il Borghese - 2012 - n. 01 (gennaio)

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“Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”

MENSILE - ANNO XII - NUMERO 1 - GENNAIO 2012 - € 6

S M TR O E R T TA TA LE


NOVITÀ NOVITÀ

NOVITÀ

NOVITÀ

Marine Le Pen

Saverio Romano

Jean Madiran

Antonio De Pascali

Controcorrente

La mafia addosso

“L’accordo di Metz”

Donna Assunta Almirante

prefazione di Fabio Torriero traduzione di Anna Teodorani

Intervistato da Barbara Romano

pagg. 110 • euro 12,00

Enea Franza Giampaolo Bassi

Francesco Amato

Regime Corporativo (1935 - 1940)

pagg. 150 • euro 14,00

NOVITÀ

NOVITÀ

Julius Evola

La mia vita con Giorgio

NOVITÀ

pagg. 190 • euro 16,00

NOVITÀ

pagg. 228 • euro 18,00

Tra Cremlino e Vaticano introduzione di Roberto De Mattei traduzione di Milena Riolo

Annali di piombo

a cura di Gian Franco Lami

L’Italia e la crisi, un Paese al bivio

(diario di un servitore dello Stato) prefazione di Giancarlo de Cataldo

pagg. 114 • euro 15,00

pagg. 234 • euro 16,00

pagg. 472 • euro 22,00

Rachele Mussolini

Benito ed io

Una vita per l’Italia prefazione di Alessandra Mussolini traduzione di Fabio Torriero revisione a cura di Anna Teodorani pagg. 270 • euro 18,00

Via G. Serafino, 8 - 00136 Roma - Tel. 06/45468600 - Fax 06/39738771 e-mail: luciano.lucarini@pagine.net

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Gennaio 2012

IL BORGHESE

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SOMMARIO DEL NUMERO 1 Mensile - Anno XII - Gennaio 2012 - € 6,00 Piccola Posta, 2 Il problema non è nostro, di Claudio Tedeschi, 3 La soluzione argentina, di Federico Maffei, 6 Fascismo del 3° millennio, di Franco Jappelli, 7 Temibili conseguenze, di Filippo de Jorio, 9 Sovranità limitata, di Carlo Vivaldi-Forti, 10 Fallimento politico, di Riccardo Paradisi, 12 Lettera a Napolitano-Sospetta incostituzionalità, di Francesco Rossi, 13 La Costituzione italiana: È pericolosa, di Gianni Pardo, 16 Da Tre ad un Monti, di Riccardo Scarpa, 17 Il profeta di Largo Fochetti, di Gianni Pardo, 18 Democrazia senza onore, di Adriano Segatori, 18 Costruendo il futuro, di Adriano Tilgher, 19 «Liberale e democratica», di Gianfranco de Turris, 20 Il Presidente è nudo, de il Tiratore Scelto, 21 Ora basta!, di Claudio Noschese, 22 Tasse e galera, di Ruggiero Capone, 25 Hanno vinto le Banche!, di Mimmo Della Corte, 27 L’«ONU» di Trastevere, di Daniela Albanese, 28 Tecnocrati, la «malarazza», di Emmanuel Raffaele, 29 Sanità senza cure, di Alessandro P. Benini, 30 Stellette in disarmo, di Vincenzo Ciaraffa, 31 A riveder le stelle, di Mino Mini, 33 I mercanti nell’Ateneo, di Hervé A. Cavallera, 35 Attenti alle bugie!, di Alessandro Cesareo, 36 Lo sportello dell’usurato: Banche di malaffare, di Antonella Morsello, 38 I cattolici in politica, di Giuseppe Brienza, 39 Aboliamo i partiti, di Antonio Saccà, 40 Evasione fiscale: I lati positivi, di Gianni Pardo, 42 Europa: Condominio da rinnovare, di Alfonso Francia, 43 Profumo di Londra, di Giuseppe de Santis, 44 Ludi iraniani, di Andrea Marcigliano, 45 Ritorno al passato, di Mary Pace, 48 Pechino contro l’«Asean», di Francesco Rossi, 49 Lunga vita ai canarini, di Daniela Binello, 50 A scuola di sentimenti, di Franco Lucchetti, 51 Dio è nel cuore, di Inna Khviler Aiello, 52 Vince la destra, di Gianpiero Del Monte, 53 Un falso problema, di Alfonso Piscitelli, 55 Nuove droghe, nuovi drogati, di Fabio Bernabei, 56 L’angolo della poesia, 79

Direttore Editoriale

LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile

CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net HANNO COLLABORATO Daniela Albanese, Alessandro P. Benini, Fabio Bernabei, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello Giuseppe Brienza, Gianni Camusso, Ruggiero Capone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Vincenzo Ciaraffa, Michele De Feudis, Filippo de Jorio, Valerio De Lillo, Giuseppe de Santis, Gianfranco de Turris, Gianpiero Del Monte, Mimmo Della Corte, Alfonso Francia, Franco Jappelli, Inna Khviler Aiello, Michele Lo Foco, Franco Lucchetti, Federico Maffei, Andrea Marcigliano, Fabio Melelli, Mino Mini, Nazzareno Mollicone, Antonella Morsello, Gianfranco Nibale, Claudio Noschese, Mary Pace, Riccardo Paradisi, Gianni Pardo, Alfonso Piscitelli, Emmanuel Raffaele, Riccardo Rosati, Francesco Rossi, Gianfredo Ruggiero, Antonio Saccà, Anna Maria Santoro, Mauro Scacchi, Riccardo Scarpa, Enzo Schiuma, Adriano Segatori, Giovanni Sessa, Adriano Tilgher, Leo Valeriano, Carlo Vivaldi-Forti

IL MEGLIO DE «IL BORGHESE» Quell’incontro sul «Britannia», di Tuccio Risi Euro-dipendenti all’italiana, di Spartaco Montecitorio: «In tavola!», di Carlo Cusani

Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI

LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Claudio Risè-«Destra e sinistra, categorie inutilizzabili, vecchissime», a cura di Michele de Feudis, 24 Dominick Salvatore-L’economia perduta, a cura di Anna Maria Santoro, 41 Carlo Vivaldi-Forti-Quando in Italia tornerà la democrazia, a cura di Valerio De Lillo, 69

Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma

tel 06/45468600 Fax 06/39738771 em@il luciano.lucarini@pagine.net

TERZA PAGINA Quando la Storia fa paura, di G. Ruggiero,57-Eroi o vittime della Resistenza?, di E. Schiuma, 58-Obbligati a credere?, di A. Saccà, 60-Il sacro scrigno della memoria, di R. Rosati, 61-La nostra identità va mantenuta, di G. Camusso, 62-«Per una nuova oggettività», di R. Scarpa, 63

IL GIARDINO DEI SUPPLIZI Il cinema torna in sala, di M. Lo Foco, 65-Sui luoghi della memoria, di F. Melelli, 66-Anno nuovo, Vita vecchia, di L. Valeriano, 67-Pillole, a cura di G. Nibale, 68

LIBRI NUOVI E VECCHI Educare gli uomini nella Tradizione, di G. Sessa, 70-La realtà della geopolitica, di N. Mollicone, 72-Librido, a cura di M. Bernardi Guardi, 73-Storie degli altri Risorgimenti, di M. Scacchi, 75-Schede, di AA.VV., 76 Le foto che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio.

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PAGINE S.r.l. Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000 Stampato presso Mondo Stampa S.r.l. Via della Pisana, 1448/a 00163 Roma (RM) Per gli abbonamenti scrivere a: IL BORGHESE Ufficio Abbonamenti Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma

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IL BORGHESE

Piccola Posta UN PENSIERO GUARDANDO L’ITALIA In questi giorni guardo all'Italia, guardo gli italiani, vedo cani randagi senza più nessun valore che si attaccano come bestie, persone che l'unica cosa che sanno fare è insultare un Presidente del Consiglio (senza sapere cosa abbia fatto realmente) persone che pur di andare contro ad una persona sono disposti a mandare a puttane un Paese per potergli dare la colpa... persone che non hanno capito niente della politica, che non sanno cosa sia l'onore, che non sanno cosa sia l'amore per la propria patria! e da qui sento un pianto sommesso, sento Roma piangere perché tradita da suoi figli... figli che si attaccano tra loro come fossero delle bestie... figli che non sanno essere uniti, figli che non rendono onore alla propria terra... Italiani si nasce e non si diventa... forse è vero, ma vorrei aggiungere un altra cosa essere italiani non è un Diritto, ma un privilegio, un privilegio e un onore che si devono guadagnare giorno per giorno... anzi che ci si deve guadagnare, me compreso! LORENZO, un vostro lettore IL PRESEPE ED IL «BANCOMAT» A Natale avremo tanta retorica appesa all’albero. Il piano Monti è soltanto un affare commerciale, pieno di tagli (per noi) e ricavi (per le banche), tanto che mi aspetto un presepe con tanto di bancomat all’ingresso della grotta. Anche se poi, pensandoci meglio, esiste già ed è quello che il Vaticano ogni anno tira su in Piazza San Pietro. Per terra, di fronte alla Sacra Famiglia, i turisti

gettano monete e biglietti di banca che solerti incaricati provvedono a raccogliere e versare nelle sacre casse. Tornerà, Lui, a frustare i mercanti nel tempio? ALOISIO FREDOTTI HANNO DECISO DI «SUICIDARCI» Mentre scrivo queste poche righe ancora non so se la manovra sarà stata approvata anche al Senato. Quello che so è che invece di massacrare l’Italia con tagli, innalzamento della pensione a 120 anni, ed altre tagliole finanziarie, ci sarebbe la possibilità di un’altra manovra. Aumentare le tasse a chi inquina, sia privato sia pubblico; riportando sotto il controllo pubblico tutto il sistema dei trasporti (e non in mano alle società miste, buone soltanto a far mangiare gli amici degli amici); bloccando tutti i beni della Fiat e di tutte quelle aziende che hanno rubato i soldi dei finanziamenti pubblici, per poi portare tutto all’estero; bloccando e nazionalizzando tutte le banche hanno favorito i fallimenti di comodo di quelle società che avevamo portato i soldi in Svizzera; togliendo la Sanità alle Regioni che sono buone soltanto ad aumentare le addizionali e non dare i servizi; usare il patrimonio immobiliare dello Stato per dare casa a tutti quegli italiani che non hanno casa e che si vedono superati nelle assegnazioni da rom, africani e quant’altri. L’elenco non finirebbe mai. Ma per fare tutto questo a chi dovremo rivolgerci? A qualche altro «Uomo della Provvidenza»? SANTO MORGANI LA CHIESA E L’«ICI» L’intervista che ho sentito in tv del cardinal Bagnasco, dove afferma-

Gennaio 2012 va che il suo stipendio si aggira sui 1.300 euro, mia ha lasciato perplessa. Ma come, un cardinale di Santa Romana Chiesa prende così poco? Poi ho ripensato all’8 per mille che ogni anno la Chiesa incassa e che la CEI gestisce. Allora ho capito il potere che ha Bagnasco. Poi ho sentito la giustificazione per l’esenzione della Chiesa dal pagare l’ICI, cioè la Chiesa dà un contributo importante al bene comune con le sue opere caritative. Eppure la Chiesa non dovrebbe farsi pagare per fare le opere di carità che sono un suo dovere. Inoltre per dare i soldi alla Chiesa lo Stato li toglie a noi cittadini, per farcelo poi tornare in opere di carità dai preti. Li tenesse lo Stato, quei soldi, le facesse lui le opere di carità, così non dovrebbe caricarci di tasse per poi farceli ridare in beneficienza. I privilegi fiscali della Chiesa, sottraendo risorse allo Stato e contribuendo perciò ad aggravare i tagli a pensioni e servizi, sono un modo per fare la carità a spese dei diritti. LUCIANA SPADONI

Le lettere (massimo 20 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net

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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 1 - GENNAIO 2012

IL PROBLEMA non è nostro di CLAUDIO TEDESCHI Roma, 18 dicembre 2011 FRA una settimana è Natale, quello della nostra infanzia. Fra tre giorni, è il solstizio invernale, il Natale della nostra giovinezza. Da bambini, Natale era la letterina sotto il piatto di nostro padre, la magia dell’albero, la poesia del presepe, la gioia della mattina, tra profumi di cucina e pacchi aperti in fretta da mani impazienti. Siamo cresciuti, ed abbiamo scoperto un altro Natale. Quello della spiritualità, legato non soltanto alla tradizione cattolica, ma anche alle nostre più antiche tradizioni pagane. Oggi cos’è il Natale? Tra alberi di plastica, perché «ecologia è bello» e presepi con politici, nani e ballerine tra pastori e bambinello, siamo al «magnificat» del consumismo becero e multirazziale. I bambini sognavano soldatini, marionette, trenini, bambole; oggi vogliono l’ultimo modello di cellulare in grado di «navigare» in rete e «chattare» con il compagno/a di banco, oppure un buono per farsi un tatuaggio alla moda. Oggi il Natale inizia ad ottobre, quando si consegnano i cartoni di panettoni e pandori ai negozi, perché di quella magia è rimasto soltanto il lato commerciale, che si protrae per tutto l’anno ed annulla quell’attimo di felicità mattutino di fronte all’albero. Oggi il Natale è morte e fiamme. A Torino, dove una distorta educazione ha portato una folla a bruciare un campo rom, perché, in una epoca di amori facili e trasversali, una ragazzina si è inventata uno stupro. A Firenze, dove un uomo ha ucciso due senegalesi, feriti altri tre, per poi togliersi la vita. Immediata la reazione «popolare, democratica ed antifascista» contro i due fatti, considerati l’eredità del berlusconismo; per Firenze, in più, veemente l’attacco alla destra perché l’omicida-suicida ne frequentava alcuni spazi. Sabato 17 dicembre, manifestazioni contro l’omicidio dei senegalesi hanno traversato molte città, con immagini di africani che urlavano il loro odio e la loro rabbia. A Torino il Ministro Riccardi, distinguendo i fatti di Firenze e Torino, ha dichiarato «Là si è trattato di un gesto folle ed esecrabile. Questo raid incendiario ci preoccupa molto … I campi sono da superare, bisogna garantire a tutti condizioni degne di un Paese civile … Dobbiamo riconoscere ai bambini stranieri nati in Italia la cittadinanza e a questo percorso legislativo se ne deve accompagnare uno culturale». Mentre l’Italia «democratica, antirazzista ed antifascista» manifestava «per due senegalesi», soltanto 300 persone si ritrovavano a Padova ai funerali di Giovanni Schiavon, l’imprenditore morto suicida perché «non ce la faceva

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più». Morto perché per mancanza di liquidità, nonostante avesse crediti per oltre 200mila euro, in massima parte dallo Stato. Morto perché le banche gli hanno chiuso gli sportelli in faccia. Morto perché lo Stato deve pagare pensioni d’oro a terroristi, attrici porno, politici e «grand commis». Morto perché lo Stato dei tecnici «lo premia con le tasse più alte d’Europa, da incassare in anticipo». Sono 40 gli imprenditori morti suicidi fino ad oggi, per colpa della crisi, eppure per loro nessuno è sceso in piazza, manifestato nelle città. Essi non sono rom, non sono «negri», non sono drogati, hanno una famiglia e, massima delle colpe, sono cattolici. Oggi la gente è portata a farsi giustizia da sola, ad uccidersi per debiti, mentre il potere politico è condizionato dalle lobby. Ormai, una parte del Paese non è più disposta a farsi «suicidare» in silenzio o a sopportare a lungo «l’invasione degli ultra-comunitari». A questo ci si è arrivati quando, con un colpo di Stato, sono stati messi fuori gioco i partiti, i sindacati, le parti sociali. Azzerata parte della stampa, con la soppressione dei finanziamenti. La magistratura, priva del materiale «tutto sesso e politica» del berlusconismo, è rientrata nella ordinaria vita di tutti i giorni, senza neanche la copertura mediatica. Un ciclo storico è finito e tutti recitano la loro parte cercando di salvare la faccia. In Italia è stata instaurata una tirannia, illegalmente al potere perché priva della copertura costituzionale. Un Parlamento «bulgaro» che approva qualsiasi cosa, la grande stampa «allineata» ed una totale copertura da parte del Sovrano. Come contrastare tutto questo? Non pagando più nulla. Pedro Nuno Santos, vicepresidente del Partito socialista portoghese ha dichiarato: «Abbiamo una bomba atomica da agitare in faccia a tedeschi e francesi: dire loro semplicemente che non paghiamo. Il debito è la nostra arma e dobbiamo usarla per imporre condizioni migliori, perché è la recessione stessa che ci blocca nell’adempiere l’accordo europeo di rigore di bilancio». Il Borghese da quattro anni va dicendo le stesse cose. Non pagare. In America vi è un detto: «Se devi alla tua banca 10 mila dollari, hai un problema. Se le devi 10 milioni di dollari, è la banca ad avere il problema». Noi siamo stati i primi e gli unici a scrivere che il fronte unico dei cittadini poteva battere la grande finanza, con lo Stato «servo sciocco» dei banchieri. Monti è stato messo al governo per impedire che si faccia default e poter continuare a pagare il debito con manovre di lacrime sangue, per poi fallire lo stesso fra qualche mese. Alcuni cittadini di buona volontà in questi giorni inizieranno a presidiare le agenzie di credito, invitando i clienti a ritirare i loro soldi, per metterli sotto il mattone. Costa meno. Noi diciamo agli italiani che «il debito è la nostra arma». Non paghiamo più i mutui, le bollette, togliamo alle banche la capacità di dirci come spendere il nostro denaro. Se io non pago il mutuo ho un problema, se tutti non paghiamo il mutuo il problema è della banca. Meditate, italiani, meditate.

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liberi

per tradizione

Crisi economica, corruzione, caste intoccabili, nessun ricambio della classe politica, perdita di princìpi spirituali dell uomo e della comunità nazionale:

VUOI REAGIRE? Aderisci pure tu ai Circoli de

Per tutti coloro che si assoceranno e che sono già abbonati del «Borghese», la quota 2010 sarà già compresa nell abbonamento ... .. ... ........ SCHEDA DI ISCRIZIONE COGNOME .. NOME .. NATO A . PROV IL ___/___/______ DOMICILIATO A PROV CAP ... VIA N. .. INT .. SC TEL/AB .. TEL/UFF .. CELL EM@IL ..@.......................................... DATI PERSONALI TITOLO DI STUDIO . PROFESSIONE ATTIVITÀ ABB. NUM. .. Dichiaro di accettare le norme dello Statuto, i programmi e le direttive dell Associazione dei Circoli del «Borghese» Ricevuta l informativa sull utilizzazione dei miei dati personali, ai sensi dell Art. 10 Legge 675/9, consento al loro trattamento nella misura necessaria per il proseguimento degli scopi associativi. DATA ___/___/______

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(DA INVIARE PER FAX ALLO 06/39738771 oppure CIRCOLIBORGHESE@EMAIL.IT)


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Grazie a coloro che hanno aderito in gran numero ed invitiamo tutti a fare opera di proselitismo, costituendo sempre più nuovi «Circoli» (minimo 10 soci). Tutti coloro che hanno documenti visivi possono inviarli, noi provvederemo a metterli in rete sul sito www.il-borghese.it

SALVIAMO L ITALIA 1) Dalla sinistra radicale che a Milano svende il Paese a drogati e talebani 2) Da una Lega che ha fallito il suo progetto, ma non se ne è accorta 3) Dai «mercenari» della politica, che fanno le «manovre» per non pagare le tasse 4) Dalla dittatura delle «lobbies» che guardano ai cittadini come pecore da tosare 5) Dall Euro «franco-tedesco» che vuole farci sparire dalla scena economica 6) Dall invasione straniera nel nome di un «islam» politicamente corretto 7) Dall assassinio della cultura commesso dai «reality» 8) Dai «vecchi» della politica che non vogliono mollare la poltrona 9) Dalla schiavitù economica gestita dalla finanza internazionale 10) Dalla vita sociale del Paese «sepolta» sotto i «partiti-spazzatura» Estratto dallo Statuto costitutivo dei «Circoli del Borghese» Art. 3 - Scopo e finalità L associazione è senza fini di lucro ed opera senza discriminazione di nazionalità, di carattere politico o religioso. Si propone di promuovere ogni iniziativa culturale e politica tesa a restituire al cittadino il senso del dovere e l etica della responsabilità. Denunciare il malcostume nel contesto politico, economico e sociale. Avversare caste e privilegi in ogni comparto della società. Educare le nuove generazioni ad assumere l impegno di essere futura classe dirigente, onesta, libera, professionale e responsabile A questo fine si predispone per svolgere qualsiasi attività si ritenga necessaria al perseguimento degli scopi istituzionali con particolare attenzione a: Organizzazione e promozione di incontri, dibattiti e pubblicazioni per incidere nel processo culturale e sviluppo della Nazione. Esercitare, in via meramente marginale e senza scopi di lucro, attività di natura commerciale per autofinanziamento: in tal caso dovrà osservare le normative amministrative e fiscali vigenti. L'Associazione ha facoltà di organizzare, anche in collaborazione con altri enti, società e associazioni, manifestazioni culturali connesse alle proprie attività, purché tali manifestazioni non siano in contrasto con l'oggetto sociale, con il presente Statuto Sociale e con l'Atto Costitutivo. Le attività di cui sopra sono svolte dall'Associazione prevalentemente tramite le prestazioni fornite dal propri aderenti. L'attività degli aderenti non può essere retribuita in alcun modo nemmeno da eventuali diretti beneficiari. Agli aderenti possono solo essere rimborsate dall'Associazione le spese effettivamente sostenute per l'attività prestata, previa documentazione ed entro limiti preventivamente stabiliti dall'Assemblea dei soci. Ogni forma di rapporto economico con l'Associazione derivante da lavoro dipendente o autonomo, è incompatibile con la qualità di socio.


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COME USCIRE DALLA CRISI

LA SOLUZIONE argentina di FEDERICO MAFFEI NON PAGARE i debiti, per gli Stati sovrani, a volte, è non soltanto giusto, ma anche doveroso, soprattutto se la «colpa» dell'accumulo della montagna di soldi da restituire non è dei popoli, ma di quegli autentici «cravattai» che sono i grandi speculatori internazionali e le banche. I neoliberisti, ovviamente, sostengono che non pagare i debiti è «immorale». Resta però da vedere quanto sia morale fare l'usuraio. La lezione che viene dall'Argentina, Paese risorto dalle sue ceneri dopo un salutare e provvidenziale default, dimostra, del resto, che un buon fallimento, quasi sempre, è meglio di una lunga e tormentata agonia. Non a caso tre mesi fa, la Presidente Cristina Fernandez, vedova dell’ex presidente Nestor Kirchner e leader del Fronte per la Vittoria, una formazione peronista di sinistra, ha vinto le elezioni in Argentina ricevendo il 54 per cento dei voti, 37 punti percentuali al di sopra del suo più diretto avversario. La coalizione presidenziale ha conquistato anche il Congresso, il Senato e le Regioni, come pure 135 dei 136 fra i più grandi municipi di Buenos Aires. Un risultato straordinario, se si considera il recente passato della nazione sudamericana. Fra il 1998 e il 2002 l’Argentina affrontò, infatti, la peggiore crisi economica della sua storia. L’economia sprofondò passando da una recessione a una depressione su larga scala, culminata con una crescita negativa in doppia cifra fra il 2001 e il 2002. La disoccupazione raggiunse e superò il 25 per cento e nei quartieri operai arrivò oltre il 50 per cento. Decine di migliaia di professionisti impoveriti, appartenenti alla classe media, si mettevano in fila per il pane e la minestra pochi isolati più in là del palazzo presidenziale. Centinaia di migliaia di lavoratori disoccupati, i piqueteros, bloccarono le maggiori autostrade e alcuni assalirono i treni che portavano il bestiame e i cereali all’estero. Le banche chiusero, privando milioni di correntisti dei loro risparmi. Milioni di contestatori organizzarono collettivi in tutti i quartieri e si unirono con le assemblee dei disoccupati. Il Paese era pesantemente indebitato e la gente profondamente impoverita. Il malcontento popolare stava sfociando in una sollevazione rivoluzionaria. Il Presidente uscente Fernando De La Rua fu rovesciato (2001), numerosi manifestanti furono feriti o uccisi dal momento che la ribellione popolare stava minacciando di impossessarsi del palazzo presidenziale. Entro la fine del 2002 centinaia di fabbriche in bancarotta furono occupate, rilevate e gestite dai lavoratori. L’Argentina dichiarò il default verso il suo debi-

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to estero. All'inizio del 2003 Nestor Kirchner fu eletto presidente nel bel mezzo di una crisi di sistema e cominciò a rifiutare le pressioni che lo spingevano al pagamento del debito e alla repressione dei movimenti popolari. Al contrario inaugurò una serie di programmi d'emergenza per il pubblico impiego. Autorizzò il pagamento di un sussidio per i lavoratori disoccupati (150 pesos al mese) per andare incontro ai bisogni fondamentali di circa la metà della forza lavoro. Lo slogan più popolare della maggioranza dei movimenti che occupavano distretti finanziari, fabbriche, edifici pubblici e strade era «Que se vayan todos». L’intera classe politica, i dirigenti e i partiti, il Presidente e il Congresso, furono rinnegati completamente. Tuttavia, anche se i movimenti erano di ampia portata, attivi e uniti in ciò che rifiutavano, non avevano un programma coerente per prendere il potere nello Stato, né avevano una leadership politica che li guidasse. Dopo due anni di tumulti e disordini, il popolo tornò alle urne ed elesse Kirchner con il mandato di produrre risultati oppure farsi da parte. Kirchner recepì il messaggio, almeno per quanto riguarda la crescita economica accompagnata dalla giustizia sociale. In Argentina la catastrofe economica e l’insurrezione popolare fornirono a Kirchner l’opportunità di spostare le risorse dalla speculazione finanziaria che stava strangolando il Paese ai programmi sociali e ad una crescita economica sostenuta. Le vittorie elettorali, sia di Kirchner prima che della Fernandez poi, riflettono il successo da loro ottenuto nel creare un «normale Stato sociale capitalista» dopo trent'anni di regimi predatori neoliberisti. Tutto ciò rappresenta un cambiamento notevolmente positivo. Dal 1966 al 2002 l'Argentina ha sofferto sotto il giogo di brutali dittature militari culminate con i generali che assassinarono circa trentamila argentini fra il 1976 e il 1982. Fra il 1983 e il 1989 l'Argentina dovette subire un regime neoliberista (Raul Alfonsin) che ha fallito nel fare i conti con l'eredità della vecchia dittatura e ha scatenato un'iperinflazione in tripla cifra. Dal 1989 al 1999 sotto il Presidente Carlos Menem, l'Argentina assistette alla gigantesca svendita a prezzi d'occasione delle sue aziende pubbliche più produttive, delle risorse naturali (petrolio incluso), delle banche, delle autostrade, degli allevamenti e delle acque pubbliche, in favore degli investitori stranieri e dei loro manutengoli argentini. Ultimo, ma non per importanza, Fernando De La Rua (2000-2001), promise dei cambiamenti, ma riuscì soltanto ad acuire la recessione che condusse al catastrofico botto finale del dicembre 2001 col fallimento degli istituti di credito, la bancarotta di diecimila aziende e il collasso dell'economia. In questo scenario di totale e assoluto fallimento e disastro umanitario causato dalla politiche liberiste promosse dagli Usa e dal Fondo Monetario Internazionale, Kirchner/Fernandez dichiararono il default per il debito estero, nazionalizzarono i fondi pensione e numerose imprese precedentemente privatizzate, nazionalizzarono le banche e raddoppiarono la spesa sociale, espandendo gli investimenti pubblici e tonificando i consumi di massa, al fine di intraprendere la strada della ripresa economica. Dalla fine del 2003 l'Argentina passò dalla recessione a una crescita del Pil pari all'8 per cento an-

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nuo. L'economia argentina è cresciuta di circa il 90 per cento dal 2003 al 2011, più di tre volte di quella statunitense. La sua ripresa è stata accompagnata da una spesa sociale triplicata, direzionata specialmente verso i programmi per ridurre la povertà. La percentuale di argentini che vivono sotto la soglia di povertà è passata dal 50 per cento del 2001 a meno del 15 per cento del 2011. In contrapposizione la povertà negli Stati Uniti è salita dal 12 per cento al 17 per cento nella medesima decade. L’Argentina ha raddoppiato le pensioni minime e introdotto programmi sociali universali per l’infanzia al fine di contrastare la malnutrizione e garantire la frequenza scolastica. Al contrario, il 20 per cento dei bambini in USA sta attualmente soffrendo di un carente regime alimentare, di un alto tasso di abbandono scolastico e la malnutrizione colpisce ormai il 25 per cento dei minori. Con gli ulteriori tagli in corso alle spese per la salute e l'educazione, le condizioni sociali non possono che peggiorare. In Argentina il livello dei redditi dei lavoratori salariati è cresciuto del 50 per cento nell'ultimo decennio, mentre negli Stati Uniti è sceso di circa il 10 per cento. La forte crescita del Prodotto Nazionale Lordo argentino è stata alimentata dall'aumento dei consumi interni e dai guadagni derivati dalle esportazioni. L'Argentina ha un notevole attivo nella bilancia commerciale dovuto ai favorevoli prezzi di mercato ed all'accresciuta competitività. L'esperienza argentina va contro tutti i precetti delle agenzie finanziarie internazionali (il Fmi e la Banca Mondiale), dei loro sostenitori politici e dei giornalisti della stampa economica. Sin dal primo anno (il 2003) della ripresa fino ad oggi, gli esperti in economia «predissero» che la sua crescita non fosse «sostenibile», invece è proseguita in maniera robusta per oltre un decennio. La stampa economica affermò che il default avrebbe condotto l'Argentina ai margini dei mercati finanziari e la sua economia sarebbe collassata. L'Argentina si basò sull'autofinanziamento derivato dai guadagni sulle esportazioni e sulla riattivazione dell'economia domestica e contraddisse i prestigiosi economisti. Quando la crescita continuò, i critici del Financial Times e del Wall Street Journal sostennero che sarebbe terminata una volta che la capacità produttiva inutilizzata si fosse esaurita. Invece i proventi derivati dalla crescita consentirono l'espansione di un mercato interno e trovarono nuovi sbocchi specialmente nei mercati emergenti dell'Asia e del Brasile. Anche recentemente gli opinionisti del Financial Times ancora blateravano di un'imminente crisi nella maniera messianica con cui i fondamentalisti predicono un'incombente apocalisse. Ripetevano sempre il ritornello dell'elevata inflazione, dei programmi sociali insostenibili, della valuta troppo forte come predizioni sulla fine della prosperità. L'opposizione popolare contro le banche e la speculazione finanziaria che si va diffondendo in molti Paesi in crisi, specialmente il movimento «Occupy Wall Street», ha ancora tanta strada da fare per emulare il successo ottenuto dai peronisti argentini che rimossero i presidenti in carica, bloccarono le autostrade paralizzando la produzione e la circolazione e imposero un programma politico di stampo «populista» che privilegiasse l’economia reale a discapito della finanza, i consumi sociali rispetto alle spese militari. Il movimento «Occupy Wall Street» ha comunque compiuto un primo passo verso la mobilitazione di cittadini partecipanti e attivi necessario per creare il tessuto sociale che ha trasformato l’Argentina da uno Stato in bancarotta ad un dinamico e indipendente Stato sociale.

