ISSN 1973-5936 “Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”
IL PA S D ER R V O O N E
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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 4 - APRILE 2012 - € 6
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Tra Cremlino e Vaticano introduzione di Roberto De Mattei traduzione di Milena Riolo
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“La mafia addosso” Intervistato da Barbara Romano
Julius Evola
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Aprile 2012
IL BORGHESE
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SOMMARIO DEL NUMERO 4 Mensile - Anno XII - Aprile 2012 - € 6,00 Piccola Posta, 2 È ora di svegliarsi!, di Claudio Tedeschi, 3 «E del cul fece trombetta», di Franco Jappelli, 6 Emergenza della politica, di Riccardo Paradisi, 8 Nati con la camicia, di Riccardo Scarpa, 9 Rivoluzione partecipativa, di Carlo Vivaldi-Forti, 10 «Revolution good-bye», di Federico Maffei, 12 Ed il Paese come reagirà?, di Filippo de Jorio, 13 Scendiamo in piazza, di Adriano Tilgher, 14 Sull’orlo dell’abisso, di Gennaro Malgieri, 15 Umberto il «pirla», di Gigi Moncalvo, 17 Le scale sante, di Ruggiero Capone, 19 Alemanno alla frutta, di Adalberto Baldoni, 20 Ospedali in rianimazione, di Felice Borsato, 21 Mala tempora …, di Mino Mini, 23 Da che pulpito vien la predica, di Mimmo Della Corte, 24 Addio, Italia, di Mary Pace, 26 «Dinasty» in decadenza, di Daniela Albanese, 28 Stupro di guerra, di Adriano Segatori, 29 Del maschilismo e del femminismo, di Gianfranco de Turris, 30 Laurea in disoccupazione, di Alessandro P. Benini, 31 Nel nome dell’antirazzismo, di Alfonso Piscitelli, 32 La laurea ed il suo valore, di Mauro Scacchi, 33 Il merito, di Hervé A. Cavallera, 35 «Ein Volk, ein Reich, ein Capital», di Emmanuel Raffaele, 39 Lavoratori al macello, di Antonio Saccà, 40 Contro il dominio delle Banche, di Antonella Morsello, 41 Il nuovo che avanza, di Enea Franza, 42 Schiavitù del debito, di Giampaolo Rossi, 44 Patriottismo africano, di Franco Lucchetti, 45 Il «colossal crack», di Daniela Binello, 46 Clonano il Nilo, di Alberto Rosselli, 48 Cuore di tenebra, di Andrea Marcigliano, 50 Vincere il futuro, di Francesco Rossi, 51 Putin Stravince, di Inna Khviler Aiello, 53 Riforme accellerate, di Gianpiero Del Monte, 54 È la stampa, bellezza!, di Giuseppe De Santis, 55 Italia sott’occhio, di Gianfranco Nibale, 56 L’angolo della poesia, 79
IL MEGLIO DE «IL BORGHESE» L’Italia del «duce moscio», di Mario Tedeschi La rivincita della tradizione, di Gianna Preda La Legge non è uguale per tutti, di F.D.
LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Erasmo Cinque-Per una nuova politica, 16 Romano Nicolini-Primi passi verso il Latino, a cura di Alessandro Cesareo, 36 Marcello De Angelis-Destra, Nazione e Popolo, a cura di Michele de Feudis, 37 Marcello Sartori-La scrittura, strumento per reagire al caos, a cura di Giuseppe Brienza, 61 Elena Pulcini-Invidia, la passione triste, a cura di Anna Maria Santoro, 62 Camillo Langone-«Bengodi, i piaceri dell’autarchia», a cura di Annarita Curcio, 72
Direttore Editoriale
LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile
CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net HANNO COLLABORATO Daniela Albanese, Adalberto Baldoni, Alessandro Barbera, Alessandro P. Benini, Maurizio Bergonzini, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello, Domenico Bonvegna, Felice Borsato, Giuseppe Brienza, Ruggiero Capone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Annarita Curcio, Michele De Feudis, Filippo de Jorio, Giuseppe de Santis, Gianfranco de Turris, Gianpiero Del Monte, Mimmo Della Corte, Alfonso Francia, Enea Franza, Agata Fuso, Franco Jappelli, Inna Khviler Aiello, Aldo Ligabò, Michele Lo Foco, Franco Lucchetti, Federico Maffei, Gennaro Malgieri, Andrea Marcigliano, Mino Mini, Gigi Moncalvo, Antonella Morsello, Gianfranco Nibale, Mary Pace, Paolo Emilio Papò, Riccardo Paradisi, Alfonso Piscitelli, Emmanuel Raffaele, Riccardo Rosati, Alberto Rosselli, Francesco Rossi, Giampaolo Rossi, Antonio Saccà, Anna Maria Santoro, Mauro Scacchi, Riccardo Scarpa, Adriano Segatori, Giovanni Sessa, Adriano Tilgher, Fernando Togni, Leo Valeriano, Carlo Vivaldi-Forti
Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma
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TERZA PAGINA La sinistra non si affaccia sulle foibe, di A. Francia, 57-Guido «Ambesà»!, di F. Togni, 58-Il tesoro delle collezioni orientali in Italia, di R. Rosati, 60-
PAGINE S.r.l. Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000
IL GIARDINO DEI SUPPLIZI Come non parlare di «Sanremo», di M. Lo Foco, 65-Serena e Sabina affondano «La7», di L. Valeriano, 66-L’Italia sta sempre alla finestra, di A. Ligabò, 67
LIBRI NUOVI E VECCHI Dopo Berlusconi ripartiamo dalle idee, di G. Sessa, 69- «Eccetto Topolino», di A. Barbera, 71Libridò, di M. Bernardi Guardi, 73-I Libri del «Borghese», di A. Fuso, 74-I nuovi pirati del Millennio, di D. Bonvegna, 75-Schede, di AA:VV., 76 Le foto e le vignette che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio.
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IL BORGHESE
Piccola Posta QUALE ETICA PER IL FUTURO? Non c’è da meravigliarsi se due bioeticisti italiani, seguendo le orme del filosofo Singer, arrivano ad affermare che «l’uccisione di un neonato potrebbe essere eticamente ammissibile in tutte le circostanze in cui lo è l’aborto». Se una Legge della Stato consente di eliminare un essere umano che deve ancora nascere, perché mai ciò non dovrebbe essere possibile con un neonato? Sono i frutti della metabolizzazione della 194, con buona pace di quei «pro-life» che continuano a richiedere di applicarla per intero. ENRICO PAGANO «EQUITALIA»: USURA DI STATO Quante volte abbiamo sentito questa frase? Tante. E, siccome vogliamo vederci chiaro, abbiamo studiato. Ed abbiamo riportato prove. Ne riportiamo soltanto tre. 1) La Corte di Cassazione (sentenza 4077) accoglie il ricorso di un contribuente campano il quale denunciava d’aver subìto un’iscrizione ipotecaria da parte di Equitalia per un debito di appena 916,93 euro. Eppure, l’utilizzo della misura cautelare ipotecaria è legittima soltanto per debiti tributari superiori ad 8.000 euro (art. 77 del DPR 602/73). La Cassazione ha accolto positivamente la denuncia del contribuente ed ha imposto a Equitalia uno stop all’utilizzo indiscriminato dell’ipoteca per debiti esattoriali.
2) Salvatore Cammisa, dirigente degli uffici di Caserta di Equitalia Polis SpA, è stato rinviato a giudizio per il reato di cui all’articolo 644 (commi 1, 3 e 5 numero 1) del Codice Penale: l’accusa è di applicazione di tassi usurari. L’imprenditore M.P., nel dicembre 2008, apprendeva da un estratto di Equitalia di esserle debitore per un importo di circa 100.000 euro. Chiesta e ottenuta una dilazione, iniziava a saldare rate da 10.000 euro mensili. Dopo aver saldato le prime rate, l’imprenditore era costretto a interrompere i pagamenti in conseguenza della crisi del suo comparto. Un anno dopo, nel dicembre 2009, a seguito di un secondo estratto relativo alla sua posizione, apprendeva con somma meraviglia che, in assenza di ulteriori notifiche di cartelle, il suo debito - che sarebbe dovuto diminuire in virtù dei pagamenti rateali effettuati - era invece aumentato a circa 200.000 euro. Equitalia, cioè, applicava gli interessi sugli interessi già maturati. La questione (Salvatore Cammisa) è allo studio della Magistratura. 3) Una cartella-beffa di Equitalia è stata recapita alla Sos Service di Cagliari, un’azienda consorziata con l’Aci per il soccorso stradale 24 ore su 24. Un debito da 5 centesimi si è trasformato in un conto di 62 euro. 1.240 volte superiore alla cifra iniziale. ALBERTO ROSSELLI
Aprile 2012 ed articolati alle misure legislative attuate o programmate e quindi irrealizzate del governo Berlusconi. Parole di devota ammirazione vengono riservate sia al magistrato Paolo Borsellino sia all’uomo Paolo Borsellino. Di Matteo scrive in una lettera il 19 luglio 2011, anniversario dell’eccidio, tra l’altro , di aver scoperto dall’analisi dei provvedimenti assunti da Borsellino, dai suoi interventi, dalle sue testimonianze pubbliche «la grande umanità, la forza morale e religiosa che si accompagnava» alla sua professionalità e indipendenza. Non è notato neanche di sfuggita che le qualità nascevano ed erano nutrite dalle idee politiche di una Destra seria, rigorosa, preoccupata di salvaguardare lo Stato. Una Destra, comunque non destinata all’estinzione, se terrà come modelli Fausto Gianfranceschi, scomparso da qualche settimana, e Paolo Borsellino, caduto da circa un ventennio, rimanendo estranea sia alla tecnocrazia materialista di Monti e di Passera sia a mentalità e a linee operative tutt’altro che oneste e tutt’altro che limpide. VINCENZO PACIFICI
PER UNA DESTRA SERIA E RIGOROSA Ho appena concluso la lettura del libro-intervista del giornalista Loris Mazzetti ad uno dei più impegnati pm antimafia Nino Di Matteo. Dalle pagine emergono notizie scottanti e delicate sul complesso mondo siciliano e sulle sue connivenze con la politica e non mancano attacchi espliciti
Le lettere (massimo 20 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net
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IL BORGHESE
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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 4 - APRILE 2012
È ORA di svegliarsi! di CLAUDIO TEDESCHI Roma, 18 marzo 2012 IN QUESTE Idi di marzo, l’Espresso ha pubblicato un servizio sui presunti finanziamenti che il senatore Lusi, ex tesoriere della «Margherita», avrebbe girato nelle casse della fondazione di Francesco Rutelli. Conoscendo la facilità di Rutelli a querelare per milioni di euro, restiamo nell’ipotesi. «Er Cicoria» ha indetto una conferenza stampa per attaccare Lusi e smentire completamente il servizio del periodico. «Quanto pubblicato su l’Espresso sono cazzate», ha affermato in diretta ai giornalisti l’ex sindaco di Roma, calcando sull’uso di un linguaggio politico, solitamente attribuito al Cavaliere, prima dell’avvento della Controriforma montiana. Secondo le affermazioni di Lusi, quasi un milione di euro avrebbe preso la strada della fondazione di Rutelli (freudiano il nome, «Centro Futuro sostenibile»!). Perché in una Fondazione? Perché da quando il Cavaliere aveva costretto l’Italia al bipolarismo, i partiti erano una razza in via di estinzione; ad essi, si iniziarono a sostituire le Fondazioni. Come si sa, le Fondazioni non vivono di aria, ma grazie alle «opere di bene». Come ha detto tempo fa Giuliano Ferrara «la politica costa» ed ecco il perché questo «bene» tende a tradursi in «denaro pubblico». Sia chiaro, la politica «ufficiale e legittima» deve essere finanziata dallo Stato, per evitare «appoggi esterni», è logico. Altrettanto logico, però, è che il denaro pubblico non deve servire a mantenere fondazioni, quasi sempre private. In fondo, se negli ultimi anni hanno proliferato un motivo ci sarà. Torniamo al «Cicoria». La sua fondazione nacque quando era sindaco, poi passato l’Anno Santo andò «in sonno»; soltanto nell’ultima legislatura Rutelli le ha ridato «slancio». Guarda caso, quando alla fine del 2009, in polemica con il Pd troppo «sinistrorso», il Nostro piazza sul mercato della politica l’Api. Una formazione che mirava ad inserirsi in quel «Terzo polo» fino allora appannaggio del dc Casini. Qualche mese dopo ci sarà lo «schiaffo di Roma» con l’uscita di Fini dal Pdl, la nascita di Fli ed ecco la terza gamba del «Terzo polo». Il cerchio si chiude. Allora direte, perché l’Espresso se ne interessa? In fondo non c’è di mezzo il Cavaliere. Per capire il senso dell’articolo occorre ricordare chi è l’editore del periodico, cioè Carlo de Benedetti. L’uomo che entrò in Ambrosiano ai tempi di Calvi e ne uscì con oltre 50 miliardi di lire. L’uomo che stava per impossessarsi della Mondadori e che dopo una serie di processi è riuscito a far condannare Berlusconi ed intascare 560 mi-
Il Borghese - aprile 2012 pagina 3
lioni di euro. L’uomo che si è sempre detto avesse la tessera n. 1 del Partito democratico. Oggi de Benedetti tira le fila del suo movimento «Libertà e Giustizia» e recentemente ha organizzato una manifestazione alla quale hanno partecipato i migliori nomi di quella «borghesia di sinistra», da Lerner a Saviano, da Pisapia a Zagrebelsky, che guarda al 2013 come «l’anno che verrà» della conquista del potere. Fra le tante ipotesi di una sinistra «politica», quella di de Benedetti è sicuramente la più «definita». Il convegno di Milano ha evidenziato il dissenso della intellighenzia radicalchic nei confronti del governo Monti, accusato di non aver fatto quanto si sperava ma di aver ricalcato le orme del tanto odiato Cavaliere. Per i nuovi alternativi la «politica deve tornar a far politica veramente», e pur ripetendo che il «governo Monti è il miglior governo che ci si poteva augurare in questo momento», CdB si augura che il Professore alla scadenza della legislatura si tolga di torno per lasciare spazio ai partiti. Gustavo Zagrebelsky, intervenuto alla convention milanese, dichiara «che la politica deve rifondarsi, e rioccupare il suo campo. Che i partiti devono decontaminarsi, da autoreferenzialità e corruzione. E poi aprirsi, finalmente: all’aria nuova, a volti nuovi». E chi sarebbero i nuovi volti? Ma quelli di «Libertà e Giustizia»!, a cui il Governo Monti fa un po’ schifo: «Lo dobbiamo accettare come una medicina»,. ma «quello che inizialmente è farmaco diventa veleno: senza politica, non ci può essere libertà e democrazia». Questo è quanto è accaduto in pubblico, ma la realtà è, secondo noi, molto diversa. Monti e De Benedetti fanno parte, a livello internazionale, di quegli stessi club a cui appartengono uomini come Draghi, Prodi e coloro che gravitano intorno alla galassia Bildberger. Sia Monti che CdB sanno che Pd e Pdl sono logori, così come nel 1992 erano logori Dc, Psi e Pci. CdB conta su Monti per poter arrivare alle elezioni del 2013 con un nuovo movimento politico, in grado di sostituire l’asfittico Pd. Ecco il perché, in piazza, l’Ingegnere si porta persone come Saviano, Lerner, Pisapia, nani e ballerine. La strategia è più che fondata, ma per un movimento che vede le sue origini all’interno di quell’ambiente radical-chic che è il gruppo di Repubblica il limite sta nella incapacità di sedurre le folle. Cosa che invece, vent’anni fa, riuscì al Cavaliere, che seppe occupare rapidamente, con uomini e carisma, il vuoto lasciato dalla prima repubblica. I partiti della cosiddetta seconda repubblica sono ormai cotti, il gradimento verso la politica e coloro che la rappresentano è crollato quasi a zero. Nello scenario prossimo futuro si apre una prateria, nella quale nuove forze politiche possono scrivere nuove pagine. La sinistra lo sa ed ha iniziato a muoversi. Il caso di Rutelli ne è la prova. Togliendo di mezzo «Cicciobello», e considerando ormai finita l’esperienza di Fini, il Terzo polo è Casini. Con lui de Benedetti sa come muoversi e quali parole usare … A destra, invece, nulla si muove … non sarebbe ora di svegliarsi?
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per tradizione
Crisi economica, corruzione, caste intoccabili, nessun ricambio della classe politica, perdita dei princìpi spirituali dell’uomo e della comunità nazionale:
VUOI REAGIRE? Aderisci pure tu ai Circoli de
Per tutti coloro che si assoceranno e che sono già abbonati del «Borghese», la quota 2012 sarà già compresa nell’abbonamento …………………...……..……………………………………………...………………………………........ SCHEDA DI ISCRIZIONE COGNOME ……………………………………………….. NOME …………..………………………………………… NATO A …………………………………………………. PROV …… IL ___/___/______ DOMICILIATO A ………………………………………… PROV …… CAP ……………... VIA ………………………………………………………… N. ….. INT ….. SC ………… TEL/AB ……………………….. TEL/UFF …………………….. CELL ………………… EM@IL ………………………………………………………………..@.......................................... DATI PERSONALI TITOLO DI STUDIO…………………………………………………. PROFESSIONE ……………………………… ATTIVITÀ …………………………………………………………… ABB. NUM. ………………………………….. Dichiaro di accettare le norme dello Statuto, i programmi e le direttive dell’Associazione dei Circoli del «Borghese» Ricevuta l’informativa sull’utilizzazione dei miei dati personali, ai sensi dell’Art. 10 Legge 675/9, consento al loro trattamento nella misura necessaria per il proseguimento degli scopi associativi. DATA ___/___/______
FIRMA ______________________________________________
(DA INVIARE PER FAX ALLO 06/39738771 oppure CIRCOLIBORGHESE@EMAIL.IT)
liberi
per tradizione
Grazie a coloro che hanno aderito in gran numero ed invitiamo tutti a fare opera di proselitismo, costituendo sempre più nuovi «Circoli» (minimo 10 soci). Tutti coloro che hanno documenti visivi possono inviarli, noi provvederemo a metterli in rete sul sito www.il-borghese.it
SALVIAMO L’ITALIA 1) Dai professori che stanno portando alla rovina lo Stato per venderlo a saldo 2) Da una Lega che ha fallito il suo progetto, ma non se ne è accorta 3) Dai «mercenari» della politica, che fanno le «manovre» per non pagare le tasse 4) Dalla dittatura delle «lobbies» che guardano ai cittadini come pecore da tosare 5) Dalla presenza dell’euro, arma letale del potere finanziario internazionale 6) Dall’invasione straniera nel nome di una cooperazione a senso unico 7) Dall’assassinio della cultura commesso dai «reality» 8) Dalla vecchia politica che non ha capito di essere ormai preistoria 9) Dalla schiavitù economica delle banche che porta il Paese al suicidio per debiti 10) Dalla vita sociale «sepolta» sotto i «partiti-spazzatura» Estratto dallo Statuto costitutivo dei «Circoli del Borghese» Art. 3 - Scopo e finalità L’associazione è senza fini di lucro ed opera senza discriminazione di nazionalità, di carattere politico o religioso. Si propone di promuovere ogni iniziativa culturale e politica tesa a restituire al cittadino il senso del dovere e l’etica della responsabilità. Denunciare il malcostume nel contesto politico, economico e sociale. Avversare caste e privilegi in ogni comparto della società. Educare le nuove generazioni ad assumere l’impegno di essere futura classe dirigente, onesta, libera, professionale e responsabile A questo fine si predispone per svolgere qualsiasi attività si ritenga necessaria al perseguimento degli scopi istituzionali con particolare attenzione a: Organizzazione e promozione di incontri, dibattiti e pubblicazioni per incidere nel processo culturale e sviluppo della Nazione. Esercitare, in via meramente marginale e senza scopi di lucro, attività di natura commerciale per autofinanziamento: in tal caso dovrà osservare le normative amministrative e fiscali vigenti. L'Associazione ha facoltà di organizzare, anche in collaborazione con altri enti, società e associazioni, manifestazioni culturali connesse alle proprie attività, purché tali manifestazioni non siano in contrasto con l'oggetto sociale, con il presente Statuto Sociale e con l'Atto Costitutivo. Le attività di cui sopra sono svolte dall'Associazione prevalentemente tramite le prestazioni fornite dal propri aderenti. L'attività degli aderenti non può essere retribuita in alcun modo nemmeno da eventuali diretti beneficiari. Agli aderenti possono solo essere rimborsate dall'Associazione le spese effettivamente sostenute per l'attività prestata, previa documentazione ed entro limiti preventivamente stabiliti dall'Assemblea dei soci. Ogni forma di rapporto economico con l'Associazione derivante da lavoro dipendente o autonomo, è incompatibile con la qualità di socio.
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IL BORGHESE
IN RISPOSTA ALL’ATTACCO A DANTE
«E DEL CUL fece trombetta» di FRANCO JAPPELLI TUTTO sommato c’era da aspettarselo. Il «politicamente corretto», autentica piaga dei nostri giorni cinici e smagati, non soltanto è diventato più dogmatico, fondamentalista, totalizzante e insindacabile della peggiore delle religioni e delle ideologie, ma si è tramutato anche un Moloch insaziabile che ha bisogno, per vivere ed espandersi, di alimentarsi di sacrifici quotidiani. Il mostro, ormai, non si ferma davanti a nulla. Neanche di fronte al ridicolo. E questo spiega perché, qualche settimana fa, i giornali hanno dato ampio risalto alla notizia che una organizzazione non governativa di ricercatori e professionisti, Gherush92 (particolarmente «blasonata» in quanto consulente speciale del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite) ha chiesto che la Divina Commedia venga eliminata dai programmi scolastici in quanto contiene «stereotipi, luoghi comuni, frasi razziste, islamofobiche e antisemite». Valentina Sereni, presidente di Gherush92, ha infatti dichiarato che il poema di Dante «presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo». Sotto accusa, in particolare, alcuni canti dell’Inferno, tra i quali il XVI dove si parla della punizione riservata agli omosessuali, costretti a correre sotto una pioggia di fuoco, il XXVIII (quello di Maometto «rotto dal mento infin dove si trulla») e il XXXIV (quello di Giuda, dove il significato negativo di giudeo sarebbe esteso a tutto il popolo ebraico) e del Purgatorio, come il XXVI (quello dove sono puniti i lussuriosi e i sodomiti). «Non invochiamo né censure né roghi», ha precisato Sereni, «ma vorremmo che si riconoscesse senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti offensivi e razzisti e categorie discriminate. L’arte», ha concluso, «non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico». Naturalmente la proposta di Gerush92 è stata accolta, com’è logico e naturale, da un tripudio di pernacchie da parte di tutte le persone di buon senso. I social network sono stati letteralmente intasati dai messaggi in difesa del Padre Dante e della sua opera. Durissimi anche i commenti degli «addetti ai lavori». Per Maurizio Cucchi, poeta, critico letterario e traduttore «i vantaggi che si possono trarre dalla lettura e dallo studio della Divina Commedia sono così tanti che affermazioni di questo genere sono soltanto ridicole». «Se non si capiscono i vantaggi che un poema come la Divina Commedia, che forse è il più grande di tutti i tempi e di tutte le letterature, è in grado di dare, siamo davvero di fronte alla dittatura dell’ignoranza.» «Ma è uno scherzo?», si è invece chiesto Edoardo Nesi, premio Strega 2011. «Il nostro passato non si cancella. La Divina Commedia fa parte della storia della letteratura mondiale: bisognerà che questa idea revisionista che gira per il mondo si plachi prima o poi. E che qualcuno rientri
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nel senso comune. È come se si volesse raddrizzare la Torre di Pisa», ha aggiunto lo scrittore, «come se il passato dovesse essere piegato alle esigenze più bizzarre del presente. Sono del tutto contrario a queste proposte.» Anche per l’attore Gigi Proietti la proposta censoria di Gerush92 va bocciata senza appello. «Non mi risulta che Dante sia stato diseducativo per qualcuno», sostiene, «altro che cancellare lo studio della Divina Commedia, fosse per me nelle aule si dovrebbe dare più spazio al latino.» Particolarmente degno di nota per la sua obiettività, infine, il commento di Franco Grillini, presidente di Gaynet, «la Divina Commedia», afferma l’ex presidente dell’Arcigay, «va contestualizzata nel periodo in cui è stata scritta. Io che pure sono un fautore del politicamente corretto credo che in questo caso si esageri, che ci sia un eccesso di politically correct.» La vicenda potrebbe, a questo punto, dirsi conclusa. Rimane tuttavia da chiarire come mai questi allegri mattacchioni di Guresh92 abbiano ottenuto lo status di consulenti economici e sociali dell’Onu e partecipino ai summit di importanti istituzioni internazionali che si occupano di lotta al razzismo e di difesa della diversità. Visitando il loro sito si apprende, infatti, che quella contro la Divina Commedia «razzista e omofoba», non è che una delle loro numerose e deliranti battaglie contro l’implicito razzismo di alcune opere d’arte. A Guresh92, a quanto pare, non vanno a genio neanche i quadri a tema religioso del pittore olandese Hieronimus Bosch in quanto gli ebrei vi sono rappresentati con il naso adunco, i capelli crespi e l’occhio malvagio. Bocciata anche la Cappella Sistina in quanto rea di essere «un’opera antisemita di regime. Le rappresentazioni tratte dall’antico Testamento e dalla tradizione pagana, estrapolate dalla propria tradizione culturale e opportunamente manipolate e falsate, celebrano Gesù quale unico vero salvatore dell’umanità, cosa evidentemente non vera». Siamo al delirio! A parte l’indubbio valore artistico dell’opera di Michelangelo vale qui la pena di sottolineare che la Cappella Sistina si trova all’interno del Vaticano, cioè di uno Stato confessionale il cui inno comincia, per l’appunto, con le parole «Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat». Ora, a questo mondo, ognuno la può pensare come vuole, ma chiedere al Papa e a tutta la Chiesa cattolica di non credere che Gesù è il vero ed unico Salvatore dell’umanità francamente sembra, oltre che assurdo, del tutto inaccettabile. La «ditta» di San Pietro, se ci si consente la battuta che non vuole essere sacrilega, potrebbe a questo punto chiudere i battenti. E non si comprende, a questo punto, perché se è giusto e doveroso rispettare gli ebrei che ancora aspettano il Messia non debba essere altrettanto giusto e doveroso rispettare la convinzione dei cristiani che il Messia sia già arrivato
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lunedì 19 marzo 2012 19.21 Colore campione 1
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e che si chiami Gesù. Ma chi sono gli «antirazzisti» di Gerush92? Il termine gerush, in ebraico, significa «espulsione» e si riferisce alla cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Uniti ufficialmente nel nome della «tolleranza» e del rispetto della diversità quelli di Gerush92 praticano, in realtà, la più bieca e ottusa delle intolleranze nei confronti dei non ebrei. Il loro fondamentalismo, in effetti, non risparmia nessuno. Neanche quegli ebrei non allineati con il loro integralismo ortodosso. Nel sito, per esempio, viene così commentato il dono, da parte delle autorità israeliane, di un albero, quale simbolo di pace, al Pontefice. «Succede un fatto ignobile e grottesco», scrivono quelli di Gerush92, «un ulivo plurisecolare è stato sradicato dalle colline di Nazareth e donato al nemico, in segno della cosiddetta amicizia ebraico-cristiana, espressamente suggellata dal ricordo del miserabile Paolo di Tarso, il teorico della distruzione della diversità, dei pagani, della legge ebraica e il teorico della conversione degli ebrei al cristianesimo. Tutto questo da parte di alcuni ebrei che si sono erti, inopinatamente, a rappresentanti della “nazione ebraica”. «È drammatico che un albero plurisecolare sia stato sradicato e trapiantato, è ripugnante che il dono sia stato fatto celebrando Paolo, è disdicevole che sia stato fatto a nome di tutti gli ebrei, è grottesco che lo sradicamento dell’albero sia stato gestito da un’organizzazione che si autodefinisce ecologista. Con questo ulivo di quattrocento anni, sradicato e ripiantato nel “piccolo acro di Dio, il giardino del papa sulle colline vaticane” il sedicente rappresentante della “nazione ebraica” ha espresso, con intenzione, gratitudine al papa per aver ricordato agli ebrei “che l’albero di ulivo è l’immagine che San Paolo ha utilizzato per descrivere la relazione tra i cristiani e gli ebrei: come il cristianesimo sia un ramo di ulivo innestato nell’albero coltivato rappresentato dall’ebraismo (Lettera ai Romani, 11,17-24).” Il sedicente rappresentante della nazione ebraica cita la Lettera ai Romani, insieme al nemico, mistificandone il significato; parli per sé e non a nome degli ebrei.» Come esempio di tolleranza non c’è male! Questi preparatissimi consulenti dell’Onu, ad ogni buon conto, non si occupano soltanto di razzismo e opere d’arte «politicamente scorrette». Uno dei loro chiodi fissi, infatti, è la difesa ad oltranza delle tradizioni ebraiche a cominciare dalla cucina kosher. Inserendosi in una disputa tra rabbini, quelli di Gerush92 precisano, infatti, che a loro avviso «le Istituzioni ebraiche dovrebbero insegnare affinché ciambellette e cavallette diventino parte integrante della tradizione locale e del minhag e affinché antiche tradizioni, usi, minhagim, nel tempo dimenticati omessi e vietati, siano ripristinati; in particolare, a Roma, riabilitare l’uso corretto della farina durante pesach e, in generale, studiare, discutere ed insegnare affinché siano riconosciute e riutilizzate, a scopi alimentari, le locuste e altri insetti, permessi dalla Torah e in uso nelle comunità ebraiche, ad esempio marocchine e yemenite». Ora, noi ci guardiamo bene, anche per non essere accusati di razzismo, di criticare questa faccenda delle cavallette e delle locuste. Ognuno, lo ripetiamo, a casa sua fa quello che vuole. Quello che tuttavia non riusciamo a comprendere è come una simile orga-
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nizzazione, patentemente fondamentalista e intollerante, abbia potuto essere accreditata presso l’Onu. Anche perché, a voler essere obiettivi, è facile rendere a Gerush92 pan per focaccia. Omofoba e razzista la Divina Commedia? Bene, allora per «par condicio» vietiamo anche la lettura della Bibbia e della Torah che, in quanto ad omofobia e razzismo non scherzano. Nel Levitico è infatti scritto: «Se uno ha con un uomo relazioni sessuali come si hanno con una donna, tutti e due hanno commesso una cosa abominevole; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro». A questo punto che facciamo? Oltre che con Dante, Boccaccio, Shakespeare, Chaucer e via elencando ce la prendiamo anche con il «Principale»? Quel «Principale» che a quanto pare ha nei confronti del «popolo eletto», a detta del medesimo, una predilezione particolare. Tanto è vero che nella Bibbia nel salmo 2,8-9 proclama: «Io ti darò in eredità le genti e i confini della terra per tua possessione. Tu le spezzerai con verga di ferro, li frantumerai come vaso d’argilla». E poi, perché non vi fossero dubbi sui metodi da usare precisa, nel Salmo 37: «Figlia di Babilonia, votata alla distruzione, beato chi prenderà i tuoi pargoli e li sbatterà contro la roccia». E che dire del Talmud, dove si può leggere (Abogad Zarah, 26b) «Il migliore tra i non ebrei uccidilo» oppure «Voi Israeliti siete chiamati uomini, mentre le nazioni del mondo sono da chiamarsi bestiame» (Baba Mezia, 114, col.2)? Naturalmente, osserveranno gli ebrei più accorti e intelligenti, certe frasi vanno «contestualizzate». Bene, ma allora perché il Talmud sì e la Divina Commedia no? Qualcuno obietterà che la Bibbia, la Torah, il Talmud e via pregando appartengono alla sfera religiosa e fanno parte dell’identità di un popolo. Certo, ma anche la Divina Commedia, a ben guardare, è, oltre che un’opera d’arte, il grande libro sacro degli italiani. Quel libro grandioso segna infatti a nascita della nostra lingua e, quindi, della nostra identità nazionale. E oltre la lingua, che non è poco, nella Divina commedia c’è anche tutto il nostro carattere di italiani, i nostri umori più intimi e riposti e, perché no?, il senso profondo della nostra «missione» nel mondo. A noi, onestamente, Dio non ci ha comunicato un bel nulla e non ci ha rilasciato alcuna patente speciale. Ma è proprio grazie a Dante che sappiamo, con assoluta certezza, di essere un popolo di santi, di eroi e di poeti.
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MONTI NON TOGLIERÀ IL DISTURBO
EMERGENZA della politica di RICCARDO PARADISI TRA tredici mesi scade la legislatura, tra dodici il mandato del presidente della Repubblica, tra sei mesi comincia il semestre bianco. Basterebbe già questa costellazione di fattori a rendere delicato l’anno politico 2012-2013 A renderlo addirittura eccezionale è invece il tramonto, sempre più evidente e accelerato, della Seconda Repubblica e dei suoi attori principali, ossia dei partiti politici italiani usciti dal grande terremoto politico giudiziario del biennio ‘92-’94, quando a disintegrarsi fu la Prima Repubblica. Non mancano del resto costanti e similitudini strutturali tra la situazione di oggi e quella di ieri. Fattori di politica internazionale anzi tutto: ieri la fine dell’ordine bipolare, con l’implosione dell’Unione sovietica e l’apertura dei mercati europei, oggi le dinamiche della globalizzazione e della crisi finanziaria. Mutamenti di schema politico interno: ieri la fine del blocco di potere e di interessi del cosiddetto pentapartito oggi l’eclissi del berlusconismo e della speculare alternativa di centrosinistra ruotante intorno a un partito, il Pd di Pierluigi Bersani, senza bussola strategica e insidiato dall’opa ostile dei suoi concorrenti più diretti, Sel e Idv, capaci di portare fendenti profondi in occasione delle primarie. Inchieste politico-giudiziarie. Ieri come oggi una catena di inchieste della magistratura che a differenza di 20 anni fa, quando il Pci fu sostanzialmente lasciato al riparo dal ciclone di «Mani pulite», coinvolge invece tutte le forze politiche, incluso il Pd. Forze politiche il cui credito presso gli Italiani s’inabissa ormai a un 8 per cento di stima popolare che significa, tradotto altrimenti, un 72 per cento di sfiducia quando non di esecrazione. A differenza però che nel biennio ‘92-’94 all’orizzonte non c’è nemmeno qualche nuova o vecchia forza politica rimasta esclusa dal sistema che possa catalizzare la speranza o l’illusione di un rinnovamento, come vent’anni fa fu invece il caso, e per diversi motivi, di Lega, Forza Italia, Rete, Msi e Pci poi Pds. Oggi la stessa Lega, l’unico partito d’una certa rilevanza a porsi esplicitamente all’opposizione del governo Monti, appare come
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una forza politica in crisi profonda, coinvolta pesantemente nella nuova questione morale con una serie di casi - dalla vicenda lombarda al caso Credieuronord - che contribuiscono alla spaccatura interna tra i pretoriani di Bossi e la corrente maroniana. È dentro questo scenario drammatico che il governo tecnico di Monti, imposto all’Italia dai mercati, dall’Europa e reso inevitabile dall’impotenza dei partiti e della politica italiana, s’è preso l’incarico, dopo un ampio mandato parlamentare, di traghettare il Paese fino alla fine della legislatura. Una soluzione avallata, obtorto collo, da Pd e Pdl consapevoli che l’unico modo per ottenere una dilazione al loro fallimento era proprio quello di fare un passo indietro e lasciare il campo a un governo tecnico-istituzionale. Un esecutivo che non avrà un consenso plebiscitario ma che pure - malgrado sacrifici imposti spesso senza equità e con infortuni comunicativi al limite dell’autolesionismo - gode del 52 per cento di fiducia degli italiani. Un dato clamoroso che da un lato si può leggere con un atavica inclinazione nazionale ad affidarsi all’uomo forte del momento dall’altro alla totale sfiducia riservata alle forze politiche tradizionali, realisticamente percepite come incapaci di affrontare crisi economica e nodi strutturali del Paese. Una sfiducia che si tradurrà in una lezione severa per i partiti alle prossime elezioni. Dove la Lega viene data in picchiata in tutto il nord, il Pdl in grave emorragia - tanto da rischiare di cedere al Pd 9 grandi comuni del nord - e un Pd attestato al 26-27 per cento ma talmente dilaniato da faide interne da trasformare la sua affermazione in una vittoria di Pirro, visto che a capitalizzarla saranno i concorrenti a sinistra del partito di Bersani: l’Idv di Di Pietro e la sinistra radicale di
NUDI ALLA META
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Vendola. Una prospettiva che spiega i mal di pancia di Bersani nell’affiancamento alla navigazione del governo, il suo porre l’accento sul Pd come alternativa alla destra (proprio mentre insieme alla destra sostiene l’esecutivo di Monti), i suoi distinguo, la rievocazione dell’intesa di Vasto come possibile schema di gioco nelle elezioni del 2013, pur nella consapevolezza che quella coalizione si schianterebbe sugli scogli al primo voto di politica estera o sulla riforma del lavoro. Se questa è la fotografia del panorama politico italiano sarebbe allora da ingenui pensare che Monti possa togliere il disturbo a scadenza del mandato di legislatura. Del resto il presidente del Consiglio ha già fatto capire che di tornarsene alla Bocconi non ha proprio nessuna intenzione. Intervistato da Bloomberg così dichiara il premier: «Non è probabile un secondo mandato dell’attuale premier se l’esecutivo riuscirà a raggiungere gli obiettivi che si è posto». E ancora: «Se facciamo molto bene il lavoro con i miei colleghi di governo non penso sia molto probabile che mi chiedano di restare». Proprio così: non ci sono errori o omissioni di battitura nel testo. È la maniera ellittica e sorniona di Monti di mostrare la necessità della propria permanenza nella cabina di regia. Necessità di cui i primi a rendersi conto, malvolentieri, sono gli stessi partiti. Del resto si tratta di essere realisti: chi infatti sic stanti bus rebus - potrebbe permettersi il lusso di chiedere a Monti di farsi riconsegnare la cloche? Non certo il Pdl che vive una difficile transizione post berlusconiana e il trauma profondo del divorzio con la Lega, il partito che gli ha permesso d’essere forza egemone di governo fino ad oggi e con la quale la rottura sembra ormai davvero «irreparabile» come l’ha definita il presidente del Senato Schifani. Non certo il Pd, per i motivi appena esposti; non certo Udc e Terzo polo, che investono proprio sull’interregno Monti per la realizzazione di una riforma profonda del sistema politico in senso neo-proporzionale di modo da rendere magnetico il centro politico e di attirare in questo spazio le ali più moderate di Pd e Pdl. Dunque, tranne clamorose sorprese, tutte possibili con questi chiari di luna, Mario Monti resterà in sella e in campo. Con quale ruolo e funzione è da capire. C’è chi dice che l’attuale premier potrebbe insediarsi al Quirinale ma l’ipotesi più accreditata è che possa invece essere riproposto dagli stessi partiti che oggi lo sostengono proprio alla presidenza del Consiglio. E questo in virtù di una nuova maggioranza parlamentare che potrebbe ricomporsi nel solco della grande coalizione tedesca, opzione d’altra parte già presa in considerazione e poi accantonata all’indomani delle elezioni del 2008. Un’ipotesi a cui potrebbe accompagnarsi l’altra: il congelamento cioè di Giorgio Napolitano - grande sponsor di Monti e garante degli attuali equilibri parlamentari - alla presidenza della Repubblica. Tanto più che a Berlusconi basterebbe ormai un ruolo da padre nobile della nuova repubblica e soprattutto una sospensione delle ostilità giudiziarie. Un mutuo utilizzo quello tra Monti e i partiti che somma insieme due forze e due debolezze ma che sancisce soprattutto lo stallo della politica italiana e dei suoi attori, costretti a farsi usbergo d’un supplente autorevole nel tentativo di prendere tempo e recuperare almeno un minimo di credito e consenso. Un obiettivo ambizioso, per il quale non basterà «il soffio magico» - come lo chiama Follini - di una costituente o di una nuova legge elettorale che reintroduca collegi e preferenze. Come se fossero la legge elettorale o le riforme istituzionali e non una solida cultura politica e criteri di selezione meritocratica a produrre classi dirigenti dignitose. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
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A DESTRA TRA LODEN E BANDANE
NATI CON la camicia di RICCARDO SCARPA DAGLI inizî di Marzo, lo scontro interno alla Sinistra italiana, rappresentato dalla contrapposizione fra Nichi Vendola e Walter Veltroni verte, in buona sostanza, sulla mancanza d’idee e programmi da contrapporre ad una: «Destra colta ed in loden». Arturo Diaconale ha rilevato subito, dalle colonne della sua storica L’Opinione cavouriana, la novità rispetto una Sinistra spocchiosa che, forte d’un egemonia culturale teorizzata da Antonio Gramsci ma ottenuta da Palmiro Togliatti e successori, gratificò sempre la Destra d’essere impresentabile ed incolta, fatta di picchiatori neofascisti ed acquirenti di voti qualificati come prezzolati, con metodi di scambio che andarono da quelli più alla buona attribuiti ad Achille Lauro nella sua Napoli, sino a Silvio Berlusconi con la sua bandana ed i festini ad Arcore od a Palazzo Grazioli. Sorvoliamo pure sul fatto che quella Sinistra strafottente abbia per decennî schiaffato a Destra forse l’uomo più colto della classe politica della prima repubblica, Giovanni Malagodi, liberale che fu sbrigativo ed arbitrario considerare di Destra, così come l’altrettanto colto Edgardo Sogno Ratta del Vallino, liberale anch’egli ma che di Destra realmente lo fu (i quali, tra parentesi, entrambi usarono spesso un loden per cappotto). Lo stesso Arturo Diaconale notò che se, peraltro, la Destra in loden governa e fa le riforme, ad iniziare dal mercato del lavoro, può fare tutto in quanto ha l’appoggio dell’«impresentabile» Destra berlusconiana, che è quella che ha avuto i voti, e che probabilmente li riavrà, data una Sinistra che avrebbe stravinto se fosse andata alle elezioni nella crisi dell’ultimo governo Berlusconi, ma non ci andò in quanto, poi, non avrebbe saputo come governare la Nazione in recessione economica. Insomma, la Destra in loden si sostiene sulla Destra in bandana. Nel discorso manca peraltro il classico convitato di pietra, la Destra in camicia! Già, perché questo indumento non rievoca semplicemente l’«impresentabile» camicia nera, ma anche la camicia azzurra dei Nazionalisti e, quasi dimenticate nella storia delle sartoria politica, le camicie grigioverdi dei giovani liberali del primo Partito Liberale Italiano, quello rifondato sul precedente Partito Giovanile Liberale nel 1922. Camicie grigioverdi che ricordarono quelle dei combattenti della Grande Guerra, nascosta sotto le quali molti interventisti ne portarono una rossa, a memento dell’ascendenza garibaldina dell’irredentismo. La dimenticanza della Destra in camicia non è, però, casuale, in quanto rimanda al vario e non univoco panorama ideale della Destra italiana che fu, e che non nacque tutto a Destra. Anzi, per essere veritieri, a Destra nacquero soltanto le camicie azzurre dei Nazionalisti, ma quella camicia rossa nascosta sotto la divisa del Regio Esercito durante la prima guerra mondiale dice quanto molte di queste visioni ideali trasmigrarono a Destra perché spintevi dagli umori antinazionali d’una Sinistra che ripudiò il Risorgimento, in nome d’un internazionalismo di classe antiborghese.
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Ricordare la Destra in camicia, però, implica due cosette. Innanzitutto rammentare quanto la Destra italiana fu un tempo una opzione culturale, l’adesione ad una sorta di federazione di filosofie politiche diverse, unificate da un programma organico di rappresentanza della Nazione come comunità d’identità. In secondo luogo che l’economicismo bocconiano della Destra in loden spesso contrasta col farsi carico, da parte della Destra in camicia, di quelle esigenze sociali messe tra parentesi dalla Sinistra, nel momento in cui l’unica sofferenza che provoca la Destra in loden a Massimo d’Alema è l’inasprimento della tassazione sulla sua barca. Il che implica un’altra cosuccia e pone un’altra questione: s’ha l’impressione che anche la Destra in bandana stavolta fatichi a riottenere il consenso senza la Destra in camicia, che però, e questa è la questione, non ha oggi una rappresentanza politica. Infatti: l’Alleanza Nazionale si dissolse nel Popolo della Libertà; Gianfranco Fini è come l’anima del morente imperatore Adriano, non si sa verso quali mondi e quali soli sia diretto; la Destra di Storace è soltanto una Destra scamiciata, ed il clima italiano è diverso da quello argentino. Infine gli elettori, tra prima e seconda repubblica, hanno visto talmente tante giravolte che hanno il mal di mare, e se qualcuno presenta loro nuovi piatti e bevande non sono proprio in vena d’assaggiare. Sono quasi tutti apoti come Giuseppe Prezzolini. Questo porta una tentazione per i bocconiani in loden e non soltanto per loro: se gli elettori non vogliono saperne di votare, è così liberale costringerli? Siccome, però, nell’Europa d’oggi sarebbe troppo scostumato non convocare i comizî a naturale scadenza, tra un anno e mezzo, si presenti loro una grande coalizione, come i fronti nazionali delle vecchie democrazie popolari, perché non ci si può dividere quando «la Patria è in pericolo»; così non perde nessuno e se anche voteranno quattro gatti i seggi verranno spartiti comunque, e poi si richiami Mario Monti ch’è colto e per bene! Ecco perché è tanto utile ad una Sinistra in crisi riconoscere una Destra ben pensante.
BENZINA DA INFARTO
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PER SALVARE L’EUROPA
RIVOLUZIONE partecipativa di CARLO VIVALDI-FORTI DEMOCRAZIA significa governo o, ancor meglio, dominio del popolo. I classici greci, però, Aristotele in testa, non l’avevano in grande simpatia, ponendola più spesso tra le forme degenerate dei sistemi politici che fra quelle sane. Tra queste primeggiava invece la politìa, termine letteralmente intraducibile nel costituzionalismo moderno, che può essere reso con perifrasi quali democrazia completa, autogoverno dei governati, o simili. Tali distinzioni non appaiono oggi per nulla accademiche, ma descrivono a tinte fosche la situazione in cui si trovano l’Italia, l’Europa e forse l’intero Occidente. Basta scorrere i quotidiani degli ultimi giorni per rendersene conto. Per esempio, su il Giornale del 13 febbraio Magdi Allam, con la tipica chiarezza di chi ha sfidato le più pericolose tirannie a rischio della vita, titola un suo mirabile pezzo: «La finanza ha sdoganato la dittatura dell’emergenza». Egli commenta uno scritto di Carlo Bastasin su Sole 24 ore di due giorni prima, in cui l’autore si schiera a favore di Monti e della sua opera, pur riconoscendo trattarsi di una dittatura della finanza, giustamente imposta come cura dell’emergenza, di cui rappresenterebbe il solo rimedio possibile. Ciò viene avallato dallo stesso Presidente del Consiglio quando afferma che «i partiti non hanno alcun interesse a smantellare le misure visto che il costo politico viene pagato da questo governo». «Ormai, sia Monti sia Napolitano, il grande manovratore della dittatura finanziaria», prosegue Allam, «sono sicuri del fatto che il Parlamento si è ridotto ad organo avallante delle decisioni del governo. A Helsinki Napolitano ha assicurato che ci sarà l’accordo anche sulla riforma del mercato del lavoro perché non è interesse né del Paese né dei partiti rovesciare il tavolo. E i 2.400 emendamenti presentati al disegno di legge sulle liberalizzazioni? Casini sostiene che potrebbero essere ritirati tutti, e candida Monti a capo del governo che guiderà l’Italia dopo le elezioni del 2013». L’articolista paventa infine l’ipotesi, peraltro molto verosimile, che l’Europa chieda alle forze politiche italiane di sottoscrivere preventivamente l’insieme della manovra ispirata ai poteri dei sistemi finanziari globalizzati. Il 14 febbraio, sullo stesso foglio, è apparso un editoriale di Salvatore Tramontano, il quale smaschera la sporca manovra imposta da Parigi e Berlino, che avrebbero costretto Atene all’acquisto di sottomarini, navi, elicotteri e carri armati di loro produzione, per sbloccare il piano di aiuti. «Uno scambio senza prospettiva», osserva. «Volete il prestito? Comprate le armi. Sembra uno di quegli affari in cui in certe terre di malavita non si può dire di no. Ma c’è di più. L’Europa con il volto dei tecnocrati sta anche rinnegando la democrazia. L’Europa, la Bce e tutte le istituzioni finanziarie non si fidano della democrazia. Sono loro a esprimere gradimento su chi deve governare. Lo hanno fatto in Grecia e lo fanno in Italia. Monti non ha bisogno di chiedere agli italiani se può o non può governare, gli basta il riconoscimento della Bce, di Berlino, di Parigi e di tutti gli uomini in grigio che decidono le
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sorti di questo o quel paese. Monti non ha bisogno del voto del Parlamento, gli basta di mettere la fiducia e la firma di Napolitano. Convinti loro convinti tutti.» Su il Borghese dello scorso gennaio definivo squallida la situazione che si è venuta a creare, usando il medesimo aggettivo per i personaggi che di essa si sono resi protagonisti. Alla luce di quanto riportato confermo tale definizione rincarando casomai la dose. Cerco di spiegarmi meglio. La dittatura della finanza, delle Borse, e dello spread rappresenta quanto di più umiliante e vergognoso la pur fertile fantasia umana potesse concepire. I totalitarismi del secolo scorso, infatti, pur se caratterizzate da fenomeni altamente deprecabili come la violenza, il razzismo, la propensione alla guerra, la repressione sistematica del dissenso, poggiavano almeno su sistemi filosofici e ideologici forti, oggetti «d’inestinguibil odio e d’indomato amor», per dirla col Manzoni, in nome dei quali milioni di giovani hanno affrontato eroicamente la morte. Quello che ci presenta l’inizio di questo sciagurato secolo, (rimane la speranza che in futuro tutto cambi, ovviamente), non avverte neppure il bisogno di trincerarsi dietro ideali più o meno nobili. La colonizzazione del mondo contemporaneo non si ammanta più del romanticismo per cui, ad esempio, furono combattute dall’Italia le campagne di Libia del 1911 e d’Abissinia del 1936, che dissimulava l’interesse economico dietro l’esportazione della tradizione romana, del cristianesimo, di una più alta cultura e civiltà. Stavolta si preferisce evitare di spremersi le meningi, (esercizio d’altra parte vano: i promotori di questa nuova guerra coloniale non brillano certo per la quantità di materia grigia contenuta nei loro cervelli!), e ci si presenta brutalmente con il suo vero volto, frutto di cinismo, basso interesse di bottega, ricerca del profitto fine a se stesso, (l’opposto di quel valore aggiunto di cui si fa paladina la cultura umanistica), disprezzo per il più debole e per il prossimo in genere. In termini evangelici si tratta del trionfo di Mammona su Dio, delle soglie dell’inferno sul principio del bene. Non ci si venga poi a dire, per favore, che almeno questa dittatura non ha prodotto vittime! Cos’altro sono, infatti, i milioni di famiglie ridotte alla fame, i morti di malattie dovute all’inquinamento, i suicidi, gli alcolizzati, i drogati, le generazioni di giovani a cui è stato negato il futuro? Riflettendo su ciò verrebbe voglia di gridare, insieme a Vittorio Sgarbi, VERGOGNA, VERGOGNA, VERGOGNA! La nostra risposta, per essere efficace, non può tuttavia limitarsi all’aspetto emotivo e sentimentale. Se quella descritta è la situazione, se ci troviamo ostaggi di tirannie senza scrupoli, se la nuova dittatura che dobbiamo abbattere è quella dei grandi speculatori finanziari, la resistenza da organizzare dovrà colpire in modo scientifico il drago al cuore. Cerchiamo dunque di comprendere su quali fondamenta essa si regge. La sua manovra a tenaglia ha preso le mosse dalla neutralizzazione dei partiti. Questi, nella quasi totalità delle costituzioni moderne, rappresentano il veicolo esclusivo attraverso cui si esprime la rappresentanza popolare. A loro, infatti, è affidata l’elezione del Parlamento e degli organi amministrativi periferici. Perciò occorreva farseli amici, o almeno tenerli sotto stretto controllo. Nella Prima Repubblica tale obiettivo è stato raggiunto mediante il centrosinistra e il compromesso storico. Nella Seconda, all’inizio, tutto si profilava tranquillo e i poteri forti si riposavano sugli allori, finché non si è messo di traverso quel pazzo di Berlusconi a turbare i loro sogni. Questa, non un preteso moralismo, è la vera ragione dell’accanimento paranoico contro il personaggio in questione. Per levarselo di torno definitivamente, impedendo a lui di ricandidarsi e al Pdl di vincere nel 2013, si sono arroccati dietro la crisi delle Borse, fenomeno mondiale che con il governo ita-
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liano nulla aveva a che fare. Già nell’ultimo periodo antecedente la crisi di governo, era stata accreditata l’opinione che il Parlamento dovesse legiferare non per assolvere al mandato degli elettori, bensì per piacere ai mercati. Questi sono diventati i veri legislatori, imponendo tasse, leggi sul lavoro, sulle pensioni, sulla casa e quant’altro. Alla faccia della democrazia e della sovranità popolare! L’attività degli organi legislativi, impostata su simili parametri, si palesa fondamentalmente illegittima. Tale illegittimità, all’inizio soltanto potenziale, è divenuta esplicita dopo il colpo di Stato di novembre: la nomina con maggioranza bulgara di un governo non eletto dal popolo e, salvo prova contraria, disapprovato dagli elettori del 2008, (i sondaggi menzogneri e truffaldini gettiamoli nel cestino dei rifiuti!), chiude l’èra democratica del secondo dopoguerra. Ma perché siamo giunti a tanto? La risposta è implicita nelle premesse del nostro ragionamento: perché la rappresentanza popolare è interamente affidata ai partiti, organismi verticistici privi di dialettica interna, ove i dirigenti vengono cooptati fra gli iscritti più fessi e disonesti, alla sola condizione che ubbidiscano ciecamente ai capi. Il primo strumento di lotta contro la dittatura finanziaria è dunque una radicale riforma della rappresentanza. Essa dovrebbe procedere su due binari paralleli: la Camera dei Deputati continuerebbe ad essere eletta dai partiti, ma questi sarebbero obbligati ad agire in totale trasparenza, secondo Statuti verificati dal Tribunale sulla base di leggi riguardanti le iscrizioni, le assemblee, il controllo pubblico dei voti, la liceità dei contributi, la reale libertà del dibattito interno. Ove venissero presentate denunce di abusi, purché supportate da prove, la Magistratura avrebbe l’obbligo d’intervenire. Il Senato, invece, diverrebbe l’organo di rappresentanza della società civile, nel quale siederebbero senza alcuna mediazione partitica i mandatari delle organizzazioni di categoria, delle professioni, dell’impresa, delle banche, dei sindacati, del volontariato, della scienza e dell’arte. Anche qui, analogamente a quanto precisato per i partiti, la massima preoccupazione del legislatore consisterebbe nel dettare regole ferree circa il funzionamento interno dei diversi corpi rappresentati, in modo da prevenire pastette e da garantire l’accesso al Parlamento dei soggetti migliori e più qualificati di ciascun ramo di attività. Questi, poi, dovrebbero poter essere sospesi e sostituiti motivatamente, dalla base, anche durante la legislatura, qualora si rivelassero infedeli al mandato ricevuto o incapaci di assolverlo. Si dovrebbe, cioè, strutturare un meccanismo di ricambio permanente delle classi dirigenti, sotto la supervisione attenta di appositi organi parlamentari e, nei casi estremi, del Tribunale. Analoga formula dovrebbe valere per l’elezione dei Consigli comunali, eventualmente provinciali e regionali, qualora si decidesse di mantenerli. Riforme di questa portata sarebbe le sole in grado di spezzare il predominio delle oligarchie economiche sulla classe politica, restituendo al popolo quella sovranità diretta, definita da Aristotele politìa. Accanto al mondo politico, però, anche quelli imprenditoriale e finanziario dovrebbero subire decisivi cambiamenti. La partecipazione aziendale, ossia la associazione dei rappresentanti di tutti i fattori della produzione alla proprietà, al governo e ai risultati dell’impresa, ne costituirebbe il nocciolo duro. Ciò, tuttavia, non appare ancora sufficiente per rifondare la società su basi interamente nuove. Il punto più avanzato resta la socializzazione. Con questo termine, peraltro noto al pensiero sociologico moderno, si deve oggi intendere qualcosa di ben più ampio e definito rispetto a quando esso fu coniato. Le imprese socializzate non si distinguono più in private e pubbliche: grazie alla partecipazione alle assemblee e ai consigli di
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gestione dei rappresentanti del capitale, del lavoro, del management tecnico e degli enti pubblici territoriali in cui sono collocate, l’interesse dei singoli e quello della comunità divengono in pratica la stessa cosa. In questo tipo di azienda tutti guadagnano o tutti perdono, tutti vivono o tutti muoiono. Il concetto stesso di profitto si converte in quello di valore aggiunto. La differenza non è puramente lessicale. Il primo, infatti, fa rima con egoismo e individualismo esasperato, mentre il secondo si allarga fino a comprendere il bene comune, ossia le ricadute collettive dell’opera umana. Lo stesso criterio con cui tenere la contabilità cambia radicalmente, ove si confrontino i risultati all’utile o alle perdite che tutti traggono da una determinata attività. Problemi drammatici come l’inquinamento si avvierebbero a soluzione. Così pure sparirebbe la giustamente deprecata evasione fiscale, per combattere la quale non servono la Stasi e la Gestapo, ma un po’ di buon senso pratico e di intelligenza: costano meno e rendono di più! Questa, in sintesi, è la rivoluzione che proponiamo per abbattere la dittatura della finanza, che oggi distrugge l’eredità degli anziani e spezza i progetti dei giovani. I partiti attuali non sono in grado di farsene promotori: la disonestà di molti loro dirigenti e la testa vuota di altri, cooptati per meriti pseudomafiosi, li riducono a strumenti obsoleti e inservibili. Altri ne dovranno sorgere nel prossimo futuro, ma soprattutto si dovranno creare movimenti spontanei dal basso, libere associazioni di uomini liberi i quali intendano, costi quel che costi, riappropriarsi del proprio destino e dei motivi per cui vale la pena vivere, anziché suicidarsi o sprofondare nella droga. Infine, altro fronte di combattimento del massimo rilievo si rivela quello propriamente imprenditoriale. Anziché lasciarsi sopraffare dai poteri forti e dalla demagogia imperante di governi e sindacati, i titolari delle piccole e medie imprese dovrebbero riunirsi in cooperative e consorzi, ciò che in Italia non hanno mai osato fare a causa del loro proverbiale individualismo e della loro patologica diffidenza, al fine di dar vita a realtà produttive, commerciali e di servizi in grado di operare sul mercato indipendentemente dalla grande speculazione e dai suoi ricatti. Identica filosofia per quanto riguarda la banca. Come tutti sappiamo, il sistema del credito è oggi completamente bloccato e monopolizzato dalle megastrutture multinazionali, (anche le piccole realtà periferiche dipendono ormai purtroppo da quelle), le quali hanno di fatto sospeso il finanziamento ad imprese e famiglie, per concentrarsi esclusivamente sulle operazioni di Borsa e sull’acquisto, a prezzi stracciati, delle cartelle del debito pubblico. Tale situazione si rivela una delle principali cause della recessione in atto. Anche qui la lotta al parassitismo dei grandi monopoli richiede l’iniziativa congiunta di diverse aziende produttive, non importa di quale settore. Se più imprenditori dessero vita, versando ciascuno una quota limitata, a cooperative di credito autogestito con l’esclusiva finalità di sostenere l’economia reale, recuperando in tal modo l’essenza dell’attività bancaria, potrebbe sorgere un sistema creditizio parallelo a quello tradizionale; data poi la concorrenza che simile novità favorirebbe, non è improbabile che anche molti istituti oggi interamente dediti alla speculazione potrebbero riscoprire la loro vocazione specifica, innescando un nuovo circolo virtuoso. Pure queste proposte, come le precedenti, rappresentano potenti armi nella lotta alla dittatura della finanza, in quanto colpirebbero quest’ultima nei suoi gangli vitali. Ciò tutto sommato appare un bel programma per chiunque guardi al futuro. Non si potrebbe allora partire proprio di qui per ricostruire la nostra area politica, organizzando in tempi brevi una convenzione nazionale a cui partecipassero tutte le donne e gli uomini di buona volontà?
