cose le abbiamo scritte noi, anni fa, ci hanno preso per pazzi. In ogni caso poco male. I pazzi, come tu ben sai, sono infatti i più vicini agli dèi.
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IL BORGHESE
PER UNA CONVENZIONE DI DESTRA
USCIAMO dalla farsa di CARLO VIVALDI-FORTI MARCELLO Veneziani, su Il Giornale del 20 gennaio 2012, ha pubblicato un articolo ove denuncia la mancanza di leadership e di coordinamento della destra italiana. Punto di vista meritevole di profonda riflessione, in quanto non tocca soltanto il tormentato periodo che stiamo vivendo, ma riguarda il futuro del nostro Paese e della nostra democrazia. Il colpo di Stato di novembre, architettato dalla grande finanza internazionale con la complicità di vari potentati italiani, mirava primariamente ad eliminare la destra, consentendo quindi il ritorno al potere di chi aveva perduto le elezioni. Ciò prelude, a parere di molti, alla restaurazione dei vecchi equilibri della Prima Repubblica, con un partito di centro egemone, alleato perpetuo di una sinistra ideologica, classista e demagogica, ossia quella sciagurata maggioranza che ha distrutto l’economia e la società italiane nell’ultimo mezzo secolo, vera responsabile del disastro morale, sociale e finanziario in cui ci troviamo oggi. L’indirizzo decisamente sinistrorso del governo Monti, l’entusiasmo fideistico di Casini e di Fini per l’attuale esecutivo, la richiesta di un ritorno alla proporzionale avvalorano i nostri sospetti. Il colmo dell’impudenza consiste nel fatto che questa rivisitazione di un passato che la storia ha condannato senza appello, esattamente come il muro di Berlino, si vuole giustificare in nome della rinascita del Paese: come possano operare in tal senso le medesime forze che lo hanno miseramente affossato, resta un mistero tutto da chiarire! Chiediamoci, pertanto, se questo tentativo possa riscuotere un minimo di successo. Le vicende di tutti i tempi e di tutti i periodi sembrano escludere tale ipotesi: con la morte di Cesare scomparve pure il cesarismo, con la rivoluzione francese finì l’assolutismo, con Waterloo il bonapartismo e con il 1989 il comunismo. Malgrado ciò, i tentativi di far risorgere i vecchi sistemi sono stati numerosi, e di solito hanno prodotto aborti di regimi sospesi fra la carnevalata e la tragedia, osservando i quali Carlo Marx coniò il celebre motto: «La storia si ripete, la prima volta in chiave di dramma, la seconda in chiave di farsa». Simile pericolo, tuttavia, non può essere liquidato con una semplice battuta. Ogni volta che esso è riuscito a materializzarsi, infatti, si è inaugurata una fase oscurantistica, d’impressionante degrado morale e civile: pensiamo soltanto alla degenerazione del cesarismo sotto Caligola e Nerone, alla restaurazione della monarchia borbonica col re tentenna Luigi XVIII, al secondo Impero francese, finito nel disastro di Sedan. Qualora, Dio non voglia, dovesse riuscire il disegno restauratore di Monti, Passera, Casini, Fini e Napolitano, per l’Italia si aprirebbero scenari da film horror, degni della più sbrigliata fantasia di Dario Argento, mescolati alla comicità di Totò e di Alberto Sordi. Le premesse si stanno purtroppo già manifestando. Si pone, dunque, il grande problema: come prevenire simile catastrofe? Purtroppo, la destra italiana esce annientata dal colpo di Stato. Il Pdl versa in coma profondo, essendo
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divenuto uno strumento del tutto inaffidabile, e perciò inservibile, come la Costa Concordia dopo il naufragio; la Lega Nord, spaccata all’interno, non supererà inoltre mai la propria vocazione di movimento padano, rivelandosi inadatta a giocare un ruolo di opposizione nazionale. L’elettore di destra, smarrito, deluso e frastornato per la rapidità degli eventi, tende allora a rifugiarsi nell’astensione che, secondo i sondaggi, oscilla tra il 40 e il 50 per cento. Gli stessi uomini del moribondo Pdl non appaiono oggi credibili: è ancora possibile affidare le sorti della Nazione nelle mani di chi, eletto per sbarrare la strada ai comunisti e realizzare una rivoluzione liberale, ha invece portato al governo proprio i nemici di sempre? Non si rifugino nel comodo alibi dell’emergenza; questo, si sa, venne usato anche da Moro per giustificare l’abbraccio tra DC e marxisti, con i risultati che ognuno conosce. Tutto ciò è assolutamente e tragicamente vero. Per ricostruire la destra, però, occorre risolvere alcuni problemi preliminari: individuare il contenente, il contenuto, la leadership. Oggi, la nostra area appare frantumata in molte piccole associazioni, spesso niente più che club di intellettuali o liberi pensatori, che aspirano a diventare partito senza tuttavia possedere gli strumenti per farlo. I programmi, poi, si rivelano alquanto disomogenei, frastagliati, talvolta in netto contrasto fra loro: liberisti contro solidaristi, laici contro cattolici, fautori della sussidiarietà contro statalisti, amanti delle autonomie contro centralisti. Eppure, malgrado queste diverse ispirazioni ideali, tutti concordano su un comune obiettivo: la Prima Repubblica non deve tornare e il tentativo posto in essere a novembre, deve fallire. Sarà sufficiente, questo lodevolissimo intento, per convincere le forze disperse a coabitare sotto un unico tetto il tempo necessario a far ripartire la dialettica politica ? Credo di sì, e cerco di spiegarne le ragioni. Negli ultimi vent’anni, la destra si è identificata con il Cavaliere. Questi ha rappresentato il grande collante e la grande illusione, la guida suprema a cui si sono inchinati, volenti o nolenti, (vedi il discorso del predellino), tutti coloro che non si riconoscevano nella gioiosa macchina da guerra dei post-comunisti. Il tramonto, irreversibile, del personaggio che nel bene e nel male ha condotto la recente storia d’Italia, ha lasciato orfani i suoi sbigottiti nipotini. Essi scontano il micidiale errore di non aver preparato l’alternativa, di non aver saputo o voluto creare un vero partito, dotato sia di una piattaforma ideologica definita, sia di una classe dirigente degna di tal nome. Di tale evidente debolezza si sono approfittati i poteri forti, insieme alle sinistre loro alleate da sempre per rovesciare la maggioranza democraticamente eletta nel 2008 ed imporre una giunta di salute pubblica, secondo i canoni classici del marxismo-leninismo. Il primo effetto di questa disinvolta manovra è stato la polverizzazione della destra e la scomparsa del Pdl. Resta ancora da stabilire se ciò avverrà prima delle consultazioni politiche ovvero subito dopo, sull’onda della scontata disfatta elettorale. Il mio auspicio propende per la prima ipotesi: in tal caso, anche se il tempo a disposizione non sarebbe certo molto, potremmo sperare di dar vita ad un nuovo soggetto politico da presentare agli Italiani. Se, invece, si dovesse verificare la seconda, dovremmo prepararci a cinque anni di durissima recessione, di sostanziale soppressione della libertà, di terrore poliziesco a sostegno dei poteri forti, contrabbandato per lotta all’evasione fiscale. Dobbiamo quindi sperare che i movimenti e le associazioni di destra, per eterogenei che possano apparire, di fronte all’immediato e concreto pericolo della instaurazione di un regime ventennale fondato sul ricatto delle Borse, sulla rapina dei risparmi attraverso il furto pseudo-legale di natura tributaria e sulla intimidazione sistematica, trovino quella generosità
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e comunione d’intenti che in un momento come l’attuale sono assolutamente necessarie per la salvezza della nostra civiltà. La road map da seguire mi sembra pertanto la seguente: 1) al più presto occorre dar vita ad una sorta di Forum civico, sul modello di quelli che negli anni ottanta sconfissero il comunismo, (si ricordino gli organismi creati da Havel a Praga e da Walesa a Varsavia), sulla base di un programma minimo, fondato sull’esigenza di liberare l’Italia dal regime che attualmente la opprime e che potrebbe diventare perpetuo qualora esso stravincesse le elezioni, per mancanza di alternative. L’iniziativa di creare questo foro dibattimentale può essere assunta da qualsiasi movimento o associazione, purché dotati di buona volontà; 2) è indispensabile organizzare quanto prima un Convegno nazionale, che definirei Convenzione per attribuirgli l’importanza che merita, a cui invitare tutti coloro i quali, opportunamente sollecitati, dovessero manifestare interesse. È essenziale, per assicurare il successo dell’impresa, che tutto si svolga alla luce del sole e sotto i riflettori, evitando qualsiasi atteggiamento da congiurati o carbonari, capace di risvegliare i mai fugati fantasmi dell’associazionismo segreto. Ciò, ben inteso, per non offrire il fianco ad accuse e ritorsioni pretestuose da parte di avversari in malafede; 3) la Convenzione si dovrebbe chiudere con un proclama, sottoscritto dai presenti, indipendentemente dalle sfumature specifiche di ognuno, ove si richiami la necessità di dar vita ad un nuovo partito, in grado di rappresentare le diverse posizioni della destra italiana; 4) terminato il Convegno, è necessario far proseguire il lavoro organizzativo senza sosta e con la massima celerità, fino a giungere ad un nuovo organigramma dirigenziale, del quale facciano parte volti nuovi e persone capaci, poco importa se popolari o meno, purché non compromesse con la vecchia politica; 5) sembra inoltre utile costituire una scuola di formazione per i nuovi dirigenti politici e amministrativi, alla cui base si trovino i principi del nascente movimento. Quale immagine di partito emerge da simili premesse? A prima vista sembra che proponiamo un soggetto politico di stile anglosassone o germanico, piuttosto che italiano. Il Grand Old Party statunitense ospita sotto la stessa bandiera le anime più diverse sul piano ideale, morale e filosofico; esse, però, condividono tutte una certa idea dell’America che si contrappone all’altra, propria dei socialisti. Da noi non è detto che le cose debbano procedere nello stesso modo. Niente vieta di pensare alla nascita di due o anche tre partiti diversi, ciascuno dotato di una specifica ispirazione, purché disposto ad appoggiare coalizioni alternative al regime demo-comunista. Ciò richiede generosità e sensibilità morale non comuni, purtroppo estranee all’attuale classe dirigente, altro, ottimo motivo per escludere i vecchi politici dalla direzione del nuovo o dei nuovi partiti, il che non significa emarginare a priori questi ultimi. Sappiamo che anche tra loro si nascondono, (proprio bene, è appena il caso di sottolineare!), taluni galantuomini e intellettuali di notevole spessore, il contributo dei quali potrebbe rivelarsi prezioso nella fase di ricostruzione del Paese, che seguirà il crollo dell’attuale sistema. A costoro, però, mi sento di lanciare un chiarissimo appello: se volete scampare al naufragio dell’Italia-Costa Concordia, il momento di abbandonare la nave è questo. Quando essa si rovescerà il tempo utile sarà scaduto, e chi verrà sorpreso a bordo non avrà altra alternativa che annegare. Gli Italiani, stavolta, non tollereranno i voltagabbana di turno, sempre pronti a cambiare casacca ad ogni stormire di fronda. Chi si è macchiato del delitto di avere affondato la nostra Italia, e oltretutto rifiuta di ravvedersi in extremis, verrà simbolicamente appeso al pennone più alto del relitto. Così potrà ammirare ancor meglio gli effetti del proprio operato.
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PER BATTERE LA CRISI POLITICA
ABOLIAMO i partiti di ADRIANO TILGHER QUANDO avevo venti anni ero, come la maggior parte delle energie vitali della mia generazione, impegnato politicamente in modo notevole, posso dire che vivevo soltanto per quello. Il motivo di fondo del mio impegno nasceva dalla considerazione della crisi della società in cui vivevamo e che la crisi era di sistema. Il sistema partitocratico nato dalla sconfitta militare europea del 1945 era in crisi di rappresentatività, di partecipazione, di potere e noi cercavamo nuove forme che potessero far partecipare i cittadini alla gestione ed alla vita sia politica che economica della Nazione. Sono anni stupendi durante i quali, a destra come a sinistra, iniziano a elaborarsi nuovi e diversi documenti e proposte politiche; e queste proposte vengono richieste dalla piazza ed elaborate sul campo. Poi, per reprimere quel grande sogno, che stava addirittura portando, a poco più di venti anni dalla fine del conflitto civile che aveva tragicamente funestato l’Italia, al superamento delle contrapposizioni antifascismoanticomunismo, «qualcuno» diede vita allo stragismo, alla strategia della tensione, che servì a ricreare gli opposti estremismi e condusse, come via obbligata, al terrorismo. Fu così che le giovani generazioni più vive e più autentiche furono prima criminalizzate e poi eliminate. Molti persero la vita, tanti passarono lunghi anni in carcere. I mediocri, quelli che oggi occupano gli spazi della politica, continuarono a proteggersi sotto l’ombra nefasta della partitocrazia, chiedendo pene severe per chi si ribellava ed imparando nel modo peggiore l’arte della corruzione e della concussione, e facendo squallide carriere all’ombra delle segreterie di partiti che tramavano nella costruzione e nello sfruttamento delle ore più buie della nostra storia recente: sono gli anni di piombo. Poi la sinistra tentò il recupero di quelle risorse: clamorosi i casi di Piperno, Sofri, Negri, Boato, D’Elia, ecc., cui mai è stato chiesto di rinnegare le proprie scelte politiche; la destra invece continuò nell’opera di demonizzazione di coloro che erano stati utili per consentirne la sopravvivenza, tranne qualche sporadico caso che, dopo opportune abiure e rinnegamenti, è servito soprattutto a drenare voti di preferenza. Fini, Alemanno, Gasparri sono stati campioni in materia di sfruttamento ed abiure. Oggi, dopo oltre quaranta anni, la crisi politica è sempre la stessa, anzi, la malattia, che all’epoca forse sarebbe stata curabile, è diventata incurabile. Il sistema dei partiti sta palesando tutta la sua farraginosità ed antidemocraticità. Esiste una frattura insanabile tra i partiti e i loro seguaci, da una parte, e la gente, dall’altra, tra la politica ed i partiti, tra la partecipazione e le forme istituzionali. Da quegli anni, che qualcuno ha definito «formidabili», nessuno è stato capace di proporre cambiamenti radicali che
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ricreassero il contatto e l’accordo tra la gente e la politica, tra gli elettori e i loro rappresentanti, tra il popolo e le istituzioni. Lo spettacolo che i partiti ed i loro uomini stanno dando in questi giorni rappresenta veramente la chiusura tombale della stagione dei partiti: Lusi tesoriere della Margherita che si appropria di tredici milioni di euro dei rimborsi elettorali del suo partito; Rutelli, che di quel partito era il segretario, non se ne accorge, come Scaiola non si era accorto che aveva pagato casa metà prezzo; nessuno sa che fine ha fatto il patrimonio di Alleanza Nazionale, dei DS, dell’Italia dei Valori di Di Pietro; la Lega che investe soldi del partito in Africa; ma nessuno si chiede perché dei partiti politici, che dovrebbero essere al servizio dei cittadini, hanno dei patrimoni così ingenti e soprattutto come se li sono procurati. Personalmente faccio politica da tanti anni e probabilmente sono l’unico, o, nel migliore dei casi, uno dei pochissimi che in politica ci ha rimesso soldi; anche io ho preso il rimborso elettorale per le elezioni europee affrontate con Alternativa Sociale, ma quei soldi non sono stati sufficienti a coprire i debiti contratti dal mio partito. Come fanno costoro ad accumulare enormi patrimoni, per di più spendendo cifre da capogiro in propaganda, convegni, campagne elettorali? C’è da credere che corruzione e concussione siano gli strumenti attraverso cui si reperiscono fondi per sé stessi e per il partito: sono questi i veri costi della politica. Vogliamo tagliarli veramente questi costi? Non serve ridurre deputati e senatori o cancellare le provincie, sono i classici pannicelli caldi che tutt’al più riducono la rappresentatività delle minoranze, dobbiamo tagliare alla radice recidendo la fonte prima di questi costi: i partiti politici. Serve una grande riforma istituzionale e costituzionale, che consenta a tutti i cittadini di raccogliersi attorno ad idee condivise in occasione delle consultazioni elettorali e che li metta in condizione di poter esprimere le proprie scelte sia su base territoriale che in base alle funzioni che svolgono nella vita di ogni giorno, realizzando così una più autentica partecipazione. Regolamentare le campagne elettorali secondo rigidi protocolli operativi ed economici che determinino la fine del mercimonio dei consensi è un altro elemento di risparmio di risorse che va abbinato all’utilizzo in modo paritetico da parte di tutti i candidati degli strumenti di comunicazione di massa a costo zero. Ci vuole poco a realizzare una democrazia perfetta senza partiti, basta volerlo e, oggi, gli Italiani sono pronti. Ci libereremmo così in un solo colpo dei Monti, dei Casini, dei Bersani, dei Fini, dei Pisanu.
È in rete
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DIVIDI RICCHEZZA, CREI POVERTÀ
RICORDATE Berlusconi? di RICCARDO PARADISI VE LO ricordate Silvio Berlusconi? Lo avevamo lasciato la sera del 12 novembre all’uscita del Quirinale dove aveva rassegnato le dimissioni da presidente del Consiglio dopo settimane di assedio mediatico internazionale, di pressione speculativa sull’Italia e di impennate dello spread arrivato a sfiorare i cinquecento punti. L’incubo diffuso, anche nel governo e tra le file della maggioranza di centrodestra in quei giorni è di finire come la Grecia. Il Cavaliere cede e molla la presa: dice che avrebbe potuto non dimettersi, che niente lo obbligava a quel gesto se non il suo senso di responsabilità e la consapevolezza della gravità della crisi. Oltre a questo a spingerlo al passo indietro c’era la presa d’atto d’una maggioranza a pezzi, d’un conflitto insanabile e ormai pubblico con il potente ministro dell’Economia Tremonti, l’isolamento internazionale sempre più palese e glaciale. Umberto Bossi a queste spiegazioni il pomeriggio del 25 novembre ne aggiunge un’altra: Berlusconi - dice il leader leghista - è stato costretto alle dimissioni sotto il ricatto di far crollare i titoli delle sue aziende. In effetti Mediaset, quotata a Piazza Affari, ha perso in un giorno il 12 per cento. Per Bossi quella è stata «la minaccia a Berlusconi», che «è stato evidentemente ricattato». «Ero presente anche io, i suoi dirigenti a Roma gli hanno detto “Silvio qui ti distruggono le imprese vai a dimetterti”. Così è andato, tutti lo sapete». Berlusconi legge la dichiarazione di Bossi e sobbalza: «Ma è pazzo? Ma come gli salta in mente, come si permette?» si sfoga coi suoi riuniti a Palazzo Grazioli per il vertice del Pdl. Il Cavaliere prova a contattare Bossi per capire meglio, magari il Senatur è stato frainteso. Ma il Senatur è irreperibile. Allora Berlusconi decide di replicare seccamente e diffonde una nota firmata dal suo ufficio stampa: «Le dimissioni sono state motivate esclusivamente dal senso di responsabilità e dal senso dello Stato, nell’interesse esclusivo del Paese». Non c’è stata «nessuna altra motivazione». Ma la teoria complottista - diciamo così non è soltanto Bossi ad usarla per spiegare gli ultimi giorni di Berlusconi al governo. Più recentemente, il 24 gennaio, anche il Manifesto ricostruisce la caduta di Berlusconi sullo sfondo d’un intrigo internazionale volto a liberarsi del Cavaliere in Italia attraverso il ricatto finanziario alle sue aziende. Berlusconi è stato un affarista molto utile per lo smantellamento della cosa pubblica e le liberalizzazioni - sostiene Manlio Dinucci sul quotidiano comunista - ma ha commesso un errore: si è reso inviso al potere occidentale per i suoi accordi economici con la Libia di Gheddafi e la Russia di Putin. «Divenuto scomodo quando, come rivela il Washington Post, si è infuriato per la mossa della Francia di attaccare per prima la Libia il 19 marzo». A questo punto Berlusconi - malgrado il successivo retromarcia e la
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partecipazione all’aggressione alla Libia - diventerebbe un inaffidabile. «Con la regia del governo ombra transnazionale, i mercati hanno minacciato di far crollare il suo impero economico». Ricostruzioni da verificare naturalmente, figliate da teorie che presumono l’esistenza di governi transnazionali paralleli e di regìe occulte dietro le quinte della storia, ma insomma che qualcosa sia avvenuto nei confronti del Cavaliere è abbastanza evidente. C’è anche da dire che certe linee di credito il governo italiano di centrodestra aveva pensato da solo a tagliarsele. Berlusconi come dice l’ex ministro della Cultura Sandro Bondi sarà anche «il più grande statista del dopoguerra dopo de Gasperi» ma pretendere che disinvolture, errori marchiani, indecisioni e imprudenze in politica estera, sottovalutazione della crisi e un disastroso governo della propria maggioranza non avrebbero aperto delle falle nella nave del governo è davvero da ingenui. Come è semplicistico stornare ogni responsabilità della caduta di Berlusconi su Giulio Tremonti, come fa ancora Bondi: «Adesso fa il filosofo della storia, il pensatore, mentre è il principale responsabile della fine del governo. Ha distrutto il nostro consenso, ha umiliato i ministri, ha costruito un asse d’acciaio con Bossi dettando la linea al governo». Ma questo è il recente passato di Berlusconi. Già perché da questo momento in poi il «Caimano» cambia nuovamente pelle. Se politicamente fa un passo indietro la sua ha tutta l’aria d’essere una ritirata strategica. Berlusconi non è un uomo a una sola dimensione. Lo ha dimostrato in questi anni più volte: ha vestito i panni del guastatore e del federatore, del paciere e dell’incendiario, del capopopolo e del padre nobile. Restando in fondo sempre il geniale imprenditore di se stesso, libero da vincoli anche con le sue stesse creature. A partire dal Pdl, già metamorfosi di Forza Italia e probabilmente a sua volta embrione di ulteriori trasformazioni in un partito personale. Un retroscena del Giornale del 6 febbraio rivela l’intenzione di Berlusconi di lanciare una fondazione con il suo nome che «deve essere come un’azienda gestita da manager e non da politici che non sono in grado di amministrare». Insomma una riedizione aggiornata della prima Forza Italia direttamente controllata dal leader, altro che il nuovo Pdl con i congressi, lo statuto, la democrazia interna. È lo stesso portavoce del premier Paolo Bonaiuti, il giorno stesso, a smentire il retroscena del giornale: «Mai pensato a niente di tutto questo». Ma se è una bufala è di quelle sintomatiche, verisimili. Due settimane prime era il Riformista a informare d’un sospetto sempre più ossessivo che serpeggia nel Pdl: ossia che Berlusconi, dopo il suo disarcionamento, abbia fatto di necessità virtù, convertendosi con realismo al nuovo corso della storia. D’altra parte - insinuano i falchi del Pdl - come spiegare i silenzi assensi di Berlusconi sulla condotta del governo, avallando le liberalizzazioni invise alla base del centrodestra? E come leggere gli elogi al premier: «Monti è bravissimo» o il sostegno garantito all’esecutivo: «Sarebbe da irresponsabili togliere la fiducia al governo». «Finché Passera non metterà mano al decreto ministeriale per valorizzare al meglio le frequenze», scrive il Riformista, «la partita politica di Berlusconi si gioca sottotraccia…Giustizia e Mediaset, Mediaset e giustizia. Sono questi i dossier della grande paura. Berlusconi li sta seguendo personalmente, lasciando ad Alfano il compito di gestire un partito in ebollizione. Una divisione di ruoli
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che alimenta il sospetto su Berlusconi che ‘si è venduto’.» Lettura anch’essa dietrologica che magari afferra una parte di verità. Ma c’è un altro modo di osservare l’evoluzione politica di Berlusconi: guardandola da davanti, senza retropensieri e dietrologie, seguendo la logica delle cose. Berlusconi ha capito che una fase della sua vicenda personale e politica è finita e ha già chiarito che non è interessato a ricandidarsi. In una delle riunioni del giovedì a palazzo Grazioli con i suoi ha anche fatto delle aperture al sistema elettorale tedesco definendo negativo e paralizzante il bilancio di un quindicennio di bipolarismo. Una conversione dettata anche dal fatto che Monti non ha soltanto liquidato una certa idea di centrodestra, ha inflitto un colpo molto duro anche ai progetti del centrosinistra a guida Pd, rimettendo in discussione gli schemi politici consolidati negli ultimi tre lustri. Dopo di ciò Berlusconi ha incassato anche la gratitudine e il riconoscimento dei suoi meriti da Monti in visita negli Stati uniti, ottenendo un parziale risarcimento dai trascorsi giudizi internazionali sprezzanti nei suoi confronti. Il risultato di questa navigazione discreta, con la barra del timone tenuta sulla rotta di superamento degli scogli giudiziari e aziendali, potrebbe avere a ben guardare un fine calcolato. Quello al tempo stesso di disegnarsi un ruolo da padre nobile del centrodestra italiano e insieme di superare il ruolo di leader di fazione per guadagnare un profilo istituzionale. Profilo in grado di proiettare Berlusconi a quell’incarico a cui il Cavaliere non ha mai smesso di aspirare: la presidenza della Repubblica. A prefigurare questo scenario è lo stesso sottosegretario all’Economia del governo Monti, Gianfranco Polillo: «Nel 1994 Berlusconi ha organizzato il fronte moderato, ha salvato la democrazia in Italia… Senza di lui avremmo avuto il partito unico, quello della gioiosa macchina da guerra dell’ex Pci. Lui ha creato una normalità democratica». Ecco, a fronte di questo contributo che il Cavaliere ha saputo dare alla democrazia italiana, Polillo si augura che, una volta scaduto il settennato di Giorgio Napolitano al Quirinale, Berlusconi possa fare il presidente della Repubblica. «Perché no? Al Paese ha dato tanto», dice il sottosegretario, «e poi molti cambiano carattere quando arrivano al Colle, magari succede anche a Berlusconi...». Magari è già accaduto. D’altra parte Berlusconi lo ha sempre detto: «Il mio più grande pregio è sapermi fare concavo e convesso».
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LE SCELTE POLITICHE DEL GOVERNO
LACCI e lacciuoli di RICCARDO SCARPA IL GOVERNO del Presidente, gestito da Mario Monti sotto gli auspicî del Capo dello Stato, con la fiducia del Parlamento e secondo l’ispirazione del mondo finanziario, nazionale, europeo ed internazionale ha avuto modo ormai di rivelarsi nella sua naturale ispirazione politica. È accaduto a partire dalla gestazione, dal parto e dai primi passi della normativa sulle liberalizzazioni nella disciplina d’alcune professioni e settori della produzione e del commercio di beni e servizî. Al di là del merito, del se quelle liberalizzazioni siano vere o fasulle, opportune oppure no, socialmente eque od inique, sta in fatto che quelle misure non servono tecnicamente al pareggio del bilancio od a difendere l’Euro, ma costituiscono delle scelte di politica e di struttura economica. Certo, il Presidente del Consiglio ed i ministri interessati si dicono convinti che esse, sciogliendo alcuni «lacci e laccioli» come diceva un tempo Guido Carli, che legavano la libera iniziativa nei settori interessati da quelle riforme, siano atte a generare più attività e quindi contribuire a rilanciare l’economia nazionale; ma ciò secondo i presupposti d’alcune concezioni economiche, le idee di talune scuole, che non sono presupposti od idee di altre, a cui evidentemente Capo del governo e ministri non aderiscono. Quindi sono scelte politiche, come è giusto che siano. Quello che è meno giusto è che vengano fatte passare per misure meramente tecniche e necessitate dal momento economico, e che su questa natura tecnicista delle proprie deliberazioni il governo fondi, nelle dichiarazioni dei suoi esponenti, la propria legittimazione a governarci. L’attuale governo ha ottenuto la fiducia del Parlamento, è quindi questa la sua legittimazione costituzionale a governarci; ma Mario Monti lo ricorda raramente, più spesso asserisce che il suo governo può governarci meglio, in un periodo di grave crisi economica e sociale, in quanto non è formato da esponenti di partito che abbiano bisogno del consenso del corpo elettorale, implicitamente descritto come una bestia demagogica bizzarra. Insomma, asserisce che un governo che non risponda agli elettori può governare meglio d’un governo eletto da essi, in quanto non ostaggio della demagogia. Se tale pensiero ha una logica, questa è che la democrazia è la peggiore forma di governo, mentre la migliore è l’autocrazia, qualora l’autocrate sia onesto e tecnicamente preparato, tutt’al più assistita dai consigli d’una aristocrazia tecnicoscientifica opportunamente selezionata. E difatti il Prof. Mario Monti, all’epoca rettore dell’Università degli studî «Bocconi» di Milano, è stato nominato Senatore a vita per i suoi meriti dal Capo dello Stato, e qualche ora dopo ha ricevuto l’incarico per formare il nuovo governo. Se il Capo dello Stato, il Presidente del Consiglio ed i suoi ministri, nonché gli Onorevoli parlamentari che hanno dato a questo governo una maggioranza così ampia da far passare, in doppia lettura, qualunque riforma costituzionale, facessero tutti emergere
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alla loro consapevolezza questo pensiero implicito nelle loro scelte, allora tanto varrebbe che, previa una consultazione ed un accordo politico in famiglia fra il Presidente della Repubblica e Sua Altezza Reale Vittorio Emanuele di Savoia, si varasse una legge costituzionale che trasferisse sui seggi di Palazzo Madama i membri della Consulta del Senato del Regno nominati da Sua Altezza, a norma dello Statuto Albertino, e facesse del Senato l’unica Camera che voti la fiducia ai governi. Non sarebbe d’ostacolo la norma che fissa in eterno la forma costituzionale dello Stato, in quanto tale diarchia di fatto non trasformerebbe la forma di Stato poiché il formale Capo dello Stato resterebbe elettivo ed a termine, ed in una Europa in cui la nuova costituzione ungherese, «nel nome della Sacra Corona di Santo Stefano», ha cancellato dalla denominazione dello Stato la parola «Repubblica», ma con ciò non ha restaurato alcun monarca, se ne vedono proprio di tutti i colori. I lettori de’il Borghese sono sufficientemente «scafati» da amare il paradosso, genere letterario a cui sono assuefatti fin dall’epoca di Leo Longanesi, ma penso non sfugga loro quanto, al di là dei paradossi, che la contingenza politica riporti di fatto all’ordine del giorno l’antichissima questione delle forme di governo e della forma di Stato. Questione «antichissima», perché il primo che la pose in Italia fu Pitagora a Crotone, con la conseguente rivolta degli ottimanti della vecchia nomenclatura crotoniate contro i pitagorici e lo sterminio di questi ultimi. Questa volta la questione è stata innestata non da Mario Monti e neppure dal Capo dello Stato, ma proprio da coloro che presi nel mazzo sembrano gli esautorati: i membri delle nomenclature dei diversi partiti. Ciò che ha reso possibile e di fatto necessario il governo del Presidente non fu il passo in dietro, o di fianco come disse Umberto Bossi, di Silvio Berlusconi, ma il passo in dietro o di fianco di tutti i dirigenti degli altri partiti, che nelle consultazioni si sono guardati bene dal presentare maggioranze e candidature alternative per l’incarico di tentare di formare il nuovo governo, ed hanno avuto una fifa boia di affrontare elezioni anticipate, forse perché pensano, ma non dicono, del corpo elettorale quel che invece ha detto e dice a brutto muso Mario Monti: che è una brutta bestia, forse anche un po’ incazzata, e nessuno sa cosa ne possa uscire dalle urne. Quello che allibisce è che se Silvio Berlusconi ottenne il voto proponendo quel celeberrimo «contratto con gli Italiani», oggi nessun partito, né il Popolo delle Libertà di Angelino Alfano, né il muto Partito Democratico, ma neppure i varî centristi, vendoliani, dipietristi e storaciani, e neppure i leghisti sempre più divisi, avanzano una proposta politica né in termini di cose da fare, né in termini di coalizioni per dire con chi intendono farle. La politica delle ultime legislature ha avuto un solo tema: pro o contro Silvio Berlusconi; tiratosi in dietro o di lato «Lui, caro Lei», vi fu e c’è il nulla. Tanto vale anche per la Destra, finita a «nani e ballerine»? Dire che i governi di Silvio Berlusconi non abbiano commesso inadempienze ed accumulato more nel rispetto di quel famigerato «contratto con gli Italiani» è eccessivo persino per un avvocato, ma sostenere che nulla sia stato adempiuto è altrettanto un fuor d’opera. Per esempio, che il governo della Nazione che, secondo le stime dell’UNESCO, possiede il maggiore patrimonio culturale al mondo, col «Codice del Bel Paese» firmato da Giuliano Urbani si sia dotato, nel 2004, d’una codificazione completa ed organica della legislazione sui beni culturali e paesistici, che supera le leggi firmate nel 1939 da Giuseppe Bottai è gran cosa, sebbene anche in
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questa legge, del tutto umana, non tutto sia perfetto, come rilevò chi scrive in un commento pubblicato dallo stesso editore che stampa il Borghese (si prega il direttore d’inserire nella pagina la copertina del volume, dato che l’editore autolesionista non l’inserisce mai nella pubblicità sulla rivista sulla quale l’autore del libro scrive). La stessa cosa non può dirsi per quanto riguarda la pubblica istruzione, nell’amministrare la quale sciagurate ministre, dalla Moratti alla Gelmini, si sono date da fare a smantellare la scuola pubblica, dalle elementari alle università degli studî, facendo rigirare nella tomba sia Giovanni Gentile che Benedetto Croce, e generando così la sola ipotesi possibile d’un accordo post mortem tra le animacce loro. Per quanto attiene all’Europa, persino Fini fece una buona opera quando rappresentò il governo Italiano alla Convenzione per la Costituzione europea, presieduta da quel gran signore della Destra che è Giscard d’Esting, nulla a che spartire con quel gaglioffo di Sarkozy. Quella Costituzione venne firmata in Campidoglio auspice Berlusconi, poi non venne ratificata per le solite divisioni interne ai socialisti francesi sul referendum relativo, ma di fatto i contenuti sono stati fatti proprî dal vigente Trattato di Lisbona. Se questo funziona poco non lo si deve a carenze interne, ma a chi ha la responsabilità politica d’attuare la politica, soprattutto estera e militare, per la quale l’Ue avrebbe le competenze ma non le usa. L’organo che potrebbe esigerlo, provocando le dimissioni di chi non lo fa, il Parlamento europeo, ha nel suo seno, al momento, pochi statisti e molti vecchi elefanti sulla via del cimitero, ed i nani e ballerine eletti su candidatura di quello stesso Berlusconi che, viceversa, agì cosi bene nei negoziati costituenti. Insomma, gli anni di Berlusconi non furono soltanto un occasione mancata per la Destra italiana, ma essa s’è come dissolta non tanto nella gestione, quanto nell’accettare una struttura d’un partito finto, che tale lo volle il Capo per avere mani libere, talché non ha più né idee ne programma essendosi privata dello strumento d’un partito vero. Questa Destra, tuttavia, ha un vantaggio che potrebbe sfruttare: non ha una mistica giacobina della democrazia ma attinge le radici in quel «liberalismo nazionale, capace di coniugare forza e consenso, di nazionalizzare le masse», dal quale partì Alfredo Oriani, secondo la ricostruzione che ne fa Rodolfo Sideri in un recente bellissimo libro (La Rivoluzione Ideale di Alfredo Oriani, Edizioni Settimo Sigillo in Roma, € 15,00). La questione costituente, posta all’ordine del giorno dal «fatto» rappresentato dal governo Monti e dallo squagliarsi dei partiti, sembra fatta apposta per lei: la affronti!
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ITALIA E GRECIA
LE CURE mortali di FILIPPO DE JORIO* GLI ITALIANI sono molto frastornati, preoccupati per l’avvenire, angosciati dai sacrifici che si chiedono loro in nome di una lontana patria europea che assume ai loro occhi le sembianze ossessive della Cancelliera Merkel. Io trovo che i miei compatrioti hanno ragione e che oggi - benché non ci sia molto tempo - occorre ben meditare alle nostre prossime mosse. In questi giorni mi è continuamente presente la vicenda greca. È vero - come dicono - che «noi non siamo la Grecia», ma i nostri problemi sono forse molto più complicati di quelli greci perché per molti anni abbiamo avuto una classe dominante, un premier ed un ministro dell’economia che ci hanno continuamente rassicurato sul fatto che «noi stavamo meglio degli altri», che non eravamo incorsi negli errori degli altri, etc.. Oggi abbiamo, invero un governo di funzionari, di tecnici che meritano il massimo rispetto, ma che ci dicono esattamente l’opposto e con ragione perché la situazione è veramente grave. Perciò bisogna ad ogni costo trovare una via d’uscita. Ma quella intrapresa, con un rigore draconiano, inasprimenti fiscali indescrivibili, (che, tra l’altro, valuteremo meglio il 1° luglio allorché scatterà il già approvato aumento di altri due punti dell’IVA) con sacrifici intollerabili imposti alla parte più debole e bisognosa del Paese cioè i pensionati), è la strada giusta o no? * * * Dicevo prima che, in questi giorni, mi è continuamente presente la Grecia. Perché i problemi della Grecia, sia pure enfatizzati, sono molto similari ai nostri e la soluzione imposta ai Greci è la stessa che viene «consigliata» a noi e poi sarà «calata» nelle decisioni economiche di tutti i Paesi dell’Europa del Sud, Spagna e Portogallo. Ora, tali misure - troppo simili ahimè a quelle del Fondo Monetario Internazionale - conducono il mio pensiero anche alla vicenda argentina di qualche anno fa (del resto, non fu la sola!). Lo stesso rigore fu voluto dalle Autorità monetarie internazionali e subìto dai dirigenti politici argentini che ci lasciarono le penne e dovettero ammettere il fallimento (oggi si dice default) della loro nazione e la pessima soluzione della sospensione di pagamenti ai creditori, che ancora oggi a distanza di vari lustri non prestano più denaro allo Stato argentino. Quella del rigore e degli inasprimenti fiscali è un espediente soltanto apparentemente valido perché in realtà - e lo riconoscono tutti - porta con sé due terribili conseguenze: la diminuzione del prodotto interno lordo e la recessione con la altrettanto inevitabile perdita di posti di lavoro e scomparsa dal mercato delle aziende meno fornite di capitale, cioè le piccole e medie, che divengono «marginali».
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Conseguenza che poi conduce ad altri guai, cioè ad ulteriori contrazioni dell’economia con perdita di spazi e di lavoro, diminuzione del credito alle imprese ed in genere diminuzione del dinamismo produttivo. Ecco perché la vicenda greca fa paura. Perché si riferisce a gente che la medicina l’ha presa prima di noi! E la sta inghiottendo da circa 2 anni. Infruttuosamente, purtroppo, dato che la medicina è sbagliata! Più ancora mi fa paura il fatto che la cura che ci viene propinata – come ho detto molto simile a quella, in un primo tempo imposta alla Grecia - non viene accompagnata da misure che realmente, cioè veridicamente, siano destinate a promuovere il circolo virtuoso dello sviluppo. Dove sono gli investimenti di capitale essenziali per questa funzione? Dove sono le risorse necessarie? Dove le disposizioni legislative che prevedano incentivi di proporzioni tali da innescare il ritorno degli investitori italiani e stranieri nel Paese più bello del mondo, ma anche il più incerto agli occhi di molti, per gli errori politici compiuti in passato e la esistenza di corruzione infinita e diffusa, di una classe dominante incrostata al potere che intende continuare a detenere ad ogni costo, in una situazione quasi esemplare di assenza di democrazia e di meritocrazia etc.? La strada da percorrere era ed è, a mio avviso, diversa, come sostengo da tempo. Essa passava e passa nel rendere possibile l’accesso al mercato - oggi impedito - alla maggioranza sofferente del Paese: pensionati e ceti medi. Promuovendo economicamente questi ultimi, vi sarebbe l’innesco degli schemi keynesiani dell’acceleratore e del moltiplicatore economico. È la soluzione parzialmente scelta dagli Stati Uniti che oggi stanno uscendo dalla recessione. Noi abbiamo fatto il contrario: bastonato i pensionati e i ceti medi, ancora di più negli ultimi tre anni (se si esamina la «manovra di ferragosto» di Berlusconi si trova già molto di ciò che troviamo in quella di Monti). Dò atto a quest’ultimo di interpretare con molta dignità un ruolo difficile tra molte insidie e prospettive incerte, ma purtroppo non vedo nel decreto sulle cosiddette «liberalizzazioni» quel complesso di disposizioni normative idonee a fare scattare una fase economica nuova. Per carità, sono quasi tutte misure utili, ma da qui, a riuscire a fare qualcosa ci vuole un investimento complessivo di capitali freschi per almeno il 4 per cento del Pil che non ci sono, perché i soldi faticosamente e dolorosamente raccolti con i «sacrifici” servono a tamponare le falle del debito pubblico e non a promuovere la crescita! A questi elementi di grave perplessità si aggiunge un clima generale di incertezza, con il crollo verticale dei consumi, la chiusura di molte attività industriali e commerciali, la crescita degli insoluti, la perdita di posti di lavoro; con la correlativa diminuzione di qualsiasi prestigio per la casta dominante. Ma in fondo al tunnel vedo un fatto positivo: l’aspettativa di qualcosa di nuovo cui la gente sempre di più aspira dopo il fallimento doloroso e totale della cosiddetta IIa Repubblica (che, a mio avviso, si è rivelata molto peggiore della prima!). Dobbiamo mettercela tutta, tutti quanti noi che ancora crediamo nell’avvenire del Paese per partecipare ad una «Crociata per l’Italia» nella quale federare persone, associazioni, movimenti che non si riconoscono, che non si identificano più nel nostro presente! *Presidente della Consulta dei Pensionati e dei Pensionati Uniti
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SOCIALIZZARE E RIPENSARE LO STATO
QUINTA fase di EMMANUEL RAFFAELE MARX, aiutaci tu. Perché restyling culturale a sinistra e rigidità ideologica tra gli eredi della Terza via mussoliniana stanno facendo dimenticare anche quanto di buono avevi scritto. Da una parte il vecchio rottamato per il nulla, dall’altra fascisti che hanno meritoriamente imparato a menadito la dottrina evoliana, ma hanno colpevolmente tralasciato la concretezza, «la gente che lavora» e la pur non ortodossa influenza che sul maestro di Predappio ha avuto il pensiero marxiano. «Quel marxista di nome Mussolini», come scrive nel suo libro Domenico Settembrini, che «non vuole diventare un Franco, sogna di essere un Lenin. Dice frasi come: Il corporativismo, se è serio, è socialismo». È impossibile che dalla crisi economico-politico si possa uscire senza idee sociali nuove. E allora: «Sos Marx!» Salviamo il Fascismo dalle grinfie di chi lo vuole ortodosso ma in stato vegetativo, tutto il contrario di come lo voleva il suo capo, che infatti scriveva: «occorre sapersi muovere, elasticamente, nella realtà adattandosi alla realtà». E c’è soltanto un modo per dare una risposta rivoluzionaria alla crisi: «Occorre ricordare», scrive Slavoj Zizek, filosofo marxista sloveno, «che i meccanismi democratici fanno parte di un apparato dello Stato borghese chiamato ad assicurare il regolare funzionamento della riproduzione capitalistica», perché «noi non votiamo su chi possiede cosa o sul rapporto tra i lavoratori in fabbrica». In poche parole: cambiare i rapporti di produzione dietro i quali si maschera la democrazia. Questa è ciò che fa una Rivoluzione: cambia il sistema dalle basi. Deriva marxista? Beh, la socializzazione lo è stata? E poi cos’è una deriva? Mussolini voleva un Fascismo nemico della Reazione e del Capitalismo: forse anche lui affetto da derive marxiste, chissà. «In materia sociale», annunciò d’altronde Alessandro Pavolini al Congresso di
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Verona nel ‘43, «è chiaro che il socialismo fascista non può essere il socialismo marxista […] nel senso che è contrario al nostro spirito, il pensiero di un’assurda totale statizzazione di tutte le attività economiche […]. Noi vogliamo garantire e proteggere la proprietà che sorge dal lavoro individuale». Proprietà concentrata nelle mani di pochi, produzione socializzata, polarizzazione della società: una situazione preannunciata da Marx e che soltanto oggi è reale. Tra l’altro, scrive il Nobel Paul Krugman: «L’èra dell’enorme crescita del settore finanziario è stata anche quella della crescente disparità di reddito tra le classi sociali […]. Tra il 1980 e il 2007 il reddito familiare medio, al netto dell’inflazione, è cresciuto di appena un quinto rispetto a quello della generazione del dopoguerra, anche se l’economia in quel periodo era caratterizzata da una rigorosa regolamentazione finanziaria sia da aliquote fiscali molto più alte per i ricchi di quelle oggi in discussione». «Secondo uno studio dell’Istituto tedesco per la ricerca economica», scrive inoltre l’Internazionale, «oggi i lavoratori tedeschi che percepiscono salari bassi guadagnano il 18 per cento in meno rispetto a dieci anni fa, quelli con un salario medio ricevono l’8 per cento in meno, i lavoratori con salari elevati guadagnano l’1 per cento in meno». E la Germania è il Paese che sta meglio. Intanto la Grecia ha rifiutato ulteriori misure di austerità. Bce, Fmi e Commissione Europea minacciano di non concedere gli aiuti. E già a marzo la Grecia potrebbe fallire. In Cina per la prima volta la popolazione urbana ha superato quella rurale, segno che ovviamente la Cina, pur in frenata, è ancora in una fase estensiva di crescita. La gran parte del popolo è ancora fuori dal terziario, al contrario dell’Occidente, che ha invece esaurito anche la sua fase intensiva di sviluppo. Delle due l’una: o la Cina non sarà in grado di completare la fase intensiva venuta meno la sponda occidentale oppure l’Occidente diverrà il Terzo Mondo delle economie emergenti. Assistiamo a crisi delle banche e del capitale così come in Francia nel 1789 era in crisi la nobiltà. Secondo Pier Giorgio Ardeni, docente dell’Università di Bologna, l’Occidente ha finora conosciuto quattro epoche economiche: agraria (500-1500), agraria avanzata (1500-1700), capitalismo mercantile (1700-1820) e capitalismo (1820 in poi). Il tempo di una nuova fase sembra giunto. Oggi che si protesta in tutta l’America del Nord, in metà America del Sud, in tutta Europa e si protesta anche in Australia e Russia. Oggi che la recessione è qualcosa di più di uno spettro che si limita ad aggirarsi per la sola Europa e la crisi dei debiti europei è la punta di un iceberg che ha radici negli Usa. Svolta epocale? Ora o mai più. In effetti le agenzie di rating, pur illegittime, criticano giustamente l’instabilità economica degli Stati europei. Austerità e tagli sono le nuove parole d’ordine: bene, se non si dimentica di mutare anche la sostanza, mettendo da parte Smith, i suoi vantaggi comparati e l’economia ancorata al consumo, pianificando la cosiddetta decrescita felice tanto cara a Illich e all’illustre scuola che predica l’abbondanza frugale. Bene, se non si dimentica di agire sui rapporti di produzione, visto che il sistema che ha continuato a generare sfruttamento. E allora: Socializzazione, adatta ed adattabile al futuro. L’idea veramente rivoluzionaria.
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E poi agire, ad esempio, sulla grande proprietà inutilizzata: interi palazzi o terreni abbandonati ma inoccupabili poiché privati. E poi le energie alternative. Sull’energia solare c’è chi non è così pessimista: «Entro il 2050 il solare fornirà agli Stati Uniti metà dell’elettricità necessaria, e almeno il 50 per cento sarà generato nelle centrali solari termiche», afferma Bill Gross, fondatore della californiana eSolar, che promette di rendere l’energia solare meno costosa dei combustibili fossili. Ed ovviamente tagli alla burocrazia: «Primi in Italia, cinque piccoli Comuni della valle del Samoggia, nel bolognese, si fondono», scrive Italia Oggi, «cancellati cinque sindaci, cinque giunte (28 componenti) e cinque consigli comunali (77 consiglieri) […], il risparmio è stimato in più di 240.000 euro l’anno». Figuriamoci se a sparire ci fossero, senza trucchi, anche le Province. Snellire lo Stato, ripensando strutture ed interventi nell’economia è la priorità. Dismissioni di immobili inutili ed una svolta sulle partecipate, che al Sud sono in perdita per 100,6 milioni, al Centro per 14,3 e soltanto al Nord sono in attivo. Economia e politica devono avere confini precisi e la situazione attuale, con nomine e tutto il resto, proprio non va. Ridare ai Comuni o alle Associazioni di Comuni la gestione dei servizi pubblici essenziali: basta privati e multinazionali, serve controllo. E serve limitare le fonti di spese, centralizzandole e/o controllandole, vincolando l’amministrazione ad una sistematica opera di semplificazione e trasparenza amministrativa. In breve, conti pubblici per davvero, relazioni sull’operato, compensi e organigrammi: tutto online. Ed infine si ripensi l’Europa, incompatibile con questi cambiamenti. Oppure se ne esca, tanto così non andrà lontano.
LODEVOLE INIZIATIVA
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IL BORGHESE
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«IL BORGHESE» INTERVISTA ERASMO CINQUE
CHI DIFENDE IL VOTO, espressione di volontà del cittadino? VERACE, grintoso, con le idee chiare, imprenditore (ramo costruzioni) per mestiere e per tradizione familiare, politico, anzi amico della politica per passione, Erasmo Cinque, da anni vicino al centro-destra, ha da dire molto in questa delicata fase della politica italiana, proprio quando in parecchi tacciono, si nascondono, attendendo tempi migliori e, cosa che fa indignare Erasmo Cinque, pensano di far fare al premier «tecno-professore» il cosiddetto lavoro sporco (mai un governo di destra avrebbe reintrodotto l’Ici, mai un governo di sinistra avrebbe toccato le pensioni), nella speranza di tornare impuniti e vergini alle prossime consultazioni. E ha deciso di «scendere in campo» con le sue «risposte» e argomentazioni che ha offerto a il Borghese. Erasmo Cinque, ci dia le sue istruzioni per l’uso. Come facciamo a ripartire? Se non sbagliamo le sue considerazioni partono dalla riforma del sistema elettorale, che nonostante le firme di milioni di cittadini (il «referendum»), sembra restare una pietra miliare, un macigno inamovibile per la vecchia «nomenclatura» partitica. Lo stesso Monti, furbescamente, ha rimandato la palla al parlamento e si è ben guardato dall’affrontare la materia, ritenendola estremamente spinosa e complessa. E mentre andiamo in stampa, sembra che Fini, Schifani, Alfano, Berlusconi, Bersani e Casini, abbiano riavviato le consultazioni per la creazione di un tavolo per la riforma elettorale... «Spero non si tratti dell’ennesima operazione di maquillage. Difficilmente il sistema si riforma dall’interno, comunque vedremo. La Costituzione parla di popolosovrano che esercita la sua sovranità democratica attraverso il voto. Allo stato delle cose, invece, questa sovranità non c’è. La Costituzione è palesemente disattesa, il diritto del popolo-sovrano un bluff. Ne consegue che la democrazia è bloccata, azzerata, commissariata, sospesa a mezz’aria, anzi a mezz’altezza. Io non credo che esista un sistema elettorale ottimale. Maggioritario, proporzionale hanno un senso unicamente in un quadro istituzionale coerente e se rappresentano un società già bipolare. Le forzature giuridiche non obbligano la società, è il contrario. Così come sono convinto che le riforme strutturali del Paese, riforme costituzionali, che ci consentiranno finalmente di passare alla nuova Repubblica, debbano partire dalle fondamenta, ossia dai valori condivisi, dal modello di Stato, di società, dalla forma di governo, appunto il criterio, il meccanismo con cui si vota. «Detto questo, il Porcellum è stato una autentica porcata, come ha ammesso lo stesso suo ideatore Roberto Calderoli. Ha mandato in parlamento famigli, amici degli amici, portatori d’acqua e sudditi dei capi, senza consenso e spesso senza una preparazione degna del nome. Con il risultato che dopo un anno e mezzo di governo è iniziata
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la stagione dei traditori, parlamentari che hanno volutamente ignorato la volontà degli elettori che con il loro voto li avevano fatti eleggere, una vera e propria dimostrazione di sprezzante dispregio del valore democratico del voto, una vera offesa al popolo sovrano. Dobbiamo al più presto tornare alla democrazia reale, recuperare con la buona politica quello spazio che oggi hanno occupato i professori, i tecnici, i tecnocrati, i banchieri. Oligarchie che potrebbero confondere l’emergenza con la permanenza. E la buona politica si fa con le idee e con una nuova classe dirigente all’altezza del compito storico che la attende: ricostruire l’Italia. Una nuova classe dirigente democraticamente eletta, dal basso, grazie alla partecipazione, alla militanza, al voto. Ecco il punto, bisogna reintrodurre la preferenza, dando al popolo-sovrano l’opportunità e la possibilità di scegliere, premiare chi ha un buon programma, buone idee, buon curriculum, promuovere chi ha governato bene e bocciare, mandare a casa chi ha governato male e chi ha oltraggiato l’istituto democratico del voto.» Torniamo al governo Monti, sancisce una fase utile o pericolosa per il Paese? «Non sono d’accordo col governo Monti, con le modalità che lo hanno portato a Palazzo Chigi, con le sue ricette economiche dettate da logiche che appartengono ai poteri forti internazionali di cui lui fa parte. La sua ascesa non è stata l’esito di una democratica consultazione elettorale, i cittadini sono stati fatti fuori da ogni decisione in barba alla nostra costituzione alla nostra tanto invocata democrazia. «Del resto, è un dato di fatto che Berlusconi è stato tradito, a partire da Tremonti, lo hanno legato come un salsicciotto e hanno ricalcato, facendolo cadere dal trono, le fiabe di Gulliver: tanti piccoli uomini capaci di imbrigliare un Gigante, quello che è ed è stato il Cavaliere per l’Italia, la democrazia, la modernizzazione, il bipolarismo moderno. Non a caso il governo Monti gode anche dell’appoggio dei terzopolisti e della sinistra che non ha avuto il coraggio di offrire al Paese un’alternativa politica. Una sinistra vecchia, superata e ancora ideologica. L’unica cosa da fare era andare alle elezioni e ricostruire immediatamente una fiducia politica, un governo democratico, liberamente scelto dal popolo.» Nell’attesa di tornare al voto, cosa dobbiamo fare? «Dobbiamo tornare a fare politica tra la gente riconquistare stima e fiducia nei partiti che sono alla base di una gestione democratica di un Paese, evitare di far credere che chi ci governa può non essere scelto dal popolo, ma dai poteri forti. «La sovranità è solo del popolo, viva lo Stato veramente democratico.»