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IL PERONISMO

FASCISMO del 3° millennio di FRANCO JAPPELLI «UNO spettro s’aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo». Inizia così il Manifesto del partito comunista, a firma di Marx ed Engels, pubblicato nel 1848. E quello «spettro», in effetti, ha reso insonni e tormentate le notti di una larga fetta dell’umanità per quasi tutto il Novecento. Poi, all’improvviso, il fantasma è evaporato, come una goccia di rugiada ai primi raggi del sole mattutino, dimostrando tutta la sua drammatica inconsistenza. Ma se i sogni, com’è noto, muoiono all’alba senza lasciar tracce, le utopie, invece, impiegano molto più tempo per tirare le cuoia e lasciano spesso alle loro spalle una lunga scia di lutti. Tolto di mezzo l’antagonista comunista il capitalismo è così rimasto padrone assoluto della scena decretando, secondo il politologo Francis Fukuyama, la «fine della storia». Una teoria, quella di Fukuyama, che si sta rivelando decisamente sbagliata. In primo luogo perché il capitalismo, anche se ha vinto la battaglia contro il suo arcinemico storico, non gode buona salute e sembra destinato, per usare una terminologia marxista, ad essere sepolto dalle proprie contraddizioni. E, in secondo luogo, perché sulla scena, non soltanto dell’Europa, ma del mondo intero, si sta affacciando un altro «spettro»: quello del peronismo. Esagerazioni? Non proprio. La dottrina politica che prende il nome dal generale Juan Domingo Peron è oggi infatti l’unica che dimostri una indubbia vitalità ed un costante ed insopprimibile dinamismo. Il peronismo, in effetti, caso unico al mondo, è risorto, sempre più forte, per ben tre

LA STRADA MAESTRA

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volte dalle sue ceneri. È sopravvissuto alla morte del suo fondatore e persino all’idiozia della sua ultima moglie, quell’Isabelita che pretendeva - la spudorata - di prendere il posto della mitica Evita nel cuore del popolo argentino. Nonostante i golpe militari, le persecuzioni e gli attacchi internazionali alla nazione per cancellare l’«anomalia giustizialista», la stragrande maggioranza degli argentini, come ha dimostrato la recente e clamorosa vittoria di Cristina Kirchner, è rimasta fedele al mito di Peron e di sua moglie Evita, la «regina dei descamisados». Per comprendere quanto sia grande la devozione degli strati più umili della popolazione per Evita e per il Conducator, basti dire che nei quartieri popolari è facile trovare accanto alle immagini della Madonna anche gli «altarini» dedicati ad Evita, con le candele perennemente accese e i fiori sempre freschi. Per dire che è «una bella giornata» gli Argentini usano abitualmente l’espressione «hoy es un dìa peronista». Per i politologi di tutto il mondo, comunque, stabilire cosa sia realmente il peronismo è un vero e proprio rompicapo. Per la vulgata «politicamente corretta», di scuola neoliberista o marxista, il giustizialismo è sinonimo di ogni nefandezza: dal populismo becero e demagogico all’autoritarismo di tipo fascista. La definizione più bella del peronismo, comunque, non l’ha data un politologo, ma Antonio Cafiero, che fu ministro con Peron negli anni Cinquanta. «Credo», ha detto, «che sia un sentimento che si vota, con qualcosa di religioso» parafrasando il famoso detto secondo cui «il tango è un sentimento che si balla». La parentela con il fascismo, in ogni caso, esiste ed è sempre stata ammessa dallo stesso Peron. Durante la sua permanenza in Italia negli anni Trenta egli rimase profondamente colpito dalle conquiste sociali realizzate dal regime mussoliniano. «Si stava facendo un esperimento», ricordò in un’intervista del 1969. «Era il primo socialismo nazionale che appariva nel mondo. Non voglio esaminare i mezzi di esecuzione che potevano essere difettosi. Ma l’importante era questo: un mondo già diviso in imperialismi e un terzo dissidente che dice: No, né con gli uni né con gli altri, siamo socialisti, ma socialisti nazionali. Era una terza posizione tra il socialismo sovietico e il capitalismo yankee». Una volta arrivato al potere, del resto, il generale non fece mistero delle sue preferenze ideologiche. Accolse a braccia aperte i reduci della RSI che fuggivano dall’Italia antifascista e nominò, come suo consulente economico in materia di socializzazione e corporativismo, Giuseppe Spinelli, un ex operaio di Cremona che era stato ministro del lavoro della RSI. Ma le analogie, o, se vogliamo, le «copiature», non si fermano qui. Nell’elaborare la sua dottrina giustizialista Peron dimostrò infatti di conoscere perfettamente il fascismo non soltanto nei suoi aspetti esteriori e concreti, ma anche in quelli più squisitamente spirituali. Dalla dottrina fascista Peron prese infatti sia la concezione dello «Stato etico», sia quella della «Società organica» e dell’«uomo integrale» e non dimenticò, visto che c’era, di fare tesoro del «sindacalismo rivoluzionario» di Corridoni e De Ambris. Nella sua Filosofia peronista il generale, per giustificare lo Stato etico tira in ballo addirittura Aristotele. «Aristotele», scrive, «ci dice: l’uomo è un essere disposto per la convivenza sociale; il bene supremo non si realizza, dunque, nella vita individuale dell’uomo, ma nell’organismo super-individuale dello Stato: l’etica culmina nella politica». Per il peronista, insomma, etica e politica sono la stessa cosa, ma l’etica, comunque, è predominante. Tanto è vero che subito aggiunge: «Essere pero-

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nista o giustizialista è più un sentimento che un partito politico; uno status spirituale più che uno status politico». Nei suoi scritti Peron critica sia l’individualismo liberale che il collettivismo marxista e sostiene che l’uomo ha esigenze non soltanto materiali, ma anche spirituali. Nel costruire una nuova società va dunque tenuto conto di questa «vision integral del hombre». Nonostante le analogie e le somiglianze con il fascismo di sinistra, che sono obiettivamente impressionanti e non casuali, va però rilevato che il giustizialismo ha avuto una sua evoluzione originale. Peron, insomma, non è stato soltanto un «imitatore» di Mussolini, ma anche un suo continuatore. L’esperimento «socialista nazionale» di Mussolini terminò traumaticamente con la sconfitta della RSI. Nessuno può quindi dire come si sarebbe evoluto, ma è probabile che se esso non si fosse interrotto avrebbe finito per assomigliare al peronismo. Non va infatti dimenticato che, negli ultimi mesi di Salò, il Duce stava pensando ad una RSI che sarebbe dovuta diventare una Repubblica presidenziale, con libere elezioni ispirate al pluralismo. Tanto è vero che autorizzò, nel febbraio del ’45, la costituzione di un partito «antifascista», il «Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista» che ebbe anche un proprio organo di stampa, il quotidiano Italia del popolo. In Argentina Peron vinse sempre a man bassa le elezioni e non soppresse mai il pluralismo e le libertà democratiche. Questo, infatti, lo hanno sempre fatto i suoi oppositori. Sarà dunque il peronismo, «fascismo del terzo millennio», con la sua «tercera posicion» la risposta che il mondo cerca dopo il suicidio del comunismo e la lunga agonia del neoliberismo? Difficile dirlo. Quel che è certo, in ogni caso, è che uno spettro s’aggira oggi per il mondo ed è quello di Evita Peron, la regina dei descamisados.

DOMINGO PERON

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IL RIGORE DI MONTI

TEMIBILI conseguenze di FILIPPO DE JORIO (*) MOLTA gente ci telefona per sapere come abbiamo fatto a descrivere la manovra di Monti tanto precisamente prima ancora che essa venisse presentata. Ebbene, rispondiamo: non era difficile conoscendo l’impostazione sostanzialmente industriale e la formazione bancaria del personaggio (per tanti altri versi stimabile e «fiduciabile»). Diciamo pure, per precisare definitivamente il nostro giudizio, che nel suo provvedimento c’è tutto ciò che non dovrebbe esserci e poco di quello che avrebbe dovuto inserirvi. Siamo espliciti. La «batosta» sulle pensioni non provocherà di certo un aumento dei consumi e perciò della domanda interna. I modesti correttivi dell’ultimo momento nulla tolgono allo spaventoso rigore dell’ennesimo assalto ai trattamenti di quiescenza. (Abbiamo detto tante volte che l’aumento dell’età pensionabile è tollerabile soltanto se legato alla difesa del «valore» cioè dell’ipotesi della conservazione del potere d’acquisto delle pensioni nel tempo. Ciò che qui è del tutto latitante!). L’alibi che è stato fatto circolare («Bisogna colpire per forza i pensionati e non i grandi patrimoni, altrimenti la ricchezza nazionale si trasferisce all’estero»), non regge. È abbastanza evidente del resto che il capitale ha già preso altre vie, che gli investimenti in Italia vengono giudicati ad alto rischio, che insomma, gran parte dei capitali disponibili si tiene al riparo in investimenti di carattere tipicamente finanziario e non economico. Ma l’effetto sicuramente negativo di questa parte del decreto legge 201 è niente se rapportata alle prevedibili e devastanti conseguenze delle misure fiscali che rendono davvero tutti noi inermi di fronte a questo Fisco «Leviatano» potente e inarrestabile, contro il quale c’è poco da fare o da sperare (soprattutto dopo l’ultima trovata di Berlusconi che ha voluto gli avvocati fuori dalle Commissioni che amministrano la giustizia tributaria, che è ormai appannaggio dei soli ex funzionari delle imposte e di magistrati in servizio o in pensione!). Sul punto vorrei cedere la parola al commento di un giornale, Italia Oggi del gruppo di «Milano Finanza», del quale non si può certo sospettare ostilità nei confronti di Monti: «In pratica il cittadino risulta monitorato in tutte le sue attività economiche dall’occhio del grande fratello fiscale. Non ci sarebbe nulla da temere, almeno per le persone oneste, se fosse sostenibile l’idea di una macchina amministrativa perfetta, precisa come un laser, attenta alle ragioni dei contribuenti, capace di correggersi quando commette errori. Se ci fosse un contenzioso tributario efficiente, veloce e accessibile a tutti anche dal punto di vista dei costi. Ma così non è. Perciò attribuire un potere quasi assoluto alla macchina fiscale comporta grossi rischi. Per esempio qualcuno potrebbe essere tentato di utilizzare il Rambo tributario per perseguire i

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propri nemici politici o economici. Speriamo che sia solo fantascienza». Le dimensioni stesse del prelievo, tra imposte dirette e accise o imposte indirette, fa paura. Si tratta di aumenti (di tale importanza) che da soli possono provocare evasione o recessione e forse entrambe. Si pensi all’incremento dell’IVA di due punti che si somma a quello di poco anteriore voluto da Berlusconi. C’è poco da aggiungere, se non, forse, qualche amara riflessione sul fatto che queste misure fiscali e bancarie determineranno sicuramente una fuga dai depositi bancari. (Non è certo esaltante anche per i contribuenti più onesti sapere che contro ogni riservatezza - i propri conti correnti vengono comunicati in estratto anche all’Agenzia delle Entrate!). Queste considerazioni inducono a prevedere l’abbandono delle forme normali di investimento ed un ritorno alla tesaurizzazione «sotto il mattone» dello scarso contante in circolazione ed anche la reviviscenza della economia del baratto, per cui beni e servizi saranno scambiati non più con denaro (che non c’è o è sospetto usarle), ma con altri beni e servizi… Ma, insomma, c’è qualcuno che gode in questa «mazzata» generale, insomma qualcuno che ne trae qualche vantaggio? Anche qui la risposta è agevole: basta vedere e sentire la Marcegaglia che, in fondo, è la più schietta e sincera rappresentante del suo mondo. Le cose non le manda a dire, ma te le spiattella in faccia con aria aggressiva! A guadagnarci sono le imprese, destinatarie di provvedimenti benevoli (dall’art. 41 in poi della manovra). È chiaro che queste misure sono messe là per favorire nuovi impieghi, nuovi investimenti e posti di lavoro. Ma dubitiamo che ci riusciranno e dubitiamo soprattutto che gli eventuali vantaggi saranno spesi per interessi generali e non per il «particolare».

(Gianni Isidori, il Borghese 22 Dicembre 1974)

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In ogni caso, è supremamente ingiusto che i sacrifici vengano richiesti soltanto ad una parte, la più debole, la più bisognosa del Paese ed anche la più numerosa. Questa maggioranza sofferente, abbandonata a se stessa, è quella nella quale noi da molti anni ci riconosciamo e difendiamo, quella che sicuramente ha più contribuito con il suo lavoro allo sviluppo di questo Paese. Oggi viene trattata molto duramente e con forme inique. A questo punto non possiamo sottrarci alla domanda, diciamo di prammatica, che potrebbe esserci rivolta: Voi che cosa avreste messo, invece nella manovra? Lo abbiamo già scritto o detto, ma desideriamo ribadire e soprattutto dimostrare le nostre ragioni. Nei tre grandi agglomerati o poli economici e politici del mondo, USA, Paesi emergenti ed Europa, la crisi c’è stata e quasi con la stessa iniziale pericolosità, ma i componenti del BRIC hanno visto, sì, una diminuzione del loro prodotto interno lordo, ma non così forte come ci si aspettava. Così pure tutti gli altri Paesi emergenti. Quanto agli USA, stanno uscendo dalla crisi, sia pure lentamente, mentre l’Europa e soprattutto noi ci stiamo rientrando. È bene notare che gli States però, hanno utilizzato, memori della crisi del 1929 (ove fu fatto il mostruoso errore di contrarre il credito e di aumentare i tassi di interesse) i classici schemi keynesiani: credito abbondante e a basso costo, offerta di capitali sul mercato, investimenti, etc… Tutte queste misure cominciano ora a dare frutti con la ripresa dei consumi ed il calo della disoccupazione. Noi abbiamo seguito la strada opposta: credito scarso e caro, riduzione dei consumi e deflazione. Occorreva fare esattamente il contrario dando ossigeno ai consumi e promuovendo la capacità di accedere al mercato di decine di milioni di cittadini che ora ne sono fuori e per effetto della nuova manovra vengono ricacciati ancora più indietro. I soldi si devono recuperare in altro modo: abolizione delle province da subito; abolizione delle Authority che sono totalmente estranee al nostro sistema giuridico e servono soltanto per sistemare gli Amici politici; cura dimagrante per i Comuni e le Regioni con riforme incisive sulla duplicazione di competenze; lotta alla corruzione politica (che non si identifica con i vitalizi, che sono ben poca cosa!) che passa attraverso una rigorosa disciplina degli appalti pubblici, che sono spesso il mezzo con il quale si attua quel saccheggio del bilancio dello Stato che - secondo la Corte dei Conti - costa 90 miliardi di Euro all’anno. Di tutto questo la manovra neppure parla! (*) Presidente della Consulta dei Pensionati e dei Pensionati Uniti

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L’ITALIA E LA DOTTRINA BREZNEV

SOVRANITÀ limitata di CARLO VIVALDI-FORTI QUASI per caso, riordinando la libreria, mi è capitato sotto mano un vecchio saggio del giornalista Jiri Pelikan, già direttore della televisione cecoslovacca fino al 1968, quindi esule e deputato socialista in Italia, dal titolo Il fuoco di Praga. Poiché me ne ero servito a suo tempo per redigere il romanzo Pravda vitezi-La verità vince, ho deciso di scorrerlo nuovamente. La sua rilettura, a distanza di anni, mi ha fatto venire i brividi. Le somiglianze fra i tragici eventi della Primavera di Praga e l’odierna situazione italiana appaiono davvero inquietanti. Senza dubbio l’invasione sovietica della piccola e pacifica Cecoslovacchia costituisce il massimo esempio dell’applicazione della dottrina Breznev sulla sovranità limitata. La vicenda, che vide l’inizio nelle entusiasmanti giornate di quel fatidico gennaio che avrebbe inaugurato l’anno della contestazione, comincia a suscitare gravi timori quando emerge chiara l’intenzione di Dubcek e del nuovo Comitato centrale del Partito comunista di avviare profonde riforme non soltanto economiche ma anche istituzionali. Il professor Ota Sik, che dopo la repressione si sarebbe rifugiato in Svizzera diventando uno dei più rinomati docenti dell’Università di San Gallo, studiava già da tempo l’esperienza jugoslava di autogestione aziendale diretta da Milovan Gilas che, se non fosse stata fermata in corso d’opera per volontà di Tito, avrebbe potuto davvero avviare una nuova stagione della società est-europea, e forse non soltanto di quella. L’allarme per il cammino imboccato dal governo cecoslovacco, noto come socialismo dal volto umano, si manifesta già a fine febbraio, meno di due mesi dall’avvio dell’esperimento. Il 28 Dubcek è fraternamente convocato ad una riunione dei dirigenti comunisti dell’Europa orientale, a cui prendono parte Breznev, Ulbricht, Kadar e Gomulka. Il timido ma orgoglioso segretario cecoslovacco subisce il primo, duro interrogatorio di una lunga serie, autentico calvario che lo costringerà alle ignominiose dimissioni dell’aprile 1969. I compagni chiedono perentorie rassicurazioni circa gli impegni assunti da Praga col Patto di Varsavia e col Comecon; nei lunghi colloqui multilaterali i temi seri e minacciosi si alternano, secondo una consolidata e abile regìa, ai pranzi di gala, alle pacche sulle spalle e addirittura all’apparentemente generosa offerta in caso di necessità. «Nessun contrasto è emerso tra noi e i sovietici, i tedeschi o i polacchi», riferirà Dubcek al suo rientro, «ci hanno espresso appoggio, promettendoci anche un aiuto economico per risolvere i nostri problemi. Dunque, tutto va bene.» Malgrado quel richiamo gli eventi proseguono il loro corso, un corso che non piace ai sovietici. Il 24 aprile il premier Oldrich Cernik presenta all’Assemblea nazionale un programma di governo coraggiosamente innovatore: riconoscimento del diritto di libera associazione, di

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viaggiare all’estero per tutti i cittadini, l’indipendenza dei tribunali e l’obbligo di tenere le udienze a porte aperte, la più completa libertà religiosa oltre alla possibilità, per i non comunisti, di partecipare alla vita pubblica. Già si annuncia la decisione di includere, nel ministero appena formato, diversi sottosegretari appartenenti a partiti politici di minoranza. Viene quindi presentato un disegno di legge per l’abolizione della censura sulla stampa. Cernik commenta inoltre la situazione economica del Paese, che a suo avviso è molto meno catastrofica di quanto affermi l’ala dura del Partito, e non potrebbe essere considerata critica nonostante il debito estero di quattrocento milioni di dollari, per saldare il quale pensa a un’apertura del mercato nazionale verso Occidente, alla progressiva liquidazione delle dogane e alla futura convertibilità della moneta. Immediata conseguenza di tali cambiamenti è una ulteriore chiamata a rapporto dei dirigenti praghesi a Mosca. La delegazione, formata da Dubcek, Cernik e Bilak, vi si trattiene due giorni, nel corso dei quali è sottoposta a crescenti pressioni. Il comunicato emesso dai sovietici al termine della visita contiene larvate minacce. La formula usata parla di «una atmosfera di franchezza e cameratismo», che nel linguaggio diplomatico del Kremlino sottintende sostanziali difformità di vedute. Appena quarantotto ore più tardi il ministro della difesa russo annuncia che quest’anno le manovre militari congiunte del Patto di Varsavia si terranno in territorio cecoslovacco. Il 25 giugno migliaia di soldati e di carri armati si sparpagliano in tutto il Paese. Informazioni preoccupanti arrivano dagli esperti militari e dalla polizia: «I sovietici hanno collocato cavi speciali con cui possono ascoltare le conversazioni del governo e del Partito. Stanno redigendo carte particolareggiate degli aeroporti e degli impianti civili. S’installano da noi come se dovessero restare». A rafforzamento delle intimidazioni il 5 luglio giunge a Dubcek una lettera ultimativa firmata da tutti i segretari dei Partiti fratelli, nella quale si ingiunge alla Cecoslovacchia di sottomettersi alla loro volontà. In calce al ricattatorio documento, diviso in punti estremamente chiari, (in pratica s’invitano le autorità di Praga ad annullare tutte le riforme varate dall’inizio dell’anno e ad evitarne di nuove), si intima al segretario del PCC di recarsi a Varsavia con urgenza, in quanto l’Internazionale comunista intende conferire con lui. Quella volta il cecoslovacco rifiuta, proponendo singoli incontri bilaterali con ciascuno dei partner. Al contempo ribadisce agli alleati la propria fedeltà indiscussa al socialismo, escludendo qualsiasi ritorno al capitalismo. Mostrandosi persuasi, i Russi ordinano il ritiro dei contingenti militari impegnati nelle esercitazioni. A Praga, però, la linea riformista prosegue: il 26 giugno è varata la legge per la riabilitazione dei condannati nei processi politici; il 29 la rivista Literarny Listy pubblica il Manifesto delle 2000 parole dello scrittore Ludvik Vaculik, che i sovietici interpretano come una gravissima provocazione per le frasi che contiene: «Ci opporremo a che le forze straniere interferiscano nel nostro processo d’evoluzione e ci porremo dietro al governo legittimo con le armi in pugno, se necessario, affinché esso continui a fare ciò per cui ha avuto mandato». L’ultimo tentativo per scongiurare la catastrofe è posto in essere, dai dirigenti del Patto di Varsavia, nei colloqui di Cierna nad Tisou, guidati da Breznev in persona per sottolinearne l’importanza.

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Questi si concludono il 3 agosto con l’apparente accordo di Bratislava, meglio conosciuto come Pace di Presburgo, terminati con i consueti abbracci e baci sulla bocca. Diciotto giorni dopo, in una calda e placida notte di mezza estate, una valanga di carri armati, aerei e autoblindo invade la Cecoslovacchia. Il parlamento nazionale è sospeso dagli invasori, i deputati legittimamente eletti imprigionati, i vertici dello Stato tradotti con la forza a Mosca; Dubcek tornerà pochi giorni dopo drogato, malconcio, con cerotti e lividi in tutto il corpo. Ai compagni che gli chiedono di non firmare il diktat imposto dai sovietici risponde piangendo: «Troppo tardi, non è possibile. Abbiamo firmato gli accordi. Bisogna applicarli, altrimenti ci saranno bagni di sangue». Gl’invasori cercano invano un nuovo segretario del Partito, un Quisling in salsa cèca, ma non lo trovano. In un primo tempo si appoggiano al Presidente della Repubblica, Ludvik Svoboda, personaggio ambiguo, che fin dall’inizio della primavera ha tenuto il piede in due staffe. L’anno seguente, nell’aprile 1969, dopo il suicidio di Jan Palach e di altri studenti, individuano un Gauleiter nella scialba figura del burocrate Gustav Husak, un sedicente tecnico già militante nella corrente riformista, convertitosi poi al breznevismo duro e puro. Egli governerà fino al 1989, quando la rivoluzione di velluto lo caccerà a calci nel sedere dal Castello di Praga, proclamando Vaclav Havel presidente. Il Te Deum della liberazione, il 29 novembre, porrà finalmente termine a quarantadue anni di tirannide bolscevica e di sovranità limitata ai danni del Paese. Qual è la morale da trarre da questa storia, e perché ho ritenuto opportuno rievocarla oggi? Il motivo essenziale è l’analogia col dramma che l’Italia sta vivendo in questi mesi. L’interpretazione del non troppo misterioso puzzle la otteniamo sostituendo Praga con Roma; il Comecon e il Patto di Varsavia con la BCE, il FMI, Goldman Sachs e compagnia cantante; Mosca con Bruxelles; Dubcek con Berlusconi; Napolitano con Svoboda; Husak con Mario Monti, entrambi nel ruolo di grandi normalizzatori, anche se in termini ortodossamente marxisti l’appellativo più esatto sarebbe utili idioti. Operata simile variante, gli altri ingredienti ci sono tutti: le pressioni indebite esercitate da potenze straniere sul parlamento legittimo; la politica del bastone e della carota fra ricatti economici e interessate profferte di aiuto; convocazioni d’urgenza a Bruxelles del premier italiano per ricevere ordini, lavate di capo e ramanzine; rassicurazioni imbarazzate di quest’ultimo, obbligato a tener buoni sia i presunti alleati che l’opinione pubblica nazionale; l’invasione di Roma ad opera dello spread, (la definizione è di Giuliano Ferrara), speculare a quella di Praga del 1968; la destituzione del capo di governo democraticamente eletto e la sua sostituzione con uno scialbo burocrate, un Gauleiter mosso dai fili della grande finanza internazionale. Gli gnomi di quest’ultima, poi, non diversamente dai satrapi del Kremlino, appaiono dei megalomani pazzi e criminali, che sognano la conquista del mondo e l’esercizio di un dominio planetario. A tal fine sono disposti a massacrare popoli interi e a distruggere lo stesso ambiente naturale, come le vuote e penose chiacchiere di Kyoto e di Durban tragicamente confermano. Il modello sociale da loro edificato, che con l’uso della forza intendono imporre all’intera umanità, è quanto di più folle, delinquenziale e totalmente privo non solamente di valori etici, (non pretendiamo troppo!), ma neppure di

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normale razionalità che si possa concepire. Infatti, nel programmare queste dissennate scelte sembrano autentici marziani che vivono su un altro pianeta. A causa della limitata intelligenza e della completa mancanza di cultura che manifestano, non si rendono conto che distruggendo la vita sul nostro piccolo globo distruggono pure se stessi, le proprie famiglie e il loro futuro. Tale compagnia di mentecatti spadroneggia ormai da oltre mezzo secolo. I loro crimini contro l’umanità non si contano. Essi, per esempio, portano intera la responsabilità di aver respinto la nuova Russia, uscita dal crollo del comunismo, ai margini delle relazioni internazionali, col brillante risultato di trovarci oggi di fronte una grande potenza ancora una volta antagonista, mentre avrebbe potuto facilmente figurare tra i nostri più fedeli alleati, soltanto che si fosse condotta nei suoi confronti una politica più lungimirante e generosa dopo il 1991, ammettendola sia nella NATO che nella UE a parità di condizioni; offerte che a quell’epoca Eltsin non sarebbe stato in grado di rifiutare. La fine che simili delinquenti meritano, e che presto faranno, è la stessa di Ceausescu, di Saddam, di Gheddafi e di Bin Laden. O al massimo, in modo giuridicamente più corretto, quella dei criminali di guerra di Norimberga, di Milosevic, di Karadzic. Il loro impero è forse saldo e imbattibile come appare a prima vista? Assolutamente no e cerchiamo di spiegarne la ragione. Il motivo che indusse Breznev a marciare su Praga fu la consapevolezza, rivelatasi poi esatta, che se avesse consentito ai comunisti eretici di Dubcek di riformare la società e lo Stato cecoslovacchi, in men che non si dica l’effetto domino avrebbe travolto, uno dopo l’altro, i membri del Patto di Varsavia. Il motto era: colpirne uno per educarli tutti. Analogamente oggi, la preoccupazione della cupola del malaffare è che il contagio si estenda. Per questo, non per altro, è stato necessario ricondurre all’ordine i capitalisti eretici italiani, affinché in nessun altra provincia dell’impero si manifestassero velleità analoghe. Il colpo di Stato di novembre sembra un rinnovato trionfo della dottrina brezneviana della sovranità limitata. La manifestazione muscolare degli gnomi ne rivela all’opposto la spaventosa debolezza. Le contraddizioni e la disumanità su cui si regge il loro dominio li condurranno inevitabilmente alla disfatta. Il giorno in cui scomparirà per sempre il porcellum che da oltre mezzo secolo avvelena e distrugge le nostre esistenze, organizzeremo per i laici una trionfale giornata di giubilo in Piazza San Giovanni in Laterano, e per i religiosi un magnifico Te Deum nel Duomo di Roma, in ringraziamento per la liberazione dell’Occidente, come quello in San Vito di Praga lo fu per la liberazione dell’Oriente.

VACLAV HAVEL

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EUROPA A DUE VELOCITÀ?

FALLIMENTO politico di RICCARDO PARADISI IN ATTESA di capire che fine facciano l’Italia e l’Europa sotto le sferzate della speculazione e le valutazioni delle cosiddette agenzie di rating - le stesse che alla vigilia dell’esplodere della bolla sui mutui USA regalavano la tripla A alla tossica Lehman Brothers - nell’attesa, dicevamo, un default conclamato possiamo già registrarlo. Si tratta del fallimento della classe politica continentale, «prolegomeno» a tutti i collassi economici che sono venuti e verranno. Non parliamo del caso italiano, perché non c’è bisogno di ribadire ciò che è ovvio. Basti dire che in Italia, dal novembre scorso, esiste un governo tecnico nominato dal presidente della Repubblica e sostenuto da una maggioranza amplissima in parlamento che oltre ad essere il regista d’una manovra micidiale e recessiva di risanamento dei conti pubblici - si prevede una contrazione del PIL in tempi brevi e l’ulteriore impoverimento delle classi più deboli - è anche, di fatto, il liquidatore definitivo delle coalizioni e del sistema della cosiddetta seconda repubblica. Un quindicennio d’altro canto segnato dalla paralisi operativa indotta da veti incrociati e coalizioni bloccate al proprio interno. Ma l’Europa che conta e decide non sta meglio né in termini di qualità di leadership né in termini di tenuta economica. Quale sia l’esatta misura della mediocrità dell’attuale presidenza francese e cancelleria tedesca lo dimostrano gli sbagli, le indecisioni e gli intoppi di queste settimane del cosiddetto «asse Merkozy» di fronte all’avvitarsi della crisi. Dopo le esibizioni di sufficienza e di grandeur di Sarkozy, scortese e sprezzante nei confronti degli altri Paesi europei e verso l’Italia in particolare, l’uomo che soltanto una certa «destra» italiana poteva scambiare per un redivivo De Gaulle, ha visto la crisi avventarsi sull’esagono con i principali gruppi bancari francesi bersaglio d’una ondata di vendite che ha portato Société Générale a perdere il 20 per cento, Bnp Paribas quasi il 10 e Credit Agricole scendere di oltre il 14 per cento. La Francia insomma, dove a novembre s’è registrata una punta di 4 milioni di disoccupati, potrebbe tra breve essere associata ai cosiddetti Pigs, l’acronimo razzista per riunire in un solo insieme di monatti Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Soltanto che le banche francesi hanno una posizione sul capitale addirittura peggiore rispetto alle banche italiane e spagnole. La Germania di Angela Merkel presenta indubbiamente un profilo più solido. Ma vista per intero e a fondo anche la realtà tedesca nasconde le sue ombre. A parte il PIL sceso a zero, Berlino è entrata da ultimo nel mirino delle agenzie di rating statunitensi quasi a convincersi che ormai è l’intera eurozona a correre il pericolo di un possibile outlook negativo, che porterebbe a un generale abbassamento del rating nel prossimo futuro. Non basta nemmeno questo però a persuadere pienamente la cancelliera Merkel, chiamata di ferro per la sua ottusità evidentemente, a una diversa e più concertata gestione europea della crisi. Dopo aver bloccato al vertice di Strasburgo

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qualunque soluzione ipotizzata per risolvere la crisi, impedendo ulteriori interventi mirati della BCE sui titoli degli Stati membri e negando ogni possibile emissione di eurobonds, ha protratto la sua ostinazione fino alla vigilia del vertice di Bruxelles del 9 dicembre, fin sull’orlo cioè della catastrofe dell’eurozona prefigurata con tempismo perfetto dalla solita Standard e Poor’s che sceglie proprio la vigilia del più delicato vertice della storia UE per ventilare scenari di catastrofe. Un vertice da cui esce poco: la promessa d’unione fiscale ma non la riforma della BCE per far fronte alle turbolenze del mercato. E soprattutto l’ordine impartito da Berlino sui pareggi di bilancio statali, una condizione a cui Londra ha risposto no thanks. «Con la sua politica sta distruggendo la mia Europa», ha detto Helmut Kohl della Merkel. Il riferimento è all’Europa politica di quando i presidenti all’Eliseo si chiamavano Charles De Gaulle, Giscard D’Estaing o Francois Mitterand, i premier italiani De Gasperi e i cancellieri tedeschi Kohl o Adenauer. Una classe dirigente che pur nel quadro d’una guerra perduta, in un contesto europeo ancora disomogeneo, condizionato dalla guerra fredda seppero tuttavia costruire per i popoli del Continente, un perimetro di tutela. Alle nuove sfide della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia l’Europa di oggi, figlia di Maastricht e del tardo illuminismo ideologico, replica solo coi propri egoismi e la sua miope ragioneria arrendendosi al primato della finanza di cui sembriamo ormai tutti culturalmente prigionieri. Una denuncia questa che arriva non da pericolosi nazionalisti avversi all’euro e al libero mercato ma dal Censis del moderato e cattolico Giuseppe De Rita. «”Ognuno per se Francoforte per tutti” sembra ormai il messaggio corrente», ha detto De Rita alla presentazione dell’ultimo rapporto Censis sullo stato del Paese, «quasi che una società complessa come la nostra possa vivere e crescere relegando milioni di persone a essere una moltitudine egoista affidata a un mercato turbolento e sregolato e affidando la tenuta dell’ordine minimale a vertici finanziari ristretti e non sempre trasparenti». Un modello che non regge «perché le masse lasciate nella dipendenza da un ideologico primato del mercato accentuano i propri difetti e le loro paure e perché la verticalizzazione della finanza porta all’affermazione di poteri che si alimentano con specifiche logiche con specifici comportamenti e linguaggi». È «illusorio» insomma pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo, perché lo sviluppo «si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive». Economia reale insomma, corpi intermedi e controllo politico sui propri destini. A capire che questa Europa non va da nessuna parte e a sganciarvisi in modo sempre più marcato sono gli inglesi che come ha detto il premier Cameron a Bruxelles lo scorso 9 dicembre e con buona pace del sempre più nervoso e goffo Sarkozy non hanno nessuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità. Come del resto gli Stati Uniti, centrale ideologica del liberismo e focolaio della crisi finanziaria, dove a nessuno è mai venuto però in mente di usare la Federal reserve. Questioni, quelle della sovranità e della geopolitica, che i ragionieri di Bruxelles non capiscono. Cosicché chi sognava una patria più grande, la nazione Europa delle patrie, rischia oggi, per paradosso, di perdere anche la patria che aveva. Evaporando da un lato nelle astrazioni di spread e rating e dall’altro regredendo ai nazionalismi di vallata delle leghe separatiste. C’è semplicemente da sperare che la dura lezione dei fatti risvegli quello che è rimasto della coscienza politica dell’Europa. Ma è soltanto l’ottimismo della volontà a parlare.