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C’ERAVAMO ILLUSI ...
«REVOLUTION good-bye» di FEDERICO MAFFEI PER lo spazio breve e fugace di un mattino abbiamo pensato di essere finalmente giunti alla meta. I nostri sogni giovanili stavano per tramutarsi in realtà. La Rivoluzione, quella con la «R» maiuscola, era alle porte. Spariti, come d’incanto, i dolori reumatici e tutti gli infiniti acciacchi dell’età - non senile, ma sicuramente «matura» - ci siamo sentiti, non soltanto freschi e gagliardi, ma con il cuore traboccante di speranza, come quegli anarchici che, all’inizio del secolo scorso, erano disperatamente certi di vedere sorgere «l’alba del dì fatato». Del resto, come non credere che l’ora «X», quella che doveva segnare l’inizio del grande lavacro purificatore fosse imminente? L’Italia, un paio di mesi fa, sembrava un Paese ormai in piena decomposizione sociale. Gli Italiani gemevano, sgomenti e disperati, sotto la gragnuola di tasse e balzelli decisa dal governo Monti. Dalle Alpi a Capo Lilibeo era tutto un fiorire di rivolte, di sommosse, di ribellioni. Per una settimana la Sicilia è rimasta isolata dal resto del mondo a causa della rivolta dei «Forconi». Poi è stata la volta dei tassisti e degli autotrasportatori e successivamente dei manifestanti No Tav che hanno scatenato nella Val di Susa una vera e propria guerra civile. La protesta, insomma, dilagava in ogni dove. E nessuna della forze politiche tradizionali sembrava in grado di imbrigliarla e di canalizzarla. Soltanto il 4 per cento degli Italiani, informavano i sondaggi riportati dai giornali, aveva ancora fiducia nei partiti tradizionali. Insomma: parafrasando Mao Tse Tung, avremmo potuto dire: «Grande è la confusione sotto la volta del cielo. La situazione è eccellente». Invece è stata sufficiente qualche settimana per far evaporare i nostri sogni rivoluzionari e restituirci al grigiore inane del nostro brontolio quotidiano. «Un’idea che non trova posto a sedere», sosteneva Leo Longanesi, «è capace di fare la rivoluzione». Anche il sublime Maestro di Bagnacavallo, evidentemente, si sbagliava. È una vita che stiamo in piedi. Ci dolgono le ginocchia e le caviglie sono gonfie, ma di potersi sedere non se ne parla proprio. Ormai siamo ridotti come i Didi e Gogo di Samuel Beckett che trascorrono la vita aspettando un Godot che non arriva mai. E agli Italiani, a quanto pare, va bene così. Non a caso, nei giorni scorsi, Vittorio Feltri ha scritto in un suo editoriale su Il Giornale che «gli Italiani preferiscono le tasse ai partiti». «Oggi», ha scritto Feltri, «non c’è una forza politica che riscuota un minimo di simpatia della gente. La quale gente è arrivata a un punto di risentimento tale da respingere qualunque tribuno e di sopportare con santa rassegnazione le vessazioni fiscali dei professori, pur di non avere tra i piedi politici professionisti, tutti sospettati di pensare alla carriera e di infischiarsene del resto. Attenzione», conclude il giornalista, «non si tratta di qualunquismo. È esasperazione, disgusto». L’analisi è in parte condivisibile, ma incompleta. Non spiega, infatti, il motivo per cui l’esasperazione e il disgusto non si trasformino, secondo logica, in una sacrosanta rivolta. Da parte nostra potremmo azzardare l’ipotesi che, forse, la rivoluzione non è nel Dna del popolo italiano. L’unica vera rivolu-
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zione accaduta in Italia è stata quella fascista. La quale, però, avvenne, a livello legislativo e sociale, soltanto alcuni anni dopo che Mussolini aveva conquistato il potere. La marcia del ‘22 fu una grande manifestazione coreografica che permise al futuro Duce di ottenere dal Re l’incarico di formare il governo. Per il resto tutti i tentativi rivoluzionari hanno avuto in Italia vita effimera. La rivolta dei Ciompi a Firenze, guidata da Michele Di Lando nel 1378, durò poco meno di tre mesi. Quella di Masaniello a Napoli, nel 1647, appena dieci giorni. E, in tempi più vicini, non ebbero miglior fortuna le fugaci esperienze della Repubblica partenopea e di quella romana. Alcuni storici hanno concluso che noi Italiani siamo più portati alle «insorgenze», che alle rivoluzioni. Già, allora che dire dei Greci che nonostante le continue manifestazioni di piazza non riescono a sbarazzarsi di un governo che li sta affamando? E gli indignados spagnoli che fine hanno fatto? Per non parlare del movimento americano «Occupy Wall Street» che sembra essersi dissolto come neve al sole. La risposta più convincente e articolata alla domanda «Perché i popoli non fanno la rivoluzione?» l’ha fornita, recentemente, un filosofo, il professor Umberto Galimberti, incaricato di antropologia culturale presso l’università «Ca’ Foscari» di Venezia. Galimberti osserva che, nel rivoltoso ‘68, c’era ancora una «dimensione umanistica», ovvero c’era la possibilità di scontro tra due «volontà» ben distinte. E questo, forse, era un bene. Infatti, in quegli anni, gli interessi dell’operaio erano diversi, opposti forse, da quelli del grande imprenditore; il signor Rossi o il signor Tal dei Tali si scontrava ogni giorno con il signor avvocato Agnelli. Questo contrasto era già stato definito da Hegel come rapporto Servo/Padrone. In fin dei conti, c’era terreno di scontro che, volendo o non volendo, portava ad un progresso comune. Oggi, sia il Servo (operaio) che il Padrone (imprenditore) sono dalla stessa parte. Paradossalmente non sono più contrapposti, vanno a braccetto. Tutto questo perché sopra di loro aleggia quella che il filosofo chiama «dimensione anonima», ovvero il Mercato. Una dimensiona anonima che si completa con la tecnica finanziaria e gli investimenti, con le rincorse affannose al prestito, con l’ipotecarsi tutto per acquistare il superfluo, ipotecare figli e futuro, ipotecarsi anche le mutande. Il Mercato diventa, quindi, la «volontà» antagonista e intangibile sia del Servo che del Padrone. «Marx», rileva Galimberti, «ricordava agli operai “guardate voi non siete dei soggetti storici, voi siete costorici”. Diceva: “la storia la fanno quelli che hanno i soldi, i vostri padroni, gli imperatori, i principi, la fanno gli eserciti, i potentati. Dovete prendere coscienza di classe. Se fate degli scioperi belli lunghi morirete di fame, ma costringerete la storia a includervi”. E la cosa è stata vera. Perché l’inclusione della classe operaia è avvenuta attraverso la presa di coscienza che il sistema sta in piedi sul loro lavoro». Secondo il filosofo esiste tuttavia una grande differenza tra i proletari del secolo scorso e i giovani emarginati di oggi. Questi ultimi, infatti, hanno perduto, o meglio non hanno mai avuto, una dimensione «escatologica» della loro esistenza. In altri termini non hanno la possibilità di dare un senso alle loro vite ponendosi degli obiettivi raggiungibili. Certo, la colpa è del Mercato. Ma come si fa a lottare contro il Mercato? Dove sta di casa il Mercato? Visto che non vi sono vie d’uscita meglio adattarsi al lavoretto precario o a vivere, finché dura, con la pensione del papà o del nonno. La rivoluzione, forse, a questo punto, la vogliamo più noi, generazione di ex sessantottini di destra e di sinistra che non hanno mai smobilitato, che i giovani schiacciati dal loro incolpevole nichilismo. Intanto, aspettando Godot, non rimane altro da fare che rifugiarsi nel sogno consolatorio che possa un giorno sorgere «l’alba del dì fatato».
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LA CASTA CREDE DI ESSERE IMMORTALE
ED IL PAESE come reagirà? di FILIPPO DE JORIO* LA CLASSE dominante o «Casta», come ormai si dice, ritiene di essere immortale o almeno si comporta come se fosse tale. Le ultime vicende relative alla soluzione del problema delle Province, delle quali era stata promessa da tempo l’abolizione, che secondo i calcoli degli esperti, avrebbe comportato il risparmio di circa 18 miliardi di euro sul bilancio dello Stato, dice tutto. Questi enti territoriali del tutto inutili non scompariranno, anzi saranno, ancora, una utile occasione per distribuire posti agli «amici» perché vengono abolite non le province, ma le elezioni provinciali. Cosa significa? Praticamente non saranno più i cittadini ad esprimere il loro voto sulla scelta del candidato provinciale, ma saranno gli eletti negli Enti locali a scegliere. Ovviamente con i soliti sistemi di ripartizione lottizzata secondo le presenze dei partiti. È evidente che c’è una «vischiosità» nel toccare le questioni veramente importanti ai fini della riduzione della spesa e che i provvedimenti sicuramente utili, come la cura dimagrante per le Regioni, non si produrranno mai, neppure a tempi medio-lunghi. La classe dominante preferisce affidarsi ai soliti mezzi per reperire denaro o attuare risparmi: alternativamente l’aumento delle imposte e la compressione dei diritti. Su questa strada però si è raggiunto e superato, già da tempo, il livello di guardia. La tassazione è pervenuta, secondo la Corte dei Conti, al 45 per cento ed all’aumento del prelievo fiscale potrebbero corrispondere, paradossalmente, minori entrate a causa della drammatica riduzione del prodotto interno lordo che si aggira intorno al 5 per cento (e forse di più)! A fronte di tanti sacrifici chiesti alle categorie più deboli, ma al contempo «tracciabili» del Paese, come i pensionati, i percettori di redditi fissi, i professionisti (che ormai sono costretti a lavorare il doppio per avere la metà di quanto guadagnavano qualche anno fa), c’è lo spettacolo indecoroso dei privilegi della classe dominante e del suo «indotto» e la nozione chiara della antigiuridicità della condotta, degli atteggiamenti, delle operazioni di potere dei membri più in vista di essa. Ci sono domande in questo senso che contengono in esse stesse risposte molto imbarazzanti: Perché i processi di Berlusconi finiscono sempre con la prescrizione? Perché dell’Utri è stato giudicato con la presenza di un sostituto procuratore generale che ha smantellato con poche battute tutte le conquiste giuridiche di Falcone e Borsellino e con un presidente del Collegio da tempo molto chiacchierato? Perché Fini non si è dimesso da presidente della Camera una volta accertata la proprietà della casa di Montecarlo? Ci sono perciò, importanti ragioni per l’aumento del malcontento e della sfiducia che ormai hanno raggiunto
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limiti che potremmo definire «storici». Ma questo evidente sfavore della opinione pubblica, o di quello che di essa resta, stenta a canalizzarsi perché, nel tempo la gestione del potere ha astutamente elaborato meccanismi elettorali che impediscono qualsiasi cambiamento che immetta nel sistema gente nuova e non compromessa, che potrebbe essere utile per cambiare le cose. Le leggi attualmente in vigore consentono la «nomina» di senatori e deputati, perciò sotto quel profilo i partiti attuali, le cui dirigenze sono composte di esecutori puri e semplici delle decisioni del vertice, quale che esso sia, in qualsiasi settore dello schieramento, non possono offrire speranze. D’altra parte, la raccolta delle firme per presentare formazioni nuove, è volutamente prevista in maniera così ardua da essere quasi impossibile. E se ci si riesce, ci penseranno Tribunali e Corti d’Appello ad inventare espedienti e cavilli tali da impedire nuove presenze e perciò possibilità di vere alternative per gli elettori. I pensionati sono stati spesso vittime di queste prepotenze, a meno che non fossero ritenuti «utilizzabili», come accadde nel 2006 allorché Berlusconi chiese il loro appoggio e poi li tradì; e per questo, cioè per i 26.000 voti non ottenuti alla Camera nei vari Collegi della Lombardia (tanti erano gli elettori che votarono «Pensionati Uniti» al Senato nelle stesse elezioni) per effetto della mancata raccolta delle firme voluta dalla coordinatrice Gelmini, ma ritengo - programmata in più alto loco, perse le elezioni nelle quali - come si ricorderà - ebbe solo 18.000 voti in meno della coalizione di Prodi. Molti mi chiedono di fare qualcosa data la gravità della situazione e soprattutto la sua irreparabilità per le condizioni che si sono venute a creare e che ho sintetizzato prima. Ho dato, perciò, la mia disponibilità a questi tentativi. Sono convinto, però, che soltanto attraverso una coesione vera e stretta tra tutti coloro che vogliono cambiare, si potrà riuscire in una impresa che è estremamente necessaria, ma difficile. Perciò le divisioni devono essere assolutamente bandite e ritenute esiziali per qualsiasi serio intervento! Non so, onestamente, se potremo riuscire, ma, ove mai non fosse possibile, non ci presteremo ad alcuna mistificazione e saremo ancora una volta costretti ad insistere nella consegna dell’astensione dal voto. Per una forma di civile protesta, ma anche per non essere coinvolti in un processo di degrado che, in questa temperie politica e morale e senza nuove incisive presenze non è arrestabile. *Presidente della Consulta dei Pensionati e dei Pensionati Uniti
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PER SALVARE L’ITALIA
SCENDIAMO in piazza di ADRIANO TILGHER BASTA frottole e panzane! Questo governo se ne deve andare! Abbiamo accettato tutto: sacrifici, tasse, riduzione dei margini di libertà; ma ora è troppo. Ci avevano raccontato che la crisi sarebbe finita… ed invece è peggiorata; ci avevano detto che l’euro andava salvato per aiutare imprese e famiglie… ed invece le imprese chiudono e le famiglie sono sempre in maggiori difficoltà; ci avevano suggerito che l’Unione Europea (non l’Europa che è ben altra cosa) andava potenziata e rispettata… ed invece è servita soltanto a ridurre la nostra sovranità nazionale e le nostre libertà individuali; ci avevano garantito che avrebbero tutelato il lavoro… ed invece la disoccupazione, soprattutto giovanile, aumenta vertiginosamente; ci avevano convinti che avrebbero riconquistato la rispettabilità dell’Italia sul piano internazionale ed invece… Che pena! Arrestano due nostri marò in missione Nato in acque internazionali e, non soltanto non tengono conto delle flebili rimostranze dei nostri (sigh!) ministri competenti, ma la Nato, da cui quei marò ufficialmente dovrebbero dipendere, non interviene minimamente. Addirittura gli Inglesi organizzano con i nigeriani un’azione di commando per liberare un loro connazionale ed un italiano, senza minimamente avvertirci, come se fossimo una nazione satellite indegna di sapere quale destino si prepara per i propri cittadini. La morte, poi, del nostro connazionale grida vendetta. Ci vuole la politica, basta con i banchieri! Se i nostri sedicenti politici sanno soltanto rubare e non sono capaci di assumersi le responsabilità che questi momenti richiedono, se ne vadano a casa. Se sono preoccupati per il loro futuro, tengano a mente i cospicui vitalizi che si sono subdolamente accreditati. Certo, non possiamo garantire loro che non saranno cospicuamente ridotti, ma i diritti acquisiti, quelli veri e legittimi nessuno li potrà toccare. Occorre avere il coraggio di rivendicare tutto ed intero l’orgoglio di essere italiani, bisogna obbligare i cosiddetti alleati della Nato e la stessa Onu ad intervenire, minacciando l’immediato ritiro delle nostre truppe da tutti gli scacchieri di guerra, serve additare al disprezzo pubblico nazionale ed internazionale quelle nazioni e quei popoli che non ci rispettano richiedendo e pretendendo ufficiali prese di posizione da parte degli organismi internazionali. Non dobbiamo stare con il cappello in mano dietro la porta a cercare la compassione di chi intende umiliarci. Monti se ne frega! Queste cose non gli interessano, ha soltanto la missione di renderci più poveri per costringerci a vendere, sotto costo e ai soliti noti, la FinMeccanica, l’Eni …. Ce ne accorgeremo tra breve: buste paga più leggere a marzo, Imu da pagare a giugno. Già, l’Imu, non soltanto hanno aumentato l’aliquota da utilizzare, ma, soprattutto, hanno aumentato, e notevolmente, le rendite catastali (60 per cento). Si pensa che mediamente sarà
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quasi triplicata la vecchia Ici con la conseguenza del blocco del mercato immobiliare e di un brusco stop all’edilizia, la principale industria italiana, con un nuovo enorme numero di disoccupati e cassaintegrati. Dove sono i politici? Bisogna far capire alla Bce, che è cosa diversa dalla Ue, che deve dare alla nostra Banca nazionale i soldi necessari per il rilancio dell’economia, si deve nazionalizzare la Banca d’Italia e obbligarla ad usare i soldi per finanziare famiglie ed imprese e non per fare affari sul mercato finanziario, altrimenti ci vedremmo costretti alla doppia circolazione monetaria: l’euro per il commercio estero e la lira per il commercio interno. Parallelamente dobbiamo pretendere che non si dia seguito all’attuazione, senza che l’opinione pubblica venga coinvolta, dell’organismo finanziario intergovernativo cui va attribuito il cosiddetto fondo «salva Stati». Un organismo protetto da immunità politica, giudiziaria ed amministrativa e dotato di infiniti privilegi tra cui quello di determinare le politiche nazionali di chi fa ricorso a tale fondo. È una perdita secca di sovranità e il solerte Frattini ha già presentato da tempo una proposta di legge in tal senso. Tutto questo richiede politici con i nervi saldi, le idee chiare e soprattutto tanto amore per l’ Italia. La cura può e deve essere drastica, ma soltanto la politica può attuarla perché vanno cambiati gli scenari. Sul piano delle scelte comunitarie occorre richiedere lo scioglimento dell’Unione Europea, la costituzione politica dell’Europa unita, l’unità militare delle nazioni europee, la nazionalizzazione della Bce, una diversa regolamentazione del mercato borsistico, l’uscita dal Wto, la protezione dei prodotti comunitari. Sul piano nazionale, serve il recupero dell’efficienza nella pubblica amministrazione, la totale semplificazione burocratica, una durissima repressione della corruzione e della concussione, il ripristino della legalità e delle certezza del diritto, sia in campo civile che penale, tra l’altro impedendo esposizione mediatica e possibilità di passaggio alla politica di chi fa parte dell’ordine giudiziario, il recupero di un insegnamento umanistico per i quadri dirigenti affinché possano ridisegnare una convivenza basata su valori umani e non su fattori economici. È un lavoro lungo e faticoso, ma va iniziato con urgenza. Scendiamo in piazza per le nostre libertà, soprattutto per restituire un futuro ai nostri figli. Da questi professori al governo, quinte colonne dei grandi fondi di investimento e delle lobbies finanziarie, dobbiamo difenderci. Non farlo vuol dire abbandonare i nostri figli ad un triste destino. Io ho iniziato scendendo in piazza il 3 marzo con «La Destra», bisogna continuare. Monti deve andare via per tornare al voto ed eleggere una nuova classe politica. ADRIANO TILGHER
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I PARTITI ALLA VIGILIA DEL VOTO
SULL’ORLO dell’abisso di GENNARO MALGIERI AD UN mese alle elezioni amministrative, tutti i partiti e gli schieramenti tremano. È come se avessero visto spalancarsi davanti a loro il baratro. Non sanno più a quale santo votarsi e sono davvero sull’orlo di una crisi di nervi. Il barocco escamotage che hanno mandato in scena nel novembre scorso, allo scopo di celare la loro crisi, si sta rivelando devastante e potrebbe avere esiti letali alle politiche del prossimo anno. Pensavano di essere più furbi di di chi li ha giocati. E mettendosi nelle mani del capo dello Stato hanno firmato la loro condanna certificando l’incapacità di procedere al rinnovamento politico cominciando da se stessi. Ritenevano, ingenuamente, che fosse più facile aggredire la crisi economica chiamando dei tecnici non votati dal popolo e che, dunque, a nessuno avrebbero dovuto rispondere nel bene e nel male, invece di metterci la loro faccia. Gli esiti erano scontati: perdita di consenso, di credibilità, confusione e conflittualità nelle coalizioni e nei partiti stessi. Un risultato che condanna la democrazia ad un lungo commissariamento. Insomma, Mario Monti, ben al di là delle sue intenzioni, è riuscito, senza peraltro applicarsi minimamente, a rottamare contemporaneamente il Pd ed il Pdl, oltre a procurarsi una ruota di scorta lussuosa quanto ambigua: il Terzo Polo. E non perché da essi ha ottenuto l’indispensabile fiducia parlamentare per governare, ma per il semplice fatto che soprattutto i due maggiori partiti, perni delle principali coalizioni, i quali soltanto nel 2008 insieme rappresentavano circa il settanta per cento dell’elettorato, hanno smarrito la loro strada buttando a mare la precaria identità che li sorreggeva e disconoscendo la ragione sociale che li giustificava come protagonisti del bipolarismo italiano. Adesso, ridotti complessivamente a meno del cinquanta per cento secondo i sondaggi, sembrano fantasmi vaganti negli ambulacri dei Palazzi del potere alla ricerca di un ruolo purchessia e che nessuno è disposto a riconoscergli. Se dovesse continuare così è probabile che tra un anno perfino gli elettori più affezionati gli volteranno le spalle. Definitivamente. Riusciranno a riformarsi e a mettere su cartelli decenti almeno per potersi presentare alle elezioni? Ne dubito fortemente. Vedendoli brancolare nel buio, disorientati e ingrigiti, non mi sembra che nelle loro vene circoli sangue abbastanza fluido da far immaginare resurrezioni improvvise. Le fusioni a «freddo» dalle quali tanto il Pd che il Pdl sono nati non promettevano niente di buono. Su queste pagine lo abbiamo documentato ossessivamente sia nella fase di trasformazione del centrosinistra che del centrodestra, evidenziando come senza un’anima i partiti politici non reggono, sono destinati alla marginalizzazione poiché l’opinione pubblica li percepisce come prodotti guasti o, nella migliore delle ipotesi, immaturi. È quanto è accaduto e le contraddizioni interne nell’una e nell’altra parte denotato la mancanza di culture politiche sulle quali costruite progetti alternativi.
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Per di più il Pd si è rivelato poco attraente perfino agli occhi degli stessi militanti i quali, come dimostrano le disastrose primarie di Genova, di Palermo e di altri centri minori, preferiscono ai candidati indicati dalla sua segreteria, personaggi maggiormente rappresentativi di una sinistra che reputano evidentemente più credibile ed in linea con la sua storia. In aggiunta il guado nel quale Bersani e soci si sono impaludati appoggiando piuttosto acriticamente Monti e le misure «europee» che sta attuando, le quali non collimano con la tradizione, la sensibilità, il sentire della sinistra, non fa che allontanare l’elettorato tradizionale dal Pd e gettare ombre sulla sua classe dirigente. Il Pdl non gode di salute migliore. Ondivago, incerto, confuso, rissoso, indeciso sulle alleanze prossime venture, incapace di elaborare una strategia ed ancor più idee, vive il tramonto del berlusconismo come una fatalità alla quale sembra impossibilitato a sottrarsi, rassegnato al tanto peggio tanto meglio. Il Cavaliere, a dire la verità, non aiuta in questa fase. E le sue esternazioni contribuiscono a disorientare un elettorato già frastornato quando non disgustato. In quattro anni il Pdl ha perso il dieci per cento dei consensi: può accadere. Quel che sconcerta, però, (ed è inaccettabile) è che non ci sia stata neppure una timida reazione alla decadenza del partito che avrebbe dovuto riunire il cosiddetto «mondo moderato», a meno di non voler considerare segni di vitalità gli inutili congressi, celebrati ad uso e consumo della nomenklatura, nei quali non un timido progetto affiora, ma tengono banco soltanto polemiche e contestazioni, anche in riferimento alle contestate procedure di tesseramento. Inoltre il Pdl è riuscito, laddove nessuno era arrivato per quanti sforzi abbia fatto in circa sessant’anni, a distruggere la destra politica, entità scomparsa nel lessico italiano. Un capolavoro di Berlusconi e di Fini del quale i sopravvissuti, ex militanti ed esponenti di An, a dire la verità, poco o punto sembrano preoccuparsi. Il Cavaliere, che a giorni alterni sconfessa il suo segretario Alfano, non ha ancora deciso che cosa farà da grande. Nel frattempo, considerando che il soggetto da lui impropriamente messo in campo non è mai decollato, si attacca a Monti indicandolo come premier anche per la prossima legislatura. Bersani non vorrebbe seguirlo su questa strada, ma anche lui sarà costretto, prima o poi, ad esprimersi in favore del Professore. E la circostanza è tanto più paradossale se si tiene conto che i cosiddetti tecnici non sembra stiano dando prove eccelse: la disfatta dell’Italia sul piano internazionale, dall’India alla Nigeria è incontestabile, mentre anche sul piano più propriamente politico gli uomini di Monti non stanno rendendo un buon servigio al governo con le loro improvvide dichiarazioni che rivelano ambizioni poco confacenti con il ruolo che sono stati chiamati a svolgere. Centrodestra e centrosinistra, dunque, oltre ad avallare un disastro annunciato - perché è sempre così che va a finire quando si rinuncia a fare politica e si offre ad altri non legittimati dal suffragio popolare la supplenza - semplicemente ammettono di non essere in grado di affrontare la crisi, né di ripensarsi come schieramenti alternativi forniti di robuste ragioni da presentare agli elettori. Napolitano gli ha confezionato un «papa straniero» per colmare le deficienze politiche ampiamente dimostrate. Dobbiamo tenercelo, pur convinti che comunque la politica tornerà prima o poi. È soltanto questione di tempo. Ed avrà altri volti. Con tanti saluti agli alchimisti che brancolano nel Palazzo cercando di dare un senso a stessi, come se ignorassero che un senso non glielo riconoscono più gli elettori.
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A COLLOQUIO CON ERASMO CINQUE
PER UNA nuova politica «REPUBBLICA democratica fondata sul lavoro»? Erasmo Cinque questa volta, parla dell’Italia. Il suo impegno è un atto e un «fatto» d’amore per la propria patria. Comincia dal male che attualmente attanaglia le istituzioni, nella cosiddetta fase «tecnica», di cui il governo Monti è la spia e il provvisorio rimedio. Ma continua con un appello forte alla «nuova e buona politica» che, prima o poi, dovrà raccogliere il testimone di Palazzo Chigi e tornare a guidare il Paese. Un auspicato «secondo tempo», che necessariamente rivedrà centrali i partiti, simbolo di partecipazione democratica, che non possono ridursi a comparse televisive o a enti inutili, come una certa filosofia «oligarchica» oggi molto di moda, vorrebbe. E finisce col motto dei gladiatori romani: «forza e onore». Erasmo Cinque, perché questa partenza declamatoria: Repubblica democratica...? «Il motivo è semplice: riprendiamoci il significato delle parole. Non vedo il motivo per il quale dobbiamo lasciare il monopolio del termine “Repubblica democratica” alla sinistra, come se l’ex opposizione fosse l’incarnazione religiosa della legalità, della democrazia, del popolo, delle istituzioni e delle regole. Lo scrittore cattolico George Bernanos diceva che se perdiamo la battaglia delle parole, perdiamo anche la battaglia delle idee. Ecco, io voglio vincere la battaglia delle idee. Credo nella Repubblica democratica e nella cittadinanza attiva. E tale concetto costituzionale mi porta, tra l’altro, ad analizzare anche lo stato dell’arte, l’odierna situazione politica.» Analizziamola pure... «Democrazia vuole dire non soltanto rispetto delle leggi, ma in primis condivisione, partecipazione, etica sul campo. La società civile quindi, deve scendere in campo, dire la sua e punire la classe politica che non funziona, non all’altezza del voto, del mandato.» Sì, ma oggi c’è Monti e come Lei ha detto nella precedente intervista, siamo in una fase di sospensione della democrazia... «Una fase che terminerà nel 2013, con i partiti obbligati a tornare basilari per la Repubblica. Basta leggere gli articoli della Costituzione. La democrazia parlamentare si fonda sui partiti... non dimentichiamolo.» Partiti che sono in crisi come le alleanze, gli schieramenti della seconda Repubblica ormai finita... «Certo, i partiti sono implosi, sono in profonda crisi strutturale, politica, organizzativa, devono produrre nuove idee, nuova classe dirigente, ricollegandosi realmente alla società. Ernesto Galli della Loggia, infatti, li ha invitati a cogliere il momento storico (il governo Monti), per ridefinirsi radicalmente. Il tema della cinghia di trasmissione tra valori, interessi e voto democratico, resta l’argomento-principe ineliminabile della democrazia. Altrimenti i poteri forti ci prende-
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ranno gusto a fare da soli, senza controlli e legittimazione popolare. Se abbiamo un governo tecnico è anche e soprattutto per la crisi della politica e dei partiti.» L’anticasta e l’antipolitica sempre più montanti nel Paese, oltre all’incapacità di offrire un progetto alto, non hanno perdonato ai partiti l’uso disinvolto del denaro pubblico... «Il finanziamento ai partiti deve essere sottoposto a controllo giudiziale, penso ad esempio, alla Corte dei Conti... non se ne può più, non passa giorno e leggiamo sui giornali che i finanziamenti elargiti dallo Stato ai partiti, per destinarli ad attività specificamente politiche, viceversa vengono usati per investimenti immobiliari ardite speculazioni finanziarie perfino all’estero. Ecco questo è scandaloso perché quei soldi ci vengono tolti dalle tasse e sono il frutto di grandi sacrifici dei cittadini specie in questo periodo. Diverso è il costo del ceto politico che va assolutamente ridimensionato (privilegi, benefit, scorte, macchine blu, consulenze, viaggi etc) e mi sembra che qualche timida riduzione delle indennità stia per essere approvata in Parlamento; un conto è il costo della democrazia come apparato istituzionale. Facciamo molta attenzione, non dobbiamo tagliare tutto, dobbiamo elargire il giusto con criteri di rimborso a piè di lista vigilati dalla Corte dei Conti. Sono soldi pubblici.» Ci vuole un grande scatto di reni della politica? «Certo. I partiti, i politici devono cominciare a pensare in grande. I leader devono essere sobri, capaci, efficaci, onesti. La società è cambiata, oggi è in grado di giudicare, non perdona chi promette e non mantiene... chi sbaglia paga.» Proprio per questo la riforma del sistema elettorale va al rallentatore.... il cappone, infatti, non è mai contento di partecipare al pranzo di Natale, il sistema partitico difficilmente si autoriforma dall’interno... «Per questo le preferenze sono fondamentali. Restituiamo lo scettro al popolo-sovrano. Anche per mobilitare i giovani che hanno bisogno di ideali, pulizia, trasparenza. A loro, come a noi che ancora crediamo nella politica con la “p” maiuscola, elevo il grido dei gladiatori romani: forza e onore.»
ERASMO CINQUE
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ADDIO AL FEDERALISMO
UMBERTO il «pirla» di GIGI MONCALVO QUEL «meglio soli che male accompagnati» pronunciato da Umberto Bossi e riferito a Silvio Berlusconi fa davvero sorridere e meditare. Ci sono voluti quasi dodici anni a Bossi per capirlo? Non se n’era mai accorto tra il 1994 e il 2000, e poi nel periodo successivo quando è andato a braccetto col Cavaliere per due governi e anche per due anni di, chiamiamola, opposizione a Prodi? Non s’era mai dato per inteso nelle cene del lunedì ad Arcore di ciò a cui serviva davvero la Lega nei disegni di Berlusconi, e cioè di foglia di fico utile soltanto per impedire la vittoria della sinistra? Bossi non si è mai accorto di quel gigantesco fatturato politico e non soltanto che la Lega realizzava - in termini di potere, poltrone, denari - grazie a quella «cattiva compagnia», così facilmente abituata ai ricatti e ai voti parlamentari «di scambio»? C’è voluto così tanto tempo? C’è voluto il professore e il governo del loden per far aprire gli occhi a questi lumbard, che venivano considerati politici sopraffini con un fiuto unico al mondo? Se vogliamo credere alla favola che non s’erano mai accorti di nulla, che non avevano capito, che si sono sbagliati - ma sappiamo tutti, a cominciare da Bossi, che non è così - il Senatur dovrebbe fare un clamoroso outing. Il che, tradotto per i padani, significa una sola cosa: darsi pubblicamente del pirla. A che cosa pensavano e che cosa credevano di fare Bossi, Maroni, Calderoli, Castelli quando hanno alzato la mano in mezzo a tutti coloro che votavano sostenendo che Ruby è davvero la nipote di Mubarak? Dove avevano la testa quando salvavano Cosentino e Milanese dai guai? A che gioco credevano di giocare? Quando chiedevano posti di sottogoverno, a cominciare dalla Rai, pensavano si trattasse di un gentile riconoscimento per la loro «intelligenza», un gentile omaggio al Nord e un passo verso l’affrancamento dei popoli della Padania? Quando venivano santificati dai giornali del cavaliere e ospitati nelle sue TV come se si trattasse di autentici Churchill del ventunesimo secolo, si illudevano davvero di essere tali? Possibile che ci sia voluto il disco verde di Berlusconi, e tutti i voti della Pdl, per il ripristino della tesoreria unica per far capire alle camicie verdi che il federalismo in Italia è impossibile? Non avevano mai compreso, o fatto finta di non capire, che il primo passo verso una vera riforma federale era, propedeuticamente a tutto il resto, la cancellazione degli statuti speciali delle cinque regioni «di prima categoria», e cioè una cosa impossibile e irrealizzabile? Non avevano mai pensato che occorresse azzerare, resettare tutto per partire da zero? Si è mai visto un partito che da più vent’anni dice di volere il federalismo e poi, quando sta al governo (e quindi per quasi nove anni), fa poco o niente in questa direzione? Vogliamo dirla tutta: la Lega è riuscita a ottenere un solo risultato concreto, e deleterio. Ha tolto i segretari comunali dal «controllo» dei Prefetti. Per cui oggi nessuno può far nulla per arginare i poteri e la discrezionalità di questi dirigenti che controllano di fatto,
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indipendentemente dal tipo di sindaco o giunta, le amministrazioni comunali. Complimenti, complimenti davvero! «Se il Carroccio deraglia, c’è qualcuno nella Lega che raglia», osservano molti militanti. I quali, non sono così pirla, e si pongono domande molto semplici, oltre a quelle indicate qui sopra. Ad esempio, come mai per anni sono stati espulsi dal movimento - loro non lo chiamano partito, non sono mica come gli altri…. -, tutti gli iscritti, perfino quelli della prima ora, i veri e onesti leghisti con le mani callose, che osavano ribellarsi, aprire la bocca, dissentire, denunciare il dilagante poltronismo, mentre invece oggi non vengono nemmeno sospesi o costretti a dimettersi coloro che sono oggetto di inchieste giudiziarie per sospetti di tangenti e malaffare? Anzi, come mai costoro vengono difesi dai vertici, considerati vittime della magistratura, osannati come martiri, portati ad esempio? Vuoi vedere che lo fanno perché è vera la tesi secondo cui questi almeno una parte del maltolto la versavano al partito (o al movimento)? La tesi secondo cui si tratta di una «rappresaglia» della Magistratura dopo che la Lega ha presentato il famoso emendamento che tende a ripristinare la responsabilità civile (e pecuniaria) di magistrati e giudici, non sta in piedi. Anzi, conferma l’assunto di partenza: perché è stata proprio la Lega a infilare l’elmetto e a partire lancia in resta con un emendamento tanto caro a Berlusconi? Non potevano lasciare che lo presentasse e si «sporcasse le mani» uno dei suoi? Sono stati giocati, ancora una volta. Mentre loro facevano gli «ascari» e presentavano l’emendamento, Berlusconi «trattava» a livello politico con Monti: «Vuoi il mio appoggio in Parlamento? Intervieni e fai in modo che io abbia l’immunità….» Detto, fatto. È soltanto una coincidenza, una congettura di noi che pensiamo male, il fatto che il Cavaliere l’abbia sfangata col caso-Mills, che Dell’Utri sia stato salvato dalla Cassazione, che stiano andando a rilento le udienze del processo Ruby, dopo i roboanti annunci della Procura di Milano che le udienze sul «bunga bunga» sarebbero state una volata? Mentre il Cavaliere la fa franca, emergono le «mani sporche» della Lega. L’aria sta cambiando, Berlusconi riposiziona l’artiglieria mediatica e i suoi direttori non hanno nemmeno bisogno di ricevere la solita telefonata in cui Marinella annuncia che sta per passare la linea: è bastata quella parolina di Bossi su Berlusconi che «fa pena» per indicare che la linea (non quella telefonica) è cambiata. Basta vedere, ad esempio, la fine dell’embargo sulle TV berlusconiane verso i giornalisti del Fatto, con la speranza che non martellino più sulle frequenze tv che Mediaset vuole in regalo da Passera. Adesso viene il bello. Non c’è da stupirsi che alle amministrative Lega e PdL, o come diavolo si chiamerà, corrano da sole. Il Carroccio cerca di far dimenticare tutte le nefandezze che ha coperto e cui ha contribuito negli anni di governo, spera di sorpassare il partito di Berlusconi, o le sue finte liste civiche che dovranno mascherare la sconfitta, crede di poter usare un potere di ricatto in eventuali ballottaggi. Ma questi piani sono destinati a saltare. La Lega non ha volti e nomi presentabili a livello locale da candidare a sindaco. Cerca di scegliere militanti duri e puri per non perdere i voti della base più fedele. Ma questo allontana quei potenziali «leghisti in doppiopetto» delusi dal Pdl e orfani di un riferimento politico nel centrodestra. Per di più questa situazione, che si è già verificata nelle precedenti amministrative, disorienta l’elettorato. Come è possibile che un sindaco del Pdl che magari ha ben governato, spesso insieme a un vicesindaco della Lega - o viceversa
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- all’improvviso venga considerato «nemico» e incapace al punto da non dovergli più dare fiducia? Allo stesso modo, come è possibile che la voce di sezioni leghiste che localmente chiedono di correre insieme alla Pdl, con cui si sono trovati bene, debbano essere commissariate, con tanto di cambio della serratura dei locali ed espulsione dei reprobi? Ma Bossi non aveva sempre sostenuto che «ognuno deve essere padrone a casa propria»? Il caso-Tosi a Verona è illuminante in proposito. Le minacce di cacciarlo - e allora con Boni che bisogna fare? - se presenta una propria lista è una sorta di «pronunciamento» ad personam, anzi contra personam, in spregio a un sindaco che ha ben lavorato, ha fatto fare bella figura alla Lega, anche a livello nazionale, e merita dunque appoggio, riconferma, stima, a cominciare dal segretario del suo partito. Altro che «se lo vedo gli mollo due schiaffoni». E, anche in questo caso, dov’è il coraggioso Maroni, dove sono i «barbari sognanti», come mai non difendono l’esponente veronese? Ecco, Tosi è l’emblema del partito-setta in cui la Lega si è trasformata, ed è ormai da molti anni. Se sei popolare, bravo, capace, sai leggere e scrivere, fai il tuo dovere, diventi «pericoloso» e ti sei macchiato di una «colpa» imperdonabile: sei troppo bravo, rischi di dare fastidio, crei il timore di essere il fiore all’occhiello di una regione - come nel caso del Veneto e di Tosi - che non ha mai avuto leader ma figure scialbe o folkloristiche e che hanno sempre avuto una missione: non disturbare, non minare, non sgretolare a favore del Veneto la centralità varesotta, bergamasca o bresciana. Il Veneto, prima ancora della Lombardia, è il vero cuore del leghismo, la vera forza, la autentica spinta che negli anni ha permesso, senza mai avere nulla in cambio (se non per i papaveri locali), per un popolo fiero, pieno di dignità e consapevole della propria Storia. La rivoluzione leghista, anzi in questo caso la rivoluzione contro chi ha tradito la gente leghista non può che partire dal Veneto. C’è però bisogno di un leader. Ecco perché Tosi fa paura, viene osteggiato e faranno di tutto per massacrarlo e impedirgli di essere confermato sindaco. Altro che «far fuori» Monti. Cercheranno di «far fuori» Tosi. Pronti a mettersi d’accordo, ancora una volta, perfino con i «male accompagnati»… Meglio ancora ripescando e appoggiandosi a Giulietto Tremonti, un altro che ci ha messo qualche anno per accorgersi quanto a lungo e quanto male si era accompagnato.
(Dal sito http://millevignette.blogspot.com)
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RITORNA LA TESORERIA CENTRALE
LE SCALE sante di RUGGIERO CAPONE LEGA Nord, liste civiche locali e redivivo partito dei sindaci (oggi del duo de Magistris-Emiliano) hanno ricevuto un vero e proprio colpo di grazia dall’esecutivo Monti. L’ossigeno alla politica sul territorio, alle iniziative locali e comunali, è stato chiuso dal «decreto liberalizzazioni»: ha obbligato le amministrazioni locali a trasferire a Roma le risorse raccolte nelle municipalità del Nord come del Sud. L’Anci (Associazione nazionale dei Comuni), in cui sono ben rappresentati i leghisti, ha promosso un ricorso in sede civile, per opporsi alla norma che ha obbligato Regioni, Comuni e Province a trasferire allo Stato il 50 per cento delle risorse depositate presso le tesorerie locali al 24 gennaio. Il primo marzo scorso, gli enti locali sono stati costretti a versare a Roma tutto quello contabilizzato entro il 24 gennaio: norma capestro che ha trasformato in poveracci tutti i comuni d’Italia. La norma di Monti uccide l’autonomia della gestione finanziaria locale e soffoca il federalismo (soprattutto fiscale). Una norma che, sospendendo per mancanza di risorse tutti gli adempimenti locali, mette in braghe di tela tutti i partiti localistici: in primis la Lega. Una norma che porterà entro il 2013 all’estinzione delle cosiddette «Autonomie locali». Il governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, ha diffidato l’istituto di credito dal trasferire le risorse della sua Regione alla tesoreria unica nazionale (emblema dello Stato centralista). Ma sappiamo che si tratta d’una sorta di canto del cigno del federalismo fiscale. L’esempio di Zaia viene seguito da tutti i sindaci del Nord (e non soltanto della Lega), ma ben sappiamo che nessun istituto di credito può nicchiare a cospetto d’un ordine di conferimento dei fondi presso la tesoreria di Bankitalia. Quella del governo Monti è certamente scelta ipercentralista, che inesorabilmente stronca tutte le velleità autonomiste. A oggi hanno raggiunto Roma circa il 50 per cento delle disponibilità liquide degli enti locali. Ma il contenzioso è ormai aperto. Il governo è pronto a fare propria ogni risorsa di comuni, province e regioni. Per risanare le casse centrali, Monti sta facendo tornare l’Italia al modello dopoguerra, quando le risorse confluivano tutte su Roma: poi comuni e province chiedevano le rimesse per poter amministrare. Pratica che lentamente l’Italia aveva abbandonato con la creazione delle Regioni, e con i vari decreti delegati che decentravano i poteri verso le tante periferie. Sotto la scure di Monti non cade soltanto la Lega di Bossi, ma anche la gestione torinese di Piero Fassino, come il risanamento napoletano di Luigi de Magistris, l’amministrazione romana di Alemanno e la politica per Bari di Michele Emiliano. Tutti volevano fare politica investendo localmente le entrate, ma il governo Monti ha tolto il carburante alle loro macchine consensuali. «Gli enti locali sono in una condizione in cui potrebbero essere costretti, a breve, a vendere tutti insieme importanti partecipazioni delle nostre società nella gestione del trasporto pubblico, dei rifiuti e d’altri servizi pubblici locali, con l’obbligo e la possibilità di utilizzare i proventi di queste ven-
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dite in deroga al patto di stabilità», spiega Michele Emiliano (sindaco di Bari). «Si tratta di un modo, nell’obiettivo di alcuni, per ridurre i costi. Viceversa», ha proseguito il Sindaco di Bari, «noi stiamo cedendo beni essenziali soprattutto per le persone che hanno bisogno dei servizi pubblici per muoversi, per vivere coscientemente la città e per avere soprattutto un controllo sui costi della loro vita che non siano solamente legati al mercato.» Ed il «Partito meridionale dei Sindaci» (quello di de Magistris ed Emiliano) tenta di pescare nel serbatoio della Fiom, che oggi incarna il grande dissenso operaio contro Monti. «Lo sciopero di otto ore che la Fiom ha indetto rappresenta una battaglia preziosa per tutte le lavoratrici e per tutti i lavoratori, per le cittadine e per i cittadini», scrive sul suo blog Luigi de Magistris (sindaco di Napoli). «Perché se la democrazia, la Costituzione e i diritti vengono cancellati nei luoghi di lavoro, di conseguenza scompaiono anche nel resto del Paese, nella società e nella vita di ciascuna e ciascuno di noi. Mai andrebbe dimenticato, infatti, che il fondamento della nostra Repubblica è la Costituzione e la Costituzione stabilisce con chiarezza, al suo articolo 1, che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. E con lavoro si intende un’occupazione stabile, articolata secondo diritti e doveri, capace di garantire l’essere umano tanto dal punto di vista economico quanto della propria realizzazione personale. Prima con il governo Berlusconi ed oggi con il governo tecnocratico di Monti, che rappresenta la sospensione di una risposta politica alla crisi economico-istituzionale in atto, è stato portato avanti un sistematico attacco volto a scardinare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.» Emiliano e de Magistris tentano d’intercettare il dissenso di chi teme il piano licenziamenti della Fiat. «Esempio massimo di questo attacco è rappresentato dal (sub)modello imposto dalla Fiat, per altro con l’avallo dei governi e con la felicitazione massima di Federmeccanica e Confindustria», aggiunge de Magistris. «Essendo sindaco di Napoli, penso in particolare alla vicenda dello stabilimento di Pomigliano d’Arco: palestra e laboratorio per esportare la negazione dei diritti e della democrazia sul lavoro in tutto il Paese e in tutti gli stabilimenti.» Persino la Valle d’Aosta, presieduta da Augusto Rollandin, viene costretta (per la prima volta dalla sua nascita) a conferire le sue ricche casse a Roma. Il decreto liberalizzazioni non guarda in faccia nessuno. L’Unicredit, che aveva da poco vinto l’appalto di tesoreria per la Valle d’Aosta, ha subito versato a Roma la cassa dell’ente. Gli Enti territoriali, e i partiti che li celebravano, sono ormai alla canna del gas: l’obiettivo è tornare al centralismo per abbattere lo spreco locale, e perché i «vincoli del patto di stabilità impediscono di investire sul territorio». Il progetto montiano è una «Tesoreria Unica» che nel giro di poco tempo possa subentrare alla miriade di tesorerie locali. La Lega parla di «perdita di un ventennio di evoluzione della democrazia, e senza aver in cambio nessuna garanzia di un ritorno economico al sacrificio». Roma intasca la liquidità degli enti locali, e costringe nuovamente i sindaci alle scale sante presso i ministeri, usanza che ci rammenta qualche pellicola in bianco e nero degli anni ‘50. Lega e partiti localistici periscono per fame, ma chi eredita le amministrazioni (in forza a partiti nazionali, forse cibernetiche Diccì) sarà costretto a rispolverare le scale sante presso le opulente segreterie romane. Modello politico per tanti sconosciuto, ad altri rammenta le gesta di Remo Gaspari che nei lontani anni ‘50 riuscì a far ottenere alla sua Gissi (paesino in provincia di Chieti) più fondi di quelli richiesti dal sindaco di L’Aquila.
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SVANITI I SOLDI DELLE OLIMPIADI
ALEMANNO alla frutta di ADALBERTO BALDONI
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zione e ricostruzione di Tor Bella Monaca, il Waterfront di Ostia, il mercato di fiori, il centro agroalimentare, il Campidoglio 2, piazza San Silvestro, il parcheggio del Galoppatoio, il progetto dell’Ara Pacis-piazza Augusto Imperatore, il completamento del mattatoio di Testaccio, la ristrutturazione dei Mercati generali, la prima tratta della metro C (su cui indaga la Corte dei Conti), il tram 8 a piazza Venezia, la partenza del cantiere Rebibbia-Casal Monastero. Sulla carta dei buoni propositi anche il restauro del Colosseo, la Nuvola di Fuksas, l’inaugurazione della metro B1, il Piano nomadi, la chiusura della discarica Malagrotta. Programma ambizioso, faraonico, più da inizio che da fine consiliatura da portare avanti, per tentare di addolcire la cocente delusione della mancata candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020 e distogliere l’attenzione dalle inchieste della magistratura sugli scandali di Parentopoli.
MANCANO 14 mesi circa alle elezioni amministrative di Roma e il sindaco Gianni Alemanno sta tentando di attenuare il fallimento della sua azione di governo. Sono passati quasi quattro anni dalla conquista del Campidoglio da parte della destra ma, a parere della stragrande maggioranza dei cittadini (specialmente quelli che abitano nelle sterIl traguardo mancato delle Olimpiadi - Monti ed il minate e desolanti periferie), il bilancio è decisamente suo governo tecnico che lavorano per il Paese e non per i negativo. tornaconti personali di qualche privato, dopo avere valutato La delusione più forte proviene dall’elettorato di cencosti e benefici dell’operazione, hanno constatato che non trodestra che aveva sperato in un sostanziale cambiamento esistevano la condizioni per procedere. «Non possiamo di rotta rispetto alle precedenti gestioni della sinistra. correre rischi, non sarebbe stato responsabile», ha detto il La discontinuità non c’è stata, anzi, sono aumentati il presidente del consiglio motivando il «no» alle Olimpiadi. clientelismo, il nepotismo più sfacciato, la corruzione, il Ma quanto sarebbe costato organizzare i Giochi? Circa degrado del territorio, la violenza. 9,8 miliardi di euro, metà dei quale sarebbero stati sborsati Agghiacciante ma estremamente indicativa la frase di dai privati. Lo Stato avrebbe subìto un salasso di 4,7 miAdalberto Bertucci, quando è stato costretto a dimettersi liardi di euro, 42 milioni dei quali da versare subito. A da amministratore delegato dell’Atac, a seguito dello scanparte la cifra astronomica che, in un momento critico come dalo delle assunzioni: «Gli altri hanno pappato fino a quequesto, avrebbe pesato negativamente sulle casse dello sto momento, ora tocca a noi!» La disarmante affermazioStato (e quindi dei contribuenti), sul giudizio negativo del ne del fedelissimo di Alemanno, avrebbe fatto pensare governo, hanno pesato i precedenti. Ai Mondiali di nuoto all’assunzione di disoccupati e giovani precari di destra. di tre anni fa, svoltisi nella capitale, soltanto per le piscine Macché. Mamma Atac ha aperto le porte soltanto ai familiari, ai conoscenti, agli amici degli amici, ai nani e alle ballerine che ruotavano attorno a chi, in quel momento, gestiva la Mobilità e i Trasporti della capitale. Nel giorno del suo compleanno, Alemanno ha radunato giunta e consiglieri di maggioranza, per spronarli al rush finale: «Per vincere nel 2013 possiamo e dobbiamo vincere come squadra. Se ci dividiamo in individualità, ognuno per conto proprio, siamo destinati a perdere». Numerosi consiglieri si sono guardati in faccia sghignazzando. Fino a quel momento, infatti, un vero e proprio gioco di squadra non si era mai verificato, dato che Alemanno è un incorreggibile accentratore. La sua presunzione lo ha sempre portato ad ignorare consigli, suggerimenti, proposte anche dei suoi più vicini collaboratori. Nel corso del conclave, invece di enumerare le opere compiute, ha illustrato alcune iniziative da portare a termine o da prendere: sostanziale modifica del Piano regolatore, Piano casa, l’inizio della demoli(Dal sito mauropatorno.blogspot.com)
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i costi erano lievitati da 102 a 134 milioni di euro, tanto da fare includere anche questa vicenda nell’inchiesta della magistratura sulla cricca dei «Grandi eventi». Per i mondiali di calcio del 1990, il costo iniziale per costruire lo stadio delle Alpi a Torino era di 60 miliardi di lire. Alla fine il costo è stato più del doppio, 125 miliardi di lire. Poi, non è detto, che tra le sei città concorrenti, Roma, Tokyo, Instanbul, Doha (Qatar) e Baku (Azerbaijan), la scelta del Cio sarebbe toccata a Roma, dato che soltanto il 7 settembre 2013 a Buenos Aires, avverrà l’assegnazione dei Giochi. Ma, nel frattempo, la macchina organizzativa di Coni, Campidoglio e privati, si sarebbe messa in moto. Comprensibile, pertanto, la frustrazione di Alemanno, già provato per la catastrofe della neve caduta nei primi di febbraio sulla capitale (Un evento atmosferico che lo aveva preso alla sprovvista, spingendolo a giustificarsi in modo puerile, tanto da essere spernacchiato dai media, senza distinzione di colore). Il sindaco si è anche lamentato del debole sostegno dei partiti al progetto olimpico. Ma, sotto questo punto di vista, deve recitare soltanto il mea culpa, perché anche nei confronti dei suoi colleghi di partito, ha sempre tenuto un atteggiamento distaccato, spocchioso, spesso scostante. Sono rimasti scornati anche coloro che si sfregavano le mani al pensiero di una Grande Abbuffata: «Il “circo” delle Olimpiadi avrebbe significato lavori, assunzioni, spettacolo: per il primo cittadino sarebbe stato una vera e propria manna dal cielo. Avrebbe potuto inaugurare cantieri e assicurare posti di lavoro. Così avrebbe rilanciato l’immagine della città, all’estero ma anche fra i suoi stessi abitanti e, dunque indirettamente anche la sua. Per l’Italia e per le sue casse, invece, sarebbe stato un disastro. Non diciamo che sarebbe finita come la Grecia svenatasi per i giochi del 2004 e ora in bancarotta, ma quasi. Di fondi ne sarebbero usciti a fiumi» (Maurizio Belpietro, Libero, 15 febbraio). Ha ragione il direttore di Libero quando afferma che Alemanno aveva puntato tutto sulle Olimpiadi per risollevarsi nei sondaggi. Il «circo» delle Olimpiadi avrebbe trasformato Roma in un cantiere a cielo aperto, anche per realizzare le opere che aveva promesso all’inizio del suo mandato. Ma siamo proprio sicuri che la preparazione dei Giochi avrebbe distratto i romani dagli eventi negativi che hanno sino a questo momento caratterizzato la gestione del Campidoglio? Ora che il «Porto delle Nebbie» (fino a poco tempo fa, questo era l’appellativo non molto lusinghiero con cui veniva chiamata la Procura di Roma) si è svegliato per indagare sulla conduzione delle Municipalizzate, il sindaco non dovrebbe dormire sonni tranquilli. Un giorno prima del «conclave», di cui abbiamo accennato all’inizio, il pubblico ministero Corrado Fasanelli ha chiuso le indagini nei confronti dell’ex amministratore delegato dell’Ama, Franco Panzironi, legato da ferrea amicizia con Alemanno, e di altri sette soggetti . Gli indagati sono accusati, a seconda delle diverse posizioni, di abuso d’ufficio, falso e violazione della legge Biagi. La chiusura delle indagini prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Questa è la prima inchiesta della Procura di Roma sulle Parentopoli nelle Municipalizzate nella capitale. Ne seguiranno altre, tra cui quella che riguarda l’Atac. Chissà se Adalberto Bertucci e i suoi sodali spiegheranno anche ai magistrati come si pappa alle spalle dei cittadini onesti.