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MENTRE LA LEGA SI «SLEGA»
MARONI mette cappello di GIGI MONCALVO CI VORREBBE il Mago Otelma, temporaneamente impegnato a spese degli abbonati Rai nell’Isola dei Famosi insieme a una banda di smandrippati senza arte né parte, per riuscire a capire e prevedere che cosa ne sarà della Lega e, soprattutto, dove vuole andare (la Lega non Otelma). Che Bossi non voglia presentarsi alle elezioni amministrative insieme al Pdl, decidendo candidati-sindaco comuni, è sicuro. In questo modo egli otterrà due risultati: non vìola il famoso «contratto» con Berlusconi firmato nel 2000 (che riguarda soltanto le elezioni politiche) e, in secondo luogo, consente a Maroni di cantare vittoria. La tattica del futuro vero leader della Lega, che sta soffiando il partito a Bossi, ma nel contempo continua a proclamargli fedeltà e stima, è impostata infatti in una sola direzione: far credere che egli è anti-berlusconiano, che non è disposto a seguire il cavaliere, che in questi mesi ha lottato in tutti i modi per osteggiare la politica della coalizione di governo, e lo dimostra l’opposizione dura che è in corso col professor Monti così amorevolmente sostenuto dal Pdl per evidenti ragioni giudiziarie e di frequenze televisive. E quindi, se la Lega era diventata una «sottomarca» del Pdl e un partito «poltronista» la colpa non è sua, ma soltanto di Bossi. C’è un solo problema: che l’ex ministro dell’interno sia un anti-berlusconiano è una favola in cui soltanto i militanti della Val Brembana possono credere. Basterebbero, se essi soltanto ragionassero, alcune domandine facili facili per far capire la situazione. Se Maroni ha in mano il gruppo parlamentare leghista alla Camera, come mai in aula la Lega ha acceso il semaforo rosso per impedire l’arresto di Cosentino? Se Reguzzoni, come ci hanno fatto credere, era soltanto espressione del «cerchio magico» e non contava nulla, come è possibile che sia passata la sua linea, e cioè l’ordine di Bossi, sul «salvataggio» di Cosentino? Se Maroni era così critico nei confronti di Berlusconi e delle ultime fasi del suo governo, quali iniziative politiche ha assunto, quali prese di distanza ha adottato, quali e quanti «no» ha pronunciato? Quand’era assiso al Viminale c’è contezza di qualche suo intervento anti-Cavaliere o antilinea del cavaliere? Eppure ce ne sarebbero state occasioni per alzare il ditino e pronunciare qualche parola… Che Maroni sia sempre stato, e sia ancora, dalla parte del Cavaliere lo dimostra un episodio piccolo ma sintomatico, che trova conferma proprio autorevole conferma nelle abitudini, nel carattere, nel modo di comportarsi di Berlusconi. Ogni volta in cui il Cavaliere trova qualcuno sulla sua strada, si tratti di una formica o di un TIR, non ci pensa un attimo a travolgerlo, ad asfaltarlo, a spianarlo. E lo fa con durezza, stando dietro le quinte ma dimostrando che è stato lui a volerlo. Lo fa, per dare una lezione affinché eventuali suoi avversari capiscano e comincino a pensare ad altro. La «vendetta» di Berlusconi, in casi come questi, non si manifesta soltanto contro i diretti interessati, i co-
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spiratori, i «nemici» - anzi, semmai viene tenuta aperta una porta per vedere se ci sono margini di trattativa, recupero e «riacquisto»… - ma comincia a colpire partendo dall’entourage di colui al quale occorre dare una lezione. A parte i casi di Fini e Bocchino, i cognati, le ex mogli, le case a Montecarlo, il metodo-Boffo e quant’altro, ci sono decine e decine di conferme alla regola secondo cui il Cavaliere «non fa prigionieri». Nel caso Maroni, il sovrano di Arcore, ovviamente, adesso sta a guardare, non dice nulla, aspetta quel che accadrà nella Lega, controlla Bossi, non può lasciarlo in mezzo a una strada, ma è sempre pronto a colpire. Spesso bisogna analizzare gli episodi «minimi» per capire tante cose. Ora - ed è qui che vogliamo arrivare - secondo voi se Maroni fosse avversario di Berlusconi e gli avesse davvero creato problemi, il Cavaliere avrebbe assunto la pupilla dell’ex ministro, signorina Isabella Votino, nientemeno che all’ufficio stampa del Milan, nientemeno che per 370 mila euro annui, nientemeno che in un posto completamente inventato e prima inesistente, nientemeno che ai rapporti istituzionali (ma dove sta il curriculum professionale della morettina partenopea?), nientemeno che concedendole il permesso di continuare a lavorare per il gruppo parlamentare della Lega, occupando un posto che sarebbe potuto benissimo toccare a qualche giovane camicia verde da addestrare e allevare a Roma nel tanto odiato (a parole) Palazzo? Come è possibile che la signorina, non appena le si è presentato il drammatico problema della disoccupazione a causa della caduta del governo e della perdita del suo incarico di portavoce del ministro Maroni, abbia immediatamente visto risolvere i suoi problemi grazie all’assunzione in una società del Cavaliere e quindi grazie al suo intervento diretto? Secondo voi una simile assunzione è stata autorizzata dal «Berlusca», oppure Adriano Galliani ha voluto fargli una sorpresina e gli aveva tenuto tutto nascosto? Secondo voi, il Cavaliere ha risolto di sua sponte il problema urgente di quella giovane «tacco 12» oppure è stato «sensibilizzato» a farlo da parte dell’ex e attuale principale della morettina? La signorina, evidentemente
ROBERTO MARONI E ISABELLA VOTINO (Dal sito http://affaritaliani.libero.it)
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IL BORGHESE
non continua a lavorare soltanto per il Milan, dato che, ogni volta in cui c’è il «suo» ministro a «Ballarò», lo segue, sempre col tailleur adatto, e viene inquadrata alle spalle di lui, apprensiva quando lo vede innervosirsi, lieta quando lui teorizza, indignata quando viene attaccato, pensierosa quando lui elucubra, prontissima se viene richiesto un ritaglio, un dato, una tabella. Il perfido, ma sempre puntuale Dagospia si è chiesto quale sia veramente il ruolo della Votino. Soprattutto dopo che il settimanale di casa Berlusconi, Chi, ha pubblicato un servizio fotografico su Maroni. In una delle immagini si vede l’ex ministro, negli ultimi giorni al Viminale, che si annoda la cravatta e si prepara ad uscire. Sullo sfondo, ben inquadrata c’è la Votino. Ma, dalle angolature e dagli specchi che fanno da sfondo alla foto si vede chiaramente che il «set» è in una toilette di lusso, di quelle usate dai ministri nel loro studio. «Possibile che si siano fatti fotografare in un bagno?», si è domandato Dagospia. In ogni caso la bella guagliona del Sannio, dopo la caduta del governo, aveva diffuso uno straziante annuncio: «Seguirò Bobo anche all’inferno». Con un’aggiunta toccante: «Dispiace, è inutile nasconderlo: sto cercando di gestire l’impatto emotivo. Per il dopo non devo preoccuparmi, perché continuerò a seguire Maroni nel suo impegno in Parlamento e nella Lega. Il mio ruolo non si esaurisce con la funzione: lo seguirò, come si dice, nella buona come nella cattiva sorte...». Al posto dell’inferno le è toccato il diavolo, nel senso di Milan. Chissà nella valli bergamasche e nel varesotto quale impatto producono i servizi fotografici, non soltanto quello del «bagno», ma i precedenti che mostrano le feste di compleanno della signorina: Palazzo Ferraioli (ospite Silvio Berlusconi), l’Hotel Majestic, a Roma-ladrona. Ma, quando poi la festa si sposta in Padania, la location diventa il glamour «JustCavalliCafé», con ospiti che si capiva benissimo erano lì soprattutto per lui più che per il compleanno di lei: dj Francesco, la Ventura, industriali, onorevoli, star e grand commis. Tipici raduni leghisti, dunque. Per l’ultimo compleanno della ragazza, altra sfilata di vip: il capo della Polizia, il prefetto e il questore di Milano, l’ambasciatore libico in Italia Gadur Hafed, Adriano Galliani, Maria Grazia Cucinotta, ovviamente Simona Ventura. Il compleanno della Votino viene celebrato con due feste, e lo chef deve essere d’accezione: Filippo La Mantia. Altro che salamelle, l’orso arrostito da Boso, la busecca di Calderoli o la bagna cauda di Borghezio. I soli giornalisti ammessi ai «raduni leghisti» della Votino e di Bobo sono, o erano: Minzolini, Alessio Vinci, Maria Latella, la Petruni, Giorgino. E pensare che la ragazza ha tutt’altre origini. Da Montesarchio approdò a Roma nel 2004, quando Pasquale Viespoli, ex pidiellino poi finiano la propose per un posto nell’ufficio stampa della fondazione «Nuova Italia», fondata da Gianni Alemanno. Col sindaco di Roma ha intrattenuto sempre buoni rapporti, fin dai tempi della rautiana Destra sociale. Insomma, una situazione molto neo-berlusconiana e molto poco proto-leghista. E, nel frattempo, la signora Maroni, cioè Emilia Macchi, che dice? Beh, lei è un altissimo dirigente della Aermacchi, si occupa del personale. Chissà se suo marito, lo stesso che non ha mai alzato un ditino ai tempi del governo Berlusconi, è lo stesso che, a suo tempo, ha sponsorizzato Giuseppe Orsi, l’amministratore delegato della Finmeccanica, cioè la capogruppo dell’Aermacchi.
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NEL TERZO POLO E FRA GLI EX «AN»
LA RESA dei conti di RUGGIERO CAPONE IL TICKET Casini-Montezemolo inizia a prendere forma. Merito anche delle recenti valanghe giudiziarie che hanno travolto Francesco Rutelli e Gianfranco Fini. Il leader dell’Api (Rutelli) deve oggi spiegare perché non s’è mai accorto della crescente ricchezza patrimoniale di Lusi, mentre Fini ha recentemente incassato il commissariamento per via giudiziaria di tutti gli immobili dell’ex An-Msi. Oggi l’Udc di Pierferdy è accreditato come socio di maggioranza del Terzo Polo: a conti fatti deterrebbe il 95 per cento del centro. Infatti gli ultimi sondaggi darebbero all’Api non più dello 0,5 ed a «Futuro e Libertà» lo 0,2. Mentre l’Udc sarebbe accreditato al 10 per cento. Ne deriva che i pezzi migliori di Api e Fli starebbero trattando il passaggio tra gli armigeri di Casini. A dare forza economica all’Udc concorrono Caltagirone (suocero di Casini, imprenditore, editore) e Luca Cordero di Montezemolo, l’imprenditore che in politica si vorrebbe accreditare come anti-Passera (il banchiere ministro di Monti che avrebbe nel cassetto il suo partito, fatto di tecnici centristi). * * * Non a caso Carmelo Briguglio, presidente vicario dei deputati di Fli, interviene su www.generazioneitalia.it per attaccare il leader Udc: «Noi siamo interessati a dare il nostro contributo insieme a tutto il Terzo Polo, nel quale i partiti che lo compongono, cioè Udc, Fli, Api e Mpa, sono tutti e quattro essenziali e devono anzi allargare il loro perimetro politico e sociale», afferma Briguglio; «… nessuno nel Terzo Polo ha la licenza di spingere fuori nessuno dei soci fondatori», dice ancora Briguglio, «leggasi Mpa per chiamare le cose col loro nome. La seconda è che Casini fa ormai da portavoce del Terzo Polo, quindi anche nostro. Certo ha i titoli politici per farlo e anche la delega da parte del presidente Fini, ma lo deve fare in modo che rappresenti non solo il suo ma anche il nostro mondo e tutti i soggetti che fanno parte del nuovo Polo. Occorrono allora regole comuni», dice Briguglio, «forse una Federazione con una sua governance in cui il leader dell’Udc può anche fare il primus inter pares, ma con simbolo comune o simboli associati, apparizioni televisive e spazi mediatici concordati, con delegazioni equamente composte. La terza, ma non per importanza, è che le elezioni amministrative non possono che essere una ortoprassi per il Terzo Polo, e la tesi di partiti in franchising sul territorio rischia di compromettere il progetto del Polo della Nazione... Risolte queste che sono questioni politiche e non polemiche», conclude Briguglio, «col garbo e la franchezza che devono ispirare i rapporti tra alleati, io credo che il fattore Casini, cioè la sua leadership di fatto nel Terzo Polo, può diventare un valore aggiunto in termini di coesione e crescita e non un elemento di polemica e di diffidenza che va in
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senso contrario». Briguglio e compari non vogliono pregiudicarsi il passaggio nell’Udc? E che fine faranno i soggetti che hanno gestito le finanze di Fli e An? Lo sanno anche le pietre che la fondazione di An era l’istituto di studi politici (privato) di Gianfranco Fini. Ma fintanto che Fini permaneva (seppur litigiosamente) nel Pdl, nessun colonnello, gregario o sottoposto s’azzardava a raccontare come avveniva la cooptazione in Alleanza nazionale. Per ottenere la semplice tessera di An si passava al vaglio di probi viri di «zarathustriana» meticolosità. Chi poi chiedeva accesso alla Fondazione, veniva rigirato come un pedalino: parafrasando Fini «la porta è aperta a gente irreprensibile che, come me, non ha mai preso nemmeno una contravvenzione stradale». Mamma mia!, che severità aleggiava tra Via della Scrofa, Charta Minuta e compagnia cantante. Oggi i paludati uomini di quei tempi si sono tutti trasformati in pesciaioli, fruttaroli... ladri di Pisa: quelli che di giorno litigano dimenticando d’aver notte tempo fatto bottino in letizia, amicizia. Rottosi l’orcio di An, improvvisamente sono diventati tutti ladri. S’accusano vicendevolmente. Forse mettono le mani avanti, o cercano di circoscrivere le indagini a quell’ultimo ammanco da 26 milioni di euro. E il pregresso? Che fine ha fatto il miliardo di euro in beni immobili? Come sono state gestite le donazioni di terreni, locali, palazzi e semplici appartamenti? L’ex An oggi Pdl Massimo Corsaro va dritto al nocciolo. «Il cospicuo calo delle disponibilità patrimoniali di AN», precisa Corsaro, «si è generato quando tutto era esclusivamente gestito dalle persone di fiducia del Presidente Fini, e le spese successive sono tutte riconducibili a passività generate in quella fase o, peggio ancora, dalla risoluzione di vertenze perse, attivate proprio dalla precedente gestione.» E Francesco Storace (oggi leader della Destra) indirizza direttamente i suoi strali su Gianfranco Fini: «Farò una riunione con gli avvocati. Quello che si legge sui giornali
GIUSTIZIA
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sul patrimonio di Alleanza nazionale fa vergognare. Se è vero, gli facciamo fare la fine di Lusi». Memori del vecchio detto chi mena per primo mena due volte, Fabio Granata, Enzo Raisi, Aldo Di Biagio e altri di Fli hanno velocemente denunciato l’ammanco di 26 milioni di euro, e chiesto sia fatta chiarezza. * * * S’apre così un giallo finanziario che ha tanto in comune con la vicenda Lusi. Non è certo un caso che tra i «consulenti» del patrimonio di An figurassero paludati personaggi accreditati Oltretevere, e già noti per aver detto la loro pure sui patrimoni della Dc. E allora qualcuno si domanda chi abbia spalancato la porta della Fondazione a Giò il Biondo (missino poi finito nella Dc di Sbardella), e chi abbia dato credito alle consulenze immobiliari di Raffaello Follieri (amico del cognato Tulliani). Dettagli? Storace non la pensa così e, dopo essersi visto passare sotto gli occhi il patrimonio di An (oggi nelle mani dei «commissari liquidatori»), preferisce che gli stracci saltino per aria. Anche se Italo Bocchino invita tutti i contendenti alla calma, precisando «qui nessuno ha rubato niente». Oltre all’onta del commissariamento del patrimonio, pende sui finiani la fuga dell’elettorato popolare. Un fenomeno recentemente emerso proprio nella Sicilia del fido Granata. «Si può parlare bene del Movimento dei Forconi senza inimicarsi l’amico Lombardo?», si sarà chiesto il finiano. Soprattutto si può tornare a fare politica sul territorio dopo aver dato ragione a chi parla di «infiltrazioni mafiose tra i Forconi»? Due bei dilemmi per Fabio Granata, vice coordinatore di «Futuro e Libertà». Così Granata ha tentato di parlare da vero politico, senza inimicarsi Ivan Lo Bello e Raffaele Lombardo e, soprattutto, senza mettersi contro i Forconi. «Mi lega a Ivan Lo Bello grande amicizia e condivisione piena di importanti battaglie di legalità, ma non posso condividere le sue parole sul movimento dei forconi. In campo possono anche esserci personaggi poco raccomandabili e metodi che non sono d’aiuto alla crisi siciliana, ma la protesta va capita e, oltre alla politica, dovrebbe essere l’impresa e la grande industria a fare autocritica e a comprendere le ragioni dei siciliani», dice Granata, dando un colpo al cerchio e l’altro alla botte. «Non si può sfruttare un territorio», aggiunge, «senza concedere neanche ciò che è previsto dallo Statuto e dalle normative, ad iniziare da bonifiche industriali mai fatte e da manutenzione e sicurezza degli impianti inesistente, per non parlare dell’inquinamento inaccettabile di aria e acque. Da vice presidente della Commissione Antimafia attendo riferimenti precisi sulle presunte infiltrazioni mafiose, da uomo politico dico a Ivan di avere memoria storica dei rapporti in Sicilia tra certa politica, impresa e grande industria molto spesso alla base del disastro siciliano.» Ma il leader di Fli, Gianfranco Fini, stringe i tempi per l’individuazione di un candidato del Terzo Polo per Palermo. E dopo l’incontro con il governatore siciliano e leader dell’Mpa, Raffaele Lombardo, Granata ha precisato: «Fini ha avuto una serie di incontri per individuare il candidato per Palermo in grado di aggregare e coordinare non solo le forze del Terzo Polo ma di aprire anche ad altre forze». Ma proprio in Sicilia l’Udc ha deciso d’abbandonare il governo regionale, lasciando col cerino in mano Fli ed Mpa. E se l’Udc è ormai l’intero Terzo Polo, evidentemente gli altri (Fini, Rutelli e Lombardo) non contano più nulla.
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TRA SUDDITANZA ED ACCUDIMENTO
DA STATO a società di ADRIANO SEGATORI QUANDO lo Stato era lo Stato, e la Politica era la Politica, i cittadini erano cittadini. Non è un gioco di parole, ma la constatazione penosa di come - consapevolmente e con voluta accettazione - il popolo si sia omologato a popolazione e l’identità abbia deviato verso il suo surrogato più infimo: l’identificazione. Con lenta, metodica e inesorabile strategia, la democrazia partecipativa è stata esautorata del più piccolo potere decisionale e orientativo, trasformandosi nella becera e parassitaria democrazia rappresentativa i cui disastri e fallimenti sono davanti agli occhi di tutti. Per logica e inarrestabile conseguenza, questa trasformazione ha determinato il già denunciato slittamento dello Stato a società e la nascita di tre nuove figure antropologiche: la vittima, il malato e il consumatore. Questi tre profili sociologici non si limitano ad essere delle semplici categorie gruppali, ma sono veri e propri metodi interpretativi della realtà, dei dispositivi relazionali tra individui, e tra questi e il sistema tecnico-funzionale nel quale sono inseriti. Dal punto di vista simbolico, sono il risultato della traumatica scissione del cittadino attivo in passivo oggetto di controllo e di accudimento. Vediamo nei dettagli il percorso di questa parabola, che assume un’importanza notevole dal punto di vista psicologico sia individuale che collettivo. Il cittadino inserito nello Stato, anche - e forse soprattutto secondo la concezione classica, indipendentemente dalla deviate interpretazioni moderniste - aveva un ruolo definito nell’organismo di appartenenza, o meglio ancora una funzione che trascendeva gli aspetti meccanici del semplice andamento pratico dell’apparato. Egli era il soggetto derivante da una storia personale, che agiva all’interno di un ordine di competenze e di posizione, e che si proiettava in un futuro dettato dal destino personale e all’interno di un progetto comunitario. Ora, il passato, il presente e il futuro dell’ex cittadino si sono condensati in tre categorie che sono la deformazione materialistica di una trascendenza oramai scomunicata e il surrogato deforme dell’antica impostazione identitaria. Il passato ha preso la configurazione di «vittima». In uno splendido saggio di Caroline Eliacheff e Daniel Soulez Larivière, Il tempo delle vittime, gli Autori rilevano come nella contemporaneità l’uomo si compresso tra due forzature: «[…] l’egualitarismo democratico e l’individualismo»; il primo «tira verso l’indifferenziato», il secondo «verso la singolarizzazione che non è più data dalla nascita». Questo è l’uomomassa, disidentificato fin dal momento del parto, un numero tra altri numeri, un’entità alla quale è proibito emergere in nome e per conto di una omologazione appiattente. Egli non può rivendicare alcun passato trionfante, perché la Storia è finita con il buonismo e gli atti di contrizione per le glorie trascorse, e il proprio casato è negato perché fomentatore di differenze e di comparazioni invidiose. Ecco, allora, emergere un surrogato di originalità, lo statuto di vittima e, come riportato da Pascal Brucker, «La vittimizzazione è la versione do-
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lorista del privilegio». L’uomo non viene più considerato per ciò che era e ha fatto, ma per ciò che ha subìto, anche come eredità: vittime degli abusi, della pedofilia, dell’amianto, delle persecuzioni razziali, della fede, dei traumi scolastici e via via piagnucolando. Il presente, dal canto suo, con la travolgente vittoria del capitalismo, ha presentificato l’uomo alla sua matrice pulsione e materialista, inchiodandolo alla cifra del «consumista». Privo, anche in questo aspetto, di ogni forma di originalità e di personale attrattiva differenziante, l’individuo tenta una disperata emersione dall’anonimato massificante attraverso la corsa disperata per l’acquisto di gadget. Essere «firmati» dalla testa ai piedi - fosse pure nella peggior falsificazione del marchio serve a coprire il senso di vuoto disperante per l’impossibilità ad una propria firma dell’esistenza. È la patologia dell’identificazione, a fronte di un martellante messaggio di meticciato mentale: è la mascherata dell’Io, che viene sottratto alla logica del desiderio - del rischio volontario a seguire la strada della propria vocazione - e si fonde nella condivisione delle voglie collettive. Ecco il patetico e frustrante paradosso: la ricerca della diversità proposta dal capitalismo, dove si finisce ad essere diversamente uguali, a discapito della propria capacità di scelta e di accettazione della identificatoria precarietà esistenziale. Questa, come dice Massimo Recalcati: «È l’identificazione solida […] come eccesso di alienazione, di integrazione, di assimilazione conformista al discorso comune». È questo il trionfo totale della mentalità capitalista. Scomunicato il passato e reificato il presente, il futuro prospettato al decaduto cittadino dell’ipermodernità è quello di «malato». Dal momento del concepimento, ogni gravidanza, ormai, è ormai rischio. Il bambino cresce con il fiato sul collo di un sistema che intende seguirlo passo dopo passo nella sua condizione di potenziale ammalato o, quanto meno, di oggetto passibile di inverosimili traumatismi. Incalzato da vaccinazioni e da assicurazioni di ogni genere, il suo percorso terreno è costellato da una serie sempre più specificata e minuziosa di controlli, e attraversa così tutta l’adolescenza e l’età adulta, per finire in una vecchiaia che non prevede assolutamente la morte come fatto ineluttabile e naturale, ma sempre come un evento il cui accadimento deve essere scaricato come colpa sulla mancanza di qualcuno o di qualcosa. Persino le normali frustrazioni scolastiche devono passare al vaglio di attivi e premurosi neuropsichiatri, e quando la diagnosi è incerta o negativa, e la riuscita viene meno per mancanza di voglia o per scarsa attitudine, ci saranno sempre genitori attenti e combattivi che attiveranno tribunali amministrativi e periti di parte per imputare agli insegnanti poca attenzione, insolente pignoleria e atteggiamenti demotivanti. Anche l’alunno e lo studente malati, di un sistema che non può e non vuole riconoscere uno dei più elementari e naturali assiomi che hanno fatto il progresso umano e la grandezza delle civiltà: che la vita è un rischio, e che l’unica modalità di farsi strada è attivare le risorse personali, secondo le specifiche predisposizioni, in una salita faticosa, difficile e irta di ostacoli. L’adulto, in questa maniera, vive tra un esame clinico e una sollecitazione alla prevenzione, tra un’informazione medica ed una speranza di eternità, fino allo scontro finale e in accettato con la realtà della finitudine. L’identità è atto peculiare del prelievo del DNA, il resto è soltanto virtuale e precaria identificazione sull’effimero. Di delega in delega, il cittadino è diventato sterile, e incapace di assumersi qualsivoglia responsabilità, passando di accudimento in accudimento, si trova ad essere deciso da altri, nella beota condizione di servo anestetizzato, senza neppure lo slancio orgoglioso della ribellione dello schiavo.
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GRAZIE ALLA POLITICA DEI PROFESSORI
MARCHETTE per sopravvivere di FEDERICO MAFFEI SI FA presto a dire puttana. La categoria, in effetti, è molto variegata e composita. Si va dall’«olgettina» sculettante e sfrontatella alla escort falsamente goduriosa; dalla ragazza di coscia allegra e di piccola virtù che «la dà» con disinvolta prodigalità per una comparsata in tivù, alla giovinetta moldava che, per cinquanta euro propone prestazioni multiple. Quel che è certo è che, alla corporazione «mignottesca», non appartiene la moglie del signor Paolo, artigiano 44enne di Castelfranco Veneto, specializzato nei lavori in cartongesso. La storia di Paolo, all’inizio, è simile a quella di tanti suoi colleghi messi in ginocchio dalla crisi. Costretto a chiudere l’attività in proprio, Paolo non molla e riesce a trovare un lavoro come dipendente. Anche questo però dura poco e Paolo, dopo sei mesi, viene licenziato e finisce nuovamente sul lastrico. A questo punto la disperazione l’assale. C’è l’affitto da pagare, i debiti da saldare e la necessità di mettere la pentola sul fuoco per sfamare la famiglia. Paolo chiede lavoro in tutte le imprese edili della zona, ma la risposta è sempre la stessa: «Mi dicevano che a 44 anni sono vecchio per un impiego fisso, che costo troppo». A questo punto l’artigiano, colto da una crisi di sconforto, decide di farla finita. Prende una fune, va in garage, e si impicca ad una trave del soffitto. Ha appena cominciato a penzolare appeso per il collo che sua moglie, di sette anni più giovane, insospettita dalla sua assenza, entra in garage lo vede e, con estrema freddezza e rapidità, taglia la corda dalla quale penzola e gli salva la vita. Poi cerca di consolarlo e di rassicurarlo. «Non devi preoccuparti», gli dice tra le lacrime, mentre un groppo le serra la gola. «Vedrai che ce la faremo. Ci sono qua io…» Dopo qualche giorno, in effetti, la situazione sembra veramente migliorare. Lei racconta di aver trovato lavoro come badante nella zona di Vicenza. Un lavoro che la impegna per tutta la notte. La storia va avanti per qualche settimana finché, una sera, Paolo riceve una telefonata dalla Questura di Vicenza: sua moglie è finita in una retata di prostitute. «All’inizio ne sono rimasto sconvolto», racconta. «Ma poi è una situazione che ho imparato ad accettare. Anche se ovviamente non mi sta assolutamente bene. Per questo continuo nella disperata ricerca di un lavoro. Qualsiasi, purché sia onesto». Sui giornali che hanno riportato la vicenda il nome della Signora (un termine che amiamo scrivere con la «S» maiuscola) ovviamente non è stato riportato per ovvi motivi di riservatezza. È giusto, ma è anche un peccato perché non ci sarebbe dispiaciuto conoscere il nome di questa donna eroica che, per salvare il marito dal suicidio, ha scelto di vendere la propria dignità. Si fa presto a dire puttana; di sicuro, questa donna lo è meno di tante mogli sussiegose e moraliste che tengono in piedi matrimoni falliti per puro tornaconto. Questa storia, che è una bellissima storia d’amore, suscita però anche amarissime considerazioni. La crisi economica, voluta da quei farabutti di banchieri e dai loro manutengoli politici, ci sta letteralmente riportando indietro di un secolo
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anche dal punto di vista sociale. Siamo ritornati ai padroni «dalle belle braghe bianche» che fanno il bello e il cattivo tempo e, forti del loro potere economico, ritengono un loro diritto far pagare alle operaie più giovani e belle un immondo e avvilente pedaggio sessuale. La vecchia battuta del camionista infojato («o me la dai o scendi») si trasforma, in questi tempi di iperliberismo straripante, nel brutale e perentorio «o me la dai o ti licenzio». L’Italia del professor Monti, a ben vedere, somiglia all’Italietta postunitaria degli ultimi decenni dell’800. Un Paese povero e affamato ben descritto da Giampaolo Pansa nel suo libro Poco o niente che ha per sottotitolo un tragico e fatalistico Eravamo poveri. Torneremo poveri. Nel libro, ripercorrendo la storia della sua famiglia, Pansa descrive la vita dei diseredati (la stragrande maggioranza della popolazione) in quell’epoca infelice. L’eterna precarietà dei salariati agricoli e degli operai, il lento suicidio dei minatori costretti a vivere dodici ore al giorno sottoterra, l’infame mercato dei fanciulli, esposti sulla piazza dei paesi nei giorni di fiera e dati in «affitto» per un salario simbolico e una scodella di minestra. Superfluo specificare che, come sempre avviene in tempi di carestia, il sesso, molte volte era compreso nel prezzo. «Accadeva spesso», scrive infatti Pansa, «che il padrone mettesse l’occhio sulle figlie dei salariati. I signori erano convinti che il proprio potere gli permettesse anche di portarsi a letto le donne che lavoravano e vivevano nelle loro cascine. Tuttavia erano vicende coperte dal segreto. E non di rado i maschi, pur essendo al corrente della tresca con la propria moglie o una delle figlie, fingevano di non sapere niente. A volte per non inimicarsi il padrone, a volte per ricattarlo. In questo secondo caso si ripeteva, nel modo più rude, una storia vecchia quanto il mondo: sesso in cambio di soldi.» Ma come è stato possibile, nel volgere di pochi anni, cancellare conquiste sociali e diritti civili ottenuti con lotte durate quasi due secoli? La risposta la fornisce l’economista Loretta Napoleoni nel suo libro Economia canaglia. Tutto ha avuto inizio, sostiene la Napoleoni, con il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Urss. «Il contagio provocato dal baco della libertà», scrive l’economista, «si diffonde subdolamente nel globo. Anche negli angoli più remoti. Dal Sudest asiatico all’America Latina, finanche alla Cina, lasciando dietro di sé la traccia indelebile del suo passaggio. E con la democrazia si diffonde la schiavitù….Nei primi anni Novanta, le schiave del sesso provenienti dai Paesi dell’ex Blocco sovietico invadono i mercati occidentali. Queste donne hanno alcune caratteristiche: sono belle, poco costose e, soprattutto, disperate. Ma il mercato del sesso è solo la punta dell’iceberg. La globalizzazione», prosegue Loretta Napoleoni, «favorisce lo sfruttamento del lavoro degli schiavi su scala industriale, raggiungendo cifre e volumi del tutto nuovi, che superano persino quelli dell’epoca del mercato degli schiavi attraverso l’Atlantico. Pare sorprendente, o addirittura esagerato, ma ci sono i numeri, le prove, le storie che ho incontrato in questi anni di ricerca. Dalle piantagioni di cacao dell’Africa occidentale ai frutteti della California, dalla fiorente industria illegale del pesce alle fabbriche di oggetti falsi, gli schiavi sono diventati parte integrante del capitalismo globale.» Ma come è stato possibile questo inatteso e improvviso ritorno alla schiavitù per buona parte della popolazione mondiale? La caduta del muro e la conseguente globalizzazione dei mercati, spiega la Napoleoni, hanno fatto impennare l’offerta mondiale di manodopera. Ovviamente le imprese non si sono lasciate sfuggire l’occasione di utilizzare (o meglio «sfruttare») questi disperati provenienti dall’Est e dal Terzo mondo che pur di lavorare sono disposti ad accettare paghe di fame ed a rinunciare ad ogni diritto.
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Con la schiavitù ritorna, quale inevitabile corollario, anche il ricatto sessuale. Una realtà frequentissima ben descritta, alcuni anni fa, da Rossella Schembri in un articolo pubblicato sul quotidiano La Sicilia. «Lavorano nelle serre per venti euro al giorno», si può leggere nell’articolo, «e per arrotondare il misero guadagno del loro lavoro sommerso, in molti casi cedono al ricatto sessuale dei titolari delle imprese agricole che gli danno occupazione in nero e un alloggio fatiscente. È un fenomeno triste, sempre più presente, soprattutto a Vittoria dove esistono vaste aree coltivate a serre, con un notevole numero di imprese serricole, dove lavorano invisibili operaie, ragazze dell’Est Europa, provenienti dall’Ucraina e dalla Polonia. I loro orari di lavoro non sono contabilizzati, è tutto fluttuante, nessun contratto, non c’è un numero di ore preciso, d’altronde di giorno lavorano in campagna, di notte fanno lo “straordinario” cedendo alle attenzioni sessuali di proprietari o di loro congiunti. Questo fenomeno è sotto gli occhi di tutti, se ne parla a Vittoria, ma sottovoce perché è una realtà scomoda. Ogni tanto quando qualcuna di queste donne scappa, perché non resiste al circolo vizioso, al ricatto indegno, allora la voce si diffonde. Se ne parla e poi tutto tace.» Siamo, insomma, ritornati all’Italietta povera e ingiusta descritta da Pansa nel suo libro. Ma la crisi economica e il conseguente ritorno alla schiavitù di fatto non riguardano soltanto le donne dell’Est o quelle del Terzo mondo. Anche se in forme diverse la logica del ricatto sessuale si manifesta anche nei confronti delle donne italiane. Qualche settimana fa, per fare un esempio, è stato arrestato, in Sardegna, il sindaco di Portoscuso Adriano Puddu. Le accuse che gravano su di lui sono quelle di corruzione, concussione sessuale, peculato, voto di scambio. Puddu avrebbe costretto alcune donne bisognose dei sussidi pubblici a far sesso a pagamento con lui e i suoi amici. Ed anche un sacerdote avrebbe usufruito di una delle prestazioni. A Firenze, invece, i carabinieri hanno posto fine ad un giro di prostituzione organizzato da tre donne: una pensionata al minimo e due disoccupate. I militari si sono appostati di fronte al garage dove le tre «esercitavano», hanno visto entrare le donne e qualche minuto dopo i primi clienti. A quel punto si sono fatti aprire anche loro e, tra l’imbarazzo dei presenti, hanno interrotto il business che durava ormai da alcuni mesi. La «tenutaria» del fondo, una fiorentina di 58 anni, pensionata da 242 euro al mese, divorziata e domiciliata in una casa popolare del Comune, un figlio iscritto all’università, è stata arrestata per sfruttamento della prostituzione. Secondo gli inquirenti, era lei, prostituta a sua volta, a «subaffittare» a due amiche, una 50enne e l’altra di 37 anni, anch’esse fiorentine, entrambe da poco disoccupate, una stanza del fondo in cambio di una tariffa di dieci euro per ogni prestazione. Episodi come questi sono comunque stati segnalati un po’ in tutta Italia. Ritornano alla mente, a questo punto, le strofe di una canzone anarchica del secolo scorso, conosciuta come La marsigliese del lavoro o anche come L’inno dei pezzenti che riportiamo qui di seguito: Triste spettacolo le nostre donne per noi primizie non hanno d’amor ancora impuberi sciolgon le gonne si danno in braccio a lor signor. Son nostre figlie le prostitute che muoion tisiche negli ospedal le disgraziate si son vendute per una cena o per un grembial. A parte l’ingenua retorica del testo ottocentesco le strofe sembrano fotografare la realtà del nostro tempo. Ah, mercato, quanti delitti si commettono in tuo nome!
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LA MORTE DI SCALFARO
«NOI NON LO rimpiangeremo» di ADALBERTO BALDONI «NOI non lo rimpiangeremo», hanno detto numerosi parlamentari del Pdl, uscendo dall’aula, quando si sono svolte le commemorazioni di Oscar Luigi Scalfaro, scomparso nella notte del 29 gennaio scorso. In effetti l’ex capo dello Stato non aveva mai nascosto il suo antifascismo, la sua avversione ai post-fascisti, alla destra, al governo Berlusconi. È sempre stato uomo di parte, anche quando si è insediato al Quirinale. I fatti - Per effetto delle inchieste della magistratura sulla corruzione dei partiti, nel gennaio 1994 si scioglie anticipatamente il Parlamento che era stato eletto soltanto due anni prima. Il 27 marzo, pertanto, si svolgono le elezioni con le nuove regole elettorali maggioritarie approvate l’anno precedente dalle Camere. Il risultato è clamoroso: drastico ridimensionamento o scomparsa dei partiti delle vecchie maggioranze, vittoria della coalizione di Silvio Berlusconi e sconfitta delle sinistre. Nel nuovo governo entrano anche esponenti di Alleanza nazionale. Scalfaro si affretta a far notare al Cavaliere che in Europa c’è allarme per l’ingresso nell’esecutivo dei «post fascisti» di Alleanza nazionale. Scalfaro, in particolare, raccomanda a Berlusconi di non affidare la Farnesina ad un post fascista, dato che «il ministro degli esteri deve assicurare piena fedeltà alle alleanze, alla politica di unità europea, alla politica di pace». Tutti sanno che agli Esteri, andò Antonio Martino di Forza Italia. Ma la nuova maggioranza viene però incrinata da un duro scontro sociale sulla questione della riforma delle pensioni e della finanziaria, oltre che dalle difficoltà legate al conflitto di interessi tra ruolo imprenditoriale e ruolo politico di Berlusconi. Il governo viene poi scosso da un avviso di garanzia per Berlusconi fatto recapitare dai giudici milanesi in relazione alla inchiesta sulle tangenti alla Finanza, mentre il Presidente del Consiglio partecipa a Napoli al vertice dell’Onu sulla criminalità. È il 22 novembre. Dopo pochi giorni, siamo al 17 dicembre, tre mozioni di sfiducia aprono la crisi di governo: una firmata dal Pds, una da Rifondazione comunista e l’altra dal Partito popolare italiano assieme alla Lega Nord. La presa di posizione della Lega costringe il Cavaliere a dimettersi. In un duro discorso alla Camera Berlusconi accusa Umberto Bossi di rapina elettorale e chiede di ritornare immediatamente alle urne. Un «golpe bianco» favorito dal Quirinale - Anche Gianfranco Fini, leader di An, parla di «golpe bianco»… (Fini, tra l’altro, nel maggio 1992, disse di Scalfaro candidato al Quirinale: «È il simbolo della conservazione, la vestale del sistema»…). Inizia, a questo punto, un acceso, virulento scontro tra Berlusconi e Scalfaro sulle elezioni anticipate. Il capo dello Stato osserva che in entrambe le Camere esiste una maggioranza contraria a un immediato ricorso alle urne
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All’inizio del 1995, Berlusconi torna all’attacco, criticando Scalfaro per la conduzione della crisi di governo: «Un altro governo (senza prima essere passati dalle elezioni) sarebbe un golpe», in quanto il Parlamento sarebbe «delegittimato», dal «tradimento della Lega». Tradimento della Lega, a parere del Cavaliere, che sarebbe stato incoraggiato proprio dal presidente della Repubblica. Ma Scalfaro prosegue imperterrito per la sua strada. Senza ulteriori indugi, il 13 gennaio incarica Lamberto Dini di formare il governo. Il suo nome lo ha fatto Berlusconi, certo della promessa di Scalfaro di indire le elezioni in primavera. Dini, ministro del tesoro del governo Berlusconi, dichiara di volere formare un governo di emergenza, composto da tecnici e non da uomini di partito. Governo che ottiene la fiducia da entrambi i rami del Parlamento, senza però impegnarsi per sollecite elezioni come era stato concordato tra il capo dello Stato e Berlusconi. Le elezioni si terranno nel maggio 1995 e vedranno la vittoria del nuovo centrosinistra, guidata da Romano Prodi. Ma, finito il mandato, la battaglia di Scalfaro nei confronti della destra non termina. Il 23 giugno 2000, con una serie di dichiarazioni, scende in campo a fianco dell’ Ulivo, incoraggiandolo a battersi contro la destra. Poi, dal 2006 al 2008 sostiene con il suo voto (di senatore a vita) il governo Prodi al Senato. Una prova ulteriore, a parere di Berlusconi, della «faziosità» dell’ex capo dello Stato. D’altra parte, rileggendo il passato giovanile di Scalfaro, non c’è da stupirsi. 1945-Pubblico ministero nella Corte d’assise che giudica i fascisti - A fine aprile 1945, gli Alleati per impedire che i cosiddetti «Tribunali del popolo», continuino ad emettere sentenze sommarie a carico dei fascisti o presunti tali, impongono che tali organi siano sostituiti da regolari Tribunali composti da magistrati di carriera. Per farne parte sarebbe stato sufficiente presentare una domanda. Una volta inquadrati, avrebbero usufruito di scatti di anzianità. Il giovane Scalfaro (entrato in magistratura nel 1943) coglie al volo questa occasione ed entra nella Corte d’assise di Novara, in cui ricopre anche la carica di Pubblico ministero. Nel luglio dello stesso anno, sostiene la pubblica accusa nei confronti di sei militari della Rsi e dell’ex prefetto di Novara, Enrico Vezzalini, di cui chiede la pena di morte (poi eseguita). Vezzalini era un personaggio di primo piano nella Rsi. Nel gennaio 1944, aveva anche fatto parte del Tribunale speciale straordinario che aveva giudicato i membri del Gran consiglio che avevano sottoscritto l’ordine del giorno Grandi per la sfiducia a Benito Mussolini nella seduta del 25 luglio 1943. Ciò che vi abbiamo sinteticamente esposto, giustifica pertanto le prese di distanza di Berlusconi e degli altri esponenti del Pdl (compresi gli ex An) dai commenti commossi del mondo politico e istituzionale per la morte di Scalfaro. Le sconcertanti giravolte di Alemanno - Dalle prese di posizione della stragrande maggioranza dei parlamentari e dei dirigenti del Pdl, si è distaccato nettamente il sindaco di Roma, Gianni Alemanno che, in una dichiarazione resa alla stampa e ripresa anche dalla televisione, ha elogiato il ruolo di Oscar Luigi Scalfaro, un «politico puro e integerrimo che può essere un esempio di tutti». Nel 1994, spiega Alemanno, la destra ha esagerato nelle sue critiche: «Noi vedevamo Oscar Luigi Scalfaro come il conservatore, il difensore della prima Repubblica e sicuramente nel giudizio abbiamo esagerato, abbiamo sbagliato perché quando c’è una persona che
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pensa diversamente, ma ha profondità di pensiero, una grande coerenza come Scalfaro, va sempre rispettata». È sempre di questo periodo, il penoso atteggiamento del sindaco nei confronti del diplomatico Mario Vattani, console a Osaka, in Giappone. Un video diffuso su YouTube e portato all’attenzione dei media da un articolo de l’Unità, aveva ripreso un concerto eseguito nel maggio 2011 da Mario Vattani nella sede romana di CasaPound, il noto centro sociale di destra, assieme al suo gruppo rock «I sotto fascia semplice». «Alzerò la bandiere nera», cantava in una delle sue canzoni. Apriti cielo. La Farnesina aveva sospeso dall’incarico Mario Vattani che oggi rischia l’incarico e l’allontanamento dal corpo diplomatico. Vattani era stato consigliere diplomatico di Alemanno quando questi era ministro dell’Agricoltura. Eletto sindaco di Roma, Alemanno gli aveva di nuovo conferito l’incarico per poi toglierglielo prima che scoppiasse il caso, in seguito ad un litigio di carattere personale. Alla trasmissione Rai «Che tempo che fa», il sindaco auspica, nei confronti del suo ex amico e consigliere, «sanzioni» per la «brutta performance» mentre a Sky Tg24, condanna il «nostalgismo» e i «modelli proposti ai giovani» da Vattani. Una condanna alquanto ipocrita quella di Alemanno, perché da anni conosceva gli orientamenti politici e culturali del suo (ex) amico ed ex collaboratore. Quale significato assumono questi due accadimenti, verificatisi a poca distanza l’uno dall’altro? Alemanno per dimostrare alla pubblica opinione di essere un uomo super partes, sconfessa i suoi colleghi di partito, butta a mare i camerati, ripudia quei modelli che gli hanno permesso di fare carriera politica, al tempo stesso annuncia di volere presentare una propria lista alle prossime elezioni amministrative di Roma. A mio parere, la strada che sta percorrendo non porta da nessuna parte. Petroselli: comunista fino alla morte. Ma il più amato dai romani - Luigi Petroselli, uno dei migliori sindaci che abbia avuto la capitale (spesso ricordato accanto all’altro grande sindaco di Roma, Ernesto Nathan), divenne primo cittadino della capitale pur essendo un alto funzionario del Pci (era stato anche segretario della federazione romana). Pur essendo stato sindaco soltanto due anni, esattamente 741 giorni, dal 27 settembre 1979 al 7 ottobre 1981, giorno della sua improvvisa scomparsa, riuscì a realizzare la demolizione delle baracche e il recupero delle borgate, l’estate romana, la lotta alla speculazione fondiaria, la linea «A» della Metropolitana, un efficace Centro antidroga. Spesso si è ostinato a coltivare idee difficilmente realizzabili (i preventivi di spesa erano insostenibili), come quella del Progetto Fori: eliminare la via dei Fori imperiali per formare un grande parco archeologico dal Campidoglio all’Appia Antica, con la Storia al posto delle automobili. Nessuno, anche i suoi più accesi avversari, lo ha mai accusato di nepotismo e di clientelismo. Sempre propenso al dialogo con le opposizioni, di cui recepiva suggerimenti, proposte, consigli. L’idea di una cultura condivisa che rafforzasse nella popolazione emarginata, in particolare delle periferie, il sentimento di appartenenza a un’unica città, era la condizione preliminare della sua idea per Roma. D’altra parte soleva ripetere: «Si può governare Roma solo se la si ama, solo coinvolgendo le energie di tutti i cittadini». Era il sindaco di tutti, quindi, senza rinunciare mai alle sue idee, alla sua formazione politica e culturale, ai suoi modelli di vita, al suo passato.
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NOSTALGIA DI UN’ALTRA MILANO
NEBBIA sul Naviglio di ROMANO FRANCO TAGLIATI NELLA Milano degli anni sessanta c’era la «mala», quella cantata da Gaber, un manipolo di ladruncoli col vestito a righe tra i quali primeggiava un Cerutti Gino, eroe per gli amici del bar, che di notte rubavano, o vigilavano sulle fanciulle in fiore - che battevano intorno alla Centrale - e, di giorno, andavano in giro per i caffè dove fumavano Camel e inneggiavano al mitico bel René, salito in quegli anni all’onore delle cronache. La polizia li conosceva nome per nome e, se qualcosa accadeva durante la notte, già sapeva la mattina a quale porta bussare. «Oggi, se facessi il bandito», dice Vallanzasca in una recente intervista, «vivrei tre giorni. Troverei subito uno che mi ammazza direttamente, o mi fa ammazzare per cento euro.» Il modello delle piccole bande cresciute nell’hinterland, ai margini di una città ricca e operosa, per i quali vivere dentro o fuori dalla galera cambiava poco, non avevano come modello il Passatore o Arsenio Lupin, o Jessie James, ma pensavano che rubare ai ricchi non fosse peccato, e mettere a repentaglio la propria vita per svaligiare una banca, fosse addirittura un atto di eroismo e di giustizia sociale. C’era, inutile nasconderlo, in quei rari avvenimenti - senza per questo voler idealizzare la delinquenza, sempre assolutamente deprecabile - qualcosa di romantico, che obbediva a un patto, per quanto scellerato, secondo il quale gli amici erano amici, qualunque fossero i loro torti e le loro ragioni. La società a Milano - persino quella della malavita - si è spaccata. La stretta di mano, la parola data, e persino una cambiale, oggi che in molti casi il furto è stato legalizzato, non valgono più, né per i delinquenti né per le persone cosiddette per bene. Oggi, come in quegli anni, a Milano circolano molto danaro e molte lacrime, ma la Milano in cui i poeti, gli scrittori, i pittori, che piovevano da ogni regione, venivano ancora invitati nelle case dell’alta borghesia dove, nonostante l’inevitabile contrasto dovuto più che al censo, al danaro, il pensiero di una persona colta ancora contava, non esiste più. Resta una grande nostalgia per quella che fu la città dell’editoria e della meccani-
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ca, delle «fabbrichette» dove spesso lavorava anche l’imprenditore, il padrone, venuto dalla gavetta, ma anche il luogo dove si incontravano architetti come Zanusso, Magistretti, Castiglioni, Gio Ponti. Dove, al «Capolinea», nei pressi dei Navigli, Franco Cerri, Gorni Kramer e Chet Backer, facevano Jazz. Per la città dei Falk, dei Marelli, dei Pirelli, capitani della grande industria, ma anche dei Borghi che, apriva un’«officinetta» dalla quale nasceva la Ignis, che mandava frigoriferi in tutto il mondo. Nostalgia per la città di Mondadori che veniva dalla provincia dove faceva il tipografo, e di Rizzoli, detto «il commenda», cresciuto nell’Istituto dei «Martinitt», che ancora prendeva gli autori sottobraccio e, se decideva di pubblicarli, camminando lungo i corridoi della Casa editrice, chiedeva: «E a dané? A soldi, come stai?» Per quella città dove fino al 1999, sul palazzo che fronteggiava il Duomo, brillavano nella notte le insegne luminose che reclamizzavano i prodotti in voga, e Saba scriveva, «Mi riposo in piazza del Duomo//invece di stelle //si accendono parole». Era l’emblema del perfetto connubio di una città nella quale sacro, profano e letterario armoniosamente si mescolavano, di una realtà che cresceva e che, pur tra mille contraddizioni e polemiche, uscita dallo stato d’animo traumatico in cui l’aveva trovata Visconti, quando vi aveva girato Rocco e i suoi fratelli, salutava i primi matrimoni «misti» che allora erano quelli fra «polentoni» e «terroni» con moderato entusiasmo, dopo che grazie alla televisione, avevano incominciato a parlare la stessa lingua. «A Milano non fa freddo», aveva scritto Marotta , perché era una città in continuo movimento, allegra, effervescente che, polemiche campanilistiche a parte, ti apriva il cuore e, all’occorrenza, anche il portafoglio. Tutti i miei parenti s’erano comprati una casa e tutti quelli che negli anni ‘70 , con l’inflazione al 25 per cento, avevano contratto debiti investendo in immobili, erano diventati ricchi. Io facevo la spola tra Milano e Berlino e ogni volta che tornavo in Germania, mi guardavo intorno e trovavo che i Tedeschi, se confrontati con il nostro tenore di vita, erano rimasti dei poveri.
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Poco dopo arrivò dall’America il «sessantotto», un movimento transnazionale che toccò tutti i Paesi d’Europa, al quale illustri sociologi e storici hanno dedicato, senza mai venirne a capo, migliaia di pagine, e il giudizio del quale io, modesto scrivano, lascio volentieri ai posteri. Da allora, nulla è più stato come prima. Per molto tempo al buon senso, al confronto, al riconoscimento per chi aveva saputo crescere, creare lavoro, erano subentrate l’invidia e la rabbia. Il padrone, anche se ancora con le pezze al culo, era diventato un nemico, la ricchezza, anche se meritata, un furto, i diritti un comandamento avulso dal dovere In quegli anni, nelle scuole, dove a detta di quei «rivoluzionari» sessantottini, si forgiavano «i padroni di domani», il professore, a meno che non si presentasse prono di fronte a classi incontenibili, era un nemico da abbattere. Sono gli insegnanti usciti dalle loro mani, quelli ai quali abbiamo affidato più tardi i nostri figli. Milano, la Lombardia, il Veneto, sono andati avanti abbassando il capo e tirando il carretto, mentre la romantica «mala», travestita prima con gli abiti dell’intellettuale, ha incominciato a insinuarsi in un tessuto ormai sfilacciato che consentiva loro di entrare in politica e perfino di arrivare al governo. Non crollò in quegli anni soltanto l’economia, ma la morale. Qualcuno mi criticherà perché mi ostino a voler storicizzare un argomento in apparenza così banale, ma non c’è niente al mondo - nemmeno l’ammannita falloide che nasca senza avere un seme, una spora. Tutto questo e molto altro è stata Milano. La bilancia a quel tempo starata, è la stessa con la quale da molti anni si pesa ormai, e non soltanto a Milano, il merito, la Giustizia e la logica che elegge come massimo valore il denaro senza chiedersi quale ne sia l’origine, e premia i furbi, quelli che comprano aerei ed evadono le tasse e, invece che macchinari e panettoni, sfornano oggi derivati, e siedono nelle banche attraverso le quali transitano e si perdono i loro enormi profitti. Inevitabile che Milano, dove il denaro ancora corre - per quanto su altri binari diventasse il luogo ideale dove portare le direttrici della mafia e della camorra. L’assalto alla fortezza è in atto fin da allora. Nei momenti difficili vengono al pettine i nodi dell’operato della politica e dell’economia, ma soprattutto dell’etica con la quale abbiamo operato negli ultimi trent’anni, quelli che hanno consentito al bilancio dello Stato di sforare, al debito pubblico di arrivare al 120 per cento del Pil e alla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta, e chissà quali altre organizzazioni criminali, di diventare uno Stato nello Stato. Arriva il momento in cui per la politica diventa quasi inevitabile consegnare un mandato. Un segnale che ci fa capire che nemmeno la democrazia è immortale. I milanesi? Erano talmente stufi dell’immobilismo, dei litigi tra le parti, delle loro sceneggiate, dei loro furti, che ora, anche un governo tecnico, non democraticamente eletto, lo accolgono come un miracolo. D’altro canto, se non l’hanno uccisa la peste, le bombe della guerra, e la malavita organizzata, l’occupazione dei Tedeschi, la resistenza, il sessantotto, Mani Pulite, e la ferale concorrenza della Cina, credo fermamente che neppure la crisi e la camorra avranno la meglio. I milanesi, non fanno commenti. Abbasseranno come sempre la «cabeza» e continueranno a tirare il carro. È la loro vocazione. Sta nel loro Dna.
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LIBERALIZZAZIONI - VERO O FALSO?
E MONTI dà i numeri di MIMMO DELLA CORTE SARÀ perché, soprattutto di notte, il miagolio del mio gatto, sembra più simile ad un grido di guerra che al pianto di un felino, da un po’ di tempo, sempre più spesso, mentre dormo, sono preda di un sogno così brutto ed inquietante che definire «incubo» è quasi un paradosso. Mi ritrovo a Roma, ai piedi della stele di Piazza Colonna, ma di fronte a me, non c’è palazzo Chigi, bensì un villaggio indiano. Uno di quegli accampamenti resi famosi dai film western. Decine di tende, una addossata all’altra ed al centro un palo, attorno al quale danzano urlando, al ritmo dei tamburi e degli ululati isterici del capo che - forse perché sulla testa, al posto della corona di penne, porta un cappello di feltro scuro a falde larghe ed, invece che stracci, indossa un loden scuro di gran classe - sembra avere le fattezze del nostro tecnico-premier, Mario Monti. Mentre continua ad ululare, insieme a quelli che - per come sono vestiti: molto più elegantemente degli altri, con giacca, cravatta e pochette che sporge dal taschino del doppio petto - non si fa fatica ad accorgersi che sono i suoi «sacerdoti», mi guardano di sbieco, cominciano a dissotterrare l’ascia di guerra ed escono dal campo per farmi lo scalpo. Impaurito e sudato, mi risveglio e balzo al centro del letto, mettendo a rischio, oltre che la mia, anche l’incolumità di mia moglie che, per sua fortuna, continua a dormire sonni tranquilli. Tiro un sospiro di sollievo. Sono a casa. Ma la serenità dura poco. Soltanto, cioè, fino a quando, risvegliatomi completamente, torno all’usato lavoro e ad occuparmi del governo e delle sue manovre economiche che, a dire dei diretti interessati, dovrebbero, dopo averlo salvato, rilanciare il Paese. Di quella che il neo primo inquilino del villaggio indiano, scusate palazzo Chigi, più per autopromozione che per convinzione, ha definito come «salva-Italia», ma anche di quella che, sempre lui, il tecnico specializzato in alta finanza e prestato alla politica, rinunciando a quella «sobrietà» di cui lo si accredita, ha battezzato come «cresci-Italia» e, perché no, la terza che con retorica patriottica da Medioevo, ha registrato all’anagrafe giornalistica come «Libera-Italia». E la paura, anzi, no, l’incubo, purtroppo, torna. Del resto, manifestazioni di protesta, blocchi dei caselli autostradali da parte dei Tir, il camionista di Asti, investito dalla collega tedesca, benzinai a secco e supermercati vuoti, per mancanza di rifornimenti, il movimento dei forconi in Sicilia, i tassisti a Napoli, ma anche nel resto del Paese, i farmacisti, ma anche i parafarmacisti e professionisti in rivolta lungo tutta la penisola, i pescatori sanguinanti davanti Montecitorio, dimostrano come non sono l’unico ad essere preoccupato. Sono preoccupazioni immotivate, perché la grande - per diffusione, non per importanza dei contenuti - stampa indipendente - ovviamente, dalla verità - continua a propinarci i più sperticati elogi del professore in loden o perché quest’ultimo, per rabbonire gli Italiani, si è messo a dare i
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numeri e ci ha regalato la favoletta che, grazie alle sue manovre, il Pil crescerà del 10 per cento, i salari del 12 per cento ed i posti di lavoro dell’8 per cento? Non vi nascondo che mi piacerebbe se questi numeri diventassero realtà. Purtroppo, non è così. Perché, gli interventi previsti dalle sue manovre, più che garantire sviluppo, promettono recessione e regressione. Ancora di più, nell’immediato, a dispetto di quanto ha cercato far credere Monti, evitando di sottolineare in quanti anni questo miracolo dovrebbe avvenire e, per di più, senza che nessuno glielo ha chiesto. Non meno di 30, a dire della ricerca – peraltro datata 2009 - di 2 ricercatori di Bankitalia, da cui, Monti & c., hanno assunto questo dato, secondo la quale allineando in 5 anni, il livello di concorrenza dei servizi italiani a quello medio dell’Europa, «nel lungo periodo» (che in termini macroeconomici significa, almeno trenta anni) si sarebbe ottenuta una crescita di quasi l’11 per cento. A patto, però, che nel frattempo si realizzi la liberalizzazione (vera) di tutti i servizi: dal commercio al credito; dalle assicurazioni alle comunicazioni; dai telefoni alle poste; dai trasporti alle costruzioni; dall’elettricità al gas ai servizi pubblici locali e via di questo passo. Ora mi chiedo e vi chiedo, può il Mezzogiorno il cui Pil medio pro capite è oggi di appena 14mila euro e che grazie alle manovre montiane si assottiglierà di almeno altri 2mila, aspettare 30 anni, per vederlo crescere di 1.400 euro? E non parliamo dei campani il cui Pil è ancora più basso: 12mila euro e dovrà anch’esso sottoporsi alla drastica cura dimagrante studiata, per tutti, dai tecnici di Monti e Napolitano. E discorso analogo, ovviamente, per il paventato aumento dei salari e dell’occupazione. Tutto questo, ovviamente, sempre che tale crescita, seppure nel lungo periodo, effettivamente si realizzi. Ma nessuna delle manovre dei tecnici - checché ne dicano i diretti interessati e la stampa anestetizzata dall’antiberlusconismo - contiene i germi necessari ad innescare il circuito virtuoso delle liberalizzazioni indispensabili allo sviluppo. Né in termini economici per i diretti interessati che, anzi, al danno dell’aumento della pressione fiscale e dei costi di gestione, nonché della perdita di valore delle licenze, saranno costretti ad aggiungere anche la beffa delle diminuzioni delle entrate, in conseguenza del fatto che, mentre la quota di mercato resterà sempre la stessa, aumenterà il numero di quelli che dovranno, e potranno, spartirsela, aumenterà in maniera esponenziale. Insomma, per dirla con l’antica saggezza partenopea, «Spàrte ricchezza e addevènta puvertà». Il che, naturalmente, vale per tutti. Per i tassisti (e pensare che qualcuno di loro, per acquistare la licenza d’esercizio, ha speso quasi il doppio di quanto ha pagato il Ministro per la Pubblica Amministrazione, Patroni Griffi, per accaparrarsi la casa vista Colosseo), quanto per i farmacisti (a proposito, quanti accetteranno di aprire una farmacia, in una zona disagiata, quelle di montagna ad esempio?); per i notai, quanto per gli avvocati (quale vantaggio deriverà per i cittadini senza problemi con legge o che non hanno case da vendere o da acquistare, né eredità da destinare o raccogliere, dal fatto che le tariffe minime di questi professionisti sono state abolite e si potrà trattare con gli interessati il compenso dovuto?). Certo, sarà possibile acquistare i giornali anche presso supermercati, salumerie e, perfino, latterie, ma non si era detto che, con l’avvento del pc, la carta stampata è entrata in una crisi, praticamente irreversibile? E allora quale vantaggio ne ricaverà il Pil? Nessuno, ma Monti ha deciso che gli edicolanti dovranno
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rassegnarsi alla fame. In verità, di esempi simili potrei farne uno per ognuna delle vere-finte liberalizzazioni, ma a cosa servirebbe, se non a ripetere inesorabilmente, sempre le stesse cose? Sicché, credo sia molto meglio fermarmi qui. Anche perché una riflessione, ritengo sia giusto riservarla alla sottolineatura di quello che, invece, si sarebbe dovuto fare e non è stato fatto, se si fosse davvero voluto liberare il mercato e stimolare la concorrenza, per aiutare il Pil a crescere ed il Paese a svilupparsi ed, allo stesso tempo, migliorare i servizi. Liberalizzare i servizi pubblici locali, come quelli idrici o dei trasporti, affidando ad aziende ferroviarie private il servizio locale, nonché quello nazionale - escluso, ovviamente, quello dell’alta velocità per merci e viaggiatori; separare le reti di distribuzione indipendenti - siano esse quelle del carburante che del gas - dal fornitore finale all’utenza, credito, commercio, assicurazione, posta, elettricità, spiagge. Di tutto questo, nel decreto cosiddetto «cresci-Italia» non c’è traccia. Come non c’è traccia d’iniziative per calmierare Banche ed Assicurazioni. Anzi, per le prime ci si è limitati a mettere un tettuccio alle competenze per bancomat e prelievi, ma in compenso è stato imposto a tutti l’obbligo di aprire conti correnti, vietando i pagamenti in contanti per cifre superiori ai mille euro e se tanto mi dà tanto, a guadagnarci saranno proprio loro; mentre le seconde dovranno applicare uno sconticino per le polizze Rc auto a chi accetterà di farsi montare in macchina la scatola nera contro falsi incidenti e imbrogli vari ed eventuali. La spesa di acquisto e montaggio sarà a carico dell’assicurazione. Teoricamente sarà così, ma in pratica? Temo che finiranno per pagarla gli assicurati, senza neanche rendersene conto. Forse ragionieri diplomati per corrispondenza o in uno dei tanti diplomifici sparsi per l’Italia si sarebbero accorti che, con queste iniziative, anziché crescere il Belpaese rischia di affondare definitivamente ed avrebbero fatto meglio. Come mai non se ne sono resi conto i bocconiani di Monti e Napolitano? Probabilmente, perché non hanno voluto accorgersene. Non sarà che a Merkel e Sarkozy torni più utile un’Italia in recessione che una in crescita? A proposito, rischiavo di dimenticarmi della chicca migliore di Monti & c. Sarà ripristinata la «carta acquisti», inventata da Berlusconi, per i meno abbienti. Nel Mezzogiorno, però, se ne vedranno circolare pochissime. Per averne diritto, infatti, non basta essere poveri, ma bisogna esserli in una città superiore ai 250mila abitanti. Quante ce ne sono al Sud? Insomma, per i tecnici anche fra i poveri ci sono quelli di serie A e di serie B.