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LETTERA A NAPOLITANO

SOSPETTA incostituzionalità di FRANCESCO ROSSI EGREGIO Presidente, ho preso la decisione di scriverLe visto che l’evidente anomalia istituzionale che si è manifestata da più di due anni ormai non accenna a venir meno, probabilmente perché continua a non essere affrontata. L’anomalia cui mi riferisco è data dal comportamento dell’Onorevole Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati. In base alla formazione che ho avuto (sono avvocato, anche se non esercito), e che per quanto concerne gli studi coincide con la Sua, il Presidente della Camera (allo stesso modo del Presidente dell’altro ramo del Parlamento) è un organo imparziale, una «carica istituzionale», come viene correntemente definita sui mezzi di comunicazione. Ciò significa che il politico che riveste questa carica deve abbandonare non dico lo scontro politico (che dovrebbe essere inimmaginabile per lui), ma anche il solo dibattito politico. Per quanto mi riguarda, l’unico settore in cui il Presidente della Camera potrebbe intervenire, eventualmente polemizzando con le forze politiche, potrebbe essere quello della possibile modifica dei regolamenti parlamentari oppure il caso dell’eccessivo ricorso alla fiducia da parte del governo, poiché questo limita la normale attività del Parlamento, intesa come libera discussione e votazione Al di fuori di questi casi, l’ingresso della terza carica dello Stato nella polemica politica è semplicemente incompatibile con i caratteri di questa carica. Purtroppo, nel caso dell’attuale Presidente Fini, non c’è bisogno di ricercare faticosamente i casi in cui tale incompatibilità si è realizzata, perché l’abbondanza, la varietà e l’estrema gravità di quei casi hanno provocato una vera e propria assuefazione. Detta assuefazione, o meglio una certa tendenza alla minimizzazione, è dovuta anche alla promozione che ne hanno fatto, fin dall’inizio, alcune forze politiche; le forze di opposizione, contrapponendosi l’On. Fini sempre all’ex Presidente

Riceviamo e pubblichiamo la lettera che il Dott. Francesco Rossi, nostro collaboratore, ha inviato al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e la risposta del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica-Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali

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del Consiglio Silvio Berlusconi, hanno sempre cercato di caratterizzare la reazione di fronte all’abuso della posizione di Presidente della Camera come una posizione pretestuosa. Le forze dell’ex maggioranza, dal canto loro, hanno più volte minacciato di investire della questione Lei, Presidente, però, del tutto inspiegabilmente non lo hanno mai fatto; ed anche loro hanno compiuto un disservizio, al Paese prima che a loro stesse. Questo è un modo bizzarro di impostare la questione, perché il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione e non deve essere «investito» di una questione costituzionale come fosse la Corte Costituzionale; egli dovrebbe intervenire qualora si presenti la necessità. Purtroppo, detta impostazione a mio avviso è conseguenza del Suo comportamento, Presidente, stranamente ma decisamente silente. Lei si è sempre comportato come se la «trasformazione» data dall’On. Fini alla terza carica dello Stato fosse quanto di più ordinario e fisiologico si potesse incontrare nella cronaca politica quotidiana. Lei ha agito non solo come se non potessero mai sorgere sospetti di incostituzionalità, ma come se quello dell’On. Fini non fosse un comportamento letteralmente «senza precedenti». Egregio Presidente, l’alternativa è secca: o l’On. Fini ha gravemente violato le prerogative proprie del Presidente della Camera, oppure hanno sbagliato nel loro comportamento tutti i Presidenti (Lei compreso, in quanto ex Presidente della Camera) che lo hanno preceduto. Allora, visto che Lei non è mai intervenuto in proposito (nonostante il Suo deciso intervento in altri campi, come per la formazione dell’attuale governo, in buona sostanza un «governo del Presidente»), molto modestamente ed in qualità di privato cittadino e di giornalista La investo del problema, visto che la questione è stata impostata in questi termini: Le chiedo espressamente di pronunciarsi in merito alla compatibilità del comportamento dell’On. Gianfranco Fini con la carica di Presidente della Camera.

. . . TECNICO

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Non si può continuare di fronte all’Italia a chiamare la terza carica dello Stato una carica istituzionale, quando l’attuale Presidente ha tenuto un comportamento che più diametralmente opposto rispetto ad un ruolo terzo cioè istituzionale non si può immaginare. Questo è un elenco che può peccare solo per difetto. L’On. Fini è intervenuto e tuttora interviene su temi politici, facendo proposte e criticando quelle che ritiene inopportune; ha messo in discussione la ragione d’essere di un partito (La Lega Nord; in relazione a questo punto, gli si potrebbe chiedere la ragione per cui si è alleato con questo partito più volte e per diversi anni); ha commentato i provvedimenti in discussione nell’aula da lui presieduta; ha formato un partito che al di là del nome è una vera e propria «Lista Fini», perché ha la sua unica ragione d’essere nel fatto di avere l’On. Fini come esponente-guida e quindi egli può fare politica all’interno della Camera per interposta persona; ha criticato aspramente l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi continuamente e su tutto, facendosi promotore insieme ad altri di una mozione di sfiducia nei confronti del precedente governo; ha promosso questa mozione in tutti i modi possibili sui mezzi di comunicazione e negli incontri pubblici. A tutti gli eventi egli è intervenuto in qualità di Presidente della Camera e poi ha agito da uomo politico di opposizione. In via regolare l’On. Fini compie un giro «promozionale» di sé stesso nelle trasmissioni TV più seguite, colpendo sempre il suo bersaglio preferito - l’On.Silvio Berlusconi - e comportandosi come un politico tra i più agguerriti, che non risparmia accuse ai suoi nemici politici e sfornando proposte su tutto. Presidente, rimanere impassibili di fronte a tutto questo è semplicemente inaccettabile e io non lo accetto. Per questo Le scrivo. Devo dedurre dal fatto che Lei non è mai intervenuto al riguardo che Lei approva il comportamento dell’attuale Presidente della Camera? Accettando questa premessa Le chiedo: le parole hanno perso di significato e qualificare una carica come istituzionale non significa nulla e non impedisce di fare politica attiva? Bene, lo dica apertamente. Se il Presidente di un ramo del Parlamento può fare politica, ciò vuol dire che anche il Presidente dell’altro ramo del Parlamento può fare altrettanto, perché questa improbabile versione della «carica istituzionale» non può che valere per entrambi. Dovremo quindi attenderci in un futuro prossimo di vedere sui giornali, in TV, su Internet i Presidenti di Camera e Senato che si attaccano a vicenda e dibattono con forza le loro proposte? Forse i limiti ai poteri della carica dipendono dall’interpretazione e dal giudizio personale che ne danno i singoli esponenti politici che rivestono quella carica? Quindi il giudizio in materia dovrebbe essere lasciato solo «alla storia»? Bene, lo dica esplicitamente. In base all’art. 88 Cost. il Presidente della Repubblica deve convocare i Presidenti delle due Camere per decidere dello scioglimento del Parlamento: come fa il Capo dello Stato a distinguere il Presidente della Camera dall’uomo politico? Lei come fa? Come ha fatto ad operare questa distinzione quando ha convocato l’On. Fini (recentemente per le consultazioni che hanno condotto al nuovo governo ed in altri casi in passato) in qualità di Presidente della Camera? Il giudizio reso dell’On. Fini è stato dato in via imparziale o come capo del suo partito e secondo le esigenze politiche di questo? Si può davvero fare una distinzione? Se sì, lo dica chiaramente.

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È normale che delle forze politiche debbano operare nelle aule parlamentari di fronte ad un Presidente che le ha criticate sprezzantemente fuori dell’aula e che si è fatto beffe delle loro iniziative? Se sì, lo dica senza ambiguità. Il punto grave del comportamento dell’attuale Presidente della Camera è che egli ha scientemente programmato questo uso della carica. Egli evidentemente ha dovuto subire la formazione del Popolo delle Libertà, visto il suo minore peso politico rispetto all’On. Berlusconi. Per vendicarsi egli non ha pensato di agire in via politica, conquistando il consenso degli elettori di quel partito e facendosi promotore di una posizione diversa e possibilmente vincente rispetto a quella dell’On. Berlusconi (o meglio forse ci ha provato, ma non ha accettato la sconfitta, attribuendola sempre a motivi corrotti, i soldi ed il potere altrui); no, egli consapevolmente scelto di usare non la sua forza, ma quella della carica che riveste. Considerare ammissibile questo comportamento provocherà in seguito una vera e propria lotta - anche all’interno della stessa formazione politica - per ottenere la nomina a Presidente di una delle Camere del Parlamento, perché attraverso questa carica sarà possibile modificare e potenziare la propria posizione all’interno del partito, dello schieramento ed in generale nell’ambito delle forze politiche. Il nome che io attribuisco a questo fenomeno è quello di abuso. Mi faccia gentilmente sapere come Lei lo classifica. L’On. Fini non si è mai dimesso perché è perfettamente consapevole che l’attenzione riservatagli è dovuta quasi esclusivamente alla carica che ancora riveste. Non a caso, quando viene citato sui giornali o presentato in TV egli viene introdotto, nonostante agisca da politico «puro», come «il Presidente della Camera». Mantenere questa carica è per lui ragione di sopravvivenza e non se ne andrà mai. Se non indotto dall’esterno. A mio modo di vedere tutto questo costituisce un abuso della Presidenza della Camera. Non solo, secondo il mio modesto parere, ciò equivale ad un attentato alla Costituzione. Perché? Perché di fatto, cioè almeno per quanto concerne l’elemento materiale della fattispecie, si è compiuto un attentato, secondo la definizione datane dall’art.283 del codice penale: «Un fatto diretto a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di governo con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello Stato». Questa è la mia posizione: con il comportamento dell’On. Fini i caratteri della terza carica dello Stato sono cambiati ed ora il Presidente della Camera italiano somiglia allo Speaker della Camera dei Rappresentanti statunitense, una carica che non impedisce affatto o comprime o limita lo svolgimento dell’attività squisitamente politica: una carica, in poche parole, che non è super partes. Questa mutazione è avvenuta non con leggi ma di fatto, attraverso un comportamento concludente, cioè con «…mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello Stato». Se Lei, Presidente, dovesse ritenere che io stia esagerando, mi spieghi come sarà possibile in futuro, di fronte ad un altro Presidente della Camera che si comportasse come l’On. Fini, intimargli di smettere e di adeguarsi ai caratteri propri di una carica istituzionale; oppure, se a comportarsi in maniera politicamente attiva fosse il Presidente del Senato (al momento non è avvenuto, grazie al senso di responsabilità dell’On. Renato Schifani, ma ciò può probabilmente verificarsi in futuro), chi potrebbe avanzare delle riserve nei suoi confronti? Chi potrebbe seriamente farlo con il precedente posto

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dall’On. Fini - che ha presentato (nel senso di sostenuto a gran voce fuori dall’aula) una mozione di sfiducia nei confronti del governo, che ha ripetuto incessantemente per più di un anno che il Presidente del Consiglio si deve dimettere, che ha apertamente invitato i parlamentari del Popolo delle Libertà a lasciare il loro gruppo parlamentare, che ha detto fermamente che in caso di dimissioni dell’esecutivo non bisogna andare alle elezioni, che ha suggerito le misure fiscali che il Parlamento dovrebbe approvare? No, Presidente , non potrebbe farlo più nessuno ormai senza cadere nel ridicolo. Quanto compiuto dall’On. Fini influisce per ovvi motivi anche sui lavori del Senato (nel senso che una trasformazione della carica di Presidente della Camera porta con sé anche la trasformazione della carica di Presidente del Senato) ed il ruolo dei Presidenti delle Camere sarà ormai equivalente a quello dei vicepresidenti delle stesse, che prima intervengono «politicamente» in aula ed un minuto dopo la vanno a dirigere temporaneamente perché sostituiscono il Presidente in carica. Ecco perché con l’attuale Presidente della Camera si è avuto un attentato alla Costituzione. Presidente, Le chiedo cortesemente di rispondere a queste mie domande. Non ci può essere coesione sociale, rispetto e fiducia nelle istituzioni se questi punti che ho sottoposto alla Sua attenzione non vengono chiariti in maniera netta; e soprattutto se non viene ribadita - e rigorosamente rispettata - la differenza tra ruoli politici e istituzionali, perché altrimenti la lotta politica finisce per investire tutti gli aspetti della vita pubblica ed il clima che ne risulta è quello della guerra civile. In attesa di Suo gradito riscontro., Le invio i miei Cordiali Saluti FRANCESCO ROSSI Venturina, 18 Novembre 2011 La risposta della Presidenza della Repubblica SEGRETARIATO GENERALE DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA UFFICIO PER GLI AFFARI GIURIDICI E LE RELAZIONI COSTITUZIONALI UAG 11.3 N.1127/2011 Egregio Signor Rossi, rispondo alla lettera del 18 novembre scorso con la quale Ella rappresenta al Capo dello Stato il Suo rammarico per il comportamento del Presidente della Camera dei deputati, on.le Gianfranco Fini, le cui attribuzioni sono regolate dall'articolo 8 del Regolamento. Devo, al riguardo, farLe presente che, proprio in considerazione della funzione istituzionale di garanzia che il Presidente della Repubblica esercita, la problematica da Lei esposta non può formare oggetto di intervento del Capo dello Stato che non può esercitare alcuna forma di censura nei confronti dei membri del Parlamento. Colgo l'occasione per inviarLe i migliori saluti. P. il Direttore dell’Ufficio (Dr.ssa Carla Francese)

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LA COSTITUZIONE ITALIANA

È pericolosa di GIANNI PARDO IL CODICE penale sorprende per la minuzia delle sue previsioni. Soltanto per il falso in atti ci sono 17 articoli e anche per un reato semplice come la truffa si distinguono parecchie fattispecie. L’incompetente si può chiedere il perché di tante «complicazioni» ma in diritto una minuziosa precisione è necessaria: una disposizione generica può dar luogo ad equivoci ed abusi. Se il codice si limitasse a dire: «Comportatevi bene, diversamente il giudice vi condannerà alla pena che riterrà opportuna», saremmo tutti in pericolo. Quel giudice potrebbe infatti chiamarsi Caligola. E se questo non fosse il suo nome, presto lo diverrebbe. Come diceva lord Akton: «il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente». Se il codice prevede minutamente le fattispecie di reato, le attenuanti e le aggravanti, è per evitare l’arbitrio e stabilire la certezza del diritto. Proprio per questo la pubblicazione della Legge delle Dodici Tavole, nel V secolo a.C., è un momento fondamentale nella storia. E per questo bisogna ammirare il babilonese Hammurabi che un codice lo pubblicò ben tredici secoli prima. Un bell’esempio dell’errore che si può commettere emanando disposizioni generiche è la nostra Costituzione. Essa contiene norme utili e specifiche (quelle che regolano il funzionamento delle istituzioni, ad esempio) ma ne contiene altre che meglio sarebbe stato lasciare nel limbo dei grandi princìpi giuridico-morali. Un caso sorprendente lo fornisce l’art. 2, il quale «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Che li garantisca è un bene, ma scrivendo che «li riconosce» proclama che essi preesistono al diritto positivo: e questa è un’affermazione che corrisponde ad una precisa presa di posizione in filosofia del diritto. Costituisce l’azzardato riconoscimento del «diritto naturale» di Grozio. Ma la Costituzione si deve occupare di filosofia? Ancora peggio, essa ha previsto una Corte Costituzionale che ha il potere di annullare le norme votate dal legislativo: e qui evidentemente al giudice (collegiale) è stato concesso un potere troppo ampio. La disposizione generica si presta infatti all’attuazione di una volontà politico-morale che contraddice la funzione del Parlamento, interprete unico della volontà del popolo. È facile dimostrare questo assunto con un esempio teorico. Immaginiamo che il Parlamento voti l’imposizione di una patrimoniale del 10 per cento per i cittadini la cui ricchezza, comunque misurata, superi il milione di euro. Una Corte orientata in senso liberista-conservatore potrebbe annullare la legge perché in netto contrasto con l’art. 3 della Costituzione (uguaglianza di tutti i cittadini); in contrasto con l’art.53, che prevede la progressività delle imposte: mentre qui si fanno pagare 100.000 € a chi ha un milione e niente a chi a ha 900.000 €; infine in contrasto con l’art. 42, che protegge la proprietà privata, e con l’art. 47, che «incoraggia e tutela» il risparmio. Ce n’è ad abundantiam per cassare la

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norma. E tuttavia una Corte orientata in senso socialista, progressista, o comunque si voglia designare la mentalità di sinistra, potrebbe, andando contro lo spirito della stessa legge fondamentale, reputarla conforme alla Costituzione. Questa prevede (art. 53) che tutti i cittadini devono concorrere alle spese dello Stato «in ragione della loro capacità contributiva»: e uno che ha un milione di euro può certo dare di più di uno che ha novecentomila euro o non ha niente da parte. E se qualcuno ricordasse che lo stesso art. 53 prevede «criteri di progressività», la Corte potrebbe semplicemente rispondere che secondo quella legge chi supera il milione sull’eccedenza paga non il 10 ma il 20 per cento, e il 30 per cento su ogni somma eccedente i due milioni: la progressività è assicurata. Senza dire che il momento drammatico che vive la nazione giustifica norme eccezionali e i cittadini abbienti devono sentire come uno speciale onore quello di contribuire più degli altri, ai sensi dell’art. 53... Ancora peggiore è il caso dell’art. 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione... in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa». Che cosa si intende per «esistenza libera e dignitosa»? Se un operaio ha una paga di 1.800 € al mese e va a chiedere alla Corte Costituzionale che imponga al suo datore di lavoro di pagarlo di più, da un lato può sentirsi rispondere che un professore guadagna meno di lui, dall’altro che ha ragione, ha diritto ad almeno 2.500 €. Altrimenti, quando tutti i vicini andranno in vacanza, la sua famiglia subirà l’umiliazione di dover passare l’agosto in città: e questo non è dignitoso. Se poi l’imprenditore, in conseguenza del nuovo esborso, fallisce, la cosa non riguarda la Corte. Molta parte della nostra cara Costituzione è pura retorica ma la Corte Costituzionale può farla diventare legge nei casi concreti: e ciò dimostra ancora una volta la pericolosità delle norme generiche. Quelle che piacciono tanto agli idealisti. giannipardo@libero.it, www.DailyBlog.it

CONFLITTO DI SCRIVANIE NEL GOVERNO MONTI Il ministro della Giustizia, Paola Severino, è all’affannosa ricerca della scrivania che fu di Palmiro Togliatti, detto «il Migliore», quando ricoprì quell’incarico nel 1946 e che sembra scomparsa o meglio occultata. Infatti, l’ex ministro, sempre della Giustizia nel governo Prodi, Oliviero Diliberto comunista-doc, ha rivelato che dopo averla utilizzata, prelevandola dagli scantinati di Via Arenula e restaurandola, allo scopo di proteggerla, l’ha «mimetizzata» e spostata in altri uffici. Non si sa ancora quali. La ricerca continua. Invece, il ministro degli Affari Europei ed ex collaboratore di Monti a Bruxelles, Enzo Moavero, dopo aver appreso che la scrivania dell’ufficio dell’ex portavoce del precedente governo, Paolo Bonaiuti, che deve occupare, pare fosse stata utilizzata ottanta anni fa da Mussolini, l’abbia sdegnosamente rifiutata al motto, sempre attuale e pregnante: «Sono un antifascista». Il governo Monti ha superato la prova delle Camere, ma di certo non ha superato la prova del ridicolo.

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DIFESA E SABOTAGGIO DELL’EUROPA

DA TRE ad un Monti di RICCARDO SCARPA A PROPOSITO di meritocrazia, qui per tutti i premî è la stagione dei saldi: Barak Obama, appena eletto Presidente della federazione imperiale degli Stati Uniti dell’America settentrionale, pel solo fatto d’essere un negro si vide conferire dall’Accademia di Svezia il Premio Nobel per la Pace nella speranza che, in futuro, avrebbe fatto qualcosa per evitare che l’Umanità continuasse e scannarsi, e quell’Accademia generosa e tutti noi stiamo ancora aspettando; il Chiarissimo Professor Mario Monti è stato nominato Senatore a vita dal Capo dello Stato colla speranza, da parte dello stesso, di potergli conferire qualche ora dopo il mandato per formare un governo e che questi riuscisse ad ottenere dal Parlamento nazionale la fiducia, cose accadute, e poi procedesse a portare fuori la Nazione dalla grave crisi economica d’inizio del 21° secolo dell’êra volgare, il che è ancora un auspicio. Il Rettore della Bocconi di Milano, l’Università degli studî privata laica di maggiore tradizione per l’economia in Italia, fu membro della Commissione, cioè ministro del governo della Comunità europea, come si chiamava allora l’Unione, ma vide la copertina dell’Economist, durante il suo incarico, dedicata non a lui ma all’allora sua collega Emma Bonino, giudicata più fattiva. Di Rettori Magnifici, in tutti i sensi, e di ex membri delle Istituzioni comunitarie l’Italia ne ebbe ed ha più d’uno, ma non per questo furono o sono nominati Senatori a vita. Non lo fu Gaetano Martino che, oltre ad esser stato Rettore, nel 1957, coi Trattati di Roma, da ministro degli esteri fu il principale artefice della Comunità economica europea e dell’Euratom, e fece superare al processo d’integrazione federativa supernazionale alla grande lo stallo determinato dalla mancata ratifica del trattato istitutivo della Comunità europea di difesa. Certo, occorre riprendersi dalla delusione d’un Giulio Tremonti. Partì bene nel 1994, col primo ministero Berlusconi, con misure e sgravî fiscali a favore delle nuove iniziative imprenditoriali ch’ebbero effetti epocali, ma poi, dopo aver promesso fuoco e fulmine alle banche, ha invece ridotto il contribuente ad un paria, senza più diritti difendibili con strumenti giudiziarî, dato che le cartelle esattoriali auto esecutive, sua invenzione, danno ad un’affermazione unilaterale il valore esecutivo d’una sentenza, facendo dell’erario il giudice di sé medesimo. Nessuno rimpiange Tremonti mentre si passa ad un Monti solo, soltanto si spera non porti la Nazione al Monte di Pietà. Non pare però cambi la logica della progressiva confisca dei diritti degli esseri umani in spirito, anima e corpo da parte dello Stato e del sistema bancario. Quanto allo Stato, adesso, dei redditi sopra i 75.000 Euro l’anno si pappa il 46 per cento a titolo d’imposta sulle persone fisiche. anto lle banche! Si pensi all’idea di ridurre i soldi ritirabili in contanti dal proprio conto corrente. Questo significa: «soglia di rintracciabilità a mille euro». I quattrini di chi ha un deposito presso qualcuno sono, ricordiamocelo, di chi li ha depositati, che ha il diritto naturale ad averli in dietro quando e come vuole.

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Da ragazzo lessi la notizia vera di quel suddito di Sua Maestà Britannica che, obbligato a pagae un tributo che riteneva ingiusto, si fece preparare l’intero ammontare, dalla sua banca, in monetine da un penny, le mise alla rinfusa in una carriola, e si presentò allo sportello dell’erario all’ultimo minuto prima della chiusura dell’ultimo giorno utile per pagare, e così obbligò il personale dipendente, che non poté rifiutare il pagamento in quanto offerto prima della chiusura dello sportello ed in moneta a corso legale, a fare gli straordinarî per contar le monetine. Quella è una Nazione in cui, da antiche rivoluzioni secentesche, il Cittadino è considerato Sovrano, rappresentato dal Re o dalla Regina e dal Parlamento, al suo servizio come governo e amministrazione. Il mondo bancario oggi ha una prospettiva diversa, non vede il danaro depositato come bene fisico, ma soltanto l’affidamento all’istituto della gestione elettronica di partite contabili. La moneta non è più un bene realmente esistente scambiabile con qualunque altro e, perciò, misura di valore di tutti gli altri, ma soltanto un’unità di conto astratta, numerica, come metro, litro, chilo, che non esistono in sé, esistono le cose che misurano. Per questi servizî si fanno pagare. Se il cliente ritira contanti e procede da sé ai singoli pagamenti, l’unica operazione che paga è quel ritiro; se invece gli viene impedito di farlo e per ogni incasso e pagamento ricorre alla «moneta elettronica» la banca si fa pagare ogni operazione, ed ecco il regalo che il governo fa al sistema bancario ogni qual volta limita l’entità del valore ritirabile in contanti. Preferire la moneta elettronica alla cartacea rileva quanto la moneta sia considerata oggi soltanto un’unità di conto e, questo, svela l’assurdità del signoraggio, cioè di quanto l’istituto d’emissione esige dagli Stati pel controvalore della valuta stampata. Infatti sulle banconote in Euro non è scritto: «pagabile a vista al portatore», ma solo: «© BCE ECB EZB EKT EKP 2002 » o, per l’anno, l’altro d’emissione; cioè che sono stampe su cui la Banca Centrale Europea ha una proprietà intellettuale protetta, non possono essere stampate da altri. Quindi, il valore dell’Euro è quello di mercato; quello, cioè, che compratori e venditori delle cose riconoscono ad esso per il credito che allo stesso danno. Ha ragione Sabino Frigiola, il signoraggio è come se il tipografo che stampa biglietti dello stadio per una partita di calcio, volesse essere pagato non pel costo di stampa più il suo ricarico, ma pel prezzo di vendita stampigliato sopra, quando i tifosi pagano quella cifra per la loro affezione alla storia sportiva della squadra e per quanto questa fa ben sperare loro. Intanto, rilevante parte del debito pubblico, per ripianare il quale si chiedono lacrime e sangue, è data dai titoli di Stato consegnati alla banca d’emissione per stampar danaro ma, come nel caso di quel bizzarro tipografo, in base alle somme stampate sopra i pezzi. Il signoraggio non nasce certo coll’Euro, è un retaggio delle monete nazionali precedenti, liretta compresa. Per questo il ritorno alle monete nazionali non è una soluzione: innanzitutto non giova al debito pubblico, che non è gonfiato dall’Euro più che dalla liretta, ma dall’assurdità del signoraggio; in secondo luogo, siccome la gente ha maggiore o minore fiducia in una moneta a seconda di quanta ne ha dell’economia che rappresenta, ciò spiega come l’Euro avesse iniziato ad essere preferito al Dollaro statunitense, e perché sia iniziato l’attacco della plutocrazia finanziaria internazionale legata al dollaro contro di esso. Dopo l’annuncio d’alcune agenzie di rating di prepararsi a declassare l’Unione europea soltanto i gonzi non se ne accorgono. Il gioco è palese: attacco agli Stati nazionali per obbligarli a tartassare i cittadini e determinare movimenti populisti destabilizzanti e farli uscire dall’Euro; attacco finale all’Unione europea per smembrarla. Il risultato finale perse-

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guito è l’annullamento dell’unica moneta a far agio sul Dollaro statunitense e la distruzione dell’unico, pur insufficiente, embrione d’un Europa politica che avrebbe riportato il vecchio continente a giocare il suo ruolo nel mondo. Una battaglia per una nuova democrazia nazionale europea, invece, deve avere ben altri scopi e più alti: costruire un movimento per esigere che la Banca Centrale Europea divenga uno strumento di Istituzioni supernazionali rappresentative, sottoponendola, come la Commissione, al controllo del Parlamento europeo; abolire l’istituto anacronistico del signoraggio; contestare la gestione minimalista della politica estera e di difesa comune, affermando un ruolo del Parlamento europeo nel controllo della politica internazionale e militare dell’Unione. Insomma puntare dritti agli Stati Uniti d’Europa, ma per questo non è buona cosa che, sia al vertice della Banca Centrale Europea che al governo delle Nazioni, ci siano banchieri collegati coi settori della finanza internazionale che conducono la guerra all’Euro, per smembrare l’Unione europea, e mettere le mani sulle migliori imprese dell’economia reale italiana ed europea.

IL PROFETA DI LARGO FOCHETTI Su Repubblica del 27/11/2012 Eugenio Scalfari ha scritto: «La formazione del governo spetta al presidente della Repubblica il quale, a termini della Costituzione, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri». E su questo stesso blog si è osservato: «Al Presidente della Repubblica non spetta affatto /la formazione del nuovo governo/ ma (art.92) solo /la / nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri/. Nient’altro. Il PdR i ministri li nomina ‘su proposta di questo’ - una proposta che non può rifiutare - e non gli è neanche richiesto un parere consultivo». Una settimana dopo, cioè oggi, Scalfari ripete lo stesso errore. E si è costretti a ripetergli le stesse cose. «Penso e mi auguro», scrive, «che i futuri governi siano sempre governi istituzionali che riflettano gli indirizzi della maggioranza parlamentare ma la cui composizione sia decisa dal capo dello Stato come la Costituzione prescrive con estrema chiarezza». «La cui composizione sia decisa dal capo dello Stato come la Costituzione prescrive con estrema chiarezza»?: ma dove l’ha letto? Qui si sfida lui ed anche i lettori che dovessero condividerne le idee a indicare quale articolo della Costituzione assegna al Presidente della Repubblica il compito di «comporre il governo». Più oltre, riguardo ai ministri, il profeta scrive: «ma la [loro] scelta non spetta alle segreterie, spetta al capo dello Stato e questa è una distinzione fondamentale che preserva l’essenza del governoistituzione e toglie ai partiti una tentazione che deformerebbe il loro stesso prezioso ruolo». Assoluta fantasia anticostituzionale. La scelta dei ministri spetta al Presidente del Consiglio incaricato, non al Presidente della Repubblica, e il Presidente del Consiglio incaricato non può prescindere dal parere dei partiti che dovranno sostenerlo, perché diversamente essi non lo sosterrebbero. Amen. Ma non c’è, in Largo Fochetti, qualche fattorino che abbia letto la Costituzione? giannipardo@libero.it

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LA VERITÀ NEGATA CHE RITORNA

DEMOCRAZIA senza onore di ADRIANO SEGATORI «[…] LUNGO è il tempo, ma si fa evento il vero», così scandisce Friedrich Hölderlin in Mnemosyne, con la consolazione amara, nella catastrofe in atto, che almeno noi l’avevamo predetta, e i ciechi e sordi nostri contemporanei non soltanto non ci avevano creduto, ma per questo ci avevano anche perseguitato. Questa premessa, essenziale, per porre a confronto due realtà e due panorami. Su tutto il fronte del Mediterraneo prospiciente l’Italia è in atto una serie di sollevazioni di popolo contro i governi in carica. Sincera o meno che sia questa condizione, creata artatamente o meno da potenze interessate, servizi collusi e agenzie incontrollabili, un dato emerge con assoluta prepotenza: di fronte ad uno stato di cose considerato intollerabile, il popolo unito in una comunità di sangue insorge per cambiare il sistema e ridefinire lo scenario politico interno. Non ci interessa, in questo momento, sapere se sia giusta questa feroce presa di posizione, né tanto meno prevedere degli sviluppi magari peggiori di quelli attuali. La nostra analisi si limita a prendere in considerazione soltanto la vitalità di queste persone, la loro volontà estrema, il loro indiscusso sprezzo del pericolo di fronte all’impellenza di concretizzare nei fatti una loro idea. E allora è lecito porsi anche una domanda molto circostanziata: perché da noi no? Perché in Italia, per non estendersi troppo a tutta l’Europa, di fronte allo strangolamento dello Stato da parte della finanza internazionale non c’è un minimo di reazione popolare? Perché davanti allo scenario determinato dal golpe di Napolitano non c’è stata la più pallida iniziativa di politica popolare? Le risposte sono molteplici, ma due possono interessare per la loro documentata valenza interpretativa. Da parte della sinistra, perché il seme del tradimento e della mancanza di senso della nazione è sempre stato coltivato nei suoi vertici e nella sua plebe. In nome di un velleitario internazionalismo essa ha sempre tramato contro l’Italia, considerata, al massimo, grimaldello europeo per imporre la sua ideologia di sangue e di oppressione. Basti pensare ai complotti che precedettero la seconda guerra civile europea, per passare poi alla sua funzione di quinta colonna del patto di Varsavia, fino alle condotte di delazione che portarono all’infoibamento di migliaia di italiani. Insomma, la sinistra è sempre stata antiitaliana, senza il minimo amore per la propria terra né considerazione per la propria storia. La parte avversa, tanto per forzare un inquadramento, per una distorta considerazione dello Stato, che non c’è, ha sempre optato per delle scelte caratterizzate dallo sfibramento piccolo borghese («Votiamo turandoci il naso» oppure «Meglio ladri che assassini»), quindi evitando, non avendo né la forza morale né la spregiudicatezza rivoluzio-

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naria, ogni possibile passaggio all’atto violento. Questa posizione partitica, tanto per capirci, ha in sé la velleità della mediazione, della diplomazia, di tutte quelle opzioni di negoziazione anche davanti all’impossibile, che rasentano e spesso superano il limite della vigliaccheria. Le trame erano, comunque, «democratiche». Perché a contenere questa tragicomica rappresentanza italica c’è sempre l’illusione democratica, la superstizione per un sistema dato per migliore e quindi immodificabile. E qui torniamo al titolo di partenza. Più di cinquant’anni fa il famigerato filosofo Julius Evola aveva parlato della democrazia come «infezione dello spirito», come di quel tarlo dell’anima e della coscienza che lentamente corrode ogni forma vitale data dall’orgoglio, dalla volontà e dal senso di dignità. Su Il Giornale del 15/11/2009, Jacques Julliard, Direttore del Nouvel Observateur, dichiarava testualmente: «La democrazia è un compromesso. Si deve fare a meno dell’onore». Ancora più dopo, Massimo Fini nel suo Cyrano confermava: «Il benessere ci ha reso la vita talmente cara che non c’è umiliazione che non siamo disposti a sopportare pur di non metterla a rischio». Ecco la griglia interpretativa attraverso la quale, con rigore analitico e intellettuale, dobbiamo interpretare la sindrome cachettica con cui si è accettato lo sbracamento dell’Italia degli ultimi decenni. Noi vi avevamo avvertiti! Questa democrazia della pancia piena e delle pensioni facili, delle velleità confortevoli e del futuro esagerato non era un sogno, ma un’allucinazione, e si sarebbe rivelata un incubo. Noi avevamo ragione! Questa democrazia ha permesso la perdita della sovranità nazionale e monetaria, ha perpetrato la svendita del patrimonio industriale e aureo dell’Italia, sta liquidando immobili e monumenti al miglior offerente e, infine, ha offerto su un piatto d’argento lo stesso malconcio Stato a finanzieri d’assalto e faccendieri transnazionali. Nel 1992 due fatti apparentemente distinti - il trattato di Maastricht e l’operazione «Mani pulite» - hanno dato l’avvio al nostro disastro. Da un lato, la resa ad un apparato europeo che ha voluto la liquidazione dei beni pubblici italiani e la privatizzazione selvaggia delle industrie fino a mettere le mani sui servizi e la previdenza sociale. Dall’altro, con la scusa di attaccare la corruzione e il degrado partitico, si è completamente dequalificata la politica nella messa alla gogna non dei singoli dissoluti, ma nell’infamare la sua stessa essenza di valore direzionale di uno Stato. In altre parole, si è voluto insinuare subdolamente l’idea che soltanto i tecnici possono mettere mano alla gestione del sistema. Entrambe le iniziative, naturalmente, dovevano essere spacciate come opere di risanamento, come le guerre attuali che sono sempre di pace e per esportare la libertà! Insomma, l’ultimo atto della manovra fallimentare della cosiddetta «Azienda Italia» si è potuto compiere perché ha trovato di fronte una popolazione fiaccata da anni di benessere fittizio e di delega cieca, più attenta ai borborigmi della propria pancia che agli stimoli del pensiero e della coscienza. Una cosa è certa: niente sarà più come prima! Queste sono cose che non passano con il tempo, ma che lasciano un segno indelebile e senza possibilità di riscatto totale. C’è da chiedersi, oggettivamente, se una sommossa popolare sarebbe stata o potrebbe essere uno strumento efficace di redenzione, oppure rimarrebbe soltanto l’ennesima crociata infantile e ulteriormente demagogica contro altrettanto illusori mulini a vento. Un’idea c’è l’ho, ma non fa parte dell’argomento, ed è un’altra storia.