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FATTI DI MALASANITÀ
OSPEDALI in rianimazione di FELICE BORSATO TUTTO è cominciato con una visita non annunciata di due senatori della Repubblica al pronto soccorso del Policlinico romano «Umberto I», sicuramente allertati dalla presenza di una donna, bisognosa di cure immediate, abbandonata su una barella, non in corsia e legata allo strumento di emergenza ospedaliera (la barella, appunto) per evitare che cadesse a terra, mancando dei supporti laterali, tipici ed essenziali di un letto vero e proprio. I senatori (Marino del Pd e Gramazio del PdL) hanno constatato la situazione di chiara emergenza ed hanno agito di conseguenza provocando l’intervento del Ministero della Sanità e atti collaterali (denunce al livello ministeriale ed intervento di Procura e Regione); e di questo caso, indubbiamente doloroso e imbarazzante, ha parlato anche il presidente della Regione Renata Polverini direttamente con il Presidente del Consiglio Monti. Senza nulla togliere alla esperienza acquisita sul campo dal senatore Ignazio Marino e ai ruoli specifici avuti nell’ambito delle commissioni del Senato, ricordiamo i trascorsi del senatore romano Domenico Gramazio che, pur senza essere medico, si è sempre occupato di problemi diretti, o connessi alla sanità, non soltanto nella capitale e nel Lazio; è stato anche il numero uno dell’Agenzia di Sanità Pubblica e non ha mai perso d’occhio la situazione degli ospedali che ben conosce, dalla metropoli ai centri della provincia e ai paesini fuori dai grandi circuiti. Ma perché, proprio al Policlinico di Roma, che fa parte della organizzazione universitaria della «Sapienza», è accaduto l’episodio scandaloso, finito subito sui giornali come esempio di malasanità? Diciamo che non è stato il solo; anzi: con un effetto domino sorprendente, quasi insieme, sono stati denunciati casi analoghi al «San Camillo» e altrove, a Roma e fuori. Affrontando questo problema, si potrebbe entrare nel merito di cure, terapie, capacità di intervento, efficienza del pronto soccorso, preparazione del personale paramedico ed altro. È, invece, un problema di efficienza minima che la nostra organizzazione ospedaliera - anche, come stiamo vedendo, a livello universitario - non è in grado di garantire. Cominciamo dalla mancanza di una cultura del pronto intervento medico: dalle sette alle otto persone su dieci, che si rivolgono al pronto soccorso ospedaliero, lo fanno per un eccesso di paura e cautela. Prima conseguenza l’affollamento di strutture disposte in modo tale da poter rispondere ad un flusso di domanda normale, per la collocazione urbanistica dell’impianto ospedaliero stesso: e qualcuno finisce in barella, quasi dimenticato, con tutte le conseguenze che ben conosciamo. Chiedere, poi, nella inevitabile fase investigativa, spiegazioni al direttore sanitario o al responsabile del tale reparto, è soltanto una perdita di tempo che allontana dalla verità i veri responsabili del
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disservizio. Al Policlinico di Roma senz’altro, ma forse in tutti i grandi ospedali andrebbero riorganizzati i servizi di base: accoglienza, ricovero e permanenza. Capita di leggere nelle cronache che un malato è stato trasferito da un ospedale ad un altro, non soltanto alla ricerca di una specializzazione, e questo, in effetti, è un servizio che andrebbe perfezionato e potenziato per risolvere in tempi ragionevoli l’emergenza; ma troppo spesso le ambulanze girano da un ospedale ad un altro, senza poter risolvere il problema dell’ammalato che hanno a bordo. Manca il coordinamento: anche una sola persona che agisca telefonicamente, riducendo pericolose perdite di tempo. Per quanto riguarda il Policlinico universitario di Roma (lo abbiamo ricordato il 24 febbraio scorso su www.italiannozero.it), fu Pietro Valdoni ad organizzare il pronto soccorso e vararlo con criteri di funzionalità che lo resero ben presto il più importante dell’intera rete sanitaria nazionale: ogni settore della medicina di pronto intervento era presente a tempo pieno in quel posto di pronto soccorso – H24, diremo oggi - che non registrò mai incidenti di percorso del tipo di quello evidenziato dai due senatori. Il tempo, evidentemente, ha logorato il sistema e nessuno (allora non esistevano ancora le aziende sanitarie locali, prima Usl, poi Asl) ha messo mano ad una normale e semplice revisione, pur senza le caratteristiche della grande riforma, ma in grado di garantire il normale funzionamento del pronto soccorso, come ogni cittadino può esigere, come vuole la società civile. Ma il caso verificato e denunciato dai due senatori al Policlinico non deve essere considerato la punta dell’iceberg del fenomeno nazionale. Senza entrare nel merito del tipo di prestazione, della metodologia medica, delle scelte e delle terapie adottate, è stato denunciato soprattutto un caso di disorganizzazione aziendale che ha costretto un essere umano, bisognoso di assistenza e cure (immediate) e prolungare una sorta di inammissibile degenza in condizioni di codici inesistenti. Sono bastati pochi giorni per scoprire altre «magagne» al «San Camillo»; mentre a Napoli un primario del rinomato ospedale «Cardarelli» dovrà rispondere al magistrato dei suoi comportamenti, e siamo soltanto alla prima parte di una operazione che - a quanto si può già valutare dovrebbe dar e quanto prima risultati di eccellenza. Come dire, un altro modo di fare semplificazione a beneficio dei cittadini. Di certo il personale medico delle strutture ospedaliere ha carte e numeri in regola con le esigenze; ma è assente, anche negli organigrammi del personale quel funzionario-dirigente, cui compete la disponibilità di quanto serve ad un pron-
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to soccorso attrezzato e che - da responsabile della organizzazione interna dell’intero ospedale - conosce la disponibilità dei posti letto per lunghe degenze nei reparti, dayhospital, sala per la rianimazione o camere operatorie. Anche in questi casi, che hanno trasformato troppo spesso la sanità nazionale in mala-sanità, responsabilità non indifferenti ricadono sulla classe politica. Come e perché, lo vediamo subito. Le aziende sanitarie locali offrono buone possibilità di sistemazione a uomini indicati dai partiti politici, a livello periferico e queste «collocazioni improprie» giungono fino agli ospedali e quindi anche ai pronto-soccorso; non che certi settori dell’organizzazione abbiano bisogno di medici od esperti; servono soltanto funzionari onesti in grado di comprendere ed agire di conseguenza, come farebbero in qualsiasi altro tipo di azienda, senza laurea in medicina, o specializzazioni. Negli ospedali della sanità pubblica nazionale l’andamento gestionale dovrebbe essere un esempio e una indicazione valida per tutti, perché di questo settore tutti i cittadini possono beneficiare senza mettere mano al portafogli. (Il problema della gestione generale e dei bilanci è altro e costituisce, purtroppo, una «piaga» non indifferente che grava sul bilancio dello Stato). E la discutibile gestione aziendale riguarda anche buona parte delle cliniche private, almeno quelle delle grandi città. La clientela è variegata: poca gente che non bada a spese, in leggera flessione, e la maggioranza che dispone di polizze assicurative private, o può vantare diritti acquisiti con gli enti previdenziali di riferimento. Basta una sbirciata frettolosa al tipo di fatturazione di certe cliniche private per rendersi conto della legalizzazione di abusi non indifferenti che meriterebbero maggiore attenzione, dal momento che le stesse fatture saranno inviate per l’incasso ad enti pubblici e privati che hanno esigenze precise di bilancio da rispettare e che hanno soltanto «colpa» e difetto di saldarle in ritardo. Ne ho una sotto gli occhi che presenta - con un totale da pagare di oltre seimila euro - la voce «diritti di segreteria». Un po’ troppo, non vi pare? E anche questo è un caso di mala-sanità, perché, quando c’è di mezzo la salute (e la vita) di un pover’uomo, tutto è possibile e lecito. Evitando che crepi in clinica!
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IL BORGHESE
SCORTICARIA
MALA tempora ... di MINO MINI NON si costruisce più e 60.000 imprese edili - il 15 per cento dell’intero comparto - nel 2011 hanno chiuso l’attività. Qualche impresario si è suicidato e qualche altro ha tentato di immolarsi dandosi fuoco ed è stato salvato in extremis. Una cappa di cupa disperazione incombe su una delle prime e più importanti industrie d’Italia, un tempo volano anticrisi per il vastissimo indotto a cui da luogo. Altro che Fiat. Vasco Errani, presidente della regione EmiliaRomagna denuncia che il settore dell’edilizia «è nel pieno di una forte crisi e occorre un piano nazionale di investimenti intelligenti. Bene il rigore dei conti pubblici e i parametri dell’Unione Europea ma bisogna investire … in particolare in due direzioni ben precise: 1) un piano di edilizia residenziale pubblica, perché ormai siamo all’emergenza abitativa: interventi che guardino alla sostenibilità ambientale e al risparmio energetico; 2) poi occorre un piano decennale di messa in sicurezza del territorio. Non grandi o grandissime opere ma con interventi mirati alla salvaguardia per evitare, ove possibile, emergenze ambientali». Le stesse cose che i sindacati chiedono al ministro Passera. Poi, però, si scopre che disseminata sul territorio c’è una miriade di case invendute o sfitte. Dov’è, allora, l’emergenza abitativa? In realtà ci troviamo di fronte ad un fenomeno di sovrapproduzione di edilizia speculativa dipanatasi nell’arco dei dodici anni 1995-2007 quando, sfruttando gli incentivi della legge Tremonti ed i bassi tassi di interesse, nonché la forza lavoro proveniente principalmente dall’est europeo - ricordate la sindrome dell’idraulico polacco? - sorsero imprese edilizie costituite da improvvisati immobiliaristi che dilagarono nelle periferie urbane impestandole di pessima edilizia. Fu una vera e propria bolla speculativa, ma già nel 2005 si manifestarono i primi sintomi di recessione nel settore fino a raggiungere, nel quinquennio 2006-2011, un calo del 40,4 per cento (fonte Ance). Oggi si lamenta la paralisi dell’edilizia privata, ma sarebbe più esatto parlare di paralisi del mercato immobiliare. In sostanza si tratta di una crisi delle vendite. Infatti le banche, proiettate verso la speculazione finanziaria piuttosto che verso il credito, nonostante i 116 miliardi al tasso dell’1 per cento erogati a dicembre dalla Bce e quello di 139 miliardi, sempre al tasso dell’1 per cento, erogati a febbraio, non concedono mutui casa se non a tassi proibitivi e dietro garanzie impossibili. Non finanziano nemmeno nuove iniziative edilizie arrivando financo a chiudere i fidi ai costruttori. Ed ecco il paradosso: abbiamo le case, ma se non c’è accesso al mutuo non c’è possibilità di acquisirle ed il bisogno abitativo diventa emergenza. Condizione nella quale si trova, soprattutto, la parte giovanile della popolazione. E
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c’è di peggio. Con l’introduzione dell’Imu, oltre a mortificare la propensione al risparmio che caratterizza il popolo italiano, lo si spinge - consapevolmente o meno - giù per la china che discende dritta nella palude della povertà. Siamo alle premesse della macelleria sociale: le pecore che non daranno più lana, saranno scorticate per carpire loro la pelle. C’è, infatti, il rischio per buona parte degli Italiani che hanno acquistato la casa facendo ricorso al mutuo, di non riuscire a conservarla. Con le rendite catastali «rivalutate» nonché con le aliquote a discrezione dei sindaci decisi a far cassa sul mattone, il vecchio balzello sulla casa crescerà fino a superare il 200 per cento. A conti fatti prendendo a riferimento il valore di un’abitazione compresa nella fascia dei 250-300 mila euro - la più diffusa - il proprietario si troverà a pagare circa un migliaio di euro l’anno. Quasi uno stipendio mensile. Provate ad immaginare la sorte di un pensionato proprietario di un’abitazione acquistata a prezzo di sacrifici. O ritorna, se ci riesce, a lavorare per produrre la lana pardon - il reddito per pagare le tasse sulla casa o, prima o poi, si troverà a doverla vendere. Se Equitalia non lo scorticherà prima espropriandogliela di fatto con un’asta fasulla. Come già avvenuto. Spostate, adesso, l’attenzione sulla citata parte giovanile della popolazione: per loro l’Imu sarà una tassa che costituirà una ulteriore barriera alla formazione del risparmio immobiliare. È la dura, ancorché artificiosa, legge dell’economia istituzionale - la scorticaria - alla quale, in passato, si contrappose l’economia sommersa che veniva messa in atto per rispondere alla altrettanto dura, ma reale legge della necessità. C’è, dunque, da aspettarsi un rifiorire dell’abusivismo edilizio ed urbanistico e lo scempio di ulteriori periferie da sanare. Con tanti saluti alla qualità della vita, alla sostenibilità e a tutte le astrazioni che ci nascondono il reale senso della vita urbana. Ma la crisi vera dell’industria delle costruzioni, quella che la sta mettendo in ginocchio, non va ravvisata nel settore dell’avventurosa speculazione edilizia. Imprenditorialmente limitata, questa, non è stata capace nemmeno di afferrare l’occasione del Piano casa. Ad essere, invece, pesantemente colpito è il settore delle imprese di costruzione che lavorano nel campo degli appalti pubblici e si trovano in sofferenza per l’insolvenza dello Stato nelle sue diverse manifestazioni locali e nazionali. Che lo stesso fosse sempre stato un pessimo pagatore era risaputo, ma che arrivasse a procrastinare i pagamenti fino a tre anni dalla fine lavori, nessun imprenditore sarebbe arrivato ad immaginarlo. Se no, col cavolo … Eppure l’industria delle costruzioni, soprattutto nel settore dei lavori pubblici, svolse sempre il ruolo di volano dell’economia. Si ricorderà il detto: quando il mattone va tutto va. Ed è facile intuire perché. Sembra, però, che i professori di economia non ci riescano. E se fosse che non vogliono? Il dubbio è più che legittimo dopo aver preso atto del «no» del governo Monti alla candidatura di Roma per l’assegnazione dei Giochi olimpici 2020. Quale occasione migliore di quella, qualora avessimo ottenuto di ospitare le Olimpiadi, per creare i 109 mila posti di lavoro che erano nelle previsioni? Per pochi che fossero, a scala romana, ma non soltanto, sarebbe salito il Pil, divisore del debito pubblico, per effetto della propensione al consumo dei nuovi lavoratori che avrebbe favorito l’accrescimento della produzione e quindi l’offerta e con essa il reddito nazionale.
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Per non parlare del patrimonio di infrastrutture e di opere che sarebbero state realizzate. Al di là dell’aspetto economico delle Olimpiadi, però, ve ne era un altro molto più importante che andava preso in considerazione: la possibilità, con quell’evento, di innescare un processo di ridisegno organico della città contemporanea. Non che dagli workshops fosse emersa una soluzione per questo problema, ma il tavolo della discussione a livello internazionale era aperto ed anche il Borghese, con i suoi articoli, stava dando il suo contributo critico in questa direzione. L’Olimpiade, proprio per il carattere di convegno di popoli diversi, sarebbe stata l’occasione di portare all’attenzione del mondo una più matura visione della civiltà dell’abitare ove - beninteso - fosse stato possibile farla emergere. Sarebbe occorsa una visione politica della realtà assai più dinamica e lungimirante di quella da scorticatori che questi professori tecnici fossero in grado di esprimere. Il loro operato, infatti, mostra come una visione sistematica della realtà non sia nelle loro corde. Se non fosse che il dubbio più addietro espresso sulla mancata volontà di attivare il volano dell’economia mediante il ricorso all’industria delle costruzioni lascia intuire un fine inconfessabile, susciterebbe più di un interrogativo anche la loro conclamata capacità tecnica. Voci che circolano a livello internazionale diffondono la notizia che poteri facilmente individuabili avrebbero imposto all’«apriporta» della Goldman Sachs Global Market Institute Mario Monti (definizione di Le Monde ) di non presentare la candidatura di Roma perché ragioni geopolitiche imponevano altre scelte. Non siamo in grado di confermare queste voci, ma alla luce dell’azione di governo e considerando quanto sia lontana dalla stessa l’impiego del volano delle opere pubbliche per risolvere la crisi, c’è da crederci. Le cose non vanno meglio sul fronte politico. Tra circa un anno e mezzo si rinnoveranno le amministrazioni locali che, insieme allo Stato, dovrebbero porsi il problema di uscire dalla crisi. Non si sente un programma in proposito, non si vede un piano che mostri come risolvere il problema infrastrutturale, quello sanitario-ambientale e quello dell’emergenza abitativa. Nessun candidato, nessun partito che si ponga il problema delle periferie nell’ambito di una visione totale della città. Nessun centro studi che si ponga il problema della crisi dell’industria delle costruzioni. Nessun politico che abbia una più o meno lungimirante visione dei processi di realizzazione e trasformazione della città che superi la grettezza di visione della speculazione edilizia ,quale quella condotta sino ad ora, che ci ha imposto periferie anomiche, informi, degradanti, incivili. Governare una città non è la stessa cosa che amministrare un assembramento di condomini e/o farne sorgere di nuovi. Occorre una cultura urbana di nuova concezione che scaturisca da una più matura visione della realtà e sia capace di accettare e superare il fallimento dell’urbanistica ufficiale avviandone il superamento. Condizione indispensabile per avviarne l’evoluzione verso una riconquistata civiltà dell’abitare. Occorre la capacità di individuare, favorire e guidare una più avanzata e lungimirante visione imprenditoriale in grado di affrontare la realizzazione di un organico disegno della città che sia espressione della totalità della vita dei cittadini e non la realizzazione di una gretta e banale operazione speculativa. In sintesi: occorre una nuova e matura classe politica.
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IL SUD PIRATA?
Da che pulpito vien la predica di MIMMO DELLA CORTE BAMBINI capricciosi o adulti dalla memoria troppo corta? Forse, entrambe le cose. Anzi, no, probabilmente adulti dalle memoria corta, decisi a restare bambini cocciuti, viziati e, perché no, anche un tantinello bugiardi che, oltre a rifiutarsi di crescere, non hanno alcun rispetto della verità e chiudono gli occhi di fronte alla realtà, pur di continuare a piagnucolare ed accusare la mamma e, magari, anche il papà di preferirgli l’altro figlio. Si sa mai che, così facendo, potrebbero essere colti da un senso, fors’anche ingiustificato, di rimorso, smuoversi a compassione e per farlo smettere di lamentarsi dargli quello che chiede e che, nella realtà - contrariamente a quanto egli continua a protestare - negano regolarmente e costantemente all’altro. Sono questi il dubbio e la considerazione che mi hanno stimolato, qualche settimana addietro, l’ennesimo - visto che mettersi di traverso davanti a tale possibilità il nostro ci aveva già provato in precedenza, con durezza ed argomentazioni quasi analoghe - «no» del Governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia ed il titolo d’apertura: «Allarme pirateria napoletana sul tesoro dei sindaci del Nord» (anche questo, per altro, assolutamente ripetitivo e fuori luogo) con il quale il quotidiano della Lega Nord, La Padania ne ha rilanciato il «niet» alla proposta del suo collega campano, Stefano Caldoro, di istituire - con le risorse che i Comuni italiani (anche quelli meridionali, quindi) non hanno potuto utilizzare per non sforare il Patto di Stabilità Interno - un Fondo Nazionale di Garanzia, affidato alla gestione del Governo e dal quale attingere le risorse per il pagamento delle imprese creditrici della Pubblica Amministrazione. Perplessità alle quali, se ne aggiunta anche un’altra, nel momento in cui le agenzie di stampa hanno lanciato la notizia dell’ennesima tegola giudiziaria abbattutasi sui vertici della Lega Nord: l’inchiesta aperta dalla Magistratura milanese sul conto del Presidente leghista del Consiglio regionale della Lombardia, Davide Boni, accusato dalla Procura meneghina di aver dirottato verso via Bellerio, almeno un milione di euro di tangenti. Il che mi ha spinto a chiedermi «da che pulpito vien la predica». Orbene - visto che, da almeno venti anni a questa parte, di simili contumelie sul groppone del Mezzogiorno ne sono cadute in quantità industriali, riempiendolo di piaghe - qualcuno dica all’ex ministro dell’agricoltura ed ai suoi sodali nordisti, che i meridionali, dopo essere stati costretti a subire, per oltre 150 anni, soprusi e prevaricazioni, cominciano ad averne le tasche stracolme del loro lombrosismo ritornante e delle loro qualunquistiche affermazioni ridondanti di arroganza e razzismo vuoto a perdere, che mostrano come l’unico obiettivo degli emuli di Alberto da Giussano sia quello di continuare ad utilizzare il Mezzogiorno come una sorta di Bancomat al servizio esclusivo del Nord. Anche perché la verità è tutt’altra. E soltanto chi non vuole vederla, può non rendersene conto. Fatto è che, se atti di
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pirateria ci sono stati in questo Paese dall’unificazione ad oggi, sono stati consumati dal Nord a spese del Sud. Le prove? Eccovene qualcuna: la spoliazione del Regno del Sud di tutte le sue ricchezze, finite nei forzieri del nascente Regno d’Italia; il costante, mancato rispetto della norma che destinava al Mezzogiorno il 40 per cento delle spese delle aziende a partecipazione statale e dei ministeri (in realtà, tranne due volte in cui il trasferimento ha raggiunto l’1 per cento del Pil, per il resto non si è mai superato lo 0,5), trasformando così, le risorse dell’intervento straordinario in sostitutive di quelle ordinarie, mentre avrebbero dovuto essere aggiuntive; le opere pubbliche nell’Italia del tacco realizzate sempre da imprese del Nord, con quelle meridionali a far da spettatrici, costrette, al massimo, accontentarsi di avere subappaltato il lavoro, sicché le prime portavano a casa risorse senza sostenere che pochissime spese, mentre le seconde pochi spiccioli con ingentissime spese; le risorse destinate all’incentivazione dell’imprenditoria, trasformatosi in una vera manna per le aziende settentrionali che prima ne hanno approfittato e poi, nel momento di difficoltà hanno smantellato baracca e burattini; strade ed autostrade (vedi, ad esempio, la «Basentana») realizzate più che per soddisfare esigenze delle comunità locali, per supportare la crescita del mercato dell’auto e, soprattutto, la Fiat; la svendita del Banco di Napoli, ceduto per 63 miliardi di lire alla Banca Nazionale del Lavoro (soltanto il palazzo di via Toledo, ne valeva 100) e da questa ceduto appena 2 anni dopo all’Istituto San Paolo per ben 1.700 miliardi. Di più, dopo altri due anni, il nuovo proprietario - evidentemente, la preda partenopea era così tanto succulenta e piena di consistenza carnosa da stimolarne viepiù la voracità - non contenta della quota acquisita dalla Bnl, decise d’investire altri 4.000 mila miliardi, per acquisire anche la parte in circolazione sul mercato azionario e far proprio l’intero capitale societario. Discorso analogo per gli altri Istituti di credito meridionali, grandi o piccoli che fossero, tutti finiti in pasto ai concorrenti settentrionali. I quali, riempiendo, in questo modo, di loro sportelli l’intero territorio «sudista», sono riusciti a drenare verso il Nord ed investire nelle loro aree di riferimento una parte, sempre più cospicua, del risparmio raccolto nell’Italia del tacco che così facendo ha aggiunto «al danno» di essere depauperata dei sacrifici dei propri risparmiatori, anche «la beffa» di vedere il primo a crescere a proprie spese. E, ad essere sinceri, non si può certo dire che il presente, sul fronte dei rapporti Nord-Sud, non sia all’altezza del passato. Si pensi, ad esempio, alla fiscalità generale, pagata per sostenere le pensioni di anzianità che và per il 75 per cento al Nord e per il 25 al Sud; ai fondi ex Fas, oggi, coesione e sviluppo, di competenza per l’85 per cento dell’Italia del tacco, che durante la crisi sono stati utilizzati per gli ammortizzatori sociali e, quindi hanno preso prevalentemente l’autostrada che porta al di là del Garigliano e per pagare le multe dell’Ue per le quote latte in eccesso prodotte dagli allevatori padani; il Fondo sanitario nazionale che tiene conto unicamente dell’anzianità della popolazione e finisce nella stragrande maggioranza nelle casse delle regioni settentrionali, per cui la salute di un cittadino padano vale molto più di quella di un terrone, al punto che se si moltiplica la differenza pro capite per il numero dei residenti e per gli anni da quando questo sistema di riparto è entrato in funzione, se ne ricava una cifra pari al debito della sanità campana, che se avesse potuto contare su queste risorse, non sarebbe di certo nelle condizioni in cui si trova oggi. Anzi. Ciò, sia chiaro, non dona a quest’ultima stimmate di virtuosità, ma riempie di spine di spreconeria anche quelle delle regioni dell’Italia continentale. E come considerare, poi, se non come un ennesimo atto di prevarica-
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zione, il fatto che per recuperare gli scavi di Pompei, dopo i recenti crolli, saranno utilizzati giovani architetti ed archeologi provenienti in gran parte dal nord, pochissimi meridionali e nessun campano? Tutto questo, perché, alle assunzioni previste per il ripristino del sito si provvederà attraverso il ricorso a generiche «graduatorie in corso di validità», mentre sarebbe stato più giusto provvedere, alla trasformazione dei contratti precari di collaborazione esterna o consulenza a tempo determinato esistenti in contratti a tempo indeterminato o almeno alla loro proroga per il tempo necessario ad indire ed effettuare un nuovo concorso su base regionale. Una correzione che era stata anche promessa, ma cui non si è mai messo mano. Forse sono un tantinello malfidato, ma la ripetitività quasi parossistica con la quale i principali esponenti della Lega Nord si mettono di traverso davanti a tutte le proposte finalizzate a limitare l’eccesso di privilegi del Nord ai danni del Sud ed al riequilibrio del dualismo fra le due Italia, mi suscita la strana sensazione che il vero federalismo cui loro ambiscono sia ispirato alla logica perversa del «ciò che è nostro è nostro e nessuno deve metterlo in discussione, quello che è vostro ce lo prendiamo e nessuno deve osare opporvisi». Preoccupazione ingigantita dalla constatazione delle sempre più numerose e significative inchieste giudiziarie in corso nei loro confronti. Di cui, quella che coinvolge Davide Boni e sottolineata in precedenza è soltanto l’episodio, al momento, finale. Per carità, per formazione e convinzione personale, sono un garantista a tutto tondo, per cui so bene che un avviso di garanzia o l’apertura di un’inchiesta non sono necessariamente sintomi di colpevolezza e, di conseguenza, anche lui come tutti i leghisti inquisiti per altre faccende sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva. Ciò, nondimeno, qualche dubbio è legittimo. O no? Sicché, alla luce di tutto questo, continuo a chiedermi, ed a chiedervi amici lettori: può, non lasciare perplessi il silenzio dei parlamentari meridionali di fronte allo smaccato lombrosismo dei signori della Lega? A mio parere no. E allora se non hanno il coraggio di parlare, per difendere le legittime aspettative della gente del Sud, cosa aspettano ad andarsene a casa? Forse che provvediamo a mandarceli noi? P.s. Detto questo, mi preme anche sottolineare che, personalmente, non sono mai stato afflitto da fobie anti-tricolori. Anzi - come ho sottolineato nella premessa del mio SuperSud quando eravamo primi - sono orgogliosissimo di essere italiano, pur nella fierezza della mia identità meridionale.
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LA VICENDA DEI MARÒ
ADDIO, Italia di MARY PACE IN ITALIA non esiste più una sovranità, che, pur se limitata dalla sconfitta del 1945, riuscivamo a conservare. Oggi è sparita anche quella. Non esiste più una legittimità, non esiste più uno Stato, non esiste più una linea politica degna di questo nome. Ciò che è successo ai due fucilieri del «San Marco» è una conferma. Questo Governo «fantoccio» ha fatto sì che l’India li arrestasse. Per comprendere come si è potuto arrivare a questo, occorre tornare a quel tragico 15 febbraio, quando la petroliera Erica Lexie navigava al largo della costa sud occidentale della penisola indiana. Mercoledì 15 febbraio alle 12,30 ora italiana i due fucilieri della «San Marco» avvistano un’imbarcazione in fase di avvicinamento con cinque persone, all’apparenza armate. I nostri marinai mettono subito in atto le procedure di riconoscimento, ma nonostante ciò l’imbarcazione sconosciuta né rispondeva ai segnali né cambiava rotta. I nostri militari, a quel punto, si videro costretti ad usare le armi, sparando in mare a scopo intimidatorio e senza mai colpire la nave sospetta, che poi si è allontanata dalla petroliera italiana. A seguito dello scontro, le autorità indiane del porto di Kochi accusano i nostri soldati di aver ucciso due pescatori imbarcati sul natante rientrato in porto con lo scafo crivellato. Inoltre, nonostante che la nave si trovasse in acque internazionali, le autorità indiane pretesero che attraccasse a Kochi; in questo modo, una volta in acque indiane, fu facile salire a bordo e prendere in consegna i due marò. Quello da tenere bene a mente è che il fatto si è svolto in acque internazionali e che quelli che l’India chiama pescatori, probabilmente, sono dei pirati dell’ultima ora. Il terrorismo tra le coste dell’Africa e quelle dell’India oggi si chiama pirateria. Il Governo indiano chiude gli occhi su questi reati che mettono a rischio le navi militari e civili che attraversano queste acque pericolose dirigendosi anche verso le Seychelles. In questi ultimi tempi si sono verificati sequestri di navi da parte dei pirati che hanno violentato anche le donne, ignare del loro amaro destino, che si dirigevano sulle isole per trascorrere una vacanza, magari agognata da tempo. Tornando all’imbarcazione dei presunti «pirati», sembra che non sia la stessa che gli Indiani hanno fatto vedere con i due cadaveri sempre avvolti nelle coperte; inoltre, le foto dell’imbarcazione coinvolta nello scontro, scattate dai marò, non sembrano corrispondere. L’autopsia è stata effettuata dalle autorità indiane, ma il risultato non è stato reso noto ai rappresentanti italiani presenti in loco. L’arma d’ordinanza usata dai marò è un fucile d’assalto AR/70-90 calibro 5,56 Nato; non ci vuole certo un genio alla CSI per capire se i calibri corrispondono. I militari imbarcati su queste navi, in servizio di scorta armata contro la pirateria, sono persone scelte, capaci e competenti; sono l’élite delle
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nostre Forze armate, e non avrebbero mai sparato per uccidere se non nel caso di un attacco a bordo. Quello che ci chiediamo è il perché due militari italiani si trovavano a bordo di una petroliera civile di proprietà di un certo Sig. D’Amato di Napoli. Per capirne di più si deve risalire a quando c’era il governo Berlusconi, che con una leggina passata in sordina, creata con l’art. 5 del decreto legge n.107 del 12 luglio 2011 che venne convertito in legge n.130 del 2 agosto 2011. Tale legge è titolata «Ulteriori misure di contrasto alla pirateria». In pratica sia le navi mercantili sia le navi passeggeri possono avvalersi, quando navigano in acque a rischio pirateria, del Nucleo Militare di Protezione della Marina Militare italiana e di altre Forze Armate. Per le regole d’ingaggio è stato firmato un protocollo d’intesa tra l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa e dal Presidente della Confederazione Armatori Paolo D’Amico, che mette a disposizione degli stessi armatori una Task Force di 60 elementi scelti della Marina Militare Italiana, i quali però debbono sostenerne i costi. Lo stesso protocollo d’intesa prevede anche l’ingaggio da parte degli armatori dei contractors privati. Una coincidenza con la vicenda dei marò ci deve far riflettere. Il ministro indiano della Difesa, Antony Ak, ha chiesto di far luce sull’acquisto da parte del suo Governo di 12 elicotteri Agusta Westland 101, modello Vip, una commessa di oltre un miliardo e mezzo di euro. Il Ministro vuole vederci chiaro, accertarsi che non ci siano stati episodi di corruzione alla stipula del contratto tra l’Indian Air Force e l’Agusta Westland. Il polverone è stato sollevato dal PM Piscitelli della Procura di Napoli, che vuole indagare sulle attività svolte dalla Finmeccanica, e non a caso. La vendita degli elicotteri avvenne quando ai vertici dell’Agusta c’era Giuseppe Orsi che sbaragliò tutte le altre ditte concorrenti, lo stesso Orsi che oggi è delegato amministrativo di Finmeccanica. Inoltre, nella città di Kochi, al largo della quale è avvenuto l’incidente, la Cochin Shipyard Limited sta costruendo navi per le quali la Selex Sistemi Integrati (gruppo Finmeccanica) aveva in piedi una commessa per forniture varie militari e civili. C’è una correlazione tra l’arresto dei marò e i contratti Finmeccanica? In tutto questo caos, mentre i nostri soldati languiscono in una prigionia «dorata», il Governo, ma la Farnesina in primis, stanno facendo una pessima figura. Monti, fin dall’inizio, ha considerato il fatto secondario rispetto al genocidio in atto nel Paese attraverso la manovra economica detta anche la «soluzione finale». In India vanno le nostre «feluche», ma non concludono nulla perché neanche la Farnesina sa come comportarsi. Il Governo indiano, intanto, se la ride per aver trovato un Governo occidentale incapace di muoversi. Mentre i giornali, appecoronati davanti al «professor Monti», difendono l’opera del Governo, gli unici ad indignarsi e protestare sono i cittadini comuni, la stragrande maggioranza del popolo. Anche i giornalisti del Tg1 hanno indossato un fiocco giallo per protesta contro l’incredibile vicenda. Questo conferma come ormai si stia allargando sempre di più il distacco tra la maggioranza della Nazione ed il governo tecnico, che ormai rappresenta soltanto se stesso ed i mille pecoroni che lo votano. L’indifferenza mostrata dai vertici politici verso il destino dei due fucilieri italiani ha rivelato che abbiamo passato ogni limite. Ed è proprio il caso di dire Addio Italia, come se non esistesse più.
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FARNESINA
«DINASTY» in decadenza di DANIELA ALBANESE «Qualcuno ha qualcosa da nascondere? O ha paura di forconi in arrivo? O, cosciente, si vergogna? …» Queste le domande che si pongono i rappresentanti del Filp, Sindacato Autonomo della Farnesina, per rivendicare i sempre maggiori e incontrollati privilegi che allungano il divario tra i dirigenti-diplomatici e chi non è dirigentediplomatico ma semplice dipendente, tra chi ha bonus in abbondanza qualunque cosa faccia o non faccia, e chi i bonus non sa neanche cosa siano, tra chi valuta e chi viene valutato, o meglio, svalutato. Il personale di ruolo del Mae sembra negli ultimi anni diventato una specie in via di estinzione: incarichi ad aziende esterne, consulenze pagate profumatamente anche per diplomatici in pensione, esperti comandati, il personale militare, bonus, nomine ad hoc, scardinano gli equilibri non soltanto economici ma anche morali di chi lavora per loro per circa mille euro al mese. Per non parlare poi delle centinaia di giovani stagisti che, con ricambio trimestrale, sopperiscono alla mancanza di personale del Ministero lavorando di fatto e non godendo nemmeno di un rimborso-spese della mensa. Trasparenza ed efficienza un binomio ancora enigmatico per chi osserva dal di fuori le regole per ottenere promozioni e scatti di carriera nel mondo diplomatico. Pochi e ripetitivi i cognomi e le svariate omonimie che girano nei lunghi e maestosi corridoi della Farnesina, che potrebbero sembrare delle semplici coincidenze, ma che si ritrovano tra funzionari diplomatici, dalla prima alla quarta Repubblica dell’èra Monti. Parentopoli investe anche il nostro mondo diplomatico. Uno degli ultimi scandali infetta anche la politica estera italiana: l’ormai ex console generale di Osaka, detto Katanga per i più intimi camerati, viene richiamato definitivamente in Italia dalla Farnesina destituito dal suo fresco incarico. Vattani junior ha portato infatti alla ribalta delle cronache la sua famiglia, che a queste e a quelle giudiziarie non è estranea, dopo esser stato ripreso in un video in cui cantava versi tipici del ventennio fascista, diretti contro i pacifisti e i disobbedienti e inneggiando al nazi-fascismo. Eppure si difende contestando il fatto di esser giudicato per vicende estranee alla sua attività professionale. Il 45 enne proviene da una famiglia avvezza ai palazzi e alle relazioni internazionali: il padre Umberto era ambasciatore in Belgio e Germania, consigliere del primo ministro Andreotti ed è stato l’unico ad aver rivestito la carica di segretario generale della Farnesina per ben due volte. Ma la dinastia di agenti diplomatici, che risale ad almeno tre secoli fa, occupa anche altri posti in Farnesina: per esempio anche il fratello Alessandro è ambasciatore ed è stato Direttore Generale dell’ispettorato del Mae e l’altro figlio, Enrico, è stato nell’ufficio del Mae che promuove la cultura italiana all’estero. Insomma una vera Vattani Dinasty che naturalmente non è l’unica a tenere le redini del Palazzo poi-
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ché i «figli d’arte» occupano da sempre le corsie preferenziali per gli avanzamenti di carriera. Mentre proliferano scandali, sprechi e privilegi anche il Mae, strumento fondamentale per sostenere e promuovere la politica estera dell’Italia, deve razionalizzare le spese. I progressivi tagli di bilancio vanno a penalizzare alcuni settori fondamentali che rischiano di compromettere lo sviluppo professionale della rete diplomatica italiana proiettata verso uno sviluppo di livello europeo. La chiusura di molti uffici consolari, di molte Utl (Unità Tecniche Locali per la Cooperazione allo Sviluppo), i tagli alle missioni all’estero, per cui i funzionari si vedono costretti ad viaggiare in low cost e ad anticipare di tasca propria, sono il sintomo, sì di una forte crisi a livello nazionale, ma molto probabilmente anche di una cattiva o meglio poco equa distribuzione delle risorse. «L’Italia è costretta a disertare riunioni importanti a Bruxelles o a New York ma si sono spesi 6,5 milioni di euro per l’esposizione internazionale di Yeosu (Expo 2012 in Corea) o per la nostra partecipazione alla fiera orticola di Venlo, in Olanda», denuncia Enrico De Agostini, neo segretario del Sndmae, il sindacato che rappresenta 630 delle mille feluche italiane. Profonda costernazione è stata ribadita dal neo Ministro per le Cooperazione e l’Integrazione Andrea Riccardi vedendo ridotti di 7 milioni di euro i fondi destinati alla Cooperazione allo Sviluppo per coprire il decreto cosiddetto «svuota carceri», che invece, di essere distribuito tra le varie direzioni generali, per mano di decisioni interne poco trasparenti, ha penalizzato iniquamente la Cooperazione. Come vengono articolate le spese del Mae per la Cooperazione allo sviluppo e ancora per le attività culturali e le emergenze? Non ci è dato sapere! «Su questo tema», afferma Riccardi nel corso della conferenza sulla Cooperazione a Roma, «sono vigile ma molto preoccupato, perché in Italia c’è la pessima abitudine bipartisan di prendere fondi dalla cooperazione quando necessario per garantire coperture». Proprio in virtù di questa ultima ed inaspettata stretta sulla Cooperazione, Riccardi annuncia una sfida politica chiedendo l’approvazione di un decreto che istituisca un tavolo di coordinamento interministeriale sulla coerenza delle politiche di cooperazione presieduto dal Suo stesso Ministero. Un tentativo limite per cercare di salvare la Cooperazione Italiana ormai ridotta all’osso sia per le risorse residue sia per la sua credibilità a livello europeo e mondiale. Non è la sola Cooperazione ad aver perso qualche colpo ma, un atteggiamento in linea con il peso che il nostro Paese occupa a livello internazionale, lo dimostra l’inerzia con cui la Farnesina si trova negli ultimi giorni a gestire la vicenda dei due marò in India. Questo è un vero e proprio schiaffo all’Italia. Più che definire «inaccettabile» la decisione del Tribunale indiano il Ministro Terzi non sembra avere in pugno la situazione per poter rovesciare le sorti dei due soldati italiani. Una leggerezza tale da parte della Farnesina, nei confronti di un Paese che non ha mai condiviso appieno le scelte di un occidente democratico, non fa onore alla diplomazia italiana. Il governo avrebbe dovuto reagire con una diversa determinazione e aprire una vera crisi diplomatica senza di fatto rinunciare alla propria sovranità. La delusione anche nelle Forze Armate è a 360°, forse se a sventolare su quella nave fosse stata la bandiera inglese o americana i soldati sarebbero già tornati a casa.
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DISGREGAZIONE ANNUNCIATA
STUPRO di guerra di ADRIANO SEGATORI «SI VIVE in uno stato di guerra civile informale, ‘individuale’ e larvata… Quando, ad esempio, una vecchia signora si fa scippare la borsa e si ritrova all’ospedale con un trauma cranico; quando un impiegato, tornando alla sua miserabile abitazione, trova la porta fracassata e le sue cose rubate; quando ci sono tanti furti di cellulari, tanti furti di automobili…siamo di fronte a una forma di guerra civile.» Queste parole, pesanti come macigni nella loro semplicità espressiva, non sono uscite dalla bocca di qualche energumeno delle auspicate ronde cittadine, né da un leghista scatenato e neppure da un fautore della violenza liberatoria e restauratrice dell’ordine, ma da un mite psicoanalista francese, Charles Melman, fondatore dell’Associazione Lacaniana Internazionale. Esse appartengono ad un libro intervista, L’uomo senza gravità, nel quale analizza il disagio del singolo e della società attraverso gli occhi della competenza psichica. Credo che questo possa essere l’approccio più approfondito per affrontare il problema sempre più dilagante della violenza sulle donne. È demagogico auspicare torture e pene di morte, che non verranno mai applicate, o castrazioni chimiche e meccaniche di difficile applicazione: nella sostanza, è populistico e fuorviante alzare la voce e gonfiare i muscoli, sapendo benissimo in anticipo che soluzioni rapide e radicali per problemi complessi sono irrealistiche oltre che inutili nella lunga distanza. Allora è meglio tenere i nervi saldi, e intanto capire cosa sta succedendo. Il nostro tempo, liberato da ogni forma di costrizione e galleggiante sul terreno scivoloso dei diritti e delle voglie, ha perso ogni punto di riferimento valoriale, e sta lentamente tracimando verso l’irreale o, peggio ancora, verso il-tuttopossibile. Erano trenta-quarant’anni fa quando Michel Foucault e altri discettavano, con la peggiore viziosità borghese, se lo stupro dovesse essere derubricato a semplice danno da riparare con un’ammenda, e se esistesse o meno un’attenuante per Polanski, in considerazione che i bambini possono sedurre gli adulti, e via via sproloquiando. In Italia siamo arrivati, finalmente, alla non carcerazione per gli stupratori, mentre Paesi più avanzati di noi stanno studiando altre pratiche liberatorie: in Olanda, dal 2006, esiste il primo partito dei pedofili, Amore, Diversità, Libertà, mentre in Germania, dal 2007, è in discussione la depenalizzazione dell’incesto. Insomma, tra poco nessun tabù costringerà più l’uomo al controllo di sé e alla rinuncia degli istinti, e ogni comportamento potrà essere giustificato in base alla dilatazione sempre più ampia dei confini dell’etica e della norma. Questo fenomeno s’inquadra nel campo più articolato della destrutturazione dei legami interpersonali e sociali, della perdita di ogni rispetto dell’Altro, vissuto nella reciproca valutazione di utilità, di appartenenza.
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L’omicidio della moglie, dell’amante, del figlio rientra nella logica del possesso, della conferma sanguinaria che un bene di proprietà non può essere alienato, né ha alcuna facoltà di scelta, perché la forza di un aberrante diritto deve avere la meglio sul certo diritto dell’altro. Anni e anni di disintegrazione di ogni valore relazionale, in una solidificazione della società a semplice aggregazione tra soci con contratti facilmente commerciabili, ha ridotto ogni rapporto a dispositivo di interessato egoismo. A ragione Melman parla di «perversione generalizzata», in quanto il perverso è colui, o colei, che vede l’Altro come semplificato strumento per il proprio benessere e la propria soddisfazione. Gli uomini si vedono come reciproci oggetti, giocattoli da usare o, al massimo, simboli da sfruttare. Viviamo un tempo in cui «la perversione diventa una norma sociale. […] Essa è oggi al principio delle relazioni sociali, grazie al modo di servirsi del partner come di un oggetto che si getta nel momento in cui lo si giudica insufficiente». O lo si uccide, se autonomamente decide di emanciparsi da una condizione di disagio e di sottomissione. Ma attenti! Esiste una complicità ed una responsabilità condivisa in questo disastro che viene denunciato. All’interno di una relazione, sia essa affettiva, amicale, genericamente sentimentale, le dinamiche non sono stereotipate come il pensiero popolare o l’interpretazione meccanica vorrebbero far credere. I fatti di sangue, che la cronaca macabra della quotidianità ci propina, non nascono mai da un raptus (che non esiste), ma da un periodo di solito lungo di incubazione, da segnali ripetuti e chiaramente interpretati, che però vengono minimizzati, giustificati e patologicamente compresi. Il passaggio all’atto della violenza è sempre stato prima elaborato, mentalmente vissuto e psichicamente teatralizzato. Soltanto dopo un’elaborata gestazione, il protagonista concretizza il suo pensiero di morte. Quando si legge: «Dopo vent’anni di soprusi, la persona x ha perso la testa ed ha ucciso», una domanda è fondamentale porsi: cosa è venuto a mancare dal primo episodio di aggressività subìta al fatto finale della rabbia omicida? La risposta è semplice nell’esposizione, ma molto complessa nel suo dispositivo: la parola. «La violenza compare a partire dal momento in cui le parole non hanno più efficacia», commenta Melman, e questo è l’indicatore di qualunque manifestazione umana. E la nostra è una società muta; un mutismo coperto dal rumore della pubblicità, dal baccano della polemica, dalla cagnara degli insulti, dalla sovrapposizione confusionaria delle opinioni. In famiglia, nella coppia, negli incontri politici, non c’è ascolto dell’Altro, valutazione delle sue considerazioni e risposta mirata alla discussione. In questo silenzio comunicativo, sopraffatto dal trambusto di un vociferare inutile, emerge il senso della solitudine e, con esso, l’individualismo più sfrenato per rivendicare le proprie più inutili voglie. Quando ciò non è attuabile, e quando ogni possibilità di confronto viene meno per l’egocentrismo di uno o per l’esasperazione dell’altro, non rimane che l’atto inequivocabile a definire il confine del malessere. Pensare ad atti esemplari contro il reo è un’essenziale esibizione di giustizia, ma insufficiente in un più ampio approccio di conoscenza e di prevenzione. È lo stile cittadino che deve essere rimesso in discussione, e con esso valori e mentalità, che sono il terreno di coltura del disagio che viene denunciato. Riuscirà il nostro sistema a rielaborare dall’interno i fattori disgregativi che è riuscito con tanta inettitudine e cecità a fertilizzare? Nessuno è innocente, e tutti abbiamo la nostra dose di responsabilità.
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DIALOGHI SGRADEVOLI
Del maschilismo e del femminismo di GIANFRANCO DE TURRIS SIMPLICIO - L’Italia è un Paese insopportabilmente maschilista! Filarete - Ah sì? Io credevo al contrario che l’Italia fosse ormai una società totalmente femminilizzata… Simplicio - Ma come, non hai letto di quel che è successo all’Istituto Tecnico «Luigi Einaudi» di Bassano del Grappa e la polemica che ne è nata? Filarete - No. E che sarebbe successo? Simplicio - Ma non leggi nemmeno il Corriere della Sera! Filarate - Se lo conosci lo eviti. E quando posso lo evito. Simplicio - Uffa! Lo scorso 19 febbraio ha pubblicato un articolo su sei colonne per denunciare che due ragazzini di 15 anni sono stati sorpresi «a fare sesso», così scrive, nei bagni… Filarete - Accidenti. Capisco la polemica. Un fatto gravissimo, e per luogo e per età. Li avranno cacciati dalla scuola, immagino… Simplicio - Ma che dici? No di certo. Filarete - Almeno avranno appioppato a tutti e due un sette in condotta. Simplicio - Ma non si usa più… Filarete - Per la verità credevo che la Gelmini li avessi ripristinati. Comunque, almeno li avranno sospesi per un mese, spero. Simplicio - Ma sei impazzito? Così avrebbero compromesso l’anno scolastico dei due poverini. No. Li hanno sospesi per un giorno e quattro giorni. Da qui la polemica. Filarete - Incredibile! Così poco? Ci credo che sia scoppiato un casino. Simplicio - Ma che hai capito?! La polemica, non il casino, è nata perché al ragazzo hanno dato un giorno di sospensione e alla ragazza quattro. Un incredibile dimostrazione di maschilismo… Filarete - E perché? Simplicio - Perché, a quanto pare la ragazzina aveva dei precedenti disciplinari, ma sembra anche perché la cosa si sia consumata nel bagno dei maschi! Filarete - Mi vien da ridere. Magari se succedeva il contrario, come ai miei tempi, se il maschietto si fosse introdotto furtivamente nel bagno delle femmine per una scopata con una compagna compiacente si sarebbe beccato lui i quatto giorni! Simplicio - Ma sii serio! In primis non si dice scopare ma fare sesso. In secundis anche in quel caso non sarebbe stato giusto: la pena deve essere sempre uguale. La parità fra i sessi innanzitutto! Filarete - Ma non te l’avevo detto che questa è una società femminilizzata? Sono le ragazze che vanno a caccia di maschi, e se li fanno addirittura nei bagni loro riservati pur di raggiungere lo scopo! Simplicio - Sei una persona insopportabile, e pure maleducata. Ma come fai a pensare cose simili?
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Filarete - Le penso perché i fatti me ne offrono il destro. E se la scopata fosse avvenuta in classe o nella sala dei professori, si sarebbe trattato di un’aggravante o un’attenuante? Simplicio - Veramente, non saprei. Filarete - Mio caro, non ti accorgi che viviamo in un’epoca ipocrita? Di un’ipocrisia, vulgo di un politicamente corretto, vieppiù potenziato dal chiacchiericcio della Rete? Simplicio - In effetti, la faccenda è esplosa nella «blogsfera» dove ha suscitato un pandemonio e poi sui giornali… Filarete - … a dimostrazione, come puoi ben vedere, che ormai la carta stampata va a rimorchio del mondo virtuale e irreale. I giornalisti, anche delle grandi testate come il Corriere, per scrivere una storia meritevole di sei colonne vanno a cercarsela su Internet. Quando Internet non c’era, quella storiella pruriginosa di Bassano del Grappa sarebbe rimasta confinata a Bassano del Grappa, fra i pettegolezzi delle mura scolastiche e in quelle delle rispettive famiglie dei due quindicenni sessualmente compulsivi. Al massimo sulle pagine locali del Messaggero Veneto o de Il Gazzettino. Non sarebbe tracimato su Facebook e poi nel chiacchiericcio che coinvolge politici, sociologi, psicologi, pseudo esperti, religiosi, associazioni di famiglie e di alunni ecc. ecc. Dove ci si scandalizza per la differenza di punizione e non del fatto in sé. La scopata a scuola. Ora, se si rischia appena un giorno di sospensione c’è chi correrà volentieri questo rischio… Simplicio - E dagli! La cosa gravissima è la differenza di trattamento punitivo. Filarete - E perché non portare il caso in Parlamento e chiedere che ne pensa la Fornero? Simplicio - E che c’entra Fornero. Dovresti sapere che non vuole il «la» davanti al cognome, proprio per una parità dei sessi, per evitare una discriminazione sessista. Filarete - Giusto, anche se credevo che lo scopo delle vetero-femministe fosse invece la decisa sottolineatura del loro «genere»: la ministra, la prefetta, la magistrata… Almeno sino a poco tempo fa era questa la loro polemica. Ora, invece contrordine compagne! Ma ho citato il Fornero soltanto perché è intervenuta sulla questione di Belèn, della sua f… Simplicio - Attenzione a quel che dici! Filarete - … farfallina! Perché pensi sempre male di me? Simplicio - Perché ti conosco. E dunque, che ci sarebbe di ipocrita in tutto ciò? Filarete - Che la signorina argentina abbia mostrato la sua farfallina inguinale per un caso, dato lo spacco della gonna, o volutamente, avendola scostata con la manina, ha innescato una discussione ridicola perché nessuno ha sfruttato o usato la sua immagine di donna in televisione per svilirla sfruttandola, come ha detto la signora ministro. È la medesima Belén ad aver accettato di apparire a Sanremo così, con quello sgargiante vestitino, con quel vertiginoso spacco che ha rivelato,
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per caso o per volontà, la maliziosa farfallina. Nessuno glielo ha imposto. Non glielo ha suggerito Lorenza Lei o Mauro Mazza, entrambi cattolicissimi. È stata una sua scelta. È il suo mestiere o professione. Peraltro ben pagato. E infatti la diretta interessata non ha avuto nulla da replicare o da commentare sulla questione. E mi fa specie che chi si è indignato per la faccenda di Sanremo non si sia indignato per la faccenda di Bassano del Grappa. È più grave lo scorcio di un depilato pube di maggiorenne, o il «fare sesso» di due minorenni nei cessi scolastici? E lasciamo perdere l’alto dibattito che ne è seguito… Simplicio - Non capisco, a parte le tue volgarità. Filarete - Ma non ricordi? Vedo che sei tu che non leggi i giornali… Sulla stampa e nella Rete è impazzato il dilemma: ma Belén aveva gli slip o non li aveva? E il togato Aldo Grasso, sul tuo Corrierone ci ha illuminati sul fatto che esiste un modernissimo indumento intimo chiamato C-String, l’ultima frontiera del perizoma, che mette in soffitta il tanga… Simplicio - Ma come lo sai? Filarete - Mi sono documentato. Mi son detto, se ne parla il massmediologo professor Grasso, perché io ne dovrei sapere di meno? E così ho scoperto che questo C-String (non so da dove derivi il nome) è una specie di tanga autoreggente senza allacci laterali. Esiste anche per uomo, e sai che dolore! Insomma, Belén non era proprio senza mutande ma indossava questo aggeggio, che di sicuro adesso andrà a ruba presso signore e signorine. Simplicio - Ma non sai che ormai non si dovrebbe più dire «signorina»? Filarete - Accidentaccio, hai ragione! In Francia il laico governo di centrodestra del presidente Sarkozy ha deciso che per gli atti pubblici ci siano soltanto madames e non più anche mademoiselles. Anche quando le madames in questione abbiano che so, cinque, dieci, dodici anni… Ma, come mi spiegherai ben tu, così non si «discrimina» nessuno per il suo status sociale: sposate, nubili, vedove, zitelle… tutte uguali! Ad esempio la quindicenne che ha scopato a Bassano, non sul ponte ma nel gabinetto… è pur sempre una madame! Una certa Maria Luisa Rodotà ne ha fatto pure qui da noi l’apologia. Simplicio - Ma certo, la famosa giornalista figlia del professor Stefano Rodotà. Filarete - Tanto nomini! Mi cavo il cappello. Ed io che lo ebbi come assistente universitario alla Facoltà di Giurisprudenza… Era un fiscale rompiscatole già da allora… Parlava nello stesso modo flautato di adesso… Simplicio - Lascia perdere, per favore. La decisione francese, fa così il paio con la decisione italiana sulla libertà di scelta dei cognomi… Filarete - Altra boiata pazzesca non si capisce motivata da quale impellente necessità chiesta a gran voce dal popolo. E, come sempre, una decisione abborracciata all’italiana. Libertà di scelta e soprattutto senza alcuna regola. Tutti potranno fare come meglio credono: cognome del padre, cognome della madre, cognome di entrambi e, a discrezione, prima l’uno e poi l’altro o viceversa, aggiunta del nome del nuovo marito a quello del precedente per le divorziate… Senza alcun criterio alla fine si perderà di vista la linea familiare già dopo due generazioni e non si capirà più chi è all’origine di una famiglia. Ma già, chissenefregha! Roba del passato, noi si guarda al futuro indifferenziato… E poi non sarebbe vero che la nostra società è totalmente femminilizzata! Simplicio - Proprio così. Non hai visto quanti libri stanno uscendo per dimostrare che la «virilità» è in realtà tutta un’invenzione?