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IL BORGHESE
IL GIORNO DEL RICORDO, OVVERO
IL GIORNO della vergogna di GIANFRANCO DE TURRIS MARCELLO Veneziani ha ragione da vendere: «Presidente Napolitano, mi dispiace, ma non ci stiamo. Ricordando ieri le foibe lei se l’è presa con ‘le derive nazionalistiche europee’, attribuendo a esse l’eccidio di migliaia di istriani, dalmati e dei partigiani bianchi. Ma le cose, lei lo sa bene, non stanno così. L’orrore delle foibe fu perpetrato dai partigiani comunisti di Tito con l’appoggio del comunismo mondiale e dei comunisti italiani. Lei non ha mai citato il comunismo a proposito delle foibe. È come se nella Giornata della Memoria, celebrata pochi giorni fa, non citassero mai il nazismo ma se la prendessero con il comunismo. Certo, il nazionalismo fu una delle cause che inasprì i rapporti sui confini orientali; così come è noto che l’Unione Sovietica dette una mano a Hitler nella caccia e nello sterminio degli ebrei. Ma in entrambi i casi non si può tacere il principale colpevole e va citato per nome: il nazismo per la shoah e il comunismo per le foibe o per i gulag» (Il Giornale, 10 febbraio). Il Giorno del Ricordo, istituito nella data del Trattato di Parigi che ci sottrasse l’Istria e la Dalmazia, per commemorare l’esodo di 350mila italiani che non volevano vivere sotto il regime comunista di Tito e i 20 mila morti nelle foibe voluto dai governi di centrodestra, è sempre stato mal sopportato dall’establishment politico e culturale italiano e più il tempo passa e più viene visto con aperto fastidio e sempre più banalizzato, minimizzato, contestato e… dimenticato. In primis dal presidente Napolitano. Proprio lui, che l’anno seguente alla sua elezione affermò esplicitamente: «Fu una barbarie basata su un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri connotati di una pulizia etnica» (10 febbraio 2007). Queste sue parole ed altre, ci fecero sognare allora un passo avanti da parte di un presidente che fu comunista, un passo avanti lungo una strada che Ciampi non ebbe il coraggio di percorrere sino in fondo. E invece no, purtroppo non è stato così. Il 10 febbraio 2012 è stato un vero e proprio «Giorno della Vergogna» sul piano politico con molti amministratori della sinistra che hanno lanciato una campagna «revisionista» (questa volta il termine non fa schifo a certa gente) basata sulla giustificazione di quegli eccidi con mostre curate dall’Anpi a Milano e contestate dalle associazioni degli esuli, con le dichiarazioni del sindaco pd di Genova Marta Vincenzi, con la distribuzione agli istituti superiori di Pistoia da parte del sindaco pd Renzo Berti del libro Dossier foibe di Giacomo Scotti (un napoletano che vive in Croazia), con i provocatori cortei dei «centri sociali» a Firenze. Non opinioni contrarie, ma vera e propria contestazione dei quei fatti, di quei morti, di quella data… E pure Luciano Violante, che è stato in questa occasione il meno peggio degli ex comunisti, ha osato dire che in passato sulle foibe la destra aveva speculato. Non diversamente fece dopo il crollo della Jugoslavia e quando se ne cominciò apertamente a ri-parlare, il professor Claudio Magris dall’alto della sua autorità morale, non spiegando, come non spiega Violante, perché la sinistra non ne
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parlava mai. Giustamente Fabio Rampelli ha replicato che la destra riempiva un vuoto: un assordante silenzio, sarebbe meglio dire… Il clima di questa giornata lo ha ricostruito, con somma impudenza e ipocrisia, Il manifesto dell’11 febbraio scrivendo senza vergogna: «Se in Italia non ci fossero i fascisti, più o meno in doppiopetto, si potrebbe serenamente coltivare la memoria del dramma dei 350 mila profughi istriani, fiumani e dalmati, e riflettere senza speculazioni sull’uccisione di 20 mila italiani massacrati nelle foibe dai partigiani jugoslavi». Sembra un quotidiano democristiano e non l’organo dei comunisti duri e puri: e infatti, né qui né in seguito si attribuisce ai «comunisti» o ai «titini» il massacro. Però una cosa significativa Il manifesto ce la fa sapere, e cioè che «le autorità coinvolte nelle celebrazioni» sono rimaste tutte «sotto tono» e tutte hanno lanciato «un anodino richiamo bipartisan alla fratellanza e ai valori condivisi» (un particolare elogio al presidente della Camera, Fini, «sempre a suo agio nel ruolo super partes»… Amen). Meno male che ci sono i compagni del Manifesto a farci la morale predicando la necessità di restare «sotto tono», di non scomporsi, di restare «anodini». Se non l’avessimo letto su quelle pagine, non ce ne saremmo resi proprio conto… Ma non è soltanto questo. È anche la totale minimizzazione della ricorrenza sui mass media che salta agli occhi, che stupisce, che indigna. Negli anni, pochi, trascorsi dalla sua istituzione nel 2004 la situazione va man mano peggiorando, si tende cioè di nuovo a dimenticare, a ignorare… Quali «grandi giornali» ne hanno parlato in modo esaustivo lo scorso 10 febbraio 2012? Nessuno, o quasi. Quali trasmissioni televisive ne hanno parlato? Tra le rare che lo hanno fatto c’è la seguitissima Uno Mattina, ma qui il conduttore Franco Di Mare e il sindaco di Trieste (personaggio di sinistra dopo che il centrodestra, per la sua criminale idiozia, è stato capace di perdere dopo dieci anni l’amministrazione della città) hanno gettato la colpa sul fascismo e le leggi razziali. E a Porta a porta si è stati capaci di invitare Alessandra Kersevan, una signora nota per la sua crociata contro la tesi del genocidio e della pulizia etnica dei titini, la quale parla di «poche centinaia di infoibati». Nessuna rete televisiva ha ricordato l’evento in prima serata con film o telefilm o sceneggiati o documentari come è stato fatto per il Giorno della Memoria: Rai 1 ha mandato in onda il varietà Attenti a quei due; Rai 2 il telefilm Senza traccia; Rai 3 le comiche di Stanlio e Ollio, la «soap opera» Un posto al sole e il film musicale Nine; Rete 4 l’orripilante Quarto Grado; Canale 5 il varietà Zelig; Italia 1 i telefilm CSI e True Justice; La7 Otto e mezzo della Gruber e Le invasioni barbariche della Bignardi; e quel giorno nemmeno si trova traccia delle foibe su Rai Storia. La Rai nel 2005 mandò in onda Il cuore nel pozzo in due puntate per la regia di Alberto Negrin. Non poteva replicare quella miniserie nonostante avesse mille difetti e insopportabili precauzioni politiche (non si parla di comunisti e non si vede una bandiera rossa)? Che commenti si possono fare? Soltanto uno: se nel «Giorno della Memoria» ci si fosse comportati così sarebbe cascato il mondo. Il problema di questo paese è che, dopo sessant’anni di egemonia e condizionamento della cultura e della politica di sinistra, ha una memoria selettiva, come si è notato più volte: degli ebrei italiani si può e deve parlare in quanto assassinati dal cosiddetto “nazifascismo”, dei giuliano-dalmati italiani è difficilissimo parlarne perché sono stati ammazzati dai comunisti (e nessuno lo può negare). In più si aggiunga il nostro intollerabile masochismo: possiamo richiedere i danni e i risarcimenti alla Germania perché fu nazista, non osiamo
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chiedere i danni e la restituzione o l’indennizzo dei beni alla Croazia perché fu comunista, in nome della condanna del “nazionalismo” e di un malinteso “europeismo”. Sappiamo fare la voce grossa con chi sessant’anni fa perse la guerra (insieme a noi) e non osiamo alzarla con chi sessant’anni fa la vinse, nonostante oggi sia uno Stato di non gran conto che ci vuole sottrarre anche la nostra storia, non solo quella recente ma anche quella passata, come il pretendere che certa arte veneta della Dalmazia sia croata o come far passare per croato Marco Polo! E noi? Zitti, naturalmente. E’ da vantarsene? C’è da chiedersi perché ci siamo ridotti così, perché si è arrivati a questo punto, quale morbo consumi l’animo degli intellettuali e dei politici italiani, perché autolesionismo e vigliaccheria allignino così profondamente da non riuscire ad
FUOCO AMICO
ETERNO antifascismo IL NOTO sondaggista Renato Mannheimer ha assodato sul Corriere della Sera del 5 febbraio che appena un misero 8 per cento degli Italiani ha fiducia nei partiti. Un minimo storico: «I partiti costituiscono oggi in Italia l’istituzione meno stimata in assoluto», commenta. Nessuno si salva a destra, sinistra e centro, tutti accomunati da un diffuso disgusto che induce alla astensione in eventuali prossime votazioni. I motivi sono sotto gli occhi di tutti, ma vi pare che qualcuno ne abbia tratto le debite conseguenze? No. I commenti sono semplicemente demagogici e qualunquisti. Il più sintomatico di tutti è stato quello di Arrigo Levi, ex consigliere per le relazioni esterne di Ciampi e Napolitano, il quale sempre sul Corriere (7 febbraio 2012) afferma che noi Italiani «sentiamo il bisogno di credere in qualcosa, in qualcuno». Ma va là!? E così imperterrito ci spiega in che cosa: «Forse nella Costituzione? Forse nella Resistenza? Antonio Ghirelli ha scritto giorni fa di essere convinto che ‘qualcosa di quella radice è rimasto’, tanto da ‘evitare una deriva irreparabile’ nella recente storia italiana. Forse per ragioni di età, sono d’accordo con lui. Ma vorrei tanto che giornali, televisione, uomini di cultura, tornassero a parlare con impegno di Resistenza e di antifascismo». E conclude con la speranza che questi due «valori» siano «la base indispensabile per costruire la Terza Repubblica, solida e vitale». Cioè: non crediamo più a questi due «valori», ecco perché ci siamo ridotti così! Una vera e propria illuminazione… Certo è che l’età accomuna Levi (86 anni) e Ghirelli (90 anni), ma proprio per questo entrambi, giornalisti di lunghissimo corso, dovrebbero ben sapere come «antifascismo» e «Resistenza» siano pane quotidiano di giornali, quotidiani e politici in dosi talmente massicce da farcene fare indigestione e provocarci la nausea per assuefazione retorica. Non c’è occasione, la più banale o lontana, per cui non si tirino fuori. Ne vogliono ancora di più di quanto ci viene propinato giornalmente anche in maniera impropria? Vuol dire che quanto
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estirparli tanto che ancora crescono rigogliosi. Non ci son parole, non trovo spiegazioni se non quella di cui parlavo la volta scorsa: i comunisti hanno vinto la guerra delle parole, sopravvivono impuniti e senza vergogna, l’antifascismo militante impone un conformismo da cui non si riesce a uscire anche su argomenti che riguardano italiani morti ammazzati in modo barbaro e disumano e non certo “fascisti”. E più ci si allontana da quegli anni e peggio sembra che sia. Chissà cosa avverrà nel 2022 centenario della Marcia su Roma, o nel 2038 centenario delle leggi razziali, o nel 2045 centenario della fine della seconda guerra mondiale e, appunto, degli infoibamenti. Si esalterà ancora la “resistenza antifascista”? Meno male che non vi assisterò… Intanto subiamo, impotenti e allibiti, il Giorno della Vergogna.
ci ammannisce il Pensiero Unico e il Politicamente Corretto per i nostri due vetusti personaggi non è ancora sufficiente. Ma proprio per la loro età forse non si rendono conto che le generazioni passano e i giovani di oggi, quelli nati dopo il 1980, di certe cose ormai se ne fregano altamente, oppure non le conoscono affatto, a parte sparute frange di estremisti, e l’indigestione di «antifascismo» e «Resistenza» ha prodotto una reazione opposta, di rifiuto, come fu all’epoca della indigestione di fascismo. E infatti alla gente comune la questione non frega nulla. Come scrive Mannheimer infatti, «la netta maggioranza (56 per cento) dell’elettorato domanda un più consistente e generale mutamento nel modo stesso di fare politica da parte dei leader e delle loro organizzazioni» e chiede una «profonda revisione nei comportamenti e negli atteggiamenti verso lo Stato e i cittadini». E queste esigente le risolviamo con ulteriori iniezioni di «antifascismo» e «Resistenza»? Tutt’altro che Bella ciao come si vede, checché ne pensino Levi e Ghirelli. Ma il nocciolo del ragionamento di Levi è quello centrale: egli dice in sostanza che quei conclamati «valori» furono l’unico collante che tenne unita la politica italiana, cioè comunisti e democristiani, nonostante gli orrori della guerra civile (da Porzus al Triangolo Rosso) e degli «anni di piombo». Nonostante i morti ammazzati democratici ad opera dei comunisti di due diverse generazioni si consacrò l’«alleanza antifascista» fra DC e PCI nel 1946 e negli anni Settanta che, mutatis mutandis, Levi ancora auspica per superare la cosiddetta Seconda Repubblica berlusconiana e bipolare. Una società basata in perpetuo su un antifascismo eterno ed una resistenza al fascismo, anche se il fascismo è stato ammazzato nel 1945, ma a quanto pare è necessario ancora oggi per compattare un fronte politico contro un nemico comune anche se inesistente. Questa ideologia-anti dovrebbe essere così la base della società italiana dell’immediato futuro, della Terza Repubblica post-Monti, mentre invece all’orizzonte sono ben altri i pericoli che avanzano e non certo le «camice nere» in marcia su Roma… A quanto pare a nessuno viene in mente che se continueremo a dividere gli Italiani tra «fascisti» e «antifascisti» perpetueremo in eterno proprio quella guerra civile che dovrebbe essere lasciata alle spalle. I danni dell’antifascismo militante e i pericoli per la libertà di espressione si vedono ogni giorno. Ma a quanto pare non li vede Arrigo Levi, nonostante la veneranda età… IL FRANCO TIRATORE
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INTERVISTA A MARCO POMARICI
LA POLITICA è presenza a cura di ROBERTO INCANTI MENTRE i politici sono accusati di scarsa visibilità ed assenza sul piano della responsabilità nei confronti dei cittadini che li hanno votati, dalle pagine di un quotidiano romano arriva la notizia che per alcuni questo non è vero. Nel 2011, al Comune di Roma, quattro consiglieri - il presidente Marco Pomarici, Valerio Cianciulli e Andrea De Priamo (PdL), Dario Nanni (Pd) - sono sempre stati presenti alle 97 sedute del Consiglio. Fra i quattro spicca il Presidente Marco Pomarici, che ha votato tutti i 5.390 provvedimenti licenziati dall’assise capitolina. Per capire cosa fa di lui uno «strano» politico, gli abbiamo voluto fare qualche domanda. Onorevole Pomarici, Lei vanta uno straordinario «record» di presenze in aula e, nel 2011, ha votato tutti i provvedimenti. Inoltre, per il quarto anno di fila, è il Consigliere con il più alto numero di presenze. Come nasce questo «stackanovismo» istituzionale? «Pur essendo per me la politica vocazione e passione, considero il mio ruolo di Presidente dell’Assemblea Capitolina un lavoro a tutti gli effetti e di conseguenza, come un qualunque lavoratore sono alieno alle assenze ingiustificate. Il ruolo del politico oltre che il rapporto col cittadino e col territorio, deve anche tradursi in un impeccabile adempimento ai doveri istituzionali, nel mio caso il dovere è quello di garantire il buon funzionamento dell’Aula Giulio Cesare.» Dal 26 maggio 2008, lei è Presidente dell’Assemblea Capitolina. In cosa consiste l’adempimento di una carica «super partes», nello svolgimento quotidiano dei lavori dell’Aula, e quale dovrebbe essere, secondo Lei, il profilo da assumere per indirizzare al meglio tale funzione? «Il Presidente dell’Assemblea Capitolina è un primus inter pares, una figura istituzionale terza a garanzia di tutte le parti politiche che sono rappresentate in Aula. Tra le mie prerogative la più delicata è quella inerente all’ordine pubblico delle sedute. Infatti l’Aula Giulio Cesare è spesso teatro di proteste singolari e a volte anche forti, ma cerco di limitare i danni ascoltando chi protesta senza per questo far disturbare irrimediabilmente i lavori dell’Aula. Lascio a casa il tifo politico, spogliandomi dei panni dell’uomo della maggioranza.» Passiamo velocemente in rassegna l’attuale situazione politica nazionale: il primo provvedimento preso dal governo Monti è stato quello di rendere immediatamente operativo il secondo decreto attuativo, sulla base dell’indirizzo federalistico, riguardo Roma Capitale. In che cosa consiste il «passaggio» da Comune di Roma a Roma Capitale?
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«Roma è stata definita un ente dotato di speciale autonomia statutaria, amministrativa e finanziaria; per ampliarne le competenze quindi sono state modificate anche la definizione e le attribuzioni dei suoi organi, che sono: l’Assemblea Capitolina, la Giunta e il Sindaco. Roma non ha mai avuto una governance ad hoc come meritava una città con i suoi onori ed oneri ed alla stregua delle altre grandi capitali mondiali, la mancanza di autonomia rendeva difficilmente gestibile una città sede di istituzioni nazionali ed internazionali, e che ogni giorno ospita decine di eventi.» Sono passati quasi quattro anni dalla storica vittoria del centro-destra alle Comunali di Roma, che ha sancito la nascita della Giunta Alemanno. Cosa è stato operato, di positivo, secondo Lei, tenendo presente la gestione Rutelliana-Veltroniana degli ultimi quattro lustri, dall’attuale compagine governativa Capitolina? Quali potrebbero essere, infine, ulteriori provvedimenti da apportare in futuro, per migliorare la città? «Penso che il primo e principale merito da ascrivere al Sindaco Alemanno sia stato quello di aver rimesso a posto i conti. La situazione debitoria era molto alta ed il Primo Cittadino è stato capace di interloquire con il Governo nazionale in maniera decisa ed efficace nell’interesse di Roma. Ritengo che per migliorare ulteriormente la città si dovrebbe proseguire nella direzione della manutenzione del manto stradale, l’implemento dei parcheggi sotterranei che costituiscono un ottimo deterrente per evitare di saturare le strade, un vero piano pullman che consenta di coniugare le esigenze degli operatori del settore turistico con quelle dei cittadini.» A Suo giudizio, su quali punti il centro-destra dovrebbe concentrarsi per tentare di vincere, a Roma, le elezioni Comunali del 2013? «Durante gli Stati Generali dello scorso anno è stata presentata la nostra idea di Roma, una città potenziata nelle infrastrutture, più snella nei collegamenti e con una grande attenzione per l’ambiente e l’ecologia. Contiamo anche sul fatto che si possa tornare ad ospitare, dopo più di mezzo secolo, l’Olimpiade del 2020. La nostra bravura dovrà risiedere nello spiegare ai cittadini tutto ciò che si è fatto e si farà, i romani sono portati ad osservare i dettagli più vicini alla propria vivibilità, bisognerà accendere i riflettori anche sui dettagli meno percepibili nell’immediato.» Il tesseramento del «Popolo della Libertà», riguardo l’anno 2011, è stato un successo oltre le più rosee aspettative: ora si dovranno necessariamente tenere i congressi nazionali e territoriali (Regionali, Provinciali e Comunali) del partito. Cosa si aspetta, principalmente, da quelli che La riguardano più da vicino, vale a dire Regionali del Lazio, Provinciali di Roma ed, infine, quello Romano? Quali equilibri dovrebbero uscire, secondo Lei, per rafforzare il Partito, al fine di presentarsi, compatti, alle prossime tornate elettorali? «I congressi sono sempre un grande momento di democrazia, partecipazione, confronto della vita di un partito. Non spetta a me dipingere scenari, l’ unica cosa che auspico è che si vada sempre tutti nella stessa direzione. Nelle prossime tornate elettorali sarà necessario il contributo di tutti dal più alto dirigente fino all’ultimo simpatizzante.»
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IL FUTURO DELLA COOPERAZIONE
POTERI negati di DANIELA ALBANESE FINO a qualche anno fa il mondo della cooperazione italiana si chiedeva perché Regno Unito, Germania, Canada, Lussemburgo, Svezia, Danimarca, Norvegia, Belgio, Nuova Zelanda, Olanda, Finlandia e Irlanda - ossia la metà dei Paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico) - avessero tutti un Ministro esclusivamente dedicato alla Cooperazione allo Sviluppo. Una spiegazione plausibile si può constatare dal fatto che nessuno di questi Paesi ha tagliato significativamente l’aiuto nel corso dell’attuale crisi economica, come se avere un Ministro che difende esclusivamente le ragioni della cooperazione allo sviluppo contribuisse a garantire anche la stabilità degli stanziamenti da tagli lineari in periodi di recessione del paese. Oggi però anche l’Italia può vantare questa nuova opportunità, pur trattandosi di un Ministro senza portafogli e la cui legislazione lo rende parte integrante della politica estera destinata a coordinarsi strettamente con il Ministro degli Esteri e la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo. Oggetto del contendere oggi è proprio Lei, la DGCS, una struttura di trecento persone che fa capo alla Farnesina. La Cooperazione per l’Italia è, non tanto per questioni di budget quanto di politica, un asset strategico. Si tratta infatti di uno strumento principe della politica estera, fortemente ancorato al Ministero ed incarnante una buona fetta della sua mission. L’importanza della struttura è testimoniata anche dal fatto che alla sua guida è stata designata una diplomatica di altissimo livello come l’ex responsabile dell’Unità di Crisi, l’affascinante Ministro Elisabetta Belloni. Pertanto, l’ipotesi di privarsi della Direzione per distaccarla ad altro ministero, oppure creare quella che da anni ha la nomea di diventare Agenzia per la Cooperazione allo Sviluppo, per la nostra diplomazia, è poco meno che irrealizzabile. «Oggi, nel mondo in costante e rapida trasformazione», ha dichiarato il Presidente dell’AOI, Associazione Ong Italiane, Petrelli, «la cooperazione internazionale non è solo parte integrante della politica estera, ma deve essere uno strumento essenziale di tutta la strategia internazionale dell’Italia, in termini di coerenza, coordinamento ed efficacia delle politiche, per ridare ruolo e credibilità al nostro Paese.» Si forse ne abbiamo persa abbastanza di credibilità agli occhi dell’Europa e del mondo intero con i tagli ad una cooperazione già di per sé rarefatta ed ancorata ad uno sforzo fino ad adesso del - 0,15 per cento del PIL quando il resto dei Paesi ha investito almeno il doppio senza troppi se e troppi ma. Dal massimo dell’1 per cento o lo 0,90 per cento di PIL stanziato in aiuti di Lussemburgo, Svezia, Norvegia, Dani-
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marca e Olanda, al minimo dello 0,33 per cento del Canada o lo 0,38 per cento della Germania. Lo ha evidenziato il Ministro Andrea Riccardi, durante un’audizione nelle commissioni Esteri di Camera e Senato: «Nel 2010 abbiamo raggiunto un minimo storico finendo al penultimo posto nella classifica dei donatori, davanti solo alla Corea. La Grecia fa meglio di noi. Per il 2012, a legislazione vigente, le previsioni sono di un ulteriore pesante ribasso: soltanto lo 0,12 per cento. Se depuriamo i dati dalle cancellazioni del debito, scendiamo ancora di più». Eppure bisogna pur trovare una soluzione per uscire da questa empasse che finirà per metterci in ridicolo anche verso quei Paesi in transizione democratica che fino ad oggi hanno potuto godere del nostro aiuto non soltanto in termini quantitativi, cioè soltanto attraverso programmi di sviluppo, ma soprattutto per competenze, risorse umane e know-how. È indispensabile un’inversione di tendenza rispetto al punto zero toccato negli ultimi tre anni perdendo il 78 per cento delle risorse disponibili. Un primo passo da compiere sarebbe la riforma della disciplina degli aiuti allo sviluppo che attualmente si basa sulla legge n.49 del 1987 che oggi non risponde più alle esigenze del mondo che cambia. Lo stesso Riccardi si è detto favorevole a riscrivere ex-novo tale disciplina assicurando il proprio «impegno ai lavori parlamentari, qualora si manifestassero intenzioni in questo senso». Resta proprio questo il nodo da sciogliere. Il Ministro per la Cooperazione allo Sviluppo per evitare l’effetto scatola-vuota del proprio dicastero, rischiando di chiudere il mandato con un poco o nulla di fatto, ha predisposto un decreto legislativo che di fatto prevedeva il passaggio di competenze nelle mani del suo nuovo Ministero. Peccato che l’effetto sia stato completamente avverso alle aspettative sperate. Sembra che la dichiarazione di guerra su proposta del neo Ministro degli Esteri Giulio Terzi sia stata poi controfirmata anche dai Ministri Fornero e Cancellieri. Eh sì, perché oggi la Cooperazione, nonostante la titolarità del Ministero degli Esteri, non è soltanto appannaggio proprio ma ormai diversi ministeri si occupano di cooperazione tra i quali anche Giustizia e Interno che a quanto pare non intendono mollare. Ebbene il triumvirato Terzi/Fornero/Cancellieri ha pensato bene di non cedere a Riccardi la strategica Direzione, lasciando il Pio Ministro senza portafoglio a raccogliere in casa le briciole della sue deleghe su integrazione, famiglia e sociale. L’unica spiegazione per cui non è previsto nessuno smembramento potrebbe risiedere nella necessità attuale di evitare ulteriori aggravi di costi per cui le strutture restano tutte dove sono adesso, salvo in futuro poi far capo, per l’indirizzo politico, a ministro diverso da quello dell’amministrazione ospitante. Il pronostico del braccio di ferro nell’esecutivo vede per ora Riccardi perdente. Ma non è il caso di escludere sorprese non fosse altro perché c’è un nuovo Ministero che di nome fa Cooperazione Internazionale e dovrà pur potersi occupare di Cooperazione allo Sviluppo. Se questi sono i presupposti, in assenza di significative innovazioni tutto rischia di esser vanificato e l’allarme che ci vede appena al di sopra della Corea rischia di rimanere tale o addirittura peggiorare, rischiando di far scomparire l’Italia da vaste aree di cooperazione riducendola così all’irrilevanza.
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PER LE MANOVRE DEL GOVERNO
ITALIANI a spasso di ALFONSO PISCITELLI MA siamo sicuri che Mario Monti stia veramente risanando l’Italia? A tutt’oggi non abbiamo prove certe che egli sia un bravo medico. Possiamo benevolmente affermare che è un ottimo anestesista. Lo spread scende. Tra mille proteste le iniziative del governo vanno avanti. Nel mondo non si ride più dell’Italia, forse anche per merito delle ottime frequentazioni internazionali del professore. Però l’economia reale è ferma. Anzi fa qualche passo indietro. La verità è che il governo Monti persegue una classica finalità di destra (i conti in ordine) con i tipici strumenti della sinistra: il torchio fiscale, la compressione delle categorie produttive. Monti avrebbe dovuto metter mano alle situazioni più scandalose di parassitismo sociale, fonte di sprechi che si misurano in trilioni di euro. Ancora oggi la Sicilia continua ad avere 21.000 dipendenti pubblici; la Lombardia ne ha appena 3.000. Questo semplice confronto di cifre dimostra che il bilancio italiano è come un colabrodo: Monti spreme denaro alla borghesia tassando le case e la benzina; ma questo denaro si perde nei mille rivoli dell’assistenzialismo pubblico. Lungo questa china la Grecia (nazione caratterizzata da una esorbitante quota di impegno pubblico) è scivolata nella voragine del debito insormontabile. Certo a Mario Monti non si può chiedere troppo: il suo governo, nato in un momento di spavento mediatico, è pur sempre appoggiato alla benevolenza dei partiti. Ma se il commissario tecnico della nazione italiana davvero volesse fare sul serio dovrebbe potare come un giardiniere in gamba i rami secchi degli sprechi; invece il professore «sinistreggia»: tassa le prime case, carica tutto il peso sugli automobilisti: padri e madri di famiglia che dalla mattina alla sera usano la macchina per andare e tornare da lavoro. Risultato: gli introiti mensili delle famiglie si riducono sensibilmente, i consumi si contraggono. Diventa più raro che si esca fuori a cena o si facciano lavori edilizi. Tutta una serie di lavori diminuiscono. I politici e i privilegiati non ci fanno troppo caso, ma da qualche mese ci sono sempre più italiani a spasso. Erano muratori, erano addetti alla ristorazione, erano piccoli commercianti: oggi sono disoccupati. Nel clima di crisi le statistiche riportate dai giornali evidenziano un aumento di furti, rapine, atti violenti. È facile cogliere il nesso consequenziale tra le premesse economiche, gli atti del governo e questi sviluppi sociali. Eppure alcuni privilegiati continuano a far finta di non capire. Tra questi la palma spetta al ministro Riccardi, che molti danno come futuro sindaco della Capitale appoggiato da una coalizione PD-sinistre radicali-Terzo Polo (da Bersani ai Finiani, con Diliberto a
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sinistra e Vendola dietro). Il ministro Riccardi ha rilanciato in questi mesi la politica dell’accoglienza a tutti i costi. E sono costi pagati dai contribuenti italiani. La tabella di marcia dei politici «immigrazionisti» prevede una rapida approvazione di una nuova legge sulla cittadinanza, per cui chiunque nasce in Italia è de facto e anche de iure cittadino italiano; e il perpetuarsi della politica allegra di accoglienza dei rifugiati politici. In una nazione umiliata dalla crisi economica vediamo sempre più spesso scorazzare questi «rifugiati politici»: non lavorano, e neppure mostrano profili pensosi che li facciano assomigliare a Giuseppe Mazzini. Spesso sono bravi ragazzi del terzo mondo, soddisfatti di essersi procurati una piccola rendita nel primo mondo. Può l’Italia di oggi accollarsi questi costi? Le centinaia di euro date ai cosiddetti «rifugiati politici» vanno a finire in buona parte fuori dall’Italia: i «rifugiati» non hanno molte spese, a loro viene fornito un alloggio e cibo più che sufficiente. Non avendo la sfortuna di essere contribuenti italiani non devono neppure pagare il canone per la televisione che hanno in camera. Queste sono scene di un’altra epoca: appartengono a un epoca di dorato benessere e anche di spese folli che purtroppo stonano con le ristrettezze del presente. Può il governo italiano largheggiare in regalie verso gli stranieri nel momento in cui tartassa i propri sudditi? Diciamo la cruda verità questi «rifugiati politici» sono al 99per cento come i falsi invalidi: quasi nessuno di loro ha un trascorso che li faccia assomigliare a Gandhi o a Nelson Mandela. Generalmente sono giovani che cercano un sostentamento: esattamente come quei meridionali che si fingono ciechi per prendere la pensioncina. Contro i falsi invalidi nostrani si abbatte oggi la scure di più capillari controlli. Perché invece si perpetua e si ingigantisce la truffa internazionale degli pseudo-rifugiati «politici»? Come ha detto saggiamente Marine Le Pen: «Non è il caso di parlare di rifugiati politici, semmai di rifugiati economici». L’Italia continua ad essere il Paese del bengodi per l’immigrazione irregolare. Al danno si potrebbe aggiungere la beffa di una ripresa dell’emigrazione italiana… Non dimentichiamo che storicamente la fuoriuscita dall’Italia di migliaia di lavoratori ebbe il primo impulso dalla tassa del macinato, imposta nell’ambito della politica di risanamento del bilancio della destra storica e che colpiva indiscriminatamente danneggiando soprattutto i ceti medio bassi. Le forsennate accise sulla benzina che oggi impoveriscono le famiglie e recidono ogni speranza di ripresa economica sono la versione più aggiornata della vecchia tassa sul macinato. Non sono pochi quelli che tornano a considerare l’idea di cercar fortuna all’estero.
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DIRITTO DI CITTADINANZA
PROBLEMA non poco falso di ENZO SCHIUMA HO LETTO sul Borghese di gennaio un articolo di Piscitelli sul problema del riconoscimento della cittadinanza agli immigrati residenti in Italia. Problema che condivido e faccio mio avendone apprezzato soprattutto il richiamo storico dell’autore «all’errore di Caracalla, che diede forse un impulso decisivo» con la sua legge sulla cittadinanza universale «al declino dell’Impero Romano». Vorrei riesaminare il problema anche da un punto di vista analitico della situazione odierna, creatasi nell’intera Europa, per il formarsi non già delle solite migrazioni multiple di popoli in difficoltà, ma di singoli cittadini ripudianti la loro stessa nazionalità, per accedere altrove onde beneficiare di migliori condizioni di vita. È quello che sta succedendo, sotto i nostri occhi in Italia e nell’Europa tutta. La causa prima del fenomeno non è la scelta di un territorio quale che sia, per l’impoverimento del proprio, ma la provocazione subìta dai Paesi mediterranei e non soltanto, dovuta alla diffusione trentennale di programmi tv diffusi dall’Italia, dalla Francia e da altri Paesi europei, improntati per ragioni commerciali alla migliore esternazione dei loro prodotti, recanti l’implicita offerta di una migliore qualità della vita,. Chi dice questo è stato per 37 anni registaautore di RaiUno e sa bene quanto tra i popoli mediterranei sia sempre stata apprezzata l’attrazione filmica del bel vivere italiano, che costituisce oggi, a mio avviso, il riferimento più importante per capire meglio la diversità dei disagi odierni in Italia, sia degli immigrati che della nostra popolazione. Di recente, su iniziativa di Napolitano, è stata rivolta ai partiti la sollecitazione al riconoscimento della cittadinanza ai figli degli immigrati. Come fatto in sé, non presenterebbe alcun pericolo. Ma poiché, come vediamo già negli autobus, sono più le carrozzine delle abissine e ecuadoregne immigrate che quelle delle connazionali, e poiché sappiamo anche dai giornali che, essendo in gran numero, raggiungerebbero tra dieci anni la parità con i nostri figli naturali, il problema è di quelli che se si risolve bene per loro, se ne crea però un altro per noi che, come è noto, abbiamo una consistenza familiare carente di figli. Sicché prima ancora di decidere, sarà bene per tutti stabilire per legge, che la concessione non potrà non avere riferimento obbligato alle necessità del Paese. Si tratterebbe di un riconoscimento per la sola residenza, rispondente allo ius soli (diritto di suolo), già adottato in altri Paesi, senza bisogno della provenienza paterna, definita per legge ius sanguinis (diritto di sangue) che nel diritto europeo accompagna generalmente la prima voce. Qual è il problema? Se cittadino si diventa soltanto per residenza e non per maturata acquisizione delle qualità nazionali, non siamo più in Europa ma in America, per cui il parlamento dovrà provvedere a nuove leggi che, se non bene osservate, potranno addirittura comportare la fine delle nazionalità, per avvenuto superamento della stessa ragione di esistere. Gli Americani, come è noto, hanno iniziato per primi a dare alla residenza il valore di cittadinanza, annullando con la
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guerra di secessione la nazionalità inglese di nascita. L’hanno poi riconfermata annullando anche quella dei negri razziati in Africa e trascinati in America per adibirli alla coltivazione del cotone, tabacco e quant’altro per completare il nuovo vivere nel continente. Prima di allora, per ogni europeo, il diritto di residenza non esisteva. Il cittadino viveva nel territorio paterno chiamato «patria» e definito col nome di nazione di appartenenza. Tra questi gli Inglesi, i Tedeschi, i Francesi, gli Italiani e quanti altri popoli abitavano il continente europeo. Se patria significa amore e identità dei padri che soltanto la discendenza sanguigna può darci, vivere in Italia con la sola residenza, significherebbe rinunciare a quel che si ha di più prezioso e gradito di questo Paese: il riconoscimento dell’identità nazionale; poiché il diritto di suolo o di territorio, riconosciuto agli immigrati - stando alla legge - lega sì i cittadini ospiti a convivere con i connazionali abitanti nel territorio cittadino uniformandoli negli obblighi e nei riconoscimenti, ma non conferisce la nazionalità. (Altrimenti non si chiamerebbe «residenza»). Questo che significa voler fondare la comunità dei cittadini residenziati, senza nazione? No di certo! Ma come negare che la ricchezza identitaria d’un uomo si completi soltanto con la certificazione della nazionalità, a cui va unita anche quella della residenza? Una legge può anche omettere la prima, ma non conferire all’altra il duplice valore, perché l’omissione determinerebbe ipso facto l’inesistenza anche dell’altra (se si nega la nazione, essendo il suolo della nazione, si nega anche quello). Dunque perché questo non avvenga dovrà provvedersi a formulare una nuova legge, avendo cura che ambo le acquisizioni vi siano contenute. Contro chi si lamenta che gli immigrati non abbiano ancora il diritto d’integrarsi nello Stato in cui abitano, e che non lo abbiano anche i loro figli che vi sono nati, rispondo che, stanti le leggi attuali, sia per i primi che per i secondi, occorrerebbe una paternità di sangue che loro non hanno e non possono avere. È impensabile che chi reca ancora il simbolo carnale della propria identità africana o asiatica, aspiri soltanto alla residenza: quando il numero glielo consentirà chiederà anche il diritto di voto. Ma questo è razzismo! - dirà qualcuno - No. Il razzismo c’è quando della diversità razziale si fa abuso o prepotenza, ma non lo è se se ne fa uso corretto e rispettoso della propria e della altrui diversità. E se la ragione per la quale si pone un limite alla concessione dell’identità, è dovuto al gran numero di chi aspira ad averla che non consente di frequentare i confratelli italiani per assumerne i caratteri. Di chi è la colpa? Il che può provocare seri pericoli per la tutela dei diritti delle popolazioni ospitanti, poiché se messe in minoranza dai nuovi arrivati rischierebbero la «denazionalizzazione» del Paese. Se gli immigrati rivendicano il loro diritto di diventare cittadini italiani perché abitano il territorio, è naturale che analogo diritto lo abbiamo anche gli Italiani a conservare lingua, religione, gusti e costumi del territorio, di cui non sono soltanto gli abitanti naturali, ma anche coloro che gli hanno dato vita, arte, cultura e civiltà secolari e intendono mantenerla. A chi non riconosce le nostre ragioni dico che in questo caso il «razzista» è lui, perché non contento della nostra ospitalità, pretende anche il pieno possesso di quanto riceve. Poiché si sono già verificate manifestazioni di immigrati rivendicanti il diritto di far parte della nazione (dove «zione» deriva da «natio», cioè «nato dai padri»), rispondo che l’Italia, anche per noi, per la grandezza che le deriva dall’essere figlia di Roma, è una «proprietà avente valore etico» del passato, e non della moneta perduta per strada che può essere raccolta da chi la trova. Risentirsi di questo è appropriazione indebita
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di ciò che non appartiene. Non può un uomo dalla pelle di un altro colore, recante il segno di una diversa appartenenza, appropriarsene per il solo esserci stato o esserci nato. Anche sul piano internazionale il diritto è preciso: lo ius sanguinis ha la precedenza sul diritto di suolo, per i suoi venti secoli d’esistenza contro i pochi anni di sbarchi marini del presente, che dà lo ius soli. Risentirsi di questo è sciocco e pretestuoso, perché l’ospite fruisce già dei diritti riconosciuti di equità di trattamento. Patria, come già detto, significa amore e identità dei padri che soltanto la discendenza sanguigna può dare. Sostituire la patria con il suolo significa annullare quel che si ha di più prezioso concedendolo a chi capita capita. L’affinità di suolo non unifica ma assomma tutti nel tutto, cioè nel niente. Vogliamo fondare la nazionalità degli annientati? Come non accorgersi che il massimo merito che può avere l’uomo è quello istintivo della diversità naturale, istintiva, che unisce, fa crescere e che consiste nell’essere «uguali ad altri» per qualcosa, cioè per un merito o per la nazionalità conquistata? E cosa sono le nazioni se non le facoltà operative conseguite con l’indipendenza di ciascun popolo, per farlo sentire unito tra gli altri nel mondo, rendendo i singoli cittadini più ricchi e orgogliosi di offrire ai confratelli ospitati quel che attraverso i secoli hanno costruito. C’è anche chi stabilisce che quel che conta non è il diritto di voler essere quel che si è o quello che si vorrebbe diventare, ma quello che più conviene. Detto questo, abbiamo perfettamente identificato l’uomo del futuro americano avente come ragion d’essere il consumismo: che è la possibilità di consumare tutto per vivere al meglio. Ne discende che, se la filosofia conta ancora qualcosa, c’è da chiedersi: ma l’uomo che diventa è ancora lo stesso di prima? Il diventarlo muta l’essere dell’esistente? Il che comporterebbe che la posizione di chi sceglie si mantenga uguale ma non lo è. Se per tutti gli uomini diventare come Dio può essere un sogno per alcuni, e per altri una realtà possibile (oggi con l’aereo, possiamo far nostro il dono divino dell’ubiquità registrando in uno stesso giorno una nostra presenza a Roma, Parigi, New York e ritorno); per Domineddio non è possibile diventare uomo perché, dimostrandosi inferiore, si estinguerebbe. Allora, il nero che aspira a diventare europeo, diversamente dall’europeo che tende a conservarsi tale, non sono il primo come l’uomo che vuol diventare Dio e il secondo come Dio che non soccomberebbe? Qual è il punto, se l’essere è supportato dal voler essere, la continuità è sentita come il diritto della nazionalità a mantenersi in vita, mentre il divenire è l’uso-abuso d’una novità gradita solo da chi ne trae vantaggio. Allora la soluzione affinché tutti gli uomini, tutte le nazioni e tutte le razze trovino allo stesso modo il loro rapporto con il mondo, non può essere che questa: coltivare e non mortificare il loro orgoglio di nascità - questa è la nazionalità! affinché si conservi e non venga triturata nel meticciume imposto al mondo da chi abusa delle diversità umane per annientarle con il falso mito dell’ugualitarismo consumistico american style che sta globalizzando il mondo. Quale sarà la fine dell’Italia, quando per i figli che non facciamo, e per gli immigrati che ne fanno troppi, avremo tra dieci anni una gioventù più afroasiatica che europea? Di quale patria potremo parlare, di quella che c’era o di quell’altra che si starà facendo e che sarà uguale a quella di tutte le altre patrie europee minacciate dal carattere multietnico che vi si sta formando? Perché il fenomeno non sarà soltanto nostro ma del mondo intero. Questo per ricordare che contro il pericolo la miglior difesa è non concedergli spazi. Questo va fatto coinvolgendo tutti gli Italiani, partiti e sindacati compresi, affinché - qui mi ripeto - lo tsunami non ci sommerga.
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LA SCIAGURA DEL GIGLIO
OBBLIGO di risposta di FELICE BORSATO IMPOSSIBILE fare confronti con l’affondamento della Andrea Doria speronata dalla Stockholm sulla rotta per New York nel 1956 e quanto è accaduto al Giglio il 15 gennaio scorso. Un mese di indagini, accertamenti, perizie tecniche, ricerche pubbliche e private, dichiarazioni di personaggi coinvolti hanno evidenziato anomalie drammaticamente decisive nella determinazione delle responsabilità e quindi nella formulazione dell’accusa. Perché la vicenda occuperà a lungo i tribunali, civili e penali; e la Procura di Grosseto avrà il suo daffare. Se il codice di mare non indicasse nel comandante della nave il padrone assoluto, che risponde soltanto al suo armatore, la posizione di Francesco Schettino poteva essere stralciata; ma il destino del comandante è legato a doppio filo ai comportamenti tenuti a bordo, sulla plancia e altrove, fino all’abbandono e nelle ore seguenti. Fosse stato davvero un comandante, con tanta responsabilità sulle spalle, avrebbe avuto un trattamento diverso già in questi giorni di grande confusione che ci dividono dal terribile transito della «Concordia» davanti al Giglio. Invece Schettino, c’è dentro fino al collo, al pari delle due società alle quali la nave apparteneva, l’italiana Costa e l’americana Carnival Corporation. Di per sé il coinvolgimento dei due colossi societari, garantisce la massima copertura assicurativa del disastro, nel senso che, a conti fatti e chiusi giudizialmente, le perdite effettive, rispetto alla gravità di quanto accaduto sul Tirreno (per la valutazione basta il numero di persone presenti a bordo al momento dell’impatto, oltre 4.000), saranno state ripianate dalle assicurazioni, fino all’ultimo anello, il passaggio londinese presso il gigante mondiale Lloyd. Quando saranno chiamati organismi delle magistrature italiana, degli Stati Uniti e di altri Paesi di riferimento a giudicare, avremo due soggetti alla sbarra, la società armatrice e il comandante della «Concordia». Renzi, presidente della Codacons, ammonisce che «Schettino non ha un euro»: inutile, quindi, chiedere risarcimenti per il suo comportamento, la rivalsa è tutta della Costa. Vediamo. Il comportamento del comandante sarà vagliato ancora, a prescindere degli interrogatori già effettuati dall’Autorità Giudiziaria. Schettino dovrà fare chiarezza: sui contatti avuti durante la crisi con il rappresentante della compagnia ed eventuali disposizioni non considerate; sul ritardo con cui sono state avviate, anche approssimativamente, le operazioni di assistenza per l’abbandono della nave; sulla presenza in zone strategiche di comando di persone non autorizzate; della condizione e il funzionamento di alcuni apparecchi di precisione e spiegare, infine, due manovre, dall’accostamento allo scoglio, alla posizione finale assunta dalla nave, ormai in bilico. La compagnia genovese dovrà spiegazioni definitive sull’elenco dei passeggeri, la consistenza numerica e nominativa dell’equipaggio, la regolarità delle norme di ingaggio del personale di bordo e spiegare al magistrato inquirente la natura delle disposizioni impartite al comandante ed eventualmente
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ignorate o male interpretate. Poi l’abbandono delle nave in condizioni di grande confusione; oltre obblighi etici e morali, mediaticamente più volte sottolineati nei giorni successivi al disastro. Sarà esaminato anche il ruolo delle Capitanerie di Porto. Lungi da fare, o anticipare un processo, a Schettino e alla Costa, prendendo anche le distanze dai contenuti di certi affollati e ripetitivi salotti televisivi (c’è chi cercava clienti per il proprio studio legale in diretta), ma quel che ha fatto la Procura di Grosseto, basta e avanza per condannare gli imputati, anche se, ancora all’inizio di febbraio, mancava una precisa imputazione alla società armatrice, che ha precise responsabilità sulla presenza prolungata del relitto in quel tratto di mare urbanizzato e delle conseguenze che potrebbero derivare dalla perdita di parte o tutto il carburante contenuto nei serbatoi. Siamo così al danno ambientale possibile e di immagine già maturato, essendo il Giglio zona nota e affermata nel mercato della vacanza; anzi il turismo è l’unica fonte produttiva e di sostegno economico per i residenti. Questi, dopo un naturale periodo di osservazione, senza esasperazioni populistiche o infiltrazioni politiche di parte sgradevoli, si sono organizzati e adesso guardano al loro problema vitale con serenità, ma decisi a non farsi «fottere» da quella squadraccia di imprenditori del mare che, per fare altri soldi, ha avuto il coraggio di affidare una nave di quel tipo e stazza alle capacità di Schettino. Questa è la situazione un mese e mezzo dopo il disastro. Si è cominciato a parlare dei risarcimenti-danni a favore di tutti i clienti della Costa che hanno visto trasformare una breve vacanza sul mare in un film dell’orrore. Sono scesi in campo per un pugno di euro studi legali rinomati e «avvocaticchi» fuori servizio che credono di aver colto la palla al balzo. Alla conclusione sono stati patteggiati 10-11 mila euro a persona, tutto compreso: una autentica miseria, oltre che una sconfitta sul piano morale per il deprezzamento evidente del valore attribuito alla vita di un essere umano. Danni materiali, anche per la perdita in mare di valige, abbigliamento ed oggetti vari; danni psicologici soprattutto per i minori; danni fisici laddove riscontrati e penali per il mancato soggiorno sulla nave. C’è una causa milionaria intentata negli Stati Uniti, che riguarda anche una coppia italiana, con il coinvolgimento della casa-madre Carnival Corporation; poi, in Italia, un rivolo di iniziative sparpagliate e le cause assemblate di un paio di organizzazioni rappresentative dei consumatori dai contenuti decisamente contrastanti. È d’uopo optare per la Codacons per i comportamenti programmatici assunti pubblicamente dal vertice associativo, di cui ci siamo occupati, a suo tempo, sul portale www.italiannozero.it. Non è finita. Il recupero degli oggetti fuoriusciti dal relitto sono stati raccolti e assemblati in zona; questi sono la base di un possibile e non auspicabile inquinamento ambientale ed è un altro validissimo motivo per la causa dei «gigliesi» che lamentano, giustamente, la lentezza nell’opera del recupero in mare che poteva prescindere dalle condizioni proibitive del mare nei primi giorni di febbraio. Tutta qui la causa per un naufragio provocato da uno scherzo cretino? No. Gli Italiani con la testa sul collo - stufi di assistere ad accomodamenti vari - pretendono giustizia e che siano evitate le «code» giudiziarie di analoghi casi del passato: dal Polesine a Longarone, dal Cernis a Viareggio. Intanto il governo dei professori latita. Che fine ha fatto il provvedimento del Ministero dell’Ambiente per evitare per legge «dirottamenti turistici» del tipo «inchini»? E le possibili diverse mansioni delle Capitanerie? Perché non intervengono quando una nave va fuori rotta, come accade in cielo con gli aerei? Le risposte, questa volta, sono d’obbligo.
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CASSAZIONE E STUPRO DI GRUPPO
In compagnia pena più leggera di ALESSANDRO P. BENINI LO STUPRO di gruppo, l’infame crimine, non sembra trovare nelle sentenze della Corte di Cassazione, quella sensibilità e quella severità che i cittadini si aspettano di fronte ad un delitto così distruttivo: infatti, all’inizio di febbraio, la Suprema Corte ha stabilito che il carcere non è più obbligatorio per gli accusati di violenza sessuale. Una decisione sopra le modifiche operate nel 2009, quando con lo sdegno popolare all’apice per lo stupro nel parco della Caffarella a Roma, fu modificata la legge, rendendo obbligatoria la detenzione in carcere per i responsabili, individualmente o in gruppo. Adesso, a seguito di una serie di disposizioni della Consulta, che aveva ritenuto le nuove norme in contrasto con la Costituzione, la Cassazione si è espressa favorevolmente all’applicazione di misure diverse dalla custodia carceraria per gli imputati di violenza sessuale. Davanti a queste notizie si ha l’impressione, come in tanti altri casi, che, anche nel settore giudiziario, ci siano dei periodi in cui certi crimini appaiono più efferati di altri, pur a parità di ferocia, basandosi sulla frequenza e sulla risonanza nella società. Poi, quando l’interesse del pubblico e dei mezzi di informazione si spengono, ecco qui le diverse interpretazioni, l’ammorbidirsi delle valutazioni. Questa violenza contro i deboli, le donne in primo luogo, è certamente un frutto velenoso dei nostri tempi, una coda odiosa all’arbitrio nel pensare e nell’agire così diffuso, in particolare, in quegli strati più giovani della società dove l’educazione al rispetto della dignità della persona è spesso carente. Ma la spinta verso lo stupro di gruppo viene da lontano: nell’antichità la sconfitta di un popolo, di una città significava, per il vincitore saccheggiare e violentare e trarre in schiavitù, intere popolazioni. Il concetto di vittoria, una costante nell’indole umana, assomma in se il principio del possesso e dell’impunità e sempre la volontà di vendetta. Non è necessario arrivare alle sanguinose vicende del mondo antico per confermare queste attitudini, basta soltanto pensare a quanto accaduto in Germania dopo il crollo del Reich, con stupri di migliaia e migliaia di donne di tutte le età compiuti dalle truppe sovietiche d’occupazione, al Lazio meridionale, dove analoghe violenze furono messe in atto dalle truppe coloniali inquadrate nelle armate alleate ed anche, ricordarlo suscita profonda emozione ed indignazione, il martirio delle nostre donne dell’Istria e della Dalmazia, profanate ed assassinate insieme ai loro uomini dalle milizie comuniste di Tito. Da sempre, purtroppo, il male fisico e psicologico, esercitato contro le donne, per una distorta visione della scala dei crimini contro la persona, ha avuto un impatto minore rispetto ad altri reati: si è voluto, in qualche modo, minimizzare quelle barbarie, riducendole, spesso, in sede processuale, ad episodi di molestie sessuali talvolta provocate dalla vittima con l’abbigliamento e l’atteggiamento. Non è, per rispetto della nostra Nazione, patria del diritto,
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più possibile tralasciare il significato di attentato all’integrità personale delle donne confondendo lo stupro, sia questo individuale o di gruppo, con un reato sessuale, in cui le responsabilità degli aguzzini diventano sostanzialmente equiparate a quelle presunte delle vittime. In una società come l’attuale c’è un grande bisogno di affermare dei princìpi etici, dimenticati nella bolgia del «tutto è permesso», in cui alcuni individui, per emarginazione o, peggio ancora, per imitazione di modelli negativi ritengono di poter imporre i loro istinti al prossimo, nelle certezza di una impunità mascherata da giustizia. Si deve arrivare al caso estremo, all’omicidio, come quello di Brembate, per comprendere come la disattenzione alla violenza sessuale sia in effetti una disattenzione che mette a rischio tutta la comunità; quasi tutti i casi di stupro riportati dalle cronache recenti hanno le caratteristiche di un tentato omicidio, con le molteplici ferite inferte alle vittime che non cedono immediatamente alla violenza. Eppure, gli autori di questi crimini, secondo le interpretazioni giurisprudenziali, sono «meritevoli» di possibili misure cautelari alternative al carcere. Intendiamoci, queste misure sono relative agli imputati in attesa di giudizio, ma certi alleggerimenti di condizioni, quali appunto gli arresti domiciliari e la libertà vigilata, sono una ulteriore spinta all’agire criminale. Di fronte alle tante scelte non in linea con il comune sentire, quelle statistiche incerte sul numero degli stupri verificatisi in Italia, diventano più comprensibili. Per molte giovani donne, finite sotto il rullo compressore della violenza sessuale, il chiudersi in se stesse e non denunciare l’accaduto è un atteggiamento di difesa, per non ripercorrere, davanti agli inquirenti, i drammatici istanti dello stupro e per non rivedere in faccia gli aguzzini, quasi sempre tornati velocemente in libertà. È il medesimo meccanismo che ha permesso, fino all’entrata in vigore della legge sullo «stalking», maltrattamenti e percosse ad opera di compagni violenti, certi di non essere mai perseguiti proprio per il silenzio delle loro vittime. Nello stesso modo si dovrebbe agire, garantendo alle donne vittime di violenze sessuali, la massima severità nei confronti dei colpevoli, specie dello stupro di gruppo, reato che deve comportare, come avviene nell’associazione a delinquere, un aggravio della pena. Come in tanti reati, anche in questo, orrendo agli occhi di tutti, è necessario credere ed operare per la certezza della pena. Con buona pace di tutti i bizantinismi.