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COME USCIRE FUORI DALLA CRISI

COSTRUENDO il futuro di ADRIANO TILGHER SIAMO in un momento di grande crisi politica, economica, istituzionale, culturale, morale. La crisi politica è manifestata in modo evidente dall’aver tutti i nostri politici rinunciato al ruolo che competerebbe loro per mandato popolare, avendo affidato la gestione della politica a sedicenti tecnici, che, quindi, per definizione sono incapaci di modificare il quadro politico entro cui trovare le soluzioni ai grandi problemi del momento. La crisi economica si percepisce per la mancanza di liquidità, che genera inevitabilmente contrazione dei consumi, con conseguente contrazione della produzione ed inevitabile riduzione dell’occupazione: giro vizioso generato dal ricatto delle grandi centrali finanziarie che, gestendo in proprio l’emissione monetaria, portano gli Stati verso la recessione, per obbligarli a vendere a poche lire i patrimoni industriali e culturali di cui ancora dispongono in abbondanza. La crisi istituzionale, essenzialmente italiana, trova la sua manifestazione più evidente nell’aver consentito ad un Presidente della Repubblica di liquidare, senza ricorrere alla sovranità popolare, garantita dalla Costituzione, di cui il Presidente dovrebbe essere il garante, tutta la classe politica liberamente scelta dai cittadini. La crisi culturale trova il suo apice nella scarsezza della produzione culturale causata dalla mercificazione di ogni rapporto umano, che ha sistematicamente impedito il manifestarsi delle qualità autentiche e delle capacità, e dallo sfruttamento a fini partitici di ogni manifestazione creativa così da tarpare l’ansia di libertà di cui deve essere espressione ogni attività artistica. La corruzione, il malcostume, la degenerazione dei rapporti interpersonali, basati ormai essenzialmente sullo sfruttamento o sessuale o economico del prossimo, la labilità della linea di demarcazione tra lecito ed illecito, il più delle volte posta in punti diversi a seconda se ci riferiamo a uomini legati alle greppie del potere o a comuni mortali, la mancanza di certezza nel diritto, legittimata dalla lunghezza dei processi civili e penali e dalla relatività dell’applicazione delle leggi stesse in base al censo, alla razza e soprattutto ai convincimenti politici, sono le punte di iceberg della grande crisi di valori e soprattutto della morale che sta devastando la nostra nazione. Come venirne fuori? Come abbiamo detto in altre occasioni, sarà lungo e difficile, ma possiamo ancora farcela. Intanto dobbiamo immediatamente pretendere che la gestione della vita della nazione torni ai politici e subito, prima che i danni diventino irreparabili. Abbiamo altresì bisogno di tirare fuori una vera classe politica che anteponga l’interesse collettivo a quello personale e che abbia il coraggio e la forza di prendere le decisioni necessarie.

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L’Italiano è un popolo capace di grandi cose se ha grandi esempi, di comportamenti abietti se gli esempi della classe dirigente sono pessimi, come nei tempi recenti. I politici a loro volta devono iniziare a ragionare nei modi che i nuovi tempi impongono. Sicuramente devono programmare tempi lunghi e strategie di largo respiro, perché la globalizzazione c’è e va domata, favorendola in alcuni ambiti e regolamentandola in altri. Per esempio il villaggio globale dell’informazione va potenziato, mentre adesso è sotto il controllo dei soliti manipolatori; soltanto la rete, ed anche questa parzialmente, consente di conoscere situazioni che altrimenti rimarrebbero ignote, come la tragedia che si sta svolgendo in Kossovo in questi mesi nel cuore dell’Europa balcanica e sotto gli occhi, vogliamo sperare non complici, delle forze ONU. La globalizzazione invece dei mercati va controllata magari denunciando l’incapacità del WTO a sanzionare le nazioni che utilizzano lavoro minorile e lavoro schiavistico e, nella migliore delle ipotesi, lavoro senza garanzie. La Politica dovrà avere questa visione complessiva perché la soluzione delle varie crisi passa attraverso la sconfitta dell’attuale sistema di potere che sta attraversando la sua più grande crisi dalla guerra che ha vinto contro di noi nel 1945. Per liberarci di questi signori bisogna sottrarre loro la possibilità di svolgere giochi e ricatti finanziari, prima riappropriandoci della sovranità monetaria, poi regolamentando le Borse e i mercati in modo non speculativo. È chiaro che tutto questo non può essere fatto soltanto dall’Italia, ma serve un lavoro concentrico di tutte le nazioni europee collegate con la Russia e con alcune nazioni del Mediterraneo. A questo proposito va ricordato che fondamentale è l’unità politica e militare dell’Europa, cui bisogna puntare con la massima celerità possibile. Nel breve periodo, pertanto, è necessario mettere in campo tutte le iniziative che convincano le nazioni europee della ineluttabilità di questa scelta. Infatti è indispensabile passare subito alla nazionalizzazione della Banca d’Italia, all’approvazione di una legge sul signoraggio bancario che faccia tornare il popolo proprietario della moneta nazionale, tornare ad una doppia circolazione monetaria una interna (la lira) ed una internazionale (l’euro), disancorate dalle parità fittizie volute dai costruttori dell’euro, almeno fino all’unità politica dell’Europa ed alla nazionalizzazione della BCE, regolamentare il mercato borsistico in modo tale che i titoli azionari non abbiano una propria vita disancorata dal bene rappresentato ma il valore degli stessi dipenda dall’andamento produttivo e commerciale del bene sottostante. Nelle more di questa nuova organizzazione ed interpretazione della Borsa, che allontanerà speculatori e truffatori di vario genere, sarà necessario tassare tutte le transazioni finanziarie e porre delle aliquote precise sulle plusvalenze. Noi non dobbiamo preoccuparci dell’allontanamento degli speculatori perché forse questo potrebbe essere il primo passo verso un rapporto tra gli uomini basato non più sull’interesse economico ma sui valori umani. Parimenti dobbiamo lanciare dei segnali ben comprensibili agli alleati dell’Italia affinchè anche essi camminino nella stessa direzione e quindi dobbiamo pretendere il ritiro di tutte le truppe italiane impegnate in scacchieri di guerra dove non c’è un interesse italiano diretto. Sono cose difficli da fare, ci vuole coraggio, ma non ci sono altre soluzioni.

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LA DESTRA SECONDO «L’UNITÀ»

«LIBERALE e democratica» di GIANFRANCO DE TURRIS BRUNO Bongiovanni, su L’Unità del 13 novembre 2011, dopo un excursus storico-politico, afferma, essendosi conclusa l’èra Berlusconi, che si dovrebbe considerare una «parentesi» quasi ventennale, come pensava Benedetto Croce del fascismo, di aspettarsi adesso «il risorgimento (…) della destra autentica, liberale e democratica», poiché quella che ha governato l’Italia fra il 1993 e il 2011, non è da considerarsi una destra ma «una gang, non sempre al governo, di chiassosi antipolitici, senza progetti e senza vergogna». Una vera destra «che è sempre utile in democrazia». Il professor Bongiovanni ciurla un po’ bel manico. Per intanto si allinea con quelli che hanno paragonato il berlusconismo al fascismo, dimenticando volutamente che Berlusconi è stato eletto democraticamente e che il centrodestra è stato sconfitto alle urne due volte, sostituito da un centrosinistra incapace di governare. Inoltre, che fine farà Berlusconi e il suo partito è troppo presto per dirlo e parlare di «parentesi» azzardato. Il PDL esploderà o imploderà? Si disgregherà nelle sue componenti come la DC oppure no? Quali saranno i risultati del governo Monti e delle successive elezioni, comunque entro il 2013?

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FUOCO AMICO

IL PRESIDENTE è nudo de IL TIRATORE SCELTO

Ma il problema è un altro. Il professor Bongiovanni, l’Unità su cui scrive, i vari partiti di sinistra e i giornali loro caudatari hanno già in mente la Destra che vorrebbero, che farebbe loro comodo, alla quale darebbero l’imprimatur, la patente di accettazione e magari i quarti di nobiltà. Per tutti costoro la «destra autentica» è una sola «liberale e democratica». Non sembra che si possano essere alternative. Però: Berlusconi già si definiva così. Lui era «liberale e democratico» ed aveva accettato nel PDL un partito come AN, non più MSI, un altro partito sicuramente «democratico» e forse anche «liberale» dopo i suoi contorcimenti ideologici «post Fiuggi». E allora? No. Per Bongiovanni & C. si è trattato soltanto di «una gang di antipolitici». Allora viene da pensare: non è che il professore pensava, senza esplicitarlo, a Mr. Fini e al suo FLI? Considerando tutti gli elogi e i lisciamenti di pelo rivolti al presidente della Camera ed ai suoi «futuristi» non ci dovrebbero essere dubbi. Se è questo il retropensiero dell’articolista, stiano freschi! Come però egli stesso ha questa volta ben scritto, Destra e Sinistra sono «due luoghi, due princìpi, due mentalità». Conservatori e Progressisti. Ora, cosa mai c’è di «destra» nel FLI? Il fatto è che sia la Destra come la Sinistra non sono affatto monolitiche, hanno variegate, e a volte contrastanti, anime. Non soltanto: a molti «di destra» Berlusconi non è mai sembrato «di destra», bensì soltanto un imprenditore liberaldemocratico con venature populiste che è riuscito ad aggregare vari partiti ed anime in un centrodestra, appunto. Ci sono stati dentro inizialmente anche i radicali, oltre che i democristiani, i socialisti, i missini, i repubblicani, e i liberali. Quindi nei suoi confronti non si può certo parlare di una «vera destra» o di una «destra autentica», ma ha però rappresentato il contenitore anche della Destra. Di più non si poteva chiedere, visto che al di fuori di questo contenitore tutti sul versante destro hanno fatto cilecca. Ecco perché lo si è seguito ed appoggiato: era il male minore, sicuramente più «a destra» dei «finistei». E se non lo è stato a sufficienza si deve dare la colpa agli ex aennini che non sono riusciti a far valere le loro idee (sempre che le avessero). Sicché c’è da temere che se dopo il PDL all’orizzonte si presentasse una formazione o coalizione di Destra che non rientrasse nell’accezione bongiovannesca di un partito «liberale» (democratici lo siamo tutti oggi), verrebbe respinta e racchiusa immantinente nella categoria «fascismo».

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OGGI, grazie alla voce dal sen fuggita alla vanagloriosa Concita De Gregorio, il Presidente (della Camera) è totalmente nudo e nulla lo potrà mai più rivestire, neppure le parziali smentite, le precisazioni e le puntualizzazioni, non certo sue perché è rimasto muto come un pesce, e neppure dei suoi, ma di quanti bene o male sono stati coinvolti nelle «rivelazioni» della ex direttrice dell’Unità, che hanno fatto andare in bestia i dirigenti e gli elettori democrat. Forse la pur tecnologica Concita non si è resa conto che oggi nulla è più «privato», grazie anche ai videocellulari e roba del genere, e quindi riteneva che le sue parole non potessero venire divulgate o registrate durante un dibattito presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Pisa. Invece ecco che se le ritrova in Rete e commentate da Il Giornale, Libero, Europa e Il Fatto Quotidiano, e soltanto da loro. Silenzio assoluto da parte della cosiddetta «grande stampa» et pour cause…. Dalla lunga citazione, tratta da Il Giornale del 29 novembre scorso, capirete perché: «Emma Bonino si candidò a Roma [alle elezioni regionali del 28-29 marzo 2010] per assenza di un candidato dell’opposizione e aveva tutte le possibilità di vincere. Siccome il PD non sembrava voler sostenere la sua candidatura io andai da un altissimissimo dirigente del PD e gli chiesi se per caso non avessero deciso di non sostenerla. Se è così, diciamocelo, gli dissi, altrimenti è ipocrita e inutile fare una battaglia del giornale [l’Unità]. L’alto dirigente mi rispose così: ‘A noi questa volta ne Lazio ci conviene perdere. Perché, siccome la Polverini è una candidata di Fini ed è l’unica sua candidata della tornata, se vince Fini si rafforza all’interno della sua posizione critica nel centrodestra e, finalmente, si convince a mollare Berlusconi e a far il Terzo Polo, insieme a Casini. A quel punto noi avremmo le mani libere per allearci con Fini e Casini e andare al governo’». Da cui la semplicissima deduzione che lo «strappo» finiano parte da parecchio lontano, ben prima del fatidico «Che fai, mi cacci?» del 22 aprile 2012 alla Direzione Nazionale del PDL. Tutto previsto, pianificato e organizzato, con tanto di nomi e cognomi e mosse da seguire come poi, anche se soltanto in parte, è avvenuto. Tanto è vero che questo è stato il commento alla «rivelazione» dell’onorevole Mario Landolfi, che certe cose le deve conoscere benissimo: «Mettiamola così, il presidente della Camera voleva far perdere la Polverini per indebolire il Pdl, ma non sapeva che il PD stava brigando per far perdere la Bonino proprio per rafforzare la sua fronda nel PDL. Alla fine vinse Berlusconi: si chiama eterogenesi dei Fini» (Il Foglio, 30 novembre). Ci si potrebbe anche chiedere chi sia questo «altissimo» dirigente del PD. Tra i nomi avanzati, dato che la De Gregorio non lo ha voluto rivelare, si è pensato potesse trattarsi di D’Alema, considerando il contorto machiavellismo del ragionamento esposto. Ma ha poca importanza, giacché le ulteriori smentite non hanno smentito né chiarito nulla (ad esempio quelle dell’on. Silvia Costa,

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una delle tante democristiane del PD, su l’Unità del 2 dicembre). Anzi, durante la rassegna stampa «Prima pagina» da lei condotta su Radio Tre il 29 novembre la De Gregorio ha rivendicato il suo silenzio in merito, cioè non aver parlato di questa specie di complotto del PD ai danni della Bonino ai suoi lettori («Se avessi denunciato che i democratici non erano completamente d’accordo, avrei fatto un danno alla campagna di Emma, al PD e al quotidiano che dirigevo»), con ciò sorbendosi gli aspri rimbrotti di Sabina Guzzanti («Perché non lo scrisse? Perché farebbero mai direttore una che non dà notizie? Poco sobrio») e conseguente battibecco muliebre tra le due in pubblico dato che si è svolto sul quel mini social network che è Twitter e di conseguenza reso noto dal Corriere della Sera del 1° dicembre. Insomma, un singolare complotto con lo scopo di… perdere! Alla luce di questa rivelazione due o tre fatti assumono nuovi connotati: la grottesca esclusione nel Lazio della lista del PDL, le affermazioni della stessa Polverini («Non sono di

Gennaio 2012 CONCITA DE GREGORIO (Dal sito irenemari.blogspot.com)

destra» e simili), commentate anche dal Borghese, e le insistenti voci che si sarebbe verificato un clamoroso redde rationem nel PDL se il centrodestra fosse uscito sconfitto dalle regionali. Nonostante tutto, invece, la Polverini vinse scornando Fini e Bersani e la storia ha preso un’altra piega, almeno in quel frangente. Quindi il Presidente è nudo. E lo è ancora di più avendo mancato per l’ennesima volta ad una sua promessa pubblica, quella di dimettersi «un minuto dopo» le dimissioni di Berlusconi. Il Cavaliere si è dimesso mentre il Presidente è ancora incollato al suo scranno, senza pudore né onore. In ben pochi glielo ricordano perché hanno tutto l’interesse a farlo sembrare una persona irreprensibile, ma voi gli dareste dei soldi per comprare da lui una macchina usata o un appartamento ristrutturato a Montecarlo? No, di certo. Allora perché dargli il voto?

ORA BASTA! Il mondo delle professioni si ribella ORA basta! È indubbio che il mondo delle professioni sia ritenuto di secondaria rilevanza. L’attuale Presidente del Consiglio, Mario Monti, non ha convocato le categorie professionali nell’ambito degli incontri istituzionali, perpetuando il comportamento dei Governi passati! Ora basta! Il Presidente Mario Monti, nominato come tecnico, senza alcuna delega da parte del Popolo Sovrano, ma soltanto con il preciso compito di far ripartire la crescita italiana, non può non confrontarsi con le categorie professionali, cui lui stesso, come tecnico, dovrebbe appartenere! Ora basta! L’attuale momento storico deve fornire alle categorie professionali lo stimolo ad agire in maniera unitaria ed mostrare a tutti come la figura del professionista sia un bene dell’intera comunità, in quanto soggetto preparato e competente che rappresenta una risorsa fondamentale, motore propulsivo per il risanamento, il rilancio e la crescita della Nazione. Non si può prescindere dall’autorevolezza e dalla professionalità di categorie che si contraddistinguono per spirito di sacrificio e capacità, che possono offrire idee innovative, progettualità nuove, opportunità di crescita e servizi al cittadino, contribuendo al rilancio della nostra amata Italia! Ora basta! La Legge di stabilità per il 2012 incide pesantemente sull’attività dei professionisti. È indubbio che l’urgenza dei tempi e l’emergenza dei temi economici richiedano il concorso di tutti, nessuno escluso, per il bene pubblico. Ci si chiede, però, se la parte che i professionisti sono chiamati a fare, vada veramente incontro alle esigenze di sviluppo e di sostegno del Paese! Ora basta! Non si può essere d’accordo con Programmi di Governo, enunciati senza essere stati prima sotto-

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posti al vaglio elettorale del Popolo Sovrano, che prevedono privatizzazioni e depauperamento del patrimonio e dei servizi pubblici, ulteriore tassazione e quant’altro, senza aver prima consultato proprio coloro che hanno maggiore conoscenze e professionalità e lavorano sul campo, giorno per giorno, con competenza e spirito di servizio per il bene della Nazione! Ora basta! È necessario mobilitarsi per far fronte ad interventi normativi che ignorano gli interessi terzi, tutelati dalle prestazioni dei professionisti e che sono, al contrario, lesi dalla loro eliminazione, o modifica, o mancata implementazione. Ora basta! I Professionisti hanno intrapreso un percorso di modernizzazione per legittimare il contributo delle scelte che li coinvolgono, ma oggi, non si può negare che le norme introdotte penalizzino proprio e prevalentemente le professioni. Ora basta! È necessario e quanto mai opportuno unire le forze di tutte le professioni, per far sentire il peso economico e politico di tutte le categorie professionali che sostengono il Paese con le loro competenze e la loro abnegazione. Il volume d’affari complessivo mosso dagli oltre due milioni di iscritti ai diversi Ordini Professionali è stimato in circa 195 miliardi di euro! Ora basta! È il tempo di una mobilitazione generale per riportare al centro dello scenario socio economico i professionisti e le loro competenze al servizio del Governo, del Paese e del Popolo italiano. Le scelte politiche, specie oggi che sono denominate tecniche, non possono prescindere dai professionisti! CLAUDIO NOSCHESE

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INTERVISTE SULLA DESTRA - CLAUDIO RISÈ

«DESTRA E SINISTRA, categorie inutilizzabili, vecchissime» a cura di MICHELE DE FEUDIS INTERLOCUTORE prezioso della destra culturale negli ultimi vent’anni, Claudio Risè considera le categorie novecentesche inadatte a comprendere il mondo che cambia velocemente e indica due rotte per restituire energia alla politica nel nuovo millennio: «L’analisi realista della globalizzazione e la difesa del vivente e dell’umano dallo strapotere delle tecno scienze». La proiezione «meschina» dell’attuale classe dirigente, per lo studioso milanese, favorisce la supremazia dell’economia nello spazio vitale che avrebbe dovuto essere egemonizzato dalla politica con efficaci visioni del mondo. Giornalista professionista, è stato redattore de L’Espresso dal 1963, ne ha diretto il supplemento economico dal 1969 al 1973, inviato speciale al Gruppo Corriere della Sera, vicedirettore di Espansione, inviato speciale a La Repubblica dalla fondazione del giornale; poi condirettore di Tempo Illustrato, dirige la collana «Psiche e società» per San Paolo editore. Attualmente è editorialista per temi di psicologia sociale ed educativa su il Giornale e Avvenire e, cura una propria rubrica settimanale, «Pensieri e Passioni», su Il Mattino di Napoli. Ha scritto per le edizioni Mediterranee il saggio introduttivo alla ristampa di Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola. Le sue ultime opere sono Guarda tocca vivi, per Sperling & Kupfer, uno studio che ha come sottotitolo «riscoprire i sensi per essere felici»; La crisi del dono e Il padre. L’assente inaccettabile per San Paolo Edizioni.

Con il superamento della forma partito novecentesca, le tradizioni politiche hanno trovato una nuova collocazione nell'attuale sistema, tendenzialmente bipolare. Si tratta di aggregazioni di programma e non di movimenti popolari che hanno come riferimento una visione del mondo. I nodi strategici, dalla giustizia sociale al patriottismo, dall'ecologia profonda alla tradizione, possono ridiventare centrali nella politica italiana? «I grandi temi, rappresentati strumentalmente dalle “grandi narrazioni” novecentesche, con i loro milioni di morti, hanno prodotti grandi disastri, culturalmente persistenti nel clima di lutto che ancora ammorba l’Europa continentale. Penso che l’oggetto obbligato della politica contemporanea sia da una parte un’analisi realista della globalizzazione, dall’altra una difesa del vivente, umano e naturale, dalle pretese tecnoscientifiche di ri/ fabbricazione del mondo in laboratorio. Coltivazione delle virtù civili, difesa della libertà e dell’ordine necessario a garantirla mi sembrano obiettivi più concreti, ma certo moralmente impegnativi, degli slogan politici del “secolo lungo” dell’epoca postromantica.»

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Il bipolarismo «forzato» italiano ha favorito la formazione di due grandi aggregazioni, «PDL» e «PD», con le eccezioni dell'«UDC» e del partito giustizialista di Di Pietro. Le istanze e le culture plurali - dalle sensibilità della Nuova Destra all'ecologia, dalla rielaborazione moderna del «welfare» al presidenzialismo, dall'indipendenza nazionale in politica estera alla lotta contro la globalizzazione che uniforma le tradizioni dei popoli - una volta presenti a destra nella Prima Repubblica adesso da chi sono difese? «Considero destra e sinistra categorie inutilizzabili, vecchissime, legate alla politica della recitazione e della violenza che ha nutrito il distacco tra classe politica e realtà storico sociale. È in questa separazione tra la politica ridotta a declamazione - a copertura di meschini interessi - e i processi di sviluppo globale con le loro crisi, che ha preso forma l’utilizzo politico della tecnocrazia, che nell’Europa continentale tende a sostituirsi al dibattito pubblico e al confronto tra culture. Ormai piuttosto esangui, anche per il loro persistente attaccamento a linguaggi e stili che si collocano tra la camera funeraria e il baraccone del luna park, mentre il mondo è andato da tutt’altra parte. Certo, egemonizzato dall’economia, anche perché non c’erano discorsi politici corrispondenti ai processi in atto nella realtà.» La sete di libertà a destra nasceva anche dalla formazione di classi dirigenti giovanili «educate» a essere eretiche per ortodossia: antisistema, ma con letture

Sarà lo spirito del tempo, sarà la forzata convivenza nei contenitori partitici postmoderni, sarà il sistema politico tendenzialmente bipolare che tende a smussare diversità e omologare differenze. Il perimetro di un arcipelago culturale che si è riconosciuto - pur tra contraddizioni e ossimori - in una visione spirituale della vita e nell’umanesimo del lavoro, visione declinata a destra dal Msi e da una miriade di circoli, case editrici, associazioni, comitati civici e riviste, sembra adesso attraversare un momento di forte disorientamento. Oltre i rassicuranti confini del «nostalgismo» e dei paletti novecenteschi, però, persistono idee forti, autori di riferimento e nuove battaglie da combattere. Per questo Il Borghese pubblicherà un ciclo di interviste con scrittori, filosofi ed intellettuali per analizzare gli scenari presenti e futuri, offrendo ai nostri lettori le possibili coordinate delle nuove rotte nel mare della politica italiana. (m.d.f.)

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IL BORGHESE

raffinate di autori in grado di leggere la crisi europea. Cosa si muove nei cuori delle giovani generazioni? «Nei giovani sono presenti sentimenti contrastanti. Ambizioni mediocri - commisurate alla povertà di visione proposta dagli incaricati della gestione del reale - che spesso sfociano nelle varie manifestazioni sintomatiche degli stati depressivi, coperti spesso da vernici euforiche. C’è anche, però, una forte e diffusa domanda di senso, che gli stessi giovani faticano a tradurre in parole perché la cultura impagliata degli “Uomini vuoti”, perfettamente descritti da Eliot, che li hanno formati, non ha loro fornito le parole e le categorie necessarie a una comunicazione “forte”, cioè reale e autentica, e quindi significativa.» Seminari, campi estivi, convegni sono ormai superati dalla politica in rete o conservano una funzione efficace nella «contaminazione» positiva tra gioventù e politica? «Lo sviluppo del virtuale va di pari passo con la crescita del desiderio di contatti reali, fisici, con altre persone e territori viventi, direi non centri congressi... Occorre però ridare senso alle parole, e bruciare assieme alla paglia dell’uomo vuoto gli slogan e i termini altrettanto privi di senso dell’epoca postromantica, di cui il ‘68 è stato l’ultimo, polimorfo sussulto. » A quali contemporanei si sente affine o vicino spiritualmente? «A Thomas S. Eliot, Charles Peguy, Julius Evola della Rivolta contro il mondo moderno, dei saggi sulla sessualità e sulla verticalità, non all’autore di quelli sulla politica contingente, inutilizzabili. Altri autori preziosi sono Paul Feyerabend, Carl. G. Jung, Rudolf Steiner.» La recente guerra in Libia ha riproposto con forza il tema della necessità di una politica estera di ampio respiro per l'Italia. Come è possibile riaffermare una visione universale del nostro Paese nello scacchiere euromediterraneo? «È impossibile riaffermarla se non la si ha. E non si può averla senza studiare seriamente la globalizzazione, e i processi politico-culturali che la accompagnano. Io ho cercato di farlo nei miei lavori sulla guerra per quanto riguarda i conflitti, i richiami primordiali, le culture etniche, le forme statuali. Ma in ambito direttamente politico non mi sembra sia stato fatto nulla di sistematico e realisticamente profondo.» Tre suggerimenti per i nostri lettori: un libro, un film e un album musicale per non perdere l'orientamento. «Mi limito a un libro. Può accompagnare meditazioni necessarie e riferimenti simbolici indispensabili al rinnovamento personale, senza il quale non si va da nessuna parte: Vengo a portare la spada, di Antonio Gentili, edizioni Ancora.»

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INIQUITALIA

TASSE e galera di RUGGIERO CAPONE IL PROFESSOR Monti deve tassare le fasce medio-basse della popolazione per far quadrare i conti, scusate, per pagare la permanenza dell’Italia nel club dell’Euro. Quest’ultimo è un circolo esclusivo, ma quando si tengono le cene sociali il ristorante viene scelto da Francia e Germania, che ordinano caviale e champagne nonché aragoste e pietanze con tartufi, mentre l’Italia per risparmiare si limita alla bruschetta, ma al momento di pagare il conto si fa sempre alla romana. Permanere in questo club pesa tanto all’uomo di strada, ma a chi fa politica piace tanto, e perché non c’è parlamentare che non pensi ad un mandato europeo, con relativo compenso di circa 50 mila euro mensili. Ma fare politica in Italia rende più che negli altri parlamenti nazionali dell’UE (fatta eccezione per Strasburgo). Ad ogni parlamentare italiano viene accreditata mensilmente sul conto corrente una indennità di 5.246,97 euro netti per 12 mensilità, a cui s’aggiunge una diaria di 3.503,11 euro al mese per 12 mensilità: somme decurtate di 206,58 euro per ogni giorno d’assenza del deputato (però viene considerato presente se partecipa almeno al 30 per cento delle votazioni). Ma il parlamentare gode anche d’un rimborso mensile di 3.690 euro netti, per spese inerenti il rapporto eletto-elettori. Ogni tre mesi il deputato riceve anche 3.323,70 euro per i trasferimenti dal luogo di residenza all'aeroporto più vicino e tra l'aeroporto di Roma-Fiumicino e Montecitorio: somma che sale a 3.995,10 euro se la distanza da percorrere è superiore ai 100 km. Ma i parlamentari percepiscono anche 3.098,74 euro all'anno per spese telefoniche. A fine mandato parlamentare il deputato riceve un assegno di liquidazione pari all'80 per cento dell'importo mensile lordo moltiplicato per ogni anno di mandato. In Italia la casta della politica c’è e si sente. Infatti i deputati italiani surclassano tutti gli europei: intascano 149.268 euro annui. Mentre in Austria 106.583 euro, in Olanda 86.125 euro, in Germania 84.108, Irlanda 82.065, Gran Bretagna 81.600, Belgio 72.107, Danimarca 69.264, Grecia 68.575, Lussemburgo 66.432, Francia 62.779, Romania 62.022, Finlandia 59.640, Svezia 57.000, Slovenia 50.400, Cipro 48.960, Portogallo 41.387, Spagna 35.051, Slovacchia 25.920, Repubblica Ceca 24.180, Estonia 23.064, Malta 15.768, Lituania 14.196, Bulgaria 13.644, Lettonia 12.900, Ungheria 9.132, Polonia 7.369. I politici italiani si confermano i più ricchi d’Europa. Ed in Italia l’alta dirigenza di Stato percepisce la stessa indennità dei deputati, al pari di alti dirigenti di enti previdenziali, Banca d’Italia, ex Ufficio italiano cambi, Camere di Commercio, dirigenti esattoriali (Equitalia e colleghi), dirigenti di Camera, Senato e Quirinale… A questo bagno di sangue s’aggiungono anche i dirigenti delle Regioni, soprattutto a statuto speciale. Tartassati o criminali - Al popolo italiano, anzi ai disoccupati italiani, è stato promesso lavoro ed una sacrosanta amnistia che cancellasse tanti reati frutto d'ira e disperazione.