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L’UNIVERSITÀ DEL NIENTE
LAUREA in disoccupazione di ALESSANDRO P. BENINI I RISULTATI di alcuni concorsi pubblici lasciano perplessi, non per l’esiguità dei posti a disposizione dei concorrenti, ma per l’impossibilità di individuare candidati idonei. È accaduto di recente, infatti, in un concorso molto importante per l’Amministrazione Giudiziaria, di non poter scegliere i vincitori a causa della non conoscenza, non del diritto e delle procedure, ma per la scarsa attitudine all’uso dell’ortografia. Davanti a questi episodi tornano alla memoria i versi che Parini dedicò al Marchesino Eufemio, il nobile adolescente, che, di fronte alla benevola commissione esaminatrice, affermò, con sicurezza, che «maggio e paggio scrivonsi con due g come cugino», e, passato, poi, alla lingua latina, tradusse «esercito distrutto» in «exercitus lardi». Anche oggi, nel terzo millennio, siamo rimasti all’accondiscendente sudditanza settecentesca, dove l’approvazione di certa ignoranza scolastica continua a fare vittime. Malgrado, negli ultimi vent’anni, ogni Ministro dell’Istruzione, insediatosi nel palazzone di viale Trastevere, abbia messo mano ad una nuova riforma, il nodo complesso della preparazione dei giovani non è stato sciolto. In questi tempi di crisi e di conseguente disoccupazione, tanto si è parlato di «bamboccioni», di università agli ultimi posti nelle classifiche mondiali di efficienza, per la lunga permanenza nelle facoltà di studenti attempati e definiti da un esponente del Governo come «sfigati», ma molto poco si è detto della moltitudine di giovani che si iscrivono in massa ai licei ed abbandonano le scuole tecnico-scientifiche e professionali. È in questo fenomeno che va ricercata, in parte, una delle principali cause di tante, inutili iscrizioni all’università, principalmente in facoltà umanistiche, lasciando, come fanalino di coda, quelle scientifiche. Il diploma, valutato elemento essenziale per l’ingresso nel mondo del lavoro, è finito nella soffitta delle cose passate di moda, contrariamente ad una tradizionale tendenza delle imprese, più propense ad assumere diplomati da formare nelle proprie strutture. Al contrario, un diploma di maturità classica non rappresenta di per se, una valida idoneità per l’accesso
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alle attività produttive e comporta la continuazione del periodo di studio; un ulteriore sforzo economico per le famiglie, spesso non premiato da un posto di lavoro. La scelta di facoltà che esulano da quelle tradizionali, di «peso», quali Economia, Medicina, Giurisprudenza, Chimica ed Ingegneria, per citarne alcune delle principali, rischia, infatti, di condizionare le future opportunità di lavoro. Esistono una miriade di nuovi corsi di laurea non compatibili con le priorità di qualsiasi meccanismo produttivo. A tal proposito è illuminante l’intervista rilasciata a Vanity Fair da Nina Zilli, giovane astro della canzone, che, ricordando i suoi trascorsi di studentessa, ha dichiarato di essersi laureata in «stronzologia», affermazione che è costata all’artista una denuncia del Rettore dell’Università in questione. Con questo termine, quanto meno, inelegante, la Zilli ha voluto etichettare tutte quelle discipline universitarie assolutamente inutili nella ricerca di un lavoro qualificato e qualificante. Esistono, infatti, presso molte sedi universitarie, facoltà definite «liquide» per le loro caratteristiche di insegnare materie lontane anni luce dalla possibile applicazione pratica, insomma continuano a sfornare diplomi utili esclusivamente alla vanità degli studenti ed alla permanenza in cattedra dei loro docenti. Soltanto un paio di anni fa, con la riforma Gelmini, si era avuta la sensazione che questo stato di cose, non dimentichiamo che certi bancomat dell’erudizione gravano per numero di insegnanti sul bilancio degli istituti, fosse stato superato e che i seminari sul «benessere del gatto» fossero soltanto un ricordo di uno scherzo goliardico; invece sono ancora tanti a prosperare sulle docenze del niente assoluto. Tutto quanto non funziona negli studi e nella preparazione dei nostri giovani ha una causa principale: l’abbandono delle scuole tecniche e professionali, che dovrebbero lavorare in parallelo con le necessità delle imprese, stabilendo un numero realistico di ingressi programmati nell’industria e nei servizi, per dare finalmente una risposta significativa alla disoccupazione.
(Dal sito alfakappa.blogspot.com)
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«DAY AFTER» IMMIGRAZIONE
NEL NOME dell’antirazzismo di ALFONSO PISCITELLI FU a metà degli anni Ottanta che la prima generazione di immigrati fece il suo timido approdo in Italia. Erano gli anni dei fasti craxiani: grande crescita industriale, ancor più grande dispendio di denaro pubblico che si perdeva nei mille rivoli dello Stato assistenziale. La stagione degli anni di piombo era alle spalle e il comunismo entrava nella sua fase di estrema senilità. Gli stilisti italiani affermavano il prestigio del made in Italy in tutto il mondo e Bettino, con un escamotage contabile (ovvero conteggiando anche le quote presumibili di lavoro nero nel calcolo del Pil) ottenne che l’Italia superasse l’Inghilterra nella classifica dei cinque Paesi più industrializzati del mondo. Certo qualcosa scricchiolava, ma il tintinnare di manette era ancora lontano. Di Pietro era ancora un ruspante magistrato meridionale in odore di frequentazione dei servizi segreti, ma sempre garbato, quando riceveva inviti nei salotti buoni del Dc-Pci-Psi milanese. All’orizzonte intanto erano apparsi loro: gli immigrati africani, paradossali figure coperte da strati multipli di tappeti, collanine, sottanine che vendevano a basso prezzo sulle spiagge. Un occhio attento percepiva già allora l’incongruenza di questa apparizione: quando gli Italiani emigravano in Europa e in America lo facevano per inserirsi in possenti meccanismi industriali bramosi di nuove braccia per alimentare la loro espansione. Inoltre essi andavano a riempire territori ampiamente sottopopolati. Invece, la nuova immigrazione da subito gonfiava a dismisura i settori del sottolavoro: la vendita sulle spiagge, la vendita ai semafori. Qualche spirito dallo sguardo ancor più pessimista notava che il vero lavoro pesante a disposizione dei nuovi venuti era quello che si svolge nella oscurità: lavoro di spaccio, lavoro di scippo, lavoro di maneggio della carne cruda e selvaggia che si vendeva senza più ritegno lungo le strade italiane. Ma in quegli anni l’immigrazione già cominciava a diventare un tabù. La sinistra era orfana dell’ideologia comunista e la mitica classe operaia si era imborghesita. Molti intellettuali di sinistra trovarono nell’immigrato il nuovo soggetto mitico della loro affabulazione ideologica. In fondo una lunga tradizione letteraria alimentava questa scelta: si pensi al mito del buon selvaggio di Rousseau, buono per definizione, in contrapposizione al corrotto, al maligno cittadino europeo. Da parte loro i preti fiutavano nel flusso migratorio la possibilità di un nuovo afflusso di anime più sensibili al messaggio religioso: i seminari si erano già da tempo svuotati di giovani europei e riempirli con ragazzi dell’Africa Nera o dell’India appariva un modo facile per coniugare necessità organizzativa e virtù (teologale). Come terzo elemento che contribuiva a stendere un alone di mistificazione sul fenomeno immigrati ricordiamo il «politically correct» che giungeva da oltreoceano. Con la tipica ipocrisia da puritani, gli Americani lavavano i
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vecchi affari di schiavismo e apartheid con una doccia calda di parole melense. Si vietavano alcuni epiteti, si riscrivevano addirittura le favole per bambini: quella del brutto anatroccolo nella quale il paperino nero veniva discriminato al cospetto degli splendidi cigni bianchi. Ma soprattutto si vietavano le idee. Affermare il principio di preferenza nazionale - in base al quale un disoccupato «indigeno» dovesse godere di una ovvia preferenza nei confronti degli ultimi venuti - veniva considerata una bestemmia, di più un reato, ancor di più una istigazione al genocidio … Fu negli anni Ottanta che il vecchio schema ideologico dell’«antifascismo» veniva sostituito dall’ancor più lugubre strumento dell’«antirazzismo». Per evitare di esser considerati razzisti bisognava fare una articolata professione di fede: io credo che i popoli del Sud del mondo sono stati terribilmente sfruttati dall’uomo bianco, che l’uomo bianco è ricco perché ha rubato tutta la ricchezza al Sud del mondo, che il futuro è multietnico, che le nazioni saranno colorate, ma una ovvia preferenza va accordata all’umanità dipinta con le tinte scure. E dal momento che ogni religione ha bisogno di un diavolo, legioni di diavoli furono identificati tra coloro che rimanevano affezionati a un idea di appartenenza nazionale. L’arcidiavolo poi abitava in Francia … era quel Jean Marie Le Pen che si permetteva di ottenere, solo contro tutti, il 15 per cento nelle elezioni presidenziali cavalcando appunto il tema della immigrazione selvaggia. Le Pen era il mostro razzista, era il nazista, il figlio superstite della Francia che aveva «collaborato» con il III Reich. Peccato che Le Pen fosse un partigiano quando il magnifico presidente socialista Mitterand faceva il servetto di Hitler … Le Pen aveva combattuto i tedeschi, ma nel dopoguerra aveva avuto la franchezza di dire che la Germania non era la cloaca del male assoluto del XX secolo. Allo stesso modo Le Pen diceva che «il re è nudo», mostrava le indecenti nudità del fenomeno immigrazione, che a stento i velami del politicamente corretto cercavano di coprire. D’altra parte quando i governi campioni di antirazzismo organizzavano qualche bella «missione di pace» a suon di bombe sull’Irak, sulla Serbia, Le Pen era il primo a invocare il buon senso della neutralità. Così il subdolo razzista appariva ancor più perfido se si permetteva di contrastare le campagne militare dell’«impero dei buoni». In Italia a quei tempi un pallido giovanotto insediato da Almirante alla guida della destra politica dichiarava ai pochi giornalisti che lo intervistavano di voler fare come Le Pen in Francia … Ma questa è un’altra storia.
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VADEMECUM PER I GIOVANI
LA LAUREA ed il suo valore di MAURO SCACCHI NON se ne può davvero più. Chi non si laurea entro i 28 anni è uno sfigato, chi spera in un posto fisso è noioso, chi ha sacrificato anni di sforzi per una laurea rischia di vedersi declassato in un concorso pubblico soltanto perché non è un «bocconiano». Quest’ultima sgradevole possibilità necessita di un minimo approfondimento, di una riflessione ragionata in cui far convergere buon senso e un po’ di giustizia sociale. La proposta del Governo, che a singhiozzo torna alla ribalta e che vede tanto adesioni quanto corrucciamenti trasversali un po’ in tutti i partiti, prevede l’abolizione del valore legale del titolo di laurea o un suo ridimensionamento. Che significa? Perché questa iniziativa è tale da destare preoccupazione tra i laureati e i laureandi del Belpaese? Lo scopo di questa iniziativa sembrerebbe, di primo acchito, razionale e sensato: evitare che vi siano laureati in università facili e veloci che escano con il massimo dei voti, e che poi si lascino alle spalle, nella polvere, laureati presso università più severe e formative, solitamente più lunghe e che tipicamente danno voti più bassi. Come raggiungere lo scopo, in prima battuta? Togliere importanza al voto di laurea nella circostanza in cui si partecipi ad un concorso pubblico. Facendo ciò, si avrebbe restaurato un certo equilibrio, ma già sorge una perplessità. Nelle università, innanzitutto, dovrebbero scomparire certi «professoroni» che hanno il vizietto di dire «il mio 23 è come un 30», abbassando la media dell’alunno sventurato soltanto per una presunta superiorità del professore in questione, che mostra ovviamente disprezzo per colleghi da lui ritenuti troppo buoni. Non deve esistere, all’interno di una Facoltà, la possibilità che ogni docente possegga il proprio metro di valutazione. Infatti, chi se ne importa se per questo o quel signore, che magari ha accasato pure qualche familiare, il suo voto «vale più degli altri». Il voto è un numero e la media è un concetto matematico in cui non trovano posto personalismi atti soltanto a rovinare una carriera universitaria. Se si evitassero queste spiacevoli situazioni, forse anche nelle università considerate più prestigiose vi sarebbero più laureati «presto e bene». Senza considerare il voto di laurea in occasione di un concorso pubblico, varrà soltanto l’effettiva preparazione, da dimostrare alle prove concorsuali. Fin qui, ad ogni modo, non si scorge motivo di preoccupazione, anzi bisogna riconoscere la bontà del ragionamento. Inoltre, e non è poco, a fronte di lauree conseguite presso differenti facoltà (umanistiche o scientifiche) si potrebbe partecipare indistintamente alla gran parte dei concorsi, sempre per l’assunto che il concorrente deve dimostrare la sua bravura durante le prove, e non esibirla attraverso pezzi di carta. Il titolo di laurea, perciò, sarebbe soltanto uno strumento per accedere a più concorsi, nei quali soltanto i più competenti prevarrebbero sugli altri. Anche questa idea non è male,
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bisogna riconoscerlo. Chiaramente per mestieri più «tecnici» si continuerebbe a richiedere lauree specifiche, come per Medicina. Ma dov’è, allora, che nasce il cosiddetto inghippo? Cosa spaventa, e non a torto, di questa proposta che alcuni vorrebbero rivoluzionaria (ma, diciamolo una buona volta, non lo è)? La laurea serve per avere un’istruzione superiore in una determinata disciplina. Il valore legale indica che lo Stato italiano garantisce che una certa laurea, presa in qualsiasi università italiana, testimonia uguale formazione, uguale bagaglio conoscitivo dato agli studenti, riflesso nel voto attribuito loro al termine degli studi. Perciò, prima di decidere qual è l’università migliore, il Governo dovrebbe adoperarsi per rendere l’insegnamento universitario il più possibile uniforme sul territorio nazionale. Ai fini di un concorso pubblico, allora, varrebbero i minimi standard adottati da tutti gli atenei. La proposta, che pure sembra avere i suoi pregi, almeno per tamponare una situazione attuale in cui, va detto, non è vero che ogni università equivale ad un’altra, nasconde un inganno. Infatti a fronte dell’assenza di voto tra i titoli valutabili in sede di concorso, pare che il Governo sia dell’avviso di voler operare un discrimine tra un ateneo e l’altro, dando un certo punteggio a chi si è laureato nell’università considerata «migliore», ed uno inferiore a chi ha studiato nell’università «peggiore». Il 20 gennaio scorso Monti ha incaricato l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) di stilare un elenco delle università italiane, da cui poter separare quelle idonee a vedersi riconosciuto un elevato punteggio da quelle che potremmo dire «di seconda categoria». Tra queste ultime probabilmente troveranno posto molte università del Mezzogiorno e quasi certamente quelle telematiche. Immaginiamoci lo scenario. Il laureato alla Bocconi avrà, in un concorso pubblico, un punteggio che non terrà conto del voto di laurea ma derivante dall’ateneo, e perciò molto elevato. Intanto, analogo laureato alla Bocconi, ma con voto superiore, potrebbe anche infastidirsi. Infatti due laureati presso la stessa università avranno lo stesso punteggio. Si potrebbe anche introdurre il criterio degli anni che ci sono voluti per prendere la laurea, ma ciò causerebbe altri grattacapi (il bocconiano impiega più tempo a laurearsi rispetto alla piccola università «X» del Mezzogiorno, ma non si può condannarlo per questo: la sua formazione non è forse superiore?). Subito risulta evidente che il ragazzo nato da umile famiglia, con pochi soldi e che magari abita nel luogo sbagliato, perderà in partenza la competizione. Per non parlare dello studente-padre-lavoratore che non avrà di certo tempo e risorse necessarie. Questi due ultimi casi sono da punire? Certamente no, anzi al contrario in essi va elogiata la forza di volontà di colui che, pur non avendo alle spalle una famiglia danarosa e una situazione fortunata, si mette in gioco per conseguire, tra mille sacrifici (economici in primis) la laurea. Il ragazzo nato da una famiglia abbiente, invece, che già sa che cosa farà da grande (probabilmente una brillante carriera, nell’azienda paterna o in un posto fisso ultra pagato grazie alle raccomandazioni d’alto livello), non avrà alcun problema, per lui la strada è già spianata fin dal principio. Oltre ad apparire in certa misura iniqua, questa
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proposta è anche anacronistica nonché contraddittoria. Il futuro, come si sa, è la rete, internet. Non a caso una circolare (la 12/2011) della Presidenza del Consiglio dei Ministri, rivolta alle Pubbliche Amministrazioni, ha ricordato che la stessa Ue ha indicato nell’insegnamento a distanza, e quindi nelle università telematiche, nuovi metodi validi di apprendimento. Le università telematiche che rispondono a determinati requisiti sono abilitate a rilasciare titoli accademici. Perciò, se da un lato l’Ue preme per nuove forme di apprendimento che l’Italia fino a ieri ha accolto con favore, oggi si vuol viaggiare in controtendenza. Il pericolo della proposta, serissimo, è di tagliare le opportunità a chi una laurea l’ha conseguita fidando nella coerenza del Governo italiano, a fronte di ingenti spese e comunque di sforzi intellettuali non privi di merito. Piuttosto, il Governo si assicuri che le università telematiche diano una formazione equivalente allo standard che tutte le università italiane dovrebbero garantire. Per concludere, la proposta di togliere il valore legale alla laurea, o comunque di modificarne l’utilizzo ai fini di pubblici concorsi, sembra nascere dalla volontà di suddividere sempre di più la nostra Patria in due: chi tanto ha, sempre di più avrà, chi ha meno, avrà sempre meno. Non è così che si abbattono le «caste», ed è interessante notare come un’iniziativa tanto discriminatoria possa trovare l’appoggio di molti esponenti del centrosinistra, che popolari, evidentemente, non lo sono stati mai.
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I NUOVI MITI
IL MERITO di HERVÉ A. CAVALLERA COME se il governo Monti non faccia che confermare e continuare la cosiddetta politica gelminiana, ossia la consegna dell’Università alla Confindustria, su alcuni giornali di sinistra si esalta la valorizzazione del merito, si diffida delle troppe sedi universitarie e si dibatte sull’opportunità di eliminare il valore legale del titolo di studio. Infine, si sostiene la necessità di ripensare la fragilità delle scuole secondarie che non preparano più come una volta. Insomma, parrebbero discorsi che un tempo potevano essere aggiudicati alla destra se non apparissero su quotidiani di inequivocabile tradizione comunista e post. Allora, cosa c’è dietro? In primo luogo la ritrosia a riconoscere che lo sfascio della scuola secondaria è la conseguenza inarrestabile di una politica prevalentemente di sinistra che, dalla fine degli anni Sessanta in poi, ha fatto venir meno nella scuola il ruolo dell’apprendimento dei contenuti e ha trasformato gli insegnanti in tuttologi, un po’ psicologi, un po’ sociologi, un po’ tutto senza che essi siano realmente qualcosa. Si trascura poi che il processo della moltiplicazione delle Università sia il frutto della politica di privatizzazione e di clientelismo che ha gradualmente trasformato le sedi universitarie in licei mal funzionanti, reali o telematici non importa. Si torna poi ad insistere sul potere familistico dei cosiddetti «baroni», come se il fenomeno non fosse riscontrabile, di là dal privato ove è evidente, in altri settori del pubblico impiego, della grande burocrazia, dei mezzi di informazione, della stessa politica. D’altronde, gli attuali governanti, che lamentano la monotonia del posto fisso e rimproverano coloro che non si laureano in tempo debito, hanno tutti figli ben sistemati in posti altamente remunerati e stabili, e alcuni di loro hanno fatto delle carriere che possono destare serie perplessità per la rapidità con cui sono state compiute. Ciò che in questa sede sembra opportuno definire è la parola merito. Si tratta di una delle tante parole equivoche sulle quali nessuno è disposto a dir male, ma che in sé possono essere anche pericolose, in quanto non escludono meccanismi perversi. Per rendersi conto di tutto questo, è sufficiente pensare alle agenzie di rating, ossia di valutazione. È abbastanza lecito sostenere che esse non soltanto sono spesso soggetto di destabilizzazione, ma non sempre garantiscono quella imparzialità valutativa che invece dovrebbero garantire. Sono essenzialmente espressione di un potere e di una politica che da qualche tempo determinano il destino dell’economia mondiale. E su di esse le perplessità e i dubbi sono tanti, per così dire. Ciò può valere di conseguenza anche nel campo della valutazione meritocratica in sede scientifica, ove, già a bocce ferme, i problemi sono enormi. Le valutazioni quantitative non significano granché da un punto di vista qualitativo. Che un tale scriva su una rivista importante non significa necessariamente che il suo articolo valga più di quello di un altro che scrive su una rivista meno significativa. Può semplicemente dire che si gode di agganci diversi. Di fatto, la visibilità non coincide meccanicamente con il merito. Se così fosse dovremmo istituire un Nobel per
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tutte le star di questo mondo! Poi esiste la inevitabile diversità ideologica, culturale, se vogliamo anche religiosa, che si ripercuote in maniera implicita o esplicita nelle valutazioni. Parlare, pertanto, di merito come qualcosa di oggettivo è, quindi, un ritorno ad una vecchia visione positivistica ormai da tempo superata. Non si esclude che certi parametri quantitativi possano essere significativi e che alcuni di questi possano essere convincenti per alcuni settori tecnici, ma trarne la conseguenza che il merito sia quantitativamente indiscutibile e verificabile è esagerato. L’errore nasce dal fatto che si ignora non soltanto la possibile presenza di pregiudizi ideologici (o, lato sensu, di parte), ma dal disconoscere il valore e la natura della creatività e della originalità, le quali, in alcuni campi di studi, non sono quasi mai immediatamente riconoscibili o condivisibili, a meno che non si rischi di confonderle con l’effetto sorpresa, come avviene per certi titoli giornalistici. Purtroppo nell’età della rete, il gusto del sensazionale è di moda e certe «farfalle» riescono a catturare l’attenzione di milioni di persone indipendentemente dal fatto che l’esibizione, pur bella, non è altro che un gioco mediatico. Intanto le Università si vanno trasformando strutturalmente, senza capire dove effettivamente stiano andando, e il livello culturale della scuola elementare e della secondaria scende. Ci si lamenta che sia un fenomeno italiano. In realtà, il livello culturale della scuola e della università italiana era in anni non lontani rilevante. Si è fatto di tutto per abbassarlo secondo logiche populistiche che tuttora permangono. Oggi c’è il gusto della classifica, meglio delle classifiche internazionali. Tutto viene ricondotto a dati: tanti laureati, tante eccellenze, tanti disoccupati… Non c’è più un’anima, ma delle sequenze in cui istituzioni, docenti, tutti si trovano collocati a un certo posto ed auspicano posizioni più alte. Tutto si riduce a fredde compilazioni, nella convinzione che l’efficientismo risolva ogni cosa, mentre la disoccupazione intellettuale cresce e gli esiti lavorativi si riducono con il serio rischio di una povertà imminente, anzi già esistente. L’efficientismo, in fondo, è anche questo: un obbedire al sistema in una omologazione che giova solo a chi gestisce, nella speranza dell’esecutore di poter trarne qualche giovamento individuale dopo aver tramutato in merce lo spirito.
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A COLLOQUIO CON ROMANO NICOLINI
PRIMI PASSI verso il Latino di ALESSANDRO CESAREO NEL lontanissimo 1977, era d’estate, il decreto 348 cancellava del tutto, e di colpo, l’insegnamento della lingua latina dalle scuole medie, dopo un periodo di stentata sopravvivenza nella classe seconda come materia obbligatoria curriculare ed opzionale in terza. Buttato a mare l’insegnamento del latino all’interno di un contesto che, come quello della scuola media, ne rivela, invece, l’inderogabile necessità, si è dunque maldestramente proceduto a riempire il vuoto lasciato dalla lingua di Roma con iniziative di vario genere, con progetti riconducibili alle più disparate idee di educazione e formazione. Risultato: dall’anno scolastico in cui si è smesso d’insegnare il latino nella scuola media, le iscrizioni ai licei, soprattutto al Liceo Classico, sono visibilmente e significativamente aumentate. Il perché è facilmente intuibile. Sono nel frattempo trascorsi trentacinque, lunghi, anni, nel corso dei quali poco o niente si è parlato, e meno ancora si è fatto, all’interno di un dibattito che avrebbe potuto avere significativi riscontri di carattere politico, del valore del latino all’interno del processo di formazione in atto nella scuola dell’obbligo. Il fatto che ora la questione torni a diventare di dominio pubblico e, soprattutto, che inizi a ricevere l’attenzione delle forze politiche è un elemento degno di nota. È forse iniziato il cammino inverso a quello che ha condotto all’espulsione del latino dalle nostre scuole? A giudicare dall’entusiasmo, pienamente condivisibile, oltre che degno della massima attenzione e del massimo sostegno possibili, che anima Romano Nicolini, il vecchio detto ad impossibilia nemo tenetur sta davvero per trasformarsi in nihil impossibile volenti. Vediamo il perché, cercando di cogliere più da vicino i reali motivi di questo entusiasmo, che le parole dello stesso Nicolini, geniale ideatore del recente volume Primi passi sulla strada della lingua latina. Sussidio per gli studenti delle scuole medie, Edizioni Pro Latinitate, Rimini, possono rendere nel modo migliore: «Si può dire», fa presente l’autore, «che lo studio della lingua latina nella provincia di Rimini è perseguito con una certa assiduità, così tanto da collocare (forse) la provincia ai primi posti di una ideale graduatoria nazionale. «1) Ci sono due licei classici: su una popolazione di 300.000 abitanti non è poco. «2) Da 25 anni si svolge a Mondaino, nell’ultima domenica di aprile, una gara di latino denominata “Latinus ludus” (per ragazzi dei licei) che accoglie circa 3-400 studenti. A Savignano sul Rubicone, ogni due anni, si celebra una gara analoga con circa 350 partecipanti. A Rimini (scuola media “Panzini”, ultimo venerdì di maggio) , da 4 anni, si realizza il “Ludus Juvenilis” per ra-
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gazzi delle medie con circa 50 studenti ; il“Ludus Hadriaticus” (da sette anni , per liceali dei due ultimi anni, al classico “Dante”, il 9 novembre 2012) si celebra con 80 partecipanti. Sommando tutti i numeri si perviene alla cifra di 7-800 unità : non è poco se si considera il fatto che alle gare partecipano di solito i migliori delle varie classi. «3) Dal 2010 in poi sono stati distribuiti gratuitamente ai ragazzi delle medie quasi 10.000 libretti di introduzione al latino: Primi passi sulla strada della lingua latina. È un manuale di 19 pagine che ho compilato io e che sembra riscuotere un certo successo. In tal modo, sulla carta, nella provincia di Rimini avremmo 10.000 ragazzi che sono introdotti alla conoscenza della lingua latina e circa 800 che ci cimentano in gare di traduzione di non facilissima caratura». Dopo aver accolto ed apprezzato il giovanile entusiasmo che anima e sorregge lo sguardo ed il modo di fare di questo affascinante maestro, gli abbiamo anche chiesto che cosa, concretamente, si potrebbe iniziare a fare, hic et nunc, per la nobile causa della lingua di Cesare. Ed egli, sorridendo, ci ha risposto così: «Rebus sic stantibus, stando così le cose, potremmo dire che la situazione è buona. Tuttavia la nave CONCORDIA LATINA rischia di incorrere in scogli insidiosi e sommersi. La dissennata scelta in base alla quale, con il generale riordino del sistema dell’istruzione, lo studio della lingua latina è stato reso facoltativo nei licei scientifici, fa sì che l’attenzione ed il tempo dedicati alla lingua di Roma sia purtroppo, e a tutti gli effetti, in caduta libera. Basterebbe invece così poco per segnare una proficua e concreta inversione di tendenza, per cui tutto si risolverebbe se, finalmente, della lingua latina fossero inserite nel corpus delle grammatiche italiane in uso. Senza alcun aggravio economico, ogni italiano avrebbe le basi per capire la sua lingua madre. Ecco come: il 14 ottobre 2011, tramite la interrogazione scritta n. 4/13607, (seduta di annuncio n.535) l’onorevole Gianni Mancuso ha inoltrato una interrogazione affinché il Governo prenda in considerazione la reintroduzione di un’ora settimanale di insegnamento dei rudimenti della lingua latina nelle scuole medie». Certo, una rondine non fa primavera, così come è vero che non sarà facile organizzare e predisporre una reale e tangibile inversione di tendenza, che riesca a ridurre e guasti prodotti da decenni di superficialità. Però, ci si può provare. Si può tentare qualcosa e magari si corre anche il rischio di ottenere qualcosa di buono. In questo senso, le venti pagine con le quali Romano Nicolini fornisce i primi rudimenti del latino risultano essenziali, soprattutto se inserite in un progetto strategicamente volto a ribadire l’insostituibilità ed il valore del latino. Chissà che, alla fine, tutto questo non provochi l’innescarsi di un dibattito serio sul problema, ivi compresa un’iniziativa che percorra anche la strada delle leggi di iniziativa popolare. Muovendoci con quest’intenzione, non dovrebbe poi essere nemmeno troppo difficile trovare le 500mila firme necessarie in tutto il Paese, le troveremmo. Avendo inoltre a disposizione www.italiannozero.it, la diffusione e l’attuazione dell’ambizioso e nobile progetto non resterebbe dunque lettera morta, ma si librerebbe dalla carta per affascinare i cuori.
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INTERVISTE SULLA DESTRA - MARCELLO DE ANGELIS
DESTRA, NAZIONE E POPOLO a cura di MICHELE DE FEUDIS GIORNALISTA, scrittore, cantante dei «270 bis», band cult della scena rock identitaria. Marcello de Angelis, accanto all’attività di deputato del Pdl, offre ogni giorno, da destra, una riflessione e una analisi sull’attualità con un puntuale editoriale sul Secolo d’Italia. Proviene da un percorso di militanza nell’organizzazione extraparlamentare «Terza posizione», ha partecipato all’esperienza de L’Italia settimanale, periodico diretto da Marcello Veneziani, e dal 1996 al 2011 è stato direttore di Area, mensile di approfondimento vicino alla destra sociale. Dal maggio scorso è direttore del Secolo d’Italia, quotidiano di area Pdl, emanazione della Fondazione «Alleanza Nazionale». Non tiene in modo particolare a rimarcare le categorie del passato ma invita ad avere come bussola dell’azione politica e culturale l’interesse nazionale, proprio in anni nei quali sono le istituzioni sovranazionali, espressioni di lobby, a dettare la rotta ai governi europei.
trina, al di là delle declinazioni nei partiti attuali, ha ancora una missione da compiere? «L’ideogramma “destra sociale” è stato utile a superare alcune letture forzate, provenienti da politologi di sinistra, che confinavano un’intera area politica nel ruolo di custode degli interessi passatisti, nella conservazione dello status quo a vantaggio di blocchi di potere e forze economiche. Nella realtà, invece, era presente a destra un’ampia rassegna di impegno a difesa dei non garantiti, incarnata in una grande attenzione per questioni legate al lavoro, alle nuove generazioni e alla tutela delle fasce deboli della società. Nel 2012 le idee della “destra sociale” sono un impulso a non farsi confinare in sterili etichette, sintetizzando e interpretando, sempre secondo canoni innovativi e in linea con lo spirito del tempo, l’anima del popolo inteso come comunità. Avendo come bussola l’interesse della nazione.»
In Italia, negli ultimi vent’anni, la contrapposizione è avvenuta tra due poli che hanno raccolto le identità politiche pre-esistenti. In questo contesto hanno ancora un senso le categorie destra e sinistra? «Questa distinzione è stata messa in discussione proprio “da destra”, come scritto dal politologo Marco Revelli nel saggio Sinistra Destra. L’identità smarrita (Laterza). La destra, infatti, fa riferimento ad un archetipo organico che sintetizza il popolo e la nazione. Per questo ambisce a rappresentare non una parte, ma a interpretare il sentimento di una intera comunità.»
Il «Pdl» ha assorbito al proprio interno tante storie e correnti politiche, da quella cattolica a quella della destra post-fascista. Quali sono le battaglie non negoziabili per chi proviene da una destra con un retroterra ricco di idee ed elaborazioni nella prospettiva di un «rassemblement», come l’attuale centrodestra? «I partiti sono un mezzo e non un fine. Il Pdl è stato lo strumento più adatto per attraversare un periodo di transizione, superando il consociativismo della Prima Repubblica. Sono d’accordo con il politologo Domenico Fisichella quando indicava il punto fermo della destra nell’unità nazionale: ci si è spinti troppo in là con le concessioni sul federalismo e sulla riforma del titolo quinto della Costituzione. Accanto a questo caposaldo, la prospettiva della destra è presente nell’onestà dell’azione politica, nell’affermazione dei poteri frutto di una legittimazione dei cittadini e non delle lobby, e nella preservazione dell’integrità nazionale in termini culturali storici e territoriali.»
La corrente culturale della «destra sociale», delle cui tesi il mensile «Area» è stato il laboratorio e la ve-
Sarà lo spirito del tempo, sarà la forzata convivenza nei contenitori partitici postmoderni, sarà il sistema politico tendenzialmente bipolare che tende a smussare diversità e omologare differenze. Il perimetro di un arcipelago culturale che si è riconosciuto - pur tra contraddizioni e ossimori - in una visione spirituale della vita e nell’umanesimo del lavoro, visione declinata a destra dal Msi e da una miriade di circoli, case editrici, associazioni, comitati civici e riviste, sembra adesso attraversare un momento di forte disorientamento. Oltre i rassicuranti confini del «nostalgismo» e dei paletti novecenteschi, però, persistono idee forti, autori di riferimento e nuove battaglie da combattere. Per questo Il Borghese pubblicherà un ciclo di interviste con scrittori, filosofi ed intellettuali per analizzare gli scenari presenti e futuri, offrendo ai nostri lettori le possibili coordinate delle nuove rotte nel mare della politica italiana. (m.d.f.)
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Potrebbe essere attuale una proposta di destra «sovranista»? «Gli uomini realizzano progetti secondo la loro storia. Il nodo non è la provenienza ma l’approdo. Si può essere più di destra, in certi casi, provenendo da sinistra, e viceversa. L’opzione sovranista è una tesi che condivido, ma non è la formula più efficace sul piano divulgativo, per farsi intendere dall’opinione pubblica. Il nodo della sovranità nazionale non deve essere affrontato in maniera superficiale mettendo un tricolore sui pennoni degli uffici pubblici o con l’autorevolezza del presidente della Repubblica. Sovranista per me è una visione della politica attraverso la quale c’è piena assonanza tra gli interessi degli Italiani e i programmi portati avanti dalle istituzioni nazionali. In passato ci sono stati anche governi legittimati da regolari elezioni che hanno tramato addirittura a favore di interessi stranieri… Gli Americani su questo piano
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rappresentano con semplicità il proprio interesse nazionale, perseguendolo all’interno dei loro confini e soprattutto in ambito internazionale.» Nel caso dell’Italia, prioritario diventa lo scacchiere mediterraneo. «Come affermato dallo storico Quentin Skinner, che riprende il pensiero neo-repubblicano di matrice rinascimentale italiano, “non esiste libertà se non in una nazione libera”. Il problema è che si deve anteporre alle libertà individuali, la libertà di una nazione. Da qui l’affermazione dei propri interessi nella propria area di riferimento: per questo auspico che l’Italia svolga nel “Mare nostrum” un ruolo di potenza primaria, garantendo stabilità e pace. Il Mediterraneo per l’Italia deve essere un luogo di incontro e non scontro, di cooperazione anziché di conflittualità.» I «media», spesso in maniera sbrigativa, hanno individuato e codificato «una destra anti-islamica», riottosa nel riconoscere legittimità ai partiti di estrazione islamista che si stanno affermando negli Stati nordafricani dopo la Primavera araba. «Si tratta di posizioni assunte quasi sempre da intellettuali e politici che non vengono da destra. La destra identitaria coltiva il rispetto delle identità altrui, e rispettando le diversità considera le identità religiose e politiche “altre” elementi di una possibile sintesi.» Il mese prossimo, in concomitanza con i sessant’anni del «Secolo d’Italia», concluderà il suo primo anno alla guida del quotidiano politico prima del «Msi», poi di «An» e ora nel «Pdl». Che osservatorio offre il giornale sulla destra presente nel Paese? «Il Secolo consente ogni giorno di ascoltare, registrare e interpretare gli umori e le idee della destra italiana, con piena libertà di analisi. In merito al governo tecnico guidato da Mario Monti, abbiamo dato voce a chi esprime riserve e critiche coerenti con le tesi che sono sempre state sostenute da destra. In alcuni casi abbiamo condiviso i provvedimenti in linea con i valori nazionali e con le linee programmatiche del precedente esecutivo. Di sicuro il giornale ha spesso posizioni autonome rispetto a quelle espresse dai gruppi parlamentari del Pdl.»
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inteso, ha maggiori capacità di mobilitazione. Un webpartito offre in molti casi una più forte capacità di aggregazione rispetto a chi proviene da una riconosciuta e numerosa rappresentanza parlamentare o è sostenuto da un partito strutturato. Il riferimento è ai successi dei candidati di “Sinistra e Libertà” risultati vittoriosi - in Puglia, come a Cagliari, Milano e Genova - su quelli del partito di Bersani nelle consultazioni primarie per le candidature alle elezioni amministrative.» Dove si formano le nuove classi dirigenti? «Non nei partiti, e nemmeno nelle riviste culturali. È impossibile aggregare la gioventù sulla rete che risulta penalizzante per i rapporti personali. Credo che i partiti dovrebbero avere come priorità la selezione di una classe dirigente. Ma sono proprio i partiti adesso ad essere in crisi, soprattutto perché non hanno una proposta lineare per la formazione dei nuovi quadri.» Contributi all’editoria per la stampa di partito. Il dibattito è aperto. «I giornali di partito sono quelli più liberi. È la stampa indipendente ad essere targata, sostenuta da lobby economiche. Se compro l’Unità so chi c’è dietro. Se acquisto la Repubblica non è altrettanto chiaro per chi faccia il tifo la direzione…» Giano Accame, firma de «Il Borghese», è stato fin dal primo numero nel comitato direttivo della rivista «Area», che lei ha diretto per sedici anni. Degli scritti dello storico intellettuale della destra non-conformista, quale considera la più preziosa eredità ideale? «La riflessione di Accame sulla differenza tra l’economia delle nazioni e la finanza speculativa, analisi che aiuterebbe a comprendere la crisi in atto, tra spread e rigore richiesto dall’Europa. Alla finanza speculativa serve l’instabilità per crescere, mentre l’economia di uno Stato ha bisogno di equilibrio per realizzare politiche di welfare a favore dei non garantiti.»
MARCELLO DE ANGELIS
L’esecutivo di matrice tecnocratica, nato dall’accordo tra «Pd»-«Pdl»-«Udc»-«Fli» e Colle, non è secondo i sondaggi particolarmente gradito all’elettorato che aveva sostenuto il governo precedente. Molti ministri sono oggetto di dure reprimende da parte della stampa di centrodestra. Chi butterebbe giù dalla Torre tra i ministri del governo guidato dall’ex presidente della «Bocconi»? «I ministri sono delle comparse, ancora meno riconoscibili di alcuni esponenti dell’esecutivo Berlusconi. Sulla Torre c’è una sola persona, il presidente del Consiglio Mario Monti…» Partecipazione e forme di attivismo nello spazio pubblico. Ci sono nuovi strumenti per accrescere il coinvolgimento dei cittadini nell’azione o nelle scelte politiche? «Il tema è oggetto di riflessione per i maggiori partiti. La novità sono le primarie: spesso portano alla vittoria chi, pur avendo minore radicamento tradizionalmente
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«EIN VOLK, EIN REICH ein Capital» Vecchie e nuove idee per uscire dalla crisi di EMMANUEL RAFFAELE IMMAGINATE una famiglia con un reddito annuo di 40.000 euro ed un debito per il 120 per cento delle sue entrate (48.000 euro). Il debito sarebbe tutto sommato servibile in caso di entrate regolari. Così, anche per il nostro Paese la questione insolvenza non esisterebbe se avessimo la sovranità monetaria e non lo spauracchio dei mercati. E se il nostro debito, di anno in anno, non crescesse insieme agli interessi verso creditori che, per oltre l’80 per cento, sono banche. Per questo non ci capacitiamo che Mario Draghi, presidente della Bce, regali soldi alle stesse banche con un interesse dell’1 per cento, permettendole di speculare altri interessi sui prestiti agli Stati. «Se le banche italiane», ha affermato giustamente Di Pietro, «vogliono accedere a quelle eccezionali agevolazioni, devono assumere l’obbligo di usare i miliardi della Bce per far ripartire l’Italia e non per ricapitalizzarsi. Il minimo che un governo serio possa e debba fare è garantire che le banche che prendono i soldi per riaprire il credito, poi lo riaprano davvero: non è una vessazione». L’ex ministro Tremonti ha aggiunto: «Se vai in banca non ti danno l’1 per cento e se sei un governo devi pagare il 5-6 per cento. Ma la Bce alle banche regala capitali all’1 per cento». Lo scandalo è evidente. A non vederlo è gente come il banchiere-ministro Passera, che invece ritiene l’operazione «di grandissima saggezza». «Quando nel marzo 2009 la Federal Reserve Usa», spiega però Morya Longo sul Sole 24 Ore, «incrementò a 1.750 miliardi di dollari il massiccio programma di acquisto-titoli […] gli investitori festeggiarono […]. Il rally, però, un anno dopo si dimostrò effimero: dietro quell’esuberanza restavano infatti i problemi strutturali delle economie occidentali». Parole purtroppo vane poiché siamo alla dittatura del capitale contro gli Stati. «Prima dell’euro era possibile svalutare», ha dichiarato Berlusconi, «il problema dell’euro è che è privo di una Banca centrale», ha aggiunto. Ma il punto è che il capitale sta da una parte, il lavoratore dall’altra e, ancor più che nell’Ottocento, ormai produce profitto per il solo fatto di esser tale, mentre il lavoro lo alimenta per il fatto stesso di avere un valore pari ad una frazione inferiore rispetto a ciò che produce. Il prestito della Bce, del resto, non fa che dimostrarlo: capitali che non derivano dalla produzione, ma dalla pura speculazione. Esemplifica, del resto, Slavoj Zizek: «Oggi qualunque tentativo di collegare l’aumento e la diminuzione del prezzo del petrolio alla crescita o al calo dei costi di produzione o al costo della manodopera utilizzata non avrebbe senso: i costi di produzione sono trascurabili rispetto al prezzo che paghiamo per il petrolio, un prezzo che in realtà è la rendita di cui i proprietari della risorsa possono disporre grazie alla sua limitata disponibilità».
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Denaro che comanda illegittimamente sul lavoro, come ricordava Maurizio Blondet nel suo Schiavi delle banche. Schiavi trattati neanche troppo bene visto che come lavoratori siamo pagati meno di Tedeschi, Britannici, Francesi, Spagnoli e persino Greci (Eurostat). «Non è chiaro che le banche sono imprese e […] non possiamo essere servizio pubblico», spiega Giuseppe Mussari, presidente dell’Abi, dimentico del concetto nel prendere i soldi dalla Bce anche per «aiutare» gli Stati, pagati da noi tutti proprio come un servizio pubblico molto costoso. Un assist involontario quello di Mussari: nazionalizzare le banche. Roba d’altri tempi? Forse non più dopo il loro salvataggio. Dopotutto ci si riapproprierebbe del debito. Idee che non sentiremo dal governo Monti che, nonostante le maggiori entrate tributarie previste ed il risparmio di 43 milioni nei primi cento giorni, non impedirà la decrescita prevista dell’1,3 del Pil italiano nel 2012. In compenso non si parla quasi più di fallimento. Ed il perché c’è Monti al governo lo ha dettagliato Mario Draghi: «Ripensare il modello sociale europeo», così come prevedeva la Trilateral Commission lustri or sono, aggiungendovi considerazioni sulla democrazia sempre più vicine alla realtà. L’European Stability Mechanism, approvato nel luglio scorso, entrerà in vigore tra pochi mesi ma i popoli non saranno coinvolti. L’Esm, però, non si limiterà a sostituire Efsm ed Efsf. Sarà molto più stabile, costoso e limitante, visto che i Paesi vi parteciperanno come «soci e debitori». Un ente di natura privata, che godrà dell’immunità giurisdizionale e avrà potere di condizionare le politiche economiche. È il nuovo diritto internazionale, non più basato sulla forza, né sul potere economico-militare, ma sul potere finanziario. Un potere la cui effimerità è chiara, a quanto pare, alla GIUSEPPE MUSSARI
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Cina che a comprare il nostro debito non ci pensa neanche mentre si mostra interessata all’economia reale: «China Investment Corp è interessata a investire in progetti infrastrutturali e industriali che potrebbero aiutare la ripresa delle economie europee», ha detto Lou Jiwei, direttore del fondo sovrano cinese. Intanto, sdoganata anche da Repubblica, si afferma la Modern Monetary Theory, patrocinata da James K. Galdbraith, già a capo della Joint Economic Commette, che sugli acquisti di titoli del Tesoro da parte della Banca Federale statunitense si è così espresso: «Inondare l’economia con denaro acquistando titoli governativi non porterà a nessun cambiamento nei comportamenti di alcuno. Si arriverebbe solo ad avere riserve di denaro che resterebbero ferme nel sistema bancario, e ciò è esattamente quello che è accaduto finora». Non sarà la panacea di tutti i mali, ma la Mmt ha un padre nobile quale J.M. Keynes ed è pressoché l’unica alternativa allo smantellamento dello Stato sociale già deciso dai poteri forti. «La sua affermazione più sconvolgente, ai fini pratici, è questa», spiega Federico Rampini su Repubblica, «non ci sono tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno Stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare questi disavanzi stampando moneta». Il concetto è più fine di quanto appaia: «Perché il deficit pubblico nel Trattato di Maastricht non doveva superare il 3 per cento del Pil? Perché nel nuovo patto fiscale lo stesso limite è stato ridotto a 0,5 per cento del Pil? Chi ha stabilito che il debito pubblico diventa insostenibile sotto una soglia del 60 per cento oppure (a seconda delle fonti) del 120 per cento? Quali prove empiriche stanno dietro l’imposizione di questa cabala di cifre? Le risposte dei tecnocrati sono evasive, o confuse». Assurdo tagliare il potere d’acquisto in fase recessiva, asseriscono i sostenitori della Mmt. La via d’uscita è la spesa in deficit finanziata dalle banche centrali. «L’inflazione», risponde infatti Galdbraith, «è un pericolo vero solo quando ci si avvicina al pieno impiego». E non è il nostro caso. Una dottrina, questa, che in America si sta facendo strada, con numerosi think-thank e padri nobili come Lord Robert Skidelsky, «depositario storico dell’eredità keynesiana». E speriamo un giorno di non dover dire: noi ve l’avevamo detto.
LORD ROBERT SKIDELSKY
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Aprile 2012
PER SALVARE BANCHE ED IMPRESE
LAVORATORI al macello di ANTONIO SACCÀ VORREI essere consigliato. Sento atmosfera di modificazione. Potrei anche indicare di quale modificazione sento l’evenienza. Il sistema sociale anglosassone sostituisce il modello europeo nella sfera dell’economia e della tutela sociale. Molti lo dicono. C’è del vero, ad esempio nella condizione protettiva dei lavoratori, i licenziamenti facilitati, insomma, e nei pensionamenti, ma nel rigore dei bilanci statali, ipotizzato, da noi, non siamo certo «americani», costoro suscitano denaro quanto riescono, noi tentiamo di risparmiare, addirittura abbiamo immesso il pareggio di bilancio nella Costituzione, puniremo chi non rispetta tale impegno. Gli «americani» ritengono che concedere denaro salvi l’economia, noi, che pure denaro ne concediamo, alle Banche moltissimo, però vogliamo enormi risparmi, le due manifestazioni non contrastano. O forse contrastano, e poi chi sa se riusciremo a risparmiare, a pareggiare il bilancio lesinando. E se questo favorisse la famigeratissima recessione? Mi fermo. Intanto, per certo abbiamo l’inoltrarsi dell’esistenza nel lavoro presso che fino alla vecchiaia, se non alla morte; l’indebolimento della pensione; la facilitazione ai licenziamenti; e, almeno nel nostro Paese, la mancanza di fondi per la fantomatica ipotesi degli ammortizzatori sociali, secondo la grandiosa teoria che se i licenziamenti sono facilitati, esattamente: flessibilità in entrata e in uscita, però, però, saranno accresciuti gli ammortizzatori … che a quanto pare non hanno «copertura» ... Mi affido al linguaggio in atto. Io, non so voi, io me la rido, anzi, me la sghignazzo. Se c’è qualcuno il quale crede sinceramente che sia tempo di «riformismo» non ha colto la tregenda che matura nel bollore della pentola sociale. Il risultato del bollore è che i lavoratori, i pensionati, i giovani, grandissima parte degli impiegati, i servizi, le tutele saranno disossati pur di consentire alle banche e alle imprese di reggere. Mi spingo avanti, soltanto con una ponderosa disoccupazione e sottoccupazione il capitalismo odierno può sopravvivere. Addossando ai lavoratori, agli impiegati, ai giovani, ai pensionati, allo sfoltimento degli occupati, all’ampliamento dei sottoccupati la possibilità di arricchirsi, da parte di Banche e Imprese. Chi crede che con i «sacrifici», termine risolutivo, si guarisca deve convincersi che essi salveranno, ed è incerto, soltanto Banche e Imprese, non i cittadini. Anzi, non devono salvare i cittadini, esclusivamente nei «sacrifici» dei cittadini vi è la salvezza di Banche e Imprese. In un articolo su questa rivista scrissi che ci incamminiamo verso un’economia di trasfusione, credo di essermi riferito al denaro che lo Stato fornisce a Banche e Imprese; aggiungo, ora, il dragulismo sui pensionati, impiegati, giovani, disoccupati, sottoccupati... Bisogna essere... Dico io... Come si fa a non cogliere che ormai la ricchezza dei ricchi esiste nell’impoverimento dei moltissimi! Lo dico da stancarmi, il «nuovo» capitalismo può reggersi esclusivamente sull’impo(Continua a pagina 41)
lunedì 19 marzo 2012 19.21 Colore campione 1
FOTOGRAFIE del BORGHESE
CAMPANA A MORTO PER IL «PDL» (Nella fotografia, Silvio Berlusconi)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
LA «LEGA DI LOTTA» VOLEVA LA RIVOLUZIONE . . . (Nella fotografia, Umberto Bossi)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
. . . MA L’HA «SGONFIATA» IL «SERVO DEL PADRONE» (Nella fotografia, Mario Monti)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
SCHERZI DA «CARNEVALE» - PER LUI LE PROVE NON CONTANO (Nella fotografia, il sostituto procuratore Antonio Ingroia, da www.ilariaalpi.it)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
«MA NON DICEVATE CHE LE SENTENZE NON SI COMMENTANO?» (Nella fotografia, il senatore Marcello Dell’Utri)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
ÂŤFARFALLA RIDENSÂť (Nella fotografia, Belen Rodriguez, dal sito www.investireoggi.it)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
ÂŤFARFALLA TRISTISÂť (Nella fotografia, Elsa Fornero)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
GRECIA - LA POLITICA CHIUDE GLI OCCHI DI FRONTE AL «DEFAULT» . . . (Nella fotografia, il Primo ministro greco Papademos, da static.politica24.it)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
. . . MENTRE IL PAESE SI ARRENDE ALLA DISPERAZIONE (Nella fotografia, un manifestante ad Atene, da www.thefreak.it)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
SCHIAVITÙ MODERNA - «LAVORARE DI PIÙ E PIÙ A LUNGO» (Nella fotografia, Ignazio Visco, Governatore di «Bankitalia»)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
SCHIAVITĂ™ MODERNA - INCATENATI AL PROFITTO (Dal sito www.untypicallyjia.com)
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
MENTRE GOVERNANO I TECNICI, LA POLITICA SI FA UN SONNELLINO
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domenica 11 marzo 2012 22.08 Colore campione 1
Aprile 2012
IL MEGLIO DEL BORGHESE
L’Italia del «duce moscio» di MARIO TEDESCHI COMINCIANO in questi giorni le celebrazioni dell’aprile 1945. La Repubblica italiana non ha ancora capito che l’odio è un sentimento valido, soltanto se rende produttivi; altrimenti, è più intelligente amare. Negli ultimi trent’anni, l’Italia si è popolata di «resistenti», il cui numero è cresciuto a mano a mano che il regime andava fallendo. Paolo Rossi, antifascista vero, scrive nella sua Storia d’Italia che «già nelle settimane precedenti al 25 aprile, i partigiani erano saliti da 80.000 a 250.000». Oggi, non si esagera calcolando che il loro numero sfiori il milione. Infatti, l’antifascismo all’italiana è un fenomeno che sfida, insieme alla logica, anche l’anagrafe: tanto è vero che il numero dei suoi reduci, con il passar del tempo, cresce, anziché diminuire. Ciò d’altra parte è logico, dal momento che il 25 aprile è diventato una data-simbolo della nostra società dei consumi, come il giorno di San Valentino, il Natale e così via. Abbiamo la «festa del papà», la «festa della mamma», la «festa dei fidanzati», la festa di Nostro Signore, e abbiamo anche la festa dell’odio. Per ogni ricorrenza c’è il «genere» di consumo consigliato attraverso la televisione: una volta il panettone, una volta il brandy, una volta i baci di cioccolato, una volta l’antifascismo. Perché l’antifascismo del 1974 è come la camicia nera d’un tempo; si indossa soltanto in particolari occasioni. Le celebrazioni ufficiali della ventinovesima festa dell’odio avranno inizio giovedì prossimo, 25 aprile, e si trascineranno fino al primo di maggio, per saldare, attraverso vacanze legali e «ponti» abusivi, le due date (fra i tanti modi possibili per solennizzare qualcosa, noi italiani ne conosciamo uno solo: chiudere le scuole e le fabbriche e andare all’osteria). La «saldatura» fra 25 aprile e primo maggio, viene ricercata allo scopo di far credere che antifascismo e lavoratori si identifichino: il che non è, come d’altra parte non è vero che lavoratori e Pci siano la stessa cosa. Il lavoro può identificarsi soltanto con la Nazione; l’antifascismo, invece, si identifica solamente con la fazione. Col risultato che la democrazia italiana d’oggi divide gli uomini in lavoratori e fannulloni, e chiama i primi «fessi» o «fascisti» a seconda dei casi. Nel 1945, quando sembrava che l’antifascismo dovesse dare frutti eterni, dalle giornate dell’odio dell’aprile nacque il Governo Parri. Vittorio Gorresio, ansioso di rendersi gradito, battezzò subito Parri «zio Maurizio». I romani, più esperti, quando si videro di fronte quel Presidente del Consiglio, lo definirono invece «il duce moscio». E videro giusto: il Governo Parri, a metà novembre del ‘45, era già finito. Per sempre. Ma l’odio è rimasto. Conservato con la cura che gli impotenti dedicano a coltivare i loro vizi più segreti. Alimentato con leggende che gli anni e la retorica contribuiscono ad ingigantire. Adornato dalle frasi fatte di chi, mutati i tempi, ha trovato nell’antifascismo la nuova livrea che andava cercando. Ripensando a quegli anni lontani, alle promesse della
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rinata democrazia italiana, alle illusioni dei pochi che in buona fede combatterono, e confrontando tutto questo con la squallida realtà d’oggi, fatta di peculati e di inflazione, ci si chiede: perché? E la risposta la si trova sfogliando gli atti lontani della Costituente. Ci si rende conto allora che dopo il 1945 l’Italia si trovò non soltanto sconfitta, ma con una classe dirigente letteralmente decapitata: dalla guerra, dai massacri, dalle epurazioni. Ebbero diritto di far politica in quegli anni, soltanto due categorie di cittadini: alcuni vecchi, superstiti del prefascismo e, in taluni casi, corresponsabili dell’andata del fascismo al potere; molti giovani, sfuggiti all’epurazione sol perché durante il fascismo non avevano avuto il tempo di far carriera, o erano stati giudicati troppo sciocchi per ottenere anche un posto da vicefederale. Si pensi che gli enfants prodige di quell’Assemblea furono gli onorevoli Vincenzo Cicerone e Fiorentino Sullo, e si capirà tutto. Ora dunque, finché i vecchi vissero, l’Italia bene o male andò avanti: e non per merito dell’antifascismo, ma per virtù di alcuni pre-fascisti, che il fascismo l’avevano accettato (come De Nicola, come Granchi, come Orlando) o l’avevano disciplinatamente subito (come Einaudi, come Degasperi). Poi, i vecchi morirono: ed oggi, delle speranze d’allora sono rimasti soltanto «il duce moscio» e un gruppo di incapaci, esauriti in lunghi anni di abuso del potere. Intanto però, nella Nazione, molte cose sono cambiate. Se voi pensate che soltanto trentuno anni or sono, nel settembre del 1943, l’Italia perse una guerra e, quel che è peggio, la perse male. Se voi pensate che due anni più tardi, nel 1945, l’Italia concluse in un colossale massacro comunista una guerra civile che tolse di mezzo tutta una generazione, eliminandola fisicamente o inibendole l’accesso alla politica. Se voi pensate che questo avvenne quando non avevamo ancora nemmeno un secolo d’unità nazionale alle spalle. Se voi considerate tutto ciò e ponete mente al fatto che nel maggio del 1972 tre milioni di voti si sono raccolti intorno ad un programma dichiaratamente nazionale e corporativo, esplicitamente estraneo all’antifascismo. Se ponete mente al fatto che ogni giorno, in tutta Italia, vi sono giovani che per questo programma, per queste idee, affrontano, senza contropartite, rischi d’ogni genere. Ebbene, se riflettete su tutto ciò, vi renderete conto che in trent’anni di antifascismo la sola cosa vitale nata in Italia è proprio quella Destra che il regime, per avere il pretesto di combatterla, chiama «fascismo». (il Borghese, 21 aprile 1974)
FERRUCCIO PARRI
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IL MEGLIO DEL BORGHESE
La rivincita della tradizione di GIANNA PREDA IN QUESTI giorni di Pasqua, è giunto come un miracolo inatteso il «grande revival» di Gesù. Che a renderlo possibile sia stata la Televisione, è una conferma dell’insegnamento evangelico, secondo cui anche il peggiore dei peccatori può essere strumento del Signore. Cristo scelse la Maddalena come simbolo; la TV è la Maddalena (purtroppo non pentita) dei nostri tempi. Costretti a fare i conti con la forza d’una fede tradizionalista che credevano scomparsa e sconfitta, i fautori della religione come «servizio sociale» hanno perso la bussola. Se certi critici del Gesù di Nazareth potessero intentare un processo a Zeffirelli (un processo politico, naturalmente, perché politica è la loro rabbia), il regista rischierebbe una condanna a non so quanti anni per il reato di tradizionalismo, aggravato per di più dalla manifesta intenzione di aver voluto tentare una rivincita della tradizione: insomma, una vera e propria malefatta eversiva e, forse, «golpista». Ma questi nostri tempi, gestiti come sono da volpi e da lupi travestiti da agnelli miti e persino un po’ mistici, non consentirebbero mai un tal processo, che obbligherebbe i denunciatori e i giudici a togliersi le maschere e le pelli di agnello, così come non hanno consentito, anche ai critici più maldisposti verso Zeffirelli, di dar corpo ad una esplicita accusa di tradizionalismo politico truccato da tradizionalismo religioso. E allora, a quei critici, prigionieri dei loro stessi ceppi tattici e strategici, non è restato altro da fare che salire sulla loro montagnola, dove non cresce nemmeno il più fragile filo d’erba della religiosità, coperta soltanto dei sassi del razionalismo e dell’intellettualismo, e da lì punzecchiare Zeffirelli con piccoli e poveri dardi: il dardo dell’ironia contro il raccontatore, sia pure abilissimo, di vecchie e ridicole fole; il dardo della cultura contro il copiatore pedissequo di immagini sacre dei più grandi maestri della pittura; il dardo dello sprezzante disinteresse per quella specie di «fumettone» sacro; il dardo dell’accusa di volgari interessi finanziari, e alcuni altri dardi contro i vari personaggi, storici e leggendari, ma tutti simboli della superstizione. E dall’alto di quella loro montagnola grigia e arida, certi critici, pur fingendo di ignorare quello che viene definito «l’indice di gradimento» per quel Gesù (un «indice» che non ha precedenti) sono stati colti da viva inquietudine. Perché quell’antico Gesù, non interpretato secondo politica, ma proposto nella sua realtà storica ed evangelica, quel Gesù orribilmente e pericolosamente eguale al Gesù del catechismo, dei «santini» e della fanciullezza di tutti gli uomini (almeno sino a ieri), quel Gesù rivoluzionario, ma non secondo lo schema delle rivoluzioni terrene e marxiste, è così nuovo da essere suggestivo in maniera intollerabile. Chi, se non un reazionario o un provocatore, poteva far risorgere un Gesù della specie arcaica, smitizzata e sconsacrata, soprattutto dopo tutti i Gesù «progressisti» di questi anni? E come non sentirsi furiosi e sgomenti per questo
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Aprile 2012
Gesù, che sembra addirittura straniero dopo il Gesù bello e bullo proposto da Famiglia cristiana, dopo il Gesù populista di Pasolini, dopo il Gesù diventato marchio di jeans, dopo il Gesù Superstar, dopo il Gesù sindacalista del cristianesimo del dissenso, dopo il Gesù hippie, dopo il Gesù morto delle canzonette, dopo il Gesù sterilizzato e innocuo dei discorsi vaticani, dopo il Gesù politicamente distensivo e miracolosamente adatto a tutti gli usi, come certi elettrodomestici? Dunque, Zeffirelli, secondo i suoi giudici e critici più sinistri, nel momento stesso in cui ha tentato, riuscendovi, di ridare alla gente il Gesù vero, ma non più di moda, non più attuale e politicamente retrivo, va combattuto, sbeffeggiato, contestato. Anche perché quel suo Gesù, nel momento stesso in cui il Tentatore per antonomasia ha già raccolto quasi tutte le messi, arriva sino a noi quasi come Tentatore alternativo: capace persino di emozionarci e soprattutto di scuotere le anime morte, la fede agonizzante, la fede fredda, la fede presunta anche se conclamata, stimolando la fede che non vuole spiegazioni: quella che basta a sé stessa. Dal loro punto di vista, quei critici e commentatori non hanno torto, e le loro inquietudini sono giustificate tanto più che non possono nemmeno contrattaccare, proprio in una stagione come questa, in cui sta crescendo il grande albero delle alleanze politiche mistiche e dottrinarie (un albero che ha subito ogni sorta di trapianti e par destinato a dar fiori nuovi, completamente mutati). In una stagione così, i critici del Gesù tradizionalista non possono nemmeno contrattaccare con il «vangelo» di Marx, non possono servirsi delle sue massime come: «La religione è l’oppio dei popoli», o: «L’abolizione della religione come felicità illusoria del popolo, è necessaria per la sua felicità reale». Marx, ora come ora, può essere soltanto evocato ma non citato, tanto complessa è la trama che deve comporre il mirabile disegno dello storico compromesso. Così, mentre un numero impressionante di uomini e donne e vecchi e giovani e bambini, vanno ritrovando o scoprendo il Gesù del Vangelo non riveduto e corretto, i farisei della sinistra e della disobbedienza cattolica blaterano le loro rampogne, ammucchiati e isolati. Ma anche tanti esaltatori del film di Zeffirelli, non sono migliori. Molti di essi, infatti, sembrano più impegnati a cogliere la «buona occasione» per strumentalizzare politicamente questo antico e nuovissimo Cristo, che non a riproporre la tradizione dottrinaria e, semmai, essi stessi si propongono come i prediletti del Signore, i suoi portavoce e, quindi, gli indiscutibili interpreti del Verbo, quali che siano state, sino ad oggi, le loro manipolazioni del Verbo stesso. Difatti, dal Vaticano, dalle parrocchie, dal clero e dal mondo cattolico si son levate voci di gaudio: ma è un gaudio senza commozione, senza emozione. È il gaudio di chi ha ritrovato un antico meccanismo che per miracolo. (e del resto Gesù è stato capace di tutti i miracoli) funziona a meraviglia. Un meccanismo che attrae milioni, decine di milioni di creature umane, che son poi le stesse che votano, e comunque son quelle capaci di far credere, più che alla esistenza di Dio, alla esistenza di un mondo cristiano: un mondo, quindi, che sia pure sotto etichette e pretesti cristiani, ha diritto ai vari poteri. Per questo, le esultanze di certi cattolici e preti e monsignori, non sono meno sospette e rivelatrici delle cautele dei pur furibondi sinistri. Però, mentre sui due fronti politici si discute di Gesù, contestando od osannando, il Gesù di Zeffirelli (e poco importano i
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IL MEGLIO DEL BORGHESE
moventi, i moti dell’animo o del cervello, gli impulsi e le intenzioni che hanno suggerito al regista quel Gesù, anziché un Gesù più integrato con i tempi nostri) è ormai fra noi. Certo, non basterà a risvegliare le anime morte, a illuminare tutte le coscienze buie, a disarmare tutti i violenti, a convertire tutti i criminali, a cambiare le cose e gli uomini, ma lascerà un segno in qualcuno: magari nei più giovani e persino in quelli dei jesus jeans, in taluni vecchi intorpiditi e incattiviti dall’egoismo e dal materialismo, in qualcuno di quelli che avevano finito ormai col pensare che Gesù non fosse altro che un personaggio buono per le prediche convenzionali e vuote. Ma, per quanto il Gesù di Zeffirelli rappresenti la rivincita della tradizione, non vi sarebbe alcuna rivincita autentica se questa avesse soltanto caratteri politici o meramente legati alle cose del mondo, e non i caratteri di una rivincita dello spirito e dello spiritualismo su tutto ciò .che è materia e materialismo. Se tutta la questione dovesse finire in politica o in polemiche vuote, anche il Gesù vero proposto da Zeffirelli sarebbe un Gesù morto, sepolto e non più resuscitato: sarebbe soltanto un Gesù protagonista di una favola bella e inutile, un bellissimo Gesù da spettacolo serale, destinato alle cineteche come esempio della straordinaria bravura di un regista. Ma chi dice che la bravura non possa far miracoli, anche in quest’epoca di falsi miracolismi, condizionati da eserciti di miti, di false dottrine e verbi razionali, tecnologici e scientifici, abiettamente politicizzati? Il giorno successivo alla trasmissione di Gesù di Nazareth un ragazzo senza arte né parte, solitamente violento e con precedenti penali, figliolo di una venditrice di frutta, al quale ho chiesto se avesse visto quel Gesù e cosa avesse provato, dopo averci pensato mi ha risposto: «Non sopporto di vederlo crocifiggere». Una risposta che mi è sembrata un miracolo. (il Borghese, 10 Aprile 1977)
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ANCHE FRA I GIUDICI ...