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DA USTICA A RAMSTEIN
IL MISTERO si infittisce di MARY PACE IL GOVERNO italiano questa volta non ha chinato la testa, davanti alla sentenza della terza sezione civile di Palermo, di risarcire i familiari delle vittime del DC9 che la sera del 27 agosto precipito nei pressi di Ustica. La risposta del Governo è stata secca, un NO deciso, poiché non ritiene responsabile il Ministero dell’Aviazione, né il Ministero della Difesa. Il giudice Paola Protapisani, il 17 settembre con la sua sentenza accusava entrambi i Ministeri per non aver saputo tutelare il volo del DC9. Questa sentenza stravolge la verità ed è quella che desideriamo sapere dopo 30 anni. Quella fatidica sera il DC9 partì da Bologna diretto a Palermo con due ore di ritardo. Si agganciò alla torre di controllo di Ciampino fino alle 20,58. Il DC9 non viaggiava solo, in volo nello stesso spazio aereo vi erano anche due caccia F104 in volo di addestramento, che vennero dirottati verso il velivolo di linea, probabilmente sotto la supervisione di un AWACS. Prima di atterrare all’aeroporto di Grosseto dove erano di stanza, i due ufficiali piloti lanciarono per ben due volte l’allarme codice 7300, che significa allarme generale. Nessun aereo italiano lanciò il missile contro il DC9, ma qualcuno lo fece, i due ufficiali videro tutto, ma saranno uccisi, presso Ramstein in Germania, due giorni prima di recarsi in tribunale e fare la loro deposizione. Quello che ci chiediamo è: avrebbero detto la verità? Se si è deciso per la loro eliminazione in maniera così atroce, sicuramente erano ritenuti testimoni scomodi. La presenza, quella sera, dell’AWACS nello spazio aereo italiano diventa, a questo punto, la chiave di tutto il mistero. Il Boeing 707 «E3 Sentry» (Sentinella), di fabbricazione americana, il cui progetto fu voluto dall’amministrazione Reagan, è dotato di un sistema radar che gli permette di controllare lo spazio intorno dal terreno fino alla stratosfera. È in grado di individuare velivoli a bassa quota fino ad una distanza di 350 km, mentre per bersagli a quota medio/alta la distanza di intercettazione sale ad oltre 640 km. Inoltre è in grado, attraverso una combinazione tra radar principale e secondario, di identificare velivoli nemici a bassa quota, eliminando gli echi di ritorno del terreno. Inserito nella linea di controllo dello spazio aereo europeo alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso, ha contribuito a tenere sott’occhio l’Urss, fino alla caduta del muro nel 1989. La flotta di velivoli della Nato ha la sua base in Germania e, allora come oggi, il Comando Nato ha sempre tenuto almeno tre velivoli per un controllo che andava dal Mare del Nord alle coste dell’Africa. A questo punto occorre chiedersi cosa ci faceva l’Awacs nella coda del volo Itavia. Non dimentichiamo che in tempo di guerra, il Sentry viaggia con una scorta di due coppie di caccia, posizionati a varie altezze e con i radar
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spenti. Infatti, l’E3 è in grado di «vedere» per loro. Inoltre, la Centrale operativa dell’Awacs è in grado di «guidare» sul bersaglio i missili in dotazione ai caccia. Siccome nessuno avrebbe avuto vantaggi dall’abbattimento del DC9, possiamo ipotizzare che nella zona d’ombra del DC9 vi fosse uno dei Mig libici, incaricato di aprire la strada al velivolo di Gheddafi diretto a Varsavia. Posizionato ad una distanza al di fuori della portata del radar del Mig, il Boeing lo ha «tracciato» poi, usando un missile in dotazione alla scorta, ha «sparato». Il resto possiamo supporlo: errore umano, improvvisa virata del DC9 o del Mig. Non lo sapremo mai. Sicuramente, Gheddafi messo sull’avviso invertì la rotta, mentre il secondo Mig di scorta si schiantava sulla Sila per mancanza di carburante. Morto Gheddafi, si punta a scaricare la responsabilità sul primo Mig libico. Questo non è possibile: primo per i troppi debiti di riconoscenza del Rais verso l’Italia; secondo, perché il missile che può aver colpito il volo Itavia era sicuramente in dotazione alle forze occidentali e non a quelle libiche. Di sicuro l’arma usata fu un AIM9Sidwinder, con testata agli infrarossi, di serie sui Grumman F14 Tomcat, caccia intercettori imbarcati. Da qui la concomitanza con la presenza di una portaerei americana nella zona, concretizza ancora di più che il colpevole sia da cercarsi fra il personale di bordo del Sentry, addetto al controllo del missile. Se questa serie di ipotesi dovesse avere un riscontro, allora sono gli Usa ad essere responsabili dell’abbattimento del DC9 e provvedere al risarcimento dei 110 milioni di euro alle famiglie delle vittime, così come stabilito dal Tribunale. Ma Ustica non fu la sola tragedia. Ad essa si aggiunge quella avvenuta, otto anni dopo, nella base militare di Ramstein, precisamente il 26 agosto 1988. La connessione è evidente. Quel giorno nella base era in pieno svolgimento una festa, che aveva come attrazione principale l’evoluzione di varie squadriglie acrobatiche militari. L’Italia è presente con le Frecce Tricolori, nate nel 1961, e che tutto il mondo ci invidia. Figura principale dell’esibizione italiana, quel giorno, era il cuore creato da fumogeni bianchi, che il solista dove passare nel centro. Il solista, il tenente colonnello Ivo Notarelli, professionista con alle spalle 4.500 ore di volo, quella figura l’ha ripetuta decine di volte, ormai è
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una routine. Deve arrivare all’appuntamento volando a 40 metri da terra ed a 600 km/h, rispettando tempi e quote al millesimo. Questo non avviene. L’entrata è sbagliata, nell’urto coinvolge l’aereo del capo formazione, il tenente colonnello Mario Naldini, e l’aereo del capitano Giorgio Alessio. È una strage, oltre ai tre piloti perdono la vita 67 spettatori. Perché il collegamento tra Ustica ed i due piloti, Notarelli e Naldini? Perché quella notte erano in volo di addestramento su di un F104, con partenza da Grossetto. Un Sentry Awacs (di nuovo!), in volo sull’Appennino toscoemiliano, li dirotta verso l’Itavia. Torneranno a Grosseto 15 minuti prima della tragedia, ma nel breve periodo in cui si trovano a volare accanto al DC9 notano qualcosa di strano e lanciano per due volte il codice 7300, «allarme generale». Due giorni dopo Ramstein, essi avrebbero dovuto testimoniare in merito a quanto accadde quella notte su Ustica. Sicuramente ciò che videro li ha uccisi. Fra le varie ipotesi sulla tragedia di Ramstein, il sabotaggio agli aerei oppure l’inserimento di una droga all’interno di qualche bibita, fattagli avere da persona amica ed esperta nel settore. Altre morti strane, collegate ad Ustica, avvennero prima del 28 agosto: Pierangelo Teoldi, comandante dell’aeroporto di Grosseto, morto in un incidente stradale; Licio Giorgieri, comandante del Registro Aeronautico ucciso da un atto di terrorismo delle Unità Comuniste Combattenti; Maurizio Gari, capo controllore Difesa Aerea radar Poggio Ballone: infarto, a 32 anni; colonnello Antonio Gallus, morto il 2 settembre 1981, durante un’esercitazione aerea (anche lui si accingeva a fare importanti rivelazioni su Ustica); Mario Alberto Dettori, controllore della Difesa Aerea radar Poggio Ballone, suicida; Ugo Zammarelli, del SIOS di Cagliari, investito. Dopo Ramstein, morirono in circostanze sospette: il sindaco di Grosseto Giovanni Battista Finetti: assassinato secondo alcune ipotesi perché avrebbe raccolto le confidenze di alcuni ufficiali dell’aeronautica su Ustica; Antonio Muzio, maresciallo presso la torre di controllo Lamezia Terme (assassinato); Sandro Marcucci, pilota in volo durante l’incidente (morto in un intervento aereo antincendio); Antonio Pagliara e Franco Parisi, controllori della Difesa Aerea radar di Otranto (incidente stradale il primo, suicidio il secondo); Roberto Boemio, Capo di Stato Maggiore della III Regione Aerea in pensione anticipata (ucciso con coltello durante una rapina davanti la sua abitazione di Bruxelles); Gian Paolo Totaro, Maggiore medico: suicidio per impiccagione; Franco Parisi, controllore Difesa Aerea radar di Otranto; Michele Landi, consulente informatico, avrebbe confidato al magistrato Lorenzo Matassa di avere scoperto cose importanti su Ustica. Nonostante tutto, la commissione d’inchiesto reputò che l’incidente di Ramstein non fosse correlabile ad Ustica; gli effetti collaterali (decine di morti e centinaia di feriti) furono giudicati sproporzionati e sconvenienti. Oggi i familiari delle vittime, che aspettano ancora giustizia, si sono rivolte ai legali Galasso e Daniele Osnato affinché vangano riaperte le indagini della tragedia in Germania. Perché questa richiesta a distanza di anni? Quando perirono il solista e il suo comandante di squadriglia, le indagini furono e vennero affidate ai tedeschi, americani, e italiani. Il risultato nulla di fatto Anche noi vogliamo sapere la verità, dopo tanti anni ci sembra doveroso conoscere da chi siamo stati raggirati, imbrogliati, depistati sempre nel mare dell’omertà.
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IL TRIONFO DELL’UTILE, OVVERO
LA FINE della cultura di HERVÉ A. CAVALLERA CHE SIA da tempo in atto una esplicita azione di privatizzazione delle Università secondo un modello liberistico tardo -statunitense è ormai cosa nota e più volte espressa su questo giornale. È un processo particolarmente voluto dalla Confindustria, di cui il presente Governo è espressione, e fatto proprio dai partiti che attualmente lo sostengono. Non a caso nel 2005 i DS avevano proposto di «affievolire» il valore legale dei titoli di studio, aspetto su cui era tornata nel marzo del 2006 la Confindustria, sostenendo una liberalizzazione dei titoli di studio fatta propria del programma del PD (marzo 2008, punto 7), e in qualche modo recepita poi nel luglio del 2010 dal PDL che avanzava una proposta di legge. Il che la dice lunga su chi gestisce davvero la vita delle Università italiane, secondo un primato del sapere tecno-scientista, proprio degli USA, e generatore del dissesto economico che sta attraversando l’Occidente. Le avvisaglie del sommovimento si erano già avute con l’infelice introduzione della distinzione, ad opera del ministero Berlinguer, tra lauree triennali e specialistiche (poi magistrali) e, successivamente, con il cosiddetto «Processo di Bologna» (1999) che ha sostenuto un sistema europeo universitario di stampo indubbiamente scientistico, volto al profitto per il tramite dei rapporti tra Università e mondo delle industrie, introducendo parametri valutativi di stampo quantitativo ed efficientistico. La messa in atto dei nuovi statuti universitari, voluto dal ministro Gelmini e ora fatti propri dal ministro Profumo, sostenitore del precedente ministero, stanno attualmente accentuando un cambiamento del significato delle Università con un forte accentramento dei poteri nelle mani del Rettore e con una apertura non asettica e disinteressata al mondo delle imprese. Intanto si fa sempre più chiara la volontà del Governo Monti (e di tanti docenti bocconiani, notoriamente legati alla Confindustria) di abolire il valore legale del titolo di studio creando Università di diversi livelli, mentre verrebbero fissati standard verificabili da società di accreditamento con la conseguenza non soltanto della cancellazione di ogni ordinamento didattico nazionale, ma con l’imprimatur di eccellenza di pochi Atenei, tra cui sicuramente quelli a carattere prevalentemente tecnico-scientifico. Così, da un punto di vista formativo-culturale, che non a caso è stato quello fondante il Risorgimento, verrebbe definitivamente meno l’unità d’Italia. Ciò è peraltro confermato da quanto accaduto nei bandi per i Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) in cui col D. M. 27 dicembre 2011 n. 1152/ric si è introdotto il criterio di una preselezione dei progetti ad opera di ogni singola Università, la quale può presentare un numero di progetti in proporzione al proprio numero complessivo di docenti (un sistema meramente quantitativo, che ovviamente penalizza le Università più piccole e che non tiene nemmeno conto che nella proposta del progetto sono inse-
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rite diverse unità di vari Atenei tra loro collegate). Non basta. Nella successiva selezione nazionale, scandita secondo un sistema di punteggi apparentemente oggettivo, 25 punti (su 100, con un minimo di ammissione di 80 che non si potrebbero raggiungere senza toccare i punti relativi a Horizon 2020) potrebbero essere assegnati ai progetti riferiti «alle tematiche oggetto del programma Horizon 2020», tutte tematiche prevalentemente di chiaro carattere tecnico-scientifico. Infatti esse riguardano «i settori della salute e del cambiamento demografico e del benessere; della sicurezza dell’alimentazione, agricoltura sostenibile, bio-economia; dell’energia sicura, pulita ed efficiente; dei trasporti intelligenti, “verdi” e integrati delle azioni climatiche ed efficienza delle risorse (incluse materie prime) per una società inclusiva, innovativa e sicura». Tematiche di sicuro interesse, ma che indubbiamente tolgono a priori ogni possibilità di successo ai progetti di natura «umanistica». Vero è che la gravità dell’impostazione ha indotto a una qualche modifica. Infatti il nuovo D.M. del 12 gennaio 2012 è più sfumato nella dicitura (ma non nella sostanza), affermando in linea generale che si riconosce priorità per la valutazione a «progetti che prevedano collaborazioni internazionali e che si riconducano agli obiettivi di Horizon 2020». Il che, è evidente, è poca cosa. Restando infatti tali priorità e dovendo le Università aprire delle preselezioni nei confronti dei progetti presentati da un proponente coordinatore nazionale, è evidente che esse scelgano quei progetti che corrispondano alle indicazioni sopra riportate, con la messa da parte delle ricerche di natura storica, filosofia, letteraria e così via, che, comunque, troverebbero seri ostacoli nella successiva valutazione nazionale Da tutto questo si evince che è in moto un preciso (e non oscuro) progetto in cui nelle Università, i Dipartimenti tecno-scientifici acquisterebbero un ruolo dominante e diventerebbero la longa manus delle industrie, i cui rappresentanti entrerebbero nei Consigli di Amministrazione che sarebbero, insieme ai Rettori, il vero centro del potere dell’Università-Azienda. All’esterno dell’hortus conclusus dell’Università, sempre meno hortus e sempre meno conclusus, la parola magica, conseguente la logica tecno-scientista qui ricordata a proposito dello stravolgimento degli Atenei, sarebbe «liberalizzazione» o «privatizzazione», come se la diffusione della concorrenza selvaggia, secondo i più vecchi princìpi del liberismo, garantisse il risanamento e il miglioramento economico. Di chi, poi? Uno dei grandi obiettivi del secolo passato era quello del raggiungimento della giustizia sociale. Sembra davvero un mondo lontano. Come dire? Al peggio non c’è limite.
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L’AZIENDA SCUOLA
MEDIA, scuola non cifre di ALESSANDRO CESAREO UN ARTICOLO apparso sull’Unità del dicembre scorso pone una legittima domanda sulle sorti e sul valore del modello azienda. Trattasi del macrosistema organizzativo dell’assetto scolastico italiano cui si è fatto riferimento nell’ultimo quindicennio. Tale, controversa modalità di gestione ha riguardato l’intero mondo della scuola e da essa dipende la sorte delle risorse umane che la caratterizzano e la connotano. Una gestione che, come evidenzia la ricerca condotta dalla Fondazione Agnelli, ha contribuito a partorire, nella maggior parte dei casi ed per un preoccupante vuoto dei contenuti, alunni ignoranti e scontenti. La riflessione cui si fa riferimento riguarda, in prevalenza, il delicato periodo della scuola media, ma, di rimando, è proprio a questo ordine di scuola che si fa riferimento per lo scadente livello delle competenze degli studenti. La lamentela diffusa, generalizzata ed evidente indica non soltanto il fallimento di tale segmento scolare, ma, soprattutto, della strategia di fondo della formazione ed istruzione nell’età preadolescenziale. Questa è una cosa comprensibile ed effettivamente verificabile. Allarmante, statistiche alla mano, il dato relativo all’ignoranza; ma di cosa sarebbero davvero scontenti, oggi come oggi, gli studenti? E perché? Essi stanno vivendo, oggi, la naturale conseguenza di quanto messo in pratica da troppi decenni, all’ombra di un inquietante vessillo riformistico contrassegnato dall’egalitarismo forzato, dal pedagogismo esagerato, etc. L’equiparazione scuola-azienda, introdotta dalla metà degli anni ‘90 e presentata come una vera panacea, è stata resa ancor più visibile ed operativa con la graduale applicazione dei princìpi dell’autonomia. Essa ha connotato le istituzioni scolastiche non in base ad un intento formativo culturalmente forte, ma in riferimento a parametri gestionali fatti soltanto ed esclusivamente di numeri, livelli, intenti tassonomici e motivazioni tecniche. Il tutto, concepito e realizzato proprio come se giovani, docenti e princìpi educativi potessero essere passati in rassegna soltanto in base al puro principio numerico. In un’azienda di qualunque tipo, ognuno vale in base a quanto produce e la sua produzione è quantificabile e valutabile con un calcolo preciso delle entrate e delle uscite. L’equivoco di fondo è proprio nel voler a tutti i costi equiparare le istituzioni educative a degli stakeholder, ben sapendo i rischi e le contraddizioni che ciò comporta e le desolanti confusioni che può generare. Cosa accaduta a più riprese e nelle più disparate modalità. Le scuole sono dunque state rapidamente assimilate a molti altri enti, all’interno dei quali la preoccupazione assillante per i bilanci, la gestione delle cifre e l’attenzione per i conti hanno contribuito a porre in secondo piano, l’obiettivo della formazione in senso disciplinare. Smembrati i curricula, ridotta la peculiarità di questo o di quel percorso didattico, limitata la possibilità di espansione culturale dell’attività formativa, la preoccupazione aziendalistica di stampo manageriale ha favorito concretamente l’in-
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sorgere delle gravi e complesse problematiche all’interno delle quali si dibattono, ora, le varie scuole. Gli esiti denunciano chiaramente una generale e diffusa confusione, che non giova alla definizione di un efficace profilo educativo, così come la drammaticità dei tempi di oggi richiederebbe. Allo stesso modo, non si favorisce un approccio sereno e fruttuoso al problema educativo, colto nella sua vastità e nella sua complessità. Questo è il frutto delle innegabili difficoltà nelle quali ci dibattiamo già da un po’. Il fatto che l’allarme risuoni, questa volta, a sinistra, e a sinistra della stessa sinistra, sta a dimostrare che qualcosa sta davvero cambiando o, forse per certi versi già sia in atto. Ma a partire da domani, o da dopodomani, ci sarà davvero consentito, iniziare a pensare daccapo ad una scuola diversa? Essa non sarebbe certo un rimpianto, ma equivarrebbe, semmai, ad una più che legittima aspirazione. Una speranza, una risorsa da non buttare a mare. Si potrebbe iniziare a pensare ad una scuola non più così autonoma, non più così faidate, genericamente confusa ed in fieri, ma più chiara nelle sue linee generali e meno attendista nelle possibilità e nella gestione delle risorse. Sarebbe una scelta davvero coraggiosa, buttare via la logica contorta dei numeri degli organici e della quantità di studenti per ogni istituto. Sarebbe un vero atto di passione per la cultura e di entusiasmo, di vero amore per l’umanità. Pensiamo un po’ a cosa potrebbe significare una scuola in cui si va per studiare davvero. Un ambito educativo in cui l’ammissione di uno studente in una classe o il passaggio da una classe all’altra sia determinata esclusivamente dall’intensità e dalla veridicità, dall’autenticità del suo impegno quotidiano e non da tutta una serie di motivazioni fantasiose, aggiuntive e bizzarre, caratterizzate dall’essere prive di contenuto e di significato. Una scuola che acquisti lustro e dignità proprio perché, al suo interno, si fanno le cose «sul serio». Si abituano i ragazzi a studiare. Ad impegnarsi. A lavorare sul serio e con grande rigore. Sarebbe troppo? Un’altra aspirazione sarebbe quella di pensare a classi composte, in base a numeri equi e ragionevoli, con l’unico intento di sollecitare e promuovere lo studio, la ricerca, la passione, autentica e vera, per i libri, cartacei o digitali che siano. Non per la burocrazia, che sembra voler tiranneggiare su tutto e tutti, con astio ed eccessiva solerzia contro chi di burocrazia non s’intende e non vorrebbe restare schiacciato dalle sue astruse regole. Allora ci sarebbero tempo e modo per ascoltarsi, per ascoltarci, una volta tanto. Per capire cosa ci aspettiamo dalla scuola e cosa, effettivamente, essa potrebbe darci, se non fosse stata svuotata del suo ruolo educativo, ed essere stata trasformata in una sorta di rivendita aperta al migliore...offerente. Peccato che «migliore» non stia ad indicare una reale attenzione nei confronti dei contenuti, ma soltanto una categoria basata sull’interesse del momento e su tutte le contraddizioni ad esso intrinsecamente connesse. Prospettiva troppo angusta per tentare di costruire qualcosa, oppure per pensare ad un disegno educativo di un certo spessore o dotato di una certa risonanza, oltre che di una plausibile visibilità. La volontà di riformare la scuola in maniera costruttiva, emerge infatti anche in base a provvedimenti, che contribuiscano a rendere esplicita una controtendenza motivata e decisamente non più derogabile. La volontà di «rifare» la scuola deve essere frutto reale e concreto di un’opzione politica posta a monte del problema e non facilmente modificabile, visto che in essa è in ballo il futuro del Paese e la sorte di decine e decine di generazioni.
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Verrebbe da proporre non più organici connessi ai numeri, ma concepiti in base ad una necessità educativa di fondo, poco incline a concordare con la matematica. A tale, perversa logica sembra sfuggire del tutto l’anima delle persone coinvolte nel processo educativo e niente affatto disposte a rappresentare merce di scambio finalizzata ad un’apparente regolarità di computo e di bilancio. Ciò comporta una globale e diffusa valorizzazione e riconsiderazione del personale docente, colto in tutte le sue potenzialità e risorse; di tipo culturale, soprattutto queste ultime, per cui l’aver arricchito il proprio curriculum con ulteriori studi rispetto all’iniziale laurea o, meglio ancora, con pubblicazioni ed altre attività collaterali potrà rappresentare una concreta occasione per andare avanti nello sviluppo e nell’avanzamento di carriera. In base a quanto accade ora, tutto ciò è divenuto causa di disagio da parte di chi ha praticato queste attività e si ritrova ad essere malvisto per averlo fatto, visto l’orizzonte sindacal-burocratico in cui è costretto a permanere. Un apparato che soffoca, giungendo a stroncarle, tutte le stimolanti iniziative ed slanci creativi in ambito didattico ed educativo, nonostante il gran parlare disquisire sulle tattiche d’innovazione didattica e sulle varie strategie volte a potenziare le motivazioni e la partecipazione alla vita della scuola. La proposta globale che ne deriva è un qualcosa di rivoluzionario, soprattutto perché in forte e marcata controtendenza rispetto agli ultimi decenni. Una speranza che vale la pena coltivare, soprattutto se si desidera rinfrescare davvero l’aria all’interno degli edifici scolastici e se si vuole arrischiare l’ideazione di un sistema educativo che punti al recupero dei contenuti forti e dei valori agli stessi connessi. Quanti saranno quelli realmente disposti ad accettare la sfida e a portare avanti un tale progetto? Già parlarne sulla carta stampata rappresenta una sfida e un rischio. Quasi un pericolo, perché provare a lottare contro certe abitudini così radicate e presentate come l’unica possibilità educativa, costituisce un rischio effettivo ad iniziare da chi mostra di avere il coraggio di aver sollevato il problema. C’è ancora chi osa mettersi di traverso e, così facendo, ha l’ardire di formulare proposte ritenute innovative? Tutto ciò oramai appartiene al passato e ad esso non è più possibile fare riferimento per l’elaborazione di nuovi modelli, sulla base dei quali costruire percorsi formativi ritenuti nuovi e proficui. Il coraggio di una scelta forse poco condivisa, almeno all’inizio, riuscirà in realtà a dare frutti più in là, quando, a distanza di anni, inizieremo ad imbatterci in studenti più preparati, più tenaci, più volitivi, più coraggiosi, con le idee più chiare in merito a quanto fare, a quanto proporre. Qualcosa di grande, qualcosa di bello, qualcosa d’infinitamente coinvolgente e motivante sarà posto alla base della loro scelta di vita, tanto da farli incamminare verso un nuovo giorno, allo spuntare del quale la scuola non sarà più un’azienda e la formazione non sarà il punto di arrivo di un processo economico, ché interiorità, intellettualità e ricerca non possono andare d’accordo con i numeri, con le cifre, con i conteggi, con i bilanci. Allora sarà giunto il momento per la raccolta dei primi frutti volti a dimostrare l’effettivo miglioramento delle nostre strategie educative, così come delle metodologie al loro interno applicate e dei veri livelli di maturazione e di apprendimento conseguiti dagli studenti, ai quali sarà possibile chiedere di nuovo un vero ed efficace impegno all’interno di una società straziata da infiniti disagi e da troppo numerose difficoltà, molte delle quali niente affatto in via di risoluzione, o almeno non in tempi brevi. Roma, intanto, brucia! E noi, davvero, desideriamo lasciarla bruciare senza intervenire?
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«PIERFERDY» PIERFERDINUOTANDO Casini (Nando nella lingua latina significa nuotando e chi meglio di un democristiano nuota sott’acqua) ospite da Dietlinde Gruber detta «Lilli», sembrava un incrocio tra Beppe Severgnini e Claudio Baglioni. Si vedeva che faceva una fatica mortale a trasformare il vetriolo in zucchero. Una volta Prodi disse che era giunto il momento di porre fine alle lotte tra guelfi e ghibellini e Pierferdinuotando ha rimproverato Berlusconi di vedere i comunisti perfino dietro le tende della camera da letto. Venti anni di bipolarismo avevano incattivito l’Italia e che era giunta finalmente l’ora di abbracciarsi intorno al mondo con grazioso girotondo. Taceva, sul suo piano segreto, cioè distruggere il Pdl. Gli «udiccini» non si distinguono più dai «piddini». Se la intendono nei comuni, nelle province , nelle regioni. Tassa e spendi, immigrazione selvaggia, acquiescenza di fronte ai temi etici, giustizialismo feroce. Non c’è più differenza tra il «cattoteosofico» Prodi e il «cattocomunista» Casini. La mira di Casini appare chiara: fare le moine ad Alfano per infilargli,al momento opportuno, il pugnaletto nella milza, prendersi un po’ di voti del Pdl e governare col Pd. I comunisti estremi, messi a suo tempo fuori uso da Silvio Primo, non daranno noie, la Lega e lo zoccolo duro del Pdl saranno ridotti a meno del 30 per cento. Resta Gianfranco. «Cosa gli facciamo fare?», dice Casini. Gianfranco Fini è un caso clinico da romanzo positivista. Se te lo trovi davanti, magari può metterti anche soggezione con quegli occhialini gelidi e quelle battute taglienti. Poi se lo vedi in mutande a Sabaudia è un gusto: torace esile ma con principio di tipiche zinne senili, gambette magre, assomiglia allo zio scapolo che al mare si fa la settimana enigmistica seduto sotto il chiosco. E che ti fa Casini con Fini? Proviamo a immaginare il dialogo che avviene tra Pierferdinuotando e Buttiglione. Dice Buttiglione: «E che ce facimme co’ sto’ Gianfranche ch’è un mezze radicale e non piace a lu vescove?» Risponde Casini: «Caro Rocco, non ti preoccupare, Fini è ormai spremuto, non ha più un filo di fiato. Lo mettiamo al Quirinale. Ogni tanto spara due ca...te alla Pertini, versa una lacrimuccia come Ciampi, poi viene la Tulliani , gli sistema lo scialletto e gli toglie il pappagallo». Concludendo, vorrei fare il ritratto di quel quasi 30 per cento (o forse meno) escluso dal ferale compromesso: sono i lavoratori da cui dipende quel po’ d’agio che c’è dato, i fantasiosi, i forti di spirito, gli entusiasti per cui niente è problema, operai, professionisti, artigiani geniali e qualche intellettuale vitalista. Senza questi ciceroniani boni non c’è Italia, non c’è ricchezza, non c’è famiglia, non c’è occupazione. Questa categoria di gente sveglia e attiva la vediamo all’opera anche nei gruppi, nelle comitive, nelle aggregazioni che frequentiamo: c’è chi si dà da fare, chi serve a tavola, chi affetta il pane, chi toglie via i piatti sporchi ma purtroppo c’è anche chi parla, commenta, disquisisce e magari si incazza perché tarda il dessert. ENZO NARDI
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INTERVISTE SULLA DESTRA - GABRIELE MARCONI
SOVRANITÀ NAZIONALE giustizia sociale e bellezza a cura di MICHELE DE FEUDIS IL VALORE della sovranità nazionale e il potere dell’arte di risvegliare la bellezza che salva il mondo; Giano Accame e la denuncia delle nuove ghigliottine: da qui parte la riflessione di Gabriele Marconi, direttore editoriale di Area, una delle più longeve riviste di politica, comunità e cultura postfascista. Nei tempi grigi dell’esecutivo guidato dal bocconiano Mario Monti, il giornalista romano indica l’orizzonte della difesa della giustizia sociale per definire un nuovo perimetro di azione a destra e invita a vigilare per porre un argine alla pericolosa criminalizzazione del dissenso in atto sui media, un copione che ricorda gli anni Settanta. È autore del libro cult sul ribellismo giovanile Io non scordo (distribuito da Raido) e scrittore di romanzi di genere fantasy come Il regno nascosto, firmato a quattro mani con Errico Passaro, e Le stelle danzanti (Vallecchi) sull’impresa fiumana. Nelle prossime settimane andrà in stampa sempre per la casa editrice fiorentina l’ultima fatica letteraria di Marconi, Fino alla tua bellezza. Un romanzo nella guerra civile spagnola. Cantautore molto apprezzato sulla scena della musica alternativa, ha curato il librocd Noi, canzoni di amore per la lotta e di lotta per l’amore (Moimeme corporation). Alla quiete dell’esecutivo tecnico italiano fa da contraltare una crisi economica galoppante, che favorisce la mobilitazione di migliaia e migliaia di giovani nelle piazze ribelli del Cairo come di Atene. Questo contesto dovrebbe favorire il ritorno della «Politica» e la ridefi-
Sarà lo spirito del tempo, sarà la forzata convivenza nei contenitori partitici postmoderni, sarà il sistema politico tendenzialmente bipolare che tende a smussare diversità e omologare differenze. Il perimetro di un arcipelago culturale che si è riconosciuto - pur tra contraddizioni e ossimori - in una visione spirituale della vita e nell’umanesimo del lavoro, visione declinata a destra dal Msi e da una miriade di circoli, case editrici, associazioni, comitati civici e riviste, sembra adesso attraversare un momento di forte disorientamento. Oltre i rassicuranti confini del «nostalgismo» e dei paletti novecenteschi, però, persistono idee forti, autori di riferimento e nuove battaglie da combattere. Per questo Il Borghese pubblicherà un ciclo di interviste con scrittori, filosofi ed intellettuali per analizzare gli scenari presenti e futuri, offrendo ai nostri lettori le possibili coordinate delle nuove rotte nel mare della politica italiana. (m.d.f.)
nizione delle categorie. Ha ancora un senso definirsi di destra sociale? «Avevo diciassette anni quando, a chi mi chiedeva se ero di destra, rispondevo che non mi riconoscevo nelle categorie ottocentesche... Questo per dire che sono decenni che lo sappiamo e lo scriviamo: anche quando per Area usammo la definizione di “destra sociale”, era chiaramente accompagnata dalla premessa che si trattava di una semplificazione. È ovvio che non ha senso, ma prima di trovare una nuova categoria talmente radicata da far presa sull’immaginario collettivo e, soprattutto, sul linguaggio giornalistico - che poi è quello che decide - dovranno succederne di avvenimenti…» Sul piano dei contenuti, quali possono essere le battaglie caratterizzanti per tracciare il perimetro della destra italiana? «Tre punti fermi: difesa della sovranità nazionale, giustizia sociale e affermazione del ruolo dell’Italia nello scacchiere geopolitico euro-mediterraneo.» Il sistema tendenzialmente bipolare che ha segnato la Seconda Repubblica dal 1994 in poi potrebbe essere superato con modifiche della legge elettorale «ad hoc». C’è la possibilità che ritornino i partiti con un definito «identikit» ideale al posto delle coalizioni legate a un programma come il «Pdl» e il «Pd»? «Le aggregazioni su base programmatica sono rimaste unioni tra diversi che non hanno dato vita a una sintesi: erano frutto di make up elettorali e tali sono rimaste. Funzionano quando stai all’opposizione e devi far la voce grossa, ma quando arrivi al governo, con le differenti concezioni politiche - e la spartizione delle poltrone - arrivano pure le magagne e succede il patatrac. S’è visto con Fini e Berlusconi. La questione è complessa, perché da una parte c’è la sacrosanta aspirazione di dar voce a posizioni e pensieri diversi attraverso tanti partiti che li rappresentino; dall’altra c’è l’esigenza della governabilità, che viceversa è impedita dalla presenza nelle coalizioni di partitini minuscoli i quali a loro volta, essendo necessari per raggiungere la maggioranza, assumono un potere enorme rispetto a quello che rappresentano e così tengono in scacco tutti gli altri.» Mentre il centrodestra nelle Camere appoggia un governo di estrazione tecnocratica, il ruolo di opposizione, oltre che dalla Lega Nord, è svolto dal «Secolo d’Italia», «Libero» e «il Giornale». Come spieghi la dissonanza tra questi quotidiani e l’area partitica di riferimento? (Continua a pagina 41)
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FOTOGRAFIE del BORGHESE
DAI MONTI AL COLLE - IL QUIRINALE VAL BENE UNA FIDUCIA (Nella fotografia, Silvio Berlusconi)
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UNA VITA DA PRECARIO (Nella fotografia, Mario Monti, Presidente del Consiglio)
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LA MONOTONIA DELL’IMPIEGO FISSO (Nella fotografia, il senatore a vita Mario Monti)
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«STASI» - TACI, IL PARTITO TI ASCOLTA (Nella fotografia, un’immagine tratta dal film «Le voci degli altri»)
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«EQUITALIA» - TACI, LO STROZZINO TI ASCOLTA! (Nella fotografia, Attilio Befera, Direttore generale di «Equitalia»)
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GERMANIA IERI - SPEZZÒ LA GRECIA CON LA FORZA DELLE ARMI (Nella fotografia, Adolf Hitler, dal sito www.britannica.com)
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martedì 21 febbraio 2012 11.34 Colore campione 1
GERMANIA OGGI - HA SPEZZATO LA GRECIA CON LA FORZA DELLE BANCHE (Nella fotografia, Angela Merkel, dal sito akademikmakalem.com)
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martedĂŹ 21 febbraio 2012 11.34 Colore campione 1
A «CICCIOBELLO» HANNO «FREGATO» 13 MILIONI DI EURO . . . (Nella fotografia, Francesco Rutelli)
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martedì 21 febbraio 2012 11.34 Colore campione 1
. . . .A «GIANFRI» HANNO TOLTO MACCHINA ED AUTISTA - MA CHE SE RIDONO? (Nella fotografia, Gianfranco Fini)
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martedì 21 febbraio 2012 11.34 Colore campione 1
IL DELFINO ASPETTA INVANO IL CAVALIERE . . . (Nella fotografia, Angelino Alfano)
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martedĂŹ 21 febbraio 2012 11.34 Colore campione 1
. . . IL SUO INTERESSE È SEMPRE LA «PASSERA» (Nella fotografia, il Ministro Corrado Passera)
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10 FEBBRAIO - IL RICORDO DEI NOSTRI MORTI DELLE TERRE IRREDENTE . . . (Nella fotografia, i resti estratti dalle foibe)
. . . NELLE PAROLE DELL’EX «COMPAGNO» DEGLI ASSASSINI (Nella fotografia, Giorgio Napolitano)
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IL MEGLIO DEL BORGHESE
Ritorno al passato di MARIO TEDESCHI SIAMO quasi all’estate, ma il tempo sembra volerci riportare all’inverno. La politica si ispira alla meteorologia: sembrava, dopo il 5 aprile, che fossimo vicini alla primavera, ed eccoci invece nuovamente sprofondati nella peggiore stagione del «consociativismo». Spuntano dal passato parole e formule che si credeva fossero sepolte per sempre: la «staffetta», il «governo balneare», l’«esplorazione», il «secondo giro di consultazioni». Tutto quello che un sistema politico in disfacimento era riuscito ad immaginare nei suoi rituali arcaici, è tornato di colpo in circolazione. Con l’aggiunta d’una novità, che però rappresenta soltanto una variazione sul tema: il «governo ambulanza». In pratica, si ricorre a queste definizioni per mascherare la sostanza del problema. E questa sostanza, detta brutalmente, si riduce a quanto segue: il Presidente della Repubblica, che dei partiti è molto rispettoso essendo debitore a loro delle sue fortune politiche, intende onorare il patto spartitorio che lo ha portato al Quirinale ed ha assegnato le Presidenze della Camera e del Senato ad un comunista ed un laico; perciò, Scalfaro vuol dare l’incarico a Craxi, ma non può, perché rischia di veder arrivare i Carabinieri a casa o nell’ufficio di qualche parente del Segretario socialista (è già accaduto, può ripetersi, il pericolo è concreto, non immaginario) il giorno dopo la nomina .a Presidente del Consiglio; e allora, Scalfaro e la Dc sono alla ricerca di qualcuno che si adatti a far da cappello per tenere prenotata la poltrona a favore di Bettino, fin quando si sarà capito se egli è ancora utilizzabile. Tutto qui. Insomma: Craxi sarà anche vittima di un complotto, come dice lui e come ripetono il figlio Bobo e il «cognatissimo» Pillitteri, ma è certo che a causa sua la crisi di governo viene condizionata da considerazioni che, un tempo, avrebbero dovuto interessare, al più, le Stazioni dei Carabinieri, ma nemmeno sfiorare il Quirinale. Né è a dire che il problema si limiti alla questione del rinnovo di Palazzo Chigi. Infatti, è tutta l’Italia che ormai sprofonda nella paralisi progressiva, un po’ a causa del cosiddetto «effetto Di Pietro», un po’ a causa dei veti incrociati che ne derivano. Per cui il PdS dice «no» a Craxi; Craxi per ripicca dice «no» al PdS; la Dc, che vuol dire «sì» al PdS, rimane divisa tra gli amici di Craxi e quelli. di Occhetto e non riesce nemmeno a decidere sulla sostituzione di Forlani. Che è tutto dire: infatti, se un partito, che raccoglie il trenta per cento dei voti, non è in grado di sostituire un surgelato (e si sa che i surgelati, avendo tutti più o meno lo stesso sapore, sono praticamente intercambiabili), evidentemente siamo arrivati al capolinea. Aveva ragione quel dirigente diccì che già alcuni anni orsono ci diceva con amarezza: «questi» (e alludeva ai suoi amici di Piazza del Gesù) «portano avanti il partito come si faceva con le divise del Regio Esercito durante la guerra: fino a consumazione». La paralisi, ripetiamo, dilaga. Milano e Roma, per par-
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lare soltanto delle due maggiori città d’Italia, sono senza amministrazione. Le Commissioni parlamentari, tutte o in parte, sono senza Presidenti. Lo Stato non ha più il controllo del territorio in almeno tre regioni «a rischio», dicono i responsabili dell’ordine pubblico; ma anche «sul bilancio pubblico non c’è più sovranità nazionale», avverte il Direttore Generale del Tesoro. I Ministri della Giustizia e dell’Interno varano provvedimenti restrittivi per la lotta alla criminalità, e i magistrati attraverso il loro sindacato dicono che è roba da ridere. Tutt’intorno, il quadro è desolante. Sono trascorsi più di settanta giorni da quando abbiamo votato, più di cinquantacinque dalle dimissioni del Governo Andreotti, e siamo ancora qui. Il debito pubblico, arrivato a fine maggio a 1.525.000 miliardi, cresce al ritmo di 500 miliardi al giorno. Tutti dicono che bisogna agire in fretta, ma poi, nella sostanza, tutti marciano con la velocità della lumaca. Oscar Luigi Scalfaro sta letteralmente bruciando quel capitale di stima e di fiducia che il pubblico gli aveva così generosamente assicurato. E mentre già qualcuno invita il Presidente della Repubblica a dare il buon esempio ed a restituire, lui per primo, il doppio stipendio percepito per quarant’anni come magistrato che in realtà faceva il parlamentare, cominciano i confronti col passato. Noi l’avevamo previsto. Il 10 maggio, quando ancora non si sapeva nemmeno chi sarebbe stato eletto al Quirinale, il Borghese pubblicò in copertina la fotografia di Francesco Cossiga alla partenza da Roma e la scritta: «Lo rimpiangeremo». Nemmeno noi, però, avremmo potuto immaginare che, arrivati appena all’11 giugno, già si sarebbero levati i lamenti dei pentiti; cioè di coloro che avevano battuto la mani alla liquidazione di Cossiga ed all’elezione di Scalfaro. «Di fronte allo spettacolo di questi giorni», scriveva la Stampa, «ci attendiamo che il Presidente della Repubblica non si limiti a registrare e a far combaciare, con lo scrupolo e la pazienza del notaio, i desideri dei partiti». Oh bella! Ma non era colpevole, Cossiga, di aver tentato di ricondurre i partiti alla disciplina, invece di limitarsi a fare il notaio? E Montanelli, in quello stesso giorno: «Conosciamo Scalfaro. Sappiamo che la sua fedeltà alle istituzioni - di cui è egli stesso uno dei padri - è inossidabile. Ma stavolta, se vuole salvarle, non gli resta che procedere per ultimatum: o il Parlamento - affatturata e ingannevole maschera della partitocrazia - riesce ad esprimere, entro limiti di tempo che si fanno sempre più stretti, una maggioranza e un governo, o a lui non resta che scioglierlo ed indire nuove elezioni. Non è un oltraggio alla Costituzione. È una misura che rientra nei suoi poteri, e in questo caso, nei suoi doveri. Se non lo assolve, egli sarà d’ora in poi il Presidente del Palazzo, non degli Italiani, che alle istituzioni sempre più si disaffezioneranno (come se ce ne fosse ancora bisogno)». Ancora un interrogativo: ma non era questo stesso Montanelli che protestava per l’eccessivo «interventismo» di Cossiga? Le lamentazioni sono continuate, e continuano. Il Corriere della Sera, venerdì scorso, di fronte all’ennesima battuta d’arresto della crisi: «Forse ad un altro Presidente non sarebbe perdonato questo procedere lento e circospetto, questo avanzare con piedi di piombo verso una decisione che non ci sarà prima di martedì o mercoledì della prossima settimana». «Si tratta di guadagnare tempo», spiegava il Giornale. Perfino il Manifesto, nemico giurato
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IL MEGLIO DEL BORGHESE di Cossiga, denunciava: «Stiamo assistendo a una paralisi del Politico, ai suoi convulsi tentativi di arroccamento, a un vuoto di poteri nient’affatto congiunturale». In breve: Scalfaro è lì da pochi giorni, e già quelli che gli avevano battuto le mani, o che si erano rallegrati per l’uscita di scena di Francesco Cossiga, invocano il ritorno alle «picconate». Ma Scalfaro, che è stato eletto come rappresentante della vecchia Repubblica, non può dare quello che gli viene richiesto. Può assicurare tante cose, e magari la riduzione del numero dei Ministeri, o qualche altro contentino del genere; ma nulla di più. Se qualcuno crede che l’Italia avrebbe bisogno di un «governo del Presidente» e di un Presidente pronto a sciogliere le Camere e a rimandare tutti alle urne per portare avanti il cambiamento che il 5 aprile scorso è stato appena accennato, quel qualcuno avrebbe dovuto pensarci prima di dare a Cossiga il calcio dell’asino, o di battere le mani a chi glielo aveva dato. Ora è troppo tardi. E consoliamoci pensando allo scampato pericolo: infatti, vista la maggioranza che lo ha eletto, il nuovo Presidente avrebbe potuto essere tranquillamente un bustarellaro, anziché un onest’uomo. Certo, è ben triste pensare che, dopo tante speranze e tante illusioni di rinnovamento, a questo ci siamo ridotti. A vedere al centro dell’attenzione un partito di ex comunisti, corrotti, privi di idee, disorganizzati, in lite fra loro, eppure coccolati dal Presidente della democrazia cristiana (partito di maggioranza relativa) come se sotto le fronde della Quercia si nascondessero altrettanti salvatori della Patria; mentre è risaputo che le querce nascondono, sotto le fronde, soltanto le ghiande, alimento preferito dei maiali. E, per converso, eccoci costretti a vedere che a sbarrare ai comunisti la via del potere rimane solamente il Segretario di quel partito che ha la maggiore responsabilità nell’edificazione della Tangentopoli milanese; un personaggio che fino a ieri familiarizzava con individui poi finiti a San Vittore, dove han raccontato ai giudici le storie incredibili dei loro tesori, custoditi in Svizzera o distribuiti alle segretarie di partito. Sicché, in definitiva, pur senza dimenticare che contro Craxi e la sua famiglia non esiste nulla di «penalmente rilevante», siamo costretti a considerare che gli sviluppi della nostra politica nazionale dipendono dallo scontro fra gli amici dei tangentocrati milanesi ed i compagni dei fondoneristi sovietici. Triste destino per quanti, e sono la grande maggioranza in questo Paese, lavorano, fanno il loro dovere e pagano fior di tasse. (il Borghese, 21 giugno 1992)
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«Invito» al socialismo di VINTILA HORIA QUELLI che vogliono la rivoluzione, ma non quella russa, sono sempre più numerosi. Giovani desiderosi di mutamenti a qualsiasi prezzo; vecchi romantici, che ricordano i processi di Mosca e l’orrore dei campi di sterminio, il genocidio sistematicamente perpetrato da Lenin e Stalin, l’infinita miseria del popolo russo, incatenato senza speranza, alle false divinità dei piani quinquennali; oppure gente matura, politici nati, ma privi di prospettive di Governo; tutti questi volgono i loro sogni avveniristici verso l’altro Socialismo. Poiché il primo si è rivelato inumano, e dopo più di mezzo secolo di vita non ha risolto i suoi vari problemi, rimarrebbe disponibile l’altro volto del socialismo: il secondo, quello che Dubcek voleva instaurare in Cecoslovacchia, quello che Willy Brandt stava trapiantando in Germania, prima delle sue dimissioni. Un «socialismo dal volto umano»: qualcosa di inedito, un nuovo sentiero artificiale aperto nel bosco dell’avvenire. Sennonché, da più di dieci anni questo tipo di socialismo esiste già in Svezia, addirittura al Governo, e i suoi risultati non sono, per la verità, molto più incoraggianti di quelli ottenuti in Russia. D’altra parte, l’ora socialista della Germania sta per scoccare e fra poco assisteremo a tutti i suoi disastrosi risultati. La scoperta della spia di Pankow al fianco di Brandt, è soltanto l’inizio. Intanto, gli svedesi sono qui dinanzi a noi, sotto gli occhi di tutti. Una rivista francese intitolata Tant qu’il fait jour ha pubblicato, in uno dei suoi ultimi numeri, un articolo allucinante del pastore J.G.H. Hoffmann, in cui si narra della vera «rivoluzione culturale» in cui, da un decennio circa, la Svezia vive. Ma quali sono i risultati conseguiti? Come si presenta la Svezia d’oggi? Sì, lo so, il tema è abusato; ma non tutto è stato detto. Incominciamo dall’istruzione, fattore essenziale di qualsiasi trasformazione politica. Siccome il socialismo svedese è nato nel 1932, tutto ciò che precede questa data, come la gloriosa storia e soprattutto le battaglie della Svezia contro la Russia, non esiste; così, lo stesso mondo, con la sua storia universale, quella precedente Marx e Engels, è scomparsa dai libri di scuola. In quanto al metodo, è molto semplice: si tratta di annichilire l’individualità dei bambini, farli dipendere dagli altri; incoraggiare, poi, il sistema del lavoro di gruppo, col fine di arrivare a renderli incapaci di fare qualsiasi cosa senza l’aiuto degli altri. Gli unici scrittori degni di essere letti sono Emilio Zola, Sciolokov e Richard Wright. Tutto il resto costituisce letteratura individualistica borghese, ed è scomparsa addirittura dai testi scolastici svedesi. La letteratura classica, greca e latina, è completamente eliminata, come pure l’arte di quelle epoche. Si tratta di modellare un nuovo tipo umano, per cui proporre esempi come quelli di Ulisse o di Giulio Cesare sarebbe controproducente, in quanto, s’intende, eroi antisocialisti, che detestavano di lavorare in équipe.
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Altra caratteristica dell’istruzione: i programmi scolastici cercano di eliminare le materie umanistiche e di accentuare, per contro, quelle economiche, in cui l’apporto di Marx e di Engels pare più efficace. Al di fuori di tali maestri, tutto deve apparire dubbio o insicuro. Vi saranno pochi intellettuali nella Svezia di domani, ma molti economisti, e cioè persone sempre meno capaci di giudicare con la propria mente. La seconda guerra mondiale appare come un’epopea sovietica. La Germania ha potuto essere vinta solamente perché l’URSS stava all’erta. Niente sull’intervento americano o inglese. Gli statunitensi sono potuti sbarcare in Normandia perché i russi avevano preparato il terreno all’Est. Soltanto la bomba di Hiroshima appare in tutta la sua mostruosità borghese; ma gli autori di tali testi dimenticano di aggiungere che il suo scoppio ha risparmiato al mondo, nonostante tutto, uno o due milioni di morti. Per i testi di filosofia, è facile immaginare: si parla molto di Marx, di Mao, di Lenin e, ovviamente, di Olaf Palme, che è il capo del Governo svedese. Passiamo all’organizzazione sociale. La cosa più importante è sottrarre il bambino all’influsso della famiglia; distruggere la famiglia costituisce il fine, vicino o lontano, degli attuali programmi svedesi. Il matrimonio è un’istituzione borghese. Il divorzio e l’aborto appaiono come le grandi conquiste del regime, al pari dell’insegnamento sessuale. Ci sono libri con «figure nel testo», che insegnano ai bambini le migliori «posizioni», con aggiunti i meto-
di contraccettivi per i maggiori di quindici anni. Il tutto, integrato da pellicole a colori sui «metodi preventivi», sulle malattie veneree, sull’«accoppiamento», sul famoso «linguaggio dell’amore», dichiarato utile per i ragazzi minori di quindici anni. In una serie di tre volumi, apparsi recentemente, si trovano incluse fotografie di accoppiamento tra bambini, destinate ai bambini. La cosa peggiore è che questo insegnamento è obbligatorio, e non c’è modo di farne a meno. Esiste un’Associazione Nazionale per l’Educazione Sessuale, che fa parte del Movimento Operaio, e cioè del Partito Sociale Democratico al potere, che si propone «la trasformazione dei concetti morali». È evidente che nei suoi dieci anni di vita questo socialismo ha svuotato completamente gli animi, per cui anche gli ultimi resti di una Chiesa protestante sono spariti quasi del tutto. L’uomo, a poco a poco, torna allo stato animale: sprovvisto di amore e di fede, tra poche generazioni sarà pecora, formica o cane. Questo ci fa comprendere la ragione dei suicidi in Svezia, Paese che batte il primato mondiale sotto tale profilo e anche un altro fatto: la decadenza della spiritualità svedese, che negli ultimi anni non ha dato più niente al mondo, e la decadenza sportiva di un popolo ché prima sapeva pensare e lottare. Il mio «invito», quindi, si dirige da queste colonne a tutti coloro che guardano con invidia all’altro volto del socialismo. Provare per credere. (il Borghese, 16 giugno 1974)
OLAF PALME
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Specializzato, come il suo amico Giancarlo Pajetta, a cui assomiglia un po’ per via della cuticagna pelata e della bocca sgangherata, in tumulti assembleari ed invasioni di emicicli, questo Lenin da borgata sembra apparentemente un asceta della rivoluzione, un cenobita della causa. Anche i rivoluzionari, però, hanno diritto al loro riposo ed il compagno Maurizio non è da meno. Appena può, infatti, corre a Capri, luogo notoriamente frequentato da metalmeccanici e pendolari in vacanza, e si concede qualdi PIETRO DEL TURA che giorno di relax nella sontuosa villa dei coniugi Astaldi, di cui è intimo amico. Villa Astaldi è il luogo ideale per ritemprare lo spirito ed il corpo dalle fatiche quotidiane. QUELLO che rende francamente detestabili i comunisti itaEssa sorge infatti a dieci metri dalla famosa «piazzetta» e liani è il loro opaco grigiore. Perennemente sospesi tra la dal suo parco si gode la vista dei faraglioni. Il proprietario, vocazione barricadiera e la rispettabilità borghese, sembraSante Astaldi, nonostante i suoi ottanta anni, è un fervente no tanti «travet» che abbiano appena lasciato le mezze macomunista, il che non gli impedisce di essere anche un niche nel cassetto della scrivania. Un giorno, forse, gli stuaccorto imprenditore. È infatti il titolare di una delle più diosi di storia del costume appureranno i motivi politici e grosse Società edili italiane che operano all’estero: l’Astalsociali che hanno provocato questa metamorfosi nello stile di Estero. comunista. Per il momento non resta che prendere atto di Non c’è, però, rosa senza spine, questa malinconica vocazione alla ed anche le vacanze snob del pedanteria ed al cattivo gusto. «compagno» Maurizio hanno qualSubito dopo la guerra, i comuche risvolto negativo. Il risvolto in nisti adottarono il cosiddetto «stile questione è rappresentato, nella bella ciao». Molti fazzoletti rossi, fattispecie, da donna Maria Luisa, qualche giubbetto militare, pantalomoglie dell’anziano imprenditore, ni spiegazzati e pettinatura alla una gagliarda femminista di settan«Errol Flynn» per i semplici militasei anni, simpatizzante dei movitanti. Impermeabile sporco, scarpe menti di liberazione della donna e inzaccherate ed occhiali alla Grampoetessa in erba. Come ben sanno sci per i dirigenti. Sembravano tutti gli sventurati ospiti della villa, donappena scesi dalle montagne o rina Maria Luisa è implacabile. Sotornati da poco dall’esilio. lerte organizzatrice di cenacoli letIn quei mesi però, nonostante la terari, propina la declamazione crudeltà di cui dettero prova e la delle sue poesie ad ogni occasione tetraggine da cui erano affetti aned in tutte le salse, sciolte e a pacche allora, riuscirono persino ad chetti. essere pittoreschi e folcloristici. Qualche anno fa, Maria Luisa Adesso invece, in via delle Botteriuscì comunque a coronare un suo ghe Oscure è tutto un fiorire di vecchio sogno diventando (in età giacchette striminzite, di pullover pensionabile) giornalista professiodozzinali, di cravatte da grandi nista di Paese Sera, il quotidiano magazzini. Naturalmente, in molcomunista della sera della capitale. tissimi casi, questo è un atteggiaA questa brillante affermazione mento più auto imposto che realprofessionale sembra non fosse mente sentito. Infatti anche quando estraneo lo stesso Maurizio Ferrara. possiedono cospicui patrimoni e Qualche maligno sostiene, però, conducono vita mondana, i capi che l’amicizia di Ferrara per gli comunisti non abbandonano la loro sciatta ineleganza. Evidentemente anziani coniugi, non sarebbe soll’ipocrisia si addice ai marxisti tanto di carattere culturale o moncome il rimorso ad Oreste. dano, ma anche, per così dire Il compagno Maurizio Ferrara, «imprenditoriale». Non a caso una ex direttore de l’Unità, ed attuale delle più colossali realizzazioni capogruppo comunista alla Regione della Astaldi Estero è stata la coLazio, ad esempio, è il classico rapstruzione della sede parigina del presentante di questa categoria di PCF. Il famoso palazzo ad «esse», «rivoluzionari tutti d’un pezzo». costruito esclusivamente in vetro e Comunista a ventiquattro carati, acciaio ed il cui progettista è anche Ferrara non è un uomo: è una barrilui annoveratile tra gli amici intimi cata. Dotato di una voce stridula e del «compagno» Maurizio. plebea, non parla: ringhia. Le parole Come si vede, anche se «le poesie IL «COMPAGNO» FERRARA gli filtrano tra i denti con la stessa non danno il pane», qualche volta SOFFRE: A CAPRI velenosa crudeltà delle frecce d’una però fanno costruire palazzi. (Nella fotografia, cerbottana. (il Borghese, 17 novembre1974) l’ex direttore de «l’Unità»)
Compagno «travet»
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«La politica parlamentare fa spesso delle scelte pragmatiche che stridono con le proprie convinzioni. È il caso attuale, con il centrodestra che ha scelto di appoggiare il governo Monti perché c’erano in ballo decisioni da prendere in fretta, per le quali non si sarebbe potuto aspettare i mesi necessari a trovare un’altra maggioranza parlamentare attraverso il voto. Non tutti erano d’accordo, ma nel partito ha prevalso questa linea. I giornali di riferimento, però, hanno espresso e continuano a esprimere il dissenso più feroce, che poi è quello della stragrande maggioranza degli elettori di centrodestra. E il partito di riferimento li lascia fare per dimostrare all’elettorato che l’appoggio al governo dei banchieri è soltanto temporaneo e strategico.» Tanti giornali e riviste di idee o di partito sono a rischio chiusura per la riduzione dei contributi statali riservati all’editoria. Che prospettive ci sono in Italia per un pluralismo dell’informazione che conservi voci indipendenti e non allineate? «Non sono soltanto le riduzioni dei contributi statali a mettere a rischio le testate. Attualmente questo governo sta operando in maniera molto più subdola: Tremonti diceva che bisognava ridurre i contributi perché i soldi non ci sono, e così ha fatto. Questi qua, appena arrivati, hanno dichiarato “urbi et orbi” che non avrebbero tagliato i fondi, però in realtà stanno facendo di tutto per ritardare la concessione del dovuto, cosicché una volta che i soldi arrivano, come si dice a Roma, “te ce paghi la bara…”, perché ormai hai chiuso, e le banche non aspettano: il governo lo sa e conta proprio su questo per risparmiare. Il fatto è che l’editoria su carta, in realtà non ha più senso commerciale: costa troppo ed è sempre indietro rispetto alla velocità di internet... è un lusso per feticisti ed io sono tra questi. Però dovrebbero aiutare le testate a portare baracca e burattini sul web, senza mettere a rischio i posti di lavoro, con vantaggio di tutti: dello Stato, che non si deve sobbarcare i costi enormi della produzione su carta; e delle testate, che si salvano e possono continuare a dar voce a chi non ce l’ha.» C’è il rischio che le voci critiche del mercatismo, dello strapotere delle istituzioni sovranazionali e del capitalismo finanziario possano essere sostanzialmente disinnescate anche attraverso il risorgere di «nuove ghigliottine»? «L’ho scritto su Area proprio nell’editoriale di gennaio: non è un pericolo, è proprio quello che stanno facendo. Si sta riproponendo la caccia alle streghe stile anni Settanta, con la demonizzazione del dissenso, un gioco disgustoso e criminale al quale si son prestate da sempre le più grandi testate nazionali, sia su carta che televisive.» Dove verranno forgiate le nuove classi dirigenti italiane? Quali luoghi diventano essenziali nella «alfabetizzazione politica» dei giovani? «Gli uomini si forgiano nelle difficoltà. Perciò, se tanto mi dà tanto, da questo periodo infame dovrebbe nascere una
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41 generazione migliore. E l’alfabetizzazione politica dei giovani, da che mondo è mondo, avviene nello studio e nella militanza, non necessariamente in quest’ordine. Come al solito, però, siccome le chiacchiere stanno a zero, quello che conta davvero è l’esempio che diamo ai giovani. Il problema è che il nostro mondo, questo nuovo mondo del Duemila, è 90 per cento scenografia e 10 per cento sostanza; e quest’ultima è letteralmente sommersa dalla prima... »
Le intuizioni di Giano Accame, studioso di Ezra Pound e delle culture della crisi novecentesche nonché punta di diamante per anni di «Area», sono state essenziali nella definizione di un cantiere di elaborazione che superasse i confini novecenteschi. Quali idee dell’autore di «Ezra Pound economista. Contro l’usura» restano ancora attuali in anni nei quali si definisce con chiarezza l’approdo di un mondo globalizzato? «Sinceramente, in quindici anni di riunioni di redazione del nostro mensile non l’ho mai sentito esprimere concetti meno che illuminanti. Le sue idee non erano soltanto attuali ma addirittura preveggenti, per questo stava così bene in mezzo a noi: pur essendo anagraficamente molto più anziano era di sicuro più giovane di molti ragazzi che conosco...» Quali altri autori o filosofi sono preziosi per orientarsi in una stagione di grandi cambiamenti polititi e sociali? «Potrei dire i pensatori della Crisi, come Carl Schmitt o Martin Heidegger... In un’epoca di “apparenza” e di vuote chiacchiere com’è la nostra, ciò che serve davvero, ripeto, sono gli esempi: per questo su Area abbiamo cominciato un percorso di riscoperta di personaggi del passato che, oltre ad esprimere idee condivisibili, vissero una vita in qualche modo esemplare, tale da illuminare il mondo a prescindere da quel che dicevano e dalle contingenze del loro tempo. La rubrica si intitola “Passato presente”. Non per niente la grandezza dei Romani non era l’intelligenza superiore o la superiorità fisica: grandi lo erano per carattere, tant’è vero che gli eroi della romanità - da Muzio Scevola a Orazio Coclite - non erano guerrieri invincibili bensì uomini dotati di un carattere di ferro, per i quali la parola data era sacra nel senso più limpido della parola.» Che ruolo possono svolgere la letteratura, la musica e le arti visive per rigenerare la «polis», evitando la trasformazione dei cittadini in tanti consumatori omologati? «Tutto ciò che può dare bellezza al mondo è in grado di salvarlo.» Un libro un film e un album musicale per accrescere «l’orientamento» dei lettori de «il Borghese»? «Ce ne sono così tanti... Ma restando in linea con le suggestioni di questa intervista le mie indicazioni sono queste: il saggio Dopo la virtù di Alasdair MacIntyre; il film Enrico V di Kenneth Branagh e l’album Fisiognomica di Franco Battiato.»