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Invece è salito al governo un esecutivo contrario all'amnistia, che mostra il pugno duro contro disoccupati, pensionati e precari. La ricetta Monti, Severino, Fornero... non evoca certo bontà, panettone, clima natalizio, pace. Il governo ha detto che non accetterà alcuna trattativa con i sindacati. Quando si sbatte la porta in faccia al sindacato, inesorabilmente, si spalanca quella dell'extraparlamentarismo eversivo. Un clima che ridesta forze mai sopite, animate da chi non ha mai smesso di credere che una forza eversiva possa orchestrare la rivoluzione, parentesi temporale anarchica che garantirebbe (secondo certi) il tramonto dei vecchi potentati. La risposta dello Stato (Monti e armigeri) non s'è fatta attendere: il procuratore aggiunto Pietro Saviotti ha aperto indagini sulle buste con proiettili, indirizzate al ministro della Giustizia Paola Severino e al sindaco di Roma Gianni Alemanno, come sulle buste esplosive degli anarchici che hanno raggiunto Equitalia ed il banchiere tedesco, nonché il filone d’indagine napoletano sul petardo all’Equitalia di Napoli. I proiettili (banali minacce) sono stati scoperti grazie ai controlli antiterrorismo, intensificati dopo i pacchi bomba rivendicati dagli anarchici del FAI. È evidente che questa non sia strategia della tensione, piuttosto di gruppi di disoccupati arrabbiati, d'emarginati, di gente dei centri sociali in attesa di giudizio (confidavano nell'amnistia). Qualcuno si domanderà: e la rivendicazione a firma di «Nucleo Galesi» e PAC (Proletari Armati per il Comunismo) per i proiettili a sindaco e ministro? Certamente hanno una matrice diversa dai pacchi bomba recapitati a Francoforte e a Roma nella sede di Equitalia. È facile immaginare che le attuali tensioni, tra Stato e strati svantaggiati della popolazione, metteranno in campo tre filoni «eversivi»: gruppi che agiranno alla luce del sole (nelle piazze, occupando i ministeri e manifestando anche violentemente), cellule che pianificheranno atti dimostrativi stile BR o vecchi PAC e, per finire, attentati dinamitardi di vecchia scuola anarchica. Il presidente Monti, il sindaco Alemanno, il «giuslavorista» Pietro Ichino, il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, il giudice Franco Ionta, il Garante dei detenuti del Lazio, il vice capo del DAP Emilio Di Somma, il direttore generale di Equitalia, la ministra Severino, il presidente di Equitalia e direttore dell'Agenzia delle Entrate Attilio Befera, i vertici di FIAT... sono oggi tutti nel mirino d'una invisibile frangia interna al popolo italiano. «Equitalia» sotto i riflettori - Mentre veniva messa in dubbio la pensione dell’uomo di strada, per il fondo esattoriali (quello dei dipendenti Equitalia) si siglava lo scorso 24 novembre il fondo di previdenza integrativa, una sorta di ricca previdenza complementare (dlgs n. 252/2005) rimpolpata grazie alle somme recuperate sui crediti degli italiani. Il fondo dei dipendenti Equitalia viene finanziato con la contribuzione obbligatoria del 5,5 per cento della retribuzione annua a cui s’aggiunge il 3,3 per cento a carico dell’azienda e il 2,2 per cento a carico del lavoratori. Al fondo attingeranno i lavoratori di Equitalia Servizi, di Equitalia Giustizia e di Equitalia Holding. E mentre Venerdì 9 dicembre le

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cronache venivano occupate dalla notizia dell’ordigno esploso nella sede centrale di Equitalia, passava sotto traccia il vero ruolo di Equitalia Spa. Infatti nel giorno dell’attentato, il pm genovese Francesco Pinto chiedeva il rinvio a giudizio del direttore di Equitalia Liguria e di altri quattro funzionari, per abuso d’ufficio e falso. Equitalia aveva disposto ipoteche senza alcuna preventiva comunicazione al contribuente. Soprattutto procedeva alla vendita all’asta d’un immobile per il mancato pagamento d’una sanzione di 63 euro: una somma risibile rispetto al valore d’una casa. Ed ancora a febbraio del 2011, un giudice tributario di Bari ha condannato Equitalia Puglia per la condotta vessatoria nei confronti di una impresa, peraltro disposta a sanare la propria posizione debitoria mediante piano di rientro: l’azienda è stata costretta a mettere in cassa integrazione tutti i suoi dipendenti per colpa d’Equitalia. Non meno inquietante è la vicenda che vede coinvolta la sede Equitalia di Latina, che ha emesso cartelle esattoriali (poste in esecuzione) su crediti inesistenti in favore di Acqualatina (società di gestione del servizio idrico). La Cassazione ha stigmatizzato più volte gli abusi di Equitalia Spa, ribadendo l’illegittimità di iscrivere a fermo amministrativo (e ipoteca) debiti inferiori agli 8.000 euro. Equitalia deve quindi recuperare delle somme, eventualmente ammettendo la loro rateazione. Invece commina sanzioni smisurate, che fanno lievitare il debito originario anche di 20 volte. Ma in un Paese come l’Italia gran parte del carico tributario serve per finanziare la politica, i costi d’imprese pubbliche ed agenzie di Stato. La paura dopo le bombe - Il grosso petardo esploso a Napoli nella sede di un'agenzia dell'Equitalia (a Corso Meridionale) ha seguito di qualche giorno il pacco bomba alla direzione. La deflagrazione napoletana ha causato il danneggiamento della parte inferiore della saracinesca d’Equitalia. E dopo tante bombe il Governo ha accettato che i beni espropriati da Equitalia ai debitori verso il Fisco non vengano più messi all'asta dall'Agenzia,ma venduti dal contribuente: lo prevede un emendamento alla manovra approvato dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, presentato da Giulio Calvisi (PD). Il debitore venderà il bene pignorato o ipotecato e consegnerà l'intera somma ad Equitalia, che interverrà all'atto della cessione, e poi restituirà al contribuente la somma che eccede il proprio debito. La stretta per i contribuenti s’allenta anche grazie ad un emendamento di Pierpaolo Baretta (PD) e Maurizio Leo (PDL), che prevede venga concesso ancora più tempo per pagare le rate inevase. Per mettersi in regola si avrà così più tempo fino alla rata successiva, e senza far scattare la decadenza della rateizzazione e l'iscrizione a ruolo. Si prevede anche la possibilità d’ulteriore dilazione nel pagamento delle rate. Non si vuole certo darne merito ai bombaroli, ma politica e alta dirigenza di Stato iniziano a temere le reazioni violente dell’uomo di strada. Del resto, è notizia di questi giorni che le Digos abbiano indirizzato le loro indagini su disoccupati precari e fasce d’indigenza vicine all’anarchia. Tornano le classi, e chi sta sopra chiede misure severe per chi sta sotto.

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L’ITALIA DEL GOVERNO MONTI

HANNO VINTO le Banche! di MIMMO DELLA CORTE L’ITALIA, era da tempo in coma vigile, ma con prognosi riservata, per spread, e, vittima del virus della speculazione che sta infettando il mercato finanziario globale, rischiava di finire ingloriosamente i suoi giorni nel più mostruoso dei default. Tant’è che in ogni parte del Paese, nei bar, nelle strade, nelle piazze, nei circoli culturalricreativi, nonché fra gli intellettuali e gli esperti di economia, radical-chic, non si parlava d’altro che di questa pericolosissima malattia. Anche se la stragrande maggioranza ne parlava a vanvera e senza neanche avere chiaro di cosa stesse parlando. Pur non sapendone un corno, ognuno dava la propria ricetta per uscire da questa situazione. La penisola, insomma, laddove fino all’altro ieri tutti si sentivano tecnici di calcio, si era trasformata nella Patria degli esperti di economia e finanza. Intanto, a dispetto delle ricette, la malattia avanzava, il Paese smagriva, con le gote sempre più bianche, il portafoglio sempre più vuoto e corvi ed avvoltoi a svolazzargli intorno per «abbuffarsi» delle sue spoglie. Allora, è intervenuto l’uomo del colle ovvero Giorgio Napolitano, Capo dello Stato ed ha deciso che, per risollevare l’Italia, bisognava esonerare quell’allenatore, troppo abituato a respirare lo smog milanese e sostituirlo con un altro che già nel nome Monti, potesse rappresentare una boccata di aria fresca proveniente dalla montagna e provvedere a cambiare la squadra, ma anche le tifoserie. Non più soltanto di centrodestra e centrosinistra, ma di «centrodestrasinistra». Senza preoccuparsi minimamente che, così facendo, stava trasformando la nostra Repubblica, da quella parlamentare prevista dalla Costituzione, a quella presidenziale. Certo, uno stravolgimento non da poco. Ma che volete, l’«emergenza nazionale» val bene un cambio di regole in corsa. Non vi pare? Così, alla fine, il colpo di Stato è riuscito. Il «re mercato» (gli speculatori finanziari) ed il suo «cavalier servente» (euro) hanno fornito alla strega cattiva (il centrosinistra italiano) le due mele marce: lo spread ed il default (chissà se hanno il bollino blu) con le quali, in questi anni, hanno avvelenato l’aria ed alla lunga, un boccone oggi l’altro domani, sono riusciti ad avvelenare il governo Berlusconi, sostituendolo con un esecutivo tecnico, guidato dall’ex commissario Ue, Mario Monti e da un manipolo di ministri tecnici, nel senso di mai votati da nessuno. Un’operazione con la quale, l’uomo nel cui equilibrio tutti avevamo riposto la massima fiducia, per il rispetto della democrazia, e che un giorno sì e l’altro pure, si erge a difensore e primo garante della Costituzione, approfittando della crisi dell’euro - debolissimo di fronte alle speculazione perché privo di una banca di riferimento che lo sostenga - e non dell’Italia e delle ingerenze indebite dell’Europa, ha stravolto tutte le regole. Ha finto di dimenticare che la «Magna Charta» italiana stabilisce che il

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nostro è un Paese a regime parlamentare e che la legge elettorale votata in Parlamento prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, le ha disattese entrambe ed ha fatto nascere il Governo del Presidente, come se l’Italia fosse una Repubblica presidenziale. Insomma, quel presidenzialismo che il centrodestra chiede inutilmente da anni, Napolitano lo ha realizzato con un colpo di mano. Un intervento a gambe unite che, per altro, qualcuno dice, sia cominciato 6 o 7 addietro, con il contributo dei cosiddetti «poteri forti» (finanza internazionale, banche e magistratura, innanzitutto), dei loro «servi sciocchi» che dal centro si allargano fino all’estrema sinistra dell’emiciclo di Montecitorio, di quella Angela Merkel e di quel Nicolas Sarkozy che stanno cercando disperatamente di mettere sotto scacco l‘Europa e che per farlo avevano bisogno che Berlusconi si facesse da parte. La dimostrazione che questo sarà un governo a responsabilità limitata, sottoposto al controllo di merito dell’uomo del Quirinale e della Commissione Europea, è tutta nella nomina del neo designato Premier, Mario Monti, a senatore a vita, un giorno prima che Berlusconi si recasse al Colle per rassegnare le proprie dimissioni dall’incarico. Tutto questo ha rappresentato l’ennesimo stravolgimento delle regole, di una legislatura in cui queste ultime non hanno avuto assolutamente alcun valore e sono state continuamente disattese. Del resto, non c’è nulla da meravigliarsi, visto che tutto è cominciato, sin dall’inizio, con una legge elettorale che ha portato in Parlamento una miriade di «nani e ballerine», senza che nessuno li votasse e che strada facendo, per difendere le proprie cadreghe, hanno deciso che fosse meglio mutare aspetto, mestiere e magliette. Sicché, da «nani e ballerine», si sono trasfigurati in pirandelliani «personaggi in cerca d’autore (nella fattispecie di spazio)» nella speranza di conservare alle proprie «dorate terga» uno di quegli ambitissimi «scranni montecitoriani» anche per il futuro prossimo venturo. Senza dire, poi, che questo «presidenzialismo», senza Costituzione, ha anche trasfigurato i tanti sepolcri imbiancati, reduci della mai defunta «prima repubblica» (il riferimento ai Bersani, ai Di Pietro, ai Casini, ai Fini & c, è tutt’altro che casuale) da irresponsabili incalliti a responsabili a tutto tondo. Fino a qualche mese addietro, pur di affossare il Berlusca, di responsabilità ne hanno messa in vetrina ben poca, anzi quasi niente, screditando agli occhi del mondo, il Paese ed il suo governo, indebolendolo, così, di fronte agli attacchi della speculazione e dei mercati finanziari, ora, però, magari hanno finto di storcere il muso, mettere su il broncio, borbottare, ma hanno detto «sì» ad una manovra «impressionante» con ben 17miliardi di nuove entrate ovvero tasse e 13 di tagli di spese, che cambia le pensioni, riscopre l’Ici sulla prima casa, trasformandola in Imu ed anticipandola al 2012, e rende immediatamente esecutivo l’ulteriore aumento della benzina. Una manovra che, basterebbe uno studente del terzo anno di ragioneria, per rendersene conto, sta portando l’Italia nel cul de sac di una recessione infinita le cui conseguenze pagheremo a lungo. Anche quando i «tecnici» non ci saranno più. Adesso, però, tutto va bene. E perfino la «Scala», secondo una elegantissima signora intervistata dal telegiornale durante la cerimonia di inaugurazione, ne ha beneficiato, al punto da «ridiventare una Scala piena di stile». Ma «mi faccia il piacere» direbbe l’eterno principe del sorriso, Antonio De Curtis, al secolo Totò.

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SANT’EGIDIO AL GOVERNO

L’«ONU» di Trastevere di DANIELA ALBANESE SACRIFICI e miracoli vari: le due cose che ci riserva il nuovo anno che ci prepariamo ad affrontare. La nuova manovra desta preoccupazione su tutti i fronti dalle pensioni all’ICI, dall’IVA alla riduzione dei costi della politica. Mentre il Paese è sull’orlo del baratro può forse apparire futile soffermarsi sulla politica estera piuttosto che sulle priorità interne ma non lo è. Eppure anche in una situazione generale di crisi e difficoltà, il nuovo esecutivo sembra non rinunciare al dialogo ed al confronto tra i popoli dimostrando che anche in tali situazioni la speranza del futuro si trova nella costruzione di relazioni che superano i confini e le logiche degli interessi particolari. La rinnovata attenzione ai temi della Cooperazione Internazionale e dell’Integrazione, emerge dall’individuazione delle deleghe per i Ministeri del nuovo Governo Monti, che contribuisce a riaffermare il ruolo della Cooperazione Internazionale, che non ha mai avuto autonomia strutturale ed alla quale una delega non è stata mai assegnata dal precedente esecutivo. L’ex Ministro degli Affari Esteri infatti, pur con la delega alla cooperazione, non è mai intervenuto in parlamento con un’audizione dedicata al tema. Il problema è che l’interesse parlamentare per la cooperazione resta ancora un argomento molto marginale, con pochi o nessun parlamentare interessato. I dati lo dimostrano: l’aiuto pubblico gestito dal Ministero degli Affari Esteri tra 2008 e 2011 si è ridotto di ben il 78 per cento, eppure l’Italia continua a trasferire obbligatoriamente per la cooperazione 1,3 miliardi di euro al bilancio comunitario, ma probabilmente è la sua scarsa capacità di influire sulle scelte comunitarie che si riduce drasticamente. Il peso della cooperazione del MAE sul bilancio dello Stato è ormai pari 0,025 per cento (era lo 0,1 per cento nel 2008). Secondo l’annuario indipendente sulla cooperazione di ActionAid, «L’Italia e la lotta alla povertà nel mondo», l’Italia è ormai fuori classe proprio a causa di una forte assenza di leadership di settore. La riduzione delle risorse finanziarie è stata così rilevante da non consentire più livelli di qualità, incorrendo in enormi diseconomie di scala. Soltanto un miracolo potrebbe oggi risollevarla da questa lunga apnea. Forse il primo passo verso questo miracolo è stato mosso a Todi il 16 ottobre scorso nel convento di Montesanto. In molti si chiedevano a cosa dovesse servire quel seminario di due giorni a porte chiuse organizzato dal Forum delle associazioni cattoliche dall’argomento quanto mai vago «La Buona politica per il bene comune» che oltretutto era sembrato concludersi con un nulla di fatto. E’ proprio questo «Effetto Todi» che è stato invece il trampolino di lancio per diverse figure di cattolici al nuovo governo, che doveva portarci si fuori dalla crisi economica ma non farci piombare anche in una crisi mistica.

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Tra tutti spicca la figura di Andrea Riccardi nuovo Ministro per la Cooperazione internazionale e l'Integrazione. Ordinario di storia contemporanea presso la Terza Università degli Studi di Roma, esperto del pensiero umanistico contemporaneo, voce autorevole del panorama internazionale, Riccardi è noto soprattutto a livello internazionale per essere stato il Fondatore, nel 1968, della Comunità di Sant'Egidio, oggi in voga come «ONU di Trastevere». Molte pagine scritte sulla sua variegata e radiosa biografia, un curriculum invidiabile, plausi e soddisfazione da parte del modo politico e cattolico per la sua recente nomina, eppure la perfezione non esiste. Basta scavare nel passato, precisamente alla fine degli anni ’90 e qualche scheletro nell’armadio spunta fuori: L’Espresso pubblica la «Sant’Egidio story. Il grande bluff». Una critica tagliente alla politica internazionale ed alla vita ad intra della comunità, una lobby potente della quale il Riccardi era ed è un estremo accentratore che negli anni è riuscito a stabilire legami diretti con alcuni personaggi chiave del Vaticano tirando le fila di una diplomazia parallela a quella della Santa Sede. La CEI lo aveva infatti individuato da tempo come uno dei cavalli di razza da lanciare nell’arena pubblica per dar seguito all’appello più volte pronunciato dal Papa per una nuova generazione di cattolici in politica. L’auspicio del Cardinale Bagnasco si è concretizzato forse persino prima del previsto. Ma oggi di cosa dovrà occuparsi esattamente il nuovo «Governo Riccardi»? Egli stesso afferma: «Credo di integrazione, di consulta islamica, dei problemi della famiglia, di giovani e adozione e della cooperazione». Dopo l’11 settembre, anche «Le piccole nazioni unite di Trastevere» si trovano a fare i conti con un clima diverso, una nuova fase geopolitica che anima il risentimento religioso islamico verso l’Occidente. Come si prepara ad affrontare questo momento il nuovo Ministro che da sempre è stato il fautore degli incontri di dialogo tra le religioni con l'idea fissa di cucire strappi fin da ragazzo? Il sentimento dilagante oggi nell’opinione pubblica è che attraverso l’immigrazione sta avvenendo una silenziosa «invasione islamica» che può sommergere la nostra società di tradizione cristiana. Eppure come afferma Riccardi: «Si tratta solo di prendere atto che noi già viviamo insieme, che la convivenza è la nostra condizione di fatto, credo che bisogna parlare col mondo musulmano. Bisogna parlare con tutti. Non abbiamo paura di contaminarci». «Una svolta fondamentale», ha immediatamente dichiarato Foad Aodi, presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia e della Comunità del mondo arabo in Italia. «Auspichiamo finalmente che tutte le associazioni e le comunità impegnate a favore del dialogo interculturale, interreligioso e nello scambio socio-sanitario possano essere coinvolte, per intensificare il legame con le Istituzioni e non trascurare il grande lavoro che svolgono tutti i giorni sotto forma di volontariato». Certo un Ministro per la Cooperazione senza portafoglio non può fare granché se non politica estera ma, un Ministro per l’Integrazione senza portafoglio può fare moltissimo ma forse soltanto in termini propositivi. In un certo senso, l'istituzione del nuovo Ministero per la cooperazione internazionale e per l'integrazione rappreenta emblematicamente la sfida che sta davanti al governo Monti nel suo insieme: trasformare una grande potenzialità in realtà viva ed operante.

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IL MALE DELL IDEOLOGIA

TECNOCRATI, la «malarazza» di EMMANUEL RAFFAELE «IN FONDO lo stalinismo si riduce a questo; è una rivoluzione senza romanticismo, condotta con una volontà implacabile, senza nessuna concessione al sentimentalismo e alla pietà, col fine di imporre la felicità all umanità». Sono parole apparse su Le Monde il 7 marzo del 1953. Stalin era morto ma a crollare su se stessa sarebbe stata più avanti l URSS. Semplicemente, le teorie sulle quali era basata non reggevano l impatto con la realtà. La realtà avrebbe dovuto adeguarsi ad esse, ma poiché non ciò non succedeva, Stalin ed i suoi nipotini forzavano la realtà. Così come oggi c è l evasore fiscale all epoca c era il kulak, come oggi il liberismo allora c era la collettivizzazione, come oggi la Commissione europea allora c era il Comitato centrale del Pcus. È il male dell ideologia. Si decide prima come stanno le cose, chi sono i buoni ed i cattivi, senza dar retta ai fatti. Un po come fanno gli infanti. E proprio come loro, se qualcosa non va, gli ideologi strillano e combinano guai ancora più grossi. «Non si può, infatti, fare a meno di rilevare», scrive Silvio Gambino su un recente manuale di Diritto costituzionale comparato ed europeo, «che il sistema costituzionale europeo che si dipana nel XXI sec. sotto le insegne dell effettività si definisce sempre più come un costituzionalismo dei governanti , ottriato , vale a dire un costituzionalismo dall alto, molto diverso, quindi, da quel costituzionalismo dei governati che è stato protagonista degli Stati europei nel primo e (soprattutto) nel secondo Novecento». Come accadeva nelle prime monarchie costituzionali. Altroché sovranità popolare. «Il sistema costituzionale europeo», prosegue infatti Gambino, «è ben lungi dal rispondere ai canoni tradizionali della democrazia rappresentativa [ ]. Le decisioni più importanti, infatti, tendono ad essere prevalente (se non proprio esclusivo) appannaggio dei vertici Antonio Razzi degli esecutivi dei singoli Stati o della Le mie mani pulite tecnocrazia comunitaria con il risultato, prefazione di sicuramente ambiguo, che nel sistema Silvio Berlusconi europeo l organo rappresentativo manca di capacità decisionale e gli organi con capacità decisionale, mancando di rappagg. 162 • euro 18,00 presentatività, finiscono per difettare in legittimità oltre che in responsabilità».

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Tecnocrazia. La parola magica ben prima che il governo Monti ne facesse dono alle masse. Una governance di pochi sapienti, laddove il termine non potrebbe essere più distante dalla sua accezione platonica. Una governance che non risponde minimamente ai criteri della democrazia, ma che si permette di dare ai singoli Stati lezioni di democrazia. Un sistema di governo che nessuno ha voluto, ma che è riuscito ad imporsi grazie al potere enorme dell informazione, che ha fatto credere alle masse che tutto procede nella normalità e che siamo in buone mani. Mani razionali e non politicizzate come quelle degli sporchi governi nazionali. Mani pulite e non corrotte come quelle che votano e decidono nei parlamenti nazionali, grazie al sostegno delle clientele. Mani giuste, che lottano contro le diseguaglianze anziché fare favori. Senza contare, però, che lì in Europa sono quelle mani sporche, corrotte e politicizzate ad averceli mandati. Ed un motivo ci sarà. Loro, i tecnocrati. Nemici della democrazia quanto della gerarchia. Ovvio che l Europa applauda fragorosamente alla formazione del sessantunesimo governo italiano. Finalmente un governo a sua immagine e somiglianza, con gli stessi princìpi e con la stessa ideologia. Un bocconiano doc, anzi, il primo dei bocconiani, giunto a Palazzo Chigi con un pulmino carico di altri bocconiani, tutti ligi all idea, fedeli alla linea. Tutti ciecamente convinti dell assoluta affidabilità dei loro modelli astratti. L ultimo ad accorgersene è stato Paul Krugman. Non uno qualsiasi. Editorialista del New York Times e professore di Economia all Università di Princeton, il suo valore è stato riconosciuto nel 2008 con il premio Nobel per l economia. Uno che ha addirittura osato scrivere che gli Stati

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“La mafia addosso” Intervistato da Barbara Romano

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«potrebbero guadagnare dall'imposizione di barriere protezionistiche» (Sole 24 Ore). Uno, insomma, a rischio eresia. Krugman tiene a spiegare: non è il tecnocrate in sé il male, ma i tecnocrati ideologizzati. «I primi ministri appena insediati in Grecia e in Italia», ha scritto, «sono descritti come tecnocrati che andranno oltre la politica e faranno ciò che deve essere fatto. Chiamo fallo. Conosco i tecnocrati: a volte anche io lo sono stato. E queste persone - le persone che hanno portato l’Europa ad adottare una moneta comune, le persone che stanno costringendo sia l’Europa che gli Stati Uniti all’austerità - non sono tecnocrati. Sono, invece, profondamente, dei romantici privi di senso pratico.» Tornano le parole iniziali. Un’utopia o presunta tale che deve essere imposta, perché ritenuta scientificamente giusta, pur se smentita dalla realtà. Una rivoluzione che deve andare avanti, nonostante la storia la rigetti. «Le cose che chiedono sulla base delle loro visioni romantiche sono spesso crudeli», continua l’economista, «e comportano enormi sacrifici da parte dei lavoratori comuni e delle famiglie. Ma resta il fatto che le loro visioni sono guidate da sogni sul modo in cui le cose dovrebbero essere, piuttosto che da una valutazione fredda delle cose così come realmente sono.» Sogni di rivoluzioni impossibili, indesiderabili, che tra romanticismo e spietatezza, si intrecciano e tornano nella storia. L’euro, si dirà, era un sogno possibile, lucido, calcolato. Sbagliato: «la verità», ha sottolineato Krugman, «è che il cammino dell’Europa verso una moneta unica è stato, fin dall’inizio, un progetto dubbio non basato su alcuna analisi economica oggettiva. Le economie del continente erano troppo diverse per funzionare senza problemi con una politica monetaria unica, e c’era un’alta probabilità che si verificassero “shock asimmetrici”, in cui alcuni Paesi sarebbero crollati, mentre altri avrebbero avuto dei boom. E a differenza degli Stati Uniti, i Paesi europei non facevano parte di una singola nazione con un bilancio unificato e un mercato del lavoro collegato insieme da una lingua comune». Utopia unita a quella che Krugman chiama «fede economica», quella fede che ha portato i tecnocrati a credere «che tutto avrebbe funzionato fino a quando le nazioni avessero praticato le virtù vittoriane della stabilità dei prezzi e della prudenza fiscale». Beh, ora avranno capito, direte. Si saranno pentiti e staranno tentando di rimediare. Macché. Quelli, anziché lasciare, raddoppiano. Per evitare default e crisi inevitabili, impongono austerità letali per l’economia e soprattutto per i popoli. Per l’Italia è prevista la recessione ma loro vanno avanti: nessun dubbio. E in un momento in cui il rischio più grossa è la deflazione, continuano a difenderci dall’inflazione. È arrivato il momento, conclude Krugman: «per salvare l’economia mondiale, dobbiamo rovesciare questi pericolosi romantici dai loro piedistalli».

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IL DEBITO PUBBLICO DEI FARMACI

SANITÀ senza cure di ALESSANDRO P. BENINI NELL’AMERICA del liberismo economico, dove ancora oggi, malgrado i tentativi presidenziali per garantire a tutti un sostegno assicurativo ospedaliero gratuito, potersi curare a spese dello Stato è un miraggio. Per sottoporsi ad una semplice analisi di laboratorio, ad una visita specialistica e ad una indagine radiografica, tutti accertamenti che da noi vengono eseguiti dietro il pagamento di un ticket o, più spesso, gratuitamente, i cittadini statunitensi devono aver provveduto al versamento di un premio al sistema assicurativo, altrimenti non hanno scelta: pagare o rinunciare alla salute. Una scuola di pensiero diametralmente opposta alla nostra, basata tradizionalmente sulla solidarietà. Un concetto di libertà applicato rigidamente anche per le scelte di cure mediche; insomma, in America se vuoi garantirti la salute, devi, per tempo, provvedere a sottoscrivere una valida polizza sanitaria, altrimenti esiste il rischio reale di soccombere facilmente alle malattie. L’Italia e gli altri Stati Europei usufruiscono di un sistema sanitario sostanzialmente gratuito che trova le sue origini nell’antichità. L’organizzazione medica dell’Impero Romano era radicata sul territorio, fornendo assistenza totalmente gratuita ai suoi sudditi, attraverso una capillare rete di «condotte» medico-chirurgiche ed odontoiatriche, che, limitatamente alle conoscenze scientifiche del tempo, rappresentavano un presidio sanitario capace di limitare il diffondersi delle grandi epidemie. Anche nei secoli più bui del Medioevo, tuttavia, l’Europa, ed in prima fila l’Italia, poteva contare sulla presenza di sedi ospedaliere nei centri urbani e lungo le arterie di comunicazione, in particolare presso monasteri e confraternite religiose; era una assistenza gratuita che, parallelamente alla nascita delle prime Scuole di medicina, permetteva alla popolazione di accedere a condizioni di vita più adeguate. Molta acqua, da allora, è passata sotto i ponti, ed oggi l’assistenza sanitaria qualifica il progresso civile e l’impegno sociale del continente europeo, con una crescita di spesa, che, nel nostro Paese, raggiunge, nei bilanci regionali, cifre da record. È questa una delle concause per cui, i «mercati», giudici senza giustizia, continuano a travasare nel calderone delle vendite milioni e milioni di titoli pubblici, emessi proprio per finanziare i disavanzi del Welfare. Tutto questo denaro, scivolato nei meandri dei grandi nosocomi, nelle cliniche convenzionate e nelle insaziabili fauci delle multinazionali farmaceutiche, ha raggiunto una somma più grande del Pil degli Stati maggiormente esposti, come la Grecia, dove il debito accumulato per i farmaci in esenzione è di circa sei miliardi di euro. Per fronteggiare la pressione delle aziende farmaceutiche creditrici, il Governo Ellenico è ricorso al pagamento in titoli di Stato per circa il 20 per cento della debitoria totale; valori, comunque, fortemente deprezzati ed in procinto di subire una ulteriore contrazione per la prevista ristrutturazione del

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debito pubblico. Le conseguenze di questo stato di cose già si sono viste: tra le pieghe di una emergenza inedita, il crescente numero di suicidi di cittadini greci, privati della speranza nel futuro, in silenzio intanto, le industrie del farmaco hanno cominciato a ridurre l’invio di medicine coperte da brevetto. Dunque, senza farmaci di nuova generazione, il fondamentale diritto alla salute diventa illusorio. In Italia è da tempo, anni ed anni prima di questa emergenza, che la spesa sanitaria è al centro dello scontro politico: una emergenza nazionale, dove sono inevitabili i paragoni tra regioni «virtuose» e quelle dalla spesa facile, zone dove una siringa ha un costo cinque, sei volte superiore alla media, cittadine di modeste dimensioni con ospedali in cui il numero dei primari, dei medici, dei paramedici ed ausiliari sfiora le cento unità, con una disponibilità di soli venti posti letto, ed altre, dove centri clinici di importanza regionale, continuano ad essere sotto organico. Infatti, mentre la corruzione a tutti i livelli pesa per miliardi di euro sul contribuente, si è proceduto, in molti nosocomi, al taglio dei posti letto ed alla cancellazione di interi reparti. Nei Pronto soccorso, dove una folla di pazienti staziona, senza ricovero, mediamente per 24 ore, avendo come giaciglio una barella, in alcuni casi, la permanenza in queste condizioni, si allunga fino a quattro giorni, il personale medico ed infermieristico combatte giornalmente una battaglia senza vincitori. Un forte allarme è stato lanciato dalla Federazione dei medici internisti, che ha rivolto un appello al nuovo Ministro della Salute, Renato Balduzzi ed al Presidente della Regione Lazio, affinché «la politica dei tagli indiscriminati non penalizzi ancora di più l’assistenza ai pazienti e si riconosca il grande valore e il peso dei reparti di Medicina interna, punto di riferimento sicuro, competente e spendibile a 360° gradi in molti settori dell’attività ospedaliera». Ma sopra le manchevolezze del nostro sistema sanitario, sopra le ingenti somme rubate direttamente o truffate, tutti ricorderanno le mazzette di banconote nascoste nel puff della moglie di uno dei più alti dirigenti del Ministero, per tacere poi, di episodi truffaldini più recenti, sopra queste miserie diventate croniche, incombe la minaccia del fallimento: a cosa potranno servire tutte le nostre imponenti «città ospedaliere», i nostri centri medici di eccellenza, se lo strapotere dell’industria farmaceutica deciderà di non più accettare il nostro debito? La Grecia, con quel dramma dell’enorme evasione fiscale, della corruzione come metodo, è giunta sulla soglia dell’impossibilità di fornire cure adeguate ai pazienti, ed è qui, a meno di sessanta chilometri dalle nostre coste: la medesima sorte potrebbe colpire il nostro sventurato Paese, dove la corruzione incide per oltre sessanta miliardi di euro all’anno, denaro sottratto ai malati, alle strutture, al bene comune. Comunque, davanti a noi, c’e il Burundi, che, però, sta provvedendo.