La Legge non è uguale per tutti PER la prima volta nella storia dell’Ordine Giudiziario un magistrato di alto grado, il Procuratore Generale della Corte di Appello di Roma, Carmelo Spagnuolo, è stato sollevato dal suo incarico dal Consiglio Superiore della Magistratura e destinato ad altra sede. La clamorosa decisione è stata adottata la settimana scorsa, dopo sei ore di riunione del plenum di Palazzo dei Marescialli, dove non era stata nemmeno accolta la richiesta dell’interessato di rinviare la discussione, motivata dal fatto che lo stesso Spagnuolo era convalescente in seguito ad un intervento chirurgico. Si fa un gran parlare dei diritti della difesa e poi si adottano provvedimenti gravissimi per la vita di un uomo, colpevole o innocente che sia, senza nemmeno ascoltare dalla sua voce spiegazioni e ragioni che avrebbero potuto mutare il verdetto. Esaminiamo dunque il «caso Spagnuolo», precisando subito che non abbiamo alcuna intenzione di difendere il magistrato trasferito, il quale, forse per salvarsi dalla decisione che stava per piombargli addosso, aveva convocato l’onorevole Giorgio Almirante, dando inizio all’istruttoria contro il Segretario del MSI-DN per tentativo di ricostituzione del partito fascista iniziata dal poco compianto Procuratore Generale di Milano, Bianchi d’Espinosa. A molti, questa iniziativa era apparsa come un espediente. Tuttavia, dovere di obiettività impone di dire che la decisione nei confronti di Spagnuolo, gravissima nella forma e nella sostanza, è stata presa in maniera affrettata e senza concedere all’interessato gli elementari diritti della difesa previsti dall’articolo 24 della Costituzione ed applicati per decisione del Consiglio stesso anche ai procedimenti di carattere amministrativo. La sostanza stessa della «incolpazione» è discutibile, sulla base dei princìpi generali del diritto. Un giudice che venga in contrasto con l’ambiente in cui vive può essere trasferito di autorità dal Consiglio, senza che abbia commesso nulla di preciso: ed è facile al giorno d’oggi, per un magistrato, creare, soltanto facendo il proprio dovere, una situazione di incompatibilità ambientale. Per esempio: un Procuratore della Repubblica che proceda con fermezza e codice alla mano (ormai questi casi sono rarissimi) in occasione di moti di piazza, di occupazioni di fabbriche, specie in un piccolo o medio centro, può diventare antipatico «alla gente», ossia ai partiti dominanti, che, approfittando dei mass media ormai in loro possesso, possono soffiare sul fuoco e creare ad arte quelle difficoltà che poi inducono il Consiglio Superiore, dove siedono anche i comunisti, a trasferire il giudice scomodo. Ecco perché l’articolo 2 della legge sulle guarentigie, che abolisce, in pratica, il principio costituzionale della inamovibilità del magistrato, è uno strumento pericoloso in mano a giudici che si vanno sempre più politicizzando in una sola direzione: a sinistra. Carmelo Spagnuolo, a questo punto, ci interessa relati-
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IL MEGLIO DEL BORGHESE vamente. È il modo con cui è stato messo alla porta che preoccupa, perché afferma un principio pericoloso per tutti i magistrati ed interferisce sulla loro indipendenza. Del resto l’indipendenza dei giudici, specie dell’ufficio del Pubblico Ministero, è ormai uno scottante problema politico perché anche i nostri parlamentari, Ministri e no, si sono resi conto che un pretore, magari «d’assalto», può mettere in crisi un sistema di ruberie di Stato iniziando una inchiesta, magari sul petrolio o sull’imboscamento dell’olio da parte di industriali che hanno appreso con anticipo il contenuto dei segretissimi decreti-legge sul blocco dei prezzi. Certo non è giusto che un pretore qualsiasi metta in difficoltà il sistema e goda di un potere assoluto, di origine divina, senza alcun controllo se non quello giurisdizionale; tuttavia è altrettanto ingiusto che la Magistratura sia legata al carro dell’Esecutivo, che le legherebbe le mani. Nemmeno il fascismo mise la mordacchia ai giudici, politicizzandoli e rendendoli vittime del potere politico. Dice il Gladstone: «Quando la politica entra in un’aula la Giustizia esce dalla finestra». E sottoporre i magistrati al sindacato del Ministro, per esempio un Ministro come Mario Zagari, amico dei carcerati più che delle persone per bene, significa soltanto uccidere il barlume di indipendenza del magistrato. È preferibile allora, a nostro parere, sopportare le sfasature e gli errori di competenza territoriale dei «pretori d’assalto», che togliere a tutti i giudici l’unica arma per essere veramente liberi. Come dicevamo, del resto, il fascismo, per le finalità di regime, creò i «Tribunali Speciali», perché lo stesso Governo totalitario non intendeva piegarli alla logica politica. Il «caso Spagnuolo» assurge quindi a indicazione generale e trascende la figura dell’alto magistrato romano. Al suo trasferimento, deciso soprattutto perché ha concesso una intervista ad un settimanale radicale, fa riscontro una iniziativa legislativa della Dc alla quale ha aderito il Psi che ha parecchi conti in sospeso con la Giustizia nei suoi uomini più rappresentativi. I comunisti, che vedono lontano, sono ben felici che l’iniziativa penale finisca nelle mani del potere politico. Quando, speriamo mai, saranno ufficialmente nella «stanza dei bottoni», i comunisti sapranno premere quelli giusti, per cominciare istruttorie contro gli oppositori del regime, per stroncare ogni reazione. Regalare nelle mani della sinistra gli strumenti giuridici per distruggere l’opposizione, essenziale alla dialettica democratica, sarebbe un grosso sbaglio per tutti i cittadini che, in pratica, non si troverebbero in quelle condizioni costituzionali di parità dinanzi alla legge. In sostanza, perché è stato trasferito Carmelo Spagnuolo? Per una intervista concessa al Mondo, nella quale attaccava a fondo l’ex Capo della Polizia, Angelo Vicari, denunciava disfunzioni precise alla Procura (disfunzioni ritenute esistenti dalla stessa Commissione parlamentare antimafia, che ha inviato un rapporto a Palazzo dei Marescialli). I «giudici» del Consiglio superiore non hanno ritenuto credibile la smentita che l’alto magistrato inviò al settimanale dopo la pubblicazione dell’articolo esplosivo. Anzi, hanno ritenuto il contrario: cioè che Spagnuolo abbia detto le parole attribuite a lui da Massimo Caprara, l’intervistatore. Le reazioni a questa intervista avrebbero «posto Carmelo Spagnuolo nell’impossibilità di amministrare Giustizia, nell’ufficio che occupa, nelle condizioni richieste dal prestigio dello Ordine Giudiziario». L’organo di autogoverno dei giudici fa bene a preoccuparsi dello scaduto prestigio della Magistratura. È un suo
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dovere istituzionale. Ma l’iniziativa in tal senso deve essere presa in tutte le direzioni e sempre con la stessa tempestività. Da anni giacciono a Palazzo dei Marescialli provvedimenti disciplinari contro giudici maoisti, che sono addirittura sotto processo per vilipendio dell’Ordine Giudiziario. Oppure tali procedimenti si sono conclusi con proscioglimenti, che sanno tanto di sacro terrore di dispiacere al potere politico imperante. È di questa settimana la notizia che il Procuratore della Repubblica di Milano, dottor Giuseppe Micale, è al centro di polemiche dei suoi sostituti, che vanno ormai a ruota libera, soltanto perché ha tentato di far valere l’autorità di capo dell’Ufficio e di imporre un ritmo di lavoro serio a chi deve amministrare la Giustizia. Si sta cercando l’incompatibilità con l’ambiente anche per Micale. I giornali, reggi-coda di tutte le iniziative di sinistra, cioè dei magistrati democratici (gli altri che cosa sono? antidemocratici?) hanno cominciato a dare ampio rilievo a questo stato di tensione, aggravato dalle riunioni dei sostituti procuratori della Repubblica. Che cosa ha fatto il Consiglio Superiore della Magistratura per difendere il prestigio del Procuratore della Repubblica di Milano? È stato mai trasferito un giudice di sinistra? Per ottenere l’impunità è sufficiente, per chi è sotto procedimento disciplinare, iniziare una inchiesta: magari indicando Nardi quale assassino di Calabresi. Sinagra, il sostituto noto alle cronache, è sotto procedimento disciplinare per non aver rispettato le norme emanate dallo stesso Micale; Riccardelli, addirittura per «scarso rendimento». Perché nei confronti di questi due giudici, che sono i capi a Milano della contestazione giudiziaria, il Consiglio Superiore non agisce con la stessa tempestività con cui ha agito nei confronti di Carmelo Spagnuolo? La situazione della Procura milanese è altrettanto grave che quella della magistratura romana e il massimo organo di autogoverno dei giudici non deve dare l’impressione di usare due pesi e due misure. Altrimenti autorizza il sospetto di aver trasferito Spagnuolo nel quadro di una manovra politica a lungo o a medio raggio. [F. D.] (il Borghese, 21 Aprile 1974)
CARMELO SPAGNUOLO
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verimento sociale perché non riesce a dare lavoro, in quanto le tecnologie soppiantano il lavoro, in quanto deve concorrere con economie a basso costo, in quanto ha una sterminata schiera di lavoratori, in quanto può spostare con mano libera i capitali... Riformismo, ammortizzatori sociali: lasciatemi divertire. Ne vedremo di orribili. Questa sinistra farsesca non comprende che osare il riformismo con un capitalismo che cerca il profitto disperatamente è un’antitesi! Ci fosse possibilità del riformismo non avremmo la crisi. Essa nasce dalla violenta predazione di pochi sui moltissimi. Non resteranno neanche le briciole per il ... popolo. A meno che il popolo... A meno che il popolo, comprendendo che i capitalisti li annientano e che la sinistra, pazzescamente, li illude e si illude che sia tempo di «riformismo», di ottenere garanzie e ossa, laddove avviene esattamente il contrario, non decida di fare da sé. A proposito, valga una sequenza di ottusità scritte da Eugenio Scalfari, ne riferisco l’insieme, non è corrente radunare tanta incapacità di comprendere il reale sociale odierno in poche righe come nel caso che riferisco, la scrittura è sua, preciso: «Nei prossimi giorni entrerà nel concreto la riforma del mercato del lavoro. Ci sono ancora molti punti da decidere tra le parti, ma la sensazione è che un accordo si stia profilando anche se la sua messa in opera avverrà per fasi successive. La sostanza della riforma è che l’accordo copra tutti i vari aspetti del sociale e proceda in modo bilanciato,senza abbandonare vecchie tutele se non quando le nuove saranno pronte e le relative coperture finanziarie disponibili Ci vorranno anni perché la riforma possa dirsi compiuta e i suoi obbiettivi raggiunti: l’eliminazione del precariato, la flessibilità in entrata e in uscita,il mantenimento della giusta causa per tutti i lavoratori, lo sfoltimento delle diverse tipologie contrattuali,le tutele estese a tutti indipendentemente dal contratto e dalle dimensioni dell’azienda, i processi di formazione. Ma soprattutto ci vorrà la crescita del sistema e della sua produttività che richiede interventi del governo e impegno degli imprenditori e dei lavoratori», la Repubblica, 4 marzo 2012. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi contro questi narrafavole. Il capitalismo odierno deve operare in modo contrario, stritolarvi; esso, inoltre, aumenterà la produttività con le tecnologie, quindi licenziando. Il capitalismo odierno deve licenziare e risparmiare sui lavoratori per mantenere il profitto, o andare all’estero conveniente, non c’è riformetta nei rapporti di produzione che possa eliminare la disoccupazione. Ciò significa che in discussione sono il profitto, gli orari, i salari, tutto il sistema produttivo, non cosine contrattuali. Insomma, i lavoratori non attendano e non avranno concessioni dai capitalisti. Se sono capaci si tutelino da sé, facendo la «loro» impresa. Vaneggio? La mia ipotesi è più realistica del riformismo.
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DUE SICILIANI IN GUERRA
Contro il dominio delle Banche di ANTONELLA MORSELLO SIAMO in Sicilia, terra di sole, mare, di antiche creazioni ormai dimenticate, di arabi, fenici e conquistatori. Terra di grandi uomini e di Piccola Gente. Terra dalle creazioni scomparse, riconosciuta da tutti come terra delle organizzazioni dei «movimenti». La Terra dell’assordante silenzio, terra incontrastata della mafia. Terra il cui sistema è costituito dall’intreccio perverso che chiamano spesso «poteri forti», nessuno escluso, magistratura compresa. Parliamo di un’anziana donna di Ragusa e di un uomo solo, Damiano Nicastro che per tenere fede ad una promessa ha continuato anche dopo la morte della signora, Innocenza Maria Campo, a combattere una guerra disperata contro una rete di muri di gomma, assumendo, suo malgrado, il ruolo di unico indagato in una vicenda che ha dell’incredibile. Una storia che va avanti da otto anni, che comprova la prosopopea delle banche e la lentezza della magistratura. Una ingente somma di denaro, una grossa cifra - frutto dei risparmi di una vita e l’ammontare di un’eredità consistente, depositati presso l’agenzia di Ragusa della San Paolo - svanisce nel nulla con la sparizione di un conto corrente che sembra non essere mai stato aperto, nonostante il correntista abbia assegni, ricevute di versamento e accredito, estratti conto. Il numero di quel conto corrente non risulta né alla banca dalla quale si è volatilizzato né all’Associazione Bancaria Italiana (Abi), la Banca d’Italia promette di intervenire, ma non fa nulla. Nemmeno la Guardia di Finanza ne viene a capo, nessuna indagine riesce a fare luce sul conto corrente sparito. Dal 2003 al 2011, la signora Innocenza Maria presenta denunce alla Magistratura, supportate da perizie calligrafiche sugli assegni, vari esposti al Ministero della Giustizia e alla Banca d’Italia, invia diffide alla banca, scrive e chiede aiuto a tutte le Istituzioni,anche al Presidente della Repubblica (copia dell’esposto viene inviato il 16/04/2010, con regolare protocollo, dal Capo di Stato Maggiore regionale della GdF, colonnello Giuseppe Sironi, al Comando provinciale della Guardia di Finanza di Ragusa). Il 10 agosto del 2004, la filiale ragusana risponde ad una richiesta di informazioni della Guardia di Finanza con i toni con cui è solita trasmettere una qualunque comunicazione alla clientela: «Per quanto riguarda la documentazione relativa al c/c. Vi informiamo che non siamo riusciti a rinvenirla nei nostri archivi. Ovviamente, qualora riuscissimo a trovarla provvederemo a inviarla immediatamente». Nel 2011, la signora presenta un’ulteriore denuncia per sapere che esiti abbiano avuto i due decreti di sequestro della documentazione bancaria emessi dal magistrato, dottor Emanuele Diquattro, (in data 29/09/2006 e 26/01/2007), con incarico alla GdF di Ragusa, decreti di sequestro che risultavano, e risultano ancora oggi, incredibilmente mai eseguiti. Che fine hanno fatto quei soldi? Quali operazioni sono state fatte utilizzando all’insaputa della correntista il
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conto 10/645629? Quante firme false sono state apposte per autorizzare i movimenti? Perché i decreti emessi dalla Magistratura non vengono eseguiti e agli esposti inoltrati dalla GdF non c’è alcun seguito? Poi, è possibile che si tratti di un caso isolato? O i banksters scelgono con cura correntisti con determinate caratteristiche, straordinariamente somiglianti a quelle della signora Campo - ricche ereditiere anziane, sole e indifese - per la loro inesauribile necessità di denaro da «movimentare»? Dicono che «È un fenomeno reale e la solitudine dei denuncianti non permette quella cassa di risonanza che il problema richiederebbe. Dalle percentuali dei casi si evince senza alcun dubbio che il numero di “espropri bancari” è tale da non rappresentare quel fenomeno di massa critica oltre la quale se ne farebbe un caso nazionale se non internazionale. Le percentuali sono circa dello 0,01% quindi un conto corrente ogni 10.000 è soggetto a questo tipo di fenomeni». E ancora: «Un’ultima domanda: secondo voi i soggetti vittime di questi episodi sono persone prese a caso o persone con un profilo ben preciso con scarsa capacità di difesa come nel caso che abbiamo messo in luce oggi? Da una prima analisi sembrerebbe un fenomeno mirato e non casuale».La signora Campo, coadiuvata da Damiano Nicastro che ha nominato suo erede, non si è mai arresa, e Damiano oggi come ieri ne continua la guerra: altri esposti, altre denunce, lunghe attese nella sala d’aspetto dell’ufficio di Corrado Passera per ricevere ingannevoli parole rassicuranti dalla segretaria. Ma la storia non finisce qua: cifre più piccole, ma non irrilevanti, spariscono anche da conti aperti con Poste Italiane, funzionarie reticenti fanno ammissioni davanti ad ispettrici che non riescono comunque ad ottenere giustizia, ma la magistratura finisce per indagare, chi? Un impiegato o il direttore di un’agenzia di provincia? No, Damiano Nicastro, accusato di avere avuto fini inconfessabili. Ed è sua la domanda: «Chi governa in Italia?» Lo sviluppo dei traffici mafiosi su larga scala ha comportato un’inevitabile crisi delle tradizionali delimitazioni territoriali ed ha aumentato la necessità di riciclare i colossali proventi, investendoli in attività economiche lecite. Arrivati ai nostri giorni, tale necessità determina una maggiore pressione sugli apparati amministrativi al fine di ottenere appalti, concessioni edilizie, lavori pubblici. I gruppi mafiosi hanno creato complessi reticoli di imprese, che operano essenzialmente in settori di attività quali costruzioni, materiali edili, servizi. Il dato caratteristico di questo sistema di economia mafiosa è un’accentuata concorrenza che viene, però, gestita grazie al ricorso della violenza ed al terrorismo mafioso. La mafia si è ormai trasformata in un anonimo potere di mercato. Lo stesso esercizio della violenza si manifesta per pura e brutale dimostrazione di forza materiale, sorretta dalla forza del denaro. Esiste una soluzione? È necessario frenare questo sistema con uno sforzo di prevenzione da affiancare alla repressione effettuata dalle forza dell’ordine, da magistrati «seri» e dalle istituzioni «non silenti». Si deve giungere ad un sistema di contrapposizione globale che preveda un’offensiva sistematica e costante nel tempo contro tutte le fasce in cui si articola l’attività criminale, a cominciare dall’illegalità diffusa e strisciante che pervade larghi strati della cittadinanza, continuando con la violenza in qualsiasi area e, infine, intensificando gli sforzi nel contrastare le aggregazioni vere e proprie. Continuare a lottare, ciascuno nel proprio campo, con determinazione e convinzione, è l’unica risposta possibile per la società civile, purché abbia intenzione di restare veramente civile.
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ALL’ORIGINE DELLA CRISI
IL NUOVO che avanza di ENEA FRANZA LA FORTE riduzione del PIL con cui l’Italia chiude il 2011 (-) e nelle previsioni del 2012 (-) fanno comprendere quanto profonda sia la crisi attuale e come sia difficile affrontarla. L’attuale governo, che nella sostanza gode dell’appoggio finora incondizionato delle maggiori forze politiche rappresentate in parlamento, ha impostato una politica economica basata sul contenimento della spesa pubblica, con l’obbiettivo di garantire la continuità del finanziamento del nostro debito. L’ammontare totale del debito, pari oggi a 1.500 Miliardi di Euro e soprattutto la necessità del rifinanziamento a costi crescenti mette in pericolo la stabilità finanziaria del Paese. Su questo tutti concordano ed è questo che, in definitiva, ha aperto le porte all’attuale governo d’unita nazionale. Ma di quale politica economica necessita al nostro Paese? Facciamo alcune considerazioni, prima di addentrarci nella indicazioni dei possibili interventi. Una prima analisi preliminare palesa la necessità di verificare il quadro generale relativo alle «vere» ragioni della crisi attuale. In altre parole, soltanto attraverso l’individuazione delle cause profonde che hanno portato l’Occidente verso il baratro sarà possibile scegliere la giusta medicina. La seconda questione riguarda l’idea che senza spesa pubblica non sia possibile impostare una consistente politica di sviluppo, ovvero, l’assunto secondo cui, come sostiene un detto popolare a noi molto caro, «senza soldi non si canta messa». Nella sostanza ogni politica economica costa e al momento attuale il denaro non affluisce abbondantemente nelle casse dello Stato, anzi fuoriesce da mille rivoli. Da cosa origina la crisi attuale? Molti economisti sottolineano come il problema attuale sia nella insufficienza della c.d. domanda globale, per cui la crisi si avvertirebbe, in effetti, negli Usa e nei Paesi del vecchio continente, i quali evidenziano un’effettiva contrazione della domanda interna. Così, invece, non è per altri Paesi che registrano livelli di crescita notevoli. Torniamo al vecchio Occidente. Sul lato delle famiglie, i dati mostrano un rilevante calo dei consumi, che trova ragione principale nella contrazione del credito al consumo (in particolare negli Usa) e nelle politiche di aumento nella pressione fiscale (in particolare in Europa), su quello delle imprese, attraverso un aumento delle scorte in magazzino che induce a contrarre la domanda di investimento e, infine, della spesa pubblica con interventi generalizzati di contrazione. Anche sul lato delle esportazioni la riduzione della domanda estera (ovvero delle esportazioni) si palesa sui mercati tradizionali. Un’unica eccezione. I Paesi che hanno saputo compensare le perdite attraverso relazioni consolidate con i Paesi in Sviluppo.
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Gli economisti che fanno perno sulla insufficienza della domanda interna vedono come fumo negli occhi tutte le politiche di contrazione della spesa pubblica, l’unica capace, in un contesto del genere, di dare vigore all’economia stagnante. Attraverso il meccanismo degli investimenti pubblici, essi sostengono, è possibile determinare un incremento del reddito moltiplicato rispetto alla spesa che si effettua e capace pertanto di ripagare il debito. Insomma il noto meccanismo del moltiplicatore di keynesiana memoria. L’idea, insomma, è quello di fare altri debiti per finanziare lo sviluppo, ma il problema è dove trovare i finanziatori, ovvero, di ripensare al ruolo dell’Istituto di emissione, togliendole eventualmente l’autonomia di stampare moneta ed attribuendola agli Stati nazionali, trasformando le banche centrali in finanziatori della spesa pubblica. Pur consci dell’enorme semplificazione e delle forzature che nel nostro discorso stiamo facendo nell’interpretazione del pensiero dei tanti economisti che sostengono l’idea che l’origine della crisi in corso derivi dall’insufficiente domanda, non paghi delle critiche, cerchiamo di capire cosa, invece, ritengono coloro che, dall’altro lato, pensano che la crisi abbia origini nell’emergere di nuove realtà competitive. Questi economisti ritengono che il problema della crisi riguardi i soli Paesi del Nord America e del vecchio continente e che, invece, si sia di fronte ad uno sviluppo eccezionale dell’economia globale che riguarda realtà che fino a poco tempo fa non partecipavano alla produzione ed alla distribuzione della ricchezza mondiale. I nuovi attori sono, tra gli altri Cina, India, Brasile e Russia. Si affiancano anche alcuni Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. È indubbio che la produttività delle citate aree geografiche stia negli ultimi tempi aumentando in modo esponenziale. Ma ce ne vuole a dire che è questo che farebbe la differenza. Tuttavia, spiegano tali economisti, occorre guardare più a fondo e così facendo si scoprirebbe che si sarebbe di fronte ad una nuova allocazione delle risorse. Mi spiego meglio e per farlo prendo in prestito l’illustrazione che già secoli or sono l’economista Riccardo ha dato del fenomeno, facendo un esempio che, piegandolo ai nostri scopi, spero aiuti a comprendere. Supponiamo di confrontare le produttività tra Europa e Russia, relativamente a due produzioni, ad esempio Tessuto e Patate. Supponiamo che il costoopportunità della produzione del tessuto, per entrambi i Paesi, è dato dalla minor produzione di patate che si rende necessaria. E supponiamo che, i dati, dimostrano che la Russia impieghi più tempo per produrre sia le patate sia il tessuto.
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Ma ipotizziamo che la Russia ha un costo comparato di 1,25 patate-tessuto, mentre l’Ue 2,5. È quindi più vantaggioso che l’Ue si specializzi nella produzione di tessuto e la Russia nella produzione di patate. Così, avremmo più patate e più tessuto. I Russi, pur avendo (nella ipotesi fatta) una produttività assoluta più bassa in tutte e due le produzioni, presentano un vantaggio comparato nella produzione di patate perché: - all’Ue produrre una tonnellata in più di patate significa rinunciare a 2,5 pezze di tessuto; alla Russia produrre una tonnellata in più di patate significa rinunciare a 1,25 pezze di tessuto. Quando le cose stanno in questo modo, ai due Paesi conviene specializzarsi ciascuno nella produzione del bene che ha il costoopportunità più basso, e quindi scambiarsi i prodotti. Supponiamo che in Ue i lavoratori siano 10 e in Russia i lavoratori siano 40. Impiegano interamente il lavoro a propria disposizione, l’Ue potrà produrre 5 unità di tessuto o 2 tonnellate di patate; la Russia invece potrà produrre 5 pezze di tessuto o 4 tonnellate di patate. Per guadagnarci entrambi gli Stati, occorre che la ragione di scambio resti compresa tra 1,25 e 2,5. Nella sostanza, per chi non abbia avuto la voglia di seguirmi nell’esempio, la riallocazione della produzione sta spostando verso i Paesi dell’estremo Oriente, e di altri Paesi in via di Sviluppo, le attività ad alto assorbimento della forza lavoro, con conseguente minor necessità di mano d’opera in Occidente. Tale riallocazione produttiva, tuttavia, essendo accompagnata dalla piena libertà dei movimenti di capitale ha determinato un riassetto complessivo le cui conseguenze si stanno palesando. E se le cose stanno cosi, la cura dei nostri governi, non avrà effetti rilevanti. Il problema (ricordiamolo non risolutivo) è nella libertà di movimento dei capitali, che consente un’allocazione delle risorse ottimale, ma non permette agli Occidentali il mantenimento degli attuali livelli di ricchezza. Insomma, parrebbe, una strada senza uscita!
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MONETA CREATA
SCHIAVITÙ del debito di GIAMPAOLO ROSSI «IL TEMPO è denaro». Lo scrisse, nel 1736, Benjamin Franklin, uno che del tempo fece un uso incredibilmente consapevole. Tra l’invenzione del parafulmine, un’ambasciata a Parigi e la stesura della Costituzione americana, l’inventorepatriota gettò, con quella frase, le fondamenta del nuovo spirito capitalista che avrebbe penetrato la civiltà moderna. Non a caso Max Weber, il grande sociologo tedesco che indagò la natura del capitalismo, vide in questo padre dell’America, in questo puritano votato agli ideali massonici, una sorta di teorico di quell’etica basata «sull’acquisizione di denaro e sempre più denaro» in maniera quasi «trascendente e assolutamente irrazionale». È raro che una frase riesca a presagire in maniera così chiara la trasformazione della società e dell’uomo. Forse solo il «Dio è morto!» di Nietzsche ha avuto la stessa forza profetica della frase di Franklin. E infatti, eclissi del sacro e dittatura del denaro, sono la trama finita del tempo in cui viviamo. Franklin fu uno dei protagonisti della lotta d’indipendenza americana e fu strenuo sostenitore del diritto dei coloni a battere una propria moneta, svincolandosi dall’obbligo imposto dalla corona britannica (e dalla Banca d’Inghilterra) di effettuare i pagamenti in oro e argento. La Rivoluzione che portò alla nascita della più grande democrazia del mondo sarebbe nata da due fattori congiunti: eccesso di pressione fiscale e mancanza di sovranità monetaria. Chissà cosa avrebbe pensato lui dell’Euro. Di questa furbizia storica che ha portato ad un’Europa fatta da Stati senza moneta e da una moneta senza Stato. Ma l’intuizione di Franklin ci consente di comprendere la natura perversa del modello economico in cui viviamo e della crisi che ci sta travolgendo. Se il tempo è denaro, allora il denaro cos’è? La risposta è semplice: il denaro è tempo. Un tempo concepito come continua proiezione futura, una promessa all’interno dell’astratto meccanismo credito/debito. L’intero sistema capitalistico moderno si basa sul rapporto tra un credito puro e un debito infinito generati da una moneta creata dal nulla. Il denaro, non più legato ad alcun elemento di natura (per esempio l’oro), ha cessato di essere intermediario di scambi e strumento di circolazione di beni. Il capitalismo finanziario, generando la moneta dal nulla, ha trasformato il denaro in valore in sé proiettandolo in un tempo futuro. Un gioco di prestigio che ha reso i banchieri moderni demiurghi delle nostre vite e dei nostri destini. La moneta creata dal nulla (l’invenzione più importante della modernità) porta con sé un aspetto del tutto nuovo: il denaro che le banche
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centrali stampano e mettono in circolo è un debito per loro e un credito per chi lo possiede. Ma nello stesso tempo, acquisendo corso legale, quel debito è moneta, cioè pagamento. In altre parole, un debito che non potrà mai essere estinto se non per mezzo di altro debito (cioè altro denaro). Una magia che, come tutte le magie, genera un potere assoluto nelle mani di chi la detiene. Quando banchieri, economisti e politici espressione delle potenti élite finanziarie ci dicono che la pesante pressione fiscale (da sempre strumento di limitazione della libertà individuale da parte dello Stato) e le manovre «lacrime e sangue», sono un prezzo da pagare, un sacrificio momentaneo per riequilibrare i debiti sovrani e garantirci il futuro, mentono sapendo di mentire. Perché è proprio del nostro futuro che si stanno impossessando. Il sistema non consente che alcun debito venga estinto perché è su di esso e sulla promessa del pagamento che legittima la sua esistenza. Il debito è la nuova schiavitù cui sono sottomessi i popoli e le generazioni future. Dalla condizione di debitori non si esce (il cittadino nei confronti dello Stato, lo Stato nei confronti delle banche centrali, il cittadino nei confronti della sistema finanziario, il sistema finanziario verso se stesso). Pochi giorni fa, il suicidio dell’architetto francese davanti all’ufficio delle imposte ha seguito i suicidi degli imprenditori italiani strozzati dalle banche e dal sistema del credito e del debito. L’Europa è attraversata da una disperazione collettiva che gli istituti di sondaggio non colgono e i media del grande potere nascondono. C’è solo una via di uscita: far saltare questo sistema. Ma servirebbe una politica in grado di recuperare la sua missione di governo del bene pubblico. Per ora la politica si è arresa. Dopo essersi barricata per oltre trent’anni nei suoi nascondigli parlamentari, è uscita a mani alzate scortata dagli sgherri del nuovo potere mondiale. Aspettiamo che torni a battere un colpo. (L’articolo è ripreso dal blogdellanarca.wordpress.com)
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RADDOPPIATE LE MINIERE NEL MONDO
PATRIOTTISMO africano di FRANCO LUCCHETTI «L’ESTRAZIONE di risorse naturali o altri grandi progetti di sviluppo in prossimità dei territori dei popoli indigeni sono una delle più significative fonti di abuso dei loro diritti umani nel mondo». Questa affermazione è attribuita al relatore speciale per i diritti dei popoli indigeni James Anaya nel rapporto «Sociétés minières opérant en territoire autochtone ou à proximité» presentato in occasione dell’Human Rights Council dell’Onu a Ginevra. Il rapporto mette in luce le diverse risposte dei governi, popoli indigeni, organizzazioni no profit e aziende commerciali sull’impatto negativo e i benefici riguardo alle attività minerarie, forestazione, petrolio, gas e progetti idroelettrici nei territori abitati da popolazioni indigene. Insieme all’impatto che le massicce produzioni minerarie hanno sui Paesi interessati e di conseguenza sui diritti umani delle popolazioni autoctone, c’è il problema delle devastazioni ambientali che questo tipo di produzioni hanno sugli equilibri dell’ecosistema, annientando completamente fiumi, terreni e falde acquifere soprattutto in Africa, America Latina e Asia. Stando agli ultimi rapporti presentati dalle associazioni più importanti a livello mondiale che si occupano della salvaguardia dell’ambiente in tutte le sue forme, viene fuori che le aree più colpite per l’estrazione di materiali attraverso le imprese minerarie sono l’Amazzonia per il petrolio, l’India per importanti giacimenti di bauxite che costituisce la principale materia dell’alluminio, il Sud Africa e il Ghana per il carbone e l’oro. È qui utile ricordare che i costanti aumenti di materie prime, di cui ci occupammo ampiamente dalle colonne di questo giornale (riguardo soprattutto alle commodities) rendono ancora più conveniente lo sfruttamento anche di quei giacimenti dove le estrazioni sono più difficili e costose. Ciò rende chiaro che nessun luogo è più al sicuro da una possibile devastazione, come dimostra il caso delle Tar Sand del lago di Alberta in Canada dove sono stati installati enormi campi estrattivi per trattare le sabbie bituminose ricche di petrolio. Un altro rapporto denominato «Opening pandoras box - the new wave of land grabbing by the extractive industries and the devastating impact on earth» pubblicato da The Gaia Fundation analizza l’impatto delle industrie estrattive minerarie, del gas e del petrolio che stanno determinando sempre maggiori preoccupazioni ambientali. Lo studio in questione lancia afferma che al giorno d’oggi il livello, l’espansione e l’accelerazione di queste industrie sono di gran lunga maggiori rispetto a quello che possiamo immaginare. Questa tendenza è oggi una delle principali cause di land grabbing a livello mondiale, e rappresenta una minaccia significativa per le comunità indigene del mondo, per gli agricoltori ed i sistemi di produzione alimentare locali, nonché per la preziosa acqua, le foreste, la biodiversità, ecosistemi essenziali e per i cambiamenti climatici.
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L’ampiezza ed i livelli di aumento delle attività estrattive durante gli ultimi dieci anni, che il Rapporto di cui abbiamo accennato nelle righe sopra rivela, sono abbastanza inquietanti. Andando nello specifico delle produzioni minerarie degli ultimi anni l’estrazione mineraria di ferro è aumentata del 180 per cento; di cobalto del 165 per cento; di litio del 125 per cento, e di carbone del 44 per cento. La prospettiva peggiore è comunque dato dal quadro degli idrocarburi che negli ultimi periodi è cresciuta in modo esponenziale, insieme alle altre commodities, inoltre l’aumento dei prezzi di metalli, minerali, petrolio e gas hanno agito come un incentivo a sfruttare nuovi territori e depositi «meno puri». Le tecnologie stanno diventando sempre più sofisticate per estrarre materiali da zone che fino a qualche tempo fa erano definite inaccessibili, antieconomiche, o designate come di scarsa qualità perché i depositi con la più alta qualità o concentrazione sono già esauriti. Questo comporta che l’estrazione dai giacimenti meno accessibili richiede più rimozione di terra, sabbia e roccia, e quindi lo «scorticamento» di aree sempre più grandi di terra ed acqua, come hanno riportato recentemente le vaste sabbie bituminose del Canada. Le miniere quindi divorano la terra, e negli ultimi dieci anni sono più che raddoppiate. La Cina ha investito massicciamente nelle miniere africane, e assorbe gran parte delle risorse minerarie del mondo con delle percentuali impressionanti. Per farci un’idea basti pensare che Pechino usa il 53 per cento di cemento del mondo, 47 per cento del minerale di ferro, il 46 per cento del carbone e oltre il 40 per cento dell’acciaio, piombo, zinco e alluminio. Inoltre tra il 2005 e il 2010 in Cina l’industria mineraria è aumentata di quasi un terzo. Citando gli altri Paesi, in Perù, le esportazioni minerarie nel 2011 sono aumentate di un terzo in un soli 12 mesi e nella zona meridionale di Puno le concessioni minerarie sono quasi triplicate tra il 2002 e il 2010. In Sud Africa investitori internazionali ha chiesto i diritti per trivellare petrolio e gas shale in un’area che interessa circa il 10 per cento della superficie dell’intero Paese. In America Latina, Asia e Africa, bacini fluviali ed interi ecosistemi vengono spogliati, le comunità sfollate, le terre divorate dalle attività minerarie. Le grandi miniere all’aperto trasformano intere zone in enormi aree industriali dismesse, rimuovono le cime delle montagne, utilizzano a pieno regime bacini idrici ed avvelenano l’ambiente circostante. Questo determina non soltanto lo sgombero di popolazioni per far posto agli insediamenti di estrazione
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minerari, ma rischia di creare innumerevoli e giganteschi problemi sociali perché intere popolazioni si ritroverebbero affamate e senza un luogo fisico dove vivere. Un elemento invece che potrebbe fermare l’espansione della produzione mineraria è data dalle risorse idriche, infatti le compagnie minerarie lamentano una diminuzione della disponibilità di acqua, il cui fabbisogno dovrebbe invece crescere da qui ai prossimi anni ad un livello sostenuto (si parla infatti di 6.900 miliardi di metri cubi da oggi al 2.300). Infatti possiamo tranquillamente affermare che la vera ricchezza nel futuro prossimo è rappresentata proprio dalle risorse idriche; forse più del petrolio e dei prodotti combustibili. Ma quello che preoccupa le multinazionali minerarie è quello che viene definito «il patriottismo economico africano». «Africanizzazione» e «Nazionalizzazione» sono termini che sono risuonati alla fine del Summit Mining Indaba di Città del Capo lo scorso febbraio dove i ministri africani, in particolare del Sudafrica e della Rdc, hanno rivolto parole durissime verso gli investitori minerari, indicati come «cattivi allievi dello sviluppo locale». Di fronte a questa situazione, Guinea, Zambia, Sudafrica, Mali, Burkina Faso e Ghana hanno annunciato tutti una revisione dei loro codici minerari e dei contratti in corso di esecuzione. Sono intenzionati ad aumentare tasse e royalties per rimpinguare le esauste casse pubbliche ma soprattutto perché, sotto pressione dell’opinione pubblica, il loro obiettivo prioritario è quello di favorire la crescita dei posti di lavoro, i subappalti alle ditte locali, la costruzione di infrastrutture e la trasformazione dei minerali localmente. Per questo i governi africani stanno studiando la strategia delle multinazionali minerarie presenti sul loro territorio ed entrano nel capitale di queste imprese. In Mali le autorità governative vogliono aumentare la partecipazione pubblica nelle miniere dal 15 al 25 per cento, in Guinea lo Stato ha imposto che gli siano concesse gratuitamente il 15 per cento delle azioni dei progetti minerari.
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IN CINA SI STA GIRANDO
IL «COLOSSAL crack» di DANIELA BINELLO IMMAGINATEVI che in Cina si stia girando un film sulla finanza sporca internazionale. Anzi, un colossal. In primo piano ci potrebbero essere alcuni fatti di cronaca, realmente accaduti, che hanno destato il sospetto che qualcuno si sia appropriato dei soldi delle banche cinesi attraverso un giro di prestiti, passato di mano in mano, con interessi sempre più alti. Sembrerebbe, infatti, che la piaga dilagante dell’usura non sia circoscritta ai soli ambienti malavitosi, i quali necessitano di aprire dei flussi di lavaggio del denaro sporco per rimetterlo in circolo, ma che si sia estesa e infiltrata nei rispettabili salotti dell’alta finanza più di quanto non si potrebbe immaginare. La cronaca del nostro tempo, infatti, narra di uomini d’affari cinesi che dalla sera alla mattina sono spariti nel nulla. È accaduto nel Fujian, dove un neo capitalista cinese è scomparso lasciandosi alle spalle un crack finanziario da trecento milioni di yuan (35 milioni di euro). Un caso analogo si è ripetuto anche nello Jiangsu, dove un imprenditore, dopo aver accumulato un debito di cento milioni di yuan, è scappato in Indonesia. E poi ancora, esaminando quella che ormai sta diventando la letteratura del fenomeno, anche il presidente della più importante fabbrica d’occhiali cinese, la Zhejiang Center Group, tal Hu Fulin, se l’è svignata negli Stati Uniti dopo essersi costruito un tesoretto di due miliardi di prestiti, ottenendoli dalle banche cinesi (230 milioni di euro). Uomini d’affari strangolati dai debiti o truffatori belli e buoni? Fatto sta che se perfino Liu Minkiang, che presiede l’organismo cinese di vigilanza bancaria (China Banking Regulatory Commission), ha lanciato l’allarme denunciando che sessantaquattro aziende non operanti nel settore finanziario, e nemmeno quotate in Borsa, hanno presentato bilanci in cui risulta un totale di due miliardi di euro di crediti ceduti a terzi, è lecito immaginare che dietro a questa compravendita di finanziamenti concessi dalle banche alle imprese ci siano «imprenditori» che lucrano. E chi sono questi leggendari «imprenditori», allora, se non usurai travestiti da capitalisti? Gente che di giorno va a colazione con i banchieri e di notte mette in mano a gente disperata quello che ha rastrellato dalle casse centrali degli istituti bancari. Quando poi il malloppo è veramente enorme, ecco che questi maneggioni si eclissano senza lasciare tracce. Incredibile, ma vero. Escludendo, però, che questi «rapinatori» siano dei novelli Robin Hood è chiaro che, perché il loro gioco valga, i prestiti ai privati devono essere rivenduti a caro prezzo, salvo poi scappare dalla Cina senza restituire alle banche il credito avuto in affidamento. La crisi economica globale, con la conseguente recessione di Europa e Stati Uniti, più la bolla immobiliare cinese e le
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forti perdite sul mercato delle esportazioni, stanno provocana favore dei Cinesi. Ma Pechino da quell’orecchio non ci do in Cina rumorosi scricchiolii. sente e, sebbene si mostri possibilista sull’argomento per il Non a caso, perciò, alcuni economisti, fra cui quelli futuro, tutti sanno che la Cina rivaluterà lo yuan soltanto della Banca Mondiale, hanno insinuato che siamo alla quando lo riterrà necessario e, comunque, non prima che vigilia del crack cinese. È questo il set, allora, per svilups’insedi il nuovo leader e si avviino le riforme. pare la sceneggiatura del colossal cinese. Allo stesso modo, mentre Obama preme per una rottura Intanto, nella realtà, il gigantesco depauperamento del degli scambi energetici e commerciali tra Pechino e Tehedenaro pubblico cinese ha già sfiorato la soglia dei dieciran, Pechino evita di dare risposte dirette sull’argomento, mila miliardi di dollari di debito pubblico, provocando ma, allo stesso tempo, non smentisce affermazioni come l’abbassamento del rating del Paese e il conseguente innalquelle fatte dal professor Joseph Cheng, che insegna scienzamento dello spread. ze politiche alla City University di Hong Kong, quando Credit crunch incluso, a questo punto dalla Cina partidice che «il Paese è pronto per un ulteriore sviluppo dei rà una nuova «faglia di Sant’Andrea» che andrà a spaccare suoi armamenti». in due Estremo Oriente, Asia e Medio Oriente, provocando E mentre per tutto il mondo il colossal sul crack cinese da est un crack finanziario a effetto domino che travolgerà rappresenta un nuovo genere di fiction sulla finanza interl’Australia e, subito dopo, attraverso il Pacifico, aggancerà nazionale da tenere col fiato sospeso, anche il vasto mercale sue ganasce al punto di partenza della crisi economica to economico cinese interno è diventato un terreno di cacglobale (la madre di tutte le crisi economiche sfuggite di cia per predoni di capitali. mano), cioè gli Stati Uniti d’America. L’ultimo caso eccellente riguarda un superpoliziotto, A quel punto gli investimenti cinesi in Africa, che tantal Wang Lijun, che era a capo delle forze di sicurezza to preoccupano attualmente il mondo occidentale, saranno della città cinese di Chongqing (30 milioni di abitanti). bazzecole e soltanto l’Iran, forse, si sfregherà le mani veQuesta volta Wang Lijun non è riuscito a scappare col tedendo piangere di lacrime amare i suoi peggiori nemici soro, perché è stato arrestato, ma le accuse contro di lui (Israele e Stati Uniti). Ma un imminente crack cinese, a portano fino a Bo Xilai, il segretario del partito della città e giudicare dagli effetti devastanti su tutta la finanza monastro nascente a livello nazionale. Considerato un nostalgidiale, potrebbe ancora essere evitato? co maoista, quella contro Bo Xilai, però, potrebbe anche Come ricorderete, nel giorno di San Valentino, lo scoressere una polpetta avvelenata. so febbraio del 2012, alla Casa Bianca Obama ha ricevuto Nella Cina che deve convertirsi dall’export a far creil prossimo leader cinese Xi Jinping. Di cosa hanno parlascere il suo consumo interno, comunque, il vero boom è to il leader americano uscente e il leader cinese entrante? rappresentato dal pericolo di fare crack. Che sarebbe da 22-02-2012 12:03 Pagina 1 Di apprezzamento dello yuan (da tempo l’America chiede colossal, naturalmente. a Pechino di renderlo meno appetibile rispetto al dollaro), squilibrio della bilancia commerciale, dumping, proprietà intellettuale, ma anche di Iran e Siria. Per ora, fra i due, ci sono stati soltanto ammiccamenti di cortesia, d’accordo, ma l’incontro è stato importante perché gli Usa hanno avuto modo di osservare da vicino colui che guiderà la Cina nei prossimi dieci anni. Franza Razzi 29 Antonio 25 Enea E se per Obama le elezioni di fine Le mie mani pulite Giampaolo Bassi L’Italia e la crisi, prefazione di Silvio Berlusconi Fausto anno rimangono un’incognita, per Xi un Paese al bivio Gianfranceschi pagg. 162 • euro 18,00 Jinping invece si tratta soltanto di una Aforismi pagg. 234 • euro 16,00 formalità. È lui, infatti, il successore di del dissenso Prezzolini Hu Jintao. 30 Giuseppe Intervista sulla destra Jean Madiran 26 Gli Stati Uniti e la Cina sono potenintroduzione di Fabio Torriero “L’accordo di Metz” pagg. 174 • euro 16,00 Tra Cremlino e Vaticano ze mondiali strettamente correlate non pagg. 210 • euro 18,00 introduzione e post-fazione soltanto da interessi antagonisti in madi Roberto de Mattei teria geopolitica, ma la Cina detiene Evola 31 Julius Regime Corporativo pagg. 112 • euro 12,00 anche la quota più grande di tutto il (1935-1940) debito americano. Diversamente dai a cura di Gian Franco Lami S. Romano - B. Romano capitalisti cinesi, che scappano col pagg. 114 • euro 15,00 27 La mafia addosso malloppo, è evidente però che gli Stati Intervista di Barbara Romano al Ministro Saverio Romano, Uniti da questo abbraccio fatale con imputato… per forza! Evola 32 Julius Antonio Razzi Rassegna Italiana Pechino non possono svignarsela. pagg. 188 • euro 16,00 (1933-1952) Le mie mani pulite Washington, però, vorrebbe cona cura di Gian Franco Lami prefazione di vincere Pechino che è necessario gioSilvio Berlusconi pagg. 180 • euro 16,00 Le Pen 28 Marine Controcorrente care sul terreno dell’economia globale prefazione di Fabio Torriero con le stesse regole. traduzione di Anna Teodorani Per gli Stati Uniti, infatti, la svalupagg. 228 • euro 18,00 pagg. 162 • euro 18,00 tazione della valuta cinese è la causa dello squilibrio della bilancia commerinformazioni al 339 8449286 ciale che, ormai da lungo tempo, pende
PUBBLICITÀ traduzione di Milena Riolo
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IL MEGAPROGETTO «TOSHKA»
CLONANO il Nilo di ALBERTO ROSSELLI L’EGITTO, da 17 anni a questa parte, sta intensificando in tutti i modi lo sfruttamento delle acque del Nilo attraverso l’ideazione e realizzazione di grandi opere idrauliche come il «Progetto Toshka», ovvero la «clonazione del Nilo» - destinate a modificare radicalmente l’aspetto geofisico e, forse, climatico dell’intero Paese, trasformandolo - così almeno spera il governo del Cairo - in una vasta pianura irrigata e adatta all’insediamento di centinaia di comunità agricole e industriali e alla nascita, nell’arco di una decina di anni, di 24 centri urbani da 50/100.000 abitanti ciascuno. Come è noto, la prima grande e discussa opera destinata a sottrarre parte dell’Egitto al deserto è stata la diga di Assuan costruita tra il 1960 e il 1971 grazie all’assistenza dell’Unione Sovietica. Con i suoi 3.600 metri di lunghezza e 111 di altezza, il manufatto ha sbarrato il corso del Nilo creando il lago Nasser, lungo ben 500 chilometri, largo 12 e profondo fino a 182 metri. Il gigantesco specchio d’acqua, che ha una superficie di 6.000 chilometri quadrati e una capacità massima di 164 miliardi di metri cubi d’acqua, ha consentito una intensiva irrigazione di tutta la zona circostante, aumentando del 50 per cento la sua superficie coltivata. L’invaso ha poi permesso un notevole incremento della produzione ittica che, stando alle ultime statistiche governative, ha raggiunto un quantitativo di annuo di 40.000 tonnellate. Ma oltre a ciò - e questo è il dato più importante - lo sbarramento, opportunamente dotato di una centrale idroelettrica da 12 generatori, ha risolto buona parte del deficit energetico nazionale, con una produzione annua di 10 miliardi di kilowattore. Secondo le autorità del Cairo «i vantaggi derivanti da questa costruzione risulterebbero di gran lunga superiori ai cosiddetti effetti collaterali denunciati da certi ecologisti e climatologi. Grazie alla diga di Assuan le rovinose piene del Nilo sono state finalmente regolate e, nel contempo, è stato possibile irrigare 2,5 milioni di ettari di aride terre. Lo sviluppo delle canalizzazioni ha poi reso possibile ottenere tre raccolti di cotone (uno dei più importanti prodotti egiziani) l’anno, con un conseguente aumento delle esportazioni ed un miglioramento della bilancia dei pagamenti». Secondo gli ecologisti, la diga avrebbe invece alterato negativamente la portata del Nilo, privando l’agricoltura egiziana dei benefici portati dal regime naturale delle piene nilotiche, ricche di limo. Subito dopo la costruzione del manufatto, la portata del fiume all’altezza del suo vasto delta si sarebbe ridotta da circa 32 miliardi a 6 miliardi di metri cubi annui, in quanto gran parte dell’acqua risulterebbe trattenuta dallo sbarramento. Sempre secondo i contestatori dell’opera, l’incremento eccessivo dei consumi di acqua del lago stesso, utilizzati per l’irrigazione in loco, avrebbe anche diminuito la portata del Nilo al suo delta, che, tra il 1985 e il 1999, sarebbe scesa da 3 miliardi di metri cubi annui ad appena 1,8 (concentrati per la maggior
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parte nei mesi invernali quando i campi non richiedono eccessiva irrigazione). Anche se l’unico aspetto negativo dell’opera che i tecnici del Cairo sono disposti ad ammettere è quello relativo ai costi derivanti dai periodici dragaggi ai quali deve essere sottoposto il fondale del lago Nasser: lavoro necessario per asportare il limo che ad ogni piena stagionale va a depositarsi nel bacino. Stando, invece, ai pareri di non pochi climatologi, i benefici derivanti dalla prevista evaporazione prodotta dalle acque del lago (fenomeno che avrebbe dare luogo a piogge su tutto l’Egitto meridionale) risulterebbero annullati dai venti meridionali che, come sta in effetti accadendo, trasportano le masse umide dall’alveo molto più a nord, fino a farle scaricare sul Mediterraneo. Nonostante il fioccare delle polemiche e dei dubbi circa l’opportunità di «manipolare» ulteriormente il corso del Nilo, nella seconda metà degli anni Ottanta, il governo del Cairo ha comunque avviato altri progetti ancora più incisivi e di ben più vasta portata,, come ad esempio il Canale Al-Salam destinato a «rinverdire la zona del Sinai». Fino ad arrivare a mettere in cantiere un mega-progetto che, una volta ultimato, verrà sicuramente additato come la più grande e costosa opera di ingegneria idraulica mai realizzata dall’uomo. Stiamo parlando dello sdoppiamento, tramite canale artificiale, del corso del Nilo, dal lago Nasser alla depressione di El Qattara (situata 137 metri sotto il livello del mare). Come spiega l’ingegnere Arturo Gallia, uno dei più attenti studiosi italiani del piano, «nessuno sa dire con esattezza a chi si debba questa idea. C’è chi afferma che essa venne in mente, negli anni Trenta, all’esploratorearcheologo e storico, Paolo Caccia Dominioni (autore del celebre libro sulla battaglia di El Alamein) il quale, durante una ricognizione effettuata nel deserto egiziano, trovò le tracce un antichissimo ramo del Nilo, ormai asciutto. Sembra che dopo la sua scoperta, Caccia Dominioni si fosse rivolto ai governanti del Cairo ai quali avrebbe proposto di dirottare parte delle acque del Nilo lungo l’ormai secco uadi, duplicando di fatto il fiume: progetto che, tuttavia, venne ostacolato dagli Inglesi che non vedevano di buon occhio un’eventuale presenza di tecnici italiani nella terra dei faraoni. Nel secondo dopoguerra, il presidente egiziano Nasser, al quale si deve la realizzazione della diga di Assuan, prese in esame la possibilità di deviare il Nilo per creare un grande insediamento agricolo nella depressione di Toshka, ad ovest di Abu Simbel, ma la morte non gli permise di trasformare il suo sogno in realtà. Dopo essere rimasto sepolto per anni nel dimenticatoio (sia a causa delle guerre con Israele, sia per carenza di fondi), verso la metà degli anni Ottanta, il successore di Anwar Sadat, Hosni Mubarak decise però di rispolverare il progetto e di attuarlo. E nel 1996, un primo flusso d’acqua venne dirottato, anche se per poche decine di chilometri, lungo l’antico braccio ovest del Nilo, fino a raggiungere la piana di Toshka. Verificata la validità dell’esperimento, nel gennaio del 1997, i tecnici e le maestranze egiziane iniziarono quindi a lavorare ad un opera ben più impegnativa: l’allungamento progressivo del «fiume artificiale» verso nord. In sintesi, il «Progetto Toshka» consiste nella costruzione di grosso canale in cemento armato di ben 1.400 chilometri di lunghezza e destinato a cambiare radicalmente il volto di buona parte dell’Egitto centro e nord occidentale. L’acqua, prelevata da una potente stazione di pompaggio, situata sulle sponde del lago Nasser e collegata ad altre 30 minori, verrà convogliata nel canale di cui si è detto al
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ritmo di 25 milioni di metri cubi al giorno, venendo poi avviata verso la depressione di El Qattara. L’opera, che dovrebbe essere completata entro il 2017, e per la realizzazione della quale sono stati previsti 57 miliardi di dollari di investimenti, dovrebbe consentire la sottrazione al deserto di un’area corrispondente a 3,3 milioni di acri. Il 12 gennaio 2003, Mubarak ha inaugurato la grande stazione di pompaggio e il primo tratto del «fiume artificiale», largo 30 metri e profondo sette, destinato a convogliare una media annua di circa 5,5 miliardi di metri cubi d’acqua. Il «Progetto Toshka», similmente a quello di Al-Salaam, si avvale di finanziamenti predisposti dal governo egiziano e da nazioni come Abu Dhabi e Arabia Saudita intenzionati, in futuro, a partecipare allo sfruttamento agricolo ed industriale di parte delle terre irrigate. Anche se non manca l’apporto di grandi gruppi privati stranieri, come la Kadco (Kingdom Agricultural Development Company), del principe saudita Alwaleed bin Talal, che si è già assicurata 100.000 acri di terreno su cui verranno coltivati prodotti ortofrutticoli destinati a una catena di supermercati facente riferimento alla stessa società. «L’obiettivo strategico dei nostri progetti idraulici», sostiene il governo del Cairo, «è quello di sottrarre sabbia al deserto, creare opportunità di lavoro ed estendere l’area abitabile di un paese, l’Egitto, la cui popolazione ha quasi raggiunto i 65 milioni. Troppi rispetto alle nostre attuali potenzialità occupazionali ed anche a fronte delle attuali disponibilità idriche e energetiche». Nel 2004, il canale è stato ultimato nel suo primo tratto di 340 chilometri, e nei prossimi anni esso continuerà a snodarsi verso nord, toccando le oasi di Kharga, Dakhla e Farafra, fino a raggiungere la depressione di El Qattara, destinata a diventare un immenso lago d’acqua dolce, intorno al quale sorgeranno alcune città, centri turistici e decine di grandi aziende agricole. Successivamente, mediante la costruzione di un secondo e più breve canale, l’acqua confluita in eccesso sarà infine dirottata verso il Mediterraneo, non prima di avere fornito, mediante un’installazione di una centrale idroelettrica a turbine, 10 miliardi di kilowattore. «Certamente», spiega l’ingegnere Arturo Gallia, «la realizzazione del Toshka comporterà, grazie al contributo di innovative conoscenze tecniche e tecnologiche - vedi la partecipazione di aziende dell’Eni e di altre decine di società internazionali - la creazione di insediamenti agricoli, industriali e abitativi in una regione attualmente inospitale, consentendo all’Egitto di alleggerire il carico sostenuto da quelle aree sovra sfruttate situate lungo il bacino del Nilo. Senza considerare che sulla grande diga di Assuan potrà essere diminuita e meglio regolata l’enorme pressione esercitata delle acque del lago Nasser.» «Per contro», prosegue Gallia, «questi ‘alleggerimenti’ potrebbero ridurre la portata d’acqua del Nilo ed abbassare la superficie dell’invaso Nasser, con evidenti complicazioni per le colture irrigate del circondario.» In ultima analisi, in futuro l’Egitto potrebbe rivendicare la necessità di nuove quote di acqua nilotica, sfondando il tetto massimo concesso sulla base degli accordi siglati con il Sudan e l’Etiopia che, per la cronaca, hanno già dichiarato la loro netta contrarietà al «Progetto Toshka». Non soltanto. Durante la Quinta Conferenza sul Nilo, tenutasi ad Addis Abeba nel 2002 meeting al quale hanno partecipato tutti e 10 i Paesi del Bacino del Nilo - la maggioranza di questi ha infatti definito come non equo l’attuale accordo per lo sfruttamento delle acque del Nilo, richiedendo una profonda revisione di quest’ultimo. In particolare, le nazioni interessate hanno
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insistito per l’annullamento di tutti gli accordi bilaterali tra Egitto e Sudan, soprattutto quello del 1959 che assegnò, rispettivamente, all’Egitto e al Sudan risorse idriche pari a 55,5 e 24 miliardi di metri cubi l’anno. Sempre nel corso della conferenza è poi emerso che, negli ultimi decenni, i governi de Il Cairo e di Khartoum hanno studiato di comune intesa svariati, ma non ben definiti, interventi sul bacino del Nilo, senza curarsi minimamente di consultare le altre nazioni africane. Secondo l’Ethiopian Herald, il perdurare di questo atteggiamento potrebbe un domani portare ad una pericolosa crisi politica e forse, addirittura, ad una guerra tra Etiopia, Sudan ed Egitto. Il governo di Addis Abeba contesta, infatti, da tempo «l’illimitato e indiscriminato sfruttamento del Nilo da parte dei due Stati islamici che, tra l’altro, non contribuiscono in alcun modo, sotto il profilo geo-idrologico, all’alimentazione del fiume. Mentre, da parte sua, l’Etiopia, pur fornendo al bacino l’85 per cento delle sue attuali risorse, ne utilizza soltanto una minima parte». Da parte sua, l’Egitto, tramite l’ingegnere A. Zeid, direttore dell’Egyptian National Water Centre, ha tentato di ribattere alle accuse etiopiche, difendendo la politica di sfruttamento egiziana, e sostenendo che questa («Progetto Toshka» incluso) non provocherà alcun superamento della quota d’acqua garantita all’Egitto nell’ambito dell’intesa siglata nel 1959: accordo - lo ricordiamo - ormai riconosciuto dal solo Sudan. Sempre riguardo ai pro e contro del «Progetto Toshka», «non si può poi fare a meno di ricordare», conclude Gallia, «che l’arida ed assolata area attraverso la quale il mega-canale si snoderà sottoporrà le acque canalizzate ad un inevitabile processo di rapida evaporazione, riducendo di conseguenza la portata del condotto. Senza considerare che il progetto non contempla alcuna installazione di depuratori delle acque, né di stazioni di controllo, facendo soltanto riferimento ad un generico ‘riutilizzo di acque canalizzate ad uso industriale’: pratica che di fatto renderebbe non soltanto impossibile lo sviluppo del turismo, ma anche la nascita di insediamenti urbani che, ovviamente, necessitano di acqua potabile. Stando, infine, ad alcuni studi effettuati da geologi occidentali, l’enorme massa di liquido immesso nella depressione di El Qattara potrebbe - ma qui il condizionale è d’obbligo in quanto non esistono ancora dati certi e completi in proposito - causare uno sprofondamento del letto della depressione, con esiti molto difficili da prevedere».