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L’URBANISTICA SOMMERSA
LA CINTURA dell’emarginazione di MINO MINI CON il declinare verso l’esito finale di questa inconcludente amministrazione capitolina, il pensiero ritorna agli Stati Generali di un anno fa quando, con grande spolvero di ministri, imprenditori, managers, prelati, sindacalisti, etc., furono enunciati gli obiettivi del Piano di sviluppo sostenibile (Pss). Uno di questi riguardava «Roma città policentrica e solidale». La realizzazione di questo obiettivo era affidata a tre temi: le Nuove Centralità Urbane (Ncu);la rigenerazione urbana delle periferie; il progetto pilota per la ricostruzione di Tor Bella Monaca. Non ritorneremo su quanto scrivemmo in merito proprio su queste colonne. Ci interessa piuttosto rilevare, a proposito della rigenerazione urbana delle periferie, come, nonostante il piano casa, non ci sia stata da parte dell’amministrazione capitolina né da parte dell’economia istituzionale, la capacità di concepire la trasformazione o mutazione urbana. Il riferimento all’economia istituzionale, quella che esercita legalmente un condizionamento totalitario sulla vita della città piegandola alle proprie esigenze speculative, non è un artificio retorico. È il termine di confronto rispetto al quale esaminare un fenomeno singolare: la realtà di un processo economico che, per potersi dispiegare, costringe i suoi protagonisti alla disobbedienza civile confinandoli nell’emarginazione. Si tratta del fenomeno dell’abusivismo la cui consistenza nella capitale è espressa, oggi, da cinquantasette borgate ex abusive extra Gran Raccordo Anulare, abitate da una popolazione di 330.000 abitanti. A queste si aggiungono sacche sparse di recenti nuclei abusivi che sfuggono ad una precisa individuazione allo stesso modo delle 68.764 unità immobiliari «invisibili» mai dichiarate al catasto che fanno di Roma la capitale degli immobili fantasma. Per limitarci alle borgate ex abusive sanate per condono a livello di singoli edifici, precisiamo che stiamo parlando di una entità demografica di poco superiore a quella di una città come Bari (320.475 ab.), ma che nella realtà non ufficiale raggiunge o supera la popolazione di Firenze (371.282 ab.). È un mondo reale, positivamente spontaneo ed anarchicamente libertario che si oppone, per necessità economica o per reazione alla città «prệt a habiter», a quello economicisticamente totalitario, virtuale perché ideologico, giuridicamente impositivo. Spontaneità che, come spiegheremo, verrà a guastarsi allorché sarà strumentalizzata da un certo tipo di speculazione edilizia parassitaria e da infiltrazioni di tipo mafioso. Un fenomeno complesso per più ragioni: per la logica che definisce gli elementi che lo compongono; per il particolare tipo di economia ovvero di rapporto fra gli elementi o risorse impiegate ed i risultati raggiunti; per il sistema sociale che si instaura fra l’abusivo e le istituzioni di cui fa parte; per il tipo di insediamento ambientale (la borgata) espressione del sistema sociale strutturato in base a determinati rapporti economici e secondo una determinata logica. Proviamo a darne un quadro sommario. Sotto il profilo giuridico, l’abusivo - il protagonista principe di questo fenomeno - è in primo luogo un fuorilegge. Che lo sia per necessità, per reazione alla città «prệt a habiter» o per speculazio-
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ne, al momento in cui inizia la costruzione della sua casa ha già messo in preventivo di dover subire la reclusione per il reato di edificazione abusiva. Molti la subiscono ma ciò non li scoraggia dal perseguire il loro programma. La determinazione a perseguire la realizzazione del bene-casa fa dell’abusivo un individuo pronto ad accettare l’emarginazione sociale ed entrare in una «società» di emarginati. Ciò spiega perché la repressione nei confronti dell’abusivo sia sempre stata difficile. Le evidenti reazioni di solidarietà umana da parte di altri emarginati e da parte di una certa magistratura in parecchi casi ha reso la repressione gravida di quelle pericolose conseguenze sociali che la emarginazione porta con sé. Vediamo, sotto il profilo logico ed economico, come si caratterizzava agli inizi l’area originaria dell’abusivismo. Trattavasi di un’area di «domanda» composta di soggetti allontanati dall’investimento sul bene-casa per uso personale proposto/imposto dal mercato immobiliare pubblico o privato per una o tutte le seguenti ragioni: prezzi di acquisto elevati al di sopra delle possibilità del risparmiatore; bene-casa insoddisfacente in rapporto all’impegno finanziario richiesto per l’acquisto; inaccessibilità al credito ordinario, sovvenzionato o agevolato. In sostanza una fascia di risparmiatori che dovendo soddisfare un’esigenza abitativa più o meno pressante era costretta a ricercare una forma di investimento più confacente alle proprie possibilità. Per gli stessi il ricorso all’«economia sommersa», formalmente e sostanzialmente illegale, diventava l’unica alternativa con l’assunzione in sé di tutti i fattori della produzione: dalla promozione imprenditoriale al capitale, dal lavoro al mercato che, nella fattispecie, si restringeva al consumo diretto del bene prodotto. Una forma di economia chiusa dove il ricorso al mercato istituzionale si riduceva al solo acquisto formalmente legale dei beni elementari, altrimenti introvabili, e dove venivano trattenute presso l’abusivo - trasformato in autocostruttore - tutti quegli oneri aggiunti al costo del terreno, dei materiali e del lavoro che costituiscono una parte rilevante del costo di vendita del mercato istituzionale. Inevitabile diventava, in questa economia sommersa, l’investimento nell’acquisto del bene primario, il terreno, che doveva per forza di cose essere agricolo dal momento che quello con destinazione residenziale veniva assorbito dal suddetto mercato istituzionale. A questa «domanda» di terreno rispondeva l’«offerta» della speculazione fondiaria esercitata dal lottizzatore abusivo. A volerla vedere secondo l’ottica di quest’ultimo, sotto il profilo urbanistico si veniva a creare una condizione analoga a quella dell’edilizia economica e popolare ex legge n.167/62 che, in barba alle destinazioni urbanistiche stabilite dal piano regolatore, poteva essere edificata in zona agricola acquisendo i terreni mediante esproprio a prezzo agricolo. Fin qui abbiamo esaminato - assai sommariamente - il fenomeno a scala individuale che riguarda il singolo lottista, ovvero il proprietario del lotto e dell’edificio che abusivamente vi è stato costruito. Ma esistono altre dimensioni mediante le quali esaminarlo: la scala collettiva che investe l’insieme dei lottisti (ad es. la borgata abusiva); la scala comunale che abbraccia la dimensione del comune; la scala sovracomunale o metropolitana che, a sua volta, comprende tutti gli aspetti connessi alla dimensione corrispondente. Sorvoliamo, dunque, sull’analisi del processo individuale del singolo abusivo per concentrarci, con un salto di scala, su quello collettivo. Nasce, a questa dimensione, il primo nodo del problema dell’abusivismo. Infatti, se il ricorso all’autocostruzione in regime di economia sommersa aveva consentito all’anarchico lottista di realizzare il suo bene-casa risolvendo temporaneamente il problema dell’approvvigionamento idrico mediante
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escavazione o trivellazione di pozzi e quello sanitario mediante fosse biologiche, alla lunga si sarebbe dovuto risolvere il problema della infrastrutturazione di base della lottizzazione abusiva per evitare l’inquinamento delle falde idriche e conseguenti problemi sanitari. Si sarebbe verificata, allora, una situazione paradossale: a fronte di una sommatoria di benicasa dal valore di scambio alquanto modesto - per non dire nullo agli effetti istituzionali - ma dal valore d’uso elevatissimo, sarebbe occorso mettere in atto una rete infrastrutturale dai costi enormi che i singoli lottisti difficilmente avrebbero potuto e voluto sostenere. Un’esperienza professionale vissuta da chi scrive condotta su una realtà da condonare di 1.836 lotti su una superficie di 257,50 ettari, portò ad un risultato strabiliante: per realizzare l’infrastrutturazione minima di base (rete fognante, rete idrica, illuminazione pubblica e rete viaria) sarebbero occorsi, allora, l’equivalente di circa 29 milioni di Euro. Ovvero 15.800 Euro circa per lotto. L’economia sommersa, valida a livello individuale, si rivelava non più in grado di gestire questo nodo. Occorrevano risorse economiche rilevanti ed una organizzazione in grado di amministrarle e non sempre, se non quasi mai, le due condizioni si realizzavano. Il tutto senza poter disporre dei cosiddetti «servizi» (trasporti, chiesa, scuola dell’obbligo, uffici pubblici, impianti sportivi etc.) che esulano, generalmente, dalla scala collettiva per appartenere più propriamente alla scala comunale. Ebbene, oggi le cinquantasette borgate ex abusive, divenute insediamento di soggetti economici istituzionali che hanno sanato il reato dell’abusivismo, risolto a livello di borgata chi più e chi meno - il problema della infrastrutturazione minima di base, agognano ad essere dotate di «servizi» ritenendo di acquisire dignità urbana mediante la disponibilità degli stessi. Rivendicano, allora, in virtù della sanatoria, il diritto di essere affrancati dall’emarginazione, non già per forza propria, com’era nello spirito anarco-libertario degli inizi, ma mediante l’impegno della collettività comunale a sostenere l’onere della dotazione di servizi e della rigenerazione urbana qualunque cosa significhi. Non sempre, però, sono gli antichi lottisti proprietari di case unifamiliari a spingere per le rivendicazioni. Infatti alla prima ondata che pagava con il carcere il consolidamento di uno stato di fatto spontaneamente costituito, era succeduta la speculazione parassitaria che aveva «pilotato» lo spontaneismo. Spesso si trattava di piccoli capitalisti, spesso gli stessi lottizzatori abusivi, che conoscendo bene i meccanismi dell’economia sommersa, soprattutto illegale, avevano edificato, sempre abusivamente, palazzine di tre e più piani per lucrare con la vendita degli appartamenti. Nel meccanismo dell’economia sommersa, come si sa, opera anche la criminalità organizzata al fine di ripulire denaro sporco. Sono spesso costoro a spingere affinché la collettività si faccia carico dell’onere di «rigenerare» quelle borgate ex abusive dove hanno investito i loro capitali e dove contano di realizzare altri edifici la cui progettazione è già completata a livello di cantierabilità. Vi è, infine, l’altra dimensione del fenomeno, quella sovracomunale o metropolitana che misura i guasti ambientali e paesaggistici perpetrati dall’abusivismo, ma non soltanto. Misura, altresì, l’ingovernabilità di un’espansione informale, amebica, caotica, fagocitatrice del paesaggio agrario e degli insediamenti minori dei comuni di prima cintura. Metaforicamente, possiamo dire che a queste diverse dimensioni si può rilevare come la tecnoburocrazia e la politica «governino», senza vergogna, il degrado di una civiltà dell’abitare che aveva ispirato e guidato le più importanti realizzazioni urbane d’Europa.
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NEL NOME DEL PROFITTO
CAPITALISMO criminale di ANTONIO SACCÀ DECISAMENTE quel che scrivo non è compreso o non vale, o non è compreso ma vale, o è compreso ma non vale, o non è compreso e non vale. Combinatoria a parte, che vado scrivendo da sterminati decenni? Che ci toccherà vivere in un’epoca di capitalismo criminale, nel quale, per ottenere lo scopo ambitissimo, addirittura «filosofico», giacché il capitalismo incorpora una filosofia: che mediante il mio vantaggio da imprenditore avvantaggio la società, che non vi è miglior altruista involontario dell’imprenditore che cerca il suo utile; ebbene per ottenere lo scopo ambitissimo il capitalista massacrerà le società, bevendone il sangue fino alle gocce minime, e si trasformerà da capitalismo del benessere, dei consumi, del Welfare, in capitalismo con una corte di poveri, disoccupati, sottoccupati, occupati momentanei, disoccupati a fasi, improtetti, licenziabili, al guinzaglio fino all’avvento della morte, sub pensionati. In tal modo lo scopo ambitissimo, dominante, glorificato, il motore immobile, l’atto puro, l’essenza del capitalismo verrà assicurato, tratto in salvo. Il non misterioso scopo del capitalismo, scopo del quale si celebrano gli eccezionali vantaggi collettivi, è il «PROFITTO», al quale dobbiamo sterminati risultanze, dall’occupazione ai salari, dai salari ai consumi, giacché il capitalista profitta, d’accordo, ma con ciò mantiene viva l’impresa, la espande, suscita occupazione, dunque salari, dunque consumi, e il cerchio gira su se stesso per ripetere insistentemente che il capitalista oltre che il suo bene fa il benessere della società, principio fideistico del capitalismo. Ne viene un corollario, occorre salvare l’impresa, assolutamente, giacché l’impresa crea occupazione, l’occupazione salari, i salari consumi, quindi benessere sociale, e il cerchio torna a compiere il suo giro e torna all’assioma fideistico: l’impresa deve essere salvata! Sia chiaro: l’impresa con il profitto, il profitto del capitalista, giacché il profitto è indispensabile per gli investimenti dell’impresa e la sopravvivenza, l’impresa crea occupazione, l’occupazione salari, i salari consumi, e mi arresto in quanto le giaculatorie vanno bene soltanto in chiesa. Le discussioni odierne sulla «riforma» delle leggi riguardanti il lavoro che si svolgono nel nostro Paese, e si sono svolte, con attuazione di modifiche, in altri Paesi, nel passato, percorrono il cerchio del quale ho descritto il percorso: poiché l’impresa giova alla società, essenzialmente, consustanzialmente, ogni sacrificio deve essere compiuto per salvarla. Intendo, l’impresa del profitto privato, ripeto. Dunque, abbassare salari, tassazioni sminuite, facilitare i licenziamenti, decurtare le pensioni, estendere l’età del pensionamento, sono misure indispensabili, inoltre: il lavoratore, e il cittadino corrente, deve adattarsi, un vero adattamento sociobiologico, evolutivo, a non sostare, parcheggiare, direi, in un posto a vita, la «mobilità» è una conquista dello Spirito, specie se tra un’occupazione e l’altra vi è una splendida fase di disoccupazione, in tal caso si sperimenterà il niente fare, magnifica condizione
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verso la quale lo Stato ha una generosità faraonica, corsi di formazione, aggiornamenti, offerte di sottolavoro esaltante, spostamenti ciclopici, tanto, se il marito si disgiunge dalla moglie, il padre e la madre dai figli, ecco un’altra esperienza nell’avventura dell’esistenza di cui magnificare se stessi nella vecchiaia spensionata. Infatti: tanta mobilità per nulla. Gli odierni nostri teorici di «questo» capitalismo non hanno letto Stirner, né sanno chi è, ma Stirner scrisse al finire della sua opera di aver posto la sua causa su se stesso ossia sul nulla. Il lavoratore del presente/futuro è e sarà una girandola a vuoto, verrà spostato, licenziato, assunto, invecchiato, stagionato, spensionato, per il nulla, il suo risultato lo si avrà nell’aver contribuito a mantenere il profitto. Ma se non restasse l’impresa con profitto ci sarebbe disoccupazione totale, quindi meglio tirarsi la cintura che uccidere l’impresa. Ecco il punto su cui ragionare. Che futuro ci aspetta se l’impresa per sussistere disoccupa, sottoccupa, sbanda i lavoratori, li stagiona, li ammaestra ai licenziamenti, li spensiona, a non dire di lavoratori stranieri fuorilegge, e non soltanto stranieri, di ricchi che considerano un oltraggio di lesa ricchezza contribuire alla spesa sociale, di banche lucrative, insomma di un profitto contro la società, di un profitto affamativo, zannuto, con i canini insanguinati. Ormai, il capitalismo in rotta tira succo dalle pietre, spreme anche le ossa. Andiamo a gonfie vele verso il modello cinese, nel momento in cui il profitto è difficile il capitalismo inventa la macina per economizzare dallo schiacciamento estremo. Incredibile, in epoca di potentissima tecnologia e produttività gigantesca facciamo lavorare di più e più a lungo! Strabiliante? No. Sarebbe sbalorditivo se l’impresa fosse volta all’utile sociale ma poiché non lo è tutto si spiega. Al dunque, oggi l’impresa ha cessato la sua utilità sociale, dico: l’impresa con il massimo profitto. Per il massimo profitto farà lavorare di più pochi e licenzierà molti. Chi non coglie questa perversione antisociale del profitto odierno non comprende alcunché della fenomenologia, diciamo, prospettica. Ci godremo epoche schiavistiche. Esagero? Lo vedremo. Se leggo quanto scritto da decenni tutto ciò che pareva esagerato me lo ritrovo nei fatti. L’impresa ha bisogno di minor mano d’opera, licenzia, accresce il profitto, e per i licenziati vi è la gioia della «mobilità». Aggiunta: non sono affatto avverso a dei «signori» che per somme finalità usano le masse, non da schiavi, si intende. Friedrich Nietzsche l’ho letto e ne ho scritto la biografia. Ma questa genìa di profittatori la cui «filosofia» è la macchina, il vestito firmato, il ristorante esclusivo, le vacanze in barca, non c’è schifo contenibile a vedere rovinare la gente per questi fini. Una ricchezza con tali mezzi e per tali scopi è peggio che criminale, è inutile.
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IL LAVORO ONESTO?
A VOLTE è penoso di ANTONELLA MORSELLO I PADRI della Patria, i numerosi eroi che hanno sacrificato la propria vita per darci un’Italia unita, libera e democratica, avevano una visione della società concordemente protesa verso il progresso ed il lavoro civile, ordinato nel rispetto delle comuni e più nobili aspirazioni. Dopo poco più di un secolo di unità nazionale è, invece, inevitabile chiedersi quanta parte di questa eredità di valori etici sia ancora attuale e soprattutto, attuabile. I successori di coloro che costruiscono la nazione, le classi dirigenti che hanno gestito lo Stato negli ultimi decenni, sono, forse, riuscite a vanificare un patrimonio storico e morale che ci poneva tra i Paesi più civili del mondo. Delle certezze di un tempo, del quadro di riferimenti forti su cui si fondava la società italiana sembra essere rimasto ben poco. L’incertezza e l’angoscia hanno sostituito le certezze e le mete di un tempo. Oggi l’individuo vaga alla deriva, pressato da messaggi ambivalenti e contrapposti; la memoria storica e genetica dei valori etici fa sentire il proprio richiamo, mentre l’edonismo urlante genera aspettative materiali sempre crescenti, sempre più difficili da raggiungere e mantenere. È ormai necessario, improrogabile, cominciare a ricostruire recuperando quanto di valido esiste ancora nei valori di ieri, modificandoli per adattarli alla realtà odierna. Senza dei valori di riferimento l’uomo è, forse, libero: libero nel deserto. La società non è una nicchia confortevole in cui ognuno riesce a trovare il proprio posto, come il pezzo di un puzzle: il mondo spesso ostile dove si lotta per conquistare e mantenere ogni minimo spazio. Ma non è impossibile uscire da questo tunnel: sottopelle si avvertono ancora esigenze morali forti. I segnali sono molteplici, l’esigenza di giustizia sociale è pressante; lo stesso fasullo «buonismo» praticato dai politicanti della cosiddetta seconda Repubblica indica la direzione del vento; bisogna, ora, compiere il salto di qualità fra quanto astrattamente predicato e quanto concretamente attuato. Salto di qualità che ha compiuto Gianni Chinellato, vittima di usura bancaria. Gianni Chinellato è nato a Mestre nel 1955, dove risiede e lavora. Imprenditore nel settore ricambistica veicoli industriali. La sua azienda la Chinellato s.a.s. «già Chinellato s.r.l.» nata nel 1989, ditta con vendita all’ingrosso, ha sviluppato con la sua forza imprenditoriale e la sua professionalità oltre 1.400 clienti nel Triveneto e Nord Italia, con un fatturato di 1.500.000,00 Euro l’anno. Vanta nel suo portafoglio clienti, importantissime concessionarie veicoli industriali di marchi internazionali e nazionali. La ditta specializzata nella commercializzazione di turbocompressori «che oggi equipaggiano tutti i motori JTD, TDI...», grazie al know how di Chinellato promotore negli anni ‘80 nella sua prima ditta artigianale meccanica, delle prime applicazioni turbo sui motori aspirati di serie, ha spinto la clientela ad appoggiarsi non soltanto a Chinellato per la fornitura dei particolari, ma
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anche per la risoluzione delle problematiche tecniche. L’esperienza di Chinellato l’ha portato a essere uno dei tecnici più qualificati e competenti del settore. Ma tutto questo alle banche non interessa. Con l’arrivo dell’Euro, la ditta di Gianni entra in crisi. Anni difficili quelli che vanno dal 2002 al 2007. Nel Suo settore la crisi si fa sentire subito per l’impossibilità di adeguare i listini alla svalutazione provocata dall’Euro, tutto ciò che aveva fatto in tanti anni di duro lavoro sfumano nel giro di pochi attimi, il tempo necessario per trasformare nel pc il cambio di valuta lira/euro e il valore del magazzino si dimezza immediatamente, mentre le spese di gestione raddoppiano provocando il tracollo suo e di tantissime altre aziende in preda di banchieri senza scrupoli e assatanati di potere, i quali hanno disegnato una mappa ben precisa per applicare tassi usurari. Nel 2004 è costretto a vendere la casa dove son nati i suoi figli per far fronte alle continue richieste di rientro di Unicredit. Dopo quattro anni di sofferenza, nel 2006 inizia la sua agonia dopo una contestazione fatta ad un funzionario di Banco S. Marco, per gli alti tassi applicati nel periodo e in passato. Quello che ha ricevuto? La vergognosa segnalazione di Banco S. Marco alla Centrale Rischi per una irrisoria somma di 2.500,00 Euro, per la quale sperava in un ristorno molto dovuto. Non passa molto tempo che si rende conto di quello che stava succedendo, non solamente da una telefonata ricevuta dal vice direttore di Banca Antoveneta, ma soprattutto con l’arrivo di numerose lettere di rientro dei due istituti di credito con cui operava (Unicredit e Antoveneta). È la fine. Nell’ottobre 2007, senza più risorse a causa dei suoi conti bancari bloccati,decide a malincuore di sospendere l’attività portando una lettera alla sede locale dell’ASCOM nella quale spiega le motivazioni appellandosi alla legge 108/96 e all’art. 644 «Usura ed estorsione bancaria». Gianni da quel momento si definisce uno «indignados». Il 30 Novembre 2007 viene a conoscenza che Montezemolo è a Mestre, l’unica cosa che gli rimane è protestare per far sentire la sua verità, manifesta con un cartello con scritto «basta all’usura bancaria» e gli consegna un documento sull’argomento, lui lo legge e davanti a tutti giornalisti gli promette che si sarebbe interessamento al caso. Non ha mai avuto risposta. Gianni ci riprova ancora. Il 6 Dicembre 2007, in giro per Venezia si incappuccia e si incatenata come gli appestati di un tempo, per essere ricevuto dal Patriarca Angelo Scola. Nessuna risposta in merito. Il 22 Dicembre 2007, in giro per la laguna a bordo di un gommone incappucciato e incatenato per portare il presepio degli appestati bancari nelle isole di S. Francesco del deserto e degli Armeni. Il 15 ottobre 2008 decide di denunciare e deposita presso la procura di Venezia la sua denuncia penale per Usura ed Estorsione Bancaria,contro tre istituti di credito (Banco S. Marco, Antoveneta e Unicredit) - Procedimento Penale, n. 08/012934 «T», Codice Penale Art. 644 Pubblico ministero Federico Bressan. Ma la storia non finisce qua, «qualcuno» questa denuncia cerca di archiviarla. Un gesto eroico, quello di incatenarsi e attuare lo sciopero della fame che costringerà il Procuratore aggiunto Carlo Mastelloni a cambiarne la strada, ma Gianni ancora aspetta che il magistrato apra il processo, malgrado le indagini della Guardia di Finanza siano a suo favore. La vita di Gianni e della sua famiglia diventa un vero inferno, conosce la solitudine e il senso di abbandono da parte di tutti. Il 1° Maggio 2008 fa la marcia degli appesta-
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ti bancari lungo il ponte della libertà a Venezia. Il 30 Maggio 2008, protesta incappucciato e incatenato davanti alla sede di Bankitalia a Venezia. Il 17 Giugno 2008 fa una marcia degli appestati bancari nel centro di Mestre da una filiale bancaria all’altra con diretta televisiva serale. Il 24 Giugno 2008 fa una manifestazione davanti alla sede di Antonveneta a Carpenedo (VE). Il 1 Luglio 2008 altra manifestazione di protesta davanti alla sede di Banco S. Marco a Carpenedo (VE). Il 15 Luglio 2008, la maratona degli appestati bancari, marciando a piedi per 45 km da Mestre a Padova (Filiale di Carpenedo e sede centrale di Padova di Antoveneta). Il 22 Novembre 2008, manifestazione di protesta incappucciato e incatenato alla Madonna della Salute a Venezia in presenza del Patriarca Scola con un cartello che diceva «Madonna salvaci dall’usura bancaria e Solo un miracolo può salvarci dall’usura bancaria». Novembre/ Dicembre 2008, due mesi di protesta incatenato e sciopero della fame davanti a Antonveneta al freddo e sotto pioggia e neve. In quel periodo ha allestito nel mese di Novembre il funerale all’Italia con cassa da morto coperta dalla bandiera e nel mese di Dicembre il presepio degli appestati bancari, la manifestazione si è conclusa il 10 di Gennaio 2009. Le sue proteste saranno pubblicate su youtube ogni giorno attraverso un’auto-intervista perché nessun media era presente. Dopo questo lungo periodo di proteste la sua salute non ha retto e ha dovuto sospendere. Cosa ha portato tutto questo? Civilmente Gianni ha avuto un piccolo successo contro Unicredit dove il Giudice ha decretato nullo il decreto ingiuntivo promosso dalla banca, a livello penale dovrebbe denunciare il Pubblico ministero, ma per Gianni è un dramma, perché le cause sono troppe lunghe e il dolore ogni volta che prova nel ricominciare l’iter diventa difficile a sopportare. Gianni ha sofferto tanto in tutti questi anni, ha provato la solitudine e il senso di abbandono da parte delle Istituzioni, il senso di giustizia e legalità e la grandissima voglia di lavorare nonostante tutto lo portano a trovare la forza di riaprire una nuova attività, brevetta un dispositivo rivoluzionario per l’auto per ridurne i consumi e l’inquinamento e tutt’ora gira l’Italia per creare la rete distributiva, «alla faccia di chi lo voleva morto». Il futuro della nostra nazione è affidato a tutti i cittadini, ma in particolare alla classe politica che, nel recepire le istanze degli italiani deve ricordare che la politica non può e non deve essere un mestiere, ma un servizio.
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BANCHE IN AFFARI
AZIENDE al tracollo di DANIELE LAZZERI
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campo, hanno individuato la soluzione perfetta: favorire le esportazioni. Se si fossero degnati di studiare i dati reali e non i manuali, avrebbero scoperto che in Italia meno di un terzo delle aziende esporta. E tra quelle esportatrici solo una piccola minoranza registra una quota preponderante dell’export sul totale del fatturato. Dunque anche un eventuale incremento delle vendite all’estero non risolverebbe il problema. E poi, come si fa ad aumentare le vendite all’estero quando il sistema creditizio non aiuta le aziende a crescere, ad innovare, ad espandersi? Se l’unico criterio è il rigore imposto dalla Bce, lo sviluppo è irrealizzabile. Quando poi si passa ad analizzare i settori che potrebbero aumentare le esportazioni, ci si rende perfettamente conto dell’abisso che separa i tecnocrati dalla realtà. Secondo Confindustria l’Italia dovrebbe puntare sui prodotti «belli e ben fatti» per conquistare i nuovi mercati emergenti che vedranno una crescita considerevole della fascia di borghesia ricca, in grado di acquistare la produzione italiana. Quale il punto di forza del made in Italy? Lo stile, ovviamente. Stile dei prodotti, ma anche stile di vita. Peccato che, su imposizione della Bce, lo stile di vita italiano debba essere improntato a quella che gli euroburocrati definiscono «sobrietà» e che gli Italiani interpretano, giustamente, come «povertà». Difficile, se non impossibile, esportare un simile stile di vita. I ricchi borghesi del mondo intero non si sentiranno particolarmente attratti. Senza dimenticare che l’imprenditoria italiana non sembra particolarmente impegnata sul fronte dell’export verso i Paesi emergenti. Perché se è vero che quasi un quinto dell’import russo di abbigliamento e accessori è 22-02-2012 12:03 Pagina 1 made in Italy (poco meno di un miliardo di euro su oltre 5
CRESCE lo spread. Non tra i titoli di Stato italiani e tedeschi, ma tra la Banca Centrale Europea e l’economia del Vecchio Continente. Due mondi sempre più lontani, con logiche totalmente differenti. La Bce impegnata a garantire il rispetto di teorie insensate, superate. L’economia alle prese con una crisi causata dalla finanza e che dalla finanza è aggravata di continuo. E quando non è la banca centrale a provocare i danni, provvedono gli istituti locali. Che incassano denaro a tassi agevolati, teoricamente per aiutare l’economia e le imprese, ma invece di destinarlo alle aziende e al rilancio, utilizzano i lauti finanziamenti agevolati ricevuti dalla Bce per fare cassa e per coprirsi. Importi rilevanti, infatti, del denaro fresco ricevuto in prestito dall’Istituto centrale di emissione europeo al tasso dell’uno per cento, è stato impiegato dagli enti creditizi per compiere operazioni di trading sui titoli di Stato. In particolare in Italia dove, a seguito del clamoroso attacco speculativo mosso dalla «bisca della finanza» - per usare un termine caro all’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti - ai danni del Governo Berlusconi e, più in generale, del settore produttivo del Bel Paese, l’acquisto di Btp e di altri titoli rappresentativi del debito pubblico nazionale si sono dimostrati un’imperdibile occasione per rimpinguare i bilanci di molti istituti di credito, impegnati in attività speculative sul valore dei titoli emessi dal Tesoro più che interessati a tornare a svolFausto gere il ruolo di cinghia di trasmissione Gianfranceschi del credito a favore del mondo imprenAforismi ditoriale. del dissenso In questo modo tolgono ossigeno all’economia reale, fingendo di non pagg. 174 • euro 16,00 capire che, in questo modo, anche il sistema creditizio risentirà pesantemente degli effetti negativi. D’altronde siamo ormai pienamente inseriti in una spirale perversa: i governi (non soltanto quello greco, ma anche quello italiano) impongono ai rispettivi Paesi delle manovre che massacrano le Antonio Razzi popolazioni per garantire alla speculaLe mie mani pulite zione di incassare i tassi elevati sul prefazione di debito. Ma le popolazioni, inevitabilSilvio Berlusconi mente, devono ridurre i consumi. Con la conseguente minor produzione, licenziamenti e minori introiti per lo pagg. 162 • euro 18,00 Stato. I tecnocrati, forti di quanto hanno informazioni al studiato sui libri e mai sperimentato sul
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Franza 25 Enea Giampaolo Bassi
Razzi 29 Antonio Le mie mani pulite
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Madiran 26 Jean “L’accordo di Metz” Tra Cremlino e Vaticano
introduzione e post-fazione di Roberto de Mattei traduzione di Milena Riolo
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27 La mafia addosso
S. Romano - B. Romano Intervista di Barbara Romano al Ministro Saverio Romano, imputato… per forza!
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Le Pen 28 Marine Controcorrente
prefazione di Silvio Berlusconi
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Prezzolini 30 Giuseppe Intervista sulla destra
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VENTI POPULISTICI DI RIVOLTA
OLIGARCHI e ribelli di ANDREA MARCIGLIANO
miliardi), è altrettanto vero che l’Italia è quasi totalmente assente da mercati come gli Emirati Arabi (160 milioni su oltre 3 miliardi) o il Kazakhstan (64 milioni su oltre 2 miliardi). Non va molto meglio con la Turchia, e neppure con Paesi dell’America Latina come Messico, Brasile, Cile. Queste analisi, mirabilmente approfondite da Augusto Grandi, prestigiosa firma de Il Sole 24 Ore, in alcuni saggi e interviste pubblicate dal think-tank «Il Nodo di Gordio», rappresentano un rinnovato monito al ruolo fondamentale che dovrebbe svolgere il settore creditizio. D’altronde, per affrontare mercati lontani, serve coraggio, servono idee, ma servono anche i soldi delle banche. Ma con le strategie della Bce, l’Italia rischia di perdere definitivamente questa grande opportunità. Da un lato perché le misure imposte all’Italia porteranno ad un incremento della fuga dei cervelli verso altri Paesi, dove i neolaureati sono pagati meglio e possono svolgere un lavoro in linea con il titolo di studio. E, contemporaneamente, l’Italia cercherà di attirare manodopera straniera non qualificata, sottopagata. Ma non si produce qualità in questo modo e senza qualità spariscono i mercati più interessanti. D’altro lato le misure degli euroburocrati stanno distruggendo la Grecia, creando le condizioni per una produzione di bassissimo costo in Europa, senza la necessità di rivolgersi a Cina o Vietnam. Il che significa che la produzione italiana di non eccelsa qualità sarà spazzata via. Non possiamo neppure illuderci di risolvere i problemi attraverso le risorse turistiche e lo sfruttamento del patrimonio culturale. L’Italia ha, percentualmente, la metà degli addetti culturali della Francia e un quarto rispetto ai Paesi nordici. C’è una evidente fuga dalla qualità, perché quest’ultima rappresenta un costo. Peccato che gli altri Paesi, e non soltanto quelli europei, sulla qualità stiano investendo. Così non è un caso che nella componentistica auto stiano conquistando quote di mercato, in Italia e in Europa, i prodotti turchi. Mentre le aziende italiane cercano disperatamente acquirenti stranieri che possano rilanciarle. Ignorando la Bce, ignorando i timori italiani di fronte alle regole, ma investendo per rilanciare la produzione. Come hanno fatto i Cinesi, in Svezia, con la Volvo. E i risultati, positivi, si vedono. Un’Unione Europea sempre più abbarbicata nella difesa di una ortodossa e allo stesso tempo miope disciplina di bilancio, rischia di affossare definitivamente quel lungimirante e «umanistico» progetto dei Padri fondatori dell’Europa dei Popoli. Una moneta unica che avrebbe potuto rappresentare il primo passo, anche se non la pietra miliare, per la realizzazione di questa ambiziosa idea, finirà per rappresentare l’incubo per milioni di persone e per rubare, definitivamente, alle nuove generazioni la risorsa più preziosa che esista: il futuro.
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QUELLA che gli States stanno attraversando è, con ogni probabilità, la loro più grave crisi dai tempi remoti della Guerra di Secessione. Molto, decisamente molto più grave e profonda di quella - divenuta pressoché leggendaria anche grazie ai romanzi di William Faulkner e ai molti film sul tema - del ‘29. E questo non soltanto perché allora si trattò di una crisi di liquidità - mancavano i dollari circolanti per coprire i titoli improvvidamente emessi dal sistema bancario - che quel vecchio squalo di J.P. Morgan cercò di cavalcare balzando su un tavolo nel cuore della Borsa di Wall Street, agitando una grossa mazzetta di dollari e gridando, con arroganza e coraggio: «Compro tutto io!», mentre questa volta la crisi finanziaria ha scoperto il vaso di Pandora di una carenza di capitalizzazione - in pratica non vi sono né negli States, né in tutto il mondo capitali sufficienti a coprire l’oceano di titoli-spazzatura emessi dalle Merchant Bank di Wall Street. La gravità del momento è, piuttosto, segnata da una, come dicevo profonda, frattura politica. Una frattura che, appunto ricorda la secessione degli Stati Confederati che mise a serio rischio il futuro e la stessa sopravvivenza dell’Unione. Soltanto che, questa volta, non è una «porzione» degli States che si sta scollando dal resto, bensì il popolo americano nel suo complesso che manifesta sempre più forti e decisi segni di disaffezione nei confronti di Washington e della classe politica che la governa. Di tutta la classe politica, democratica o repubblicana che sia. E questo perché la crisi economica ha portato alla luce e reso purulenta una piaga che, già da decenni, si era aperta nel corpo dell’America. La serrata delle «élite» - Ne aveva avvertito il rischio già sul finire del secolo scorso Christopher Lasch, il più grande sociologo americano contemporaneo. Infatti, nel suo La ribellione delle “élite” descrisse, con occhio quasi chiaroveggente, cosa avrebbe potuto comportare la chiusura delle élite che governavano, e ancora governano l’America in forme sempre più autoreferenziali di oligarchie politico-economiche. O meglio economico-politiche, visto che il segno distintivo di quella stagione - che molti, troppi vissero come una sorta di «nuovi anni ruggenti», ubriacandosi di parole d’ordine tanto suggestive, quanto pericolosamente astratte e vuote, quali globalizzazione, fluidità dei mercati, addirittura fine della Storia - fu proprio la prevalenza dell’economia sulla politica. Una prevalenza sempre più invasiva e devastante, sintetizzata dalla famosa frase di Bill Clinton It’s the Economy, stupid! E proprio Clinton aveva, con la sua presidenza, marcato il punto di non ritorno di un processo involutivo che ha, di fatto, consegnato la politica statunitense nelle (rapaci) mani di un turbocapitalismo - come lo definì, di lì a poco, un preoccupato Edward Luttwak - meramente speculativo, anomico e privo, quindi, di qualsiasi legame con il «popolo», ovvero
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con quella «ricchezza delle Nazioni» su cui si fondava il liberalismo classico del vecchio Adam Smith.. E questo con un atto del quale, oggi, stiamo tutti, pesantemente, pagando le conseguenze: l’eliminazione di ogni barriera legislativa che separava le normali banche di credito dalle Merchant Bank, ovvero dalle «banche d’affari». Barriere che erano state introdotte da Franklin Delano Roosevelt proprio in seguito alla crisi del ‘29, per evitare il rischio che gli speculatori finanziari erodessero i risparmi dei cittadini e devastassero, così, la Nazione. Una scelta, quella di Clinton, che fu diretta e orchestrata dall’allora Segretario al Tesoro Larry Summers, uomo strettamente legato ai finanzieri/corsari di Wall Street, dei quali soli tutelava ed anzi ampliava con la sua azione gli interessi. Quello stesso Larry Summers che, guarda caso, è tornato sulla scena come principale Consigliere economico di Barack Obama, nonché mentore e maestro dell’attuale Segretario al Tesoro Tim Geithner. Tant’è che, nel triennio in cui Summers lo ha affiancato, il sempre sorridente e fascinoso Obama ha continuato a promettere «la rava e la fava» a propositi di nuove regole, di etica della finanza ed altre carabattole; ma nella sostanza si è molto speso soltanto ed esclusivamente per salvare ciò che restava in piedi delle grandi banche speculative di Wall Street. E queste soprattutto Goldman Sachs e Morgan Stanley - sono uscite non soltanto indenni dalla crisi che avevano, in gran parte, contribuito a scatenare, ma addirittura più forti e più ricche. A spesa dei cittadini americani, in primis, che continuano a conoscere una crescita vertiginosa della disoccupazione, ad onta di indicatori economici che registrano un PIL nazionale in decisa ripresa. Ripresa, però, fasulla, astratta, ché trae forza ancora una volta da un’economia meramente nominale, nuovi titoli trash emessi senza regole né controlli. Una ripresa, dunque, che va ad arricchire i soliti oligarchi finanziari. Ancora una volta facendo pagare a tutti gli altri il (salato) conto. I Signori degli Anelli di Wall Street hanno ringraziato Obama mettendogli a disposizione, per l’imminente campagna elettorale, una cifra astronomica, quale mai nessun Candidato o Presidente uscente ha avuto in tasca in tutta la storia elettorale americana. Cifra che, comunque, non impedisce il suo costante, e vertiginoso calo di popolarità. Ancor più vertiginoso se si pensa che pressoché tutti gli istituti di sondaggio, controllati da «amici» di Obama, tendono ad edulcorare, quando non decisamente taroccare la realtà. Se l’Asino (democratico) piange, l’Elefante (repubblicano) ha poco da ridere - Non stanno meglio, però, i Repubblicani. Ed è questa la vera, significativa e preoccupante, novità, ché sempre, in passato, del tracollo dell’immagine di un Presidente potevano (e sapevano) approfittare i rivali. Mentre in questi mesi di Primarie il Partito dell’Elefante sembra in preda ad un eccesso di sado -masochismo, schierando e bruciando uno dopo l’altro pretendenti sempre più improbabili allo Studio Ovale. Figure, o meglio mezze figure come il «re della pizza» (sic!) Herman Cain, lanciato on squilli di tromba politically correct - è un afro-americano - e subito bruciato con un, politicamente scorrettissimo, scaldaletto sessuale. O come
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l’evanescente Michelle Bachman, o il governatore del Texas Rick Perry, entrato da papa in Conclave, e già uscito di scena dopo il Caucus dello Iowa. E intanto i veri maggiorenti del GOP, gli uomini forti del Partito e, soprattutto, dell’establishment repubblicano sembrano essersi dati alla macchia, quasi temessero non il confronto con il debole Obama, ma quello con un elettorato, o meglio un popolo sempre più furente ed alieno. Una collera che trova la sua espressione in movimenti populisti - termine che negli States è tutt’altro che spregiativo, ma anzi ha, nel lessico politico, piena ed antica cittadinanza - come i Tea Party, che innalzano la bandiera della rivolta fiscale; quella stessa rivolta fiscale che fu all’origine della nascita degli States. I Repubblicani hanno provato a irreggimentarli questi Tea Party, a farne le truppe necessarie per la riconquista di Washington. Ci hanno provato prima con Sarah Palin, poi con Michelle Bachman, ed oggi, ancora, con il vecchio rudere Newt Gingrich e con l’improponibile Rick Santorum. Invano. Il vento che soffia nelle bandiere dei Tea Party, movimento di base, populistico, è vento di rivolta. Incontrollabile. E forse l’unico che potrebbe cavalcarlo è Ron Paul, l’ultra reaganiano, un uomo da sempre inviso, però, all’establishment del suo stesso partito. Che potrebbe, però, rappresentare la minaccia di una candidatura indipendente. Establishment che alla fine sembrerebbe deciso a puntare sul mormone, ex governatore del Massachusetts Mitt Romney. Un uomo ricchissimo, per altro, con forti, strettissimi legami con le Merchant Bank di Wall Street. Insomma, un altro esponente di quella oligarchia finanziaria che ha sottomesso la politica americana. Come Hank Paulson, l’ultimo Segretario al Tesoro di un ormai declinante George W. Bush, che proveniva da Goldman Sachs e all’esplodere della crisi si preoccupò di salvare non la «ricchezza reale» del Paese, ma finanziarie come Freddi Mac e Fannie Mae, le stesse che avevano gonfiato a dismisura la bolla dei mutui, i famigerati subprime, che, esplodendo, ha ridotto letteralmente sul lastrico milioni di cittadini. Di qui il senso di disaffezione crescente per il voto, il disinteresse per la campagna elettorale che tutti gli istituti di sondaggio risultano. Di qui, soprattutto, i venti di rivolta,la rinascita del populismo, la minaccia di «terze candidature» indipendenti e, addirittura i fremiti di localismo che sembrano far scricchiolare le stesse fondamenta della super-potenza statunitense.
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PRESIDENZIALI FRANCESI
«C’EST FINI la grandeur» di GENNARO MALGIERI NICOLAS Sarkozy vede davanti a sé lo spettro di Waterloo. Sarà per questo che si è affidato all’aiuto prussiano di Angela Merkel. Con la quale sembra stia riuscendo nel deprecato intento di mettere in ginocchio l’Europa. La Grecia e gli altri Paesi distrutti dal tornado franco-tedesco se ne ricorderanno al momento opportuno. Oggi i cittadini governati dalla caricatura di Napoleone, cui pure credettero cinque anni fa quando a presentò come grande riformatore, lo disprezzano anche per il sostegno che sta dando alla Germania nel distruggere, mettendola sotto tutela, la nazione che più di ogni altra simboleggia l’idea di Europa, quella Grecia, appunto, dove duemilacinquecento anni fa, nacque la democrazia e lo spirito mediterraneo si dispiegò dai suoi lidi per inondare di luce un mondo barbaro che avremmo chiamato Occidente. A tutto, comunque, i Francesi stessi, nati e cresciuti nella Quinta Repubblica, e dunque nel clima di un fervido nazionalismo innervato anche nella sinistra socialista e mitterrandiana, si sono adattati dopo l’uscita di scena di Charles De Gaulle e delle molte e controverse evoluzioni del gollismo, tranne accettare che un tardo epigono del Generale chiedesse l’intervento della Germania per tentare di vincere la campagna elettorale presidenziale. L’antica diffidenza dei Francesi verso i Tedeschi non è appassita con il trascorrere del tempo. L’oblio non ha disteso il suo velo sul permanente conflitto che, per quanto attenuato, assume accentuazioni a seconda dei momenti storici e si sopisce di fronte alle esigenze comuni. Lo sanno tutti, soltanto il presidente sembra ignorarlo. Fidando proprio sulle comuni esigenze e sulle reciproche diffidenze e sfidando rancori tutt’altro che acquietati, Sarkozy, consapevolmente debole, ha pensato bene di chiamare al suo fianco la cancelliera Merkel quale testimonial della sua campagna in vista delle elezioni del 22 aprile. La prima apparizione televisiva dei due, lunedì 6 febbraio, inevitabilmente incentrata sulla crisi finanziaria europea, non sembra aver scosso più di tanto i Francesi. E tantomeno ha impressionato gli antagonisti del presidente uscente. Una trovata propagandistica, perfino noiosa posto che i due, da quasi un anno a questa parte, si sono mostrati insieme quasi ogni settimana. Si dubita che i programmati, ma, al momento, non confermati, comizi elettorali, susciteranno gli entusiasmi delle folle. Intanto Sarkozy cerca faticosamente di risalire la china dando fondo alla strategia «piaciona» che cinque anni fa lo portò all’Eliseo. Si fa vedere in mezzo alla gente comune, fin qui accuratamente evitata: nell’Essonne, agli inizi di febbraio, dove si è recato in visita agli operai, ha fatto affidamento su numerose comparse per non farsi vedere soltanto in compagnia di funzionari governativi ed esponenti di partito. Riserva da qualche settimana parole di elogio, quando non proprio stucchevolmente melliflue, ai giornalisti che ha sempre detestato. Appare come padre amoroso e marito felice accanto a Carla Bruni lasciando l’armamentario di uomo forte ed insensibile, amante della ricchezza e frequentatore del bel mondo,
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nel ripostiglio dell’impresentabilità. Tuttavia non riesce a far dimenticare la nomina nel 2008, a soli 22 anni, del suo secondogenito,Jean, già consigliere municipale in un comune della cintura parigina, ad amministratore dell’Epad, vale a dire del più imponente complesso economico-finanziario francese. Sull’onda di polemiche e proteste, accuse di nepotismo e di arroganza del potere, il giovanotto fu costretto a dimettersi. L’altro pargolo, il maggiorenne Pierre, molto più noto alle cronache mondane per l’assidua frequentazione di discoteche e donne bellissime e celebri, come Rihanna e Bar Rafaeli, il mese scorso è stato rimpatriato dall’Ucraina con un jet di Stato a causa di una leggera intossicazione alimentare, il volo sarebbe costato ai contribuenti circa quarantamila euro. Che ci faceva a Kiev il ragazzo, di professione Dj? Il suo mestiere, per il quale si è guadagnato il titolo si artista dell’anno perfino in Armenia. Per riportarlo a casa il papà ha fatto intervenire un Falcon 50 dell’Etec, una speciale unità militare impiegata in casi di evacuazioni sanitarie ed umanitarie gravissime. Quante volte l’amorevole padre dovrà farsi vedere con la Merkel per far dimenticare le prodezze dei figli ed anche le sue? Nessuno in Francia, infatti, ha ancora capito la ragione per la quale Sarkozy ha scatenato una guerra costosissima e, a conti fatti, inutile per il suo Paese in Libia. Forse, come si dice, per nascondere i presunti finanziamenti di Gheddafi per la sua costosissima campagna elettorale? O più probabilmente per costituire un trust petrolifero con l’obiettivo di estromettere l’Italia, senza peraltro riuscire nell’intento posto che gli asset italiani laggiù continuano ad essere integri e saldissimi? Comunque sia, i Francesi non hanno cantato vittoria davanti al massacro del dittatore libico e non hanno sfilato sui Campi Elisi acclamando il loro presidente. La Francia è divenuta più povera negli ultimi cinque anni. E più insicura. Su questo punto gli elettori non perdonano a Sarkozy le promesse mancate. Dovunque, ma soprattutto a Parigi, sono aumentati i reati gravi, tanto che Le Monde ha sintetizzato con un titolo efficacissimo il fallimento delle politiche di sicurezza del presidente: «Magro bilancio degli anni di Sarkozy». Le dure repressioni nelle banlieu hanno fatto crescere diffidenza e disperazione poiché all’ordine riportato con la forza non ha fatto riscontro una prospettiva occupazionale. La guerra tra disperati francesi ed immigrati si è accentuata. La disoccupazione è cresciuta notevolmente in dodici anni ed oggi sono senza lavoro 2,8 milioni di Francesi, perlopiù giovani: un aumento del 5 per cento rispetto ad un anno fa. La ragione principale è nel tracollo del mercato automobilistico segnato dalle crisi produttive della Renault e della Peu-
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geot-Citroen che il governo non è riuscito a ristrutturare (un altro fallimento di Sarkozy). Mentre il sistema bancario è sotto pressione, quello energetico registra una caduta impensabile fino a poco tempo fa il ché spiega l’accanimento con cui Edf sta cercando di appropriarsi di Edison, società leader nella produzione delle fonti energetiche alternative. Un quadro desolante. Che ha fatto scrivere a più di un analista francese come Sarkozy, nel volgere di un quinquennio, abbia buttato a mare il «gollismo sociale», strenuamente difeso da Chirac, ed abbia inferto colpi mortali al ceto medio, suo elettorato di riferimento. Alla conquista dei delusi sono partiti con slancio Francois Hollande e Marine Le Pen. Ma anche altri outsider renderanno la vita difficile a colui che fondando l’Ump veniva chiamato il «presidenziabile». Una vita fa. In un’altra Europa. L’errore più macroscopico ed imperdonabile commesso da Sarkozy con l’avanzare della crisi economico-finanziaria, oltre all’abbraccio mortale con la Merkel ed il sostegno al sistema finanziario europeo che prescinde nelle sue valutazioni dalle condizioni reali dei popoli, come abbiamo visto in Grecia, è stato quello di additare al rancore sociale i presunti colpevoli della decadenza francese, vale a dire proprio coloro che lo avevano votato. Il ceto medio si è sentito preso in giro dal presidente che ha cercato l’appoggio, con discutibili misure fiscali, dei ricchi piuttosto che sostenere la piccola borghesia che in lui si era riconosciuta nel 2007, immaginando che accentuasse le politiche sociali e «golliste». Sarkozy, praticamente, ha tolto più di dieci miliardi di euro all’anno al ceto medio portando le tasse a livelli mai visti nella Quinta Repubblica, mentre non ha toccato in maniera significativa i patrimoni dei ricchi che gli avevano pagato la campagna elettorale. Per di più è stato lambito da scandaletti finanziari e politici
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che non sembrano averlo scosso più di tanto, mentre hanno messo in seria crisi il suo partito totalmente allo sbando. Il risentimento tra gli elettori del centrodestra è forte. Sarkozy, mentre scriviamo, a due mesi dal primo turno, vale intorno al 25 per cento per cento nelle intenzioni di voto, mentre il suo antagonista principale, Francois Hollande veleggia ben oltre il 35 per cento . Il candidato socialista si propone, paradossalmente, di rinnovare proprio quel «gollismo sociale» abbandonato da Sarkozy, non diversamente da quanto fece nel primo mandato Francois Mitterrand conquistando alla sua causa il ceto medio, unendo i moderati e neutralizzando i comunisti di Marchais cooptandoli nell’area del potere nella prima fase della presidenza, salvo sbarazzarsene quando ritenne consolidato il suo potere. Hollande, da quanto si capisce leggendo il suo programma in sessanta punti (forse eccessivo e ridondante), sembra prefiggersi lo stesso obiettivo del suo predecessore: unire i delusi di tutte le appartenenze politiche, tenersi lontano dall’ideologismo di una gauche incapace di comprendere le dinamiche della modernità, puntare sulla crescita e distaccarsi dalle aggressive campagne europee che hanno caratterizzato l’èra di Sarkozy. Il pragmatico e colto Hollande, professore a Sciences Po, ha tuttavia numerose spine nei fianchi. Se ha conquistato il Ps non soltanto per i propri meriti, ma anche per mancanza di alternative (l’ex compagna Ségoléne Royale non era presentabile dopo la magra figura rimediata cinque anni fa e la leader del partito Martine Aubry era poco politicamente attraente per via del suo «goscismo» d’antan) posto che l’uomo che avrebbe potuto insidiarlo, Dominique Strauss-Khan, è scivolato addosso ad un’improbabile vergine in una suite del Sofitel di New York, deve fare i conti con una sinistra divisa. Gli antagonisti della gauche si presentano, paradossalmente, più alter-
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nativi a lui che a Sarkozy ed intendono condizionarlo. Ma Hollande, almeno in questa fase, non ci pensa proprio ad assecondare le suggestioni dell’ecologista radicale Eva Joly, del repubblicano di sinistra Jean-Pierre Chevenèment, del comunista Jean-Luc Malènchon, dei trotzkisti Olivier Besancenot e Nathalie Artaud, del radicale Bernard Tapie, tornato alla ribalta dopo un lungo oblio. Non tutti probabilmente saranno ammessi alla competizione. La legge elettorale francese prevede che per concorrere alla presidenza bisogna procurarsi almeno cinquecento firme qualificate da raccogliere tra i 47.462 eletti (parlamentari nazionali, sindaci, consiglieri di dipartimento e consiglieri regionali): impresa non facile. Di certo non avrà problemi la più insidiosa avversaria di Sarkozy, la seducente e tenace Marine Le Pen, vera sorpresa di questa campagna presidenziale. In poco più di un anno ha ridato smalto al Front National, ha messo in ombra l’ingombrante genitore Jean-Marie, ha favorito il confronto nel partito soprattutto con la fazione capeggiata da Bruno Gollnisch, europarlamentare e raffinato intellettuale, ha mandato in soffitta le vecchie parole d’ordine del genitore ed ha impostato un’aggressiva campagna in favore della «preferenza nazionale» e contro l’Europa dei mercanti, delle banche, degli affaristi. Soprattutto ha rimesso in circolazione un’antica nozione politica che risulta particolarmente attraente: la sovranità. È questa la chiave di volta che connota la sua politica e seduce coloro i quali guardano all’Europa delle banche e dei mercanti come ad una minaccia seria all’indipendenza, alla libertà, al benessere del loro Paese. Insieme all’offerta di un’immagine pacificata e moderna suo movimento, la Le Pen si propone di interpretare il sentimento del ceto medio tradito da Sarkozy e tenta, all’inverso, l’operazione che riuscì nel 2007 al candidato dell’Ump: agganciare il centrodestra alla destra in una grande coalizione facendo leva, appunto, su quell’idea della sovranità che è parte integrante dell’identità francese. Su quest’ultimo punto la Le Pen ha trovato l’appoggio di un personaggio poco noto alle cronache politiche fuori dai confini della Francia, ma notissimo in patria, il vecchio sovranista Paul-Marie Coūteaux, il cui percorso intellettuale è stato parecchio accidentato, dalle giovanili suggestioni proletarie e maoiste, al passaggio nelle file socialiste, al sodalizio con Chevènement e a quello con André Malraux che avrebbe cambiato la sua vita facendogli abbracciare il gollismo. Poi, più recentemente, ha affiancato esponenti di destra come Charles Pasqua e Philippe de Villiers, fino a trovare in Marine Le Pen l’ultimo approdo. La sua missione è riunire le «famiglie sovraniste» e, dunque, le numerose destre della diaspora. Sembra ci stia riuscendo. Ma i pensieri di Sarkozy non si fermano davanti alla fiamma del Front National. Sull’aia del centrodestra francese razzolano anche Francois Bayrou, il centrista che pure lo impensierì cinque anni fa, che è accreditato del 13 per cento subito dopo la Le Pen che è data intorno al 23, mentre considerevolmente distaccati risultano l’ex primo ministro, antico nemico del presidente, Dominique de Villepin, che si presenta come vendicatore di una «Francia umiliata» ed il non più tanto giovane Carl Lang, già pupillo di Jean-Marie Le Pen, alla testa del Movimento nazionale repubblicano. Tutti candidabili o candidati che sottrarranno voti a Sarkozy. In particolare la riconversione al gollismo di Bayrou lo preoccupa non poco che vede, giorno dopo giorno, le sue praterie restringersi. Se, come molti pronosticano, dovesse arrivare terzo, la storia francese cambierebbe. E cambierebbe anche la storia europea. Si aprirebbe una fase nuova nella quale Parigi e Berlino dovrebbero ridimensionate le loro ambizioni. Con grande sollievo di tutte le nazioni del Vecchio Continente.