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DOVE VANNO LE «FF.AA.»

STELLETTE in disarmo di VINCENZO CIARAFFA IL 25 AGOSTO del 2011, il Segretario Generale della CGIL Susanna Camusso, sempre pronta a difendere i posti di lavoro degli operai, ha pensato di dire la sua sulle Forze Armate. Legittimo esercizio, se non fosse che non ha tenuto conto che anche i militari sono dei lavoratori, il cui posto di lavoro andrebbe difeso come quello dei metalmeccanici. A dividere queste due categorie è soltanto il colore della tuta. Veniamo alle sue parole: «Penso che andrebbero ridotte le spese militari. Quando parlo di riduzione delle spese militari non mi riferisco alle spese di Polizia e alla sicurezza, ma alle spese militari». Evidentemente, alla classe politica non è del tutto chiaro il compito affidato alla compagine militare, anzi, diviene sempre più diffusa la sensazione che in Italia nulla sia più chiaro e che il Paese stia andando avanti cercando di sopravvivere a se stesso, senza un progetto politico per il futuro, senza mai interrogarsi su niente. Stante il greve momento economico, qualcuno in Parlamento si è chiesto qual è oggi il senso delle operazioni militari di pace all’estero con delle Forze Armate in procinto di chiudere bottega per mancanza di risorse economiche? La situazione generale del comparto difesa, difatti, non è mai stata così disastrosa come negli ultimi venti anni, ed a sostenerlo sono stati alcuni personaggi sicuramente al di sopra di ogni sospetto di faziosità. L’11 giugno del 2004, l’allora Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il Generale Giulio Fraticelli, dichiarò alla conferenza presso il Centro Alti Studi delle Difesa: «La situazione attuale vede 10.000 posti letto disponibili secondo il nuovo standard su 81.000 necessari […] i fondi necessari per l’ammodernamento dei tre pacchetti di forze entro il 2020 e per le infrastrutture ammontano a un totale di circa 33 miliardi di euro. Considerando però le priorità fissate e l’esigenza minima di conseguire l’ammodernamento del primo pacchetto di forze entro il 2015, saranno necessari mediamente 1.200 milioni di euro». Di seguito, il suo successore, il Generale Filiberto Cecchi, inviò - il 27 gennaio del 2006 - una circolare alle Unità dipendenti che eufemisticamente potremmo definire surreale: «La recente approvazione della legge finanziaria 2006 ha, purtroppo, confermato una situazione di straordinaria criticità nella quale le risorse iscritte nella funzione difesa sono talmente esigue da incidere profondamente sul funzionamento, sui processi decisionali e sulle attività da porre in essere. I volumi finanziari dell’Esercizio, infatti, a fronte di 900 M ∈ valutati come esigenza minima per superare, senza traumi eccessivi, l’eccezionalità dell’evento, non superano i 535 M∈ […] Peraltro, sono definitivamente svanite le iniziali attese circa il possibile afflusso di ulteriori fondi provenienti dalla cartolarizzazione […] Le risorse residuali sono state destinate principalmente alla preparazione ed al supporto delle forze impiegate o da impiegare in

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operazioni, in Patria ed all’estero. Le deficienze che dovessero palesarsi non dovranno giustificare cali di attenzione sulla sicurezza del personale ovunque impegnato […] È evidente che le riduzioni operate non saranno sufficienti a mantenere lo strumento neppure su quei livelli minimali inizialmente auspicati […] l’eccezionalità del momento richiede comportamenti innovativi e ulteriori sforzi di intelligente creatività […] A tale patrimonio motivazionale annetto valore prioritario, ancor più della stretta operatività, perché solo facendo leva sull’abnegazione e sull’intelligenza dei nostri uomini si potrà superare il difficile momento e garantire un futuro di crescita al nostro esercito». Ma, oltre ad essere surrealisti, ci vuole anche una non comune disinvoltura per potere affermare che «le riduzioni operate non saranno sufficienti a mantenere lo strumento neppure su quei livelli minimali» e, allo stesso tempo, sostenere che si possa «garantire un futuro di crescita al nostro esercito»! Durante un’intervista concessa il 20 aprile successivo, il Generale Cecchi andò oltre il surreale, riferendo che, secondo lui, la soluzione per trarre l’Esercito fuori dalle insostenibili angustie di bilancio poteva essere il ricorso agli sponsor privati. A chiarire più dettagliatamente il suo pensiero, fu la risposta fornita ad un giornalista che gli aveva chiesto se in avvenire avremmo visto carri armati recanti sulle fiancate la pubblicità della Coca Cola: «Questo no. L’esercito inglese, che certamente non versa in condizioni drammatiche come le nostre […] noleggia, per così dire, uomini e mezzi per fare dei film […] credo che anche l’Italia si dovrebbe adeguare». Dopo una siffatta, incredibile dichiarazione, il Ministro per la Difesa di un governo serio, in uno Stato serio, avrebbe preteso le immediate dimissioni del capo dell’Esercito! Per quanto incredibili e sconcertanti, le affermazioni di Cecchi rivelavano comunque l’esistenza di un problema serio. Il successivo 23 luglio del 2008, il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Camporini, durante un’audizione in Parlamento, spiegò che, dopo gli ennesimi tagli al bilancio della Difesa, le Forze Armate si sarebbero ridotte ad un mero «stipendificio», o ammortizzatore sociale. Questo perché i governi che si sono avvicendati negli ultimi venti anni, hanno sempre eluso il vero problema: con i pochissimi euro a disposizione i militari avrebbero dovuto barcamenarsi per mantenere in piedi la baracca, oppure continuare ad esibire i muscoli all’estero? È sotto gli occhi di tutti che, oggi, essi non sono in grado di fare tutte e due le cose e che, forse, non sono in grado di farne bene neanche una soltanto. Anche al più inguaribile degli ottimisti, riuscirebbe difficile sostenere che all’estero possa essere credibile un Esercito che non ha le risorse economiche neppure per rinnovare i sistemi d’arma, il parco automezzi e, più banalmente, per addestrarsi. Le necessità da soddisfare e le problematiche da risolvere nel settore Difesa sono, dunque, di quelle che farebbero tremare i polsi, ma i nostri vertici politici e militari sono persuasi che i fondi per le Forze Armate potranno essere reperiti dalla vendita delle infrastrutture militari in disuso o - come auspicava l’immaginifico Generale Cecchi - negli studios cinematografici. Soltanto questa diffusa persuasione potrebbe spiegare il silenzio che tende ad avvolgere un problema che mette in discussione il nostro stesso modello di difesa, un silenzio che giova a tutti, eccetto che alla verità. Giova alla classe politica, perché così può continuare a far credere all’opinione pubblica che quello della difesa militare è un problema delle Forze Armate e non del Parla-

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mento; giova ai vertici militari i quali, per il solo fatto di avere presentato alcuni Cahiers de doléances, si sentono con la coscienza a posto. Alla presenza di una situazione così disastrosa, si guardano bene dal presentarsi al Ministro della Difesa, salutare la bandiera, sbattere i tacchi e rimettere il proprio incarico, per portare, così, all’attenzione della Nazione un problema che la riguarda molto da vicino. I termini e le dimensioni del problema non erano chiari neppure all’ex Ministro La Russa, il quale - mentre le Forze Armate rischiavano (e rischiano) di scomparire come complesso operativo per mancanza di soldi - andò ad inventarsi la «Mini naja». D’altronde, l’ex Ministro non poté neppure invocare a giustificazione delle sue maldestre trovate il fatto che, essendo il suo un ruolo politico, non aveva ben chiara la deficitaria situazione economica delle Forze Armate, stante l’intervista che rilasciò al Corriere della Sera il 10 agosto del 2010. In quell’occasione rivelò che le autoblindo operanti in Afghanistan reperivano i pezzi di ricambio «cannibalizzando» quelle fuori uso. Probabilmente l’ex Ministro aveva pensato che gli euro da spendere per la «Mini naja» sarebbero state soltanto gocce nel mare, senza realizzare che, quando il mare diventa un catino, bisognerebbe centellinare anche le gocce. Meglio avrebbe fatto ad occuparsi della vera naja, cioè del futuro dei Volontari in Ferma Prolungata (VFP1) i quali, chiamati a sostituire per un paio di anni la frettolosamente abolita leva, con stipendi mortificanti, la maggior parte di essi non viene transitata in servizio permanente pur avendo acquisito costose specializzazioni militari che, così, vanno disperse. Tornati a casa sono costretti a sottoporsi ad una nuova via Crucis per trovare un posto di lavoro. Meglio ancora avrebbe fatto l’ex Ministro a preoccuparsi per la penuria di Sottufficiali del ruolo Sergenti, e per dotare i nostri militari in Afghanistan di mezzi di protezione più sofisticati. Le attuali Forze Armate sono realmente in grado di difendere il nostro Paese, sono in mani competenti? Si fatica a ritenere competenti i nostri vertici militari, se non si rendono neppure conto della contraddizione delle remunerazioni straordinarie. Ai militari spetta la corresponsione dello straordinario, come ad ogni lavoratore italiano. Ma essi non sono come tutti i lavoratori italiani! Stante l’atipicità del loro lavoro, non sarebbe stata più economica per l’erario, oltre che più giusta ed omogenea, una specifica indennità fissa? Un Esercito che si ostina a pagare gli straordinari a professionisti che fanno un lavoro straordinario per tutta la vita, ha buone probabilità di finire in mano ad un curatore fallimentare. Per i prossimi dieci anni, pertanto, la politica per le Forze Armate (se «armate» devono rimanere) dovrebbe essere quella del piede in casa e di finanziamenti costanti, per quanto risibili essi possano essere. Perché il vero problema che affligge l’organizzazione militare, più che l’esiguità delle risorse disponibili, è la loro variabilità, che impedisce agli Stati Maggiori la realizzazione di qualsiasi programma, anche minimo e sul breve termine. Sarebbe auspicabile, una volta stabilita l’entità delle risorse possibili da assegnare alla Difesa, che esse restassero costanti almeno per un decennio. La difficile contingenza economica sicuramente non consente grandi investimenti nel settore; tuttavia, non si può pensare di far operare aerei senza carburanti, carri armati senza manutenzione ed i militari senza un minimo di addestramento, considerando che è l’addestramento a salvare la vita al combattente e non il giubbotto antiproiettile.

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A far felice la Camusso è l’ennesima «ristrutturazione» delle Forze Armate, che potrebbe tradursi in un taglio di 20/30 mila militari e nella chiusura di una novantina di caserme. Questo, però, è soltanto ridurre il problema, non risolverlo. Per una reale presa d’atto delle difficoltà che stanno per immobilizzare il nostro dispositivo di difesa, occorrerebbe una classe politica più responsabile e vertici militari meno compiacenti, compiacenza che rasenta l’ignavia perché tesa a non disturbare il manovratore. Fingere che non esistano i problemi, non li elimina, si dà ad essi il tempo di aggregarne altri! Subito dopo quello delle difficoltà economiche, le Forze Armate saranno chiamate a sciogliere il nodo della selezione e del governo del personale, che andrebbero almeno rivisti, dal momento che al loro interno si manifestano i peggiori vizi della società civile, sindacalismo antigerarchico, droga ed alcolismo inclusi. Nessuno pensa che un Esercito come quello italiano debba vivere avulso dalla società come accadeva fino alla II Guerra Mondiale, ma sicuramente deve sapere incarnare la parte migliore del contesto sociale che lo esprime. Questo è un problema riconducibile ai valori ed all’etica militare, e nulla ci vieta di interrogarci almeno su quali siano oggi l’etica ed i reali valori di riferimento delle Forze Armate italiane e, soprattutto, se essi vengono trasmessi. Qualcuno ha avanzato già da tempo seri dubbi sulla capacità di coloro che dovrebbero trasmetterli: «Occorre affondare il bisturi nella piaga ed affrontare gli errori e le colpe singole e collettive che hanno trascinato l’Esercito così in basso nella considerazione degli italiani […] Oggi, se si vuole tentare di ricostruire un esercito, anche piccolo ma su solide basi, occorre anzitutto ricostruire la mentalità degli ufficiali richiamandoli […] a quelle vecchie tradizioni militari per le quali in tempo di pace è anzitutto un educatore ed animatore dei suoi soldati. Sino a quando in questo Paese saranno apprezzati e seguiti i furbi, anziché i diritti e gli onesti, non avremo un Esercito degno di questo nome». Queste parole sembrano essere state scritte ieri e, invece, sono state estrapolate da un discorso del Generale Raffaele Cadorna, Capo di Stato Maggiore del ricostituito Esercito italiano dal 1945 al 1947 quando, esempio poco imitato, si dimise dal suo alto incarico perché in disaccordo con l’allora Ministro per la Difesa. Sarebbe interessante partire dal pensiero di Cadorna per capire come oggi vengono formati i Quadri dirigenti delle nostre Forze Armate, ma mettere troppa carne sul fuoco confonderebbe i problemi e le loro priorità. Concludiamo col rilevare la differenza di stile tra chi, pur denunciando una situazione disastrosa, si guarda bene dal trarne le dovute conclusioni, rimanendo abbarbicato al proprio incarico e chi, invece, è stato capace di rinunziarvi per coerenza e rispetto del proprio ruolo.

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PILOTARE IL RISCATTO - 2

A RIVEDER le stelle di MINO MINI «L’UNIFORME, il seriale, l’anonimo si sostituiscono all’unico, al determinato, all’individuale ...» Così Remo Bodei (1) descrive il risultato di quella realizzazione di un «onnipotente meccanismo di riduzione dell’uomo a numero» di cui abbiamo detto nell’articolo di un mese fa. E continua rilevando come l’individuo venga «standardizzato per mezzo di colossali programmi di riconversione delle coscienze e dell’inconscio (da piegare sistematicamente alle nuove direttrici dell’economia e della politica)». È la mutazione dell’uomo che Gramsci, in Americanismo e fordismo definì «un nuovo tipo di lavoratore e nuovo tipo di uomo» ristrutturato nell’«equilibrio psicofisico». Un mutante che «sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora» (da L’Ordine Nuovo). Ordine progettato, realizzato e regolato dalla nuova figura scaturita dalla visione moderna del mondo come macchina: l’ingegnere, il prometeo della cultura meccanicistica, l’uomo della tecnica asservita all’economia. È lui che nella fabbrica instaura la disciplina del lavoro accentrato che - a dirla con Michel Foucault - «fabbrica» gli individui. Sarà sempre lui che trasferirà tale disciplina, che tanto successo ha raggiunto nel controllo e condizionamento degli individui, nella realizzazione dei nuovi insediamenti. Stalin lo definirà, a questo proposito, ingegnere dell’anima. Sin dall’inizio della rivoluzione industriale, quando le esigenze della produzione portarono ad imporre l’accentramento della forza lavoro in luoghi diversi dall’abitazione, si pose il problema dell’insediamento di questi mutanti in continua crescita. Nella prima fase il problema fu affrontato dagli architetti. Gli unici che conoscessero l’arte di costruire la città perché in possesso di un linguaggio espressivamente e tecnicamente efficace ereditato dalla cultura tardo-barocca. Ma la nuova visione meccanicistica del mondo aveva messo in crisi tale linguaggio. Atto ad esprimere un mondo organico in cui l’uomo era sempre un individuo determinato in simbiotico rapporto con l’ambiente, si rivelava inadatto a rendere il mondo-fabbrica popolato da mutanti uniformi, seriali, anonimi e regolato da «leggi» economiche alle quali si attribuiva valenza universale. Si ebbero, così, le città ottocentesche che furono definite «borghesi» come Parigi, Vienna ed altre sulla loro scia: estetizzanti nelle forme, ma inespressive della mutata condizione umana regolata dalla tecnica e governata dall’economia. Infatti gli elevatissimi risultati formali non bastarono, da soli, a giustificare la caduta di valore della città moderna da ambiente umano, espressione materializzata di civiltà, a valore economico di scambio. A Parigi ed

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a Vienna, ma non soltanto, apparve in tutta la sua brutale evidenza il limite dell’arte urbana tardo-barocca: la nuova concezione del terreno edificabile. Nella sopraggiunta epoca moderna il suolo urbano venne inteso,non già come parte di un tutto - la città - subordinata, nella sua parzialità, alla realizzazione dell’organismo urbano, ma come bene indipendente con i suoi requisiti economici dovuti alla posizione, alla richiesta, ai vincoli regolamentari ecc. Iniziò da qui la speculazione fondiaria che trovò il suo brodo di coltura proprio nell’accrescimento della popolazione la cui esistenza era stata dissociata fra il luogo di lavoro, con la sua disciplina condizionante, e il luogo di residenza. All’architetto costruttore del mondo si sostituì, allora, l’ingegnere. Padrone della nuova scienza delle costruzioni, oltre che «dominus» della fabbrica era anche costruttore di ponti e grandi strutture. Ciò lo faceva ritenere più adatto ad affrontare «sub specie oeconomiae» il problema di insediare e regolare l’informe accrescimento della popolazione. Il piano di Berlino del 1858 fu, infatti, redatto da un ingegnere dipendente del dipartimento di polizia, J.F.L. Hobrecht che impostò il piano di espansione della città da 480.000 a 4 milioni di abitanti inflazionando, sulla carta, il metodo della griglia di lotti amorfi edificati a «mietKasernen» d’affitto che già tanto squallore e tante epidemie avevano provocato nella città esistente. Il disegno formale della città rifece il verso ai modelli parigini e viennesi, ma senza alcuna considerazione dei caratteri di organicità che motivavano questi ultimi. In compenso Hobrecht diede avvio all’urbanistica, una tecnica di pianificazione in cerca di scienza per sostituire un’arte di costruire la città ormai sterile. Elaborò, infatti, con rigore prussiano la normativa ingegneristica degli standards urbanistici - da noi recepita 94 anni dopo - insieme al famigerato zoning che dissociò ancora di più - e dissocia tutt’ora - la vita dell’uomo affidando la coniugazione dei diversi momenti della sua esistenza alla mobilità veicolare. Gli architetti, ridotti al rango di «estetisti», decoratori di opere ingegneristiche, cercarono un possibile riscatto adottando, anch’essi, la visione meccanicistica del mondo, ma lo fecero con animo romantico pur dichiarandosi, secondo lo spirito del tempo, razionalisti. Fondarono il M.M. (Movimento Moderno) su basi ideologiche - non necessariamente politiche - e su tali ideologie tentarono di realizzare la periferia operaia, l’insediamento del mutante uomo nuovo, in contrapposizione con la periferia «borghese» realizzata «sub specie oeconomiae». I risultati sono tristemente noti. Intanto dall’Europa il «virus» economicista, incubato dall’etica protestante, veicolato dalla nuova concezione del mondo macchina di matrice illuminista, si era diffuso nel pianeta contaminando civiltà spontaneamente organiche alterandone o distruggendone il peculiare equilibrio uomonatura e asservendole alle «leggi» dell’economia applicate su scala globale. Prima fra tutte la legge di riduzione dell’uomo a numero, l’unico metodo per dominare il fenomeno della crescita inarrestabile della popolazione e tentare di affrontare il conseguente problema dell’inurbamento esteso ormai a scala planetaria. Ancorché affascinante la storia dell’inurbamento che va dalle città «borghesi» dell’ottocento alle 15 megalopoli da 25 milioni di individui che il McKinsey Global Institute ha censito in Cina analizzando il processo attraverso i passaggi dalla città industriale alla città dei servizi ed a quella dei divertimenti, è troppo lunga per essere riportata, sia

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pure sommariamente, in un articolo come questo. Basti dire che la organica città degli uomini di epoca preindustriale, progressivamente scomparve sommersa dalle periferie abitate dai mutanti di prima generazione e da quelli succeduti all’uomo nuovo «fabbricato» dall’industria e di questo più «evoluti». Il veloce processo di proletarizzazione che l’economia, più o meno consciamente, favorì, si valse di un altro tipo di condizionamento, assai più soft del precedente, esercitato dal consumismo. Lo stesso che nei tempi attuali, potenziato dalle protesi elettroniche e digitali, ha formato il mutante di ultima generazione: il cyborg. Se potessimo, spazio permettendo, descrivere la storia dell’urbanistica, dalla trattazione emergerebbe la lunga serie di fallimenti della cultura moderna della città. Dal 1852, anno della trasformazione e infrastrutturazione di Parigi, in poi, perduta l’arte di costruire la città, nonostante la disponibilità e la ricchezza di mezzi ed il possesso di tecniche sofisticatissime e potenti, è dovuta ricorrere al condizionamento, alla distruzione dell’identità degli individui, al cambiamento della loro natura per riuscire a far sopravvivere i sette miliardi di abitanti del pianeta in insediamenti alienanti. Raggiunti i sette miliardi di abitanti è forse giunto il tempo del riscatto. Il tempo della rivoluzione-evoluzione culturale per liberarsi dalla schiavitù imposta dal totalitarismo economicista. Non si tratta tanto del servaggio imposto dalle banche e dai «poteri forti» di cui tutti siamo ormai consapevoli, quanto della sottomissione ad una certa visione del mondo che perfino la scienza più avanzata e svincolata dalla tecnica ha relegato fra gli errori del pensiero. Il mondo non è quella macchina che il secolo dei lumi ci lasciò in eredità e le «leggi» dell’economia non sono leggi della natura, ma concezioni autoreferenziali. Funzionano - nemmeno tanto bene - soltanto in ambito virtuale talché è necessario, per tradurle in pratica, costringere il mondo reale ad adeguarsi a schemi elaborati e controllati dal potere economico. Da qui il totalitarismo. Infine: è indubbio che in campo settoriale la tecnica, ancella dell’economia, abbia raggiunto,sotto la guida della scienza, traguardi impensabili in passato e continui a raggiungerne ancora ogni giorno che passa, ma da sola non costruisce il mondo dell’uomo; costruisce,come abbiamo visto, l’uomo per il mondo della tecnica. Per uscirne occorre sottrarsi al condizionamento che viene esercitato soprattutto dall’ambiente. E questa volta non si tratta soltanto della fabbrica o del luogo di lavoro. Il condizionamento, da tempo, avviene nelle periferie, negli affollati agglomerati urbani, in quelle che impropriamente chiamiamo città. Il riscatto deve partire da lì. 1) R. Bodei «Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze».

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ACCORDO «CONFINDUSTRIA»-«CRUI»

I MERCANTI nell’Ateneo di HERVÉ A. CAVALLERA PIÙ volte su queste colonne abbiamo insistito sul processo di privatizzazione dell’Università e del conseguente asservimento alla logica del mercato; il tutto all’interno di un processo ancora più complesso in cui la nazione italiana viene ad essere interamente comandata da anonime forze economiche, le quali trovano le loro vestali nella casta burocratica dell’Unione Europea. Se la cosiddetta riforma Gelmini ha contributo a tutto ciò in maniera decisiva, con l’esplicito asservimento del Ministero della Ricerca a quello dell’Economia, attualmente il Governo presieduto dal prof. Monti ha appunto il mandato europeo di uniformare la vita economica e civile della Nazione alle oscure forze economiche il cui epicentro esplosivo deve essere ricondotto alla crisi economica statunitense del 2008 (la crisi dei subprime) e all’individualismo economicistico dei diversi Paesi europei, che sta travolgendo tutti gli Stati europei e non soltanto l’Italia. Per tornare alla questione universitaria, che non è cosa dappoco in quanto riguarda non soltanto il futuro professionale della gioventù ma lo stesso significato di ricerca e di libertà di ricerca, ossia del carattere costitutivo di una civiltà, è significativo che il 4 novembre scorso gli Euroburocrati abbiano sollecitato l’attuazione di un programma per Scuola, Università e Ricerca e che il 5 novembre scorso sia stato firmato un accordo Confindustria-Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) su Otto azioni misurabili per l’Università, la Ricerca e l’Innovazione. Ora, già il termine misurabile esprime con chiarezza l’atmosfera tardo-positivistica di un economicismo senz’anima che svilisce al commercio e al mercato il significato stesso della vita, riconducendo quest’ultima alla sopravvivenza, strutturata secondo una gerarchia plutocratica, in cui l’agiatezza è riservata all’oligarchia di turno. Che non si tratti di parole vuole, è attestato dallo scorrere ciò che si intende per Misurabilità delle azioni. La prima azione è l’orientamento verso le lauree tecnico-scientifiche, giustificate come quelle che garantiscono occupabilità e premialità. Il che significa, in parole povere, liquidazione il più possibile delle facoltà umanistiche - da sempre considerate sedi di pensiero libero e, pertanto, facinoroso - e limitazione di quelle meramente scientifiche (es., Matematica). La seconda azione è Ricerca e trasferimento tecnologico. Inevitabile conseguenza della prima: vale ciò che serve al mondo delle imprese. Terza: occupabilità dei laureati triennali. Sembra un impegno necessario, ma si precisa che saranno occupati i laureati secondo accordi Atenei-Associazioni Industriali. Non è che si voglia occupare «l’utile idiota», secondo un modo di dire della prima metà dello scorso secolo, ma è certo che dei laureati in lettere, filosofia ecc. non ce ne importa alcunché! Quarta azione: Dottorato. Il Dottorato di ricerca deve essere collegato con la domanda delle imprese e incentivato dalle stesse. Insomma: la ricerca in funzione del mercato! Quinta azione: internazionalizzazione, ossia offerta didattica in lin-

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gua straniera (inglese) e mobilità accademica internazionale. Insomma anche la lingua nazionale va rottamata in nome del linguaggio tecnico-scientista, privo di idee che non siano quelle funzionali per le industrie. Sesta azione: Monitoraggio della Riforma: reclutamento. Poiché nei prossimi anni gran parte dei docenti ordinari si pensionerà, occorre individuare metodi di riconoscimento della qualità dei nuovi docenti. Bisogna stare attenti a non sbagliare: devono essere uniformi! Settima azione: Monitoraggio della Riforma: Governance. Cioè, trasparenza della gestione attraverso partecipazione agli organi di governo universitari di membri esterni e «premialità» per il raggiungimento degli obiettivi (ossia l’Università controllata dai finanziatori). Ottava azione: Benchmarking Internazionale. Si tratta della conseguente interazione con gli atenei stranieri. In breve, il processo non è soltanto italiano, ma europeo, occidentale. Se si considera tutto questo è inevitabile riconoscere che è in atto un processo di «mercantilizzazione» che soffoca la libera ricerca e trasforma l’Università in azienda volta alla formazione di menti che lavorino in funzione dell’utile economico. Ciò implica l’eliminazione delle facoltà umanistiche e la formazione di operai/funzionari laureati, da essere pronti a servire nel mercato. Del resto, già si parla di aumento delle tasse universitarie, secondo il modello anglossassone. Sono gli esiti del liberismo, peraltro in Italia inizialmente agevolato dai governi e dai partiti della sinistra che hanno introdotto il sistema del «3+2» e che hanno applaudito la Convenzione di Lisbona del 1997, consacrata poi dal Processo di Bologna del 1999. Il liberismo, che ha dominato e domina tuttora la vita politica italiana e dell’Occidente, sta ormai trasformando non soltanto la cultura in mercimonio, ma avvilendo tutta la vita civile attraverso una serie di sommovimenti legati soltanto da logiche economiche sostenute al momento dalla necessità del risanamento del debito pubblico. Intanto il Governo Monti, supportato dalla Confindustria ma soprattutto dalla Euro-burocrazia, si è dato da fare a mettere in moto una manovra che colpisce ulteriormente e gravosamente il ceto medio, senza lasciar intravedere esiti lavorativi per i più giovani. La logica dell’economia è ormai vincente e non resta che la disperazione e la preoccupazione per gli anni che subito verranno. Al presente, tutto è ricondotto alla logica dell’economico e chi può cerca di salvare il salvabile, il proprio particolare di fronte ad una manovra che si esaurisce nel far versare lacrime e sangue, con i politicanti che si mettono accortamente da parte per far fare la parte sporca ai professori di economia. Le Agenzie di rating e l’Euro-burocrazia costituiscono ormai il potere che svaluta la libertà nazionale nella logica di una uniformazione anonima e senz’anima. Poiché nel 2011 si sono festeggiati i 150 anni dell’Italia unita, è bene ricordare che il ministro Sella, negli anni ’70 dell’Ottocento intese raggiungere il pareggio attraverso la tassa sul macinato, che colpiva senza pietà le classi più povere. Non vorremmo (ma crediamo che sarà in qualche modo così) che, per conseguire un nuovo pareggio del bilancio pubblico, il Governo Monti sfilasse, metaforicamente, sotto l’Arco del Trionfo seguito da poche centinaia di ottimati, da migliaia di invalidi e da milioni di fantasmi di cittadini. Può accadere, infatti, che il sacrificio al dio denaro richieda migliaia e migliaia di vittime, e questo non può che essere anche agevolato dall’azzeramento delle discipline umanistiche che da sempre sono state promotrici di pensiero indipendente e retto dall’etica, mai prone all’economia, all’utile dei pochi. Forse le poche discipline in grado di ricordare che Gesù scacciò i mercanti dal tempio.