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DA WASHINGTON A KABUL
CUORE di tenebra di ANDREA MARCIGLIANO DICE una certa tradizione popolare che gli anni bisestili portano sventura; si tratta, naturalmente, di una tradizione tutta nostra, italianissima e strapaesana, e non so se abbia corrispondenza alcuna in altre terre. Se così fosse, però, Barack Obama avrebbe più di qualche buona ragione per ricorrere a scongiuri e gesti apotropaici, visto quello che, dal principio di questo 2012, sta accadendo in Afghanistan e dintorni. Per carità, non che le cose ante 31 dicembre andassero poi tanto meglio, tuttavia, da qualche settimana sembrano aver preso un’accelerazione devastante. Prima immagini di marines che oltraggiano i cadaveri di alcuni talebani orinandovi sopra, gesto di estremo spregio per ogni cultura, ma particolarmente offensivo - offesa da lavare col sangue - in ambito islamico. Poi un altro gruppetto di «geni» che dentro una caserma afghana danno alle fiamme alcune copie del Corano, e poi - potenza della civiltà della comunicazione e della smania di comparire mettono il filmato in rete. Ultimo, forse, il soldato americano che dà di matto e compie una strage di civili afghani, donne e bambini compresi, girando come un serial killer degno di Criminal Minds non per Manhattan o il New Jersey, ma per alcuni villaggi sperduti e già duramente provati da un conflitto interminabile. Scene di ordinaria follia, si è detto e scritto. Casi isolati ha affermato il Comando statunitense (ma a che numero di casi si dovrà giungere, per trarre finalmente la conclusione che non sono «isolati», bensì il segnale di una tabe sempre più pericolosa e devastante?). Qualcuno ha sospettato, nel caso del rogo dei Corani, persino un trappolone, dietro al quale intravvedere la longa manus degli infidi alleati pakistani (come se l’intelligence di Islamabad fosse una sorta di Kgb dei tempi aurei). In realtà, dietrologie a parte, quelli citati sono soltanto alcuni episodi, particolarmente eclatanti ed enfatizzati, che provano un fatto: gli States stanno perdendo la loro Guerra Afghana. E la stanno perdendo male, per mancanza di volontà e decisione politica, per insipienza e viltà dell’attuale classe dirigente, per incapacità e inettitudine del Comandante in Capo. Già, proprio lui, Barack Obama, l’ormai ex ragazzo meraviglia venuto da Chicago e salutato da quasi tutti i media mondiali come il novello Messia, il Salvatore non della patria americana, bensì del mondo intero. Colui che avrebbe riparato ad errori, storture, nefandezze degli anni di George W. Bush, apparentemente condannato, in eterno, ad una sorta di damnatio memoriae. E invece… E invece con ogni probabilità la Storia, o meglio il tempo, che è pur sempre galantuomo, renderà giustizia a George W., che, certo, di errori ed orrori ne ha anch’egli sulla coscienza - d’altro canto a governare gli Imperi non possono essere chiamati Madre Teresa di Calcutta o il Candido di volterriana memoria - ma che, almeno, a salvare il periclitante impero Americano ci ha provato. E non senza qualche
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risultato. È vero, è stato lui ad invadere l’Afghanistan e a dare inizio a questa guerra annosa e sanguinosa, come ha ricordato il leader democratico al Senato Reid per cercare di parare la valanga di critiche che si sta rovesciando sull’attuale Presidente. Ma se il giovane Bush non avesse fatto qualcosa di eclatante dopo le Twin Towers, gli Americani lo avrebbero probabilmente crocifisso sulla soglia della Casa Bianca. Insomma, in Afghanistan George W. c’è dovuto andare (quasi) obtorto collo, e con gli stessi alti comandi del Pentagono palesemente impreparati. In Iraq, invece, c’è voluto andare lui, e quella degli attentati era palesemente, una giustificazione campata in aria. Piuttosto le motivazioni autentiche andavano ricercate nella geopolitica - e geo-economia - e nella volontà di costruire un nuovo sistema di equilibri (e squilibri) nel Great Middle East. Discutibile, ma realistico. Anche perché era dai primi anni ‘90 che il Pentagono predisponeva piani su piani per l’invasione ed il controllo dell’Iraq. Certo, sono stati fatti molti errori, ma nello scorcio del suo secondo mandato il vecchio George W. ha avuto un felice colpo di coda. Ha proclamato il famoso «surge» e mandato a Baghdad David Petraeus, il miglior stratega americano dai tempi di McArthur. E Petraeus ha, in sostanza, domato l’Iraq, al punto che George ha potuto lasciare al «giovane» Barack una guerra (quasi) vinta.
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E Obama si è affrettato ad approfittarne, strombazzando ai quattro venti il prossimo, imminente ritiro delle truppe statunitensi dalla Mesopotamia. In verità seguendo - e non sempre con intelligenza - la «road map» già disegnata dal suo, poco amato, predecessore. Contestualmente, però, il nuovo Presidente, appena insediato, si era anche sperticato ad assicurare che l’Afghanistan no, quello non lo avrebbe abbandonato. Anzi che quella dannata guerra lui l’avrebbe vinta. Tant’è che mandò, uno dopo l’altro, i suoi due migliori generali, McChrystal prima, lo stesso Petraeus - che del primo è considerato maestro e mentore poi, a domare i Talebani. Però esitò sempre a dare ai suoi generali le forze che chiedevano, eternamente sospeso, come l’Asino di Buridano, fra la voglia di vincere - rappresentata nel cuore dell’Amministrazione dal poco amato Segretario di Stato Hillary Clinton - e le sirene del disimpegno, l’invadente vice Joe Biden, la stessa moglie Michelle, in fondo il suo stesso sangue di liberal e radical chic. Risultato: McChrysthal se n’è andato sbattendo clamorosamente la porta; Petraeus, dopo vane proteste e petizioni, è stato «promosso» alla direzione della Cia. Ergo, rimosso, e messo, per di più, in una posizione dalla quale non può minacciare la già difficile rielezione di Obama. Perché se i Repubblicani avessero colto la palla al balzo, e candidato il generalissimo… Già, i repubblicani… In questo momento rappresentano, forse, l’unico motivo di conforto nelle inquiete veglie di Obama. I candidati repubblicani, figure sbiadite come Romney, vecchi tromboni come Gingrich, demagoghi confusi come Santorum, e, soprattutto, la nuova «base», il nuovo popolo che determina la rotta dell’Elefante. Tea Party e fondamentalisti religiosi, in primo luogo, forze che condizionano la campagna delle Primarie in modo persino imbarazzante. Così vediamo il vecchio Gingrich accusare Obama di essere troppo lento a ritirarsi dall’Afghanistan, proprio lui, che si è formato negli anni e alla scuola di Reagan. Santorum, poi, oscilla tra intemerate tanto minacciose, quanto velleitarie - bombardare l’Iran, magari con l’atomica - e il recupero di una cultura isolazionista che da sempre alligna nella base repubblicana. Romney di politica estera ne capisce un po’ più degli altri, anche perché nel suo staff ha gente come i fratelli Kagan ed altri falchi e falchetti neo-con, che di ritiro dai monti afghani manco vogliono sentir parlare. Soltanto che anche Romney non può osare di contraddire un elettorato che già lo percepisce come troppo algido ed alieno. Insomma, il ritiro, un ritiro veloce, quasi una fuga, a Washington e dintorni sembrano volerlo un po’ tutti. Per primo, ovviamente, Obama, che vagheggia di presentarsi all’elettorato, a novembre, con il fiore all’occhiello del ritorno a casa dei «ragazzi americani». Motivazioni davanti alle quali sembra poco contare il fatto che questa vera e propria fuga potrebbe avere, sul morale delle forze armate e sulle stesse sorti dell’Impero americano, un effetto ancor più devastante di quello esercitato a suo tempo dal Vietnam. E l’ambiguità della politica si riflette, sempre più, sui militari in campo. Episodi aberranti, insensati, atti di follia non sono episodi isolati. Evocano, piuttosto, il «Cuore di Tenebra» di un esercito che è costretto a combattere e morire, benché sappia che chi li comanda, a Washington, ha già deciso che dovranno, comunque, essere sconfitti. Ha già scelto, nel suo «cuore di tenebra», il ritiro privo di ogni onore. E per i militari che si sentono abbandonati in terre ostili e per loro incomprensibili, è davvero iniziata l’Apocalisse.
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OBAMA E LA LEGGE FINANZIARIA
VINCERE il futuro di FRANCESCO ROSSI IL PRESIDENTE Barack Obama ha presentato la legge finanziaria per il 2013, accompagnandola con la sua immancabile retorica del «cambiamento». Caduta ormai la pretesa di essere un Democratico moderato capace di ottenere il consenso dei Repubblicani o degli indipendenti, Obama si ostina, nonostante tutto, a proiettare questa immagine, prendendo a prestito i valori e gli slogan cari ai conservatori e creando l’apparenza di dare ascolto a tutti. Si tratta naturalmente solo di un trucco, ma il Presidente evidentemente dimostra ancora di credere all’immagine di sé stesso che ha creato nel 2008. Avendo più di qualche dubbio che i suoi progetti di massiccio prelievo fiscale possano suscitare entusiasmi, Obama si è richiamato ai princìpi sia della Bibbia, sia del Corano (questo è naturalmente uno dei tentativi di abbracciare i fedeli di entrambe le confessioni religiose, oltre che di dimostrare la sua apertura a tutte le credenze), in base ai quali coloro che hanno ricevuto molto hanno anche l’obbligo di aiutare i meno fortunati. Questa sarebbe la premessa del suo sinistro (in senso politico, il che è naturalmente del tutto legittimo, scorretto è invece voler insistere a chiamarlo «buon senso») programma di interventi fiscali, chiamato «Vincere il Futuro», con il sottotitolo di «Responsabilità Condivisa». Veniamo al contenuto. Il programma da 3 mila miliardi e ottocentomila dollari (avete letto bene) contiene incrementi fiscali per quasi 2 mila miliardi. Ci troviamo il 30 per cento di prelievo sui redditi superiori al milione di dollari, il che elimina l’alternativa tassa minima; l’aumento per l’ultimo scaglione di tasse fino quasi al 40 per cento; l’incremento dei redditi da capitale di più del 30 per cento, con la tassazione dei dividendi come reddito regolare; l’aumento delle tasse sui redditi delle grandi imprese e dei piccoli imprenditori; l’intervento deciso sulle istituzioni finanziarie e le banche e naturalmente l’eliminazione dei tagli fiscali dell’èra Bush. Infine, tanto per non dimenticare nessuno, le tasse di successione, che in Italia sono state cancellate, vengono portate da Obama dal già alto 35 per cento fino all’incredibile 45 per cento: in pratica, quasi metà di ogni patrimonio finirà in mano allo Stato. Come se non bastasse, il Presidente si è lanciato nella condanna dell’ultima «decade di deficit» ed ha avuto l’ardire di sostenere che «la mia legge finanziaria segna la strada per permetterci di pagare questi debiti». Il suo programma incrementa il debito di altri 6 mila e 700 miliardi di dollari in questa decade. Al tempo della prima legge finanziaria a firma Barack Obama, nel febbraio del 2009 (il nome scelto in quel caso fu «La nuova èra di responsabilità»), il debito nazionale americano segnava la cifra di 10.881 miliardi e 159.772 milioni; al momento della presentazione della nuova legge finanziaria il numero del debito si è aggiornato a 15.359 miliardi e 441.662 milioni.
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Un semplice aumento di 4 mila miliardi e 700 milioni. Obama aveva promesso di tagliare a metà il debito, mentre il suo incremento nei tre anni di presidenza è superiore a quello realizzato a partire dal primo presidente George Washington fino a Bush (non l’ultimo, ma il padre). Che ne è dunque di quella promessa? È invalso l’uso di fornire argomenti non dimostrabili. «È stata una promessa basata su quello che sapevamo dell’economia in quel momento (cioè fine 2008).L’economia si è rivelata di gran lunga peggiore ed in condizioni ancora più difficili…di quello che sapevamo allora. La catastrofe era molto peggiore di quello che sapevamo.» Questa la risposta di Jay Carney, il portavoce del Presidente, una posizione che somiglia moltissimo a quella fornita riguardo all’accusa degli scarsi effetti ottenuti dal piano del 2009 di stimoli economici: è vero che sono stati creati pochissimi posti di lavoro, ma bisogna tener conto anche di quelli che sono stati salvati. Un assunto assolutamente non dimostrabile se un’impresa era sul punto di licenziare del personale a causa della mancanza di ordinativi, i lavori pubblici del programma di stimoli possono aver al massimo rimandato il licenziamento al momento del termine di quei lavori. Il punto è che nel campo economico, come in altri settori, l’incremento fiscale viene indorato grazie a previsioni economiche più che rosee, per esempio quella di una ripresa dell’economia che fa aumentare le entrate tributarie e ridurre molte spese, come i sussidi di disoccupazione e i buoni alimentari (cioè le tessere per avere il cibo gratuito). La maggior parte degli economisti prevede una crescita per il prossimo anno che si aggira sul 2 per cento, mentre per la Casa Bianca la crescita del 2013 sarebbe nell’ordine del 3 per cento ed addirittura salirebbe al 4 per cento nel 2015. Questo è difficilmente accettabile, alla luce del picco fiscale previsto, ma anche perché mancando un serio programma di riduzione del debito, presto gli interessi sul debito nazionale dovranno soppiantare diversi progetti di spesa. È inutile negare che alla base della filosofia politica di Obama ci sia una sorta di guerra di classe. Le vittime sono
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i ricchi, che secondo il Presidente sarebbero quelli con un reddito annuo superiore a 250.000 dollari, che verranno colpiti da diverse direzioni: oltre al già menzionato aumento del prelievo per l’ultimo scaglione di reddito (39,6 per cento), ci sarà una sovrattassa del 3,8 per cento sul reddito da investimenti ed anche le deduzioni per le donazioni alla carità e per i proprietari di immobili saranno ridotte. Si può dire lo stesso con altre parole, cioè che la legge finanziaria del Presidente Democratico è un documento politico, una mappa che dovrebbe condurre alla sua rielezione alla fine di quest’anno con lo slogan del «tassare i ricchi». Lo slogan dovrebbe accompagnarsi all’assunto implicito secondo cui i ricchi sarebbero tutti Repubblicani. Non a caso, il capo del personale del Presidente, Jack Lew, poco dopo la presentazione della finanziaria si è scagliato contro i Repubblicani perché questi bloccherebbero al Senato l’approvazione del piano di spesa, impedendo di ottenere i 60 voti necessari. Peccato che il regolamento del Senato vieti l’ostruzionismo sulla legge finanziaria, il che significa che i voti necessari all’approvazione sono i classici 50+1 (e peccato davvero che questo stretto collaboratore di Obama faccia finta di non saperlo). Questo è un trucco di tipo propagandistico, ma ce ne sono ovviamente anche di tecnici. Per esempio, Obama afferma di tagliare 4.000 miliardi di dollari in 10 anni, ma la Commissione Finanziaria della Camera ha già fatto notare che la metà di quei tagli è già prevista dalla legge e quindi: egli sta contando i tagli per due volte. È lo stesso trucco usato riguardo alle spese militari. Obama considera contabilmente come tagli alla spesa quasi 1.000 miliardi di dollari che non spenderà nelle guerre in Iraq ed Afganistan. Seguendo lo stesso «metodo», potrebbe considerare come tagli anche tutto il denaro che - per ragioni ovvie - non spenderà nelle guerre in Germania, Giappone, Corea del Nord ed in Vietnam. Un altro importante settore in cui il Presidente degli Stati Uniti ha usato questo fuorviante modo di presentare le sue politiche è quello dell’estrazione di petrolio. Dopo il disastro della petroliera esplosa nel golfo del Messico nell’aprile del 2010, Obama, nonostante una commissione di studio lo avesse sconsigliato, ha imposto una moratoria sulle estrazioni. Una corte distrettuale ha dichiarato arbitraria la moratoria e l’ha annullata; il giudizio è stato confermato in appello. Obama ha disatteso il verdetto della corte ed ha disposto una seconda moratoria, per la quale il suo governo è stato ritenuto colpevole di oltraggio alla Corte. Insomma, un atteggiamento, quello dell’attuale Presidente, di chiara ostilità all’apertura di nuovi pozzi petroliferi. Eppure Obama si fa vanto del fatto che sotto la sua presidenza l’America produrrebbe più petrolio che non negli ultimi otto anni e questo avrebbe ridotto la dipendenza dal petrolio estero. Quali sono dunque le sue vere intenzioni, aumentare o diminuire(o sospendere) le estrazioni? La risposta sta nei numeri (veri): nelle terre di proprietà privata, dove il governo ha una ridotta influenza, la produzione è salita del 14 per cento per il petrolio e del 12 per cento del gas naturale, mentre nelle terre di proprietà federale si è avuta una riduzione rispettivamente dell’11 per cento e del 6 per cento. Il pubblico americano è caduto preda della retorica di Barack Obama nel 2008, ora invece un naturale scetticismo segue le sue roboanti dichiarazioni. Chi ne ha un’alta stima e ne condivide le scelte lo voterà alla fine di quest’anno, ma ormai è appurato che la sua collocazione politica è alla sinistra del Partito Democratico.
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ESITO SCONTATO IN RUSSIA
PUTIN stravince di INNA KHVILER AIELLO LE ELEZIONI presidenziali svoltesi il quattro marzo scorso nella Federazione Russa hanno riservato poche sorprese. Dal prossimo maggio Vladimir Putin, attestatosi al 63,6 per cento con oltre quarantacinque milioni di voti, tornerà alla guida del Paese per la terza volta non consecutiva. Tra gli altri candidati, Vladimir Girinovskiy, leader del partito Liberale Democratico che si è fermato al 6,22 per cento ed è stato il primo ad augurare a Putin buon lavoro. Nella conversazione telefonica l’eccentrico politico, insolitamente quieto, ha dichiarato di aver monitorato con i suoi osservatori le votazioni e averle apprezzate come «sufficientemente trasparenti», lo stesso uomo politico ha auspicato al Presidente eletto una più stretta e proficua collaborazione e un costante confronto d’idee. Anche il capo del partito Russia Giusta Serghei Mironov che ha raggiunto il 3,85 per cento dei voti si è complimentato con Putin, riconoscendogli che già alla vigilia delle elezioni i sondaggi effettuati dal suo staff prevedevano la sua netta di vittoria. Niente auguri e complimenti, invece, dal nume-
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ro uno del Partito Comunista Russo Ghennadii Zhuganov, palesemente deluso dal suo 17,18 per cento. Zhuganov, secondo il quale le elezioni presidenziali del 2012 sono state illegittime e scorrette, intende chiedere l’annullamento dei risultati delle votazioni, ma il gap tra il suo risultato e quello di Putin parla chiaro. Il nuovo volto della politica russa, il candidato indipendente Mikhail Prokhorov che ha conseguito un sorprendente 7,98 per cento è apparso, invece, abbastanza equilibrato nel commentare i risultati elettorali, ma ha affermato che si complimenterà con Putin soltanto quando ogni denuncia di brogli, vera o presunta, sarà stata esclusa. Secondo diversi mezzi d’informazione russi, la brillante performance di Prokhorov, senza esperienza politica e privo di un programma chiaro e concreto, è stata dovuta ai cosiddetti «voti di protesta» di quell’elettorato che ha disapprovato la politica di Putin. Il giovane e carismatico Mikhail Prokhorov, «l’oligarca più onesto», come definito dai mass media russi, ha tutte le caratteristiche per diventare in futuro il capo del Cremlino: ottima formazione culturale, carattere forte e bilanciato, aspetto fisico gradevole, profonda conoscenza delle materie economiche e grandi capacità manageriali. Alcuni politologi russi lo considerano, addirittura, il candidato destinato a sostituire nel 2018 Putin che gli ha augurato di costituire un partito politico e non ha escluso la possibilità di affidargli un incarico nel nuovo Governo. A differenza dell’improvvisa comparsa sulla scena politica russa di Mikhail Prokhorov, la vittoria di Vladimir Putin non ha sorpreso nessuno. Per una nutrita parte della popolazione russa, quella che può permettersi di fare acquisti, investimenti e viaggiare, nonostante la crisi economica che mette in ginocchio tanti Paesi, Putin rappresenta il protagonista del «miracolo russo», l’uomo che ha saputo nettamente migliorare la situazione economica del Paese, che ha impedito la frammentazione della Russia, che ha tolto il potere agli oligarchi e che ha lanciato un efficiente sistema sociale, riuscendo nello stesso tempo a far rispettare il Paese nell’arena mondiale. La maggioranza dei cittadini russi ha ancora un vivo ricordo dei negozi vuoti di merce alla fine degli anni ottanta e del caos e della miseria totale dell’èra Eltzin. Il peggior incubo nella memoria di tanti è quello della Russia degli anni novanta: debole, umiliata, priva di rispetto nel mondo e ammiccata dagli Stati Uniti fin quando Putin nel 2000, nel suo celebre discorso a Monaco di Baviera, chiarì al mondo la posizione indipendente del Paese e chiese senza equivoci una politica di non interferenza negli affari della Russia. Secondo molti analisti russi è da quel momento che l’Occidente ha lanciato periodicamente una campagna mediatica contro Putin che, in realtà, ha raccolto i voti ottenuti «per la stabilità del Paese e contro le rivolte senza obiettivo”. L’uomo di ferro avrà, comunque, davanti sei anni difficili perché dovrà confrontarsi con l’opposizione in crescita sensi-
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bile, le nuove sfide mondiali e la gestione della crisi economica globale. La situazione economica in Russia, oggi, garantisce una relativa stabilità politica al Paese, ma se la crisi economica si farà sentire, fortemente, gli umori anti Putin cresceranno in breve. Il politologo Mikhail Leontiev ha perfino ventilato l’ipotesi di una possibile guerra civile in Russia che, evitata al crollo dell’Urss per l’assenza di una disuguaglianza sociale, oggi, potrebbe essere possibile proprio per il divario sempre maggiore tra le classi sociali, caratterizzante ogni società capitalista. Mosca ha superato quest’anno Londra e New York per il numero di miliardari e insieme a San Pietroburgo ha raggiunto livelli impensabili, fino a qualche tempo fa, di benessere economico tale da non poter credere che siano le stesse città del disastro politico, economico e sociale degli anni novanta. L’intero Paese ha il merito di essersi rimboccato le maniche per raggiungere il livello economico di oggi di cui usufruisce anche quella parte della popolazione russa che chiede cambiamenti e una maggiore libertà in tutti i campi. Nonostante le telecamere installate in ogni circoscrizione elettorale, la numerosa presenza di osservatori indipendenti e la promessa di Putin di indagare su ogni broglio, l’opposizione sostiene che la vittoria di Putin sarebbe stata gonfiata di ben undici punti percentuali. Le accuse devono essere verificate ma comunque i dati sono chiari, il Presidente eletto avrebbe vinto ugualmente. Le opposizioni tengono, però, alta la tensione, il rappresentante della coalizione comunista di estrema sinistra Sergheu Udaltzov ha dichiarato, in diretta televisiva, di voler continuare a manifestare nelle strade per ottenere ad ogni costo l’anticipata fine del mandato di Putin e i movimenti nazionalistici rimangono presenti anch’essi nelle piazze non avendo rappresentanza in Parlamento. Vladimir Putin dovrà, indubbiamente, tenere conto dell’opposizione sempre più agguerrita e cercare un dialogo costruttivo, senza, però, raccogliere le provocazioni di quell’opposizione soltanto «distruttiva». I russi pro Putin sperano che il neo Presidente eletto sia capace di realizzare il suo programma «La Russia verso lo Stato sociale», promesso agli elettori e impedire al Paese l’arrivo della «nuova primavera», auspicata e voluta da alcuni politici occidentali come Clinton e McCain.
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CRISI IN SPAGNA
RIFORME accelerate di GIANPIERO DEL MONTE LE ULTIME statistiche parlano di 1.575.000 famiglie spagnole in cui tutti i membri sono senza lavoro. Nel 2011 la Spagna è stata una macchina di distruzione dell’occupazione, con una perdita di 348.000 posti fra ottobre e dicembre ed oltre 295.000 persone disoccupate in più rispetto al trimestre precedente. In tutto l’anno c’è stato un aumento del «paro» di 600.000 persone, in tutti i campi e a tutti i livelli, con soppressione di lavoro temporale e fisso, come per le imprese che, per sopravvivere, hanno dovuto licenziare. È una delle crisi più devastanti della storia spagnola e per la prima volta il numero dei disoccupati ha superato i cinque milioni. Il governo socialista ha lasciato un’eredità di 5.373.000 disoccupati. I dati riportati dall’EPA (Inchiesta di Popolazione Attiva) presentano un quadro drammatico che attraversa tutto il Paese. Il nuovo governo popolare sta cercando di correre ai ripari anche se le previsioni per quest’anno non sono incoraggianti. Occorre intervenire innanzitutto sul sistema finanziario e sulla riforma del lavoro. Bisogna dare respiro al credito e alle piccole industrie e stabilire meccanismi di flessibilità che permettano il mantenimento dell’occupazione senza ricorrere al licenziamento. Nessuno s’illude di avviare interventi taumaturgici ma si sta cercando quanto meno di gettare le basi per una ripresa dopo l’aggiustamento della spesa pubblica. La «Ley de estabilidad presupuestaria»è stata impostata per gettare le basi della disciplina fiscale con l’imposizione del «deficit zero» alle comunità, un tetto di spesa. Delle sanzioni per le amministrazioni inadempienti e la presentazione dei preventivi al Governo prima dell’approvazione. Si vuole imporre un cambio radicale basato sul rigore della gestione, l’austerità, le riforme e gli stimoli adeguati perché la Spagna ritrovi fiducia e capacità competitive, lanciando un messaggio all’Europa e ai mercati. Sono previste delle sanzioni per le comunità autonome che non riducono i loro deficit eccessivi fino a raggiungere nel 2020 adeguati equilibri di bilancio e le amministrazioni inadempienti vedranno scattare i provvedimenti stabiliti da Bruxelles. Le autonomie con deficit eccessivi dovranno presentare un piano economico finanziario della durata di un anno. Dopo sei mesi di mancata correzione dei conti scatterà una multa a favore dello Stato. Se dopo nove mesi la situazione persiste, il Governo centrale metterà sotto controllo i conti. Verrà inviata una delegazione alle comunità inadempienti per imporre il compimento dei «doveri» e riportare quanto prima il deficit sotto controllo. Il Governo non autorizzerà più emissioni di debito, non concederà altre sovvenzioni e non saranno sottoscritti altri accordi con queste regioni. Il Governo intende garantire la sostenibilità dei preventivi di tutte le amministrazioni pubbliche e rafforzare la fiducia nella stabilità dell’economia spagnola salvaguardando gli impegni assunti con la UE. Dal 2020 nessuna amministrazione potrà più incorrere nel deficit e si potranno tollerare eccessi di spesa soltanto nel caso di situazioni eccezionali come catastrofi, recessioni o emergenze straordinarie mentre
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si potranno ammettere inadempienze soltanto fino allo 0,4 per cento del PIB per lo sviluppo di riforme strutturali. L’esigenza di fissare un tetto di spesa corrisponde all’obbiettivo di stabilità e nel 2020 dovrà essere raggiunto un adeguato equilibrio dei conti. Si prevede una riduzione di almeno due punti del PIB quando l’economia crescerà al ritmo del 2 per cento e nel 2015 e 2018 si rivedranno gli itinerari di deficit e debito pubblico. La «Ley de estabilidad» intende controllare i conti ma anche assicurarsi che lo facciano le amministrazioni periferiche. Rajoy presenta all’Europa tre proposte basilari: la riforma del lavoro, la riforma finanziaria, e la legge di stabilità «presupuestaria». Quest’ultima ha già preso le mosse e si cerca in questo modo di tranquillizzare i dirigenti europei. La legge ha certamente dei costi politici per il governo ma esiste un’esigenza di fondo imprescindibile che non si può ignorare. Si è visto che la responsabilità fiscale delle autonomie e dei comuni non è stata realizzata a sufficienza e l’esperienza dice che occorre stabilire delle penalità se non si raggiungono gli obiettivi stabiliti. Il governo socialista ha lasciato dei vuoti madornali. La Spagna è retrocessa di molti anni e i dati delle ultime inchieste forniscono uno stimolo ulteriore al governo popolare per mettersi al lavoro con urgenza. Il sistema finanziario deve essere ristrutturato, gli imprenditori e le piccole imprese devono tornare a muoversi e in questo quadro l’Europa deve offrire un incentivo alla crescita. Bisogna migliorare la situazione del mercato, capire che i salari si devono legare alla produzione e cercare di arrivare ad un aumento delle esportazioni. Il settore pubblico deve ridurre la spesa cambiando rotta rispetto al governo socialista precedente. La gestione di tanti servizi può migliorare se si trasferisce in altre mani e in ambiti privati. Le spese superflue vanno eliminate e le amministrazioni devono ispirarsi ad un criterio di sobrietà. I politici e i sindacalisti devono darsi una regola perché l’aumento del «paro» non è soltanto colpa della crisi ma trova in loro dei responsabili di primo piano. Nessuno crede che la riforma del lavoro porti a risultati eccezionali ma quanto meno non peggiorerà le cose. Nello stato desolante cui si è giunti tante persone, completamente sfiduciate, nemmeno cercano più un posto di lavoro dopo averlo perso e non sono soltanto i giovani sotto i 25 anni, fortemente colpiti nelle prospettive di vita e di ricerca del primo impiego ma anche tante persone di età più matura. L’Andalusia è la comunità autonoma con più disoccupati, uno su tre, come del resto alle Canarie. La Spagna sta lanciando segnali all’Europa e sta cercando di essere convincente nei suoi intenti di ripresa e l’Europa deve fornire quegli aiuti economici necessari ad incoraggiare il cammino intrapreso. Naturalmente sindacati e sinistre hanno già indetto manifestazioni e proteste contro la riforma del lavoro che va contro l’occupazione e facilita i licenziamenti. Era già previsto, non ci si può aspettare altri atteggiamenti da coloro che hanno accentuato la crisi e sono incapaci di qualunque forma di autocritica.
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INTERCETTAZIONI ILLEGALI
È LA STAMPA, bellezza! di GIUSEPPE DE SANTIS Sono passati cinque anni da quando Clive Goodman, giornalista del News of the World e Glenn Mulcaire, un investigatore privato, furono condannati rispettivamente a quattro e sei mesi di carcere per aver intercettato illegalmente i telefoni dei membri della casa reale britannica. Lo scandalo che ha portato a questi arresti ha rivelato all’opinione pubblica un modo di operare poco pulito della stampa britannica, la quale non si fa scrupolo di usare mezzi illegali pur di ottenere notizie in esclusiva da dare in pasto a un pubblico che sembra non essere mai sazio di pettegolezzi. Questa vicenda cade subito nel dimenticatoio e riemerge due anni dopo quando il Guardian rivela che il News of the World ha pagato più di un milione di sterline a persone vittime di intercettazioni illegali. La polizia si rifiuta di investigare su questo caso, nonostante sia diventato evidente che queste intercettazioni non siano un caso isolato e sono in molti a sospettare che non ci sia una reale volontà da parte delle istituzioni di fare luce su questa vicenda. Una svolta decisiva, però, arriva nel 2011 quando Scotland Yard inizia una nuova investigazione dopo aver ricevuto nuove informazioni da News International, la compagnia che controlla il News of the World. A far scattare questa inchiesta non è soltanto il numero elevato di persone intercettate ma anche il fatto che alcuni dipendenti del giornale hanno cancellato migliaia di email allo scopo di eliminare ogni traccia della loro colpevolezza. A peggiorare ulteriormente le cose c’è la notizia, riportata dal Guardian nel Luglio del 2011, che anche il cellulare di Milly Dowler, una ragazzina scomparsa e poi trovata morta, è stato illegalmente intercettato. * * * Questa rivelazione ha scatenato un pandemonio visto che la scomparsa di Milly, nel 2002, ha tenuto per diverso tempo l’opinione pubblica col fiato sospeso e il ritrovamento del suo cadavere alcuni anni dopo (uccisa da un serial killer) ha commosso la nazione. A destare scalpore è il fatto che colui che ha intercettato il suo cellulare ha cancellato alcuni messaggi e questo non soltanto ha dato ai suoi genitori l’illusione che potesse essere ancora viva ma potrebbe aver compromesso le indagini. La reazione dell’opinione pubblica spinge James Murdoch, il figlio di Rupert Murdoch, a chiudere il News of the World nonostante fosse redditizio e a contribuire a questa decisione è anche il fatto che molte imprese decidono di boicottare il giornale . Nel frattempo le indagini vanno avanti e la polizia inizia a fare i primi arresti e alcuni personaggi eccellenti sono costretti alle dimissioni; tra tutti spicca quella di John Yates, numero due di Scotland Yard, per il modo poco pro-
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ITALIA SOTT’OCCHIO Accusa spudorata di qualunquismo Cittadini sdegnati del politicantismo subiscono talvolta l’accusa spudorata di qualunquismo. In certa politica non si escludono: trasformismo, clientelismo, corruzione, ingordigia, mangiatoia e voto di scambio. Non basta la proposta di ridurre del 20 per cento il numero dei parlamentari. Dovrebbero calare del 75 per cento e risultare quindi un quarto degli attuali. Ciò per realizzare un rapporto cittadini/parlamentare analogo a quello delle più importanti democrazie. Parole strumentalizzate Cantanti, artisti, vip, contemplativi e/o altri nominano spesso Dio; ripetono lamentazioni di maniera sulla povertà. Strumentalizzano la devozione o il disagio di masse, per loro vantaggio particolare: popolarità, consenso facile e potere. Inoltre, per rafforzarsi e celare le proprie colpe, la sinistra imbrogliona straparla di «fascismo» e «pericolo fascista». Tutto ciò è inesistente. Il regime è caduto nel lontano 25/07/1943. La Costituzione ne vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma (Disposizioni transitorie e finali, XII). Nulla si dice dei 100 milioni di morti causati dal comunismo realizzato nel mondo, né delle dittature comuniste tuttora al potere (Cina, Corea del nord, Viet Nam, Laos, Cuba ecc.), che negano i diritti umani a più di un miliardo e mezzo di persone. Inflazione di parole nonché omissioni derivano da carenza di coraggio e d’onestà intellettuale. Si tassano perfino i fienili. Invece vanno abbattuti i costi dell’apparato politico burocratico Si giunge ora a tassare i fienili e le altre costruzioni rurali (oltre ai soliti tributi sui terreni). Si raschia il fondo del barile: la redditività agricola è ben inferiore a quella industriale e terziaria. Il corretto riequilibrio dei conti pubblici richiede preferibilmente l’abbattimento dei costi del mastodontico apparato politico burocratico. Questo ha troppi livelli: UE, Stato, Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni e Consigli circoscrizionali. In ogni organismo pubblico esiste un eccesso di personale politico e/o burocratico. Molti addetti a pubbliche funzioni usufruiscono di compensi, privilegi e sicurezze esorbitanti (superiori all’effettivo rendimento). Nel settore pubblico allargato possono essere inclusi pure enti economici, parastato e le molte società municipalizzate. Nel 2012 la spesa effettiva del Quirinale sarà di 245,3 milioni di euro, oltre 6 volte il costo della casa reale inglese (circa 38 milioni d’euro). Gli esempi dei vertici pubblici possono guastare l’etica dei comuni cittadini. GIANFRANCO NÌBALE
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fessionale in cui ha gestito le indagini iniziali sulle intercettazioni. Allo stesso tempo il primo ministro David Cameron dichiara di voler aprire una pubblica inchiesta sulla vicenda per capire quanto fosse diffusa questa pratica e a Novembre Lord Justice Levenson inizia la sua indagine alla Royal Court of Justice ascoltando le testimonianze delle vittime. Man mano che l’inchiesta procede, cresce il numero delle persone intercettate (secondo alcune stime potrebbe trattarsi di diverse centinaia), e emergono altri dettagli su come i giornalisti in questione non si limitavano ad ascoltare conversazioni ma davano anche soldi a funzionari pubblici in cambio di informazioni. Particolare emerso lo scorso Febbraio con l’arresto di nove giornalisti ed ex giornalisti del Sun, due poliziotti, un dipendente del ministero della Difesa e un membro delle Forze armate. Secondo la polizia, un giornalista sotto inchiesta ha avuto a disposizione negli ultimi anni qualcosa come 150mila sterline per pagare i suoi informatori, ed uno di questi ha ricevuto per diversi anni un totale di 80mila sterline e l’attuale numero due di Scotland Yard, Sue Akers, nel commentare la vicenda ha parlato dell’esistenza di una rete di corruzione che coinvolge il Sun e diversi funzionari pubblici, rivelato anche come questa cultura della corruzione fosse ben radicata. Al momento la polizia sta usando centinaia di agenti per setacciare centinaia di migliaia di email e interrogare tutte le persone sospette e altri arresti eccellenti non sono affatto da escludere. Come è facile immaginare tutto questo ha creato non pochi grattacapi a Rupert Murdoch, il quale è volato a Londra per assicurare i suoi dipendenti che la situazione è sotto controllo e per dimostrarlo ha deciso di lanciare il Sun on Sunday, una versione domenicale del Sun che ha lo scopo di prendere il posto del News of the World. Il magnate australiano sta facendo di tutto per salvare la reputazione dei suoi giornali ma sono in pochi a credere che tutto possa ritornare come prima; qualcuno avanza il sospetto che dietro questa inchiesta ci sia la volontà di distruggere un personaggio diventato troppo potente e arrogante. A questo proposito è interessante notare come questa investigazione abbia preso di mira soltanto i giornali di Rupert Murdoch, nonostante il fatto che anche i giornalisti di testate rivali siano sospettati di usare metodi simili. L’inchiesta di Lord Justice Levenson è destinata ad andare avanti fino in autunno e c’è molta attesa e preoccupazione per il rapporto finale che potrebbe preludere a una nuova èra di maggior interferenza da parte del governo nell’esercizio dell’attività giornalistica. Al momento a sorvegliare i giornali è la Press Complaint Commission, un organo di autoregolamentazione che ha lo scopo di garantire che ogni giornale e rivista rispetti un codice di condotta sottoscritto da tutti i membri. Questo organismo da tempo è sotto accusa per il fatto che è troppo debole e poco effettivo ma fino ad ora nessuno ha saputo offrire un’alternativa che potesse accontentare tutte le parti in causa; la paura è che il governo possa usare questo scandalo per introdurre maggiori restrizioni alla libertà di stampa. Sarà interessante vedere quali saranno i suggerimenti che Lord Justice Levenson farà al governo perché ogni cambiamento potrebbe avere ripercussioni anche sul nostro Paese.
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TERZA PAGINA TOGLIATTI E TITO, ASSASSINI DI ITALIANI
La sinistra non si affaccia sulle Foibe di ALFONSO FRANCIA FASCISTI. Feccia. Vermi. Sono alcuni dei tanti epiteti con i quali in passato si era soliti insultare le vittime delle foibe. Accusati da una efficace e delirante pubblicistica comunista di essere stati eliminati dai partigiani di Tito perché collusi con il regime fascista o perché ricchi sfruttatori delle masse lavoratrici slave, le migliaia di italiani che morirono per mano del regime jugoslavo sono stati dimenticati da tutti. Dai governi italiani che preferirono nascondere le umiliazioni subite con la guerra, dall’Europa che si teneva stretto Tito in quanto leader comunista in rotta con Stalin e ovviamente dalla sinistra nostrana, che mai avrebbe puntato il dito contro un «correligionario» comunista. Negli ultimi anni la situazione è decisamente migliorata: è stata istituita una Giornata del Ricordo, possiamo leggere gli studi di storici che hanno raccolto dati e fatti e li hanno diffusi senza strumentalizzarli. Eppure molti Italiani - senza neanche sapere perché - si sentono ancora a disagio di fronte a quelle vittime. Forse perché hanno paura che a ricordarli si rischi ancora di passare per destrorsi. Bene, a quelle persone sarebbe ora di dire che la politica, con quei terribili eccidi, c’entra davvero poco. Gli infoibati furono sì vittime di un regime comunista, ma furono uccisi in quanto Italiani, a prescindere dai loro legami con il regime mussoliniano. Quelli di Tito furono stermini di carattere etnico pianificati con un preciso scopo: togliere all’Italia il controllo di Istria, Dalmazia e Venezia Giulia. Il resto è soprattutto propaganda che purtroppo Togliatti e i suoi furono ben felici di rivendere a tutto il Paese. Ben prima che l’Europa cominciasse a litigare su fascismi e comunismi, italiani e slavi convivevano
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con difficoltà lungo le coste dell’Adriatico orientale, allora sotto controllo austriaco. L’emergere del nazionalismo e l’affermazione del principio «un popolo, uno Stato» rese ancora più precaria la sopravvivenza di quella entità plurinazionale. A differenza di quel che si crede, furono gli Italiani ad avere la peggio: se nel 1845 la Dalmazia risultava abitata per il 20 per cento da Italiani, nel 1910 questa percentuale era scesa sotto il tre per cento. Nulla però in confronto di quel che sarebbe accaduto trent’anni dopo. Tito approfittò del crollo del regime fascista per cacciare tutti gli Italiani che lì avevano vissuto per secoli e creare uno Stato puramente slavo. Chi viveva oltre Trieste si trovò tra due fuochi: da una parte i Tedeschi inferociti contro «i traditori», dall’altra gli jugoslavi che da secoli nutrivano sentimenti anti-italiani. Ma non fu l’odio l’unico motore delle violenze, le uccisioni servivano uno scopo strategico ben preciso; dimostrare, quando si fosse arrivati alle conferenze di Pace, che quei territori erano abitati soltanto da slavi e che dunque andavano tolti a Roma in nome del principio dell’autogoverno delle nazioni. Ecco perché nella primavera del 1945, quando i Tedeschi erano prossimi alla resa, Tito si affrettò a spostare una delle sue armate in direzione del confine; voleva eliminare quanti più Italiani possibile dalla Venezia Giulia prima della fine del conflitto. I suoi sforzi furono incredibilmente assecondati dal Pci, che ordinò ai suoi partigiani di mettersi agli ordini di Tito, il quale ebbe buon gioco nello sfruttare la loro opera e poi a sbarazzarsene quando non ebbe più bisogno di loro. La tattica si rivelò vincente; alla fine la Jugoslavia dovette rinunciare a Trieste, ma riuscì a mettere le mani
su città che fino a qualche anno prima erano state quasi interamente italiane. Che l’obiettivo fossero non i fascisti ma gli Italiani in generale è chiaramente dimostrato dall’identità di molte delle vittime. Ne citiamo giusto un paio: Mario Blasich, ucciso a Fiume nella sua camera da letto dalla quale non si muoveva mai essendo infermo da anni, era ad esempio un esponente del Partito Autonomista Friuliano che nulla aveva da spartire con Mussolini, mentre Licurgo Olivi, assassinato a Gorizia, apparteneva addirittura al Partito Socialista Italiano. Come accennato, nonostante molte delle sue vittime fossero democratici e partigiani, Tito non ebbe difficoltà a convincere l’opinione pubblica internazionale di aver eliminato solo qualche fedelissimo del Duce; il Pci svolse la parte dell’utile idiota, giustificando la lotta ultranazionalista di Tito in nome degli ideali internazionalisti. In proposito vale la pena rileggere un brano di un articolo pubblicato da l’Unità nel 1946, quando il Paese si trovò ad accogliere migliaia di connazionali che cercavano di sfuggire alla pulizia etnica jugoslava. Il giornalista Piero Montagnani scriveva: «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori… Questi relitti repubblichini che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare al loro Paese d’origine perché temono di incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali … coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava … essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste». Questa era la voce del Pci, che in quegli anni era persino più realista del Re: negava con fermezza l’esistenza delle foibe, mentre Tito non soltanto non nascondeva gli eccidi ma se ne faceva pure vanto. Gli Italiani di quelle terre dovettero così sopportare, oltre alla cacciata dalle case nelle quali avevano vissuto per
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58 generazioni, l’accoglienza di connazionali indegni che li accusavano di aver meritato la loro tremenda sorte. I parenti delle vittime, pur di non sentire i loro cari ammazzati due volte da quegli scellerati, preferirono tacere e ricordare in privato, senza pretendere commemorazioni ufficiali. La situazione è cominciata a cambiare soltanto negli anni Novanta (guarda caso proprio con l’implosione del Partito comunista), quando gli storici riuscirono a imporre un po’ di fatti in una polemica soffocata dagli slogan. Si è poi arrivati nel 2004 all’istituzione della Giornata del Ricordo, partita in sordina ma oggi citata ovunque da stampa e istituzioni. La strada da fare perché questa ricorrenza sia vissuta con partecipazione da tutti gli italiani è però ancora parecchio lunga. Spiace dirlo, ma finché sarà soltanto la destra italiana a ricordare con sincera commozione gli Italiani di Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, un pieno riconoscimento di quei morti da parte di tutta la popolazione italiana resterà impensabile. Perché quella delle foibe diventi una vera memoria condivisa è necessario che la sinistra trovi il coraggio e la dignità di sfilare per commemorare le vittime. Per questo il discorso tenuto il 10 febbraio 2007 dal Presidente della Repubblica ed ex dirigente comunista Giorgio Napolitano, seppure colpevolmente tardivo, ha rappresentato un cambiamento epocale. In occasione di quella prima celebrazione ufficiale delle vittime delle foibe parlò di «moto di odio e furia sanguinaria», che assunse «i sinistri contorni di una pulizia etnica». Riuscì persino a offrire delle tardive scuse, ammettendo l’esistenza di una «congiura del silenzio», aggiungendo «anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali». Ecco, quando queste parole verranno sottoscritte senza distinguo e pavidi rimaneggiamenti dai vari Vendola, Diliberto e Fer-
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IL BORGHESE rero, si sarà fatto un passo avanti decisivo verso la riconciliazione. Senza più l’omertosa complicità dei partiti più o meno ex comunisti i negazionisti delle foibe saranno finalmente confinati nei ghetti dove vengono giustamente tenuti i pazzi che negano la verità storica dell’Olocausto. Purtroppo sembra improbabile che questa rivoluzione culturale possa imporsi tanto presto. Ancora nel 2012 il sindaco di Napoli Luigi De Magistris si rifiuta di prendere parte alla giornata del Ricordo, senza che il suo partito si senta in dovere di redarguirlo. Alcune sezioni locali di partiti nazionali presentano il 10 febbraio come una «giornata della menzogna», mentre sedicenti storici cercano di convincerci che nelle foibe venne lanciato giusto qualche delatore. A queste persone, che pretendono di propagandare idee e valori quando tutto ciò che riescono a esprimere è una grottesca ignoranza, consigliamo di visitare la mostra «Esodo: la tragedia di un popolo», appena inaugurata al Museo civico della civiltà istriana, fiumana e dalmata di Trieste. L’esposizione ospita la ricostruzione di una cavità carsica che si inabissa dal quarto piano della struttura, e ricompone le storie dei tanti che nelle vere foibe persero la vita. Sarà anche l’occasione per conoscere una civiltà, quella giuliano-dalmata, che venne del tutto eliminata dalla furia jugoslava da una parte e dall’indifferenza di noi Italiani dall’altra.