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LIBIA, TRA AFGHANISTAN E IRAQ
LA PACE è lontana di MASSIMO CIULLO IL FANTASMA di Muammar Gheddafi aleggia ancora sulla Libia. Il percorso di transizione verso la democrazia e la pacificazione si sta rivelando ogni giorno più difficile. I prossimi anni saranno caratterizzati da instabilità e tensioni e sarà quasi impossibile riportare il Paese africano verso un’accettabile situazione di tranquillità. Il rovesciamento del regime del Colonnello ha scoperchiato il vaso di Pandora degli odî tribali, covati per anni e messi a tacere solo dall’attenta distribuzione di incarichi e risorse tra le varie tribù operata da Gheddafi all’indomani della sua Rivoluzione Verde. Ai fattori endogeni di conflittualità, si sono aggiunti elementi esogeni, incarnati dai miliziani estremisti islamici che hanno contribuito all’abbattimento del regime del Colonnello e ora puntano a radicarsi nelle aree metropolitane libiche. Il fatto che nessuna leadership forte e carismatica, in grado di tenere unite le diverse anime del composito mosaico libico, sia emersa durante gli ultimi mesi ha comportato l’inasprimento della guerra per bande che si contendono il potere tra Tripoli, Bengasi e Misurata. Non soltanto; a gettare ulteriore benzina sul fuoco ci ha pensato recentemente uno dei figli superstiti di Gheddafi, Saadi, noto in Italia per aver militato in alcune squadre di Serie A, una decina di anni fa. Dal Niger, dove è stato accolto come rifugiato, il terzogenito del Colonnello, in un’intervista rilasciata all’emittente satellitare Al Arabya, ha dichiarato che uomini fedeli a suo padre sono pronti ad organizzare un esercito controrivoluzionario e marciare sulla capitale. Le parole del figlio dell’ex rais hanno allarmato i responsabili del Consiglio Nazionale Transitorio (Cnt) che hanno reiterato la richiesta di estradizione alle autorità nigerine. Da Niamey hanno risposto picche, obbligando Saadi soltanto agli arresti domiciliari, ma rifiutando di estradarlo in un Paese che non garantisce un trattamento adeguato sotto il profilo umanitario ai propri detenuti, soprattutto se appartenenti all’ex regime, come denunciato anche da diverse Ong internazionali. Sebbene il figlio dell’ex rais libico abbia violato le norme sul suo asilo con commenti «sovversivi», «La nostra posizione resta la stessa», ha detto il portavoce del governo nigerino Marou Amadou, «consegneremo Saadi Gheddafi solo a un governo che abbia un sistema giudiziario imparziale». La conferma che le affermazioni di Saadi sono state prese in seria considerazione dai ribelli che hanno rovesciato il regime di suo padre è arrivata dall’allarme lanciato dallo stesso Mustaf Abdel Jalil, dato più volte per dimissionario dalla presidenza del Cnt da tutte le tv arabe. «La Libia rischia di precipitare in una guerra civile se non riuscirà a tenere sotto controllo le milizie rivali che continuano a fronteggiarsi nel Paese», ha denunciato da Bengasi dopo una furiosa battaglia scoppiata nel centro di Tripoli all’inizio di febbraio, quando si è avuta una recrudescenza degli scontri tra opposte fazioni. Sempre Al Arabiya ha raccontato di violenti scontri a fuoco in diversi quartieri, nati dopo che un gruppo di miliziani prove-
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Gheddafi, starebbero continuando a combattere contro gruppi disorganizzati di lealisti e, a quanto pare, ormai in molti casi gli scontri a fuoco sarebbero dovuti a regolamenti di conti tra bande di miliziani di opposte fazioni che agiscono per motivi tribali piuttosto che per ragioni politiche. In ogni caso, il rapporto dell’inviato dell’Onu parla di una preoccupante quantità di armi ancora in circolazione nelle aree del paese dove nei mesi scorsi era stata più intensa la battaglia per la cacciata dell’ex rais. Inoltre, secondo indiscrezioni esisterebbe la possibilità che oltre 8 000 prigionieri lealisti siano ancora detenuti clandestinamente da gruppi di ex miliziani insorti. A rendere ancora più preoccupante lo scenario libico è la certezza ormai della presenza di cellule legate ad Al Qaeda, che hanno avuto un ruolo nel rovesciamento di Gheddafi e che adesso vorrebbero ritagliarsi anche uno spazio operativo per le loro missioni in tutta l’area del Mediterraneo, compresi i Paesi europei. Notizie di intelligence riferiscono di tre cellule qaedista che hanno scelto la capitale come quartier generale. Uno di questi gruppi sarebbe guidato da un ex detenuto di Guantanamo. Si tratta di Abd el-Hakim Belhaj, già capo di Al Qaeda libica, arrestato e detenuto nella tristemente nota base statunitense a Cuba, prima di essere riconsegnato a Gheddafi ed essere scarcerato per volere del figlio Saif al Islam come segno di riappacificazione e dialogo con gli integralisti. Il gruppo di Belahj, secondo stime attendibili, conta più di 7.000 armati, tutti attivi nell’area della capitale. Gli uomini di Belhaj hanno una discreta preparazione militare e sono suddivisi in sotto-milizie che hanno dei quartieri da controllare. Sono persone stimate dalla popolazione; godono di consenso popolare. E ultimamente hanno rotto qualsiasi rapporto con il Cnt. Il secondo gruppo è quello che fa riferimento allo Pagina 1 sceicco Mahadi al Harati, che conta circa 1.500 uomini. Distinti ma ovviamente collegati a Belhaj. Secondo fonti della sicurezza, gli uomini di al Harati controllano i rapporti tra occidentali e il Ogni lunedì, dal 3 ottobre Cnt per capire quando e come si possano colpire obiettivi occidentali in Libia. Un monitoraggio nel caso si dovesse passare all’azione. La milizia di al Harati è composta soprattutto da giovani fanatici e spregiudicati, legati anche Ore 21-22 alla criminalità comune. I proventi del traffico di droga e di altre attività illecite in cui molti di loro sono implicati, Seguici con vengono reinvestiti nell’acquisto di armi. Il gruppo ha il quartier generale nella casa che fu di Mohammed Gheddafi, il figlio maggiore del rais, scappato in Algeria. e La terza milizia è guidata da un libico legato ai dissidenti anti-rais, ospitati in Paesi europei amici, rientrato in patria recentemente. Molti componenti di questo gruppo (si stimano 2.000 armati) hanno combattuto in Afghanistan e sono tornati in Libia alla vigilia della rivolta. I loro obiettivi principali pare siano le capitali europee, con in cima Parigi e Londra. Un sincero ringraziamento per l’aiuto Puoi telefonare e fare le domande prestato da Sarkozy e Cameron per agli ospiti presenti fare della Libia una specie di Afghanistan sulla riva sud del Mediterraneo.
nienti dalla città di Misurata, asserragliati nel vecchio palazzo dei servizi segreti, si era rifiutato di rispettare un ordine di sgombero da parte del Cnt, sempre più in difficoltà su tutto il territorio libico. Perfino a Bengasi, la città simbolo della rivolta contro Gheddafi, nelle scorse settimane migliaia di persone sono scese in piazza scandendo slogan contro il nuovo regime. Ormai il Consiglio Nazionale di Transizione libico viene apertamente contestato proprio per l’incapacità dimostrata di avviare un reale processo di pacificazione nel Paese. Abdel Jalil, già ministro di Gheddafi, è criticato per la gestione opaca dell’organismo che guida di fatto il Paese e che, entro 6 mesi, dovrebbe portarlo alle elezioni con la promessa che i suoi attuali esponenti non si candidino. Perfino le scelte operate dall’organismo transitorio per formare una nuova classe dirigente in grado di tenere unito il Paese e non farlo precipitare in uno scenario irakeno, non sono affatto condivise. Due dei principali gruppi di ribelli hanno contestato la recente nomina del nuovo Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Yussef al-Mangush, definendola «illegale». Si tratta della Coalizione dei rivoluzionari (Thwar) libici, che riunisce le fazioni di Bengasi, Misurata e Zintan, e del Consiglio militare della Cirenaica. Si teme il peggio, visto che i due gruppi dispongono di grandi quantitativi di armi, tra cui pezzi di artiglieria e carri armati. Il bilancio delle violenze che puntualmente erompono in tutta la Libia diventa ogni volta più pesante, tanto da far definire «preoccupante» la situazione nel Paese all’inviato delle Nazioni Unite Ian Martin. Secondo il rappresentante dell’Onu, il Cnt non sarebbe in grado di controllare il territorio «in particolare nelle città di Beni Ulid (Bani Walid) e Bengasi». Stando alle informazioni disponibili, sarebbero infatti rimaste in attività truppe di miliziani che, a seguito della caduta di
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VALVOLE DI SFOGO PER PECHINO
CONTENTINO alle proteste di DANIELA BINELLO L’«INCIDENTE» di piazza Tienanmen, così come i Cinesi chiamano quello che per noi è stato il massacro del 1989 a Pechino, è ancora talmente spaventoso che in nessuna delle numerose manifestazioni che si stanno inscenando in varie località della Cina a qualcuno verrebbe mai in mente d’esibire uno striscione contro il Pcc. Al contrario, anzi, i manifestanti esibiscono cartelli di fedeltà al Partito Comunista Cinese e il concetto viene più volte ripetuto anche durante le interviste e le riprese televisive. Spesso, inoltre, da quando la presenza dei corrispondenti dei media stranieri è sempre più avvertita nel Paese, i cartelli a favore del Pcc sono tradotti anche in inglese. Questo «accorgimento» non deve far pensare che le proteste in Cina siano cose da nulla. 180mila raduni in piazza nel 2010, fra scioperi e manifestazioni, per una media di 500 proteste in pubblico al giorno (in costante aumento anche nel 2011) sono di fatto un elemento estremamente importante del cambiamento che sta trasformando la Cina in un Paese moderno, sotto il profilo sociale, a mano a mano che l’economia, con la sua bacchetta magica, produce un prodigio a favore di alcune fasce di popolazione a scapito di molte altre, ben più numerose. Ma fare paragoni con i motivi che infervorano la maggior parte delle manifestazioni di protesta che avvengono con una certa frequenza nelle nostre democrazie, dove lo scontro politico a favore di questo o di quello è all’ordine del giorno, ci porterebbe fuori strada. La Cina non ha niente a che vedere con le nostre esperienze. I Cinesi, sebbene non mettano in discussione il partito unico e il governo di Pechino, scendono in piazza bloccando anche interi villaggi quando la misura è colma e, qualche volta, riescono anche ad ottenere un contentino su parte delle rivendicazioni che hanno fatto trascendere la protesta. La migliore spiegazione a tutto questo la suggerisce The Atlantic, un giornale americano che appartiene a un gruppo editoriale con sede a Washington: «Le proteste in Cina sembrano essere una parte del sistema, non una sfida contro di esso, e visto che il governo ha dimostrato di saper reprimere con violenza le manifestazioni in Tibet o nello Xinjiang, dove esistono motivazioni autonomiste, a quelle che provengono da altre aree rurali viene data una lettura diversa, considerandole tollerabili in quanto semplici valvole di sfogo contro la corruzione dei funzionari locali». La corruzione è stata anche uno dei motivi che hanno spinto alla protesta i pescatori di Wukan, un villaggio di circa 13mila abitanti della Cina sudorientale. Esasperati per aver subìto una serie di abusi da parte dei funzionari locali, che da mesi cercavano di espropriare dei terreni minacciando ritorsioni contro la comunità, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è arrivata quando, nel dicembre scorso, un delegato delle istanze della comunità è morto mentre si trovava nelle mani della polizia.
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A quel punto la protesta si è ingrossata ed è riuscita ad arrivare alle orecchie della stampa straniera, a Hong Kong, e così le autorità si sono trovate costrette ad aprire una trattativa con i manifestanti, che intanto avevano bloccato tutte le strade di accesso al villaggio, mettendo di traverso camion, furgoncini e carretti. Sono rimaste bloccate, con questa sorta di ingorgo dei «forconi», anche le due stazioni di polizia di Wukan, sebbene il paragone con il movimento degli autotrasportatori avvenuto in Sicilia sia soltanto metaforico. In Cina, infatti, una cosa del genere non potrebbe mai accadere, visto che non è nemmeno immaginabile strumentalizzare la protesta di una categoria di lavoratori con delle etichette partitiche o movimentiste, salvo rischiare di brutto (le conseguenze penali e fisiche non sarebbero molto salutari). Il caso di Wukan, invece, ha avuto un lieto fine e il principale fautore della protesta, Lin Zuluan di 65 anni, è stato nominato segretario. Adesso, quindi, il «Masaniello» della comunità è lui. Più che mai incorporato nel Pcc, si dirà, ma è evidente, però, che se questo è vero, è anche vero che Zuluan dovrà rispondere con il suo operato di fronte alla comunità di cui si è fatto portavoce. In molte zone della Cina i motivi per protestare, intanto, non mancano. Espropri forzati in cambio di indennizzi ridicoli, urbanizzazione forzosa di masse di contadini con il conseguente aumento dei prezzi per i generi alimentari, lavoro schiavistico nei cantieri e nelle miniere, senza tutele e senza salario sufficiente nemmeno a mettere da parte qualcosa, visto che per i lavoratori-schiavi non ci sarà nemmeno l’ombra di una pensione. Per tutte queste ragioni, la protesta sul «modello Wukan» è molto spesso tollerata dalle autorità, fermo restando che il pugno di ferro è usato specialmente contro i dissidenti. Nei confronti dei dissidenti, infatti, la Pechino del 2012 non mostra di essere molto cambiata da quella dell’89. La mastodonticità dei piani a lunga scadenza di Pechino è poi riscontrabile anche ad Addis Abeba, dove un grattacielo di cento metri domina sulla capitale dell’Etiopia. È un regalo della Cina da 200 milioni di dollari per ingraziarsi l’Unione africana, che ha spostato lì la sua nuova sede, e aiutarla, anche in futuro, a coprire i fondi che non potrà più versare la Libia. L’Unione africana, infatti, dipendeva da Gheddafi per oltre un terzo del suo bilancio. Il grattacielo non soltanto è stato costruito con i soldi di Pechino, ma, come di consueto, sono made in China anche i materiali da costruzione, gli arredi e una buona parte dei 1.200 operai che ci hanno lavorato. Del resto, l’interscambio fra Cina e Africa si è sestuplicato negli ultimi anni, arrivando a valere nel 2011 120 miliardi di dollari che i Cinesi hanno investito in materie prime, fabbriche e terreni, oltre che realizzando vie di comunicazione e infrastrutture. D’ora in poi, perciò, trattare direttamente con la scialba Unione africana sarà ancora più facile per la Cina, tanto più che Pechino non s’interessa affatto di quanto accade in casa d’altri, come brogli elettorali, malversazione, guerre civili o regimi illiberali. Tutti argomenti che non interessano il Dragone, troppo impegnato a dare contentini a tutti, e non soltanto ai Cinesi che protestano.
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LE PROTESTE A MOSCA
«VIP» ed internauti di INNA KHVILER AIELLO LA RUSSIA moderna continua a essere il Paese dei paradossi. Mentre nelle città d’Europa si susseguono manifestazioni di gente in difficoltà, in Russia scendono in piazza i ceti agiati, soddisfatti di «twittare». Le proteste contro le elezioni parlamentari «illegittime» tenutesi in Russia il quattro dicembre scorso, contro il partito «dei ladri» di «Russia Unita» e contro Putin «soffocatore della democrazia» hanno coinvolto decine di migliaia di manifestanti, soprattutto moscoviti. La stampa russa sulle proteste contro Putin ha assunto a volte la veste di cronaca mondana per le celebrità del mondo dello spettacolo che hanno partecipato alle manifestazioni e hanno fatto audience con la loro presenza in piazza e particolarmente nei blog. Tra i militanti, compresi giornalisti, attori, registi, dirigenti, giovani laureati, come più attiva, si è segnalata la showgirl Ksenia Sobchak, sopranominata la Paris Hilton russa, che è riuscita a portare in piazza anche la moglie del miliardario russo Danil Khachaturov, la bellissima Uliana Hachaturova e la scandalosa giornalista glamour Bojhena Rynska, una vera «indignata» tanto da invitare dal suo live journal le moscovite a «bucare gli occhi dei poliziotti con i tacchi alti delle proprie scarpe». Ai tanti famosi e ricchi russi, con guardie del corpo e figli a Londra, si sono aggregati i loro ammiratori e i lettori dei loro blog, quei moscoviti appartenenti al ceto medio della popolazione che, inesistente negli anni novanta, oggi vive «sotto» Putin nell’agiatezza e ha la possibilità di fare acquisti voluttuari e di trascorrere le proprie vacanze all’estero. Altro paradosso è da individuare nell’organizzazione delle manifestazioni. I leader del Partito comunista, Zhuganov, e di «Russia Giusta», Mironov, entrambi di sinistra, sono stati quelli che, nonostante si siano di più lamentati per i voti «rubati», non hanno svolto un ruolo primario nell’organizzazione delle manifestazioni, lasciata soprattutto ai partiti di estrema destra, come Parnas che con lo 0,5 percento di elettorato non ha partecipato alle elezioni parlamentari. Gli interessi dell’elettorato di sinistra e di estrema destra sebbene opposti, appaiono in questi mesi convergenti. Tanti politologi russi sono rimasti stupiti quando entrambi i candidati alle presidenziali di sinistra, pur non partecipando di persona alle manifestazioni di dicembre, hanno invitato i loro elettori a unirsi ai cortei di estrema destra. I leader della sinistra Zhuganov e Mironov non sono scesi in piazza neppure il quattro febbraio scorso in occasione della maxi-protesta a Mosca, quando, nonostante il gelo, hanno manifestato quasi tutti i movimenti politici russi, dall’ultrasinistra guidata da Udaltzov ai movimenti nazionalistici che accusano lo stesso Putin di discriminare il popolo russo e di distribuire ingiustamente il terzo del budget federale alle Repubbliche caucasiche. Tra i manifestanti anche l’oligarca Mikhail Prokhorov con i suoi sostenitori che si è dichiarato per una maggiore trasparenza del Governo e contrario a cambiamenti radicali che potrebbero condurre il Paese verso il caos. In piazza anche un corteo pro Putin sotto lo slogan «contro il caos delle rivolte colora-
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te» che, secondo diverse stime, ha superato quota centotrentamila partecipanti. L’opposizione russa, oggi troppo frammentata, non ha un programma unico, concreto e costruttivo, la sua debolezza risiede nel suo stesso interno per la presenza di più anime, tutte molto diverse tra loro. Diversi politologi fanno notare che l’opposizione non ha un leader per le prossime elezioni presidenziali capace di aggregare le forze contrarie a Putin, ma piuttosto è bloccata sulle contestazioni al partito governativo di «Russia Unita» e allo slogan «una Russia senza Putin». Vladimir Putin, a dire di tanti suoi oppositori, fa troppo poco per combattere la corruzione, per modernizzare il Paese e impedire lo spreco di risorse naturali, mentre i suoi sostenitori ritengono che operi bene e lo approvano anche per la politica estera indipendente, per aver impedito la compravendita dei seggi nel Parlamento e per il divieto di vendita a prezzi bassi delle risorse naturali all’estero a vantaggio esclusivo di certi uomini d’affari. La maggioranza dei Russi ritiene importanti questi traguardi raggiunti e teme che cambiamenti repentini possano metterli a repentaglio. Ciò convoglierà sull’uomo i voti della maggioranza dei Russi, anche per la mancanza di una valida alternativa. Pur dubbiosi su chi votare il prossimo quattro marzo, i Russi vogliono influenzare direttamente la politica del proprio Paese. In piazza, non bisogna, comunque, disconoscere che sono scesi anche quei moscoviti che vorrebbero cambiare lo stato attuale delle cose per una maggiore trasparenza nelle elezioni e per una democrazia più compiuta e non «guidata», scontenti per il continuo cambio di ruolo nel tandem Medvedev-Putin. Dopo gli anni ‘90, la Russia, sull’onda della crescita economica, non è più abituata ai cortei di protesta ma il Governo deve considerare i malumori della piazza. Secondo il quotidiano britannico The Guardian, l’unico leader, ammirato dai manifestati moscoviti, potrebbe essere il trentacinquenne Aleksei Navalny, laureatosi negli Stati Uniti. Costui non è un politico o un imprenditore, è un blogger, un signore che «vive» in internet e, oggi, è il volto della rivolta. Vi è anche chi è convinto che le manifestazioni nel Paese siano sponsorizzate dall’estero. Il nuovo ambasciatore statunitense McFaul ha ammesso, nel corso di un’intervista concessa a Vladimir Pozner del Primo canale russo, che le rivolte in Georgia e Ucraina hanno avuto il favore dell’amministrazione Bush, ma ora Obama non intende interferire sull’andamento delle elezioni in Russia. Hillary Clinton, Segretario di Stato Usa, già in occasione delle elezioni parlamentari in Russia ha fatto dichiarazioni sull’illegittimità del loro svolgimento. Secondo Mikhail Leontiev, direttore del settimanale Odnako, le ultime elezioni si sono svolte con i soliti brogli ad opera di tutti i partiti e il partito di maggioranza «Russia Unita» non ha dovuto poi fare tanti sforzi per ottenere il suo modesto risultato. Alle prossime presidenziali, ha scritto Leontiev, «… avrà molto importanza l’atteggiamento che i mass media interni ed esteri terranno nei confronti dei risultati elettorali…», secondo l’esperto il Governo russo ha mostrato, dopo le elezioni parlamentari, debolezza e ha lasciato intendere di poter essere «accusato» di tutto e da chiunque. I dirigenti di «Russia Unita», a proposito degli asseriti brogli nelle ultime elezioni parlamentari, affermano che le prove non sono state sufficientemente suffragate e che i filmati dei brogli sono stati preconfezionati dalle opposizioni. Qualcuno ha fatto notare che nel mondo sembra esistere una certa regola, secondo la quale i Paesi in possesso del petrolio non hanno democrazia, diversamente da quelli che si dichiarano democratici e non hanno il petrolio, questi ultimi vanno, quindi, a esportare la loro democrazia nei Paesi produttori del greggio. Non sarà che la Russia di oggi è il Paese dei paradossi?
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IL BORGHESE
DOPO LA SCOZIA, GALLES ED IRLANDA?
IL VENTO delle «Highlands» di GIUSEPPE DE SANTIS LA DECISIONE di Alex Salmond, Primo Ministro del parlamento scozzese, di tenere nel 2014 un referendum per l’indipendenza della Scozia ha scatenato accese reazioni all’interno del mondo politico britannico. La data non è casuale, nel 2014 ricorre il settecentesimo anniversario della battaglia di Bannockburn in cui un gruppo di guerrieri scozzesi sconfisse un battaglione di inglesi molto più numeroso. Questo evento assume grande significato nella mitologia scozzese visto che, per molti, rappresenta il simbolo del coraggio e dell’eroismo dei guerrieri scozzesi, gente dura e determinata pronta a combattere per difendere la propria libertà e i propri diritti. Ed è proprio facendo appello all’eroismo passato del popolo scozzese (vero o presunto) che Alex Salmond ha dichiarato che nel 2014 gli elettori scozzesi saranno chiamati alle urne per decidere se vogliono che la Scozia diventi un Paese indipendente. La domanda è piuttosto diretta anche se Salmond ha dichiarato che, qualora ci fosse richiesta, sul quesito referendario ci potrebbe essere una terza domanda, per dare agli elettori la possibilità di richiedere un maggiore trasferimento di poteri. Inoltre il leader dell’esecutivo scozzese ha dichiarato che darà la possibilità di votare anche ai ragazzi di sedici e diciassette anni, una mossa che in molti hanno visto come un cinico tentativo di accrescere le probabilità di un voto a favore e che ha scatenato polemiche visto che per ora l’età minima per votare è di diciotto anni. Come è facile immaginare sono in molti a temere che questo referendum rappresenti la fine del Regno Unito e se la Scozia chiede l’indipendenza, domani nessuno potrà escludere che il Galles e l’Irlanda del nord non ne seguano l’esempio. Per questo motivo i leader dei principali partiti britannici stanno facendo di tutto per scongiurare questo referendum e ostacolare i piani di Alex Salmond. Però, se si fa un’analisi più approfondita, è possibile notare come i leader politici non vedano il referendum per l’indipendenza scozzese con la stessa ottica. Da questo punto di vista è interessante l’atteggiamento dei membri del partito conservatore: per principio sono per il mantenimento dell’unione ma privatamente, ad alcuni, non dispiacerebbe affatto che la Scozia diventasse indipendente. Per capire questo basta osservare la mappa politica britannica e vedere come la base elettorale dei conservatori si trova principalmente nel sud est dell’Inghilterra, mentre i laburisti (e in parte i liberal democratici) hanno la loro base elettorale principalmente in Galles, nel nord dell’Inghilterra e in Scozia. Se la Scozia diventasse indipendente questo sarebbe un colpo durissimo per i laburisti i quali non soltanto non sarebbero più in grado di avere una mag-
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gioranza per governare ma perderebbero anche molti politici di peso. Per questo non deve sorprendere se sono i laburisti a gridare di più contro questo referendum, considerando il rischio politico del loro bacino elettorale; inoltre, anche se gli Scozzesi votassero «no» c’è sempre il rischio che lo Scottish Nazional Party possa rubare voti ai laburisti. Cosa pensano, tuttavia, gli elettori di questo referendum? In Scozia il «sì» potrebbe vincere, pur non essendo scontato. Molti Scozzesi più che una Scozia indipendente, vogliono l’indipendenza amministrativa da Londra, con più poteri. Ovviamente, in due anni, possono cambiare tante cose. * * * Per quanto riguarda gli Inglesi è possibile riscontrare che esiste un forte risentimento per i vantaggi di cui gode la Scozia. Non soltanto gli Scozzesi hanno un’assistenza sociale molto più generosa e benefici che gli Inglesi possono soltanto sognare (università gratis, niente ticket, tanto per citarne alcuni), ma trovano ingiusto che i parlamentati scozzesi a Westminster possano votare su questioni inglesi laddove i politici inglesi non possono votare su questioni scozzesi. Non è ancora chiaro, però, se questo atteggiamento dell’opinione pubblica inglese possa tradursi in un maggiore supporto per l’indipendenza scozzese. Allo stesso modo nessuno sa cosa accadrebbe alla Scozia se diventasse indipendente. Alex Salmond ha dichiarato che una Scozia indipendente manterrebbe la sterlina come moneta e la regina come capo di Stato e avrebbe un proprio esercito di dieci, forse dodicimila uomini. Lungi dal chiarire ogni dubbio sulla funzionalità di uno Stato scozzese, le dichiarazioni di Salmond lasciano molte domande senza risposta. Nessuno, infatti, sa come sarebbe ripartito il debito pubblico britannico, un punto dolente visto che i contribuenti hanno dovuto spendere decine di migliaia di miliardi per salvare le banche scozzesi dal fallimento. Il nodo certamente più difficile da sciogliere, però, sono i rapporti che nasceranno tra una Scozia indipendente e l’Unione Europea. Molti esperti ritengono che, se anche Salmond aspiri a portare la Scozia all’interno della UE, questo non sarebbe scontato. Il nodo sta nel fatto che non esiste un precedente che veda una parte di un Paese comunitario in grado di ottenere l’indipendenza. Questo fatto da solo creerebbe un rompicapo giuridico. L’eventuale nascita di uno Stato scozzese indipendente, infatti, porterebbe il nuovo Paese a far domanda di annessione all’Unione e, quindi, ripetere la trafila burocratica e politica, che è richiesta a coloro che chiedono di diventare membri. La Spagna ha già fatto sapere che si opporrà all’eventuale richiesta di annessione scozzese, perché teme che ridia fiato ai partiti secessionisti iberici. Questo comporta come non scontato l’ingresso scozzese in Europa. Un eventuale ingresso, in più, creerebbe il problema del numero dei parlamentari, dei posti in Commissione e così via. Se si arriverà, nel 2014, al referendum sarà interessante riuscire a capire se, a fronte di una semplice domanda sulla scheda, saranno altrettanto semplici da risolvere le conseguenze di una vittoria del «sì».
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TERZA PAGINA VADEMECUM PER I GIOVANI
Comprendere l’autorità di MAURO SCACCHI IL CONCETTO di Autorità appare oggi sfuggente e ambiguo, tanto che si tende a cassarlo come sinonimo di coercibilità. Autorità intesa come tirannia o ad essa affine. Non sono soltanto i giovani ad avere un’errata percezione dell’autorità e perciò a diffonderne la cattiva reputazione. Epperò è a loro che principalmente ci rivolgiamo, affinché facciano proprio un metro di giudizio che si basi su maggiori elementi conoscitivi, per un’accresciuta capacità d’osservazione e analisi dei fenomeni della nostra società. L’Autorità differisce dall’Autorevolezza in quanto la prima è segno di un potere contraddistinto dall’uso eventuale della forza, mentre la seconda è paradigma di un potere sempre pacifico. Alla base di questo credo sta la convinzione che l’Autorità è ciò che impone una certa condotta, l’Autorevolezza invece la produce, quasi per via naturale e simpatica, spontaneamente. Questa, la vulgata. Si potrà dire che il «cattivo» di turno è autoritario, il «buono» è autorevole, il primo se ne frega dei sottoposti, il secondo è caritatevole, li comanda perché conosce le loro esigenze, è il più qualificato del gruppo. L’Autorità promana dall’alto, l’Autorevolezza dal basso. La prima fa paura, può nascondere arroganza e interessi personali, la seconda dà protezione e sicurezza. Tutto ciò nasconde un inganno, il messaggio subliminale che detta il seguente dogma: «Tutto ciò che viene dall’alto è male perché priva della libertà di scelta, tutto ciò che viene dal basso è bene perché promana direttamente dalla libertà di scelta». Dietro a questa distinzione all’apparenza innocua si cela lo scontro di differenti e radicali visioni del mondo, antica quella afferente all’Autorità, recente e tipicamente occidentale quella afferente all’Auto-
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revolezza. Per vincere l’inganno è necessario dire, innanzitutto, che non tutto ciò che viene dall’alto è male e non tutto ciò che viene dal basso è bene. Autorità e Autorevolezza possono essere, invece, sinonimi, anzi, meglio ancora sarebbe dire che la seconda è già ricompresa nella prima, e che perciò tale dicotomia è del tutto accessoria. A questo proposito ci viene in soccorso il notevole saggio di A. Kojève La nozione di Autorità, edito da Adelphi (Milano, 2011), scritto nel 1942 ma quanto mai attuale. L’Autorità esclude la forza poiché essa occorre se vi è una reazione all’Autorità, ma in tal caso non esisterebbe la stessa Autorità. Infatti, il riconoscimento dell’Autorità implica una «rinuncia cosciente e volontaria» a reagirle. L’assunto kojeviano fa cadere il distinguo tra autorità e autorevolezza. Kojève individuò quattro tipologie di Autorità connesse ad altrettante teorie: quella del Padre sul Figlio (teoria della scolastica), quella del Signore sul Servo (Hegel), del Capo sulla Banda (Aristotele), del Giudice (Platone). La prima implica
un trasferimento dell’Autorità per via ereditaria, la seconda nasce da una Lotta dopo la quale il vinto riconosce il vincitore, la terza vede nel Capo riconosciuto colui che sa progettare il futuro, la quarta si fonda sulla Giustizia. Kojève scrisse inoltre che il Potere politico coincide con l’Autorità politica ed appartiene allo Stato. Dall’opera si desume che, indipendentemente dal tipo, l’Autorità è legittima soltanto se riconosciuta. L’Autorevolezza, ai nostri occhi, diventa allora un attributo dell’Autorità, lo strumento dialettico attraverso il quale l’Autorità mostra al popolo la sua faccia più buona e qualificante. Qualora dovesse rendersi necessario l’uso della forza, l’Autorità in quanto tale verrebbe sospesa. Si potrebbe obiettare a Kojève di far coincidere in questo modo Autorità e «consenso». In effetti, per il filosofo reagire al potere significa negargli il consenso delegittimandolo. Volendo essere critici verso questa linea di pensiero, in essa va denunciata una pericolosa deriva. Se, infatti, l’Autorità deve essere legittima, anche il non accettarla dovrebbe essere un fatto legittimo, ma chi lo decide? Il problema nasce dal ritenere coloro che volontariamente si assoggettano all’Autorità gli unici in grado di giudicare se essa sia o no idonea a ricoprire incarichi e funzioni necessari al gruppo. La volontà che tutto decide partirebbe dal basso. La deriva paventata è che un solo capriccio, un solo mutamento dettato dalla moda o dall’istinto di prevaricazione di qual-
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58 cuno, basterebbe a far decadere l’Autorità. Se ciò portasse a una rivolta, a un Capo si potrebbe sostituire un altro Capo, a un Signore un altro Signore e così via. L’idea di fondo, in Kojève, è che merita l’Autorità soltanto chi sa farsi riconoscere (anche con la forza, in origine) dagli altri come guida. Nonostante che alla base del concetto di Autorità vi sia l’assenza della forza, il paradosso è che la stessa violenza può generarla, pur se il suo mantenimento la esclude. Il più forte, il più convincente, il più giusto meritano di avere il potere. Ma allo stesso modo rischiano di essere legittimati a possederlo anche coloro che credono di essere i più forti, i più convincenti, i più giusti. C’è una sola via d’uscita: l’Autorità legittima deve venire soltanto dall’alto, senza ipocrisie. Se tutti fossero degni di comprenderne i còmpiti, la responsabilità ed i sacrifici, tutti sarebbero egualmente degni di avere il potere, ma così non è! Il figlio potrebbe sempre sopprimere un padre, un ragazzino insultare un anziano, e basterebbe aizzarsi contro ogni uniforme per sentirsi «belli e ribelli». Si cadrebbe nell’anarchia. L’Autorità può suscitare invidia e rabbia, soprattutto quando nega alcuni comportamenti e detta delle regole scomode. In un primo momento la desideriamo, per stare più sereni e cederle parte delle nostre responsabilità, ma poi ce ne stufiamo e la vogliamo far cadere. Meglio ancora, cerchiamo di non sceglierla nemmeno, che siano altri a farlo per noi, così quando poi le urleremo contro non ci sentiremo colpevoli. Una certa Autorità, riconosciuta dal basso, sceglie un’altra Autorità. A noi resta soltanto da far chiasso al momento giusto. Ma il bersaglio vero quale dovrebbe essere? La prima o la seconda Autorità? Si può partire con la seconda, ma soltanto per arrivare alla prima. E il cerchio si chiude. La negazione dell’Autorità, si potrà pensare, è dunque giusto che parta dal basso, da tutti noi. Invece no, perché quelle, in sostanza, non sono Autorità. La prima perché ha scelto essa stessa di ritirarsi, la seconda non soltanto perché non è stata scelta dal popolo o da lui riconosciuta (il che ricondurrebbe a Kojève) ma perché non ha mai posseduto i crismi di una legittimazione reale dall’alto, oseremmo dire da un piano superiore e trascendentale. Insomma tutto il garbuglio si origina dalle definizioni che sono state date, tanto dalla vulgata
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IL BORGHESE corrente che da Kojève, all’Autorità. Essa, allora, potrà dirsi legittima se sarà, con i fatti, in grado di migliorare le condizioni del popolo a lei sottoposto, non tanto perché guarderà a lui per servirlo con dedizione, quanto il contrario: il popolo migliorerà se stesso poiché, servendo l’Autorità, inizierà ad assomigliarle. L’Autorità potrà generarsi, per farla più semplice, in ogni modo, ma una volta venuta ad esistere avrà, come primo obbligo, quello di mantenersi in vita fungendo da esempio, severo se occorre. L’Autorità va rispettata, tranne quando infierisce consapevolmente contro le persone. Se alcune di esse non la dovessero più riconoscere, di regola essa non perderebbe né il suo nome né le sue funzioni, nemmeno verso i «dissidenti», che avrà il compito di rimettere in riga. Ovvio che se non vi riuscisse, capitolando contro di essi, ciò sarà da addebitarsi a una sua incapacità. E ciò vale anche per lo Stato. Cedere parte del proprio potere per rabbonire i dissidenti, coloro che chiedono sempre più autonomia e indipendenza, è un condannarsi a morte. Lo Stato e l’Autorità in genere devono sapersi imporre. I comportamenti autoritari sono per definizione giusti, anche se non vengono compresi da tutti. Come in famiglia, così nella società, nel mondo, il rispetto va sicuramente meritato, ma va innanzitutto costruito e mantenuto. Cari giovani, se imparate oggi a rispettare l’Autorità, domani potrete voi stessi averne senza timore che i vostri figli vi aggrediscano per questo. Il rispetto, è chiaro, deve essere reciproco tra le parti, ma troppo spesso si nega l’Autorità soltanto per egoismo, per insano desiderio di distruggere e per ignoranza. Infine, il padre è padre, non è amico. Può esserlo in certi momenti, darci l’idea che lo sia, ma resta padre sempre. Così è per l’Autorità. Non è un discorso qualificante, né una moina prolungata, né tanto meno il continuo e incessante bisogno di giustificare il proprio operato a definirne la legittimità, a darle senso. Devono contare i fatti; alla vera Autorità basta esser presente, anche muta, perché sia riconosciuta (anche se non è necessario, pure se ciò tranquillizza la gente; in verità è l’Autorità stessa che riconosce il suo popolo come degno di seguirla, il contrario è una sovversione dei ruoli). Ci riferiamo, qui, a quella certa luce interiore che brilla attraverso gli occhi di chi è giusto che preceda, e non che segua.
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PER RIEDUCARE
Carceri ai privati di ANGELICA SALINA C’È CHI dice che la Carta , ovvero, per i profani, la Costituzione, quella traduzione del dopoguerra, guerra vinta per alcuni, per noi fonte di liberazione(?!) non è moderna...è moderna, modernissima, anzi spunto di, ancorché traslata dello Statuto Albertino del 1848 (che traeva spunto da quella di Cadice del 1812 … oddio, basta!) aggiornamento e contestualizzazione storica. L’art. 27 della Carta, come dicono quelli che sanno di sapere, parla di tensione alla rieducazione del condannato. Tensione, amici miei vicini e lontani, non finalità. Se io tendo la corda il dardo non si libra verso l’obiettivo ma è una di quelle cose belle in sé, una sorta di rappresentazione fallica dell’anelito riproduttivo, fine a sé stesso, un onanismo cosciente e struggente. Io credo, intimamente credo, nella bontà della cessione della gestione delle carceri ai privati. Basta con questa soverchieria statale di stampo napoleonico (il quale, prima dell’arsenico fatale, disse che per custodire dei cattivi bisogna trovare dei cattivi più cattivi); basta, nanerottolo corso con le tue smanie da superuomo, Waterloo non ti è bastata? Taci, nella tua piccola tomba e lascia fiato alla nostra tromba. Allora, la Carta dice che bisogna rieducare, non punire; la galera, il «gabbio», è un’estasi mistica di redenzione che non può essere, e non deve essere, affidato a chi di teso ha soltanto lo spirito, dilaniato dalla scarsezza delle finanze statali a cui lui, od essi, attinge. Basta, aggio ditto bbasta (e ha da basta’), il carcere, o, meglio la gestione di essi, va affidata ai privati, titolati di caratteri di charme e bon ton. Ma scusatemi, se Peppe o’ mariuolo finisce, oggi come oggi, a Poggio Reale cha ha da impara’? Niente, se incazza e bbasta, e nu Peppe incazzuso hai da vedè che te va a cumbenà. Invece se Giuseppe il teso verso la rieducazione (come da Carta) si porta all’uscio della dimora «Ucciardone Bay’s» e viene accolto con i dovuti, normali riguardi: un drink di benvenuto e la
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IL BORGHESE
tabella degli orari delle attività sportive e ricreative, sta bbuono assai, e dice «Moh accà sstong bbuono, ma quann’e che suorto...hai da vvede si nun faccio buona pubblicità a chisto Paradiso…» Bene, bravo Peppe, ops, scusate, don Giuseppe, vulite a spremuta o gradite o caffè? … Fiat lux...ecco che il nodo di Gordio viene risolto dal trancio della spada di Alessandro il Magno ... ci vogliono i privati, non gli stolidi pubblici. Ehi, tu, sì, dico a te, là in fondo, che vai pensando? Che dietro i privati, prestanome, ci sia la Mala. Malasuorte a te, fetiente e scurnacchiato, sarebbe come a dire che dietro al professor Monti ci siano organizzazioni sovrannazionali come Trilateral e panzane di tal guisa … stupido e malfidente … il presidente Berlusconi avrebbe, certamente, potuto affidare soltanto il ministero dell’economia al prof. Emerito … ma era stanco per il bunga bunga … sì, ridi pure, ma tu sette di seguito non te le sei mai fatte, quindi stai zitto. Allora ben vengano le carceri gestite dai privati, di chiara levatura «esperienziale» in materia di gestione ospiti di prestigio … così Zu Totò non potrà più dire che due anni di branda all’Ucciardone non hanno mai fatto male a nessuno … al limite potrà dire che due anni di Jacuzzi tolgono il mal di schiena … il che si colloca in un contesto riabilitativo non soltanto mentale , ma anche fisico. Bene, questo è il primo passo e va assecondato sine dubio … poi, si può affrontare, con serenità, l’utilizzo di pluripregiudicati come forze di Polizia (chi meglio di loro conosce le dinamiche delinquenziali?) ed, in ultimo, mettere dei delinquenti spregiudicati come magistrati … ma forse qui siamo già a buon punto!
«EDITORIA DI TRINCEA» NEL SUD
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Un periodico che non cede sui valori di GIUSEPPE BRIENZA UN ESEMPIO di editoria controcorrente che, nonostante la crisi abbattutasi pesantemente anche sulla stampa periodica e la perdurante egemonia del politicamente corretto resiste da vent’anni mantenendosi fedele ai valori tradizionali? È Il Corriere del Sud, periodico fondato a Crotone nel gennaio 1992 da un padre di cinque figli, il dott. Pino D’Ettoris, ex presidente dell’Azione cattolica locale ed affermato professionista, che ne è dall’origine e fino adesso il direttore editoriale. Il giornale ha appena superato il suo ventesimo anno di pubblicazione, senza aver finora ricevuto alcun finanziamento privato o contributo statale, raggiungendo quindi un vero e proprio record di «durata» per un periodico cartaceo, soprattutto nel meridione d’Italia. Il Corriere del Sud nasce con lo scopo di promuovere lo sviluppo del territorio dal punto di vista sociale, politico, culturale ed economico, trattandosi, come recita il sottotitolo, di un «periodico indipendente culturale economico di formazione ed informazione». Proprio perché giornale di «formazione» tratta quindi le tematiche socio-politico-economicoculturali con taglio approfondito ma divulgativo, non rinunciando a rieducare giovani e meno giovani generazioni sempre più abituate ad un approccio superficiale, facile e veloce ai media. La pagina due è sempre dedicata alla politica, con editoriali di giornalisti professionisti come Giorgio Lambrinopulos o lo stesso direttore responsabile Tina D’Ettoris, oppure di politici nazionali provenienti dal Sud come i parlamentari del PdL Alfredo Mantovano ed Alessandro Pagano. Lambrinopulos, soprattutto, dell’Associazione della Stampa Estera in Italia, riesce sempre ad interessare con analisi politiche internazionali di cui sono spesso quasi del tutto sprovvisti i grandi giornali (cfr., ad
es., il suo editoriale L’Iran minaccia gli Usa, 26 dicembre 2011, pp. 1-2). All’interno del giornale sono poi presenti diverse rubriche di storia, tradizioni, scienze, letteratura, economia, cinema, teatro, arte e, non di rado, anche di spiritualità e l’agiografia, con collaboratori d’eccezione in quest’ultimo caso come il giornalista e scrittore Renzo Allegri. Per le pagine culturali (Corriere letterario e Libri), Il Corriere del Sud si avvale da molti anni di una collaborazione stabile con l’associazione civico-culturale Alleanza Cattolica, pubblicando articoli di alcuni fra i suoi più noti esponenti come Massimo Introvigne, Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti. Altrettanto interessante è la pagina dedicata all’Invito all’arte, nella quale hanno trovato spazio artisti emergenti, soprattutto del Sud Italia. Lavoro di particolare pregio del giornale è, come accennato, quello rivolto ai giovani, soprattutto agli studenti delle scuole medie e superiori, cui fin dagli anni 1990 il Corsud offre un approccio didattico al giornalismo prima ancora che il Ministero dell’Istruzione intervenisse con
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60 l’inserimento dell’opzione del saggio breve o articolo di giornale nella prova scritta di italiano agli Esami di Stato. Inoltre, molte edizioni della testata sono state dedicate, con due pagine centrali, specificamente al mondo scolastico, con la rubrica «Dentro la scuola», nella quale sono presentate attività organizzate dai vari istituti, articoli degli studenti stessi, racconti o poesie. Questa attenzione alle nuove generazioni si è tradotta anche in un ricorso «precoce» (almeno per analoghe esperienze operanti nel Mezzogiorno) ai new media, in primo luogo internet. Fin dal 1996, infatti, è stata costituita una redazione de Il Corriere del Sud «on line», con collaboratori e giornalisti specializzati che provvedono all’aggiornamento in tempo reale. del sito www.corrieredelsud.it La più recente rubrica del giornale, particolarmente apprezzabile dai lettori del Borghese, è quella che, esplicitamente ispirata all’opera più famosa di Joseph de Maistre (1753-1821) Les soirées de Saint-Pétersbourg, è stata intrapresa alla fine dello scorso anno nel 190° anniversario della morte del Conte savoiardo con l’accattivante titolo Serate di San Pietroburgo. Rubrica di cultura e politica tradizionale. Pubblicata a tutta Pagina Tre, ha visto «puntate» dedicate a «maestri» contemporanei del pensiero conservatore come Chesterton, Thibon e Buchanan (cfr. C. Ottaviani, Pat Buchanan, il grande conservatore, 6 dicembre 2011; G. Brienza, Gustave Thibon, maestro di realismo cristiano, 10 dicembre 2011 e G. Agostini, Gilbert Keith Chesterton, il paradosso di Dio, 2 gennaio 2012), oppure a protagonisti controcorrente del panorama politicoculturale italiano come la Fallaci o Tremonti (cfr. D. Taglieri, La paura e la speranza secondo Giulio Tremonti, 21 novembre 2011; D. Taglieri, Oriana Fallaci e l’islam, 26 dicembre 2011). Il Corriere del Sud è distribuito nelle edicole della Calabria, della Campania, della Puglia e della Sicilia orientale e può essere ricevuto in abbonamento scrivendo a redazione@corrieredelsud.it o telefonando al 0962-905192 (fax: 0962-1920413).
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IL BORGHESE
Marzo 2012
NEL RAPPORTO CON LA LETTERATURA
Il Museo quale fonte di ispirazione letteraria di RICCARDO ROSATI DOPO aver affrontato una visione del museo dal punto di vista filosofico, vogliamo terminare l’analisi completamente astratta di questa fondamentale istituzione culturale, col rapporto tra il museo e la letteratura; visto che esso è stato spesso una preziosa fonte di ispirazione per romanzi e racconti. Per comprendere uno studio del genere, dobbiamo prima di tutto ricordarci che il museo può essere anche uno «stato mentale». Sarebbe a dire che non dovremmo, come avviene il più delle volte, considerarlo come semplice luogo fisico. Se è vero che esso è una epifania di beni storicoartistici e, più in generale, del passato, capace dunque di creare un distacco dai problemi quotidiani, allora il museo è anche una «idea», pronta a sollecitare la fervida fantasia dell’essere umano. Non intendiamo tracciare uno sterile elenco di autori che hanno ambientato le loro storie in gallerie o pinacoteche. Vogliamo invece soffermarci su due esempi ben distinti che ci dimostrano come la letteratura abbia tratto benefici e stimoli dalla idea di museo. Parleremo di due autori di estrazione e stile assai diversi e proprio per tale ragione utili ad affermare la complessità della tematica qui affrontata. * * * Cominciamo con l’americano Howard Phillips Lovecraft (18901937), appartenente a un filone abbastanza raro nella letteratura di genere: l’orrore onirico. L’opera che ci interessa è un suo racconto intitolato L’orrore nel museo (1932). Questo scritto è un chiaro esempio di come la letteratura dell’orrore abbia spesso ambientato le proprie storie in musei o gallerie d’arte; lo stesso dicasi per il cinema, con le numerose pellicole girate nei musei delle cere. La suggestività di questi luoghi ove il passato si attualizza, rivivendo davanti ai
nostri occhi, rende possibile non soltanto il «riportare in vita» memorie di vestigia passate, ma persino incubi mai domi. Così è per Lovecraft, nelle cui storie - in prevalenza dei racconti - l’incubo del passato/memoria è sempre in agguato, pronto a invadere il presente. In questo caso particolare, lo scrittore americano sfrutta tetri scantinati e depositi colmi di opere soltanto apparentemente mute, come un utile palcoscenico per allestire vicende inquietanti, dove la paura che giunge dal passato si reincarna in manufatti provenienti da culture pagane e forse utilizzati un tempo per chi sa quali indicibili riti. Tali oggetti, se osservati con la dovuta attenzione, generano una graduale, quanto inesorabile, suggestione nel visitatore. Il momento di astrazione di cui abbiamo parlato in apertura si concretizza perciò attraverso l’osservazione di un oggetto, generando un particolare stato mentale in chi lo guarda. Il racconto di Lovecraft ci mostra tuttavia che tale astrazione non ha sempre come risultato quel desiderio di trascendenza che porta alla emozione estatica, giacché l’arte è afflato divino, bensì può materializzarsi in visioni che rivelano incubi remoti, che nella magia delle stanze senza tempo di un museo tornano a nuova vita e, nel caso di Lovecraft, a riproporre antichi orrori, come afferma l’autore nel suo racconto: «Un pomeriggio Jones era entrato pigramente nel museo e vagabondava per gli oscuri corridoi pieni di orrori che ormai gli erano divenuti familiari». * * * Un modo del tutto diverso di parlare del museo lo troviamo nel nostro Italo Calvino. Egli ha più volte dedicato degli scritti a questo tema, descrivendo le sue «passeggiate» in sale colme di opere belle, per poi soffermarsi spesso sul singolo pezzo
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Marzo 2012 e sul modo in cui esso abbia stimolato la sua fantasia. Difatti nel suo breve saggio Un romanzo dentro un quadro (1983), la tela intitolata La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix (1798-1863) diventa essa stessa narrazione letteraria e proprio alla pari di un racconto, può essere «sfogliata», pagina dopo pagina, come afferma Calvino: «[...] cercando di leggere il quadro come si legge un libro». Potremmo fissare questo concetto nel seguente modo: il Museo è una raccolta di storie e gli oggetti in esso custoditi sono ciascuno un racconto diverso. Calvino evidenzia grazie al suo scritto lo stretto legame tra la narrazione fatta di parole e quella resa fisica in una opera artistica. Ragion per cui, è lecito considerare una raccolta museale come un libro, poiché entrambi custodiscono la memoria, pronti a rendere il passato il nostro presente. Infine, Il museo dei mostri di cera (1980), altro breve scritto di Calvino. Il titolo stesso conferma ciò che abbiamo già detto per Lovecraft: il museo, ad esempio quello delle cere, è una fonte di ispirazione floridissima per autori dei più diversi orientamenti, persino per quelli dell’orrore. È utile constatare come Calvino riconosca, alla pari del collega americano, la matrice macabra del museo delle cere, che ospita figure umane fredde e inquietanti: «[…] le visioni orripilanti che il museo presentava (tumori e ulcere e bubboni, o fegati cirrotici e stomaci fibrosi)». Pur tuttavia, qui egli si concentra principalmente sull’evento culturale, epifanico, vissuto dal visitatore, ribadendo come il museo sia il luogo della memoria di una civiltà, pronto a trasmettere emozioni che bucano il tempo. Non ci illudiamo certamente di aver esaurito quello che è stato e ancora è il complesso rapporto tra il museo e la letteratura. Tuttavia, speriamo di aver suscitato una curiosità verso un modo diverso di pensare al museo, ovvero non più come quel luogo polveroso e noioso da visitare quasi fosse un obbligo, bensì come un posto che stimola l’immaginazione in forme assai differenti. Qui ne abbiamo presentate due, ma ce ne sarebbero molte altre: da una parte la suggestione che sfocia in delirio di cui parla Lovecraft; dall’altra la curiosità intellettuale, intrisa di passione tassonomica, di Calvino.