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APRIRE GLI OCCHI SULLA SCUOLA

ATTENTI alle bugie! di ALESSANDRO CESAREO NON soltanto i genitori, che rappresentano la componente notoriamente più presente nella scuola e più attenta, nonché la più ascoltata, in nome dei diritti dell’utenza, in merito allo svolgimento delle varie attività e prassi didattiche. Ciò accade nella scuola dei diritti, dei soli diritti, del garantismo esasperato e delle regole ad assoluto vantaggio degli studenti, regole già da tempo acquisite e codificate nel DNA, divenuti genoma di studenti e famiglie. Data la complessità di tale sistema, figurarsi se qualcuno oserebbe ancora parlare di doveri! Si tratterebbe senza dubbio di un insensato, di uno stolto, di un uomo che non sa cosa dice! Ecco perché la «carta», per così dire, del genitore deluso e tradito insieme all’intera famiglia, ovvero il tema di fondo dell’articolo di Giuseppe Caliceti, non convince poi così tanto. Munus, officium, labor che sia, a prescindere dalla possibile diversità egli ambiti semantici di riferimento, la sostanza del vocabolo cambia poco, ovvero, la sostanza del dovere, dell’impegno, non è riconducibile alla questione dei numeri, né alle pur evidenti, oggettive difficoltà comunque provocate dal persistere e dall’acuirsi dei tagli. Pertanto, l’invito di recente rivolto dal nostro autore ai genitori, affinché si sbrighino ad aprire gli occhi, suona quanto meno un po’ superato, dato che gli unici a non aver ancora spalancato le palpebre sono, appunto, i professori, altro che i genitori, in realtà dotati di lunga vista e di evidente senso critico, almeno a giudicare dai loro ripetuti (e qualche volta non del tutto calzanti) interventi nel mondo della scuola. Troppo spesso frutto dell’irruzione di sensibilità lontane dal mondo della scuola, persino estranee alla stessa, all’interno delle istituzioni e delle aule scolastiche. Così come risulta stentoreo, nonché ripetitivo, l’ennesimo richiamo agli effetti dannosi provocati dalla scure della finanza pubblica e dai tagli ad essa connessi. Parrebbe infatti, da quanto si legge nell’articolo in oggetto, che i tagli avessero a riguardare solo e soltanto la scuola. E, soprattutto, che i problemi della scuola siano dovuti solo ed esclusivamente alle ristrettezze economiche di questi ultimi tempi. I dati dei quali disponiamo, invece, soprattutto se riferiti almeno all’ultimo quarantennio, dicono l’opposto. Su questo elemento varrebbe la pena di riflettere, prima di azzardare ipotesi di soluzione avulse e scollegate dalla realtà. Cosa si può fare di diverso dal tagliare quando, dopo decenni di sprechi vergognosi, ci si accorge che non c’è rimasto un...euro? Come non ricordare le classi di sei-sette alunni con dieci maestri intorno? Quando la dispensa è vuota, si mangia un po’ di meno tutti quanti, soprattutto se si vuol sopravvivere. Di questo si tratta, ora: di mera, semplice, scarna ed essenziale sopravvivenza. E come mai i prof non hanno ancora aperto gli occhi? In realtà, le vere vittime di questo sistema statal-burocratico sono proprio loro! Sono loro, infatti, a perdere la titolarità se il numero degli studenti iscritti non è in piena e perfetta sin-

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tonia con il diktat della norma che prevede i tagli, ed ecco che professori di grande qualità e con anni ed anni di carriera alle spalle si trovano sbalzati, dall’oggi al domani, a cinquanta e più chilometri da casa. La loro unica colpa? Quella di essere vittime di una logica assurda, cieca ed ottusa. E pensare che in molte occasioni i docenti sono considerati degli onesti carnefici, mentre essi sono, in realtà, soltanto dei professionisti umiliati, malpagati e bistrattati in tutti i modi. È buono, pertanto, l’invito ad aprire gli occhi, ma tutto sta su cosa e, soprattutto, come. Le desolanti condizioni nelle quali versa il nostro sistema formativo hanno, purtroppo, delle radici assai antiche e consolidate, per recidere le quali è inutile chiamare in causa le eventuali bugie governative. Forse altri, precedenti governi non hanno mai taciuto alcuni, preoccupanti aspetti della verità relativa alla scuola? Gettando uno sguardo a ritroso, si può vedere come, in realtà, si tratti di una prassi connessa al nostro sistema politico; per la stessa non si può infatti chiamare in causa il governo appena andato a casa, anche perché saremmo curiosi di vedere che cosa farà di buono, per l’istruzione e la scuola, quello appena insediatosi. Un governo di tecnici. Persone competenti e responsabili, dunque. Dalle ottime potenzialità. Nell’ambito di un possibile, auspicabile e generale riordino dei principi base dei processi formativi, serietà chiarezza trasparenza rigore efficacia dovranno essere, se mai davvero sussisterà questa incontrovertibile volontà, il vero punto di partenza per l’azione del nuovo Governo in particolare ma, più in generale, per l’elaborazione di una nuova, quanto necessaria, Weltanschaung dell’educazione. Riuscirà la sfida? Certo, bisognerà prendere il toro per le corna e non esitare neppure per un attimo, pena l’ulteriore, ennesimo fallimento. L’invito ad aprire gli occhi, pertanto, potrebbe avere un significato diverso, non polemico, non utilizzato in chiave antigovernativa (il tono dell’articolo citato in questo intervento resterà lo stesso anche con le operazioni che vorrà compiere il nuovo Governo?), ma piuttosto foriero di una serie di proposte, del tipo: 1) Adozione di provvedimenti che, semel in anno, valorizzino la funzione docente e la relativa professionalità. Il nodo della questione, infatti, non sta tanto nella logica dei numeri ma, semmai, nella vera, effettiva qualità della preparazione e delle attività svolte dai docenti. Stupisce, infatti, che la stampa, in genere, abbia molta attenzione per le lamentele (in moti casi superflue e strumentali) sollevate da studenti e genitori, assai spesso pronti a lanciare i loro strali contro il docente di turno, reo di essere stato soltanto un po’...severo, ed ignori quasi del tutto la poco lusinghiera condizione in cui versa il corpus dei docenti. Ancora una volta, dunque, il problema non sta nel numero di plessi e sezioni, così come il proliferare delle sedi delle istituzioni scolastiche non può essere ritenuto motivo di vanto, bensì d’inutile e dannoso (soprattutto in un momento di crisi e di grave confusione come l’attuale) sperpero di denaro pubblico, che potrebbe invece essere investito meglio, soprattutto se canalizzato e finalizzato all’effettivo, necessario raggiungimento della qualità. 2) Riflessione generale sull’idea di fondo che accompagna l’articolazione e lo sviluppo del paradigma scuola, così come si presenta oggi e così come si manifesta, alla luce dei vari interventi correttivi e/o di riforma che sono stati via via concepiti, introdotti ed applicati. 3) Avvio di un dibattito proficuo con i vari mezzi d’informazione. Al centro dello stesso, per esempio, potrebbero esserci i veri problemi della scuola, quelli con i quali

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sione della realtà del mondo della scuola e non di un mondo hanno quotidianamente a che fare gli addetti ai lavori, e non viziato, annacquato e pericolosamente deformato da un le grandi questioni di principio o polemiche di carattere strupreoccupante incremento della componente pubblicitaria. È mentale. 4) Predisposizione ed avvio di una piattaforma già tanta la pubblicità disseminata a bella posta e per ogni finalizzata alla raccolta di sondaggi, analisi, opinioni, suggedove, che non c è davvero bisogno di utilizzare la scuola, rimenti, proposte etc, che, realmente provenienti dal mondo proprio la scuola, come ulteriore, efficace cassa di risonanza. della scuola, diano a Cesare quel che è di Cesare ed evitino Resterebbe poi da valutare con la dovuta attenzione e pruil dilagare d improvvisazioni e di pressappochismi, in realtà denza l effettiva incidenza di tale approccio cartaceo ad un volti più ad ingenerare confusioni che a produrre la necessasistema che, per via della sua assoluta atipicità e specificità, ria e, a questo punto, imprescindibile chiarezza che il sistepuò essere letto, conosciuto ed illustrato, ma prima ancora ma scuola reclama, restando purtroppo inascoltato, già da interpretato, soltanto da chi lo vive in pienezza per esserne moltissimo tempo. 5) Dibattito sul valore e sul ruolo degli egli stesso parte integrante e funzione specifica. studi classici nel processo di formazione e di costruzione Verrà davvero recepita questa esigenza? Verrà mai racdelle personalità degli studenti, nei confronti dei quali è aucolto questo appello? Se anche soltanto un paio di persone lo spicabile che si ponga fine quanto prima ad una diffusa tencondividessero almeno nella sostanza e, partendo da tale denza al pargoleggiare, attività praticata con eccessiva frepostulato, operassero per contribuire alla realizzazione di quenza e, ohimè, talvolta considerata anche come essenziale questa strategia, ecco che questa nostra riflessione non sarà e persino sostitutiva (è questo che preoccupa!) di una fervida sopraggiunta invano e, soprattutto, non avrà lasciato, come e costruttiva attività intellettuale e razionale, quale essa viesi suol dire, il tempo che aveva trovato. E, giova forse prone richiesta dallo studio di discipline foriere di un imprevare a ripeterlo, saremo stati in tanti a voler aprire gli occhi, scindibile forma mentis. 6) Effettivo ed efficace confronto anche per cercare di capire, ammesso che ciò sia davvero relativo alle modalità ed alle forme attraverso le quali si possibile, in quale contesto educativo siamo finiti ed in quaesplicano e si articolano le tecniche d insegnamento e le le marasma siamo venuti a trovarci quasi di colpo, anche a strategie ad esse riconducibili e connesse. causa di una deregulation (stavolta voglio usare una parola Questo potrebbe significare, a detta di chi scrive ed in inglese!) selvaggia che, realizzata senza un effettivo piano base ad una visione del mondo della scuola che vorrebbe formativo, ha fatto sprofondare le istituzioni scolastiche in aspirare ad essere globale, «aprire gli occhi»; si tratterebbe, un generale quanto pericoloso disorientamento. Il futuro che in sostanza, di un invito da estendere, appunto, non soltanto si sta aprendo ora potrebbe dunque risultare foriero d intealla valutazione delle cifre dei tagli imposti dalla gravità ressanti e proficue novità, sempre che le stesse vengano della situazione economica attuale, ma anche, e soprattutto, recepite e lette con il dovuto spirito ermeneutico. alla generale impostazione legislativa e didattica che è sottesa alla scuola del terzo millennio. La frettolosità e la genericità di un approccio informativo che, esaminando un ambito sconfinato qual è quello della scuola, ne porti alla luce soltanto alcuni elementi per così dire economici, per giunta presentati in chiave propagandiOgni lunedì, dal 3 ottobre stica, non pare dunque essere proficuo nel senso dell arricchimento reale di un dibattito educativo che potrebbe trovare reale ed efficace accoglimento nelle sedi a ciò deputate, sì, ma soltanto se concepito in chiave formativa e, soprattutto, Ore 21-22 costruttiva. Sapere aude, ovvero il motto in voga presso gli illuministi e con cui, solitaSeguici con mente, si esorta ad un uso consapevole, coraggioso ed operativo della ragione, intesa come patrimonio universale ed individuale ad un tempo, parrebbe dunque essere un interessante opzione, volta e a configurare un nuovo e più attendibile orizzonte di sistema, al cui interno sarà forse possibile concepire i presupposti necessari per l elaborazione di un rinnovato paradigma formativo, saldamente ancorato alla tradizione e, nel contempo, inserito nella novità. Antico e moderno potrebbero infatti andare d accordo, ergo possono - a tutti gli effetti - andare realmente d accordo, ma soltanto se si ha il coraggio d intendersi in via preliPuoi telefonare e fare le domande minare e di formulare obiettivi non geagli ospiti presenti nerici, non assetati di prima pagina, ma solidi, concreti, vera ed effettiva espres-

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LO SPORTELLO DELL’USURATO

BANCHE di malaffare di ANTONELLA MORSELLO ESISTONO momenti nella storia dell’umanità che soltanto alla luce di analisi a posteriori riescono a rivelare tutta la forza dirompente di cui sono portatori. È, infatti, difficile in genere riuscire ad analizzare freddamente ed obiettivamente il presente, valutarne le conseguenze e, quindi, percepirlo come punto di snodo foriero di cambiamenti. Raramente, nella storia dei popoli, l’uomo è riuscito ad intuire la portata degli accadimenti ed a sentirsene autore e protagonista. Quando storicamente ciò si è verificato, riguardava la sfera dei grandi condottieri, dei re, dei capi, dei filosofi, non certo della gente comune. Gli anni che stiamo vivendo, invece - segnati profondamente dalle grandi novità che hanno percorso tutta l’Europa - stanno riuscendo a dare l’esatta misura dei mutamenti storici, politici, sociali che contrassegnano il vivere odierno. La grave crisi finanziaria di diffusione capillare e l’accavallarsi frenetico di fatti e situazioni in rapido e continuo divenire sono i motivi per cui oggi la società, la parte sana della società si dovrebbe ribellare al materialismo scettico e pragmatico che ha giocato e sta giocando da protagonista mettendo un freno alla corsa vana verso l’Eldorado immaginario. Un Eldorado tutto moderno, fatto di materialismo, dei beni di consumo, di immagini scintillanti. Un Eldorado in cui i veri valori dell’uomo si sono estinti per mancanza di alimento, perché soffocati e sostituiti da altro. Da status symbol, da una mentalità che privilegia l’avere all’essere, dall’individualismo selvaggio a tutto detrimento dei valori immutabili da sempre patrimonio dell’uomo civile, quali la giustizia, eguaglianza, solidarietà. Attualmente il matrimonio di interessi ha un nome: governo tecnocratico; una sospensione della politica e della democrazia in grazia della «surroga tecnocratica», ipocrisia più spudorata, una democrazia foriera di innumerevoli e pericolose illusioni. Si guarda la frusta (semplice, senza fronzoli, alla Monti) ma non si vede il Sovrano che la impugna. Dinanzi a una luce troppo abbagliante si fa prima a chiudere gli occhi, per legittima difesa. Andrea Rossi non ha chiuso gli occhi. Crede che la nostra società abbia imboccato la strada erta che la porterà fuori dai meschini egoismi dal cui facile canto siamo stati un po’ tutti cullati. Crede fermamente che la società sia sulla strada del recupero di una corretta gerarchia dei valori, della centralità della persona, dei suoi diritti. Andrea dopo aver analizzato il mercato del fiore, valutato le aziende produttrici di fiori in Italia ed all’estero ha pensato di costruire un’azienda meccanizzata che ne produca, riferendosi all’Olanda e volendo dare grande spessore al suo lavoro si è fatto carico di debiti lasciati dalla madre, con la convinzione di andare a pagare dei tassi d’interesse non superiori alla soglia d’usura stabilita dal Ministero del Tesoro. Dopo un anno circa dall’inizio della sua attività, i prezzi di mercato all’ingrosso sono incominciati a crollare

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sotto il costo di produzione. La coltivazione del fiore scelta da Andrea è quella del lilium, i cui bulbi vengono coltivati e commercializzati nel mercato all’asta olandese, il costo del bulbo olandese è di 0,30 euro, il fiore viene venduto 0,50 euro al pubblico, il margine del produttore e del venditore ambulante dov’è? In questa fase la parte finanziaria ha iniziato a soffrire e due cambiali sono rimasti insolute. Il mercato sta cambiando e Andrea per vendere meglio il suo prodotto l’ha affiancato con altri fiori provenienti dal mercato italiano ed estero. Con questo sistema è riuscito a rientrare e anche se con fatica a chiudere il conto corrente bancario. La banca però gli ha pignorato la casa. Questa decisione ha provocato il crollo della credibilità verso gli altri istituti di credito e verso i fornitori più importanti. Ha cercato di chiedere altri finanziamenti per poter finire di liquidare la banca, ma col pignoramento nessun istituto e finanziaria lo hanno ascoltato. Che differenza c’è tra uno strozzino che ti minaccia di violenze e una banca che ti risponde in questo modo «se la casa la vendiamo più tardi ci riprendiamo più soldi»? Nel 2005 non volendo perdere la casa si mette in società con altri perché pensa che unendo le forze tra produzione, ingrosso e servizio la cosa possa evolversi positivamente. L’unica cosa che riceve dalla banca è l’aumento del conto «s.b.f.» e il «consiglio» di far girare degli assegni scambiati con una terza persona. Tutto ciò porta Andrea nella incapacità di pagare gli assegni ed alla decisione di farsi protestare. È la banca che gli paga gli assegni per coprire la malagestione del conto corrente da parte della stessa. Nel mese di agosto del 2006 la banca gli comunica di avere delle Ri.ba. insolute sia sul conto della socia, sia sul conto personale. Di tali operazioni lui era all’oscuro, del resto fidandosi della banca, lasciava le distinte firmate e il direttore provvedeva a fare tutti i movimenti. «Non immaginava minimamente che la disonestà di un direttore arrivasse a questo punto». Questo porta alla rottura definitiva con la socia e la perdita di clienti importanti. Per coprire gli sbagli che la banca ha perpetrato nei confronti di Andrea, gli viene deliberata la somma di € 225.000,00. L’unico modo per affrontare il debito è quello di riorganizzare l’azienda e alla stessa Andrea chiede altri € 30.000,00 alla somma che gli è stata «offerta», naturalmente negati. Nel 2008 conosce un’associazione che controlla e calcola con formule legali gli interessi sui conti correnti bancari ed salta fuori che una delle banche gli ha sottratto importi non conformi alla legge sull’usura per € 11.758; questi soldi sarebbero serviti ad Andrea per pagare le cambiali del 2004, che provocarono la serie delle sue sventure. L’altra banca gli ha sottratto importi non conformi alla legge sull’usura pari a € 20.858 senza contare gli interessi che ha pagato sulle ri.ba. tutto ciò provocando un peggioramento di 100mila euro in un anno con il giro di assegni «consigliato». Andrea si chiede se è giusto che gli venga venduta la casa perché ha investito in un settore senza regole e controllo dove le sue intenzioni erano quelle di migliorare le tecnologie di produzione. Si chiede ancora se è giusto che gli venga venduta la casa quando ha le prove che le banche gli hanno sottratto soldi non dovuti. Ancora se è giusto che si deve accollare gli sbagli delle banche rovinando il suo futuro. E ancora si chiede se è giusto lottare inutilmente per costruire un’azienda, credere nel rispetto delle regole mentre hanno successo solamente quelle aziende che non le rispettano o sono all’interno di un sistema corrotto. Lui

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crede che sia giusto far sapere a tutti che le banche hanno un sistema per calcolare gli interessi che è oltre la soglia del tasso d’usura stabilito dal Ministero del Tesoro, per evitare che altre persone si rovinino la vita. Andrea ha dedicato 10 anni della sua vita al suo lavoro. Walter Kapser diceva che «i diritti dell’uomo costituiscono al giorno d’oggi un nuovo etohs mondiale». Eppure si tratta di una conquista tutt’altro che pienamente realizzata. Basta sfogliare i quotidiani, seguire i telegiornali, scorrere la saggistica di attualità per accorgersi che, ovunque nel mondo, avvengono soprusi, violenze, oppressioni. I diritti di milioni di persone a vivere in libertà e in sicurezza vengono disattesi e scherniti, i bambini vengono sfruttati per i più inverecondi commerci, i vecchi emarginati, i poveri discriminati, le donne private della possibilità

CONTRO L’ATTACCO ALLA FAMIGLIA

I CATTOLICI in politica di GIUSEPPE BRIENZA UNA denuncia di tutte quelle «forze che a livello internazionale stanno programmando un brutale e continuo attacco alla vita e alla famiglia, operando con grandi mezzi perché tutti i Paesi assumano leggi che favoriscano l’aborto e distruggano la famiglia; sono le agenzie culturali che impongono un pensiero unico sui temi della libertà individuale, delle relazioni tra i sessi, della visione della procreazione; sono i grandi interessi economici e la scarsa sensibilità cristiana ed etica nella gestione dell’impresa e della finanza che mantengono situazioni di povertà e di sofferenza» è stata lanciata da quattro esperti cattolici internazionali: Diego Arias Padilla, Direttore del Centro de Piensamento Social Catolico della Universidad San Pablo di Arequipa, Perù, Philippe de Saint Germain, Delegato generale della Association pour la Fondation de Service Politique di Parigi, Stefano Fontana, Direttore dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa di Verona e Fernando Fuentes Alcantara, Direttore della Fundacion Pablo VI di Madrid, nella loro Sintesi introduttiva (cfr. La Dottrina sociale della Chiesa non può essere incatenata: testimonianza, santità e martirio, p. 16) del «Terzo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo», curato dall’Arcivescovo di Trieste Mons. Giampaolo Crepaldi e lo stesso Fontana, appena pubblicato da Cantagalli (Siena 2011, pp. 221, € 14). Di fronte all’attuale crisi sociale, economica e finanziaria globale, la famiglia dovrebbe rappresentare però, per tutto l’Occidente e le nazioni di tradizioni cristiana, un bacino fondamentale di rinascita etica, nonché di creazione di benessere e ordine. Già senza

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di condurre un’esistenza secondo la propria autonoma determinazione. Per non parlare dei diritti al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla privatezza, a vivere in un ecosistema non degradato. Il detto di Rousseau, contenuto nel Contratto sociale: «L’uomo è nato libero ma dovunque è in catene», è purtroppo ancora attuale. I diritti, proclamati sulla carta, tardano ad essere applicati. Gli interessi politici ed economici di una minoranza possono inoltre opporsi alla loro realizzazione in tante parti del globo. Coloro che detengono potere e privilegi tendono a conservali, non facendosi scrupolo di ricorrere anche alla violenza. Kant aveva intravisto proprio nell’affermarsi di una cultura dei diritti umani il viatico più sicuro per raggiungere quella che è forse la più nobile e dolce utopia dell’uomo: la pace perpetua.

aiuti, anzi sottoposta ad attacchi di ogni genere, essa è stata in grado, anche negli ultimi secolarizzati decenni, in particolare nel nostro Paese nel quale nonostante tutto continua a «reggere», di attutire l’impatto della crisi. Mons. Crepaldi, che oltre ad essere Arcivescovo di Trieste, membro della Commissione CEI per la pastorale sociale, responsabile del gruppo del CCEE (Consiglio Conferenze episcopali europee) impegnato nell’elaborazione del progetto per la Settimana Sociale europea, è anche presidente dell’Osservatorio Internazionale «Cardinale Van Thuân» sulla Dottrina sociale della Chiesa, proprio in occasione del Convegno di presentazione del Terzo Rapporto che si è tenuto a Trieste il 3 dicembre scorso, ha presentato una iniziativa della sua Diocesi che riveste, anche a livello nazionale, il massimo interesse per la formazione dei cattolici all’impegno politico. Si tratta del «Laboratorio Trieste» che, come riportato dal prof. Fontana in un editoriale di commento apparso sull’ultimo numero del settimanale diocesano Vita Nuova (Nasce il «Laboratorio Trieste», 9 dicembre 2011), è volto secondo gli ambiziosi propositi di mons. Crepaldi, a «formare i fedeli ad una testimonianza di verità e coerenza nella politica [...] Nel rispetto della loro legittima autonomia, ma anche nel riconoscimento dello spazio che è dovuto a Dio nel mondo, senza del quale anche tale loro legittima autonomia viene progressivamente meno». «Ecco perché la Diocesi», ha proseguito durante il Convegno l’Arcivescovo, «ha pensato ad un progetto, che cerchi di superare i limiti di progetti analoghi realizzati in questi ultimi anni, che sia un progetto organico, vale a dire inserito organicamente nella vita della Chiesa locale e non qualcosa di a se stante, che operi a tre livelli complementari: il livello della Scuola di formazione all’impegno sociale e politico; il livello dei Tavoli di confronto tra cattolici impegnati in politica e il livello dei Tavoli di confronto tra cattolici e laici».

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IL BORGHESE

PER USCIRE DALLA CRISI

ABOLIAMO i partiti di ANTONIO SACCÀ POSSO dichiararmi sbalordito? Mi dichiaro sbalordito. Non siete sbalorditi? Sbalordisco che non siete sbalorditi. Sarebbe necessario uno sbalordimento generale, sopra, sotto, di fianco, a sinistra, al centro, in alto, a destra, intorno, tutti dovremmo sbalordirci, e coloro che non sono sbalorditi dovrebbero sbalordirsi di non esserlo e affrettarsi ad esserlo. Mi spiego: o la crisi è faccenda seria, di crollo, o non lo è, sarebbe una cosina, un passaggio di momenti, basteranno dei mesi, qualche annetto e l'economia alzerà la testa, leonesca. Il peggio ci verrebbe dal combattere una crisi scogliosissima con mezzi modesti, addirittura reputandoli formidabili, tali da suscitare chi sa che stringimento di cinghia e miseria. Sta accadendo questa sproporzione tra il dire e il fare. Si grida alla rovina e la si contrasta con manovrine ricorrenti, giudicate spietatissime, da stringere, dicevo, la cinghia e da causare miseria. Ho una mia ricetta per scampare dalla crisi, la espongo certo che non sarà presa in conto, quindi con la libertà dell'irrealizzabile, della fantasticheria...Innanzitutto, tagliare la ricchezza dei ricchi di vari miliardi, limitandola al benessere, si dirà che questo significa togliere a chi con le sue capacità li ha guadagnati, ribadisco quanto detto: o la crisi c'è, allora è vacuo fare questi discorsi, ci si salva con ogni opportunità. Evidentemente uno Stato serio dovrebbe impedire la fuga e l'evasione. Sbattere in una galera non confortante chi non paga le tasse, chi assume illegalmente. Accrescere l'orario di lavoro, con la stessa retribuzione, e per tutti. Prolungare l'età del lavoro a tutti. Permettere ai pensionati di lavorare con un modesto salario o stipendio, nel lavoro già svolto o dove ne hanno capacità, questo sarebbe utilissimo nella giustizia, lo stesso per i giovani. Incrementare lo scambio di servizi, lavoro per lavoro, io ti faccio lezione, tu mi ordini la libreria. Sostenere lo scambio di merci. Fare dell'usato una grandiosa attività. Potenziare al massimo le imprese di lavoratori, i quali pur di difendere l'occupazione potrebbero estendere gli orari, diminuire i costi, competere. Le imprese dovrebbero falcidiare il profitto in favore dell'occupazione e del reinvestimento ammodernante. Parte del denaro ottenuto con le tassazioni e il maggior lavoro, quindi la maggiore produzione dovrebbe essere destinata a chi non ha lavoro, per sostenerlo e prepararlo a un lavoro occupabile. Si sarà capito che lo scopo del mio progetto irreale è buttarsi a testa dura per accrescere la produzione contenendo i costi di produzione e creando una maggiore ricchezza da collocare secondo le necessità di imprese, categorie, singoli. Ovviamente i partiti dovrebbero essere sospesi qualche tempo, il partito per contentare i suoi elettori e per l'essere di … parte ignora il bene comune. Un Presidente con qualche autorevolezza anche autoritaria, eletto o dovuto allo straordinario soffio dei tempi è appropriato. Se invece i partiti, pochi o molti o tutti, sentissero che difendere

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Gennaio 2012

la Patria è onorare l'esserne cittadini e se poi taluni capissero intimamente di essere cittadini di una delle più ammirande civiltà, se non la più ammiranda rispetto al poco spazio e allo sterminato tempo in cui questa civiltà si espresse e continua. Noi, ateniesi, romani, greci, italiani, europei, sale della terra, vertigine del pianeta, tanto che basterebbe una nostra cittadina, e un nostro pittore, e un musicista, e scultore, e architetto, per sormontare gli interi Stati Uniti, per dire, dovremmo farci comprare, debilitarci, e svilire nella moneta, ed essere loro merce d'acquisto facilitato? Mai! Invece di misuricchiare una tassuccia, un'ivuccia, uno o due annetti di pensione, e ciò sia, sia, ma è dalla possanza dell'orgoglio di una civiltà che non vuole rendersi merce, che vuole mantenere il possesso di chi è stata e di chi è, e vantarlo, certo, salvando la sua economia, che avverrà la salute pubblica. Per impegno dello spirito di Patria. Sperare che l'economia si guarisca senza passione neppure il più materialista degli utilitaristi l'avrebbe sostenuto, ferma restando, certo, certo, che l'uomo economico esiste, non dimenticando che esiste all'interno dell'uomo. Al dunque, se siamo sul precipizio esigiamo il possibile dell'impossibile. Entusiasmo, signori tecnici. Entusiasmo, popolo italiano, Atene, Roma non sono tramonto. Entusiasmo perché difendiamo, tuteliamo il patrimonio di civiltà mai eguagliato, e oltretutto il nostro essere la civiltà che siamo. Se dobbiamo trascorrere dall'Età del Piacere all'Età del Dovere, facciamolo, strenuamente, con il sacrificio delle mete che meritano devozione. Per favore, smettiamola ad ogni passo di evocare stangate, sangue, lacrime, o sanguiniamo veramente, purché ci sia lo scopo che ho detto: non farci comprare, non far disporre di noi, non rendere il denaro misura di tutte le cose. Non so che avverrà tra giorni, settimane. Un impeto di salvezza non lo colgo. Si urla al precipizio e giochiamo con i numeri. Io tengo sul tavolo un ritratto di Charles de Gaulle. Ci guardiamo spesso. Non è il caso, non sarebbe il caso di precisare che esaspero la situazione per far cogliere vistosamente che ormai il capitalismo occidentale, incapace di competere con il capitalismo asiatico mangia i ceti interni, togliendo loro per aiutare un artificiale profitto interno, una trasfusione di sangue, che non consentirà la competitività. C'è da preoccuparsi giacché vivremo un'economia di trasfusione.

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FOTOGRAFIE del BORGHESE

UN «JOLLY» AL QUIRINALE, OVVERO LA PAZZIA DI «RE GIORGIO» (Nella fotografia, Giorgio Napolitano)

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È «SUPER MARIO» CHE TRACCIA IL SOLCO . . . (Nella fotografia, Mario Monti)

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. . . MA È «LA REPUBBLICA» CHE LO DIFENDE (Nella fotografia, Eugenio Scalfari)

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IL «TOMBEUR DE FEMME» NON HA CAPITO NULLA . . . (Nella fotografia, il Presidente francese, Nicolas Sarkozy)

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. . . PERSINO LA «CULONA» LO HA SEDOTTO E BIDONATO (Nella fotografia, il Cancelliere tedesco, Angela Merkel)

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PENSIONATI «RADICALI» - DA «CICCIOLINA» A TONI NEGRI . . . (Nella fotografia, Ilona Staller, dal sito www.ilpost.it. Percepisce un vitalizio di 3.000 euro)

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. . . CIASCUNO COMBATTEVA LO STATO A MODO SUO (Nella fotografia, Toni Negri. Dal 1993 percepisce un vitalizio di 3.108 euro)

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PENSIONATI TARTASSATI - TASSA TU CHE TASSO IO . . . (Nella fotografia, due pensionati dal sito www.investireoggi.it)

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. . . ALLA «CASTA» CI PENSA DIO (Nella fotografia, il cardinale Angelo Bagnasco, dal sito www.tempi.it)

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PER «BANKITALIA» LA PRESSIONE FISCALE È ECCESSIVA . . . (Nella fotografia, Ignazio Visco, Governatore della «Banca d’Italia»)

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. . . PRIMA O POI GLI SCOPPIERÀ IN FACCIA (Nella fotografia, Attilio Befera, presidente di «Equitalia Gerit Spa»)

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IL POTERE LOGORA CHI NON CE L’HA - ALLORA PERCHÉ SORRIDE? (Nella fotografia, Gianni Letta)

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Gennaio 2012

IL MEGLIO DEL BORGHESE

Quell’incontro sul «Britannia» di TUCCIO RISI «MA PERCHÉ quasi tutti gli incarichi relativi alle privatizzazioni sono stati affidati a operatori stranieri? Talvolta queste Società non hanno nemmeno una struttura, in Italia, e so che alcune di esse addirittura subappaltano studi che dovrebbero realizzare in proprio. Come Sopaf non ci sentiamo discriminati, ma come categoria di Banche d’affari italiane sì». A lanciare pacatamente quest’accusa è Jody Vender, noto finanziere milanese a capo della Sopaf, una merchant bank con interessi in Europa, negli Stati Uniti d’America e in varie altre parti del mondo, fra cui la Cina, dove possiede una quota in un fondo istituito per favorire appunto le privatizzazioni; ma che nessun membro del Governo presieduto da Giuliano Amato ha ritenuto di coinvolgere nel processo di privatizzazione partito anche in Italia. Grosso modo, la situazione accomuna Vender a tutti i colleghi nazionali, che si sono visti scavalcati da concorrenti stranieri con procedure totalmente ignote e che hanno fatto sorgere molte perplessità. La partita in palio, peraltro, non è da poco. Secondo i calcoli finora resi pubblici, difatti, la privatizzazione delle imprese a partecipazione statale dovrebbe rendere attorno ai 27mila miliardi di lire. Ebbene, di questi 27mila miliardi ai mediatori spetteranno fra i mille e i 2mila miliardi, una fetta abbastanza consistente, che nessuno ha capito perché mai debba rimpinguare i portafogli di Società straniere e dei loro azionisti. Non solo, ma chi garantisce che questi organismi condurranno il processo di privatizzazione tenendo conto di quegli interessi nazionali che un’operazione del genere non può non tenere in conto? Di sicuro, l’assegnazione dei mandati per eseguire le privatizzazioni è proceduta in maniera confusa e fra mille stranezze, per non dire di peggio. E, alla fine, questi incarichi sono stati assegnati sulla scorta di criteri molto opinabili. Vediamo perché. Prendiamo il caso del Credito italiano. La privatizzazione dell’Istituto guidato da Natalino Irti è stata affidata alla merchant bank statunitense Merryl Linch. La Merryl, però, non possiede alcuna esperienza in operazioni di privatizzazione bancaria. Non solo, ma è stata pure coinvolta in operazioni di riciclaggio del denaro sporco fra l’Italia, la costa orientale degli USA e Lugano, la cosiddetta operazione «pizza connection», che ha determinato il processo alla famiglia mafiosa nuovaiorchese dei Bonanno. Ma la Merryl aveva un asso nella manica: ha accettato l’incarico a un prezzo «stracciato» rispetto agli altri concorrenti e così, in barba a tutti i motivi ostativi, s’è aggiudicata la prestigiosa commessa. Più o meno lo stesso è avvenuto per l’Ina, la cui vendita è stata affidata alla britannica Baring, un tempo gran nome (il duca di Richelieu la indicava come «uno dei sei grandi poteri d’Europa»), ma dall’immagine odierna sicuramente appannata. Ma è possibile che operazioni tanto rilevanti per il fu-

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turo dell’economia nazionale possano essere affidate a questo o a quel soggetto per una manciata di milioni in più o in meno richiesti dagli stessi? Purtroppo, in altre occasioni criteri ancora più opinabili hanno mosso i preposti al processo privatizzatore. Il caso che più ha stupito gli osservatori è sicuramente quello dell’affidamento all’americana Wasserstein Perrella, nata da una costola della First Boston, della vendita di CirioBertolli-De Rica e Italgel, un gruppo che, nel ‘91, ha fatturato qualcosa come 700 miliardi e dà lavoro direttamente a quasi 1.400 dipendenti. La Wasserstein non ha sedi in Italia e, nello stesso bando di offerta internazionale, ha indicato i suoi recapiti di Londra e di New York agli operatori interessati. E lo stesso si appresta a fare per la Esaote biomedica, il cui mandato di vendita ha ottenuto successivamente dalla Finmeccanica. Insomma, la Wasserstein seguirà tutte le procedure dalle sue sedi oltre Manica oppure oltre Atlantico e non appare ancora chiaro se pure l’apertura delle buste contenenti le offerte avverrà nel cuore di Manhattan, lungo il Tamigi oppure a due passi dal Tevere. Di certo, per ora ha curato una sola operazione di privatizzazione, quella della vendita di una quota della Pai alla Unichips, ma con una procedura che ha suscitato le proteste di una candidata all’acquisto, la United Biscuits, e che ha messo a repentaglio le sorti dell’alienazione. Ma allora, perché operazioni tanto rilevanti sono state affidate a questa Banca di dimensioni ridotte, considerata non più di una boutique finanziaria? Non si sa. L’unica certezza raccolta negli ambienti finanziari è che, per qualche tempo, della Wasserstein è stato consulente l’attuale ministro Franco Reviglio. Sarà sicuramente una malignità; ma perché allora non rendere noti con chiarezza i motivi che l’hanno fatta preferire? E, già che ci siamo, anche il costo del suo intervento? E, perché no?, anche la valuta con la quale verrà pagata: lire, dollari o sterline? Un altro incarico poco comprensibile appare quello affidato alla Goldman Sachs di preparare le quotazioni di Agip, Snam e, forse, dello stesso Eni. La Goldman, difatti, fin dal luglio dello scorso anno si è accanita in manovre contro la lira, ma questo non ha evitato alla merchant bank americana di ottenere incarichi tanto rilevanti per conto del Governo italiano. I motivi per cui la Goldman non abbia pagato per niente le sue manovre contro la stabilità monetaria, economica e sociale del nostro Paese, non si conoscono. Per certo, invece, si conoscono le entrature della Goldman, in Italia e all’estero. Della Banca d’affari americana, infatti, è senior partner Romano Prodi, il professore amico di Ciriaco De Mita, già a capo dell’Iri e oggi al fianco di Mario Segni e dei suoi «pattisti» trasversali. Inoltre, il presidente della Goldman, Robert Rubin, à stato nominato da Billy Clinton come numero uno del Consiglio di sicurezza nazionale degli USA. E pare proprio che la mediazione della Goldman al nostro Governo sia stata suggerita dalla regina Elisabetta d’Inghilterra in persona. Si tratta di garanzie a prova di bomba? Nessuno può dirlo. Difatti, queste entrature non sono state sufficienti per evitare ai clienti della Goldman di perdere svariati milioni di dollari a causa della condotta del responsabile dell’ufficio titoli a reddito fisso della Banca, Michael Shirlock, che della Goldman è anche partner. Come consulente dell’Agip petroli, invece, è stata scelta la Salomon Brothers. Anche la Salomon gode di entrature eccellenti (il suo presidente, Warren Buffet, è stato consigliere di George Bush) e, sia pure indirettamente, anche