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Guido «Ambesà»! di FERNANDO TOGNI L’UNDICI dicembre 2010 ricorreva il settantesimo anniversario della morte. Un mese dopo (gennaio 1941) avrebbe compiuto quarant’anni. E in questa Italia di amnesiaci, per non essere stonati, nemmeno noi scriviamo per ricordare anniversari. Lo facciamo per altre ragioni, e ogni lettore capirà da sé. Guido Pallotta dei Conti della Torre del Parco era di famiglia marchigiana con radici a Montefano in provincia di Macerata. Famiglia con tradizioni austere di aristocratici (anche la madre dei Baroni Garzia Civico) e patrioti, e specchiati funzionari dello Stato. Secondo di tre maschi (Cesare e Carlo gli altri) Sofia la sorella ultima. Cesare aveva fatto in tempo a partecipare alla prima Guerra Mondiale. Guido no. Ma a diciannove anni piantò tutto e raggiunse a Ronchi i legionari di D’Annunzio che in settembre del 1919 mossero verso Fiume per protestare contro la truffa di Versailles. dove gli «Alleati» (anche allora s’erano dati un nobile nome) sbatterono in faccia alla nostra guerra vinta il Patto di Londra come carta straccia. Figuriamoci cosa si sentirono autorizzati a fare sempre a Versailles gli stessi «Alleati» - ventotto anni dopo, sbattendoci in faccia una guerra persa. Agli irriducibili Arditi vincitori, e anche al Comandante, fa tenerezza il ragazzo che compie sempre un passo avanti e si lancia in ogni iniziativa. C’è una Compagnia a protezione di D’Annunzio, «la Disperata», e Pallotta finisce con l’entrarci. Cantano il loro inno, Giovinezza, gli Arditi, e Guido legionario è un corista dall’entusiasmo travolgente. È l’entusiasmo sincero e generoso dei vent’anni, di cui Guido Pallotta accende allora la miccia che brucerà scoppiettando per gli altri venti anni della sua inimitabile vita. Noi eravamo la generazione successiva, ma tu che leggi non fai fatica a immaginare cosa provammo e come ci formammo con cattivi maestri
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Aprile 2012 come quelli; maestri coerenti, di idee e azione, che rispondono ai nomi di Guido Pallotta, Niccolò Giani, Berto Ricci, Fernando Mezzasoma, Giorgio Pini, e tanti altri, fino a Carlo Borsani, un Ufficiale cieco di guerra Movm. Vent’anni sarebbe stata sempre la sua bandiera, un grido d’azione. Non era l’esortazione a una platea o dietro un microfono; Guido alzava quella bandiera e dava l’esempio, andava avanti: i giovani si fidavano, lo seguivano … vuoi mettere la differenza? È con quella stessa splendida goliardia (senza nostalgie o inni alla guerra) che gli involontari sopravvissuti ricordano Guido e quelle Persone col medesimo cuore, dopo tanti anni, in semplicità, con affetto sincero. In fondo, è tutto qui. Se hai un’arpa potrai suonare; se hai un’arpa anche il vento potrà sfiorare le corde e suscitare armonie. Lettore: padre, figlio, nipote … la poesia non si può spiegare. Mezzo secolo di dialettica, per chiarire ogni cosa, ha complicato tutto: c’è grande solitudine, mentre forse è tanto semplice. Dopo Fiume, Pallotta si iscrisse all’università e quegli studi proseguirono continuamente a strappi per lungo tempo: a Torino, che diventò la sua città d’adozione perché si buttò professionalmente nel giornalismo come redattore e inviato alla Gazzetta del popolo e pure corrispondente del Popolo d’Italia. L’ambiente degli universitari fu il suo mondo e quello torinese - tendenzialmente tradizionale e distaccato - diventò una fervida famiglia. (Dopo non lo sarà mai più, nonostante un notevole impegno antifascista.) Così nel 1932 nacque Vent’anni, il periodico di quegli universitari, che in pochi anni diventerà voce nazionale. Il popolo giovane delle università diede vita ai Guf nell’ambito della organizzazione fascista; e quei gruppi solidarizzarono. entrarono in competizione, si scontrarono. Nel ‘34 infatti ebbero inizio i «Littoriali», che sarebbero andati avanti sette/otto anni come gare universitarie nazionali della cultura, dell’arte, dello sport al massimo livello di quella fascia d’età. Insomma era la coltivazione del futuro. Questi fatti non hanno bisogno di tante chiacchiere per essere spiegati. Non si può negare che adesso invece abbiamo «Amici» (et similia),
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IL BORGHESE
GUIDO PALLOTTA festival articolati e continui, che preparano ai Festival. Ogni botte ha il suo vino. Però sinceramente non sembra che il mondo d’oggi vada molto bene. Niente di personale. Intanto, nel 1930, era pure nata a Milano la Scuola di Niccolò Giani. Quando l’Italia cercò di procurare al suo popolo quel posto al sole che non ci avevano dato e che altri avevano da secoli, Guido era là e tanti giovani lo seguirono. Nei tre-quattro anni successivi, quanti altri avvenimenti. Guido venne nominato vice segretario nazionale dei Guf cioè, sul piano operativo, il numero uno. Come gerarca per i giovani, era il più adatto. Ma incombeva un’altra guerra. Pallotta tornò a partire. Come Giani. Dire: «Quasi ovvio», è una battuta crudele, disumana. Nei primi quattro-cinque mesi passa dal fronte occidentale a quello libico e aggiunge un nastrino azzurro a uno precedente dell’Etiopia. Dalla Cirenaica verso il confine occidentale dell’Egitto, effettuata la spinta in avanti in direzione SollumSidi el Barrani, oltre le unità che si muovono compatte secondo tattica e strategia, ne è stata costituita una denominata «Raggruppamento libico Maletti». La formano un insieme di piccoli reparti mobili italiani e indigeni. Si muovono in territorio non litoraneo, tenendo d’occhio il nemico che non si vede, perché per ora gli Inglesi hanno soltanto ripiegato. Il comandante è il Generale Maletti di pluriennale esperienza africana. I nostri hanno un compito velocemente esplorativo, come il deserto richiede. Lo svolgono bene quel compito, perché vedono e danno l’allarme quan-
59 do parte la controffensiva d’aggiramento inglese, ma il rapporto di forze in quantità e qualità di mezzi è impari (il nostro fronte arretrerà poi per centinaia di chilometri fino ad Agedabia). La colonna Maletti e il caposaldo di Giarabub proteggono valorosamente il nostro lato sud, al prezzo del loro annientamento. Centinaia di morti e feriti: anche il Generale Maletti e il Tenente Pallotta presenti alle bandiere (cioè Caduti) due medaglie d’oro al valor militare alla memoria. Guido non seppe mai che nel frattempo era stato pure nominato deputato alla Camera. Una vita e la sua fine esemplare: senza retorica, senza trombe. Oggi si può pensare che il patriottismo non sia più di moda: non ci interessa occupare spazio per lunghe dissertazioni sull’argomento. Guido Pallotta fu anche un patriota, con grandi qualità di Uomo. Alla patria ha dato la vita; di più non poteva fare. L’umanità impaurita del presente che viviamo ha tanto bisogno di UOMINI. Una storia(1): la storia vera di un Ambesà - direbbero gli Africani cioè di un leone. Se Luciano Canfora, che se ne intende, professore di spicco dell’altra sponda, ha scritto di recente il libro La storia falsa (RCS, Milano, 2008) riteniamo si possano raccontare - con sincerità, senza forzature anche storie come questa, patrimonio di verità di un popolo, non revisionismo (di moda). Il tempo né si ferma né torna indietro, ma siamo rimasti goliardi, Guido, e di una serie di tue massime fulminanti ci piace ricordarne una che sembra una battuta, mentre è di smisurata virtù etica: «La Patria si serve anche facendo la guardia a un bidone di benzina». Se si vuole giudicare bisogna conoscere; quindi forse è il caso di partire da fatti e parole reali. Un saluto alla voce, Guido, legionario fiumano, secondo lingua grecolatina, cioè cultura nostra ed estro del Poeta: Eja Eja Eja, Alalà! (Se ci daranno del fascista, dimostreranno soltanto di non aver capito niente; o finto di non capire, che è lo stesso, anzi peggio.) (1)
Aldo Grandi: Il gerarca con il sorriso - L’archivio segreto di Guido Pallotta, protagonista dimenticato del fascismo - Mursia. Milano 2010 - pag.424
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IL BORGHESE
IL MUSEO UNIVERSALE
Il tesoro delle collezioni orientali in Italia di RICCARDO ROSATI IN ITALIA molte grandi città hanno musei dedicati all’arte e alla cultura dell’Asia. Alcuni di essi, per dimensioni e importanza, si attestano tra le più importanti raccolte del settore a livello internazionale. Queste preziose collezioni sono sia di provenienza etnografica, raccolte nel tempo da missionari o diplomatici nelle regioni orientali, che archeologica. Attualmente, i musei più importanti dedicati all’arte orientale si trovano a Roma, Genova e Venezia. Il nostro Paese è da secoli crocevia di popoli, nonché luogo in cui approda e si genera la cultura, possiamo affermare, in tutte le sue forme. Purtroppo, capita fin troppo spesso che le Istituzioni, come del resto il normale cittadino, tendano a considerare tutto quello che non è archeologia classica o arte del Rinascimento come qualcosa di secondario, figuriamoci poi quando si ha a che fare con culture lontane e complesse come quelle orientali; sembra quasi che ci venga insegnato a pensare: «quella non è roba nostra». Da qui nasce il, non crediamo di esagerare, dramma culturale italiano, ovvero un ben consolidato provincialismo. Eppure, se dovessimo buttare giù su carta soltanto i nomi di tutti quegli italiani che nei secoli hanno svolto un ruolo fondamentale nello studio e nella comprensione dei popoli d’Oriente, converremmo che forse nessuna altra nazione può vantare una tradizione tanto ricca e variegata. Certo, si tratterebbe soltanto di un banale elenco di nomi e date. Tuttavia, questa lista sarebbe comunque utile per rammentarci quello che siamo stati e quello che potremmo ancora essere, ma ancor di più, cosa rischiamo ogni giorno di perdere a causa della nostra trascuratezza e, ammettiamolo pure, malcelata esterofilia. Come non ricordare infatti che la sinologia nasce grazie ai nostri missionari gesuiti in Cina e che uno dei maggiori orientalisti del Novecento è stato proprio un italiano: Giuseppe Tucci. Viene inoltre da chiedersi perché sovente l’italiano medio quando spen-
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de soltanto tre giorni a Londra o a Parigi sente la necessità di visitare il British Museum o il Louvre e quando invece soggiorna a Roma difficilmente mette piede nei Musei Vaticani. Con quale criterio siamo talvolta spinti a ritenere che Francia, Gran Bretagna, Stai Uniti e via dicendo posseggano delle collezioni museali più importanti e degne di nota di quelle presenti sul territorio italiano? Perché, per quanto concerne l’Oriente, tendiamo troppo spesso a ignorare le eccellenti raccolte del Museo Chiossone a Genova, di quello Orientale di Venezia, oppure del Museo Stibbert di Firenze? Tanto per citare alcune delle collezioni più conosciute, visto che la lista sarebbe lunga, quanto per converso è breve la nostra memoria riguardo la straordinaria vastità e varietà del Patrimonio culturale e ambientale italiano. Dunque, qual è questo criterio di giudizio che fa sì che oggigiorno il Museo venga ancora visto con parziale diffidenza nel nostro Paese? Il criterio forse è quello del non sapere. Un principio cardine dei Beni Culturali vede la valorizzazione dell’opera d’arte come qualcosa di inscindibile dal concetto stesso di tutela. E cos’è dunque la valorizzazione? Ecco, essa è conoscenza: un Bene, se rinchiuso nei magazzini, o peggio nella teca di un museo che nessuno visita, perde la sua fruibilità, tradendo la sua stessa storia. Non è perciò possibile amare qualcosa che non si conosce. La poca sostanza degli studi museologici in Italia ha impedito sinora che si stigmatizzasse una situazione decisamente grave, ovvero la tendenza di una certa area politica «progressista», predominante da decenni in molti ambiti culturali, a svalutare l’Italia persino dal punto di vista del suo Patrimonio, specialmente per quanto concerne i musei. Si vorrebbe far credere che abbiamo soltanto musei di archeologia e di pittura occidentale. Niente di più inesatto, visto che, per quanto concerne il tema che ci interes-
Aprile 2012 sa in questa sede, la nostra nazione può vantare delle collezioni che nulla hanno da invidiare a quelle di altri Paesi, anzi! A dire il vero, l’Italia ha di speciale il fatto che la Storia, quella con la «s» maiuscola, è venuta da noi e non è stata soltanto «trasportata». Nei musei italiani raramente troviamo, come avviene invece di frequente altrove, pezzi interi di templi greci staccati per essere ricontestualizzati in modo coatto a migliaia di chilometri di distanza. L’Italia è da considerarsi dunque un Museo Universale proprio in virtù delle molteplici sfaccettature della sua cultura. Le collezioni orientali italiane non sono soltanto ricche, ma anche il frutto di importanti episodi culturali, come nel caso del sopracitato Museo Chiossone. Edoardo Chiossone (1833-1898), infatti, oltre a raccogliere una imponente quantità di oggetti in Oriente, è stato professore di disegno in Giappone e proprio a lui si deve il celeberrimo ritratto dell’Imperatore Meiji. Sapere che nei nostri musei sono custodite opere che raccontano la storia di viaggiatori eruditi e di fini conoscitori di culture così complesse e lontane, può consentirci di comprendere quanto universale sia stata la storia italiana, decisamente meno provinciale e gretta di quello che hanno cercato di farci credere negli ultimi sessanta anni. Concludendo, sarebbe utile prendere coscienza del fatto che in Italia abbiamo un Patrimonio ben più vasto di quello che siamo solitamente spinti a credere. Il Museo può aiutarci ad avere una visione meno banale del nostro popolo, visto che esso non rappresenta soltanto una possibilità di epifania culturale, ma talvolta persino un momento di folgorante scoperta della nostra e altrui storia.
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IL BORGHESE
INTERVISTA ALL’ARTISTA MARCELLO SARTORI
La scrittura, strumento per reagire al Caos a cura di GIUSEPPE BRIENZA «SCRITTURA è memoria»: è questo il titolo della mostra didattica sulla storia della scrittura portata avanti da alcuni anni in numerose piazze d’Italia, dal pittore e pubblicista Marcello Sartori. L’iniziativa è finalizzata alla conoscenza dell’evoluzione storica della scrittura e dei principali supporti materiali utilizzati, con un ampio spazio dedicato allo scriptorium medievale ed alla civiltà dell’amanuense. Ha a che fare tutto questo con le storture della scuola di oggi e, per fare soltanto un esempio, con quel 50 per cento di ragazzi italiani che ha problemi di grafia oltre che di ortografia? Ad avviso di Sartori sì, perché la sottocultura che ha generato la «non scrittura» del frammento di questi ultimi decenni è stata potentemente favorita dall’analfabetismo di ritorno derivante dall’abuso, soprattutto da parte dei giovani, delle nuove tecnologie. All’artista veronese, 56 anni, sposato con quattro figli e dal 2006 consigliere della «Compagnia del Sipario Medievale», che promuove un piccolo museo intinerante sulla «Meravigliosa Storia della Calligrafia» (http://www.sipariomedievale.it/ scrittura.htm), chiediamo quindi quali sono a suo avviso le motivazioni, culture e tecniche che hanno dato origine ai grandi capolavori dei maestri italiani della cultura e dell’arte del bene scrivere. È vero che la scrittura è la forma più importante di comunicazione del pensiero? «Certamente, basti solo pensare che il percorso di formazione dei segni della scrittura è iniziato tremila anni fa ed è tuttora in trasformazione. Oggi invece il pensiero comune è che lo scrivere sia inutile, in presenza di mezzi veloci e potenti e sempre più diffusi come i computer. Non ci si cura più di avere una bella grafia perché ciascuno è libero di scrivere, dal punto di vista estetico,
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61 «Con la mia attività cerco di aiutare a capire che l’acquisizione della capacità di scrivere ha una notevole importanza sullo sviluppo dell’essere, non soltanto perché rappresenta un grande mezzo di comunicazione che completa quello gestuale e verbale, ma perché, in fase di apprendimento, incide sull’equilibrio della personalità». L’addestramento alla scrittura favorisce anche un’armonica evoluzione della persona? «Soprattutto. Lo studio della calligrafia e quindi l’educazione alla “micro manualità” educa infatti all’apprendimento dei canoni estetici che possono dimostrarsi molto utili nel percorso di maturazione personale e di autostima. La calligrafia aiuta peraltro a tenere una postura corretta e ordinata, a lavorare con un obiettivo, che è quello di scrivere in modo sempre più bello e più ordinato. La micromanualità permette di avere gratificazioni immediate facilitando il proprio benessere».
come gli pare. La calligrafia è oramai separata dal concetto di "Bellezza"». Nel senso che si pensa soltanto a «cosa» scrivere e non a «come» scrivere. «Sicuramente, dimenticando che la scrittura, per il suo compito di essere veicolo di comunicazione, deve rispettare delle regole, dei canoni, non è invenzione, una libera espressione come ad esempio il disegno». Cosa serve per scrivere in «bella calligrafia»? «Per ritornare a insegnare a curare l’aspetto e la forma delle lettere serve riproporre i movimenti fini della mano, non così facili per tanti giovani che usano poco le loro mani, e un buon coordinamento motorio necessario per rendere facile e automatizzata la propria scrittura. Per essere in grado di scrivere il bambino deve gradualmente sviluppare delle capacità visive/spaziali e manuali, anche questo è un processo di maturazione, nel quale il bambino deve essere guidato». Cosa intende quando afferma che «lo scrivere è un’azione che combina una parte razionale e una irrazionale di una persona»?
Del resto, la Grafologia, è un ramo della psicologia, scienza valida e attendibile tanto da essere utilizzata come supporto di comprensione psicologica nei tribunali. «Certamente, anche se la Grafologia non è da confondere con la Calligrafia, che è l’arte del bello scrivere. La Grafologia studia l’aspetto della forma delle lettere dando fondamento all’affermazione per cui “la scrittura è l’elettrocardiogramma del pensiero”». Se la cultura è fondata sulla scrittura manuale, con la sua degenerazione è in pericolo quindi anche il nostro modello di civiltà? «Voglio citare, a questo proposito, una frase di Gerrit Noordzij, tratta dal suo saggio Il tratto. Teoria della scrittura:“La scrittura contemporanea viene ignorata, e resta un giocattolo nelle mani di pedagoghi che a loro arbitrio mettono a repentaglio l’intera civiltà. Quest’ultima affermazione sembrerà esagerata, ma cos’altro è la civiltà occidentale se non la comunità culturale che si serve della scrittura? I pedagoghi si vantano di non infastidire i bambini con un’introduzione alla scrittura, e così facendo minano alle fondamenta la civiltà occidentale”. La scrittura, per questo, è anche un formidabile strumento per reagire al Caos».
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62 Non crede, da quest’ultimo punto di vista, che lo spaventoso aumento dell’analfabetismo cominci con la negligenza della scrittura da parte della scuola? «Non volendo scaricare la responsabilità sui singoli insegnanti, che scontano nelle alule i problemi della società tutta, devo però condividere questa sua opinione. Nelle scuole italiane, infatti, si è ormai completamente disimparato a scrivere in modo bello e ordinato senza fare errori. Così non si aiutano i giovani ad avere una “spina dorsale” e a rafforzare la volontà, per poter “resistere” in questi tempi di caos e disordine. Il pensiero moderno superficiale e “massimalista”, i cosiddetti “rivoluzionari”, i mass media e oramai quasi tutta la cultura contemporanea "quella dei salotti che contano", i "lor signori" non si stupiscono che i nostri giovani scrivano come delle scimmie. Non si stupiscono perché sono convinti di discendere dagli scimpanzé. È quindi normale, per loro, vedere un bambino utilizzare la matita o la penna in modo assolutamente innaturale con sforzi e contorcimenti come mai si è visto in tutta la storia della scrittura. Non credo che persone istruite e intelligenti ignorino questo problema, credo invece che esista una precisa volontà per far sì che i nostri figli crescano "disordinati". Consciamente o no sanno bene che è il "disordine" che genera il "vizio" e quando i nostri giovani accetteranno il vizio come forma di vita diventeranno una massa uniforme di schiavi distruttivi e nichilisti senza futuro».
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IL BORGHESE
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A COLLOQUIO CON ELENA PULCINI
Invidia, la passione triste a cura di ANNA MARIA SANTORO DELL’INVIDIA ci parlano le opere antiche; di Eschilo; Pindaro; Erodoto; sul timore degli dèi di vedere usurpati i loro privilegi dai mortali i quali, nondimeno, ne temono l’ira; Agamennone a Clitennestra «Non disperdere tappeti, non farmi invidiato il cammino. … Come un uomo tu mi devi onorare, non come un dio». Ne troviamo traccia nel Libro della Sapienza (2: 24) «La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo»; e ancora nella Bibbia tra i fratelli Caino e Abele, Esaù e Giacobbe, Rachele e Lia; e nelle Lettere di San Paolo. Nel trattato De zelo et livore Cipriano la definisce tarlo dell’anima. È assente nell’elenco dei peccati proposto dal monaco Evagrio Pontico ma compare in quello del suo discepolo Giovanni Cassiano mentre, nel VI secolo, Gregorio Magno la pone al secondo posto dopo la superbia, in una lista che diviene punto di riferimento dal XII secolo in poi quando, con il Concilio Laterano del 1215, s’impone ai fedeli la confessione e la necessità di distinguere ogni singolo peccato. Dante colloca gli invidiosi nel Purgatorio; gli occhi cuciti; «ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra». Quando la Casa Editrice Il Mulino decide di pubblicare una collana sui 7 vizi capitali e affida ad Elena Pulcini il trattato sull’invidia «mi è stato chiesto un discorso dalle origini all’attualità» e in modo del tutto originale «ho deciso una ricostruzione storico-filosofica partendo da alcuni aspetti della nostra contemporaneità». L’excursus, saggiamente mediato, tocca la cultura classica, gli scritti testamentari, il primo cristianesimo, il medioevo, l’empirismo inglese di Hobbes; con riferimenti alla psiche e alla musica; e richiami a saggi; a La Rochefoucauld, Pascal, Rousseau, Kant, Mozart, Schopenhauer, Marx, Kierkegaard, Scheler, Simmel, Klein,
Lacan, Girard, Bauman, Natoli, Žižek; e cenni iconografici dove la storia incontra l’arte; i mosaici di Antiochia e gli affreschi dei Giudizi; le tavole di Bosch e le immagini filmografiche, fino al Grande Fratello col suo ampio occhio mediatico. «I greci hanno saputo riconoscerla più di quanto sia accaduto in seguito»; l’invidia «come diceva Nietzsche, cresce nel silenzio». Non ha segni manifesti, l’unico ne è lo sguardo e la sua etimologia in -videre è associata a evil eye, l’occhio maligno. È desiderio mimetico «voglio essere come te ma allo stesso tempo più di te». Non si appaga «come la gola nel mangiare o l’ira nello sfogo distruttivo». L’invidia è diadica. Piega al risentimento. «È verde»; introversa; implosiva; triste «e non
ELENA PULCINI
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ha niente a che fare con l’idea di tristezza come stato d’animo malinconico ma si riferisce a quelle passioni descritte nel libretto L’epoca delle passioni tristi di Benasayag il quale, a sua volta, trae questo aggettivo da Spinoza che in realtà parla di passioni che spingono alla “tristitia”, che tolgono energia e depotenziano l’io, e passioni che spingono al “gaudium”, che ampliano gli orizzonti verso un agire etico e forme relazionali positive». Dopo la disamina sulla Democrazia americana e la Prima Modernità, «ne La favola delle api di Mandeville e nella Teoria dei sentimenti morali di Smith, l’invidia, con la competizione, è fondamentale per lo sviluppo della società capitalistica; è all’origine del mito del progresso ma se questo è l’unico aspetto buono, vuol dire che tanto positiva non è»; poi, mutuando la terminologia dalla fisica per spiegare il passaggio alla Seconda Modernità, «ho suggerito di definirla entropica, cioè priva di competitività progettuale», caratteristica dell’homo oeconomicus della Prima Modernità, perché la passione competitiva permane ma assume una connotazione implosiva. «Oggi siamo disposti a mortificare noi stessi, pur di non innalzare l’altro. C’è una storia raccontata da Žižek su un contadino sloveno che di fronte a un’alternativa proposta da una fata buona, che può donare una vacca a lui e due al suo vicino oppure togliere una vacca a lui e due al suo vicino, quello sceglie, senza esi-
IL BORGHESE tare, la seconda opzione. Ma c’è una versione più morbosa nella quale la fata dice al contadino “farò per te tutto ciò che chiedi, ma ti avverto, lo farò due volte al tuo vicino” e questi “prenditi uno dei miei occhi!» La schadenfreude della lingua tedesca aggiunge qualcosa in più alla sofferenza per il bene altrui, ed è la gioia per il male dell’altro. L’invidia è una malattia sociale che nasce dal confronto tra uguali «perché lui sì e io no?», un’uguaglianza ben diversa da quella prodotta dal senso di giustizia. Né possiamo escludere dalla dissertazione il comunismo, «per lo meno il comunismo che abbiamo visto nelle sue edizioni reali, che è stato la realizzazione distopica di una bella utopia perché davvero l’uguaglianza produce invidia e ha significato appiattimento; indifferenziazione; omologazione non auspicabile. Questo insegna che dobbiamo essere capaci di accettare e rispettare le differenze». Nella contemporaneità ci sono due dimensioni alimentate dall’invidia, il mito del successo e il mito del consumismo, che spingono entrambi a un processo di semplificazione; «si vuole un successo immediato, senza
Aprile 2012 competenze, senza fatica, senza impegno, senza un progetto. Nello slogan della Vodafone, “Life in now”, tutto è confinato al presente». E guardando le sfere del sociale, «noi consumiamo politica, consumiamo sport, consumiamo relazioni affettive; tutto in quel gran calderone che è la società dello spettacolo». I ragazzi si sfidano nei programmi televisivi, «l’altro non è più un interlocutore ma un ostacolo da eliminare»; questo vale per gli adolescenti, la politica, i rapporti professionali. «A monte c’è anche l’invidia», come nella politica «che diventa un’arena nel momento in cui non si affida più a contenuti veri». Più che l’amare ma forse, più importante, è la possibilità di essere amati, per liberarsi dall’invidia c’è la strategia dell’autenticità, di rousseauiana memoria, «una fedeltà a noi stessi che gli psicologi chiamano “il ritiro della proiezione”; smettere di valutare se stessi partendo dall’altro. Fermarsi, interrogarsi al di là delle richieste genitoriali, del bombardamento massmediale e dei fallimenti della nostra società. Non è facile ma qualcosa si può capire».
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IL GIARDINO DEI SUPPLIZI Come non parlare di «Sanremo» di MICHELE LO FOCO È STATO scritto tutto il possibile su questa edizione del festival, ma non quello che andava scritto. Così, per concludere, mi aggiungo alla schiera dei commentatori. Però guardo questo spettacolo da un’altra prospettiva: quello del servizio pubblico. La Rai non è uno svago per giovani, sto parafrasando il titolo di un famoso film, ma per vecchi. Non voglio offendere i vecchi, tutt’altro, descrivo una realtà: la televisione generalista è la principale compagnia di signori e signore anziane che nella loro poltrona di un modesto o ricco salotto passano la serata riempiendosi gli occhi di qualcosa che subiscono e non controllano. Questo qualcosa, un programma, dovrebbe essere un genere di conforto, una specie di torta di mele alla fine della cena, al limite un digestivo per il transito verso il letto. Se poi questo conforto riesce anche a stimolare la conoscenza o la riflessione è tanto di guadagnato. Ci sono persone che di lavoro fanno proprio questo: scelgono e preparano il digestivo per gli anziani, spendendo, come credono, i soldi pubblici nell’ottica, così dovrebbe essere, di servizio. Lo ripeto, affinché sia chiaro: nell’ottica di un servizio, quello radiotelevisivo, che lo Stato offre ai cittadini. Bene, San Remo era un bel festival della canzone: non mi dilungo, Modugno, Rascel, Dallara, Bobby Solo, la storia della musica italiana. Lo conosciamo bene e lo ricordano tutti. Nelle mani degli attuali vertici del servizio radiotelevisivo cos’è diventato il festival? Celentano, finto guru mago delle pubbliche relazioni, che spara frasi sconnesse contro la chiesa, Belen con e senza mutande, i Soliti Idioti che baciano in bocca Morandi al grido di «viva gli omosessua-
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li». La musica è praticamente scomparsa sommersa da veline e «cialtroncelle» che i nostri amministratori guardano dalla prima fila del teatro con aria tiranneggiante e tronfia. Se sei lì lo devi a me, questo è l’inizio del messaggio. La fine del messaggio la tralascio. C’è da non credere ai nostri occhi. Ricomincio: perché Celentano, alla cifra astronomica che tutti abbiamo saputo, può sbrodolare una serie di cavolate senza essere cacciato e perché Belen non può mettersi le mutande? Qual è in tutto ciò il servizio pubblico? Perché, aggiungo, ai gestori del servizio non vengono inviati degli infermieri per vedere se stanno bene?! La realtà è che gli amministratori e i direttori sono talmente modesti che la loro personalità è calpestata da qualunque pseudo artista abbia un minimo di notorietà. Non è l’artista
PER RICORDARE LUCIO DALLA Lucio Dalla è morto per infarto il 1° marzo 2012 a quasi 69 anni. Non soltanto un grandissimo cantante, ma anche un uomo di cultura di sinistra («ho sempre votato PCI, poi Ulivo») però assolutamente coraggioso e anticonformista. Ce ne fossero altri come lui! Noi de Il Borghese lo vogliamo ricordare con poche sue parole del tutto inascoltate dalla sua parte politica, ahimè!: «Ho letto La rabbia e l’orgoglio e l’ho trovato un libro straordinario. Così l’ho fatto sapere a Oriana Fallaci attraverso la Rizzoli, che è anche il mio editore. Allora la Fallaci mi ha mandato La forza della ragione, con una dedica affettuosa:
ad essere scelto, è l’amministratore che vuole farsi benvolere dall’artista, in una inversione di ruoli che soltanto la sudditanza psicologica e la smania di eccitazione mondana rendono possibile. Nella fiera della borghesia, dove essere salutati da Pippo Baudo è una medaglia al valore, i nostri megadirigenti si scordano che davanti alla televisione ci sono persone per bene, nonne con nipotini, anziane sole o in famiglia. Non ci sono masse libidinose in attesa di eccitazione né popoli isterici pronti ad assalire il Vaticano, né tampoco orde di omosessuali inviperiti dall’abbandono mediatico. Perché, mi domando, in un’Italia nella quale un primario ospedaliero prende tremilacinquecento euro al mese di stipendio lavorando venti ore al giorno, è consentito ad un gruppuscolo di incompetenti di sperperare milioni di euro per imbrattare le serate delle nostre nonne con spettacoli che andrebbero benissimo sulla tv di Signorini o al limite di Chiambretti? Perché San Remo? Cosa vi abbiamo fatto di male, signori della televisione, perché ci riserviate questo trattamento? Non potreste risolvere le vostre frustrazioni invitando Belen o Celentano, anche in giorni diversi, a casa vostra, con le vostre mogliettone scodinzolanti per la gioia?
a Lucio Dalla, mai incontrato, sempre ascoltato. Un’altra folgorazione. Una ricchezza di scrittura, una forza di argomentazione che mi ricorda Céline. Un Céline filosemita. La sinistra che ignora Céline, Pound, Evola, la Fallaci è una sinistra debole, bigotta. Ritardataria». (Aldo Cazzullo, I grandi vecchi, Mondadori, 2006, p.22)
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NOSTRA SIGNORA TELEVISIONE
Serena e Sabina affondano «La7» di LEO VALERIANO È DA POCO scaduto il mandato per il Cda della Rai. Dallo scorso 28 marzo, praticamente, la dirigenza dell’Azienda radiotelevisiva, è soggetta a sostituzione. Ma la questione è molto spinosa e ancora ci sono molte trattative in corso. Vedremo presto come Monti riuscirà a risolvere la faccenda. Una delle cose meno gradite, da coloro che usufruiscono di radio e televisione, è il famoso canone da versare alla Rai. Tutti coloro che possiedono una radio e/o un televisore, sono tenuti a pagarlo. Ormai non si tratta più di una semplice tassa per essere autorizzati a ricevere un segnale radiotelevisivo, ma praticamente un tributo sul possesso degli apparati riceventi. In questo senso, nel mese scorso, una certa confusione si è creata per il fatto che anche i pc hanno la possibilità di sintonizzarsi sulle frequenze radiotelevisive e, un Regio Decreto Legge del lontano 1938, specifica che tale tassa è dovuta per il possesso di «apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni». In altre parole, qualsiasi apparecchio che teoricamente può essere modificato per sintonizzarsi su un programma radiofonico o televisivo ne sarebbe soggetto. La Rai, conscia di questo, ha cominciato a pretendere la tassa non soltanto per i televisori, ma anche per i «personal computer, decoder e altri apparecchi multimediali». Dopo un iniziale momento di smarrimento, comunque, l’Azienda di Viale Mazzini ha chiarito di non pretendere il pagamento del canone per il mero possesso di un personal computer collegato alla rete, per i tablet e gli smartphone. Però le imprese, le società e gli enti secondo la Rai - stando alla lettera spedita dalla Direzione abbonamenti devono pagare quando «i computer siano utilizzati come televisori». La Rai informa anche che il canone non va pagato se le imprese lo hanno già pagato per il possesso di uno o più televisori. Per viale Mazzini, quindi,
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il campo di applicazione del tributo è legato ad una utilizzazione molto specifica del computer. E, aggiunge la Tv pubblica, «altri Paesi europei per i loro broadcaster nella richiesta del canone hanno inserito tra gli apparecchi atti o adattabili alla ricezione radiotelevisiva, oltre alla televisione, il possesso dei computer collegati alla rete web, i tablet e gli smartphone». Ma chi è che possiede e utilizza un PC, esclusivamente per vedere i programmi televisivi? Un’altra notizia che ha turbato i limpidi cieli della Rai, nello scorso mese, è stata quella riguardante la clausola di gravidanza inserita nei contratti che la Rai offre ai collaboratori esterni a partita Iva. Dopo diverse contestazioni, la Direzione ha comunicato che intende togliere dai contratti la contestatissima clausola, inserita nel contratto dei giornalisti autonomi che lavorano per viale Mazzini, e che prevede la risoluzione del rapporto di lavoro in caso di maternità. Lo ha comunicato in una nota il Direttore Generale, Lorenza Lei: «Onde evitare inutili strumentalizzazioni ad ulteriore testimonianza che la clausola in contestazione non ha il rilievo che le viene attribuito», ha affermato, «la direzione generale non ha alcuna difficoltà a toglierla dai contratti per una diversa formulazione che non urti suscettibilità fatta salva la normativa vigente che non è nella disponibilità della Rai poter cambiare». E meno male! Lorenza Lei ha ricordato anche che «i lavoratori autonomi non godono delle tutele previste
SERENA DANDINI dallo Statuto dei Lavoratori, evidentemente per la scelta del legislatore, e non certo della Rai, di regolare in modo diverso le due tipologie contrattuali. I contratti di lavoro autonomo hanno, da sempre, previsto clausole che regolano la impossibilità di proseguire il rapporto, sia per causa del lavoratore che per causa dell’Azienda, con previsione, solo per quest’ultima, di una somma risarcitoria da versare al collaboratore in caso di recesso anticipato». Siamo d’accordo. Però esiste sempre un aspetto morale. E sociale. La7, dopo un periodo di grazia dovuto ad acquisizioni abbastanza intelligenti, comincia a perdere colpi. Non bastava l’inserimento dello spettacolo serale della N.D. Serena Dandini De Sylva, gradito soltanto a qualche trinariciuto della sinistra, a far scendere gli ascolti. L’emittente Telecom, ha aperto le porte a un’altra pasionaria dello schermo: Sabina Guzzanti. Donna di grande intelligenza e fiuto, purtroppo bilanciate da una scarsissima abilità artistica messa in risalto soprattutto dai suoi film e da alcune sue performances televisive, la figliola del noto giornalista ha iniziato, da poco, la sua collaborazio-
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Aprile 2012 ne con La7. Perso anche il poco smalto che aveva, all’inizio, quando riusciva ad imitare con successo Valeria Marini e Moana Pozzi, nel tempo è riuscita a mettere quasi in imbarazzo il telespettatore medio con le sue imitazioni «maschili» (D’Alema, Martelli, Berlusconi) in cui alla assoluta mancanza di un minimo brandello di somiglianza, circa l’imitazione vocale, ha fatto da contraltare anche un’assurda incoerenza «fisica». Sulla sua incoerenza politica, invece, è meglio sorvolare visto che dopo lo scandalo del presunto «Madoff dei Parioli», ha dichiarato di essersi sentita «una imbecille» (come leggiamo su Wikipedia), dichiarando di averci rimesso 150.000 euro. Per inciso, sarebbe utile ricordare che, durante i suoi comizi ed i suoi spettacoli, si era sempre dichiarata contraria a questo tipo di investimenti, ritenuti validi solo per evasori fiscali. A conti fatti, Sabina Guzzanti avrebbe ricevuto (se tutto fosse andato a buon fine) guadagni su investimenti all’estero. Ognuno può trarne le debite conclusioni. Un altro colpo ferale, lo ha subito Corrado Formigli conduttore di Piazzapulita con la condanna subita nel mese scorso e che, comunque, riguarda la sua attività alla Rai e non a La7. La sentenza del Tribunale di Torino che ha condannato la Rai e l’ex giornalista di Annozero a pagare un risarcimento di 7 milioni di euro alla Fiat per un servizio ingannevole riguardava un giudizio sull’Alfa Romeo «Mito Quadrifoglio Verde», definita la più lenta sul circuito di prova, distanziata dalla Mini Cooper S di tre secondi e dalla Citroen DS3 di un secondo e mezzo. Ad onore del giornalista, va detto che detto giudizio era stato ripreso dal mensile Quattroruote. Ma è stato considerato dalla Fiat, comunque, una «insopportabile aggressione mediatica», per usare le parole di Formigli. Ed ora, invece, una buona notizia: Il Grande Fratello ha chiuso con anticipo. La trasmissione era prevista almeno fino al 12 aprile ma, a conti fatti, risultano tre puntate in meno rispetto alla scorsa edizione. Il progetto di una durata che avrebbe anche potuto superare l’edizione numero 11 è stato, dunque, archiviato. Probabilmente, la stanchezza generalizzata e una conduzione terribilmente asfittica si sono impadronite di tutto il meccanismo e la cosa ha suggerito di porvi fine con anticipo. Tutto sommato, un pochino di ossigeno in più, per il cervello, non guasta.
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IL CINEMA E LA GUERRA CIVILE - «TUTTI A CASA»
L’Italia sta sempre alla finestra di ALDO LIGABÒ 8 SETTEMBRE 1943 - 25 aprile 1945 e oltre. In questi lunghissimi diciannove mesi nel nostro Paese si è consumata una tragedia che, dopo quasi settant’anni, è ancora oggi scolpita nelle coscienze degli Italiani. L’armistizio con gli angloamericani segnò da una parte la fine dell’alleanza con la Germania e la successiva cobelligeranza contro i Tedeschi e dall’altra precipitò l’Italia nella guerra civile tra coloro che rimasero fedeli a Mussolini, i partigiani e i soldati che si schierarono agli ordini di Badoglio.Per rievocare questo periodo così doloroso della nostra storia abbiamo visionato in sequenza Tutti a Casa, Il Federale e Tiro al Piccione. Tutti a casa, per la regia di Luigi Comencini, è un capolavoro in bianco e nero del 1960. Il film vuole evidenziare lo stato di delle forze armate all’indomani dell’armistizio. Il film narra le vicende di alcuni soldati, nell’Italia settentrionale, guidati dal tenente Innocenzi (Alberto Sordi), sorpresi dall’armistizio e lasciati ver-
gognosamente senza ordini dagli alti comandi. Memorabile la scena della telefonata dell’Innocenzi al colonnello in cui urla disperato «Quali sono gli ordini?» e non ottiene risposta. I soldati cercano di raggiungere il comando di corpo d’armata. Una volta raggiunto il comando, l’amara realtà si materializza. Sono andati via tutti. Il plotone, approfittando del buio di una galleria, abbandona il giovane ufficiale dopo averlo prima spernacchiato. Innocenzi, rimasto con tre soli soldati, Ceccarelli, Codegato e Fornaciari, realizza che non rimane altro da fare che tornare a casa. I quattro si incamminano verso sud. In una casa di campagna incontrano un capitano che, con aria rassegnata e la morte negli occhi, li invita ad indossare abiti borghesi perché i Tedeschi deportano in Germania i militari italiani. «La guerra è finita, ognuno per sé e Dio per tutti», dice uno scorato Sordi. In abiti civili, guidati dal capitano, si incamminano verso sud ma i tedeschi mangiano la foglia e aprono
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68 il fuoco. Fuggono nei boschi. Vengono raccolti da un camion pieno di altri soldati, rigorosamente senza divisa, che intendono unirsi alla resistenza. Quando Innocenzi scopre le loro intenzioni, salta giù con i suoi tre soldati: lui ne ha abbastanza della guerra. Le strade nazionali sono presidiate dai tedeschi. Per non farsi catturare bisogna seguire la ferrovia. Appena possono, Innocenzi e i suoi saltano su un treno e, disperatamente affamati, rubano la valigia piena di formaggi e salumi che il Ceccarelli usa a guisa di cuscino. Magistrale la scena in cui Sordi, guardando Fornaciari e Codegato negli occhi, dice: «Adesso è l’uomo che vi parla e non l’ufficiale. Ci sono due strade: o mangiamo e rifamo la valigia con pietre e stracci o restituiamo il tutto. Votiamo: voi due favorevoli eh? Io voto contro. Mi avete messo in minoranza». Dopo aver finalmente mangiato, rimettono a posto la valigia a spese dell’ignaro Ceccarelli. Subito dopo il treno è preso d’assalto da alcuni civili in fuga. In cima ad una salita il treno, stracarico, si ferma e costringe tutti a scendere. Commovente la scena tra il soldato Codegato e una ragazza che spiega perché da ebrea dinanzi ad un morto non si è
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IL BORGHESE fatta il segno della croce. Il tenente va in cerca di un altro mezzo. Sedotto da una procace emiliana, abbandona i suoi uomini e guida un autocarro con destinazione l’Agro pontino. L’autocarro, giunto in un paese del Veneto, perde una ruota e casualmente viene scoperto il carico clandestino di farina per la gioia degli abitanti stremati dalla fame. Innocenzi e i suoi soldati si ritrovano. Fornaciari insulta il tenente accusandolo di averli abbandonati, mentre loro lo cercavano dappertutto nel timore che fosse stato catturato dai tedeschi. Scoppia la baruffa. Placati gli animi, tutti insieme decidono di prendere il traghetto sul Po, dato che il ponte è stato bombardato. Con loro vi è la ragazza ebrea. Presto i tedeschi la scoprono e Codegato muore nel tentativo di proteggerne inutilmente la fuga. Il giorno successivo Fornaciari arriva a casa. Sua moglie nasconde in casa un ufficiale americano in soffitta, ricercato dai nazifascisti. Splendida la scena in cui Sordi lo blocca mentre cerca di mangiare oltremisura la polenta deposta al centro di un tavolaccio. Spassosissima la conversazione sulle donne e la lunghezza delle gambe tra Sordi e lo yankee. Nel cuore della notte, purtroppo,
Aprile 2012 arrivano i fascisti. Scoprono lo statunitense e deportano Fornaciari. Innocenzi e Ceccarelli fuggono ancora. Finalmente Innocenzi arriva nella sua Littoria e ritrova il padre [Eduardo De Filippo, N.d.A] che cerca di farlo riarruolare nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana allettato dalla buona paga. Entrambi fingono di accettare ma all’alba fuggono verso Salerno, dove ci sono gli Americani. Alla stazione vengono arrestati come disertori dai repubblichini e avviati ai lavori forzati. Subito dopo, però, arrivano i tedeschi e cominciano a deportarli verso nord ma, approfittando di un momento di distrazione, Innocenzi riesce a fuggire in una chiesa mentre Ceccarelli nella fuga viene ferito gravemente. I partigiani entrano in azione. Innocenzi nel guardare il suo soldato, al sicuro dal campanile di una chiesa, pensa: «Non si può stare sempre a guardare» e va a soccorrerlo. Purtroppo Ceccarelli gli muore tra le braccia. Dopo la morte del suo soldato, Innocenzi ritrova la sua dignità di soldato imbracciando una mitragliatrice e combattendo assieme agli scugnizzi napoletani in quelle che passarono alla storia come «le quattro giornate di Napoli» nel settembre 1943.
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LIBRI NUOVI E VECCHI LA RIVOLUZIONE CONSERVATRICE IN ITALIA
Dopo Berlusconi ripartiamo dalle idee di GIOVANNI SESSA MARCELLO Veneziani, da attento osservatore, dotato di capacità critiche e aduso ad analisi politologiche centrate sul metodo della storia delle idee, non poteva, in un momento di crisi come l’attuale, per l’Italia e per quella che ancor oggi viene definita la destra, non far sentire la sua voce. Puntuale, in questi giorni, ha fatto la sua comparsa nelle librerie, la sua ultima fatica: La Rivoluzione conservatrice in Italia. Dalla nascita dell’ideologia italiana alla fine del berlusconismo, edita da Sugarco (per ordini: info@sugarcoedizioni.it). In realtà, si tratta della terza edizione di un libro uscito per la prima volta nel 1987, ampliato e aggiornato in una seconda versione nel 1994 e ora riproposto ai lettori, con l’inserimento di due nuovi significativi capitoli, nei quali l’autore sviluppa il primo bilancio critico da destra dell’èra berlusconiana. Terminata la lettura, la prima impressione che si trae da queste pagine dense e stimolanti, è quella della necessità improcrastinabile di rimettere in moto un’intera area intellettuale e politica, prostrata dalle continue lacerazioni interne degli ultimi anni, dallo «sfascismo» valoriale, scientemente perseguito dalle leadership delle destre in campo, e dal senso di sconforto prodotto in esse dalla fine, annunciata da tempo, del berlusconismo. Ma da cosa è stata caratterizzata secondo Veneziani, l’èra segnata dalla personalità di Silvio Berlusconi? Sotto il profilo del costume, l’autore condividendo le tesi di altri interpreti (tra essi Mario Perniola), ritiene che Berlusconi abbia rappresentato, paradossalmente ma non troppo, l’eredità del Sessantotto, la «fantasia al potere»: ha incarnato, come uomo, imprenditore e politico, l’anima libertaria e per certi aspetti libertina, propria di quella congerie culturale. Il Cavaliere ha inaugurato la politica
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«confidenziale» che, per scelta, vuole compiacere l’elettore, in quanto il leader si prospetta all’immaginario collettivo, come proiezione diretta dell’uomo medio. In questo senso, Sua Emittenza è stato, per un quindicennio, specchio della realtà antropologica italiana, ha interpretato, come una «gigantografia», vizi (molti) e virtù (poche), di noi tutti. Egli ha, ricorda Veneziani, ostentato il lato ludico, piacevole della vita, ne è stato una sorta di spot, dando voce, nel medesimo contesto, anche al vittimismo nazionale rispetto allo Stato, alla legge, ai giudici (in questo particolare ambito, con qualche ragione dalla sua, ci pare). Mentre in altre epoche il potere si nutriva di carisma, di sacralità, nell’èra dello spettacolo e del mercato, in cui tutto è merce, Berlusconi ha realizzato una seduzione di massa, che gli ha permesso di acquisire, come nessun altro politico nel dopoguerra, vasto consenso sociale e politico, m a i t r a d o t t o s i i n quell’«ammodernamento conservatore», attorno al quale era nato il programma della sua coalizione. In esso, a partire dal 1994 aveva, pur con qualche riserva, riposto speranze lo stesso Veneziani. Berlusconi non è, quindi, il responsabile del vuoto attuale, ha cercato, senza riuscirvi di riempire il nulla della Prima Repubblica ma, al momento della sua uscita di scena, si deve mestamente rilevare che restituisce il Paese così come lo aveva trovato: depresso, lacerato. Egli ha semplicemente assecondato l’Italia in ciò che, nell’ultimo periodo è stata, senza raddrizzarla, senza indurvi quella «rettifica» che in tanti auspicavano alla sua discesa in campo. Con la complicità delle destre ufficiali, non di «plastica» o «liquide», che avrebbero dovuto fornire gli strumenti culturali del cambiamento effettivo e che, invece, nonostante l’ostentazione
dell’horror vacui per la fine del berlusconismo, non hanno né agito, né inciso politicamente, animate dalla volontà suicida indotta dal proprio cupio dissolvi ideale. Ci permettiamo un’aggiunta all’analisi puntuale di Veneziani: il berlusconismo rappresenta il momento populista-plebiscitario della governance, contraddistinto da legami (ormai allentati) con la Cultura della Nazione. Il nostro attuale governo tecnocratico è, invece, il pieno dispiegarsi di ciò che Veneziani chiama l’«ideologia piemontese». In effetti, l’importanza del libro che presentiamo, sta nell’aver individuato, in contrapposizione e in contesa tra loro, nella storia d’Italia dell’ultimo secolo e mezzo, due progetti politico-culturali: quello «piemontese», che ha radici illuministe e razionaliste e che esprime una concezione laica e immanentistica della storia e della vita, venato di suggestioni positiviste. Esso ha avuto nella Torino di Gobetti, di Agnelli, Gramsci e Bobbio la propria Capitale ideale e nella casa editrice Einaudi uno dei templi di riferimento della visione neo-azionista. Ha sempre guardato altrove, più specificatamente al nord protestante e laico d’Europa, per individuare i correttivi della romanitàcattolicità nostrane. La sua egemonia culturale, in alcuni periodi tradottasi in supremazia politica, ha separato l’Italia dalle radici latine e dalla vocazione rurale, creativa, mediterranea. Con Noventa, Veneziani ci ammonisce: «L’Italia d’oggi è tutta costruita su quelli che furono gli errori della scuola torinese» (p. 66). Ad essa, si contrappone l’ideologia italiana, che è anticonservatrice senza cadere nell’errore progressista. I suoi esponenti si pongono in posizione critica rispetto al presente, nell’attesa di un futuro migliore fondato sulla memoria di un passato glorioso. È essenzialmente un tentativo di opporsi alla decadenza, in forza della volontà di riscatto etico. Ha in sé elementi tipici della tradizione rivoluzionaria e di quella restauratrice. È Rivoluzione Conservatrice. I suoi esordi possono essere ritrovati in Vico, nel suo De antiquissima italorum sapientia, opera nella quale per la prima volta emerge il primato pratico-speculativo italico-pitagorico, oltre che la congiunzione sintetica del realismo di Machia-
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70 velli con l’utopia del Campanella. In Vincenzo Cuoco, nelle cui pagine viene criticato l’ideale giacobino, in quanto nessuna rivoluzione può realizzarsi facendo tabula rasa di consuetudini e usi popolari. Si manifesta, a piene lettere, nell’elaborazione giobertiana dell’idea di Risorgimento come Rivoluzione-Restaurazione, sostanziata dal sacrificio e dal sangue di un’intera generazione di patrioti. Infine e pienamente, nell’elaborazione filosofica di Giovanni Gentile. Il filosofo di Castelvetrano, più di ogni altro, si interroga sull’eredità rosminiana-giobertiana del Risorgimento (1897), mentre porta a compimento i suoi studi coevi su Marx (1899). In essi, si spinge a riconoscere la legittimità della rivoluzione, la cui giustificazione individua nella restaurazione dello spiritualismo. Gentile invera, pertanto, il marxismo attraverso l’idea della rivoluzione-restauratrice, esito dell’ideologia italiana. Ciò in forza dei contributi ideali forniti da Oriani, Pareto, dai sindacalisti rivoluzionari, le cui posizioni vengono ampiamente presentate e discusse da Veneziani. Come quelle di molti altri intellettuali. Tra essi, spiccano certamente i nomi di Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi, momenti apicali della variante scettica della Rivoluzione conservatrice italiana. Il primo, teorizzò la fase «relativistica» e pirandelliana del fascismo, il secondo, muovendo dallo scetticismo gnoseologico, nel quale un’opinione vale l’altra, giungeva, come Schmitt, a leggere i rapporti umani come inevitabilmente fondati sul conflitto. Risolvibile, in termini politici, nel solo affidamento all’autorità, in grado di porre in forma il mondo. Egli si propose, pertanto, come il filosofo in grado di spiegare il passaggio dalla filosofia della rivoluzione alla filosofia dell’autorità, giustificando il fascismo stesso come suprema sintesi della Nazione Culturale. Le sue ragioni, per molti aspetti, erano prossime a quelle del pensiero legittimista, ma depurate dal riferirsi di quest’ultime ad un’origine metafisica del potere. Ciò lo condusse verso posizioni in-attualiste, attraverso il recupero di una linea di pensiero che, muovendo da Cicerone, giunge al realismo di Machiavelli e Guicciardini, al tragismo di Leopardi e si spinge fino al socialismo risorgimentale di Giuseppe Ferrari. I capitoli centrali del volume sono dedicati al pensiero di Augusto Del Noce e di Julius Evola. Il revisionismo delnociano, centrato sull’inter-
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IL BORGHESE pretazione transpolitica della storia contemporanea, è letto da Veneziani come uno dei contributi più significativi alla rinascita dell’ideologia italiana. Ciò corrisponde al vero per due diverse ragioni: 1) il filosofo cattolico recuperò nel proprio iter speculativo il programma gentiliano relativamente al nesso, individuato dal pensatore siciliano, tra filosofia e storia e tra pensiero e nazione 2) come Gentile, Del Noce comprese la potenza del filosofare di Marx e pensò non semplicemente contro Marx, ma dopo Marx e successivamente al fallito inveramento del marxismo nell’attualismo. Insomma, nella prospettiva esegetica di Veneziani, Del Noce vuole correggere il vizio immanentista di Gentile, riportandolo a Vico, al fine di rispondere, sul piano teorico e pratico, all’inveramento del marxismo nella società neoilluminista e neoborghese. La società del libertinismo di massa, la società «gaia» dei nostri giorni. Il processo di secolarizzazione ha avuto tre stadi successivi: comunismo, fascismo e occidentalizzazione del globo. Al termine della guerra mondiale, si sarebbe transitati in Europa dalla società borghese-cristiana a quella neoborghese, dalla quale sarebbe stata definitivamente espunta la domanda teologica e/o di senso. La critica delnociana alla società opulenta, presenta, quindi, momenti di prossimità a quella tradizionalista, ma anche a quella francofortese. La proposta politica del filosofo politico non è, alla luce di tali considerazioni, riducibile al cattolicesimo liberale, ma è, a tutti gli effetti,una delle variabili possibili della Rivoluzione conservatrice nel nostro paese. Più critico è Veneziani nei confronti di Julius Evola. Riconosce che lo sforzo speculativo del pensatore romano muove dalla filosofia della crisi, animato da intenti, eroici e tragici, ultranichilistici, ma ritiene che il suo guardare alla cultura mitteleuropea, oltre che a Tradizioni disparate, dall’antica religiosità classica a quelle orientali, abbia «disancorato» dalla storia, oltre che dall’humus della cultura nazionale, la sua proposta, rendendola impolitica, riducendola ad Idea, a categoria dello spirito. La Tradizione avrebbe finito per coniugarsi in lui con la rivoluzione. Non è forse questo l’intento primo della Rivoluzione conservatrice? Inoltre, se Evola è stato critico nei confronti della prassi teorico-politica risorgimentale, ciò è dovuto alla centralità assunta nelle sue pagine dalla prospet-
Aprile 2012 tiva europea, e dell’Imperium. Che la strada indicata dal filosofo non conduca all’impoliticità è testimoniato dal suo interventismo politico-culturale, durato il corso di un’intera e sofferta esistenza. Inoltre, con il suo transattualismo, originale e critico, (cosa affatto diversa dall’essere un attualista minore), ha introdotto nella cultura italiana aspetti e problematiche dell’altro Romanticismo (espresso ad Heidelberg da Görres, Bachofen, Grimm), inerenti la prospettiva di simbolica della storia, in grado di presentare la tradizione e l’origine come vigenti nel tempo, e quindi come il sempre possibile cui tendere con la nostra azione nel mondo. Del resto, nelle origini vichiane dell’ideologia italiana, individuate da Veneziani, non si evince, forse, il ripresentarsi dell’antica cultura italicopitagorica, alla quale si sono ispirate ben individuate correnti risorgimentali e, nel Novecento, il Movimento Tradizionalista Romano, di cui Evola fu uno dei referenti fondamentali? Per questo, crediamo che il filosofo romano occupi un posto unico e centrale nella Rivoluzione conservatrice italiana. Ha ragioni da vendere, comunque, Veneziani, quando ricorda che attorno all’eticizzazione costituzionale, vanamente perseguita dall’attuale establishment politico-finanziario, non è possibile riconnettere il tessuto sociale del nostro Paese, in quanto: «nessun patriottismo può nascere da un perimetro di regole…più vivo e più vero resta il Patriottismo della Tradizione» (p. 315). In esso, ideale e reale si incontrano nella storia e nella vita del popolo. Questa consuetudine di vita, ha segnato lo sfondo della Nazione Culturale, l’Italia, definendo il suo paesaggio, in cui «la cultura è sintesi tra culto e coltivazione, ovvero apertura al cielo, per dare senso al mondo e inseminazione della terra, concreto radicarsi in un luogo, reso ospitale e generoso» (p. 317). Soltanto il pensiero di tradizione, può condurci oltre il nomadismo della contemporaneità. Dopo Berlusconi è necessario ripartire da questo dato: riaprire il confronto ideale sull’ideologia italiana e, più in generale sulla cultura antagonista. In questo senso, gli autori di Veneziani e le sue analisi rappresentano un bagaglio importante e un viatico essenziale, per un viaggio che si presenta lungo e irto di insidie, per quanti non si siano ancora arresi e abbiano preservato in sé quello che Carlo Michelstaedter indicava come il coraggio dell’impossibile.