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IL BORGHESE
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NAPOLEONE ED IL NOSTRO TRICOLORE
Quando la politica falsa la Storia di VINCENZO CIARAFFA IL 7 GENNAIO scorso, dal direttore di un tg Mediaset, abbiamo appreso che Mario Monti era andato a Reggio Emilia per celebrare i 150 anni del Tricolore, e da un inviato dello stesso tg, di seguito, che Monti si trovava nel capoluogo emiliano per i 315 anni di quel medesimo Tricolore: che confusione, nel nostro Paese manca la più elementare conoscenza di storia patria! Tale manchevolezza, purtroppo, non è di oggi. «Direbbesi che manchi nelle generazioni crescenti la coscienza nazionale, da poi che troppo i reggitori hanno mostrato di non curare la nazionale educazione. I volghi affollantisi intorno ai baccani e agli scandali, dirò così officiali, dimenticano, anzi ignorano, i giorni delle glorie; nomi e fatti dimenticano della grande istoria recente, mercé dei quali essi divennero, o dovevano divenire, un popolo: ignora il popolo e trascura, o solo se ne ricordano per i loro interessi i partiti.» A parte il lessico ottocentesco, queste parole sembrano state scritte oggi, anche se, in realtà, furono pronunziate da Giosuè Carducci a Reggio Emilia, il 7 gennaio 1897, in occasione del primo centenario (ufficiale) della nostra Bandiera. Per chi volesse approfondire l’argomento, segnaliamo il libro Due secoli di Tricolore, edito dallo Stato Maggiore dell’Esercito nel 1996, a firma del Generale Oreste Bovio. L’autore nel libro ha ripercorso tutte le tappe della nostra Bandiera, da quando nacque come vessillo militare, a quando divenne emblema dell’effimera Repubblica Cispadana e, poi, dell’Italia unificata. Dal libro emerge, in tutta chiarezza, che l’idea di un tricolore italiano, sul modello di quello francese, venne a Napoleone Bonaparte tanto è vero che, l’11 ottobre del 1796, in qualità di comandante dell’Armata d’Italia, egli informò il Direttorio (che governava una Francia all’ultimo stadio della Rivoluzione) della costituzione di una
«Légion Lombarde. Les couleurs nationales qu’ils ont adoptés son le vert, le blanc et le rouge». Il 6 novembre successivo, quindi all’incirca un anno prima del 7 gennaio 1797, nel corso di una solenne cerimonia pubblica nella piazza del Duomo di Milano, la neo-costituita Legione Lombarda, alla quale era stata assegnata una divisa di colore verde, ricevette il Tricolore proprio dalle mani di Napoleone. Con tale precedente era fatale che il Parlamento della Repubblica Cispadana, riunito a Reggio Emilia, adottasse il Tricolore verde, bianco e rosso come bandiera. Pur volendo soggiacere al distinguo tra vessillo militare e bandiera statale che opera Bovio nel libro, possiamo sostenere che la data di nascita ufficiale del nostro Tricolore è stata alterata. La verità è che la passione risorgimentale non poteva accettare l’idea che il simbolo del nostro riscatto nazionale ci fosse stato regalato da uno straniero: il vessillo doveva nascere ad opera d’Italiani il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, invece che a Milano per mano di un francese! Fin qui nulla di nuovo sotto il sole, perché gli episodi
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62 e le tappe che contrassegnano l’emancipazione politica-militare di un popolo e la nascita di una nazione sono destinati a diventare funzionali alla loro storia ufficiale, pertanto, qualche «ritocchino», qua e là, è in qualche modo comprensibile. Le giovani nazioni, però, poi dovrebbero diventare adulte e smettere di perpetuare le bugie dell’infanzia per cui, a 151 anni dall’Unità, sarebbe il caso che incominciassimo a inquadrare la storia del nostro Paese in termini più oggettivi o, se vogliamo, più onesti. Ossia, spiegare agli Ialiani che la loro bandiera nazionale è indiretta conseguenza di quell’evento che segnò la nascita dell’Età Moderna, la Rivoluzione Francese: questo non gliela farebbe amare di meno, anzi. Pertanto, se chi incarna le Istituzioni o la cultura ritrovasse il rispetto per il reale decorso della storia e, con altrettanto rispetto, curasse di farla tramandare nelle scuole, aiuterebbe i giovani a capire la differenza che intercorre tra la storia e la sua rappresentazione funzionale. Una ritrovata onestà intellettuale delle istituzioni interessate consentirebbe, peraltro, di dimostrare anche la documentata infondatezza dell’asserzione di chi ritiene che il Tricolore sia un simbolo estraneo alla cultura e alle tradizioni della Padania, buono al massimo come accessorio per il WC. Per carità, il proprio cesso ognuno è libero di arredarlo come meglio crede e, tuttavia, una precisazione s’impone. Napoleone, con la scelta del verde per le uniformi della Legione Lombarda e della banda del Tricolore, volle rendere omaggio visibile alla preesistente Milizia Urbana milanese, la cui divisa era di colore verde. La sua gratitudine nei confronti della Milizia era scaturita dal fatto che, dopo la fuga degli Austriaci e la dissoluzione dei pubblici poteri, questa aveva retto in suo nome la città di Milano e, poi, gliela aveva graziosamente consegnata. Possiamo affermare, pertanto, che nel nostro Paese non esiste nessun simbolo più padano del Tricolore! Piaccia o no, questa è la documentabile vicissitudine della nostra bella Bandiera, perciò docenti, giornalisti e politici, in perenne lite con l’oggettività della storia, inizino a raccontarla giusta alle nuove generazioni. Anche perché, come asserisce Cicerone nel De Oratore, la storia è maestra di vita. A patto che si studi, aggiungiamo noi.
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IL BORGHESE
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CHARLES DICKENS
Ed è sempre Natale di ANGELO SPAZIANO OGGIGIORNO tutti, chi più chi meno, si scagliano con veemenza contro le malefatte del cosiddetto turbocapitalismo rampante. Un implacabile Leviatano che, complice il globalismo e lo sfruttamento di un’immensa manovalanza di schiavi, sta riducendo alla miseria popolazioni un tempo annoverate tra le privilegiate schiere del primo mondo. Ma andrebbe pure ribadito, per chi l’avesse dimenticato, che fu la stessa genesi del capitalismo, nel contesto storico-sociale del Vecchio Continente, ad essere contrassegnata da mortificanti spoliazioni, spietato sfruttamento e povertà generalizzata. Ci furono tempi, insomma, durante i quali «i cinesi» del pianeta eravamo noi europei. Charles Dickens, letterato, giornalista e reporter inglese nato esattamente 200 anni or sono, ha raccontato con garbata ironia e passionale vigore proprio i lati più oscuri del tumultuoso processo d’industrializzazione che caratterizzò la società d’Oltremanica all’alba del XIX secolo. Lo scrittore di Portsmouth infatti fu uno dei precursori dei cosiddetti «romanzi sociali», struggenti novelle in prosa che, complice una trama avvincente e un sapiente uso dell’ipotiposi, stigmatizzavano a forti tinte lo stato d’abiezione in cui versavano i ceti sociali più umili dell’Inghilterra vittoriana. Scorrere un racconto di Dickens significa ancora oggi acquisire un discreto bagaglio culturale e storico sul regno albionico - e sull’Europa intera - all’esordio dell’Ottocento, quando per i lavoratori di sua Maestà ancora non esistevano sindacati, «scale mobili» o ammortizzatori sociali di sorta. Vi sono filologi che sostengono come durante la prima e la seconda guerra mondiale molti studenti, impossibilitati a frequentare le scuole, usassero apprendere la storia dell’Ottocento andando a rileggersi vecchie ristampe dei romanzi più popolari di Dickens. Nei suoi tranche de vie, Londra si veste di tight e di stracci, e per poterla ritrarre al meglio il poeta la percorse a piedi per ore, anche di notte, vagando tra i quartieri scintillanti dei ricchi e i sordidi vicoli della downtown. La metropoli
sul Tamigi, sentina di ogni vizio e virtù, splendida nella grandezza imperiale e misera nelle sue abissali abiezioni, è stata in tal modo vividamente celebrata. Ogni strada o piazza in cui si affannarono a vivere i suoi sgangherati personaggi è diventata la malinconica ribalta di un immenso teatro all’aperto. Egli, infatti, fu tra i primissimi a denunciare in bella prosa la piaga dello sfruttamento minorile, la dura vita nelle fabbriche, la fatica disumana nelle miniere di carbone, il degrado morale e fisico dei salariati sottopagati e spremuti come limoni. Bolge infernali che per un malaugurato scherzo del destino Dickens conobbe in prima persona sulla propria pelle. Infatti all’età di dodici anni, l’ancora adolescente Charles fu spedito suo malgrado a lavorare per alcuni mesi in una fabbrica di lucido da scarpe, dopo che il padre era stato imprigionato per debiti. Fu per tale motivo che l’immaginifico uomo di lettere immortalò in linguaggio crudo ma veritiero l’atroce realtà sociale del proprio tempo. I piccoli protagonisti delle sue opere, insomma, non erano altro che suoi «Doppelganger» declinati su carta stampata. Oliver Twist descriveva la vita dura degli orfani e dei trovatelli dei bassifondi urbani, immancabilmente vittime dell’accattonaggio, dell’alcool, del gioco d’azzardo, delle malattie e dell’alienazione. David Copperfield denunciava lo sfruttamento delle donne e dei bambini negli opifici, poveri reietti utilizzati come bacino di pescaggio per manodopera a basso costo obbligata a sfacchinare 24 ore su 24 per pochi spiccioli. Nei suoi romanzi ad ogni pagina riecheggiano i rumori delle macchine e il ritmico, monotono tambureggiare dei telai, gli afrori degli alloggi malsani degli operai, il sudore rancido delle fatiche degli orfani, l’inquietante squittio dei topi che infestavano i tuguri abitati dal ceto proletario, la sfacciata opulenza degli yeomen. Tuttavia, a dispetto del pessimismo cosmico che permea le sue creazioni, il romanziere d’Oltremanica non ha mai vagheggiato rivoluzioni né colpi di mano. Nei suoi
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Marzo 2012 lirici cammei niente palinodie della sovversione né strizzate d’occhio a pruderie vetero-giacobine e improbabili prese della Bastiglia. In effetti lo scrittore riuscì a tratteggiare i vezzi e i difetti di una società spietata col distacco del disincanto, con quell’ironia che era, in realtà, null’altro che invincibile riluttanza a opporsi recisamente al sistema. In altre parole, Dickens lanciò degli innocui sassolini nel mare magno dell’ipocrisia, ma si è guardato bene dallo scagliarvi il macigno annientatore. Questa ritrosia ad andare fino in fondo nella lotta antisistema è riscontrabile in quasi tutti i cronisti contemporanei, usi solo a fare ammuina ma che a buttarsi a testa bassa contro «i poteri forti» non ci pensano neppure. Forse perché sono proprio questi ultimi la vera ragione della loro fortuna. In Dickens, in altre parole, il lieto fine c’è, ma è sempre e soltanto rappresentativo di un catartico, intimo riscatto portato a compimento dopo inenarrabili sofferenze personali. Pertanto, proprio come nelle fiabe più belle, l’happy end è garantito: l’orfano si affranca dalla povertà, l’amore si fa beffe delle convenzioni, il bene vince sul male e la virtù ha la meglio sul vizio. Favole di Natale, insomma, il cui spirito palingenetico è solo uno degli stilemi narrativi di cui il vate di Portsmouth fu promotore e apologeta. Vedi il celeberrimo Canto di Natale, una novella gotica a lieto fine in cui l’avido Scrooge, che incarna il rapace spirito predatorio del capitalista, si trasforma, nella notte magica, in un irriducibile filantropo. La storia ci ha insegnato, purtroppo, che con il boom industriale e l’ascesa della «classe media» nelle stanze dei bottoni non tutto è andato per il verso giusto. I reietti sono rimasti tali, gli emarginati e le prostitute sono restati a languire nel limbo dei paria, i disadattati hanno continuato a rimpinguare la già folta popolazione carceraria e i patiboli di tutto il mondo. Ancora oggi, a duecento anni dalla nascita del cantore dei diseredati, quell’universo piegato dalle sofferenze non è stato redento. Adulti e bambini vengono ancora schiavizzati e anzi, con l’avvento del globalismo la pratica sembra essersi addirittura istituzionalizzata. Le merci prodotte col loro sangue hanno invaso i nostri mercati provocando aberrazioni e immiserimento generale. Si tratta di una sfida con la quale prima o poi ci si dovrà misurare, se ci si vuole considerare degni di vivere in una società civile.
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Una storia vera e qualcos’altro di FERNANDO TOGNI ANCHE recentemente Giampaolo Pansa ha ricordato una massima giornalistica americana, che per i lettori trascriviamo: «Nessun problema senza una storia , nessuna storia senza un personaggio». Fondamentali sono i tre sostantivi: problema, storia, personaggio. Se ne rovesciamo la sequenza, si deduce che di solito c’è un personaggio che determina e regge una storia, la quale può illuminare e/o suggerire radice e soluzioni di un problema; e probàllein significa mettere davanti, evidenziare: la lettera alla Befana, o una riforma costituzionale. Così abbiamo pensato di prendere una persona (fisica-giuridica) e dalla sua storia evincere in modo indiretto il qualcos’altro. Tra i ping-pong e i minuetti in cui l’informazione corrente ci fa ormai affogare sempre più ogni giorno, forse prendere una realtà e usarla per proiettare una atmosfera può sollecitare meglio l’attenzione (stimolando la curiosità) e risultare meno opinabile o accademica, quindi più proficua. È la storia di Gino de Frontàn e aggiungiamo che è tutto vero, ma la personalizzazione è usata soltanto come medium (singolare di media, nel senso odierno ormai invalso). Rassicuriamo i lettori: non scriveremo un romanzo, perché lo spazio non c’è, e perché ciascuno ha vissuto il proprio di illusioni difficoltà tenacia - e sa che umanamente si assomigliano. Gino de Frontàn è vissuto come tanti altri di noi a Sondrio o a Siracusa. L’età che conta è quella anagrafica; l’altra che conta è quella che hai nel cuore. Un giorno - tardi - si è laureato. La prima vocazione dovette abbandonarla; gli studi erano consoni alla seconda, che dovette abbandonare. Cominciò a lavorare - quando riuscì - si sposò, costruì la sua collocazione sociale con il remo lungo e pesante di una trireme. Ha laureato e sposato quattro figli (normali). Crediamo chiederà d’avere soltanto nome e cognome sulla tomba perché, avendo sempre coltivato anche l’ironia, bonariamente non gradisce l’ipo-
crisia degli aggettivi di cui necessitano i birichini. Si è sempre considerato uno qualsiasi (e ha fatto male) non ha mai abbandonato i suoi studi, anche se per trent’anni gli altri impegni l’hanno costretto a staccare la spina pubblica. La sua professione - in parecchie aziende ma sempre nello stesso ramo - gli ha consentito di muoversi in un universo (più negativo che positivo) vicino ai suoi interessi culturali. È proprio in un quadro siffatto che ha potuto osservare, dalle quinte, lungo gli anni, la grave assurdità di impostazione d’una cultura bloccata dell’informazione sul piano sociale etico politico etc. Qui s’innesta il qualcos’altro e, focalizzato quanto abbiamo appena scritto, il pretesto della vicenda usata come chiave, spalanca una porta che anche ai lettori - di qualunque estrazione, tendenza, militanza, interessi fa spalancare gli occhi. Un discorso del genere sembra un bla-bla disperso nella realtà che ci circonda, ma non è così se applichiamo un filtro agli occhi nominati sopra: l’avverbio onestamente. Sentiamo benissimo la risata generale che ci esplode intorno. Ma il nostro seguito è molto semplice: una due tre generazioni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, scegliendo la via pubblica dominante hanno risolto in Italia il problema della vita, senza crearsi tanti drammi etici. Non la teniamo lunga perché tutti hanno perfettamente compreso; e perché i processi scoloriscono col tempo, o alimentano in prevalenza le polemiche ipocrite. Però siamo ai saldi; è giocoforza convincersene. Anche la montante recrudescenza verbale o violenta, dimostra che la falsità non paga più. Questa è la democrazia, non quella coltivata con tanto zelo per mezzo secolo; quindi dobbiamo ancora incominciare. È stupefacente e abbastanza stupido che non l’abbiano previsto, benché sia tipico della presunzione e dell’ignoranza. Diciamo meglio: tutto ciò era
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64 voluto, all’insegna del: «Teneteli ignoranti e li avrete ubbidienti». Ma è finita un’epoca, e il fatto non è un temporale: è un cambio di stagione. Il temporale è il revisionismo, un fenomeno ormai in atto da vent’anni, consolidato dietro due personalità professionali che rispondono ai nomi di Oriana Fallaci e Giampaolo Pansa; i quali soltanto con rabbia e invidia vengono chiamati cani sciolti, o cavallo pazzo da un mare di ex compagni. Di sicuro non è edificante quanto sta ripresentandosi, peggiorando, in questi ultimi anni. D’altro canto la metamorfosi italiana - messa a dimora il 10 giugno 1940 e tenuta bagnata con costanza e sollecitudine - da piantina acaule e gracile s’è trasformata nella foresta robusta e preoccupante dell’odio integralista nel quale ci muoviamo, benché tra l’altro si finga di sbandierare ancora tanta apparente tradizione cristiana. Pure il contadino sa che il frutto è sempre e soltanto la conseguenza del seme. Per legge di natura: non ci sono negazionismi che tengano. È molto sconfortante il quadro reale, perché - nel buio - siamo ormai all’inizio del dodicesimo anno del terzo millennio con un atteggiamento bloccato sulle falsità della fine della seconda guerra mondiale, e ci illudiamo di consolarci constatando che tutto il pianeta è in crisi. Invece soltanto una concreta coltivazione di ricambi - che non si improvvisa - può alimentare, in altro modo, speranze per il futuro. A nostro avviso ci sono due cose chiare. L’impostazione, diventata di massa, di una cultura distorta e lacunosa esclusivamente a sinistra è stata una truffa: è inutile accanirsi, non può reggere. La seconda è che l’informazione, su tutti i binari, cioè il tramite tra il potere e un popolo di 60 milioni, non è affatto un legame, bensì proprio motivo di frattura, poiché il servizio si è trasformato nella esclusiva arroganza d’una azione fine a se stessa, o meglio, a sostegno degli scopi interessati di coloro che la gestiscono. Chiunque legga comprende che pure questo non può durare oltre. Un articolo non offre lo spazio per fare esempi e corredarli di interminabili elenchi di nomi. Ma è meglio, perché in concreto acuirebbe soltanto una guerra disumana e assurda, mentre ad ogni lettore si accende lo stesso uno schermo zeppo di esempi e nomi. Cancellata l’etica si fa un’altra non allegra scoperta: non esiste più non
IL BORGHESE l’apparenza ma il sentimento di appartenenza alla propria Terra, il dirittodovere, la tradizione di nazionalità. Anche i nostri esuberanti e tecnologici giovani lettori forse fra trent’anni, esauriti o delusi, aggiungeranno le loro considerazioni al riguardo. A questo punto ritroviamo pure il nostro Gino de Frontàn, che ha offerto non il pretesto ma la testimonianza d’una storia vera nella cornice d’un quadro ben più grande e importante. Il suo cruccio infatti qual è? I revisionisti seri sono ben pochi, pur se il fenomeno continuerà a crescere, ma non per il recupero della verità: sarà soltanto la nuova tendenza, per perpetuare l’imbroglio morale di fondo. Tale stato di cose gli procura poi un’altra complicazione: egli non condivide infatti, anzi denuncia vigorosamente, che possano essere gli stessi cronisti rossi d’ieri a raccontare oggi e domani la storia della guerra civile italiana. (Porta sempre l’esempio che sarebbe come se Dolores Ibarruri - la Pasionaria della guerra di Spagna- avesse scritto, dopo la fine di quella guerra, la biografia del generale Franco.) L’ha ribadito, plaudendo e sottolineando la differenza, anche dopo la
Marzo 2012 lettura dell’ultimo libro di Giampaolo Pansa: Carta straccia, RCS Libri, Milano 2011. E troviamo che ha pure ragione, perché questo è ciò che ancora avviene a livello di comunicazione ufficiale di massa. Regge sempre il monopolio della cultura di sinistra (in pensieri parole et opere) invece che lasciare finalmente testimoniare i protagonisti: sui fatti veri, non su nostalgie e giaculatorie. Al centro del bersaglio egli mette gli editori che, corporativizzati con gli intellettuali, ispirano da furbastri tutto ciò che è stampa, editoria, scuola, clubs del libro, radiotelevisione, spettacolo, e via via. L’articolo finisce qui, perché per ragioni multiple non può andare oltre. Siamo certi che il qualcos’altro è stato perfettamente capito da tutti gli addetti ai lavori d’ogni ordine e grado. Siamo anche quasi sicuri che secondo la più collaudata congiura del silenzio i principali chiamati in causa staranno zitti: confermando d’essere il passato in articulo mortis. Però, lettore italiano libero intelligente e coraggioso, la nostra speranza goliardicamente rimani tu, poiché soltanto tu foss’anche fra tre generazioni - sarai il futuro.
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IL GIARDINO DEI SUPPLIZI A TUTTE LE AUTO DELLA POLIZIA
Commissari di ferro tra cinema e «TV» di FABIO MELELLI IL LUSINGHIERO successo ottenuto da ACAB di Stefano Sollima, ha riportato in auge un filone, quello poliziesco, che nel cinema italiano ha vissuto una stagione esaltante nel cuore degli anni Settanta, per poi ripiegare sul piccolo schermo con una proliferazione di sceneggiati non sempre di egregia fattura. Quarant’anni fa il cinema poliziesco sbarcò sui grandi schermi del Belpaese in modo massiccio caratterizzando per almeno un lustro la nostra cinematografia popolare, all’epoca reduce dai fasti del declinante western all’italiana. Ai cavalli si sostituirono rombanti motociclette e sfreccianti Giuliette, alle Colt le Beretta, e in luogo di sceriffi e fuorilegge nacquero figure di poliziotti tutti di un pezzo e di efferati criminali senz’altra logica che quella del guadagno immediato. In un Italia violenta, percorsa da stragi, attentati, sequestri e spettacolari rapine, il poliziesco, o «poliziottesco» come venne subito ribattezzato con una malcelata punta di disprezzo, costituiva il genere forte, quello in cui lo spettatore medio poteva rispecchiare la propria quotidianità, immedesimandosi in eroi che ricorrevano ad ogni mezzo, anche ai limiti del lecito, pur di sconfiggere la malavita. Questi tutori dell’ordine si trovavano ad agire in un contesto spesso caratterizzato da oscure trame di Stato, da una macchina della giustizia troppo lenta e farraginosa, eroi solitari in Metropoli che ad ogni angolo nascondevano una minaccia. Maurizio Merli, Franco Nero, Enrico Maria Salerno, eredi dello «straniero» di leoniana memoria, dovevano barcamenarsi tra le opposte fazione della legalità e dell’illegalità, consci di dover risolvere autonomamente le proprie indagini, con un
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duello finale, in cui invariabilmente il cattivo di turno si trovava intrappolato nel dedalo urbano delle metropoli. Poco inclini a confidare nella giustizia terrena, gli eroi del poliziesco all’italiana procedevano in genere all’esecuzione sommaria del bandito, proprio come nei western. Di qui le accuse di fascismo che piovvero sui registi del genere, spesso ottimi mestieranti, in alcuni casi autori con la A maiuscola, da parte di una critica miope e ignorante che dietro il lapidario giudizio di «pellicole reazionarie» era incapace o impossibilitata ad operare distinzioni di valore. Ma il tempo, come spesso succede, ha reso giustizia a film come Napoli Violenta di Umberto Lenzi, La polizia ringrazia di Steno, Milano calibro 9 di Fernando Di Leo, La polizia accusa: il servizio segreto uccide di Sergio Martino cogliendone la complessità semantica (non sempre il commissario era un personaggio «positivo», qualche volta c’era la condanna di un certo modo di agire, certo non c’era mai l’esaltazione della violenza gratuita), la fattura spettacolare (chi non ricorda i rocamboleschi inseguimenti per le strade di Roma, Napoli, Genova, Milano), la capacità di intercettare il gusto del pubblico. Forse è stato proprio il successo popolare che una buona parte dell’intellighenzia italiana all’epoca non perdonò al «poliziottesco»: come mai, si chiedevano i soloni del
pensiero progressista, invece di andare a vedere i film «impegnati» il popolo bue si appassiona alle vicende di simili personaggi imbevuti di retorica reazionaria? Ma che il genere in Italia abbia sempre funzionato alla grande, e che sia stato un peccato mortale averlo abbandonato nella sua declinazione cinematografica, lo dimostra la quantità di sceneggiati polizieschi che vengono prodotti del nostro Paese, tutti peraltro di enorme successo. Certo nel passaggio dal cinema alla televisione si è perso molto del valore di quelle pellicole: il buonismo ha sostituito il politically uncorrect, la «recitazione» (termine impegnativo se riferito a certi attori di fiction!) ha prevalso sulle scene d’azione, l’universalità delle storie e della confezione (negli anni settanta i polizieschi venivano venduti in tutto il mondo) è stata sostituita dal taglio localistico e autoreferenziale (per quanto interessante, la realtà italiana non esercita un grande appeal al di là di Chiasso). Ma in un cinema come quello italiano, piegato da anni di sconsiderati «aiutini» pubblici agli amici degli amici, il recupero di questa tradizione non può che essere salutare: d’altra parte se i dvd dei film degli anni Settanta vanno a ruba nelle videoteche, non si vede perché un poliziesco realizzato alla maniera di un tempo non possa avere un qualche successo, e magari essere anche esportato senza doverci vergognare.
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EDGAR J. HOOVER VISTO DA HOLLYWOOD
Quando la fantasia stravolge i fatti di FRANCESCO ROSSI IL FILM di Clint Eastwood, J. Edgar, sulla vita del capo dell’Fbi, ha provocato le solite, prevedibili reazioni. Siccome Eastwood fornisce di J.Edgar Hoover l’immagine che ci si aspetta da Hollywood, cioè quella di una persona neurotica, egomaniaca, interessata al rispetto della legge ma affamata di potere e di pubblicità, e soprattutto ossessionata da una presunta inesistente minaccia comunista, il film è stato ben accolto anche in Italia. È sorprendente il continuo verificarsi di un fenomeno che dovrebbe essere limitato alla parte della popolazione più ignorante e meno sofisticata e che invece come spesso capita vede tra le vittime i cosiddetti intellettuali . Ci si riferisce al fatto di considerare tutto quello che viene presentato in un film che narra una vicenda o una storia realmente accaduta come un fatto certo, non controverso. Si accetta che alcuni aspetti del film possano essere romanzati per rendere lo spettacolo più interessante, ma sembra che non entri nella mente di chi giudica l’eventualità più che concreta che la storia venga distorta, nella sostanza falsata. Questo risultato lo si può ottenere narrando un fatto in maniera diversa da come si è verificato o più semplicemente omettendo uno o più fatti, con il risultato di fornire un quadro dell’accaduto del tutto contrario alla verità. Nella ricostruzione della storia del ventesimo secolo, Hollywood (registi, sceneggiatori) è sempre stata dominata dall’ala sinistra e J.Edgar Hoover è sempre stato la sua bestia nera. I pretesi tratti caratteriali di Hoover riportati sopra fanno parte del trattamento standard di Hoover da parte del mondo del cinema americano. Ci si poteva attendere che Eastwood mostrasse maggiore indipendenza e originalità, invece non fa altro che ripetere la solita versione. Per quanto riguarda la parte privata di Hoover, oltre ai tratti indicati sopra, nel film si fa riferimento alla
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sua presunta omosessualità: è nei fatti presunta semplicemente perché si basa soltanto su supposizioni, mentre nel film questa non soltanto è data per certa, ma vengono presentate diverse scene di incontri privati (tra l’altro, presunzione delle presunzioni, tra lo stesso Hoover ed il suo vice Clyde Tolson), che naturalmente, per come sono descritte non possono che essere frutto della fantasia degli sceneggiatori. Quanto alla parte più importante, cioè l’Hoover pubblico, questi viene presentato come un piccolo tiranno e persecutore di individui, che perennemente abusa i suoi poteri di capo dell’Fbi. Alla luce della corposa documentazione proveniente dagli archivi dell’Fbi, è indicativo dello scrupolo hollywoodiano per la verità storica il fatto che di fronte a fatti verificabili il film li distorca in tutti i modi possibili. Ad esempio, si fa credere che Hoover avrebbe iniziato nei primi anni trenta la sorveglianza della moglie del Presidente Franklin D. Roosevel, Eleonor, ed avrebbe scoperto una sua relazione; il capo dell’Fbi avrebbe quindi sfruttato questa sua conoscenza per rafforzare la sua posizione nei confronti del Presidente. La sorveglianza di cui si tratta avvenne nel 1943, non nel 1933 (durante il terzo mandato di Roosevelt, non nel primo) e fu effettuata dal servizio di controspionaggio dell’Esercito. La moglie del Presidente dimostrava una certa predisposizione nei confronti di Joseph Lash, un soldato sulla cui fedeltà all’America l’esercito mostrava più di un sospetto. Hoover fu soltanto informato dall’esercito della scoperta, ma l’Fbi non aveva niente a che fare con quell’operazione di sorveglianza. Più oltre viene riproposta una delle più raccontate favole della storia americana, cioè il fatto che Hoover avrebbe costretto un riluttante Robert Kennedy, dal 1961 Ministro della Giustizia, ad autorizzare l’inter-
Marzo 2012 cettazione telefonica di Marthin Luther King, che aveva tra i suoi collaboratori due persone identificate come comuniste. Kennedy aveva esplicitamente autorizzato l’intercettazione e non soltanto quella di King (che pubblicamente aveva attaccato John Kennedy e minacciava di imbarazzarlo con una gigantesca protesta a Washington), ma anche di altri presunti nemici del fratello, dai pochi giornalisti critici, agli imprenditori dell’acciaio nel corso del famoso braccio di ferro con il Presidente dell’aprile del 1962. Molto più realisticamente fu Hoover a lamentarsi, anche pubblicamente, delle insistenti richieste del Ministro Kennedy per effettuare delle intercettazioni a destra ed a manca. L’ultimo tipico colpo di scena avviene in occasione della morte di Hoover. Il Presidente degli Stati Uniti in quel momento, Richard Nixon, ordina immediatamente il sequestro dei fascicoli segreti e confidenziali di Hoover, tesoro di informazioni su tutti i maggiori protagonisti politici, Nixon probabilmente incluso, salvo trovarsi di fronte all’ennesima sorpresa: quei fascicoli sono stati distrutti per ordine dello stesso Hoover. Anche questo è assolutamente falso, quei fascicoli esistono ancora e dovrebbero poter essere consultati in base alla legge sul diritto di accesso (l’informazione su Joseph Lasi di cui sopra è tratta da quegli archivi). Se dovessimo scegliere una scena che sintetizza la linea del film è quella in cui Hoover afferma che il pericolo d’infiltrazione comunista nelle istituzioni americane è andato scomparendo dagli anni trenta. Questo è la colonna portante del film. Dobbiamo naturalmente di nuovo sprecare l’aggettivo falso, per il semplice motivo che il capo dell’Fbi, in una rara comparizione davanti alla Commissione della Camera per le Attività AntiAmericane il 26 marzo del 1947 suonò l’allarme riguardo l’indifferenza di fronte al pericolo comunista all’interno degli Stati Uniti. «I miei sentimenti riguardanti il Partito Comunista degli Stati Uniti», queste le sue parole, «sono ben noti. Non ho esitato nel corso degli anni ad esprimere la mia preoccupazione e la mia apprensione. Di conseguenza le sue brigate diffamatorie professionali hanno condotto un attacco implacabile contro l’Fbi. Anche voi che siete membri di questa commissione conoscete la furia con cui il
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Marzo 2012 partito, i suoi simpatizzanti e compagni di viaggio sono in grado di lanciare un assalto. Non mi dispiace questo tipo di attacchi. Ciò che è stato deludente è il modo in cui sono stati in grado di ottenere il sostegno di persone evidentemente mosse da buone intenzioni, ma completamente ingannate...» Dai falsi dobbiamo passare alle gigantesche lacune. I casi della rivista Amerasia (il primo scandalo della guerra fredda, quando negli uffici della rivista simpatizzante comunista furono trovati 1.400 documenti segreti di vari ministeri), di William Remington (spia sovietica, responsabile al ministero del Commercio delle licenze import-export per i Paesi comunisti), di Alger Hiss (spia sovietica per il servizio segreto militare, impiegato al ministero degli Esteri come speciale assistente del direttore degli Affari Politici), di Judith Colon (spia sovietica al ministero della Giustizia, ufficio per la Registrazione degli Agenti Stranieri, dove aveva accesso a documenti del controspionaggio) e dei Rosenberg (spie sovietiche, Julius era ispettore presso il centro dell’esercito a Fort Monmouth dove venivano svolte ricerche su radar, comunicazioni e missili guidati), per citare i maggiori, non sono neppure accennati. In questo modo il film ottiene il suo scopo, cioè quello di renderli inesistenti. Hoover viene preso di mira in quanto simbolo della lotta al comunismo, che aveva allungato i suoi tentacoli anche negli Stati Uniti. Il capo dell’Fbi ed i suoi dovettero lottare contro questa massiccia infiltrazione spesso da soli, dovendo anche fronteggiare gli attacchi degli intellettuali incantati delle sirene di Mosca e di Hollywood, che con questo filmfinzione rinnova e prosegue quella battaglia. Ironia della sorte, nel film Clyde Tolson (il vice di Hoover) è impersonato da Armand Hammer, il bisnipote del patriarca «filantropo» dallo stesso nome, che fu una spia reclutata dallo stesso Lenin e che prestò aiuto all’Urss fino agli anni ottanta. Clint Eastwood avrebbe potuto chiedere al suo attore quanto il pericolo comunista fosse inesistente, se fosse stato davvero interessato a raccontare sul serio, attraverso Hoover, buona parte della storia americana del ventesimo secolo. Purtroppo queste non erano le sue intenzioni ed il pubblico deve saperlo.
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Scherzando sulla crisi di MICHELE LO FOCO QUANDO dicono: «uno sguardo dall’alto», «uno sguardo d’insieme» i commentatori tendono a dare un giudizio positivo delle vicende che li occupano. Chissà perché, forse per quella dose di ottimismo che ci vuole per vivere, forse per superficialità, forse per farsi accettare da tutti. L’Italia è un Paese esagerato per questo aspetto: la borsa va male, ma sentiamo dire che in fondo può tornare… in territorio positivo; una nave affonda e sentiamo dire che tutto sommato ne muoiono di più sulle strade; le tasse aumentano, la finanza fa i blitz e la Ferilli ci insegna che è ora per i ric-
67 chi di pagare. Ma come, pensiamo noi poveri lettori, mi dà lezioni di stile la Ferilli che si è sposato lo sposatissimo direttore generale della Rai? C’è qualcosa che non va in questo frenetico giro di frasi ottimistiche. Poi scopriamo un altro elemento: dei fatti, degli avvenimenti non interessa nulla a nessuno. Morale, soluzioni ottimali, dovere, regolarità!? Per favore non disturbate il conducente, non date fastidio, non fatevi sentire, e soprattutto… non siete nessuno, anzi ma chi siete?! Bene, arriviamo al nostro settore, il cinema, l’audiovisivo. Uno sguardo dall’alto: va tutto bene, la percentuale di incasso dei film nazionali è del 38 per cento, l’Anica esiste ancora, il Mibac è lì, le Film Commission esistono, e perbacco il tax credit è vivo e vegeto e veglia su di noi! Incredibile ma vero va tutto bene! Ma come, diciamo sempre noi, lo Stato non eroga soldi, il Comune e la Regione
IN RICORDO DI EROS MACCHI Quando si parla di televisione non si può non ricordare la figura di uno di coloro che hanno creato il servizio pubblico ed hanno per decenni costruito l’immagine dell’azienda di spettacolo più importante del Paese. Eros Macchi, soprannominato Eros Maschi da Alighiero Noschese, era un signore del nord, laureato in medicina, e figlio di un industriale delle camicie. Nulla pertanto poteva far presagire il suo futuro nella televisione ed in particolare in quel settore che ha così fortemente caratterizzato la società di allora ed in parte quella attuale, il varietà. Eros Macchi, milanese nel sangue, continuò a detestare i romani pur vivendo tutta la sua vita nella Capitale. Era un uomo tutto d’un pezzo, testone, professionista, sicuro di sé, ma con lui nacquero grandi star, come la Carlucci, la Parisi e la Goggi. Prevalentemente solo, cenava quasi tutte le sere al «Cuccurucù» dove una targhetta d’ottone ricordava che quello era il suo posto. Lì trovava Enzo Montagnani, Alberto Lionello e Sandrone il ristoratore, e quello era il suo circolo, nel quale una parola in più, uno scherzo era ben accetto. Le liti con la moglie, che lui definiva giocando «la figlia di Garinei e Giovannini», lo accompagnarono per tutta la vita. Si sentiva perseguitato dalla giustizia romana, ma nonostante la sfiducia nel prossimo amava teneramente il figlio cui forse non riusciva a dimostrare tutto il suo attaccamento. Lavorò fino a quasi settant’anni, dirigendo a lungo un programma storico che ancora esiste, «Chi l’ha visto», e finì per ritirarsi in un paese che gli era estraneo, Cortona, che però razionalmente gli sembrava equidistante da Roma e da Milano e pertanto la giusta sede per una vecchiaia serena. Lì rimase solo, come in realtà era stato per tutta la vita, fino a quando la malattia che lo aveva aggredito non ebbe ragione delle sue forze. Ricordiamolo con rispetto e con affetto perché a lui dobbiamo «Un due tre», «Canzonissima», «Johnny 7», «Su e giù», «Doppia coppia», «Signore e Signora», «Luna park», «Zim zum zam», «Vengo anch’io» che catturò sedici milioni di spettatori. MICHELE LO FOCO
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68 non sanno cosa fare da anni, la Rai non paga più i diritti, ne abusa soltanto, al cinema vanno bene due film su cento, il tax credit non risolve nessun problema e questo vuol dire che va tutto bene! Sì, ci dicono i commentatori, la cultura è forte ed in forma, la signora Lei governa risoluta ed impettita, Del Noce è inamovibile e Vespa ogni tanto riceve De Laurentis e fa una puntata sul film di Natale. Inoltre ci sono le rubriche di cinema, Marzullo su tutti. Evviva il cinema, evviva Fellini e Rossellini. Ma, continuiamo noi, non vendiamo all’estero, Rai Trade è stata sciolta, la signora Chiesa si è sciolta, non abbiamo un attore conosciuto nemmeno in Svizzera, vanno male anche i Cinepanettoni, Del Noce è sempre inamovibile e tutto va bene?!! Sì, ci dicono i commentatori, va tutto bene, lo dice Nastasi e questo è sufficiente. Basta lamentarsi o nei prossimi giorni vi toglieranno anche il tax credit, ed allora sì che saranno cavoli amari! Non sapete capire quanto sia bello tutto dall’alto. Con uno sguardo d’insieme cinema televisione e internet sono abbracciati in una nuvola rosa con tanti uccellini che cinguettano. È il progresso, è la vita che si rinnova. Ma come, insistiamo noi con un filo di voce, ma se ormai facciamo un film con 400.000,00 euro e non abbiamo nemmeno i soldi per andare a Cannes! Zitti, basta, dicono i commentatori, Favino è il nostro nuovo eroe e la Gerini è sempre più nuda, ma viva e vegeta, viva Verdone, viva Virzì. Il cinema è cultura e voi, miserabili operatori del settore, non siete nient’altro che esseri fastidiosi e petulanti. A Cannes ci andremo noi, e vi diremo noi come vanno le cose, cioè benissimo. Ecco che la nostra favola ha un lieto fine. E noi che pensavamo il peggio quando invece navighiamo nell’oro! Siamo stati sciocchi e maldestri a produrre miserabili filmetti da quattro lire mentre Montaldo realizzava a spese dello Stato un altro capolavoro! Non ci siamo accorti che piove soltanto in casa mentre fuori risplende il sole della poesia e del miracolo italiano! Eppure sarebbe bastato uno sguardo dall’alto, uno sguardo d’insieme, una verifica globale per capire che è tutto perfetto. Ma, come dice Crozza, i debiti globali che abbiamo fatto chi li paga?
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NOSTRA SIGNORA TELEVISIONE
Le Idi di Marzo di LEO VALERIANO È PASSATO in sordina che Virginio Scotti (Gerry Scotti) ha rassegnato le dimissioni da presidente e amministratore di Monradio, società di Mondadori che controlla R101. Il popolare conduttore aveva accettato l’invito rivoltogli da Marina Berlusconi, assumendo l’incarico di presidente di Monradio, società a cui fanno capo le attività radiofoniche del gruppo Mondadori, non molto tempo fa. Evidentemente i suoi rapporti con la proprietà non sono stati del tutto idilliaci, negli ultimi tempi ed ecco che Scotti è stato costretto a lasciare. Nel recente passato, Scotti, ricopriva già il ruolo di vicepresidente di Monradio, e ha condotto nell’arco della scorsa stagione diversi programmi su Radio R101. Sempre in Mediaset, si vocifera sul ridimensionamento di Emilio Fede, inventore e attuale conduttore, oltre che deus ex machina, del Tg4. A quanto si dice, è stato allestito un piano per la futura direzione del Tg4 redatto da Piersilvio Berlusconi in persona il quale vorrebbe un cambio dolce nella direzione del Tg della rete berlusconiana. Emilio Fede dovrebbe abbandonare il timone del tg di Rete 4 senza scosse o traumi. Per Fede non è corretto parlare di prepensionamento, visto che ha la bellezza di 80 anni, età più che onorevole per la «pensione». Il nome più gettonato per subccedergli al Tg4, sembra essere quello di Salvo Sottile, conduttore di Quarto Grado. Tuttavia, l’argomento più scottante del settore radiotelevisivo, è quello che riguarda il CDA della Rai. In attesa che Monti faccia le sue mosse, l’Azienda continua il suo percorso in attesa di marzo, mese in cui decadono le cariche del CDA e va a sentenza il ricorso di Augusto Minzolini. Al governo non dispiacerebbe far valere le proprie idee sulla riforma della Rai ma, ai «tecnici», mancano gli strumenti necessari per cambiare le cose. È un momento di incertezza in cui esiste una seria possibilità che il CDA in scadenza a fine marzo possa subire una proroga, almeno temporanea e, magari, con un aggiustamento dovuto alle dimissioni del consigliere Nino Rizzo Ner-
vo. La nomina, effettuata all’inizio di Febbraio, di Maccari al Tg1 e Casarin al Tgr, è stata vista come fumo negli occhi dal Pd e dal Terzo Polo. Nel frattempo, il Cda aveva nominato ben cinque Vicedirettori al Tg2. Da tutto ciò, si evince che tutto il sistema televisivo e quello dell’informazione, a partire dalla Rai, rappresentano una delle maggiori incognite per il governo Monti: dalla ridistribuzione delle frequenze al dilemma del CDA. Il 28 marzo l’attuale Consiglio di amministrazione della Rai scade ufficialmente dalle sue funzioni. Però, una volta scaduto, potrebbe restare al suo posto in proroga. Una scelta che non può dispiacere al Pdl, considerando i rapporti di forza in azienda. Ma è difficile, che gli altri partiti della nuova maggioranza (Pd, Udc e Terzo Polo) accettino una proroga che possa arrivare fino al termine della legislatura. Questo significherebbe accettare una campagna elettorale caratterizzata da una forte predominanza del Pdl, almeno in due dei tre Tg nazionali della Rai. Bisogna considerare anche il fatto che il 9 maggio scadrà l’attuale Autorità per le comunicazioni. Nove membri, otto nominati dal Parlamento e il presidente direttamente dal governo, che hanno il controllo sulla par condicio anche in campagna elettorale. A questo punto possiamo fare quattro ipotesi: La prima è quella della semplice proroga. La seconda è legata a qualche marchingegno che permetta la sostituzione del consigliere dimessosi, la terza riguarderebbe il suo totale rinnovo con l’attuale legge Gasparri. La quarta, un cambiamento delle regole di nomina del vertice, magari con la figura dell’amministratore delegato. Secondo la legge in vigore, la Commissione di Vigilanza può nominare sette consiglieri su nove di cui, quattro spettano alla maggioranza, tre all’opposizione. Ma, stando le cose come sappiamo, qual è (oggi) la maggioranza in Parlamento? Quella attuale che appoggia il Governo Monti o quella uscita dalle urne ed esistente prima della fiducia al nuovo governo? Ulteriore complicazione: attualmente in Vigilanza vi è una situazione di sostan-
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Marzo 2012 ziale parità, 20 a 20, tra l’ex centrodestra e l’ex opposizione. Senza contare la rivendicazione della presidenza del CDA da parte della Lega Nord, visto che per legge questa dovrebbe essere riservata all’opposizione e che, appunto, attualmente la Lega ricopre quel ruolo. Inoltre va considerato che la legge Gasparri riserva al Tesoro, e quindi a Monti che ne ha l’interim, la nomina dell’ottavo consigliere. Quello decisivo per determinare la maggioranza in Cda. Dulcis in fundo, nessuno dimentica che il prossimo Cda, potrà giungere sulla soglia di una scadenza cruciale per capire quale futuro avrà la Rai. Infatti, nel 2016 scadrà la concessione a Rai spa per il servizio pubblico. E Minzolini? Si vocifera molto sul ritorno del direttore del Tg5 Clemente Mimun, alla Rai. In quel caso si aprirebbero le porte del Tg5 proprio ad Augusto Minzolini e la faccenda giungerebbe ad una sua soluzione. Entrambi i telegiornali, da qualche tempo viaggiano col vento in poppa. Il Tg1 e il Tg5 delle 20 sono arrivati intorno ai 6 milioni e mezzo di telespettatori in media per entrambi. Cifre che non si vedevano da anni. Non dimentichiamoci dei circa 3 milioni a testa del Tg2 delle 20,30 e del Tg3 delle 19. Se si considerano anche i dati del Tg di Enrico Mentana su La7, vediamo che a quell’ora oltre il 60 per cento degli Italiani guarda un telegiornale. A proposito de La7, registriamo un notevole successo (Gli Intoccabili condotto da Gianluigi Nuzzi) e un clamoroso «flop». Quello di Serena Dandini con The show must go off, il cui titolo sembra essere una involontaria ammissione della scarsa consistenza della trasmissione. Lenta, eccessivamente lunga (due ore e mezza) e altrettanto noiosa. L’unico a cavarsela discretamente sembra essere Elio e le Storie Tese che, nella prima puntata, ha offerto una colonna sonora di ottimo livello, in cui musica e satira si sono mescolate sapientemente. Va aggiunto che la presenza ossessionante, un tormentone chiaramente voluto, di Diego Bianchi (alias «Zoro»), è perlomeno sconcertante. Il programma, che godeva del vantaggio acquisito nella prima puntata e dell’elemento curiosità, ha registrato il 4 per cento di percentuale di ascolto. Poco per una trasmissione propagandata fino allo spasimo e in onda in prima serata su una rete emergente. La7 si può permettere un fallimento del genere? E la «proprietà» può accettare che la rete diventi una precisa fotocopia di Rai Tre?
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PUNCTUM CONTRA PUNCTUM
L’anima e le forme della musica dannunziana di ALBERTO CESARE AMBESI LA NOTIZIA è ufficiale, ma ancora sussurrata a mezza bocca: nel 2013, la città di Forlì ospiterà la grande mostra «DUX», dedicata ad una esplorazione dell’«arte italiana negli anni del consenso», legittimamente proposta dal capoluogo romagnolo, in quanto - ulteriori parole, testuali, di apposito comunicato stampa - città del Duce. Evento di tutto rilievo, probabilmente concepito con criteri di scientificità, ma che non mancherà, facile profezia, di suscitare discordi pareri e feroci polemiche. Come già avvenuto, peraltro, in una precedente, analoga circostanza. Precisamente nell’agosto 1997 , quando il critico d’arte Giorgio Di Genova, certo non sospettabile di tendenze «reazionarie», divenne il bersaglio di tutti i colleghi «progressisti», avendo avuto l’ardire di curare l’esposizione «L’Uomo della Provvidenza» (Palazzo Mediceo di Seravezza). Ricordi a parte, vorrei ora discorrere di un’iniziativa, sempre forlivese, presentata come un’anticipazione della manifestazione dell’anno prossimo. Mi riferisco alla mostra WildtL’anima e le forme da Michelangelo a Klimt, ospitata nei Musei di San Domenico fino al prossimo 17 giugno 2012 e grazie alla quale è possibile riconsiderare il multiforme clima culturale che fiorì fra Ottocento e Novecento, avendo per punti focali, piaccia o non piaccia, la melodrammaturgia di Richard Wagner (18131883) e il lirismo virtuosistico di Gabriele D’Annunzio (1863-1938): esperienze d’arte che si trovano riflesse nella produzione di Adolfo Wildt (1868-1931) non soltanto sotto il profilo «estetico», ma altresì come una vera e propria consonanza, poematica e filosofica, per cui non si capisce come taluno abbia potuto sostenere che questo scultore dovrebbe riguardarsi come estraneo al Simbolismo; un giudizio evidentemente formulato da qualcuno che ha contemplato in modo distratto il marmo
con dorature Carattere fiero-anima gentile (1912) e la matita e carbone su carta Luminaria (1925), per non parlare della ricorrente tematica delle maschere, sempre affrontata e concretata con un gesto che coniugava la monumentalità e lo scandaglio psicologico. I busti di Mussolini e di Margherita Sarfatti, di Pio IX e di Toscanini costituiscono, in proposito, una testimonianza inequivocabile. E non per nulla, mi sia consentito di aggiungere, almeno una parte delle più significative ideazioni musicali italiane, dall’inizio del secolo XX alla pienezza degli anni Trenta, potrebbe e dovrebbe riconsiderarsi, come dannunziana, intendendo con tale aggettivazione una quiddità che non può essere imprigionata dai soliti e consunti schemi tratti dalla filologia letteraria. Quella stessa filologia letteraria, e discipline consanguinee, che, per esempio, sono ancora oggi impotenti a comprendere la grandezza degli studi di Giovanni Pascoli dedicati alla Commedia dantesca. Ma transeat, almeno per il momento. Anche perché è giusto ricordare che ai testi dannunziani si richiamò il vigoroso esordio di Ildebrando Pizzetti (1880-1968), nell’am-
ADOLFO WILDT
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70 bito teatrale, con le musiche di scena per La Nave (1905), per La Pisanella (1913) e con l’opera Fedra (1915). Né va dimenticato che successivamente, nel 1923, il Vate farà parte della cerchia dei creatori della innovativa Corporazione delle Nuove Musiche, insieme ai compositori Gian Francesco Malipiero (1882-1973) e Alfredo Casella (1883-1947). Iniziativa che troverà il sollecito riconoscimento della Società Internazionale di Musica Contemporanea. Se poi si aggiunge, come è doveroso aggiungere, che già nel 1919 egli aveva voluto essere uno dei patrocinatori della pubblicazione de «I classici della musica italiana», apparirà di una palmare evidenza che all’autore delle Laudi dovrà riconoscersi il merito d’avere contribuito in maniera determinante alla rifioritura della cultura musicale italiana, tanto in una prospettiva «futuribile», quanto in prospezione «tradizionale». Basti rilevare che l’accennata collana di musiche antiche, giunta a comprendere 36 volumi di composizioni vocali e strumentali, permetterà a diverse generazioni di musicologi di ricostruire la storia della musica occidentale con dettagli sempre più precisi. A proposito di D’Annunzio potrei ancora sottolineare che la sua influenza sulla musicalità italiana si prolungò oltre la metà dello scorso secolo. Basti riandare agli esiti drammatici della pizzettiana La figlia di Jorio (1954) per averne la più illustre delle conferme. Qui il discorso da abbozzarsi è tuttavia un altro, anche perché ho elencato talune circostanze,a preferenza di altre, un po’ per caso e un po’ volutamente, giacché sarebbe stato fin troppo agevole dimostrare che pure il futurismo fonico di Francesco Balilla Pratella (1880-1955) e di Luigi Russolo (1885-1947) possedeva nel proprio Dna una buona dose di molecole dannunziane. Molecole del tutto assenti in Alfredo Casella, forse, negli anni del consenso, uno dei musicisti fra i più compromessi nelle dichiarazioni di fedeltà al Duce e alle sue direttive. Fatto di per sé abbastanza singolare, quando si pensi che mostrerà una costante affinità con quell’orientamento che, negli anni Venti e Trenta, era principalmente rappresentato dalla scuola neoclassica francese. Un orientamento, codesto, del quale tutto potrà dirsi, ma non che fosse in consonanza con le idealità eroiche del Regime.
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IL BORGHESE Situazione contraddittoria, poetica e stilistica, che sarà frantumata dal grande rivale di Casella, Gian Francesco Malipiero con l’opera lirica Giulio Cesare del 1936, eloquente, ma non retorica, «trascrizione» musicale dell’omonimo dramma di Shakespeare. In sintesi: la più nobile fra le partiture «fasciste» di quegli anni e articolata con soluzioni che riuscirono a compenetrare vigore espressionistico e una rinnovata dedizione ad antiche forme e modalità della tradizione italiana. Non si equivochi. L’ufficialità fascista di quegli anni riconobbe soltanto in parte la grandezza del Giulio Cesare, avendo più stretti rapporti con Giuseppe Mulé (18851951), Adriano Lualdi (1885-1971) ed Ennio Porrino (1910-1959), allievo di Respighi (1876-1936) e autore di musiche piuttosto interessanti, durante la fase ultima della creatività. A parte si dovrà considerare il caso rappresentato da Pietro Mascagni (1863-1945), per certi versi soverchiamente celebrato, allora come oggi, laddove aveva perseguito gli esiti naïf , mentre meriterebbe piuttosto d’essere riguardato con maggiore rispetto, non soltanto riandando all’Iris (1898), ma altresì alla dannunziana (guarda caso!) Parisina (1913), partitura che fece pensare ad un suo imminente rinnovamento linguistico che - purtroppo - non si avverò. All’uomo Pietro Mascagni, comunque, dovrà riconoscersi un’esemplare coerenza, poiché, fino all’ultimo volle rimanere fedele al Regime che aveva onorato con la nomina all’Accademia d’Italia. Eppure, gli sarebbe stato facile cambiare casacca politica, come altri faranno, magari facendo passare Cavalleria rusticana per un’opera pre-neorealista e dunque segretamente antifascista. Altre, completamente altre, le considerazioni da delinearsi a proposito di Ottorino Respighi, alfiere di un colorismo orchestrale dalle molteplici radici ed evocatore di remoti modalismi, sia occidentali sia bizantini, ed ogni volta con soluzioni di vario spessore timbrico e melodico. Ci si provi ad ascoltare, per esempio, l’una dietro l’altra, le composizioni del 1928, Concerto dell’estate, per orchestra di Ildebrando Pizzetti, il poema sinfonico, Le fontane di Roma di Respighi, mettendole poi a confronto con gli anteriori (1926) Ricercari e Ritrovari, sempre per undici strumenti, di Gian Francesco Mali-
Marzo 2012 piero, e sarà facile accorgersi che ognuno di tali lavori, pur nella difformità delle rispettive articolazioni, potrebbe dirsi legato a Wildt , grazie a sottili affinità manieristiche, se non «ermetiche». Non per nulla, i Ritrovari furono suggeriti a Malipiero da Gabriele D’Annunzio, quale contraltare ai meditativi Ricercari, le Fontane di Roma possono riconoscersi come ispirate dal Mito, prima ancora che dalle impressioni dal vero e il Concerto di Pizzetti (di Ildebrando da Parma, secondo l’appellativo dannunziano), da là da questo o quello spunto naturalistico, vede ritmo e contrappunto tramutarsi in strumenti atti a dipingere un affresco paesaggistico più vicino al regno degli elfi che al nostro mondo. Poco resta da aggiungere, ma soltanto per ragioni di spazio. Mi riservo perciò di parlare del «caso» Giorgio Federico Ghedini (18921965) in altra occasione, in quanto il suo magistero, formale e strumentale, per dritto o per rovescio, si costituì come punto di riferimento per i maestri delle nuove generazioni, Luigi Dallapiccola (1904-1975) e Goffredo Petrassi (1904-2003), compositori svettanti nel panorama musicale europeo del secondo dopoguerra, ma - per certi versi - inspiegabilmente messi da parte in questi ultimi anni. Un oblio transitorio? Forse che sì, forse che no. In Italia si è spesso abilissimi nel calare strane cortine di silenzio. Chi rammenta, per esempio, che, durante il famigerato ventennio, Arnold Schönberg (1874-1951) fu eseguito più volte e liberamente discusso il suo metodo di composizione con i dodici suoni? Credo proprio che storia e cronistoria della musica italiana del Novecento avranno bisogno, negli anni a venire, di qualche sapida ed esauriente annotazione a piè delle pagine.
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LIBRI NUOVI E VECCHI PERCHÉ IL CENTROSINISTRA APPOGGIA MONTI
I Neomarxisti si sono arresi all’Impero di GIOVANNI SESSA OGNI osservatore obiettivo e attento dello scenario sociale contemporaneo, è costretto a constatare, non soltanto l’aggravarsi della crisi economica nella quale, almeno dal 2007, si sta avvitando il sistema capitalista (crisi sottovalutata e fatta passare, per troppo tempo, sotto silenzio dai media), ma anche un’assenza politica rilevante, per taluni analisti inaspettata. Infatti, nell’attuale contingenza storica, le residuali sopravvivenze dello Stato sociale vengono definitivamente smantellate dai «padroni del vapore», mentre le società postconsumiste, già definite opulente, vedono crescere esponenzialmente le differenze sociali e dilatarsi il rischio di recessione pauperistica. Allo stesso tempo, l’economia finanziarizzata, il più delle volte virtuale, decreta l’esproprio della volontà popolare, proiettando sul mondo le ombre del «Nuovo Regime», quello della governance, con il consenso di quella che fu la sinistra rivoluzionaria, silenziosa, assente, e raramente in grado di svolgere un ruolo politico significativo. Come si spiega questo suo sottrarsi alla lotta, in un periodo storico così carico di tensioni, segnato dalla crescita delle ingiustizie sociali, dei licenziamenti, della disoccupazione giovanile e non? Cosa ha determinato la sua marginalizzazione dopo che, per anni, era riuscita a mobilitare le piazze contro i presunti soprusi dei «padroni» e dello Stato? Crediamo che, per rispondere compiutamente al
A. Negri-M. Hardt Impero Rizzoli BUR, 2003, pag. 451 - € 8,18
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quesito sia necessario, tanto aver contezza dei tratti socio-politici che connotano l’attuale fase di sviluppo delle democrazie liberali, quanto degli sviluppi teorici indotti nel neo marxismo dalla stessa Forma Capitale contemporanea. Proviamo qui, nel breve spazio di un articolo, a sintetizzare le due questioni. Ci pare, innanzitutto, che l’attuale momento politico in Europa, veda la «democrazia» trasformarsi progressivamente in una modalità di gestione sociale, affidata a presunti tecnici e sottratta sempre più ai cittadini. In essa, ogni aspirazione all’andare oltre, il progettare un nuovo e/o diverso ordine e stato delle cose, è di fatto neutralizzato dall’eterodirezione imposta dall’impianto mediatico. Mentre sin qui, lo Stato ha avuto un ruolo dominante, su un asse verticale in cui società civile e mercato gli erano subordinati, ora quest’asse è sostituito dalla logica di concertazione a pari merito tra agenti pubblici di ogni sorta, e altrettanto eterogenei attori privati. Il vero e proprio collante culturale di tale operazione oligarchica, va individuato nella pervasività «valoriale» della nuova religione dominante, quella dei «diritti dell’uomo». Essa è codificata, diffusa e partecipata, ormai, ad ogni livello della società europea. I canali comunicativi contemporanei, dai mezzi audiovisivi, al web, con la loro parvenza di libertà, e il loro carattere mercuriale, in realtà sanzionano l’indiscutibilità della melassa «buonista» pervadente il corpo sociale. La tolleranza è una pratica che si esercita esclusivamente nei confronti di gruppi o singoli che pensano, agiscono e scrivono all’interno dei confini, delimitati con rigida chiarezza, dal politicamente corretto. Per questo, come è stato rilevato dal politologo francese Guy Hermet, al Nuovo Regime contempora-
neo si accompagna la «Nuova Lingua»: in essa, il dialogo tra le parti, non è realizzato, ma semplicemente simulato. Si tratta dell’ultima fase di sviluppo dello Stato «terapeutico» (Michel Foucault), che oggi ha assunto il volto «bonario» dello Stato di «profilassi», sempre vigile, attraverso i suoi chierici, nel verificare la presenza di eventuali attentatori della stabilità politico-culturale. Molti ex marxisti, preso atto dell’insuperabilità del «migliore dei mondi possibili», della società «liquida», si sono trasformati nei sacerdoti e/o nei devoti di questo nuovo culto. Il loro ruolo è, pertanto, ormai interno al sistema, ne sono a pieno titolo partecipi, anzi, il più delle volte, vi svolgono la funzione di guardie bianche. Ma le frange antisistema dell’ultrasinistra? Anch’esse, al di là dall’aver conservato un vocabolario contestativo, in realtà hanno perso ogni afflato rivoluzionario. Per comprendere questa trasformazione, che non è neppure reale metamorfosi, in quanto implicita nelle corde teoretiche della dottrina di Marx, bisogna far riferimento ad un’opera tra le più significative del pensiero neomarxista, Impero di Antonio Negri e Michael Hardt (Rizzoli, Milano 2003). Di essa si è recentemente occupato, in modo critico e puntuale, anche Alain de Benoist («Moltitudine o caos? Sulle tesi di Hardt e Negri», in Trasgressioni, n. 52, 2011). In sintesi, i due teorici muovano da una constatazione: la crescita in potenza, nel mondo contemporaneo, del capitalismo «cognitivo» o «immateriale», determinata dall’introduzione delle nuove tecnologie. Essi colgono nel segno, crediamo, quando definiscono l’Impero, cioè l’attuale dominio politico del mondo, come «acefalo», in quanto forma istituzionale succedanea a quella degli «Stati nazionali». Ma, in realtà, non si rendono conto che questo suo presentarsi come «nonluogo», è semplicemente strumentale e, quindi, meramente apparente. Infatti, fino ad ora, la testa dell’Impero globalizzante e il suo braccio esecutivo, il suo concreto vettore, sono, con sicurezza, individuabili nelle politiche realizzate dai governi (democratici e repubblicani) degli USA. Questo è un primo limite della lettura della condizione geopolitica
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72 attuale prodotta dal neomarxismo, ma ve ne sono altri, ancora più fuorvianti. Infatti, dalla rilevazione che la post-modernità funziona sulla base di un controllo sociale interiorizzato dagli individui in modo apparentemente indolore, inconsapevole e passivo, i due studiosi sono giunti a desostanzializzare la realtà dell’Impero, l’hanno cioè deprivata della sua irriducibile valenza storica, fatta di ricerca del profitto ad ogni costo, e costruita attraverso la colonizzazione utilitarista dell’immaginario. In tal modo, essi hanno elevato l’Impero al cielo delle «categorie dello spirito». Il neomarxismo, insomma, giustifica la Forma Capitale contemporanea, in quanto offrirebbe delle possibilità di «creazione e di liberazione», superiori a quelle di qualsiasi altra epoca storica. Dal che, la conseguente rinuncia alla contrapposizione politica, alla contestazione globale, in quanto soltanto dall’interno dell’Impero, si genereranno le condizioni del suo oltrepassamento. Anzi! Lo stesso meccanismo della mondializzazione, che si manifesta come reale deterritorializzazione delle precedenti strutture d’esproprio e di controllo, indurrà l’affermarsi dell’agente storico che le succederà, la Moltitudine. In quest’analisi, fondata sull’ottimismo storico, che in alcuni passi del libro sfocia, addirittura, e la cosa non ci stupisce, in un recupero dell’etica cristiana e francescana, viene definitivamente coperta e negata la crisi involutiva del capitalismo dei nostri giorni. L’esito ultimo del marxismo è, pertanto, da cogliersi nella dimensione onirica. A un Impero astratto, esso contrappone una Moltitudine altrettanto irreale: di fronte al mondo, nient’affatto di sogno, ma certamente a-umano e sub -umano, prodotto dalla Forma Capitale, il neo marxismo ha alzato le braccia, si è arreso! La sua resa pratico-politica è il risultato, quindi, della arrendevolezza teorica nei confronti della società «gaia». Alla luce delle precedenti considerazioni, un’effettiva opposizione all’attuale egemonia delle categorie dell’utile e dell’economico, sia pure declinate in termini di liquidità e di immaterialità, può venire soltanto dal pensiero di tradizione. Da esso è necessario trarre i contravveleni per costruire una Città nella quale l’uomo non sia più asservito all’economia, ma sia quest’ultima a servirlo. Anche da questo particolare punto di vista, la lezione di Julius Evola
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IL BORGHESE è ancora attuale. Egli comprese, e lo dimostrano molti luoghi della sua sterminata produzione, come il sistema capitalistico e lo stile di vita americano implichino una «sottomissione spontanea», apparentemente non imposta («Moralità americane», in Il Meridiano d’Italia, 15 Febbraio 1953), contro la quale bisogna reagire. Nel medesimo tempo, notò come la tendenza alla meccanicizzazione della vita, realizzata dalla civiltà delle macchine sovietica, fosse implicita alla filosofia marxista, altra faccia della medaglia del materialismo moderno. Egli intuì, soprattutto, come il nuovo «incantamento» fantasmagorico del mondo, messo in campo, tanto dall’individualismo liberale che dal marxismo, fondato sul tentativo di radicare gli uomini nella dimensione dello «sradicamento» permanente, sia indotto dalla propensione antitragica del nichilismo, tendente a presentare come «Dimora», la realtà del deserto contemporaneo. Per uscire dalla quale, in termini individuali e comunitari, è necessario rettificare l’immaginario desiderativo-consumistico, intervenire metapoliticamente su di esso per ancorarlo di nuovo al mundus imaginalis, luogo degli archetipi, del precedente autorevole, sul quale costruire la nostra presenza e la nostra azione nel mondo. Soltanto a questa condizione, l’Impero del nulla, lascerà luogo alla riemersione del Centro, in quella dimensione di Federalismo imperiale, in cui l’organicità, anche nell’ambito politico, troverà la sua legittimità nel trasformare il caos dell’atomismo attuale, in un nuovo cosmos.
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Librido a cura di MARIO BERNARDI GUARDI ANCHE chi sia appena alfabetizzato su vita ed opere di Friedrich Nietzsche conosce la frase con cui il Padre di Zarathustra va all’assalto di tutti i cieli: «Io non sono un uomo, io sono dinamite». Nietzsche è questa esplosione potente e devastante: gli «incendi» del XX secolo, i manifesti sovversivi e trasgressivi delle avanguardie culturali, il turbine vorticoso delle ideologie totali, la modernità e la sua crisi, le mille, contraddittorie «ricerche di senso» dell’intelligenza anticonformista, gli attuali, crescenti «deserti» e le voci che urlano nel deserto hanno in lui un vaticinante nunzio. Lo sapeva bene, lui, e nei suoi cinquantasei anni di vita espresse tutti i suoi «umori» creativi e distruttivi. All’insegna della dinamite. In uno scenario in cui le suggestioni che seminava erano frecce scagliate verso l’avvenire. Anche se confusamente qualcuno già avvertiva il loro passaggio nell’aria e ne sospettava la forza micidiale. Barbariche, tribali frecce di fuoco e modernissima dinamite anarchica: Friedrich Nietzsche è anche questo paradossale intreccio. Ed altro ancora. Perché, pensiamo alla evocativa biografia stilata da Daniel Halévy (Vita eroica di Nietzsche, Edizioni Il Borghese, 1974), nell’uomo non c’è soltanto una straordinaria tensione intellettuale, ma anche tratti del «guerriero» e del «santo», talmente nobile e «ingenuo» che la realtà gli infligge continue ferite, senza piegarne la virtù e l’onore. Perché, come scrive Heidegger (Nietzsche, Adelphi, 1994), quello in cui è impegnato il filosofo è un duello speculativo di enorme portata, che fa i conti con tutta la filosofia occidentale, sfida la metafisica, apre lo spirito ad itinerari mai affrontati con tanta radicalità: la morte di Dio, l’avvento del nichilismo, la trasvalutazione di tutti i valori, l’arte come sguardo sapienziale, il Superuomo, la volontà di potenza, l’eterno ritorno dell’uguale sono «formule» di folgorante forza conoscitiva. Come notò Massimo Fini, colpendo provocatoriamente la «corazza» del Distruttore (Nietzsche. L’apolide dell’esistenza, Marsilio, 2002), il sovrumano è cifra nietzscheana al pari dell’umano, troppo umano, con un
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Marzo 2012 carico di sogni/bisogni affettivi, debolezze, fragilità, illusioni, delusioni, malattie, paure, nevrosi che forse non ha uguali in nessun’altra vita e che, a un certo punto, non più controllabile, diventa delirio e follia. Nel quinto ed ultimo volume dell’Epistolario, il cuore di Nietzsche è più che mai messo a nudo: le missive raccolte infatti riguardano gli anni - dal 1885 al 1889 - in cui sempre più divampano i suoi «eroici furori» (in questo periodo il pensatore partorisce opere come Al di là del bene e del male, Genealogia della morale, Il crepuscolo degli idoli, Il caso Wagner, L’Anticristo, Ecce homo e verga gli appunti che, nel 1906, sarebbero confluiti, ad opera della sorella Elisabeth, nella Volontà di potenza) e in cui sempre più disarmante si svela la quotidianità di una vita errabonda e ansiosa di ancoraggi. Non è facile «seguire» Nietzsche. Non è facile «capirlo». Sapere cosa vuole «davvero». Di «maschere» e «volti» ne abbiamo in abbondanza: come si fa a distinguere le une dagli altri? In una lettera inviata all’amico Franz Overbeck da Ruta Ligure in data 12 ottobre 1886, si legge: «Anche l’”essere compreso” ha una sua importanza; e io spero e mi auguro che ci voglia ancora un po’ di tempo prima che si arrivi a questo. Meglio di tutto sarebbe se ciò avvenisse dopo la mia morte. Mi ha davvero ‘tranquillizzato’ il fatto che un lettore ine e ben disposto come Te continui comunque a nutrire dei dubbi su quello che in sostanza io ‘voglio’. I timori che mi crescevano dentro andavano invece nella direzione opposta: temevo, cioè, questa volta di
(A cura di Giuliano Campioni e Maria Cristina Fornari) Epistolario 1885-1889 - Testo critico originale stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montanari Adelphi, pag. 1.376, € 100,00; (a cura di Giulio Sézac) Queste le parole di Zarathustra. Un libro per tutti e Nessuno (con testo tedesco a fronte) Ar, pag. 584, € 60,00; Massimo Ferrari Zumbini Nietzsche. Storia di un processo politico. Dal nazismo alla globalizzazione Rubbettino, pag. 322, € 16,00
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IL BORGHESE essere stato troppo esplicito, e di aver svelato ‘me stesso’ troppo presto. È evidente: devo fornire ancora un gran numero di premesse educative per potere infine allevare i miei propri lettori, intendo dire lettori cui ‘sia consentito’ guardare in faccia i miei problemi senza restarne schiacciati. Un articolo del Dr. Windman apparso sul Bund (del 16 e 17 settembre, leggilo!) mi ha fatto temere che l’occhio di ogni genere di polizia possa appuntarsi su di me prima del previsto: il titolo del contributo era Il pericoloso libro di Nietzsche, la prima frase suona all’incirca: “Le cariche di dinamite che venivano usate per costruire la ferrovie del Gottardo recavano una bandiera che indicava un pericolo di morte”». Bisogna stare dunque in guardia dalla pericolosa «dinamite» nietzscheana (nel caso specifico quella in Al di là del bene e del male)? Pare proprio di sì. Ecco un altro volto del Dinamitardo nella lettera inviata, in data 13 novembre 1886, alla «cara vecchia mamma» Franziska, nei cui confronti Friedrich si comporta sempre da figlio tenerissimo. Ma del resto non è forse per Elisabeth un fratello affettuoso e devoto, un cognato franco e cordiale per il fiero antisemita Bernhard Förster, il migliore degli amici per Franz Overbeck, Heinrich Köselitz, Malfida von Meysemburg, Erwin Rohde? Scrive dunque Fritz a Franziska: «Con che cosa potrei farTi un piccolo, grazioso dono che Ti faccia piacere a Natale, mia buona mamma? Però devi prendere la cosa sul serio; i miei ‘risparmi’ ammontano giusto a 500 franchi, mi posso dunque permettere un piccolo lusso. Tanto più che non ho proprio nessuno se non la mia buona mamma». È un Dinamitardo o un (maturo: ha 42 anni) Ragazzo Triste? Entrambi le cose: e questo, ai nostri occhi, non lo rimpicciolisce, ma lo accresce. Nulla togliendo (anzi!) a quella ebbrezza visionaria di Zarathustra che torna adesso ad effondersi nella nuova, splendida edizione del Libro per Tutti e per Nessuno, pubblicata da Ar nella collezione «Alter Ego». Brevi - ma attente e intense - parole all’inizio sottolineano l’alto livello di un impresa che nasce dalla concordia, dalla vicinanza, dalla complicità amicale. Il pensatore ha trovato la «casa» giusta, visto che di lui si scrive: «La singolarità di Nietzsche, nel paesaggio della filosofia, sta nell’avere sprezzato l’esigenza postcartesiana della puntualità, della conclusione, e nell’essere ritornato a quello
73 stile di pensiero per cui sapere è una caccia (la «venazione della verità», in Giordano Bruno) e un rischio, un continuo assaporare l’Essere (…). L’attenzione nietzscheana alla parola è niente altro che “fisiologia dell’essere”: desiderare che nessuna possibilità di significato venga negletta». Brevi - ma attente e intense parole - alla fine (con una Nota di Anna K. Valerio) sigillano l’avventura/evento, così rispondendo al mai risolto - perché mai compreso interrogativo montaliano «Il varco è qui?»: «Un varco è qui. Certo. Lo Zarathustra è un varco da cui si può fuggire la gelatinosa mancanza di senso di questo mondo, da cui si può lasciare l’inferno in terra dove si consumano i traffici di spettri languidi, insensati, vani. Ma è come il fiore azzurro di Persefone: non tutti cadono nei suoi abissi, non tutti sono ospiti graditi di quei regni e possono rischiararsi ammirandolo. Pregare gli dèi di vivere solo per cadere fino laggiù. E poi di essere inceneriti come Semele, appena un istante più tardi. Inceneriti, in modo da sparire, anima e corpo - come quel grande interprete politico di Nietzsche, il più veritiero, il migliore del Novecento». Nietzsche e il suo Zaratustra sono anche l’azzardo di prendere in mano «questo» carbone ardente? La Casa Editrice Ar (a Franco Freda, il suo alfiere, ha reso - ma se ne è reso conto? un paradossale esercizio di inquieta e impaurita ammirazione il giornalista Andrea Pasqualetto che è andato a fargli visita nella sua libreria ad Avellino. Cfr. «Saviano? È forte», in Sette, 19 gennaio) a queste sfide atletiche è avvezza e la sua grande, antica e consolidata passione per il Padre di Zarathustra ne è la conferma: la prima pietra - Nietzsche e la mitologia egualitaria, un saggio dell’audace, indimenticabile Adriano Romualdi - viene posta nel 1971. Ancora Nietzsche, uno, nessuno, centomila. Nietzsche, o dell’eccezione. Nietzsche come intricato destino del Novecento. Non ci abbiamo fatto ancora i conti, non dobbiamo averne paura. Il mistero doloroso e fecondo è ancora tutto da esplorare. Senza temere le domande che bruciano in bocca e nel cuore e nella mente. Formuliamo la più terribile senza tanti giri di parole: Nietzsche è il Giovambattista del nazismo? Negli accidentati paesaggi del Novecento, in principio figura indiscutibilmente come il pensatore che con lo Zarathustra e con la Volontà di potenza (un’opera da sempre particolarmente discussa: quanto vi è di Friedrich?
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74 quanto della sorella Elisabeth? Si veda l’edizione curata da Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani, 1992) dà al verbo hitleriano indubbi «quarti di nobiltà» filosofico-ideologico-politici. Con qualche aurea mica sapienziale. E wagneriani notturni abissi. Ovvio che «questo» Nietzsche nella Germania anti-Weimar e poi in quella della svastica sia un mito. Con tanto di «sacerdoti» di rango come Spengler e Mann, Heidegger e Schmitt, Jünger e Bæumler (di cui Ar ha pubblicato nel 2003 Nietzsche filosofo e politico), ognuno col suo «destino», ma tutti ammiratori del Viandante di Röcken. Altrettanto ovvio che nel dopoguerra «questo» Nietzsche, colpito dagli anatemi del marxista Lukàcs, si porti addosso il peso di una condanna senza appello. Ma ecco, a partire dagli anni Sessanta, i primi segni di una rivalutazione, connessa a nuove correnti filosofiche, e all’edizione critica dell’opera nietzscheana da parte di Mazzino Montanari e Giorgio Colli, sotto il sigillo Adelphi. Ora, Nietzsche non è più un «nazi», ma uno spirito libero, liberatore e libertario, di volta in volta sapiente illuminato, smascheratore, demistificatore, protagonista del pensiero postmoderno, ma, in ogni caso, fiero avversario del nazionalismo e dell’antisemitismo. Credete sia finita? Nemmeno per sogno, perché nuovi studi, come quello di Domenico Losurdo (Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, 2002), riportano in auge un Nietzsche non soltanto «totus politicus» ma alfiere della destra radicale più estrema, con olocausti sullo sfondo. Ma allora era «nazi» oppure laico, progressista e magari antifascista? In un saggio che tocca tutte le «metamorfosi» dell’immagine di Nietzsche tra Ottocento e Novecento, dando spazio alle «ragioni» di vecchi e nuovi «laudatores» e «detractores», Massimo Ferrari Zumbini ci invita a farla finita con ogni logica processuale: il pensiero nietzscheano - e ben lo vedeva Giorgio Colli, cogliendone la contraddittoria forza oracolare (Dopo Nietzsche, Adelphi 1974; Scritti su Nietzsche, Adelphi, 1980) - è un labirinto di possibilità. Tutte «alte» nel loro aprirsi a ventaglio su mille varianti e mille possibili interpretazioni. Può affrontarle chi non teme la vertigine. Più che mai dal punto di vista della ricerca storica, dal confronto tra storia e pensiero, dall’attenta analisi degli eventi e dei contesti. Certo, ogni azzardo richiede un rango. Ed ogni ipocrisia «politicamente corretta» va bandita.
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IL BORGHESE
I LIBRI del «BORGHESE» GIUSEPPE Prezzolini, il giornalista e scrittore, nato a Perugia il 27 gennaio 1882 e scomparso, poco oltre la soglia dei cento anni, a Lugano il 16 luglio 1982, è stato contraddizione aperta con la frase del Vangelo di S. Matteo Non est propheta sine onore, nisi in patria sua, et in domo sua, personificazione esplicita, invece, della proposizione di S. Luca Amen dico vobis, quia nemo propheta acceptus est in patria sua. Nonostante il forte legame intellettuale con Mussolini, al quale dedica nel 1925 un lavoro, nel 1930 si allontana dall’Italia e si trasferisce negli Stati Uniti. Rientra definitivamente nel 1962 ma appena dopo sei anni abbandona la patria, sorda ed ingrata, stabilendosi fino alla morte in Svizzera. Nel maggio e nell’agosto 1977 rilascia a Claudio Quarantotto l’Intervista sulla Destra, che oggi Luciano Lucarini ripresenta, avendo avvertito la necessità, direi l’urgenza di offrire uno strumento di riflessione sull’attualità, non astratto, ma teorico, ma fondato su un’articolata rivisitazione del pensiero della Destra. Prezzolini considera come forma, se non perfetta, almeno largamente accettabile, il sistema liberale creato dal Risorgimento, contestandone, però, fermamente la corruzione ed il trasformismo manifestatisi con la cosiddetta «rivoluzione parlamentare», che segna l’avvento della Sinistra. Mentre in campo culturale, il marxismo batte in breccia il positivismo e il neoidealismo sopraffa il marxismo - Gentile e Croce, Oriani e D’Annunzio, Mosca e Pareto, nazionalisti e futuristi contribuiscono, dunque, alla rinascita di una cultura di Destra, che si oppone alla politica di Sinistra. E a tal proposito diventa prezioso, un nettare benefico rileggere le risposte di Prezzolini a Quarantotto su Mosca, Pareto, Michels, D’Annunzio, Mussolini, la destra storica di Cavour; uomini il cui pensiero può dare ancora molto per rilanciare il nostro Paese e i soggetti che intendano rappresentare i valori della Tradi-
Marzo 2012 zione e della rivoluzione italiana. Fra questi ultimi anche Longanesi e Montanelli che proprio alla fine degli anni ‘40 progettavano di pubblicare un periodico al quale Prezzolini era stato invitato a collaborare. «Il periodico», ricorda Prezzolini a Quarantotto, «pensavano di chiamarlo: Il Borghese.» Incredibilmente attuali risultano anche le sue idee su alcuni temi ancora «scottanti»; lui, «esule volontario» parla, per esempio, dell’emigrazione come «una tragedia, una grande tragedia. Significa, prima di tutto, che un Paese non può nutrire i suoi figli, non può nemmeno permettere che si nutrano da soli lavorando. L’emigrante, strappato dalla sua terra, dal suo ambiente, dai suoi costumi, rischia l’infelicità, se non la pazzia; o rischia di trovarsi tra le file della delinquenza. Quando un emigrato italiano non è finito in manicomio, o non è diventato gangster, è stato un miracolo; e di questi miracoli ce ne sono milioni. ‘Gli emigrati italiani hanno risolto il loro problema economico’, dicono. E questo non è poco. Ma è quasi tutto». Se il successo, come dice Prezzolini, della destra «avverrà dopodomani», occorre, quindi, analizzare il presente e il passato con lucidità, per agire nella storia futura, ma a una condizione: che la storia torni «prezzoliniana» per usare un termine fortunato di Fabio Torriero, che ha scritto l’introduzione al libro, in cui si augura, grazie anche al bagaglio storico-culturale lasciatoci in eredità da Prezzolini, di «ripartire con destrezza», proprio perché - lo spiega bene lo stesso intellettuale perugino: «Se la scienza è il luogo della ragione, l’immaginazione, i desideri e i sogni, sono il luogo della storia». Infine, questo libro - e lo diciamo anche se dovrebbe essere superfluo non è un libro politico, ma un libro sul pensiero politico, specialmente quello italiano, in un periodo limitato della sua storia, dal Risorgimento ai nostri giorni, indagato e illustrato da uno dei massimi protagonisti della cultura italiana del XX secolo. FEDERICA PIZZUTI
Giuseppe Prezzolini Intervista sulla Destra pag. 214 - € 18,00
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SCHEDE James Wesserman Washington massonica. Alberto Gaffi Ed., 2012 pag. 192 - € 18,00 Alberto Gaffi editore ha curato la traduzione e pubblicato un libro singolare d’un autore molto particolare: James Wesserman, Washington massonica. James Wesserman è uno studioso di scienze occulte, membro dal 1976 dell’Ordo Templi Orientis, ordine iniziatico ermetico fondato verso il 1895 da Karl Kellner, Theodor Reuss, Franz Hartman ed altri, poi riformato sotto la guida di Aleister Crowley accentuandone i caratteri magico operativi. Tra le pubblicazioni del Wesserman, non tradotta in italiano, si consiglia di cercare: The Slaves Shall Serve: Meditation on Liberty. Autore quindi adatto a far da guida per una Capitale fondata, come Roma, in base ad un preciso rituale tradizionale evocativo, costruita secondo criterî simbolici, la cui pianta ed i cui edificî, monumenti, decorazioni, sculture, pitture, mosaici, stucchi, vetrate sono segni fatti per captare e rappresentare, invocare e rendere attivi nelle coscienze principî e forze che reggono quello che Thomas Jefferson, non certo a caso o per battuta, definì: «Un Impero di Libertà»; certo liberale, quindi, ma volutamente, consciamente e consapevolmente determinato nella sua natura d’Impero. Quella Capitale venne pensata come una nuova Roma, come Costantinopoli o Mosca, una Capitale che in definitiva non ebbe il cosiddetto Sacro Romano Impero non tanto in quanto di Nazione Germanica, quanto perché l’ordine sacerdotale che usurpò la prisca Roma lo tenne spiritualmente in ostaggio, malgrado le fiere ribellioni ghibelline e protestanti, fino a quando ebbe vita, e che soltanto Napoleone Bonaparte, per il breve periodo del suo Impero, tentò, non del tutto con successo, di mettere al suo posto. Torniamo a questa singolare guida di Washington. Il luogo dove sorge fu scelto in quanto lì il fiume Potomak compie un’ansa che ricordò ai fondatori l’ansa del Tevere; tant’è che avrebbero, in un primo tempo, voluto cambiare in Tiber il nome del
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IL BORGHESE fiume e chiamare la città Roma, ed invece finì proprio così, ma in modo originale e più autentico: il Generale George Washington, Primo Presidente che letteralmente imperò sulla federazione degli Stati Uniti dell’America settentrionale in quanto «comandante militare vittorioso», che in latino tanto vuol dire imperator, e fondatore del nuovo Stato, stette alla Città ed al distretto federale di Washington come il nome di Romolo stette al nome della Città di Roma. Il Generale pose la prima pietra del Capitol, il Campidoglio in cui risiedono il Senato ed il Congresso degli Stati Uniti nordamericani, ed in tutte le raffigurazioni, anche nell’anta sinistra delle porte di bronzo del Senato, in bronzo come quelle della Curia nel foro romano, il Fondatore indossa i paramenti massonici. Infatti, questo ordine iniziatico tradizionale svolse in quella fondazione il ruolo d’un collegium sotto certi aspetti fabrorum sotto certi altri pontificum nell’antica Roma, se fosse consono distinguere tra le due specie, dato che un pontifex come «costruttore di ponti» è anch’esso un faber del sacro, ed oltretutto, come ebbe a dire René Guénon, tutti i mestieri sono sacri e ad essi bisogna essere iniziati in una concezione tradizionale. E del resto, la natura stessa della federazione nordamericana ricorda i fœdera coi quali Roma da Stato di città si fece Capitale dei Latini, degli italici ed in fine dell’impero euro-mediterraneo. E l’Italia? La questione romana, cioè di Roma Capitale, fu centrale per il Risorgimento della Nazione, Terza Roma di Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, sogno realizzato da Vittorio Emanuele II quando, il 20 Settembre 1870, colse i frutti dell’opera romana di Camillo Benso Conte di Cavour: andatevi a leggere il discorso del Cavour per Roma Capitale sulla bella targa che lo riproduce alla nuova stazione Tiburtina di Roma, al Cavour dedicata nel 150° dell’Unità nazionale. L’Altare della Patria è il nuovo Campidoglio della Roma risorta, e nei primi anni d’unità il Grande Oriente d’Italia cercò di costruire una Religione Civile, di cui Giosuè Carducci e il Giovanni Pascoli de’«la grande proletaria s’è mossa» furono i Vati, poi ci fu Gabriele D’Annunzio ed Alceste De Ambris, con la Carta del Carnaro, ma infine vennero, anzi tornarono i «bacarozzi» alla Tacchi Venturi. L’Italia può avere soltanto o la funzione
75 di federatrice dell’Europa e del Mediterraneo, portatrice d’un modello di libertà sociale e partecipata, mirato alla rifondazione dei diritti dell’essere umano nel lavoro, come opus dell’Arte, riprendendo Alceste De Ambris, o di provincia d’un Impero non europeo, che non sarebbe comunque per gli Italiani «di Libertà». OCCULTUS FABER Franco Forte Il segno dell’untore Mondadori, 2012 Pag. 342 - € 15,00 La nostra epoca si specchia in epoche passate. Volgendo lo sguardo all’indietro, scopriamo che i difetti dei nostri tempi, in realtà, erano già ben presenti secoli e secoli or sono. Ce lo insegna anche il romanzo Il segno dell’Untore, pubblicato da Franco Forte per i tipi di Mondadori. La storia, ambientata nella Milano del 1576 ai tempi della peste, si apre col ritrovamento del cadavere di un commissario della Santa Inquisizione in un modesto appartamento abitato da gente del popolo. Che cosa faceva lì il religioso? Chi l’ha ucciso? Perché? Come? Quando? Sono le domande a cui devono far fronte Nicolò Taverna, il notaio criminale incaricato di scoprire i colpevoli del delitto, ed i suoi collaboratori. Più Taverna si addentra nel caso e più si trova inviluppato in una rete di ipotesi, l’una che contraddice l’altra e si sostituisce ad essa, e sempre più gli attori della scena criminale si rivelano comparse in un gioco ben più vasto. Tutti tacciono, o omettono, o rivelano mezze verità, prima di essere costretti ad uscire dalle ambiguità con cui proteggono i loro interessi e le loro stesse vite. I possibili motivi passionali si incrociano con gli intrighi politici che vedono coinvolti Corona di Spagna e Chiesa, e, in particolare, il Ducato, l’Arcivescovado e il Consiglio dell’Inquisizione. Il susseguirsi di colpi di scena e rivelazioni potrebbe risolversi in un preciso, cartesiano, ma freddo meccanismo di «detection». Invece, l’inquirente (e noi con lui) finisce per indagare anche nell’animo dei personaggi che animano la scena, compreso sé stesso, diviso fra l’amore per la moglie appena perduta e il sentimento crescente, quasi imbarazzante, che sente montare alla presenza della giovane Isabella.
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76 L’autore dà vita ad un romanzo molto dialogato, con qualche passaggio umoristico ad allentare la plumbea drammaticità della vicenda. Meticolosa, ma mai pedante e didascalica è la ricostruzione d’ambiente, in cui i singoli dettagli relativi all’abbigliamento, all’architettura, agli usi commerciali, legali e religiosi dell’epoca contribuiscono a visualizzare in maniera cinematografica la scena. Ma quel che più conta, tornando alle premesse da cui ci siamo mossi, è che il romanzo non racconta soltanto il passato, ma anche e soprattutto il presente. Uno degli argomenti toccati è quello del contagio, che, all’epoca dell’AIDS, della SARS, dell’aviaria e di pandemie più o meno pilotate, impatta sull’immaginario collettivo dell’intera umanità. Il segno dell’untore potrebbe essere reintitolato Dagli all’untore, per come rappresenta pregiudizi, timori spirituali, guerre di religione e false credenze vive e dannose oggi nel 1500. Un altro tema d’interesse è quello della paura. La paura induce i personaggi a fare cose di cui, in circostanze normali, si vergognerebbero e che, fatte da altri, susciterebbero la loro sdegnata riprovazione. La paura che rende irrazionale il comportamento dei milanesi del XVI Secolo è la stessa che trasforma il capitano di una nave da crociera, i membri dell’equipaggio, i passeggeri in creature elementari, alla mercè delle proprie emozioni. Un ulteriore punto svolto in forma narrativa è quello della giustizia, rispetto alla quale l’opinione dell’autore è che essa non sia altro che la giustizia di qualcuno nei confronti di qualcun altro, un modo per quietare gli animi criminali, ma anche - e forse soprattutto - un modo per aggiudicarsi potere personale. Un ultimo spunto di riflessione riguarda la contrapposizione fra tecnologia pura e intelligenza, evidenziato dai diversi approcci investigativi di ieri e di oggi. Forte ci ricorda che nessuna tecnologia, nessun espediente scientifico, potrà mai sostituire l’ingegno umano, la capacità deduttiva della nostra mente di andare al di là degli schemi apparenti e scovare la verità che si annida dietro gli atti criminali. Il problema delle prove scientifiche, che oggi sta creando tanti problemi a magistrati e avvocati durante i processi, è un’esigenza del meccanismo contorto del processo
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IL BORGHESE legale, che prevede la raccolta di prove al di là di qualsiasi deduzione investigativa. Addirittura, nel sistema americano, se una prova evidenzia la colpevolezza di un accusato ma viene raccolta senza seguire le procedure previste, diventa inutilizzabile, e consente al colpevole di farla franca. Il che attesta la vittoria dei tecnicismi sulla logica e sul rigore del processo deduttivo della mente. La speranza è che, accanto ai Grissom e ai vari esperti del CSI e del RIS, tornino alla ribalta della legge ingegni come quelli di Nicolò Taverna. ERRICO PASSARO Ursula K. Le Guin Lavinia Cavallo di Ferro, 2011 pag. 314 - € 13,60 Non è stato adeguatamente recensito e diffuso un libro molto interessante sull’antica storia romana e laziale scritto da un’americana nota prevalentemente per la sua intensa attività di scrittrice di libri di fantascienza, Ursula Kroeber Le Guin, che ora ha 82 anni e vive a Portland nello Stato americano dell’Oregon. Trattasi di un libro di fantastoria antica, argomento che in questi tempi è molto trattato e letto, dedicato ad una protagonista minore delle vicende legate agli antefatti della nascita di Roma, Lavinia, la donna che Enea secondo Virgilio - sposò quando approdò sulle rive del Tevere dopo essere sfuggito all’incendio di Troia. L’autrice ha scelto Lavinia proprio perché Virgilio ne parla poco, e ricostruisce la sua vita con fantasia certamente ma con solidi riferimenti culturali all’Eneide di Virgilio innanzitutto ma anche con testi dediti all’antica religione laziale e romana. Da esaltatrice della femminilità in tutti i suoi aspetti, Ursula Le Guin narra con molta acutezza la personalità di Lavinia, descrivendo in modo accurato e partecipato gli eventi che hanno coinvolto quella donna rendendola protagonista di un evento che ha avuto conseguenze millenarie sulla storia d’Italia e d’Europa. Così nel libro è narrato l’ambiente regale in cui Lavinia è nata e vive (essendo la figlia di Latino, Re di Laurentum, città vicina alla foce del Tevere che all’epoca era molto più arretrata rispetto ad oggi), sulla richiesta di Turno - Re dei Rutuli - di farne la sua sposa, sul suo rifiuto, sull’incontro con Enea, sull’amore
Marzo 2012 improvviso e «fatale» per lui, sulla guerra scatenata da Turno per lei e la sua uccisione ad opera di Enea, sul matrimonio che ha dato vita ad Enea Silvio iniziatore della dinastia sfociata in Romolo e Remo, sul regno unificato con i Latini, sull’incapacità di Ascanio (figlio troiano di Enea) a gestirlo, sulla morte di Enea e su quella di Lavinia. Le Guin così descrive il ruolo di Lavinia nella storia mitica grecoromana: mentre Elena di Troia ha provocato una guerra perché si lasciò prendere dagli uomini che la volevano, Lavinia di Laurentum provocò una guerra e la fondazione di un nuovo regno che sarà eterno perché si rifiutò di essere data, di essere presa, scegliendo da sé stessa il suo uomo ed il suo destino. Ma la cosa più interessante nel racconto della vita immaginaria di Lavinia è il suo costante riferimento alla religione degli avi di Romolo e Remo, alla pietas che coinvolgeva quelle popolazioni di origine indoeuropea che vivevano nel Lazio. Lavinia, come figlia del re, è preposta ai riti sacri verso i Lari ed i Penati della sua casa e del suo regno; Lavinia si reca ad Albunea (le attuali «acque albule» di Tivoli) per avere un contatto psichico con l’antenato della sua stirpe Fauno che le svela il futuro; nel corso di una notte passata in quel luogo viene «visitata» in sogno dallo spirito di Virgilio che le narra il destino che grava su Enea e sulla stirpe che dal suo incontro con lui nascerà. Interessanti alcuni passaggi del libro di Ursula Le Guin che fanno meglio comprendere il suo interesse e la sua condivisione per lo spirito sociale e religioso dell’epoca dell’antico Lazio e della Romanità. Ad esempio, dopo il suo matrimonio con Enea e la fondazione di un
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Marzo 2012 regno congiunto con il padre Latino, Lavinia afferma: «Noi che rivestiamo il ruolo di regnanti siamo gli intermediari che dialogano con i poteri della terra e del cielo, quei numi tutelari che attraverso noi comunicano le loro volontà al popolo…il compito principale di un re è quello di compiere i riti per onorare e placare gli dei secondo le tradizioni…così viene mantenuta la pace, e tutto prospera, sia nel regno che in casa». E l’autrice, nella sua postfazione, parla delle «prassi sacre domestiche di quel popolo profondamente religioso che erano i Romani». Nel suo racconto, inoltre, sono citate le diverse cerimonie popolari sacre che saranno tipiche dell’età romana, quali le «Ambarvalia» ed i «Lupercalia», e riporta alcune preghiere antiche in latino, di cui peraltro si rammarica l’esclusione dagli studi. Ma anche la figura di Enea è ben tratteggiata nel libro: una figura eroica e tragica allo stesso tempo, che è spinto dagli dei ad attraccare sulle rive del Tevere perché ha un compito storico da adempiere, che è un uomo «pio» (ossia, religioso) e desideroso della pace, che è stato spinto alla guerra dal rozzo Turno che è costretto ad uccidere malvolentieri, che muore colpito a tradimento da un ladro di bestiame che aveva graziato e liberato. In conclusione, è veramente interessante scoprire come una così viva attenzione e descrizione della più antica e sacra tradizione culturale romana sia emersa ad opera di una scrittrice, apprezzata soltanto per le sue opere di fantascienza ed immersa nella società americana che non presenta certamente interessi che vadano al di là delle letture bibliche, la quale evidentemente ha ritrovato nelle sue radici europee (origini tedesche e marito francese) lo spirito per interpretare e completare in qualche modo l’opera virgiliana. NAZZARENO MOLLICONE Stefano Zurlo Prepotenti e impuniti. Piemme, 2011 Pag. 214 - € 16,00 Stefano Zurlo, brillante inviato de Il Giornale, autore di Inchiesta sulla devozione popolare, con la quale ha vinto ex aequo il premio «Corrado Alvaro», ha fatto centro ancora una volta. Con il libro Prepotenti e impuniti, edito da
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IL BORGHESE Piemme, il giornalista del quotidiano milanese, prendendo spunto dall’inesauribile archivio disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura, prova a spiegare perché, nel nostro paese, la malagiustizia permette sempre di farla franca. La magistratura, nel nostro Paese, è una casta che non paga mai per i propri errori. Persino una consultazione referendaria che introdusse nel nostro ordinamento la responsabilità civile dei magistrati è stata, di fatto, disattesa. Inoltre, la sezione disciplinare dell’organo di autogoverno della magistratura, salvo rarissimi casi, non sanziona mai condotte sia colpose sia addirittura dolose dei propri membri. Il principio della separazione dei poteri di Montesquieu è sacrosanto ma, dopo aver letto questo avvincente saggio, il lettore arriva alla conclusione che il potere giudiziario in Italia non risponde a nessuno, se non a se stesso. Fino a quando i membri del Csm saranno eletti per due terzi dagli stessi magistrati e per un terzo dal Parlamento riunito in seduta comune, difficilmente si porrà fine a questo scandalo. I casi più clamorosi di malagiustizia che provocano un sentimento di indignazione nel lettore sono tre. Il primo: 10 dicembre 2006, un furgone travolge Francois D. mentre era fermo in corsia d’emergenza, sulla A12, prima dell’uscita di Collesalvetti. Francois perde la gamba destra. L’impatto, violentissimo, gliel’ha portata via di netto, come un machete. È la mattina del 24 settembre 2009. Un giovedì. Sono passati quasi tre anni dalla tragedia. Finalmente è arrivata la prima udienza del processo. La vittima, giustamente, pretende che colui che gli ha rovinato la vita paghi, che sia fatta giustizia. E invece no. Una volta entrati nel Tribunale di Livorno, François nota un assembramento di gente che urla, piange. Si avvicina. C’è una bacheca con un avviso in bella mostra: «Il giudice Alberto L. è in congedo ordinario. L’udienza è rinviata». È il caos. Sono ventuno, ventuno in tutto, le cause rinviate. In gran parte incidenti stradali. Il giudice è in congedo ordinario. Formula solenne e un po’ sibillina che alla fine vuol dire ferie. Vacanze. Riposo. Non si poteva comunicarlo prima? Vergogna. La conseguenza di tutto ciò è che François non crede più nella giustizia. Come dargli torto? Basta. Non verrà più in aula. Non si alzerà più alle cinque del mattino per farsi accompagnare dal fratello da Cap d’Antibes a Livorno per il processo. Ci penseranno i suoi avvocati. Non c’è nessun rispetto per un cittadino invalido che chiede solo che
77 sia fatta giustizia. Senza rispetto, infatti, non ci può essere giustizia. Il secondo caso ha come teatro una località molto nota della Liguria: Sanremo, la città del Festival della canzone italiana, del casinò e dei fiori. Siamo negli anni novanta. Un magistrato, un pretore di nome Pio V, d’accordo con un costruttore realizza, violando ripetutamente la legge, una cospicua plusvalenza che, ovviamente, non denuncerà nella dichiarazione dei redditi. Vediamo come: Pio V, in barba alla convenzione stipulata tra il costruttore e l’amministrazione comunale, che contempla la possibilità per ogni singolo acquirente di poter acquistare un solo appartamento con un prezzo massimo prestabilito, ne acquista, invece, due. Subito dopo il pretore rivende le due unità abitative a due privati ad un prezzo di mercato superiore di ben 112 milioni di lire, importo che gli viene corrisposto in contanti, quindi, in nero. La condotta del pretore è chiaramente fraudolenta e andrebbe sanzionata ai sensi dell’art. 640 del Codice Penale ma, incredibilmente, il giudice non sarà punito. Misteri dell’ordinamento giuridico italiano. Il reato fiscale, infatti, non sussiste più poiché la legge è cambiata, mentre la truffa è caduta in prescrizione, essendo trascorsi dieci anni. Il furbetto se la caverà con la più blanda delle sanzioni disciplinari: la censura. Ancora una volta il Csm ha perso un’occasione per dimostrare che la giustizia è uguale per tutti. Analizziamo ora l’ultimo caso. Siamo nel profondo sud, in un tribunale della Calabria. Gualtiero M., magistrato agli esordi, è giudice delle esecuzioni immobiliari. Dal 1999 al 2005 gestisce in modo a dir poco iniquo tali procedure. In questo lungo periodo sbilancia pericolosa-
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IL BORGHESE
INTERVISTE D’AUTORE
SACCÀ VS. SACCÀ Quanti libri «Quarantasei.»
hai
scritto?
L’ultimo? «Teatro d’Autore. Appena uscito.» Oltre le poesie, la saggistica, la narrativa... il teatro! «Faccio quel che sento, del resto: scrivo per me stesso.» Non hai un pubblico? «Ho dei lettori, se mai, un pubblico non ce l’ho né lo voglio ottenere. Se avverrà, avverrà.» «Teatro d’Autore», che significa? Può esistere un teatro senza autore? «È il titolo di uno dei testi, l’ultimo. L’Autore si recita non avendo un Attore che lo rappresenti, quindi il teatro lo fa l’Autore: teatro d’Autore.» Vive di questa esclusiva invenzione il testo? «L’Autore approfitta di questo suo obbligo di farsi Attore di se stesso, per rappresentare tutta la sua vita amorosa, terribile.»
Spaventoso! «Io vado avanti!» Gli altri testi? «Erano stati pubblicati, ma li ho rivisti.» L’argomento? «Il primo, del 1971, ora con il titolo: Figlio e padre, pone un figlio che teme di non trovare lavoro, eredita le angosce paterne, infine, quando lo trova, si licenzia certo che verrà licenziato!» Che tristezza! A tale punto la società dell’incertezza può avvelenare la mente da preferire la certezza del nulla all’incertezza! «Hai capito senza aver letto, che sorpresa!» Quale testo, ancora? «Pensa, scrivo di Gesù!» Non ti pare un argomento usato? «Gesù Cristo che ha paura della solitudine e della morte e tenta nell’amore una via di scampo...» E la trova? «Nella prima stesura, pubblicata anni or sono gli metto in bocca “Sì”, alla domanda che dici ,oggi gli faccio chinare la testa perché muore.» Non credi... «All’amore?»
Ma non doveva rappresentare il suo testo?! «Il suo testo finisce con l’essere la sua vita!» Vuoi dire che la vita se non diventa arte è soltanto morte? «Così. Tutto muore ma l’arte almeno esprime la vita.» Dunque, se non vi è l’espressione, l’arte, se la società non è l’Attore, chi mette in scena la vita espressa con l’Arte, muoiono sia la vita, sia l’arte... «Che sorpresa, hai capito senza aver letto! Voglio proprio dire che ormai la società non mette in scena l’arte, non vi è posto per l’arte nelle nostre società, la società non è Attore dell’arte.»
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Allo scampo. «Io credo, voglio l’amore, ma non c’è scampo.» Spaventoso. «Dunque, vero.» C’è qualche novità, nel tuo teatro? «In Teatro d’Autore il personaggio che si doppia, triplica p e r im m agin a r e d i a v e r e interlocutori ha qualcosa di originale scenicamente, forse.» Altro da dire? «Salutiamoci.» Arrivederci. «Addio.»
Antonio Saccà Teatro d’Autore Edizione Artescrittura, pp. 139, € 20
Marzo 2012 mente la nave della giustizia sul lato gremito dai tecnici. Sempre gli stessi, sempre loro, sempre. Nel capo d’imputazione, formulato in vista del processo davanti al tribunale disciplinare, si rimarca che in questo modo Gualtieo M. non ha applicato «il principio dell’equa rotazione degli incarichi, mostrando così preferenza verso quei professionisti, ai quali era legato da particolari rapporti di amicizia e apparendo pertanto imparziale». Un sistema squilibrato, dunque. Un sistema che ha permesso di avvantaggiare gli amici degli amici. Finalmente nel 2005 la puzza di bruciato arriva al presidente del tribunale, che apre un’inchiesta. Dopo le prime indagini di rito emerge che l’avvocato Cornelio N., che ha collezionato ben 151 incarichi di custodia di immobili, li ha custoditi così bene che ha acquistato alcuni palazzi «per persona da nominare, rivelatasi poi la moglie». Sempre in un’altra procedura di esecuzione immobiliare l’acquirente finale dell’immobile è risultato essere il suocero del Gualtiero M.. Una semplice casualità? In Calabria giungono gli ispettori di via Arenula. Gli inviati del Guardasigilli sono costretti a riconoscere l’impegno speso da Gualtiero M. nella «riattivazione di un settore, quello delle esecuzioni immobiliari, sostanzialmente del tutto fermo, per quanto riguarda le effettive vendite, da anni». Scrivono gli ispettori: «Il dottor Gualtiero M. ha avuto il merito di imprimere rilevante accelerazione al settore delle esecuzioni immobiliari ottenendo il risultato di giungere alla vendita in numerose procedure con chiara ed encomiabile inversione di tendenza rispetto al passato, quando le vendite erano rare se non addirittura assenti». La sezione disciplinare del Palazzo dei Marescialli, sulla scorta della relazione degli ispettori del ministero di Grazia e Giustizia, comincia le grandi manovre per l’assoluzione. Per il Csm «la buona fede riconosciuta dalla stessa indagine amministrativa al dottor Gualtiero M. nel tentativo di riorganizzare un ufficio ereditato in condizioni disastrose assume, alla luce dei dati di fatto acclarati, un significato determinante ai fini della valutazione del disvalore disciplinare delle irregolarità rilevabili nella sua condotta e induce a escludere che vi sia stata una compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario». Il 6 luglio 2007 Gualtiero M. viene assolto. Dopo aver letto questo libro, i cittadini potranno avere ancora fiducia nella magistratura? ALDO LIGABÒ
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iL BorGHeSe
a cura di Carla Piccioni Dino Artone So la sera Divinare convinto aggiogando parole tra lunghe chimiche e vocaboli attenti. So le storie di tutte le nostre epoche, le luci di luglio gli ottusi calvari i calendari dismessi del contendere. So le prestanze sgangherate dell'amore, i vezzi ruvidi delle corolle meccaniche, le mani buone di pianto che congedarono i sogni. So gli anfratti scombinati del vero l'intruglio dei viatici stenti i cantieri senza remore dei baci, le indifferenze di panchine lunghe d'attesa, le nuche perdenti. So le rondini, e i cieli del loro congedo la sera ventura. (respira reliquie l'altrove del tempo, nella guardiola del dubbio quegli occhi per sempre). rick BoyD Lo Scrittore Un tempo la parola aveva un valore e chi la usava dava un significato vero e sincero. oggi col computer nemmeno nel libro c’è una sincerità, perché questo telematico oggetto ti dà l’idea per scrivere. così la tua idea iniziale muore, e ne prosegue un’altra commerciale ma valida per chi leggerà il libro. Ma la bellezza della penna che costruiva i periodi e i personaggi che ne approfittavano costruendosi un ruolo anche da protagonista! Però alla fine si poteva decidere il da farsi oggi non esiste l’anima
perché il computer è una macchina fredda ed elettrica nient’altro! infatti quali libri vengono venduti? Argomenti squallidi e morenti per il futuro oppure parole stupide che vengono sunte come barzellette. raccontini fanciulleschi invenzioni o tiritera per bambini libri dicesi fiabeschi invenzioni computerizzati ma tutto sempre freddo gelido come non scritto computerizzato della parola fredda e gretta e lo scrittore? Quasi viene voglia di aver vergogna di esserlo. MASSiMo corSini Leggera menzogna Un cielo racchiudi nei tuoi occhi che mi inibisce la fuga dalle pessime verità quotidiane, che mi vedono diviso in piccoli pezzi disegualmente preoccupati. non mostro ansie che tacerti… vorrei ma… che sfuggono alla mia rete e che ricompaiono lampeggiando tra le mie concitate parole amare. così mi forzo in limiti austeri ed in rigorosi confini morali perché è giusto frenare sogni che rapidi ...in incubi nella notte ...si trasformano. troppi “forse” smantellano le mie certezze, caricando la mia vita di una asprezza che anela solo di essere vendicata. e ti dirò: “non è nulla… tesoro” martellando così il mio cuore, e regalandoti con animo dolcemente amorevole, una mia pesantissima ma… leggera…menzogna. MASSiMo De SAntiS Una linea Un orizzonte. Una linea sottile, a volte appena accennata, a volte perfettamente nitida. Una linea che talvolta sembra superare il blu antracite del mare per confondersi col celeste vivace del cielo. Una linea che talvolta, al tramonto, un tramonto pieno di angoscia o di speranza, sembra confondersi con il rosso cupo del sole che va a scomparire. Una linea talvolta invisibile, nelle grigie giornate di nebbia autunnale.
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80 La linea di demarcazione di una vita vissuta nel breve arco di un tempo che precipita nel nulla, o la linea di una nuova vita che ci appartiene: la linea della speranza. DAviDe GUALtieri dialogo poetico con me stesso per il mio cinquantaduesimo genetliaco voglio sì renderti omaggio. Di vecchiezza ormai tu adorno mostra fai ben al tuo intorno con un passo calmo e saggio. Pur ti fanno compagnia di dolor le terga punte, le interiora un po’ consunte (…è già colonoscopia!) Gioventù è sol ricordo, quotidian alzabandiera ora è solo una chimera! (il mio lazzo è pure sordo!) Spero invece che il tuo vada, sempre e sempre su alla meta, nella cella gran segreta, e mai prima ne ricada d’aver fatto il giusto botto. Siamo già a cinquantadue (sonnolento come un bue, ho l’affanno di un fagotto!) eppur grazia mi sovviene: con l’augurio mio più vero, sì senile ma sincero, io mi auguro ogni bene! tiziAnA MArini PAROLE Le PAroLe Si Sono FerMAte in QUeStA eStAte SiLenzioSA Di PArtenze Di roSe PieGAte Di veStiti ABBAnDonAti. Le PAroLe Si Sono FerMAte SUi ricorDi AccAtAStAti e SUL DiSorDine inGUAriBiLe Dei Miei PenSieri. Le PAroLe Si Sono FerMAte e GALLeGGiAno neL MAre cHe ci SePArA e orA ASPetto iL ritorno. Antonio MontAno La fede nel buio dell’anima scorgo un enigmatico groviglio che si dipana nell’inconscio mio
iL BorGHeSe
Marzo 2012
in una luce flebile che si espande a stento come fiammella che appare e poi scompare e si nasconde simile a fungo che dal nulla sboccia. dal nulla non nascono le cose. Solo la fede ha origine recondite e nell’oscurità germoglia con nebulosi nascimenti nella realtà che non appaga dove si reclamano stampelle per poter reggere agli urti della vita. la fede è umana perché peccaminosa e intrisa di egoismo nel desiderare finanche il sarchiapone e di vivere in eterno in mondi eterei di paradisi dove si può quel che ti pare. la fede pura non ce l’ha nessuno, ma solo i Santi non spogli di egoismo di confondersi con dio. la fede è potenza soprannaturale Perché capace di creare iddio ADoLFo SALA Voglia d’amore Se fossi più giovane potrei rapirti! poiché il mio sangue, è fatto d’amore e d’oblio. io amo il bambino, la natura, l’arte. Amo pure la donna, in ogni sua parte! il mio è vero, è un amore strano; perché potrei sempre, dirti t’amo! MicHeLe vAjUSo Un pomeriggio vent’anni che mi padre s’è involato, lui è pischello, io giorno a giorno moro; ciò ‘na preghiera da rivorge ar fato: d’arivedello sì che te lo sfioro. Assieme a camminà soli pe un prato, dietro a ‘n pallone córe, e lo rincoro, me basta un pomeriggio, e sò beato: quanno fa scuro er celo lo scoloro. Doppo ar cinema – che a noantri piace – e pe volè fà sì che riccontasse co le domanne più nu’ je do pace. Pe allungà er brodo pijo ‘gni pretesto, l’ora è sonata e tocca salutasse: te bacio e t’amo arivedecce a presto.
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