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FASCISMO E CENSURA SUI FUMETTI
«Eccetto Topolino» di ALESSANDRO BARBERA LA PUBBLICISTICA sui fumetti si è arricchita di recente di un importante lavoro a carattere storiografico (F. Gadducci, L. Gori, S. Lama, Eccetto Topolino. Lo scontro culturale tra Fascismo e Fumetti, NPE, € 35,00). Si tratta di un grosso volume riccamente illustrato. In esso i tre autori ricostruiscono in modo accurato la penetrazione dei fumetti americani nell’Italia degli anni Trenta e le difficoltà subite a partire dal 1938 con i provvedimenti restrittivi del Minculpop. La fonte principale del loro testo è il carteggio fin qui ignoto tra Guglielmo Emanuel, rappresentante italiano della più importante agenzia americana di fumenti, il KFS, e i principali editori italiani del campo, ossia Vecchi, Nerbini e Mondadori. Quel che, in alcune pagine, inficia il volume è il tono eccessivamente polemico in senso antifascista. Tra le tante colpe che vengono solitamente addossate al regime mussoliniano ci sembra che la censura sui fumetti possa stare tranquillamente all’ultimo posto. Oltretutto, dalla stessa ricostruzione degli autori emerge che la censura non fu poi così drastica come apparve in un primo momento. Inoltre, non tutte le motivazioni adottate dalle autorità dell’epoca furono peregrine. Non soltanto; ma come è da loro stessi documentato, quelle limitazioni ebbero un effetto positivo sullo sviluppo del fumetto italiano. Insomma, non tutto il male venne per nuocere. Vediamo in dettaglio. Negli anni Trenta c’era stata in Italia una vera esplosione di testate fumettistiche destinate ai ragazzi, grazie anche alla massiccia importazione di materiale d’oltre oceano, con tirature particolarmente elevate. I fumetti entravano anche in casa di Mussolini, i cui figli più giovani - in particolare Romano erano accaniti lettori. Nel 1938, nell’ambito della svolta in senso totalitario del regime, il Ministero retto da Dino Alfieri decide un drastico provvedimento censorio. Vieta la gran parte dei prodotti statunitensi. Proibisce in particolare le storie a contenuto violento e gangsteristico e quelle con sottofondo erotico. Nello stesso tempo, invita ad aumentare le pagine di prosa rispetto a quelle disegnate e ad incrementare la presenza di storie fumettistiche prodotte in loco. In seguito, dopo un periodo non troppo lungo di sospensione, i principali eroi americani, con qualche trucco e
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scappatoia degli editori, torneranno a circolare in Italia. La censura resterà rigida sulle storie giallistiche e su quelle di Flash Gordon. Le sinuose eroine di Alex Raymond si rivedranno soltanto nel dopoguerra. Nel 1941 vi sarà un nuovo inasprimento, questa volta diretto anche ad eliminare il fumetto come forma espressiva a vantaggio delle didascalie. Curiosamente, la forma fumetto tornerà - come gli autori documentano - in alcuni albi al tempo della Repubblica sociale. Gadducci e soci sottolineano come le restrizioni abbiano indotto in quegli anni gli editori italiani a stimolare la produzione interna. Si sviluppa allora la scuola italiana del fumetto che esploderà nel dopoguerra per giungere ai nostri giorni. Ora, gli autori puntano a presentare il conflitto tra editori e regime quasi come uno scontro tra fascismo e resistenti antifascisti. Ma, come essi stessi documentano, gli editori italiani sono per lo più fascisti. Nerbini è un vecchio squadrista, Mondadori è un editore di regime. Lo stesso Emanuel, pur essendo un antifascista, non è certo un uomo di sinistra. Nel dopoguerra dirigerà un quotidiano monarchico a Napoli per poi diventare direttore del Corriere della sera, con un orientamento moderato. Non soltanto; in generale va detto che la passione per i fumetti è trasversale, salvo le preferenze per questo o quel personaggio. Essi ricordano che alcuni partigiani adottarono come sigle di battaglia i nomi degli eroi di carta, ma anche molti ventenni che finirono a Salò si erano cibati delle stesse storie. La contrapposizione netta fascismo-fumetti riguarda i vertici del regime e parte della pubblicistica. Oltretutto, non è che le decisioni di vertice fossero sempre condivise e apprezzate dalla base, in quello come in altri campi. Più compatta nell’ostilità la cultura umanistica, ma anch’essa non in modo uniforme. Sono loro stessi a documentare un precedente intervento nel 1936 del filosofo Giovanni Gentile a favore di Nerbini. E Gentile non era certo un personaggio secondario. In quanto, all’antiamericanismo vanno osservate alcune cose. Intanto che alcuni dei fumetti made in Usa - nonostante l’ostilità del Minculpop - erano sostanzialmente compatibili con un certo spirito dell’epoca, in particolare per l’eroismo delle loro storie. Non per niente, quando a
71 metà degli anni Sessanta esplode l’interesse critico per questa forma espressiva, la folta schiera dei critici di sinistra invita implicitamente alla censura. Accusa la produzione statunitense di propagandare la american way of life, di produrre colonialismo politico e culturale e persino di criptofascismo! In alternativa propone fumetti altamente politicizzati secondo il suo orientamento. Veniamo all’argomento che dà titolo al volume; e cioè alle decisioni relative alla produzione disneyana e quindi a Topolino. Intanto gli autori producono una prima insinuazione. E cioè che la tolleranza e poi l’intolleranza di Mussolini per i fumetti sia stata condizionata dai suoi rapporti editoriali con William Hearst, editore di quotidiani oltre che proprietario del KFS. Di ciò naturalmente non forniscono alcuna prova documentale. Torniamo a Topolino. Nella versione fin qui dominante sarebbe stato Ezio Maria Gray a produrre nel 1938 l’elenco dei fumetti da censurare. Se lo sarebbe visto restituire con la notazione a mano di Mussolini: «Eccetto Topolino». Gadducci e soci si mostrano scettici su questa narrazione. A parer loro non sarebbe stato Gray, neppure sarebbe certa l’espressione attribuita al Duce. Tuttavia essi non forniscono una documentazione alternativa né smentiscono che vi sia stato un intervento in prima persona del capo del fascismo. Dunque, salvo pezze d’appoggio future, la versione resta in piedi. In aggiunta, realizzano un’altra insinuazione su una presunta scorrettezza di Gray a danno di Nerbini, ma anche in questo caso non forniscono alcuna seria prova. Sugli incontri personali tra Walt Disney e Mussolini riferiscono i ricordi del figlio Romano - di cui riproducono l’intervista rilasciata ad If nel 1994 - e della moglie Rachele raccolti da Maria Scicolone, anche in questo caso con una punta di scetticismo. Tuttavia, la recente monumentale biografia disneyana di Michael Barrier non consente dubbi di sorta. Al contrario, essa data in modo preciso i doppi incontri con Ciano e Mussolini. Siamo, rispettivamente, al 20 e 21 luglio del 1935. Barrier permette così di correggere le fonti italiane, compreso Arnoldo Mondadori (che pure nell’occasione lo aveva personalmente incontrato), che avevano collocato il viaggio in Italia di Disney e dei suoi famigliari nel 1932. Tra l’altro, Romano aveva parlato di 1935, la Scicolone di 1936; in precedenza l’americano Eliot di 1937. Ora, a parte le riserve sui toni polemici, è comunque innegabile che per molto altro quello di Gadducci, Gori e Lama sia un lavoro utile e importante per la storia del fumetto in Italia; insomma, che meriti di essere letto e guardato.
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INTERVISTA A CAMILLO LANGONE
«Bengodi, i piaceri dell’autarchia» a cura di ANNARITA CURCIO IN UNA epoca di globalizzazione e crescente appiattimento culturale, rinverdire una parola tristemente impopolare come autarchia equivale a una coraggiosa operazione di «recupero archeologico» che merita una riflessione. Nel suo nuovo libro Bengodi, i piaceri dell’autarchia (Marsilio, 2011) il giornalista e scrittore Camillo Langone invita saggiamente il lettore a riconsiderare le proprie radici culturali, e di farlo a partire da un’esperienza dei sensi prima ancora che celebrale: così la mortadella di Campotosto, il sigaro toscano, il tabarro emiliano, diventano simboli di uno stile di vita che dona a chi lo adotta piacere garantito e identità. Di questo ne parliamo con l’autore... Caro Langone, nell’introduzione lei afferma perentoriamente di non essere interessato alla Tradizione, eppure in molte pagine del suo libro lei fa riferimento agli stemmi araldici della tradizione italiana? Come mai autarchia sì e tradizione no? «Perché tradizione è parola usurata. Come scrivo nel libro, quando mi dicono che in un locale fanno cucina tradizionale subito sospetto la trattoriaccia sporca dove primi e secondi sono pieni di sale e i dolci di zucchero, insomma cibo pesante e camerieri con padelle sulla camicia bianca. E a me non interessano le cose di ieri che non hanno un domani, non sono un necrofilo. L’autarchia invece è un concetto che mi piace, almeno per come lo intendo io: autonomia innanzitutto culturale. Al proposito un mio riferimento è René Girard secondo il quale “la preferenza che le culture hanno per se stesse dev’essere mantenuta a ogni costo. Essa coincide con l’identità, l’autonomia, l’esistenza medesima di tali culture”.» Credo sia giudizio pressoché unanime quello secondo cui gli
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Italiani sono affetti da crisi identitaria, dimenticano con precipitoso zelo ogni cosa riguardi in positivo il loro Paese, viceversa, se c’è da criticarlo non si risparmiano. Ecco, il cibo e il vino, espressioni di quella dieta mediterranea che l’Unesco considera patrimonio dell’Umanità, possono essere antidoti contro lo smarrimento culturale e l’esterofilia dilagante? Se sì, come? «Non credo sia così unanime questo giudizio, altrimenti non mi sentirei così solo. Bengodi non ha vasti programmi, l’Umanità con la U maiuscola non fa parte del suo orizzonte, è un libro elitista che si rivolge a pochi. Io non mi propongo di spegnere la sete di autodistruzione che anima i miei connazionali: ho un forte senso dei limiti. Mi basterebbe salvare alcuni prodotti, alcuni produttori, alcuni consumatori.» La lunga sequenza di piaceri e prelibatezze che lei illustra con tocco sapiente è contrappuntata da pagine dedicate alla «peste»; cos’è dunque questa peste di cui parla? «Forse è la peste boccacciana che spinge un piccolo gruppo di privilegiati ad appartarsi in un luogo ameno, trascorrendo liete giornate. Lontani quindi da kebab e birre in lattina, da cuscus e barrique.» Sulle pagine de «Il Foglio», lei ha creato la figura del critico liturgico. Può spiegarci cosa intende con questa definizione? «È colui che analizza e valuta le messe. Prima di me, prima delle mie pagine sul Foglio e del mio libro con Mondadori, non lo aveva fatto nessuno. E questo dovrebbe far riflettere: se “l’Eucaristia è fonte e culmine della vita cristiana” allora è naturale aspettarsi che ven-
ga celebrata con grande attenzione, dando importanza a ogni dettaglio. E invece nelle chiese italiane regnano sciatteria, casualità, improvvisazione che minano non la validità, che resta fuori discussione, bensì l’efficacia del sacramento, la sua capacità di conversione.» Navigando attraverso «Internet», abbiamo notato che il suo libro non ha sempre ricevuto commenti lusinghieri; nasce il sospetto che questa parziale stroncatura esuli dai contenuti del suo lavoro e abbia origine in una faziosità di tipo politico. Che ne pensa? «Spesso su Internet tutti parlano male di tutti, quindi non c’è bisogno di essere cattolici o di destra per essere stroncati. Però certamente aiuta.» Ringraziamo Camillo Langone per averci dedicato un po’ del suo tempo, e consigliamo la lettura di Bengodi, i piaceri dell’autarchia, una guida intelligente per scoprire i più nascosti e negletti piaceri nostrani.
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Librido a cura di MARIO BERNARDI GUARDI Cristiana Dobner Il volto. Principio di interiorità. Edith Stein, Hetty Hillesum (Prefazione di Lucetta Scaraffia) Marietti, 1820, pp. 93, euro 14 Lina Bolzoni Il cuore di cristallo. Ragionamenti d’amore, poesia e ritratto nel Rinascimento Einaudi, pp. 375, euro 34 Flavio Caroli Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud Electa, pp. 296, euro 19,90 STUDIOSA della cultura «al femminile» del ‘900, teologa, traduttrice, Cristiana Dobner è suora dell’Ordine delle Carmelitane Scalze e vive nel Monastero di Santa Maria del Monte a Concenedo di Barzio (Lecco). È forse per questo che, accostandosi ad avventure/eventi dello spirito, che hanno come protagoniste delle donne, rivela una sensibilità tutta speciale. Fatta di «attenzione» per usare un termine caro all’indimenticabile Cristina Campo - ed attitudine a un silenzio che «parla». È con tale stile dell’intelligenza e del cuore che la Dobner «legge» i volti di Edith Stein ed Etty Hillesum, unite in un tragico destino di morte ad Auschwitz, facendo i conti con queste esperienze interiori così intense. Percorsi e approdi esistenziali che bruciano in pochi anni di «studio matto e disperatissimo» e che oggi ci si offrono in luminosa esemplarità, grazie a quanto Edith ed Etty hanno scritto, certo, ma anche a quel che «è riflesso» nei volti, negli sguardi, nei sorrisi. Etty (1914-1943) nasce in Olanda in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica. Non è osservante, ma è attratta dalle tematiche religiose. E da autori come Rilke, Dostoevskij, Jung cui davvero non è estraneo lo scavo nelle più impervie contrade della conoscenza. Ed è percorrendole che lei incontra - un «appuntamento» fatale? un originale psicanalista chirologo, Julius Spier, anch’egli ebreo, ma attratto anche da itinerari dello spirito lontani dalla Torah. Sarà proprio Spier a guidare la giovane donna «in un viaggio interiore alla
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IL BORGHESE scoperta del suo vero volto», dunque verso una vita ricca di significato, grazie alla visione di Dio, all’accettazione del dolore, all’amore per il prossimo. Alla vigilia della morte, questa consapevolezza diventa ancor più radicata, come ben testimoniano il Diario 1941-1943 (Adelphi, 1985) e le Lettere 1942-1943 (Adelphi, 1990). Leggiamo, ad esempio: «Non possono farci niente, non possono veramente farci niente»; «La vita è difficile, ma non grave»; «Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra». L’«epifania del divino», che in Etty è volta al recupero dell’identità ebraica, anche se aperta a mille sollecitazioni spirituali, diventa in Edith (1891-1943) piena, maturata conversione di tutta se stessa al Cristo, al punto che la Stein, polacca, proveniente da una famiglia ebraica ortodossa, promettente allieva di Husserl, femminista, impegnata nel politico e nel sociale, nel 1934 entra in un convento carmelitano col nome di Teresa Benedetta della Croce. È una ebrea cristiana ed una suora: non si traveste, non rinnega, non fugge, ma accetta il suo destino. Una testimonianza umana e spirituale davvero straordinaria, la sua. Tanto è vero che Edith (le sue opere sono pubblicata da «Città Nuova») viene beatificata da Giovanni Paolo II nel 1987 e dal 1999 figura come compatrona d’Europa insieme a Santa Caterina da Siena e a Santa Brigida di Svezia. Due mistiche di alta levatura intellettuale e spirituale, dunque, di fronte alle quali - indipendentemente da ogni personale «equazione interiore» - siamo chiamati ad esercizi di ammirazione. Più che mai la Dobner ci sollecita a farlo attraverso le testimonianze di chi le conobbe e ha conservato nell’archivio della memoria tracce di incontri ed echi di conversazione, certo, ma anche «immagini»: volti, sguardi, sorrisi che parlavano come e più delle parole per confortare e consolare. Ma si conobbero Etty ed Edith? Sappiamo che si incontrarono nel campo olandese di Westerbork, prima di essere avviate ad Auschwitz. Etty, infatti, narra dell’arrivo di due monache «nate da una famiglia ebrea, ricca e colta, di Breslau», Edith e la sorella Rosa. Ma, scrive la Scaraffia, «non sapremo mai cosa si sono dette, non potremo mai assistere allo scambio di sguardi». Certamente si sono «riconosciute» e si sono rivelate l’una all’altra, proprio grazie al fatto di guar-
73 darsi in quel momento cruciale. Insomma, i volti hanno parlato. E la conversazione, qualunque ne sia stata la durata, è stata intensa, per il fecondo intrecciarsi degli sguardi. Nel De oratore Cicerone, a proposito di questa «comunicazione», ben sentenzia: «Dall’animo parte ogni nostra azione ed il volto è l’immagine dell’animo, così come gli occhi ne sono i messaggeri». «Voi che per gli occhi mi passaste il core/ e destaste la mente che dormía,/ guardate a l’angosciosa vita mia/ che sospirando la distrugge Amore», implora l’inquieto Guido Cavalcanti. È invece appagato lo spirito di Dante che trasale di ineffabile gioia dinnanzi al volto, agli occhi, al sorriso di Beatrice, irradianti una luce che è preannuncio di beatitudine celeste. Gli occhi specchio dell’anima, finestra aperta sui segreti del cuore. Il cuore di cristallo trae la sua prima suggestione e dunque l’occasione del titolo dal Canzoniere petrarchesco: «Certo cristallo o vetro/ non mostrò mai di fore/ nascosto altro colore,/ che l’alma sconsolata assai non mostri/ più chiari i pensier nostri». E Pietro Bembo, autore degli Asolani, che sono punto di partenza ed elemento connettivo del saggio, così si esprime: «Avess’io almen d’un bel cristallo il core,/ che, quel ch’io taccio e Madonna non vede/ dell’interno mio mal, senza altra fede,/ a’ suoi begli occhi tralucesse fore». Quando, e quanto vogliono rivelare, oppure nascondere o variamente «significare», le espressioni di un volto? Già quel «rivelare» è ambiguo: perché può valere come «svelare», dunque togliere il velo, oppure velare un’altra volta, aggiungendo un’aura di mistero a ciò che, finalmente, dovrebbe palesarsi. E dunque inevitabile chiedersi che cosa vogliano davvero «comunicare» ritratti o autoritratti illustri. Perché c’è qualcosa che si vuol dire, qualcosa a cui si allude e qualcosa che si vuol celare. Pensiamo a quanti «volti» ci dà di sé ogni autore - scrittore, pittore ecc. -, alla pluralità dei punti di vista di chi legge, vede, interpreta. Da una parte, il bisogno trasparenza, dall’altra, l’ineluttabilità della maschera. E lo specchio «che cosa» riflette? Non è forse da sempre un oggetto magico che afferra e moltiplica in mille modi la nostra identità? E quanti dèi e quanti dèmoni lo abitano? Nel «cuore di cristallo» lo sguardo dovrebbe penetrare senza ostacoli: ma
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74 l’esteriorità e l’interiorità, il linguaggio e i sentimenti, ciò che vogliamo ricevere e ciò che intendiamo offrire, creano un vortice di prospettive. L’Io e l’Altro sono entrambi una trama vastissima di segni e di sensi: ogni cerca è un azzardo. È soltanto in Paradiso che Dante vede e può specchiarsi nel Vero. Di questa umana complessità l’arte rinascimentale dà testimonianza anche attraverso quei «ritratti doppi» che associavano alla rappresentazione del volto anche un’altra immagine (un emblema, un’allegoria ad esempio), magari dipinta sul retro oppure su un supporto, variamente denominato («coperchio», «rovescio», «timpano» ecc.). «Indagando» in molti e molteplici «ritratti doppi», dalla pittura (Piero della Francesca, Leonardo, Raffaello, Tiziano) alla letteratura (Baldesàr Castiglione, Ludovico Ariosto, Pietro Bembo), Lina Bolzoni torna a chiedersi con quanti volti abbiamo a che fare e quante «letture» sono possibili. Insomma, l’interrogativo «ma quest’uomo, questa donna, ‘chi’ è davvero?» si ripropone da sempre. E, ad esempio, dinnanzi alla «Gioconda» subito presenta una natura «abissale». «Chi» vediamo? «Soltanto» Monna Lisa? Monna Lisa come archetipo, androgino originario, idea platonica? Monna Lisa-Leonardo che parla attraverso uno sguardo e un sorriso provenienti da un Altrove che pure abita in noi? Tuttavia l’Altrove - illuminato dalla Sapienza - intriga anche la Scienza. Del Volto, dell’Arte, dell’Io. Vi si inoltra Flavio Caroli lungo le sequenze di un coltissimo «viaggio» che, dopo l’esordio del 1995, torna in libreria: Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud (Electa, pp. 296, euro 19,90). Ebbene è proprio Leonardo, col suo Trattato sulla fisiognomica ad anticipare idee che troveranno sviluppo nella psicologia e nella psicanalisi e che le avanguardie del Novecento, con i loro incessanti scavi nell’Io, nei volti, nelle maschere, nell’invenzione creativa, nella memoria, nel sogno ecc., trasformeranno in «manifesti» e in «bandiere». Una storia affascinante, tra immagini ed idee, quella che ci racconta Caroli, investigando nei trattati di Cardano e Della Porta, nelle riflessioni di Montaigne e Cartesio, nei saggi di Freud. E «guardando» insieme a noi le immagini di Caravaggio e Rubens, Géricault e Van Gogh, Pollock e Bacon per capirne e carpirne tutti i fascinosi, inquietanti misteri.
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I LIBRI del «BORGHESE» Marine Le Pen Controcorrente Pagine Editore, pagg. 230, €18 IL TITOLO interpreta perfettamente l’intento dell’autrice di illustrare il suo vincente programma politico come candidata alle prossime elezioni presidenziali francesi di aprile e maggio. Marine Le Pen europarlamentare e leader del Front National, donna semplice, comunicativa e candidata accattivante racconta con ritmo serrato l’autobiografia di una vita privata e politica controcorrente. La coinvolgente lettura non concede nulla al pettegolezzo pur rivelando con lucidità alcuni centrali e dolorosi episodi della sua vita familiare che hanno inevitabilmente influenzato le idee politiche e personali della giovane Marine, già consapevole testimone che «in politica non c’è coraggio, volontà, ambizione che non si incarnino nella perseveranza». Nella prima parte del libro l’autrice, cresciuta a pane e politica racconta tra flussi di memoria e attualità la sua storia, quella del Fronte Nazionale, l’eredità politica ed umana trasmessa dal padre. Nella seconda parte chiarisce nel dettaglio il suo programma politico. Muove dall’idea di Stato nazionale in contrapposizione alla mondializzazione della sinistra internazionalista, illustra la sua idea di completa ridefi-
Aprile 2012 nizione dell’Unione Europea che ha avuto ragione sul Franco, sulle frontiere e sulla sovranità popolare, nei termini di una unione sovranazionale forte, autonoma, costituita da Stati nazionali sovrani non sottomessi a banchieri, speculatori e lobby. Affronta il problema delle politiche di governance dell’immigrazione, per contribuire a ricreare condizioni di sviluppo economico nei luoghi di origine degli immigrati, tema caldo per il Front National che in campagna elettorale sta raccogliendo ampi consensi. Ed infine illustra il suo rinnovato Front National, futura forza nazionale e repubblicana con la missione di far risorgere la Francia che definisce la «casa comune» dei Francesi. Il testo, facendo luce sulla genesi, l’evoluzione e gli obiettivi del Fronte Nazionale racconta con emozione alcune tra le più note battaglie combattute dallo storico partito contro le calunnie di razzismo, antisemitismo e di fascismo manipolate dai mezzi di comunicazione e dagli avversari politici, tutt’oggi oggetto di strumentalizzazioni propagandistiche. Nell’attuale campagna elettorale sembra ripetersi lo scenario del 2002 con il padre Jean Marie e il suo Front National giunto fino al secondo turno elettorale, efficacemente descritto dalla figlia nel capitolo intitolato «2002». Con Marine Le Pen oggi in testa nei sondaggi, potrebbe essere Sarkozy la destra moderata ad essere scalzati, nonostante una campagna elettorale, con lo slogan tormentone «la Franceforte», dai toni molto accesi, volta a recuperare consensi e a sottrarre scorrettamente, come di consueto voti dell’estrema destra, facendo propri i temi e le iniziative del partito di Le Pen. Il libro del neopresidente del FN seduce il lettore realizzando nel testo ciò che avviene nell’esperienza personale dei Le Pen, intreccia indissolubilmente la vita quotidiana della famiglia con la vita politica, la parentela intellettuale con quella personale e così la cerchia politica diviene cerchia familiare. «Naturalmente capisco, anche se mi fa male che qualcuno lo detesti. Ma credetelo o no, Jean Marie Le Pen è un patriota viscerale per cui la Francia è al di sopra di tutto e per questo egli è ai miei occhi un uomo di Stato. «Marine Le Pen.» AGATA FUSO
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I nuovi pirati del Terzo millennio di DOMENICO BONVEGNA L’EPISODIO che vede coinvolti i due marò italiani del San Marco accusati dal governo indiano di aver ucciso due pescatori, mi ha sollecitato a leggere un libro dal titolo I Nuovi Pirati. La Pirateria del terzo millennio in Africa, Asia e America latina, edito da Mursia nel 2009, scritto da Raffaele Cazzola Hofmann. Proprio su questo tema ieri chiacchierando con i miei ragazzini a scuola dicevo, «sono ritornati i pirati», e così la storia si ripete, anche se oggi il contesto politico ed economico della pirateria contemporanea sia ben diverso da quello dei secoli passati. Il libro è ben documentato, ricco di fonti interessanti. Per leggerlo è necessario avere a portata di mano un buon atlante geografico, proprio perché gli scenari delle scorribande della nuova pirateria toccano tutti i continenti della terra: dalle coste dell’Africa orientale (il Golfo di Aden), a quelle occidentali intorno alla Nigeria, dall’Oceano Indiano al Mare Cinese Meridionale delle stretto di Malacca, all’America Latina. Rispetto all’epoca dei leggendari corsari, «il fine è sempre lo stesso: predare una nave, prendersi il ‘bottino’ e sequestrare l’equipaggio in modo di utilizzarlo come merce di scambio». Per Cazzola però i pirati di oggi non assomigliano per niente a quelli di ieri: «non ci sono nomi di capibanda noti e altisonanti». Nel Seicento e nel Settecento i pirati rispettavano certe regole e gerarchie interne. I nuovi briganti del mare non si fanno tanti scrupoli. Nel saggio emerge con evidenza come la pirateria sia oggi parte di una rete criminale ben organizzata, dotata delle più moderne e sofisticate tecnologie, che prolifica e cresce dove l’instabilità politica «a terra» è massima, il caso della Somalia è evidente. Yacht privati, pescherecci, petroliere e soprattutto mercantili. I pirati sequestrano ogni tipo di nave chiedendo riscatti milionari, costringendo le grandi compagnie marittime mondiali a rivedere le rotte, facendo salire alle stelle i premi assicurativi e destabilizzando i traffici commerciali via mare, a partire da quelli del petrolio a cavallo
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tra Asia ed Europa. Il fenomeno della pirateria è iniziato negli anni ‘80 del secolo scorso, da allora è cresciuto in maniera impetuosa. Intanto è un fenomeno che non si può circoscrivere soltanto al Corno d’Africa, anche se qui forse si riscontra quello più evidente. Il fenomeno ha rilevanza mondiale. «Elencare tutti i sequestri avvenuti negli ultimi otto anni è, per forza di cose, impossibile». I motivi secondo Cazzola sono duplici: primo, la stampa praticamente ha ignorato il fenomeno, infatti da quello che ho potuto osservare i testi che affrontano l’argomento sono abbastanza esigui. «Al di là di alcuni clamorosi sequestri, le agenzie di stampa, i giornali e la televisione hanno sottovalutato un fenomeno tanto diffuso in alcune regioni (soprattutto in Asia e in Africa) quanto rimasto per lungo tempo sottotraccia». Il secondo aspetto è di natura politica: infatti «il Paese più infestato dalla pirateria, la Somalia, si trova da quasi vent’anni nel caos e di fatto non ha un governo». Ma nonostante queste difficoltà secondo Cazzola oggi disponiamo di notevoli informazioni sul fenomeno della pirateria. La fonte più utile è rappresentata dall’IMO, International Maritime Organization, il suo prezioso lavoro documentato è cominciato nel 1984. Oggi i dati aggiornati con cadenza mensile e annuale dall’IMO sono i più precisi, grazie anche alle segnalazioni inoltrate dai governi, dalle autorità portuali, dai comandanti delle navi e dagli armatori. Pertanto secondo l’IMO, dovrebbero essere circa 4.730 gli atti di pirateria registrati nel mondo fino al settembre del 2008. Nel solo 2007 gli atti di pirateria sono stati ben 282, un impressionante aumento rispetto all’anno precedente del 14 per cento. «Particolarmente bersagliate le navi commerciali». Certo gli attacchi non sempre vanno in porto, un quarto vanno a vuoto. I Nuovi Pirati, fornisce numeri dettagliati delle varie scorribande dei pirati. Per quanto riguarda la pirateria nel Corno d’Africa, «il fattore più impressionante è la percentuale di successo ottenuta dai filibustieri nei loro ten-
75 tativi di sequestro (…) in settembre, su tredici abbordaggi effettuati, ben nove sono andati a segno. E tutte le volte, oltre alla nave, sono rimasti nelle mani dei pirati anche i membri degli equipaggi». Gli osservatori che analizzano questo fenomeno hanno sottolineato la spregiudicatezza dei pirati in questa regione del mondo. «Una volta rapiti, gli ostaggi spariscono, come avvolti nella fitta nebbia, nei molti porti somali in cui si trovano le basi logistiche dei pirati e in cui questi possono contare su connivenze a tutti i livelli». Il libro documenta come i pirati, in particolare quelli somali, con sofisticate tecniche di abbordaggio riescono a conquistare le grosse navi che passano lungo le coste davanti alla Somalia. È interessante capire la loro tecnica perché forse si riesce a comprendere quello che è potuto succedere intorno alla nave Enrica Lexie, dove i due nostri militari probabilmente hanno dovuto sventare un assalto alla nave. «Utilizzando un peschereccio, cioè la migliore copertura possibile in un tratto di mare costantemente frequentato a ogni ora del giorno e della notte da decina di migliaia di pescatori, i pirati presidiano l’ampissimo ingresso del Golfo di Aden. Una volta avvistata la potenziale preda, non entrano subito in azione. Prima la scrutano, studiandone la struttura e cercando di capire quanto essa sia protetta e quale sia la consistenza numerica del suo equipaggio. Se l’imbarcazione viene considerata appetibile, i pirati continuano a spacciarsi per pescatori. È una mossa diversiva, questa, più necessaria che mai nell’attuale clima di massima allerta presente su ogni nave che debba passare il Golfo di Aden. A questo punto tutto è pronto per l’assalto. Dal peschereccio, che funge da vera e propria ‘nave madre’, partono delle piccole e veloci imbarcazioni. Con esse i pirati, armi in pugno, attaccano il loro obiettivo». La battaglia contro la pirateria è lontana dall’essere vinta. Eppure grazie al dibattito apertosi negli ambienti sia politici che militari, oggi le prospettive sono migliori rispetto al recente passato: la pirateria è un fenomeno uscito dall’ombra e ormai stabilmente al centro dell’agenda mondiale. Infine nel libro sono state raccolte le testimonianze dei capitani di vascello Giorgio Gomma e Fabrizio Simoncini, che hanno comandato rispettivamente l’Etna e il Luigi Durand de la Penne in missione antipirateria al largo della Somalia. domenicobonvegna@alice.it
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SCHEDE Hans Blumenberg e Carl Schmitt L’enigma della modernità Laterza, 2012 – pag. 236 - € 20,00 La speculazione filosofica è come un duello rusticano. Gli avversari non si risparmiano fendenti e affondi. Ma in un contesto di civiltà e di rispetto delle idee altrui. La battaglia culturale è anche questo. Hans Blumenberg e Carl Schmitt sono stati nel Novecento due studiosi posizionati su fronti contrapposti. Uno sostenitore della modernità e l’altro critico e «alieno da ogni ingenua retorica progressista». Si sfidarono sul piano scientifico. Il prezioso saggio della Laterza L’enigma della modernità (pp. 224, euro 20) raccoglie documenti e una fitta corrispondenza avvenuta tra il 1971 e il 1978 tra i due intellettuali. Accanto ad una accesa disputa sul significato di «secolarizzazione» «non va intesa come un semplice processo di dissoluzione della religione tradizionale, bensì come una trasformazione della gerarchia dei valori in diverse ideologie istituzionali, che consolidano comunque soltanto la fatticità delle connessioni effettuali, proprie delle istituzioni», scrive il filosofo di Lubecca - è la modernità a dividere i due protagonisti. Per Schmitt, che confuta Weber come Goethe, diventa «per noi inevitabile gettare uno sguardo sul destino del concetto di nemico in una nuova realtà conseguentemente deteologizzata e soltanto umana». E giunge così a tratteggiare il confine dell’uomo nuovo moderno, «che supera il vecchio attraverso lo scientificamentetecnicamente-industrialmente nuovo», in un processo nel quale tutto ciò che è legato al passato è «ignorato in quanto non valorizzabile». Oltre la disputa teoretica, resta una illuminante riflessione di Blumenberg, che rompe gli steccati dell’ideologia e della bassa drammaturgia faziosa per spiegare come e perché ha ritenuto il reprobo giurista vicino al nazionalsocialismo Carl Schmitt, passato indenne attraverso il processo di Norimberga, un interlocutore indispensabile in un confronto sul tema della modernità. Alla lettera piena di obiezioni del filosofo viennese Jacob Taubes, Blumenberg replicò con argomenti che non lasciavano spazio ad equivoci di sorta: «…devo fare una osservazione sul
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IL BORGHESE modo con cui Lei ha introdotto il nome di Carl Schmitt, inserendolo nella contrapposizione schematica di destra e sinistra. Io ammetto a ciascuno il diritto di evitare il contatto personale con qualcun altro e di serbargli rancore a vita per quello che ha detto o fatto. Ma includere o vedere incluso questo atteggiamento nella messinscena pubblica o semipubblica di sé mi disgusta quanto i censori morali che tengono le loro udienze per ogni dove, riappendono i cartellini e riassegnano posti lungo l’asse da destra a sinistra, con cui poi si potrà decidere chi verrà ancora preso e chi no sulla grande giostra. (…) Io non ho mai avuto simpatia personale o effettiva per Martin Heidegger, però mi rivolto contro i nuovi censori. Con ciò La vorrei informare (…) che nel 1971 ho cercato e ottenuto il contatto con Carl Schmitt. Su questo in seguito ci sarà molto di più da dire». Il pluralismo europeo delle idee, sempre messo in discussione da nuovi giacobinismi, trova un forte sostegno e nobili fondamenta anche nel coraggio intellettuale di studiosi come Blumenberg MICHELE DE FEUDIS Giorgio Ballario Le rose di Axum Hobby & Work, 2012 pag. 234 - € 18,00 Giorgio Ballario è autore che si legge con piacere per la sostanza della sua scrittura e la corposità dei suoi personaggi. Il principale di questi è il maggiore dei Reali Carabinieri Aldo Morosini, già protagonista di Una donna di troppo e di Morire è un attimo ed ora di Le rose di Axum. Ufficiale che opera nell’Africa Orientale Italiana alla vigilia e durante la guerra di Etiopia in una ambientazione particolarmente accurata sia da un punto di vista geografico, naturalistico, artistico che sociale con una descrizione assai vivace del turbinio di idealisti e avventurieri che nell’avventura di questa sorta di Far West italiano aveva voluto impegnarsi. Morosini è carabiniere anomalo, non particolarmente amato dall’Arma, accompagnato dal ricordo doloroso della scomparsa del padre disperso durante la prima guerra mondiale,affascinato dalla lettura di Seneca che porta nel suo tascapane e su cui riflette quotidianamente ma sensibile alla bellezza femminile, non indifferente a un buon bicchiere di vino e a un buon piatto come disponibile a frequentare le ragazze di madame Chantal.
Aprile 2012 Il tutto,sempre, con un certo distacco psicologico ponendo la propria dignità (intima, sostanziale) al centro del proprio vivere. Accanto a lui agiscono i fidi collaboratori: il maresciallo Eusebio Barbagallo, fedele e sicuro, e lo scium-basci Tesfaghi silenzioso e accurato sottufficiale eritreo. In particolare mi sembra vada sottolineata la figura di quest’ultimo, ritratto con forte empatia dall’autore che ne esplicita i valori morali. Del resto il Maggiore Morosini è sempre molto partecipe nei confronti degli indigeni convinto del ruolo di civilizzazione dell’Italia. E, non a caso, apprende con piacere della norma di abrogazione della schiavitù per le genti abissine. In quest’ ultimo romanzo, in libreria da fine febbraio, Ballario si misura con una trama complessa (eccellente per una trasposizione cinematografica) in cui alle indagini si intrecciano la vicenda di una missione archeologica tedesca organizzata dalla Ahnenerbe e dalla Thule Gesellschaft, il mitico regno di Axum, le tensioni all’interno della chiesa copta. E poi c’è la ricercata ambientazione precisa, puntuale, ricca di particolari e realisticamente vivacizzata dalla presenza di personaggi storici (Marinetti, Hugo Pratt, Amedeo Guillet) e raccordata con riferimenti specifici (una recensione de Il Corriere padano sul testo di Evola, Rivolta contro il mondo moderno) che affascina il lettore. MAURIZIO BERGONZINI Mario Giordano Sanguisughe Mondadori, 2011 Pag. 168 - € 18,50 Basito. Indignato. Sconvolto. Soltanto questo può essere lo stato d’animo del lettore dopo aver letto, tutto d’un fiato, l’ultimo libro di Mario Giordano, Sanguisughe. L’ex direttore de Il Giornale è riuscito a spiegare agli Italiani uno dei più grossi scandali del nostro Paese: la previdenza. La spesa pensionistica è uno dei più rilevanti capitoli della nostra spesa pubblica, circa duecentocinquanta miliardi di euro all’anno. La pensione, dopo aver lavorato una vita, è un diritto sacrosanto ma nel nostro Paese ci sono persone che percepiscono un vitalizio avendo lavorato un solo giorno in vita loro. Ci sono mafiosi che la prendono e c’è chi addirittura l’ha maturata alla veneranda età di ventinove anni e chi ne prende quattro cosiddette d’oro tutte insieme. Cosa oggi non va nella previdenza
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Aprile 2012 italiana? La spesa totale e i beneficiari. La spesa totale potrebbe ridursi sensibilmente con risparmi per l’erario e, di conseguenza, un alleggerimento della pressione fiscale, mostruosa, che stimolerebbe la crescita economica. Il sistema pensionistico italiano è una giungla. Quasi ogni categoria ha un suo sistema previdenziale, con meccanismi, modalità di calcolo e requisiti di maturazione che rasentano l’assurdo e che non rispondono ai più elementari princìpi di ragioneria e contabilità e, quindi, insostenibili finanziariamente. Alla fine, a coprire il disavanzo pensa Pantalone, cioè noi con le tasse. Per una sana concezione economica la pensione dovrebbe essere la restituzione dei contributi previdenziali, con i dovuti interessi, che un lavoratore ha versato durante tutta la sua vita lavorativa. Tale sistema è denominato contributivo ma, purtroppo, in Italia non è esteso a tutti. Prima della riforma Dini, avvenuta nel 1995, la previdenza nel nostro Paese era basata sul sistema retributivo. La pensione di un lavoratore era calcolata sull’importo dell’ultimo stipendio e veniva, di fatto, pagata dai contributi dei lavoratori ancora in attività. Ricordiamo nel passato prossimo le scandalose «baby pensioni» di persone che grazie a scivoli, abbuoni e quant’altro sono andate a riposo alla tenera età di quarant’anni, con conseguenze disastrose per il bilancio dello Stato ma vantaggiose per i partiti che le hanno votate in Parlamento, che, così, si sono ingraziati diverse fasce dell’elettorato. Questo sistema ha retto fino ad un certo punto. Non c’è bisogno di essere Andrea Monorchio, per comprendere che l’allungamento della aspettativa di vita sia del tutto incompatibile con un tale sistema previdenziale; ma in Italia i sindacati si sono sempre opposti ad una revisione della previdenza, anche a costo di penalizzare i giovani che rischiano di non avere mai un assegno di quiescenza. Memorabile resta la manifestazione di protesta nei confronti del primo governo Berlusconi, che nel 1994 cercò di riformare il sistema. Nel 1995 l’esecutivo Dini riuscì a compiere una prima organica riforma, introducendo il sistema contributivo e misto come regime transitorio. Nel saggio di Giordano vi sono una carrellata scandalosa di esempi di gente che percepisce una pensione dopo pochissimi anni di lavoro, una su tutte la moglie di Umberto Bossi che, da insegnante, è andata in pensione giovanissima o chi ne incassa addirittura tre, come Giuliano Amato, o chi prende un assegno da
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IL BORGHESE 90.000 euro lordi al mese come Mauro Sentinelli, alto dirigente di Telecom. L’inchiesta di Giordano è scrupolosa e ben documentata ma, soprattutto, è bipartisan. Ci sono, infatti, esempi di pensioni d’oro sia a destra sia a sinistra: quando si tratta di scialare con il denaro dei contribuenti le barriere ideologiche si dissolvono rapidamente. Certi scandali sono stati resi possibili grazie ai contributi figurativi, cioè a carico dello Stato, ai ricongiungimenti a condizioni ridicole e, infine, ad una selva di sistemi previdenziali che non hanno eguali al mondo. Soltanto il sistema contributivo esteso a tutti può mettere ordine nella spesa previdenziale, assicurare una pensione ai giovani di oggi, dare una pensione dignitosa ai veri invalidi, alla povera gente che vive nella miseria, in condizioni non degne del settimo Paese più industrializzato del mondo. ALDO LIGABÒ Dante Maffia San Bettino Craxi ed altri racconti EdiLet, 2011 Pag. 300 - € 14,00 Dante Maffia ha le tasche, la mente, il cuore, le scarpe, i calzini sovraccarichi di umanità reattiva. Ogni situazione lo coinvolge emozionalmente e, quindi, intellettualmente, e gli spungono aculei, invettive, mestizie nere, tetraggini, sbandamenti. Ho scritto: Dante Maffia, preciso, Dante Maffia come inventore del personaggio Leonida, dunque Leonida, attore de San Bettino Craxi e altri racconti». Leonida è un calabrese, ma non vive in Calabria, evento sismico, giacché si trova fuori posto, irregolare, certo, non soltanto perché «emigrante», ma, ne so qualcosa, non svaluterei il dissestamento dai luoghi nativi. Non dimentico, di Maffia, la narrazione, in passato, di un calabrese in Lombardia, il quale vagheggia, e impazzisce, nel sogno di tornare in Calabria e viene abbandonato dalla famiglia; ora tanti episodi, fatterelli, spunti, ma così aspri, pazzoidi, di scorcio, che si accostano alle anomalie dei personaggi di Luigi Pirandello, ma dico per dire, Maffia ha un linguaggio apparentemente trasandato, uno scrivere come viene, assolutamente efficace, ne montano figurine di personaggi, la moglie inesorabilmente micragnosa, le figlie dominanti e amate per questo amoroso schiavismo su Leonida, l’immigrato insopportabile dal vigile, il venditore ladro contro il quale Leonida scaraventa la sua «calabresità» malandrina, porta con sé coltello e pistola, la
77 nostalgia dei vecchi oggetti di cantina da buttare, lo smarrimento visionario di un viaggio e di una strage all’aeroporto, e tante discussioni, non per niente Leonida è della Magna Grecia, la sofistica gli fa da crosta, una «temperamentalità» di scontento, irregolare, assetato di vita, odiatore idiosincratico, concupiscente satiro, uno che vive come sente, insomma: un personaggio, con tanti personaggi, tutti vivi, giacché Dante Maffia ha questa capacità, di rendere con la parola la vita, con felice spontaneità. La prefazione di Alberto Bevilacqua è come una esauriente recensione. ANTONIO SACCÀ «Catholica. Revue de réflexion politique et religieuse» - n. 113 Parigi ottobre-dicembre 2011 18 rue Anatole France, F- 37540 Saint Cyr sur Loire http://www.catholica.fr pp. 142 - € 12,00 L’ultimo numero della rivista francese Catholica, diretta da Bernard Dumont e pubblicata con il contributo del «Centre national du livre» (maggiore istituzione culturale francese, che succede - dal 1993 - al famoso «Centre national des lettres»), s’inserisce nel dibattito in corso nel mondo cattolico dedicando un intero dossier al tema «Come interpretare il Concilio Vaticano II». Lo fa proprio a partire dall’editoriale che apre il fascicolo, firmato dal prof. Dumont, noto intellettuale cattolico, già fra i collaboratori di molte riviste europee di destra come ad esempio Instaurare, nonché curatore delle traduzioni in francese delle principali opere di Augusto Del Noce (cfr. L’époque de la sécularisation, L’irréligion occidentale, Del Noce interprète du XXe siècle). Nel suo articolo, intitolato «Rottura-Riforma-Rinnovamento», Dumont ricorda come nell’enciclica «Fides et Ratio», pubblicata il 14 settembre 1998, Giovanni Paolo II affrontò vari problemi di ordine filosofico individuati come causa di una società caduta nello sbandamento, proprio a causa del travisamento post-conciliare. Infatti, due atteggiamenti nello studio della materia legata al Concilio hanno prevalso, l’eclettismo e lo storicismo. Se il primo in quanto fusione di più elementi rappresenta un errore di metodo mescolando più derivati di differenti filosofie, il secondo finisce per stabilire una verità filosofica a partire dal suo
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78 proprio adeguamento ad un periodo determinato. Segue un articolo di Miguel Gambra sull’analogia storica, con il discorso del 22 dicembre 2005 di Benedetto XVI, riguardante l’ermeneutica della «riforma nella continuità», operata dal Concilio, soprattutto nei rapporti fra Stato e Chiesa, e due saggi di taglio filosofico come quelli di Laurent Jestin, relativo ai rapporti fra le teorie del Concilio Vaticano II ed i modelli di recepimento della teoria protestante (Les perplexités de Karl Barth) e di Inger Enkvist sulla crisi educativa dilagante nel mondo occidentale, sulle cause generatrici il disagio delle istituzioni educative ed il rapporto con i giovani (Le collapsus éducatif). Da segnalare, infine, all’interno della rivista, l’intervista dello storico Giuseppe Parlato sulla situazione dell’Italia, compreso il mondo cattolico, all’indomani della seconda guerra mondiale. Nella stessa il presidente della «Fondazione Spirito/De Felice» si sofferma sulla figura di mons. Roberto Ronca, rettore del seminario lateranense fra il 1931 ed il 1948 e successivamente Prelato di Pompei. La vicenda ecclesiale di questo vescovo romano, infatti, argomenta Parlato, offre anche una nuova luce sulla storia delle «correnti» che si affrontarono poi al Concilio. Su disposizione del Cardinal vicario di Roma Francesco Marchetti Selvaggiani (1871-1951), infatti, Ronca, che pure partecipò al Concilio nel fronte «conservatore», rimpiazzò nel 1933 l’allora assistente nazionale della locale Fuci, Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI, a causa «[…] del liturgismo quasi da “sale protestanti” [di Montini], come gli disse il card. vicario Marchetti Selvaggiani a proposito di alcuni fogli da lui diffusi tra gli assistenti fucini e trasmessi da mons. Ronca al Vicario» (A. Riccardi, Paolo VI: memoria di un’eredità, conferenza tenuta il 26 settembre 2003 nel Palazzo dell’Episcopio di Brescia su iniziativa dell’Istituto internazionale Paolo VI). GIUSEPPE BRIENZA Alfredo Oriani La rivolta ideale Libreria Editrice Augusto Gherardi Bologna 1909 Alfredo Oriani, avvocato, alternò romanzi a saggi riguardanti soprattutto temi politici e sociali. I suoi scritti furono molto apprezzati da Mussolini e letti soprattutto fra i giovani aderenti al fascismo La necessità di uno Stato
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IL BORGHESE forte, l’identità di razza e di nazione, il concetto di guerriero e di eroe sono temi affrontati con caparbietà dall’Oriani, tanto che molti storici vedono alcune sue idee ripercorse dal movimento fascista. Il libro espone una serie di pensieri e considerazioni, pur con uno stile a volte enfatico, più adatto ad un comizio, troviamo molte di queste considerazioni degne di nota, tanto da farci considerare l’Oriani nella copiosa schiera di polemisti nostrani. Citiamo: «La democrazia è fatalmente una livellazione, che per alzare il fondo deve abbassare le cime…Certamente in tutti i tempi le idee si diffusero per correnti misteriose, ma come il contatto continuo dei popoli solamente poteva produrre in loro unità di coscienza, così la libertà e la ricchezza soltanto erano veicoli sufficienti alle idee della personalità moderna … una rivoluzione ideale si prepara nella crisi stessa della libertà … nell’assenza di ogni aristocrazia gli spiriti migliori si sentono già esuli dentro la volgarità della moltitudine». Ancora. «La ricchezza, supremo scopo dell’industrialismo, ne diventava l’ultimo termine; la sua filosofia era morta, le sue scienze inerpicavano nel ridicolo, le sue arti si deformavano nella volgarità». Indubbiamente l’autore ha colto nel segno delle inquietudini moderne! Anche in politica estera Oriani esprime giudizi acuti, affermando che l’Asia sarebbe stato il problema più importante, e che l’unica nazione capace di effettuare un’influenza di razza, la Russia, era stata sconfitta dal Giappone [nel 1904-1905, N.d.R.] sancendo così l’inizio della decadenza occidentale: «…infatti nessuno volle sentire che la sconfitta russa era un’umiliazione europea, giacché nessun altro popolo vi avrebbe fatto una prova migliore, mentre tale prova inevitabilmente ricadeva su tutti per solidarietà di razza». Anche i giudizi che ha sulla Chiesa sono lapidari: «...ma adesso tutte le barriere asiatiche sono cadute, e la nostra politica, la scienza, il commercio, l’industria discendono a tutti i porti d’oriente, …la parola di Gesù perché non vincerebbe quelle di Buddha e di Brahama, di Confucio e di Lao-tse? La prova è inevitabile e decisiva: se il cristianesimo non conquista tutto il resto del mondo vi perderà il proprio primato: una religione parziale è una religione insufficiente.» Anche sulla borghesia Oriani è fortemente critico: «La borghesia che aveva largheggiato col popolo, considerandolo non nella sua realtà ma in
Aprile 2012 una astrazione rettorica, si vide ritorte contro tutte le proprie concessioni, giacché il popolo voleva essere istantaneamente pareggiato … la borghesia si era gettata famelicamente nell’industrialismo, e il popolo, che vi aveva trovato un istantaneo aumento di benessere, sosteneva già che il lavoro delle mani era pari a quello delle menti, e valeva più del capitale». Veniamo all’Unità d’Italia, che l’Autore considera un fallimento: «Sui primi del ‘59 Mazzini era già politicamente sorpassato, perché la sua predicazione repubblicana imponeva al Paese di essere eroico contro tiranni interni ed esterni bastando a se stesso nella rivoluzione, ed invece l’Italia non era matura, e il suo spirito militare morto da gran tempo non era pronto a risorgere, e la sua miseria morale più triste ancora. Se la ribellione del quarantotto aveva liquidato tutto il passato, rivelando l’inanità di tutti gli schemi rivoluzionari, cosicché nel ritorno dei principi il solo risultato di tanti mali apparve nella consolidazione dello statuto albertino: dopo, alla ripresa unitaria, la monarchia di Savoia fu accettata come la formula più economica di ingegno, di sangue e di denaro per conquistare l’indipendenza e l’unità della patria [minuscolo nel testo, N.d.R.]». E ancora conclude sarcasticamente: «Quindi Mazzini fu dimenticato a Londra e si assegnarono una pensione al papa e un’altra a Garibaldi…». Insiste l’autore ancora, considerando il ruolo della borghesia nel risorgimento: «La borghesia era la classe più colta, ricca e passionale … La lunga viltà nazionale degli ultimi secoli suggeriva invece speranze di aiuti stranieri, artifici di transazioni, scuse e ragioni a tutte le inferiorità: quindi l’avanguardia borghese dovette indietreggiare dalla rivoluzione di Mazzini disertando l’epopea di Garibaldi per accodarsi ai pochi reggimenti piemontesi di Vittorio Emanuele … lasciò mantenere Mazzini in esilio e fucilare Garibaldi in Aspromonte. La storia deve essere severa alla borghesia italiana per la sua bassa insufficienza rivoluzionaria…». Non manca comunque l’autore di sottolineare le «ammirabili qualità di resistenza e di iniziativa» tipiche del popolo italiano. Sicuramente lo scrittore era un polemista, ma , al contrario di tanti polemisti odierni «dell’ultima ora» che sfruttano i media per il loro esibizionismo o per attaccare a testa bassa l’icona di turno, Oriani amava l’Italia. PAOLO EMILIO PAPÒ
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IL BORGHESE
MARcO BEttOnI ci sono rose sbocciate d’un solo giorno ruvido d’inverno rose accompagnate dalla gentilezza d’un sorriso rose di festa in un pomeriggio d’amore.
DInO ARtOnE Naïf Alto lancia nel grumo folto del bosco la sua cima sfuggente l’albero dai rizomi profondi, cuspide protesa nel sole. Dove il tendere secolare della sua solitaria ventura sgomenta la risposta della luce in discrimine, dove l’assenso volontario alla sfida eversiva morde nella sua trasgressione anelli antichi d’un cerchio concentrico all’anima, dove la sua vocazione sarà libera fiamma a sorvolare ogni lancia su ogni pennone di guardia.
MARzIA BADALOnI Noi Solo chi passa per il dolore e ne vive le sfumature. Solo chi vive il dolore e lo vince di petto. Riconoscere il tuo pianto.
VAnESSA BALDAzzI Come un pianoforte Presta il tuo corpo alla passione… Fallo divenire un pianoforte, i cui tasti siano toccati solo da mani decise e gentili. Sprigiona una musica, da toni dapprima delicati e poi sempre più incessanti… Liberati, sii te stesso! Accompagna il finale dell’opera, con la maggior dolcezza… Prestalo il tuo corpo, ma non venderlo mai. A nessuno!
Laggiù mentre la palla iridescente volteggia ancora e batte sul cortile dei tuoi cinque anni, laggiù ci sono rose che portano il tuo nome. Ma quelle rose quel sorriso quello sguardo, non s’accorgono di noi.
MASSIMO DE SAntIS Un cuore cuore ermetico che non lasci passare nulla. non un trastullo amoroso, né pietà, né dolo. cuore di ghiaccio, refrattario ai raggi del sole che rimbalzano come lumache contrite in un’estate assolata in mezzo alla campagna. cuore impavido e temerario, sicuro di sé e della sua forza, come l’astuzia di Ulisse. ci sarà anche per te il disgelo.
LUcA DELL’ARMI Il mio angelo biondo Ferma il tempo, angelo mio. cullalo con il ritmo dei tuoi sospiri, avvolgilo nell’abbraccio dei tuoi infiniti sguardi, illuminalo con la luce dei tuoi sorrisi, perché questi istanti vissuti con te restino scolpiti nella mia mente come il lento risveglio del mattino all’alba di un nuovo giorno.
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IL BORGHESE
PAOLO DI cAPRIO Il centro Vorrei ritrovare il centro ma non so in che direzione guardare dove potrei dirigere i miei passi, nuovo percorso consumato cammino. Bambini spensierati passano le ore in spiaggia a sagomare di sabbia e castelli il baluginante orizzonte che osservo. Anche una barca a motore e senza vela ha perso il senso di una consapevole direzione. cosa ha senso al di fuori del pensiero che lo rende un qualcosa che pulsa? Restano le ore silenziose che fanno fin troppo chiasso e stringo la gola di incontrollate emozioni…
OtELLO FABIAnI Uno che ce prova tutto ‘n’inzieme sei d’oggetti d’arte pe’ nun guardatte mica c’è...r vaccino, come se po’ guardà da’n’antra parte quanno che te me stai così vicino? Senì da quela bocca ‘na parola, un sì da troppo tempo sospirato, ‘na sillaba me basta, quela sola quer sì, sentillo appena sussurato. Bello donà ‘n penziero, ‘na carezza, oppuro ‘n bacio, dato de sfuggita è come beve...r vino, dà l’ebbrezza, ‘na vorta sola ‘n sì, damme la vita.
PIER GIORGIO FRAncIA Se ci fosse un modo Se ci fosse un modo di realizzare i desideri in questa acerba ed aspra terra di Dio vorrei adagiarmi accanto a te nel guscio vuoto di una conchiglia per proteggerti dalle delusioni e dagli inganni della vita. Se ci fosse un modo di udire nel sonno l’armonioso tonfo delle onde sulla spiaggia senza neanche percepire quell’eco lontana di risacca vorrei ascoltare la voce smarrita di Dio quando mi parla di te. Se ci fosse un modo certo nella vita di svelare un profondo affetto manifestare un sincero sentimento allora per avere la certezza del tuo amore
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vorrei ricevere da te – un gesto generato dolcemente da Dio – una carezza per provare fortemente l’ebbrezza delle tue emozioni.
DOMEnIcO MARIAnI Mamma Mamma, mammina bella, portami al fior della lavanda dove profumano le nostre lacrime, il tuo mare accompagna le mie giornate, vorrei evaporare, come lo iodio che fuoriesce dalle marine in tempesta e portare il fumo umido fino a te.
AntOnIEttA ROSA RASO Poesia La notte incombe viene e tu vivi, rivivi, preghi con me finché la voce è voce, poesia occhi liquidi d’angeli, malattia di vivere un’infanzia perenne senza esperienze col permesso di partire senza sapere dove, né perché, né fino a quando. Ho spalancato il mondo del possibile davanti a me. GUStAVO tEMPEStA Tesoro nascosto Le belle dita Spicciolano il borsellino alla ricerca di un verdolino cent. Quello defilatosi nell’angusta fodera dei tuoi secreti segreti; lasciato ossidare a capitalizzare il suo valore. Lo hai trovato Il guaritore della tua pena, e te ne vai leggera arrancando l’autobus; azzardando uno “sbuffo di soffio” al tuo tirabaci nero che continua a ricciolare fra traffico e sirene. Per proporre poesie per questa rubrica (max 20 versi), spedire una email con nome, indirizzo e numero di telefono a: luciano.lucarini@pagine.net con la dicitura «per il Borghese»
Fausto Gianfranceschi Aforismi del dissenso
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