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IL MEGLIO DEL BORGHESE la Salomon non è stata molto benevola nei confronti del nostro Paese. Buffet, difatti, è il principale azionista del Washington Post e della rete televisiva Abc, ambedue distintisi in durissimi attacchi anti-italiani. Attacchi, però, che non hanno evitato ai suoi rappresentanti di essere invitati a bordo dello yacht della Regina d’Inghilterra, il Britannia, che «per caso» incrociava nelle nostre acque territoriali, assieme ai colleghi delle altre Banche d’affari poi affidatarie di incarichi relativi alla privatizzazione, ai «numeri uno» di molte Società da privatizzare e ad esponenti dell’alta burocrazia italiana, come il Direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, lo scorso 2 giugno, più o meno nelle stesse ore in cui tutta l’Italia fremeva e tremava per la strage di Capaci in cui avevano perso la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della sua scorta. L’episodio è stato portato alla luce da una dettagliata interrogazione presentata dal deputato missino Antonio Parlato e proprio Draghi, ascoltato in sede di Commissione, ha confermato il tutto. Il fatto grave è che a bordo del Britannia si parlò di privatizzazioni, di metodi da seguire, di incarichi da affidare prim’ancora che il Governo italiano stabilisse una strategia per le dismissioni delle aziende a partecipazione statale. E, guarda caso, proprio alla vigilia della tempesta monetaria che da allora ha squassato la lira, portando il marco alle soglie delle mille lire di valore e il dollaro oltre le 1.600 lire. A maggio dello scorso anno, tali quotazioni sembravano impossibili per tutti, anche per operatori internazionali primari. Ma non per alcune delle Banche d’affari coinvolte in seguito nelle operazioni di privatizzazione, che già (è sopratutto il caso della Salomon Brothers) esigevano una fortissima svalutazione della lira. Sono state accontentate. Con il calo degli ultimi nove mesi, agli investitori statunitensi costerà oltre il 30 per cento in meno assicurarsi i pezzi più pregiati fra le aziende a partecipazione statale. Ma davvero la quotazione della lira è quella che compare dopo i declassamenti delle Agenzie specializzate angloamericane e sulla scorta dei quali verranno piazzati alcuni dei nostri Gruppi più importanti? Di sicuro, molte transazioni internazionali in marchi stanno avvenendo sulla base di una quotazione della moneta tedesca non superiore alle 850 lire. Sono forse diventati matti in Germania? O non sarebbe piuttosto il caso che l’Autorità monetaria italiana cercasse di veder più chiaro in questa faccenda così come l’autorità giudiziaria in incontri come quello avvenuto a bordo del Britannia? (il Borghese, 21 marzo 1993)

EUROPA IN CRISI (Gianni Isidori, il Borghese, 21 Aprile 1974

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Gennaio 2012

Euro-dipendenti all’italiana di SPARTACO L’IDEA dell’Europa dall’Atlantico alla Bielorussia mette, giustamente, qualche sgomento; suggerisce immagini «imperiali» che appartengono al passato remoto della nostra cultura; mostra già crepe, oltre a suggerire sospetti sul suo costo in «soldoni» (o dovremmo già dire in Ecu?) per le nostre tasche fin troppo «frequentate» dall’esosità fiscale nostrana. Però, anche questo va detto, l’idea continentale è certo più allettante, almeno per le sue dimensioni, se la si paragona all’«ideuzza» striminzita del professor Miglio e dell’onorevole Bossi, che pretenderebbero di chiudersi nella Padania con capitale Mantova, il cui precipuo se non unico blasone nobiliare è legato al nome dei Gonzaga e di Virgilio (se trascuriamo il Rigoletto di Giuseppe Verdi), ossia reminiscenze, quanto presenti nella memoria dei giovani non osiamo scommettere, artistico-letterarie. Ma quello che ora interessa più da vicino noi Italiani è sicuramente il «costo» dell’«operazione Europa» secondo quel solenne Trattato di Maastricht, il cui protocollo e le cui clausole sono oggetti misteriosi (non osiamo pensare alle sofferenze degli studenti che dovranno renderne conto agli esami di storia fra tre o quattro decenni) ma «sicuramente molto costosi» come ci vanno ammonendo con toni minacciosi i «maestri economisti» di casa nostra e dell’Aeropago comunitario a Bruxelles e dintorni. Quanti e quali vantaggi ce ne deriveranno allorché saremo ammessi alla tavola imbandita dell’Europa è un altro «oggetto misterioso»; ma pare che non se ne possa fare a meno, che questa occasione più unica che rara non possiamo permetterci il lusso di perderla, pena restare «tagliati fuori dall’Occidente». Ora, saremmo propensi a credere a tanti premurosi e incalzanti maestri e colleghi se non fosse intervenuto, d’improvviso, un fatto nuovo, di quei piccoli quasi impercettibili accadimenti che pur hanno una loro quasi sublimale importanza perché rendono sospetto ciò che prima sembrava chiaro e sgradevole ciò che si voleva accattivante. Ci riferiamo alle firme che gli «intellettuali» stanno raccogliendo per indurre «i popoli d’Europa» a sostenere l’approvazione del Trattato di Maastricht, preliminare indispensabile alla realizzazione del gigante continentale. Ecco, quelle firme, quegli intellettuali sono di troppo; sono un inciampo. E non pensiamo che occorra spiegarlo ai nostri lettori. Scorriamo i nomi: Mastroianni, Monica Vitti, Laura Betti, Liliana Cavani, Marco Ferreri, Francesco Rosi, Ettore Scola, per l’Italia; poi ci sono i francesi, i tedeschi, e qualche anglosassone sparso. Fermiamoci qui. Di questi «cineasti» (ora la cultura, come lamentava sarcastico Flaiano, per trovare intellettuali li va cercando fra i camerini, i teatri di posa e le trattorie del generone romano) abbiamo indelebile il ricordo delle passate comparsate «firmaiole». Sono almeno venticinque anni che si esercitano nell’arte dei propagandisti e dell’«armiamoci e partite».

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Gennaio 2012

IL MEGLIO DEL BORGHESE

Quei nomi aprivano le liste (mancano i Moravia, i Pasolini, i Visconti, gli Sciascia, perché deceduti, mentre stupisce l‘assenza di Volonté) e le sottoscrizioni d’impegno «politico» contro gli Americani nel Viet-Nam, proArafat e l’Olp di Abu-Abbas contro Israele, pro-Irak e proSaddam quando c’era la guerra contro l’Iran del Khomeini (ma prima avevano firmato contro il regime spietato dello Scià di Persia), pro-Allende contro Pinochet e contro i generali argentini, pro-Inghilterra ma contemporaneamente ancora contro il premier britannico Margareth Thathcer, pro-Urss contro gli USA, ma pro-Afghanistan contro l’invasione sovietica (quando si accorsero che Mosca avrebbe perduto il «suo Viet-Nam»). Erano gli stessi «intellettuali» che alle Feste dell’Unità negli anni Settanta si offrivano gratis per meritarsi i galloni di ante-marcia in vista dell’immancabile (e poi irrealizzabile) sorpasso contro la DC odiatissima. Sono gli stessi «intellettuali» che quando il PCI è franato hanno inneggiato alla caduta del Muro di Berlino e si sono buttati dalla parte del «craxismo rampante» accanto ai Portoghesi, nel salotto della moglie del socialista Ripa di Meana, signora Marina, convinti che sull’impero dominato dall’astro Bettino non sarebbe più tramontato il sole. Ed oggi, defilati e fattisi cauti, sono pronti probabilmente a firmare un «documento di sostegno» ai giudici di Tangentopoli. Insomma, questi sono gli «intellettuali» che ora sostengono l’Europa di Maastricht. Che dire? Che cosa pensare? Se dovessimo applicare la proprietà transitiva saremmo indotti a bocciare Maastricht e l’Europa comunitaria. Perché una differenza e una distanza dovremmo sempre mantenerla, con questi signori. Ma «de minimis non curat praetor», e facciamo conto di non essere a conoscenza degli equilibrismi di tanti o pochi «cinematografari» (cineasta è troppo). Guardiamo invece la questione sotto un altro aspetto. Che l’ingresso nell’Europa «unitaria» costerà molti soldi a ciascuno di noi cittadini e all’insieme del «sistema Italia», nessuno ne dubita. Dovremo perdere anche un pezzo di «sovranità» per quanto concerne molti dei poteri fiscali e amministrativi e in materie di interesse specifico, come ambiente, trasporti, sanità e pensioni, che attengono alla vita pratica di tutti noi. Più tardi, prima del 2000 (che è ormai ad un passo) perderà potere la Banca d’Italia e via via il sistema monetario sarà centralizzato, da «regionale» qual è oggi. Se poi l’unità europea si trasformerà anche in unità politica (e l’obiettivo è quello, perché non basterebbe certo un’unità puramente economica) è da immaginare la perdita di altre indipendenze e autonomie nazionali. Tutto può piacere o non piacere. La Danimarca ha detto «no» e non ha ratificato il Trattato di Maastricht. L’Inghilterra è alla finestra e nell’intimo molto perplessa. La Francia ha approvato il Trattato in Parlamento ma ha indetto il referendum fra i cittadini. La Germania pensa al Grande Reich economico-politico ed alla conquista dell’Est; gli altri Paesi si regoleranno come parrà loro meglio. L’ipotesi di un rinvio, di una battuta d’arresto non è peregrina. Anche se di solito i Governi sanno indirizzare e gestire referendum e opinione pubblica. Da noi, tutto questo non è stato né ci sarà. Da noi hanno deciso in quattro o cinque. Hanno deciso che Maastricht ci sta bene e che a quell’altare va sacrificato tutto. Siccome i nostri conti sono «pasticciati», hanno stabilito di mettere ordine come per l’arrivo di un ospite di riguardo. E sotto con le corvèe, a pulire gli angolini. Viviamo sotto

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un peso fiscale gravoso e presto quasi insopportabile per gente che è stata abituata ad arrangiarsi pur di scansare obblighi precisi. L’idea di un referendum da noi è bocciata in partenza perché la Costituzione lo vieta esplicitamente per i trattati internazionali, riservati al Parlamento, al Governo. Già questa è una limitazione abbastanza antipatica. Ma ciò che sorprende è il provincialismo e l’inferiority compless di cui siamo afflitti, o meglio è afflitta certa nostra stampa di regime e i nostri politici. Tanto che, appena è capitata l’occasione, ci siamo precipitati da un nostro alleato, a Parigi, per garantire che noi, prima ancora di sapere come andrà a finire il referendum dei Francesi anzi per premere sull’elettorato del «sì», provvederemo a far ratificare dal Parlamento il Trattato sub judice. Qui siamo veramente al massimo della «euro-dipendenza». Una considerazione che, se sommata alla raccolta di firme degli «intellettuali», ci restituisce ad un’Europa (dove non si rintraccia il monumento all’eroe comunitario mentre in ogni piazza spuntano i monumenti ad eroi nazionali imperituramente nemici fra loro) sempre più inconciliabile con il passato e forse anche con il futuro, almeno della nostra generazione. (il Borghese, 13 settembre 1992)

(Gianni Isidori, il Borghese, 3 Novembre 1974

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IL MEGLIO DEL BORGHESE

Gennaio 2012

Montecitorio: «In tavola!» di CARLO CUSANI PRANZARE nel centro di Roma, spendendo poco più di diecimila lire è senz’altro difficile. Diciamo pure che è impossibile. In verità non solo nel cuore della Capitale, ma in qualsiasi città italiana. E ancor più se si pranza in un ristorante che, per qualità, per servizio, per ambienti, è definibile di lusso. C’è un’eccezione: il ristorante della Camera. Situato in Montecitorio, sulla destra per chi guardi il Palazzo, riservato ai deputati, il ristorante è stato da pochi giorni riaperto. È costituito da circa centocinquanta posti. Vi è anche un settore a libero servizio, che permette di far fronte a una richiesta di un migliaio di pasti giornalieri: per deputati, ex deputati, funzionari della Camera, giornalisti e, secondo criteri ancora da fissare, dipendenti di Montecitorio. Un privilegio, quindi, concesso insieme a parlamentari e giornalisti, secondo il consueto sistema politico di spartire con i rappresentanti dell’informazione i propri vantaggi al fine di garantirsene, diciamolo brutalmente, la complicità, il silenzio e, quando fosse il caso, l’appoggio. Le spese per consentire il ripristino del ristorante hanno largamente superato i dodici miliardi di lire. Un importo anomalo. Con la scusa di riaprire il ristorante e sistemare la parte a libero servizio sono stati eseguiti vasti lavori. Un parlamentare che è solito scovare gli aspetti meno puliti degli angolini del «Palazzo», il liberale Raffaele Costa, ha reso pubblici i dati relativi ai lavori, altrimenti destinati a rimanere sepolti negli archivi della Camera grazie al complice silenzio di funzionari e politici. Ne riportiamo qualche cifra, che riteniamo abbastanza significativa per far comprendere che il richiamo al rigore nella spesa vale per tutti, meno per chi tale richiamo ogni giorno effettua. L’impiantistica è costata, secondo stime ancora parziali, 260 milioni. Le demolizioni: 150 milioni. Opere murarie e di assistenza muraria: 3.411 milioni. Arredo fisso (contropareti in legno, cornicioni per impianti, rivestimenti delle pareti): 1.900 milioni. Attrezzatura e macchinari per

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cucina, gastronomia e lavaggio: 1.130 milioni. Impianti di condizionamento, idrico-sanitari, termici: 1.700 milioni. Impianti elettrici, telefonici, di sicurezza, di amplificazione: 732 milioni. Due montacarichi e tre montavivande: 228 milioni. Pavimenti sopraelevati in legno, marmo e granito: 427 milioni. Tavoli e mobili di servizio: 326 milioni. Restauro di opere d’arte: 225 milioni. Finiture varie di porte, finestre, vetrate: 300 milioni. Tappezzerie e tendaggi: 100 milioni. Opere in legno del guardaroba: 169 milioni. Facciamo grazia di altri ammennicoli per decine di milioni. Le cifre sono ancora parziali, quindi, secondo collaudate esperienze, potrebbero salire al momento della contabilità finale. Vi dev’essere poi aggiunta l’IVA, calcolabile in una cifra superiore ai due miliardi di lire. I lavori vengono stabiliti e seguiti dal Collegio dei questori della Camera, un organismo composto di tre parlamentari, da tempo immemorabile divisi in questo modo: un democristiano, un comunista (poi pidiessino) e un socialista. Nessuno esercita controlli su tali spese, anche perché la Corte costituzionale, con una discussa sentenza, ha sottratto i bilanci interni degli organi costituzionali (la stessa Corte, la Presidenza della Repubblica e le due Camere) al controllo della Corte dei conti. Chiedersi se, nella situazione attuale, la Camera possa permettersi simili lussi non è demagogico. È un interrogativo che si pongono, ad esempio, i pensionati, che sentono parlare di blocco di qualsiasi adeguamento dei loro assegni. Si dirà che nell’oceano della spesa pubblica una dozzina di miliardi di risparmio non produrrebbe più di tanti effetti. Il che è vero soltanto in parte. Infatti, da un lato il risparmio si produce anche riducendo singole spese di pochi milioni, perché la somma di tanti piccoli tagli consentirebbe di non procedere a nuove tassazioni. Dall’altro lato c’è una questione di esempio civile: non si può chiedere agl’Italiani lacrime e sangue, e poi sguazzare allegramente nel lusso di marmi e lampadari, stucchi e pareti in legno, ove mangiare a prezzi che mai come in questo caso debbono venir definiti politici. (il Borghese, 5 luglio 1992)

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COLLOQUIO CON DOMINICK SALVATORE

L’ECONOMIA perduta a cura di ANNA MARIA SANTORO Montesilvano 12 Novembre 2011 LA «CINQUECENTO»; la TV; le ferie al mare; l’Italia del benessere. Era il tempo in cui Vestivamo alla marinara, scriveva Susanna Agnelli e l’espansione economica, rapida, appariva perfino lontana dalle previsioni del 1954 di Ezio Vanoni. Eppure la crescita successiva al dopoguerra trasformava, improvvisa, la vita degli italiani. Sfogliando Cosa tiene accese le stelle di Mario Calabresi: «Una sera del 1955 mia nonna riconquistò la libertà». Costretta a lavare a mano montagne di pannolini e di lenzuola ogni santo giorno, la nonna di Calabresi aveva riconquistato un po’ di tempo per sé semplicemente per aver comprato una lavatrice; sollevando la scatola del detersivo Persil, «indicava l’ingresso dell’acqua calda ...». Era il miracolo economico. Il miracolo del Sorpasso; della Lambretta; del Cantagiro di Ezio Radaelli; di Carosello; di guantiere di bignè dopo la Messa; pranzi domenicali con gli antipasti e piccoli transistor con il ronzio di Tutto il calcio, minuto per minuto; famiglie tranquille, come quella della Via Gluck o di Dominick Salvatore: «Mio nonno era Domenico Salvatore. Sono nato in Italia e sono orgoglioso. Perché?! Perché l’Italia ha una grande cultura, benché impieghi la sua ingegnosità per colmare le falle, invece di guardare con lungimiranza come è accaduto negli anni Cinquanta». Americano d’adozione, non dimentica le sue origini; è a Villa Santa Maria che ha vissuto la sua infanzia, in un antico borgo d’Abruzzo dove il Sangro s’increspa sopra ai sassi. Docente di Economia alla Fordham University di New York e professore ordinario alla Shanghai Finance, l’incontro con lui non è casuale, per ascoltare anche la voce di chi, lontano dai modelli orientati ai microsistemi, sostiene l’euro. È consulente delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Non può, per convenzioni e forma mentis, accondiscendere ad un ritorno alla lira «sarebbe interessante ma non fattibile. La moneta interna si deprezzerebbe molto rispetto a quella unica e i mercati non l’accetterebbero. «Certo, l’Argentina è uscita dal dollaro, ha dichiarato bancarotta, ha svalutato il peso, ha sofferto per due-tre anni e poi è tornata a crescere. È questo che vogliamo?La Francia e la Germania non hanno alcun interesse che l’Italia cada e potrebbe non succedere se la BCE comprasse tutti i nostri titoli in scadenza», sarebbe a dire: nel 2012 l’Italia deve rifinanziare più di 300miliardi di euro. «Se il mercato privato non acquista, e in questo caso il tasso d’interesse dovrebbe arrivare al 25 per cento, la BCE dovrebbe entrare e acquisire. I tedeschi non vorranno ma vorranno ancora meno che, non facendolo, tutto l’euro cada, insieme alle loro banche. Ciò non toglie che

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dobbiamo fare le riforme. L’Italia è entrata nell’euro a un valore troppo elevato». Dominick Salvatore ha studiato oltreoceano, con l’impavida fierezza ereditata dalla terra natia. «Oggi il nostro Paese non cresce; ma nemmeno gli altri crescono!» Un breve excursus: nel 2009 il PIL degli Stati Uniti diminuisce del 3,5 per cento; nel 2010 c’è una piccola ripresa ma senza il recupero di tutte le perdite. Nell’Eurozona la recessione è ancora più profonda; in Germania, «la grande Germania!», nel 2009 è del -5,1 per cento. «Secondo le previsioni del 2012, Francia e Germania cresceranno 0,2 e 0,3, quindi avremo buona compagnia. Questo ci consola ma non ci aiuta. Nel primo trimestre del 2009 le importazioni “World Trade” diminuiscono del 9 per cento. Queste importazioni sono in gran parte esportazioni dei Paesi emergenti». Gli investimenti dei Paesi avanzati in quelli emergenti del «G20» subiscono un picco verso il basso e la crisi si estende anche a loro. «Dicono che i dati parlano da soli ma i dati non parlano da soli; bisogna capire cosa indicano. «Prendiamo come esempio la previsione di crescita della Cina, del 9 per cento nel 2012. Ebbene, una crescita del 6 per cento in Cina è come una crescita zero in Italia perché, il Partito comunista lo sa, ci sono 400-500milioni di persone che vivono ancora in un’economia di sussistenza, quindi c’è necessità di una crescita di 6 punti solo per compensare questa condizione. Una previsione del 9 per cento, dunque, equivale a un 3 per cento. Non è poco ma non è il 9 per cento!» Tornando all’Occidente, «A luglio del 2008 Trichet ha aumentato i tassi d’interesse dicendo che l’Europa avrebbe evitato la crisi. Pensava che il problema fosse l’inflazione e non la recessione. Sapevamo che non era così. Ad aprile del 2011 diceva “la crisi è finita”; ha aumentato i tassi ma poi si è accorto dell’errore. Quindi, avrebbe dovuto ridurli ad agosto ma, se lo avesse fatto, avrebbe dimostrato che aveva sbagliato di grosso prima. Ha lasciato questo compito a Draghi che li ha ridotti di un quarto di punto, che non risolve nulla». C’è poi il problema del valore. «La moneta cinese è sottovalutata rispetto al dollaro del 25/30 per cento; il dollaro è sottovalutato rispetto all’euro del 10/15 per cento, che significa che l’euro è sopravvalutato rispetto allo Yuan Renminbi di 40-50 per cento; è come se le imprese europee pagassero un’imposta sulle loro esportazioni di 40 per cento e imponessero un sussidio alle importazioni di 40 per cento, che significa meno produzione per le esportazioni. Di chi è la colpa?! È nostra. Io incolpo l’Italia, incolpo l’Europa. La globalizzazione ci permette di importare beni però noi non produciamo più, invece dovremmo trovare un equilibrio tra l’acquisto di prodotti a buon prezzo e la creazione di posti di lavoro. Stiamo perdendo i benefici delle nostre tecnologie; in Occidente facciamo le innovazioni e in Oriente le producono, l’airbag ne è un esempio. Vogliamo un’economia aperta. Ma non così aperta! Nel prossimo decennio la Cina dovrà avere cinquemila nuovi aerei e sta giocando al rialzo con Airbus e Boeing per farsi insegnare a costruirli. Ma è possibile questo? «Fare l’economista è difficile. Io sono a favore dell’euro ma occorrono una politica fiscale comune e un senso di comunità che non c’è. I francesi, per esempio, costruiscono le centrali atomiche ai nostri confini. Loro hanno l’energia a basso costo ma se ci fosse qualche problema, lo condivideremmo. E no!»

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EVASIONE FISCALE

I LATI positivi di GIANNI PARDO CHIUNQUE osasse dir male del Papa, dell’euro o di Giorgio Napolitano, come chiunque osasse dir bene della droga, della guerra, o dell’evasione fiscale, si vedrebbe attaccare da tutti con la ferocia dell’indignazione. Qui si correrà questo rischio perché di fatto l’evasione fiscale, una volta divenuta importante, ha i suoi lati positivi: tanto che eliminarla di botto sarebbe altamente pericoloso. Lo Stato assicura servizi ai cittadini e per finanziarli impone tasse e imposte. Ammettendo che - le cifre sono puramente esemplificative - per questo abbia bisogno di un gettito corrispondente al 20 per cento del prodotto interno lordo, se mettesse tasse e imposte per un totale del 20 per cento, e tutti le pagassero, la situazione sarebbe in equilibrio. Avviene invece che una buona parte dei cittadini, soprattutto i piccoli contribuenti, non paghi. Pensiamo al barista dell’unico bar del villaggio, che conosce tutti e non emette praticamente mai scontrini. Lo Stato, per ottenere quel 20 per cento del PIL, alza il livello della pressione fiscale dal 20 al 40 per cento (in Italia è di più). Di chi è la colpa? Molti diranno: «Degli evasori». E invece no, la colpa è dello Stato. Anni fa un italiano che abitava in Spagna volle non tenere conto del nuovo obbligo di indossare la cintura di sicurezza perché l’ammenda era bassa e pensava di potersi pagare la comodità di guidare come aveva sempre fatto. Presto però si accorse che ad ogni incrocio un vigile lo fermava e lo multava. Una volta, in una sola mattina, pagò tre contravvenzioni: e così si convinse ad usare la cintura. Un altro amico fu multato per avere guidato su un’autostrada svizzera a 68 km/h dove il limite era di 60, mentre era incolonnato e tutti guidavano a quella velocità. La contravvenzione gli arrivò addirittura in Belgio, dove risiedeva. Pensò di protestare ma poi gli fu detto che l’importo era di sei euro. Solo sei euro. E dunque pagò, ma la lezione fu un’altra: se un Paese stabilisce un’ammenda così bassa, è segno che conta di imporla con tale implacabilità che essa basterà a scoraggiare anche i più indisciplinati. Come insegna la politica penale, è la certezza della sanzione, non la sua gravità, che induce al rispetto delle leggi. Si direbbe che questi princìpi non riescano a superare le Alpi. Non si comprende che si devono imporre quelle tasse e quelle imposte che si è certi di poter esigere senza che nessuno o quasi sfugga. Non si può supplire con l’innalzamento delle imposte per quelli che le pagano. Questa è una somma ingiustizia: si punisce l’onesto a favore del disonesto. Se la sanzione non è sicura e l’imposta è alta, si ha un incentivo per l’evasione; se la sanzione è sicura e l’imposta è bassa, perché evadere? L’esistenza di una notevole evasione fiscale - al di là di ogni considerazione giuridica o morale - ha conseguenze

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economiche non indifferenti. Ammettiamo che un piccolo artigiano operi in nero con margini di profitto esigui: morale e civismo a parte, offre un servizio, produce ricchezza, e contribuisce alla prosperità nazionale. Se invece fosse costretto ad operare legalmente, per esempio pagando il 40 per cento di imposte, potrebbe essere costretto a chiudere l’attività. E in questo modo la produzione nazionale di ricchezza diminuirebbe. La soluzione? Quella che si diceva prima. Se il piccolo artigiano potesse essere costretto a pagare non il 40 per cento ma il 20 per cento, lo Stato incasserebbe il suo gettito e quel capofamiglia sopravvivrebbe. La conclusione è condensabile nei seguenti assiomi: 1) Uno Stato che non sa o non può applicare la proprie norme fiscali incentiva l’evasione. 2) L’idea di sopperire a questa incapacità aumentando tasse e imposte è immorale ed economicamente controproducente: frena infatti la produzione degli onesti e fa nascere l’economia sommersa, con vantaggio dei piccolissimi ma anche dei disonesti. 3) Una volta che il pessimo sistema si sia instaurato, l’abolizione dell’evasione, con un colpo di bacchetta magica, sconvolgerebbe l’economia provocando un’enorme ed improvvisa diminuzione del PIL. Se lo Stato si vedesse fare questa proposta dalla Fata Turchina, dovrebbe dire di no: dovrebbe piuttosto chiederle il miracolo di un sistema fiscale senza falle. In conclusione i moralisti non dovrebbero condannare con parole di fuoco l’evasione, perché il primo colpevole è lo Stato. Esso è incapace di esigere le tasse da tutti; è esoso perché le aumenta a carico di quelli che le pagano, e infine è immorale perché maltratta gli onesti a vantaggio dei disonesti. iannipardo@libero.it , www.DailyBlog.it

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A DIECI ANNI DALL’EURO

CONDOMINIO da rinnovare di ALFONSO FRANCIA

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palazzo signorile molto vecchio, costoso da mantenere. Mentre si litigare, il fornitore del gas - la Russia - sa di poter aumentare i prezzi per il riscaldamento perché nessuno ha pensato di contattare altri fornitori, e alcuni imprenditori edili provenienti da quartieri più dinamici, come la Cina, stanno pensando di comprare l’intero stabile e imporre affitti molto alti. Invece di occuparsi del bene comune, ognuno ha badato soltanto al proprio appartamento. Fino a un anno fa la fine dell’Unione Europea sembrava un tema di fantapolitica, di quelli buoni come tema di esercitazione per uno studente al primo anno di scienze politiche, ma oggi è diventata un’opzione discussa con la massima serietà dai centri studi delle banche. La svizzera UBS ha persino calcolato quanto costerebbe la fine della moneta unica a ogni cittadino europeo (un tedesco vedrebbe sparire dal suo conto in banca circa ottomila euro, contro gli undicimila di un greco). Dal punto di vista politico, non è facile quantificare le dimensioni del vuoto che la UE lascerebbe se implodesse, perché non si è ancora capito quali sono i suoi poteri. Lo stesso Presidente della Commissione europea Jose Manuel Barroso sembra avere le idee confuse sul tema: ad un giornalista tedesco che gli chiedeva se la Commissione ha i poteri necessari per imporre controlli sulla governance economica dell’area Euro, ha risposto: «Penso di sì. Se non è la Commissione chi può farlo?». L’uomo che dirige l’organo esecutivo dell’UE non può dare una risposta tanto vaga. L’Unione potrebbe morire nell’indifferenza generale proprio perché in un ventennio di esistenza non è stata capace di darsi dei poteri certi e di instaurare dei rapporti chiari con gli Stati membri. L’assenza di parametri solidi non è frutto del caso o di una troppo precipitosa fondazione: fu decisa da ben precisa politi-

IN QUESTI giorni festeggiamo il decennale dell’arrivo degli euro nei nostri portafogli, ed ha già il sapore della commemorazione. Eravamo partiti con euforia, pensando che saremmo diventati una Germania in salsa mediterranea. Logico, fino a quel momento l’economia italiana non era riuscita a imporsi politiche di bilancio ragionevoli perché sapeva di poter ricorrere a periodiche svalutazioni della lira per mantenere competitiva la sua economia. Credevamo di poter rispettare quelle politiche virtuose perché costretti, avendo rinunciato per sempre alla possibilità di manovrare il valore di una moneta nazionale. È andata diversamente: abbiamo continuato la nostra politica degli sprechi e delle spese insensate, ma senza alcuna possibilità di svalutare la nostra moneta e con effetti devastanti sulla competitività della nostra economia. Ora ci viene detto che non siamo più degni di restare nel club. Poco tempo fa il premier olandese Mark Rutte ha sostenuto che se un Paese non si adatta va espulso dall’euro. Nessuno gli ha fatto notare che questa opzione, rischiosissima anche se applicata ad economie marginali come la Grecia o il Portogallo, porterebbe al collasso dell’Europa se a uscire dalla moneta unica fosse l’Italia, che ha il quarto Pil dell’UE. Questi sgarbi tra Paesi che dovrebbero lavorare insieme non sono rari: l’Europa è come un condominio. I suoi abitanti non si sono mai sentiti uniti, ma Rivista Bimestrale hanno sempre litigato. Gli inquilini dei Per nuove sintesi culturali piani superiori lamentavano che quelli diretta da Fabio Torriero dei piani inferiori, i «latini», sporcavano l’androne con le loro cartacce, i titoli di Stato, lasciati ovunque in terra. Questi ultimi si offendevano per la spocchia con la quale venivano trattati e per le assurde regole condominiali che limitavano i loro diritti. Le riunioni tenute dall’amministratore, ovvero Bruxelles, non conducevano a nulla perché le vere decisioni venivano prese in segreto dall’amministratore stesso assieme ai residenti più ricchi che abitano all’attico: Francia, Germania e Regno Unito. Alla fine si è cominciato a dire che qualcuno andava cacciato. Si è accusato l’abitante del sottoscala, la povera Grecia, di non essere in grado di pagare il Rivista Quadrimestrale mutuo e ora si litiga sul da farsi. Qualdi Geopolitica e Globalizzazione che inquilino vorrebbe che andasse via, diretta da Eugenio Balsamo altri si rendono conto che con un appartamento sfitto si rischierebbe di non poter pagare più i complessi lavori di Via G. Serafino, 8 • 00136 Roma • Tel. 06 45468600 • e-mail: luciano.lucarini@pagine.net ristrutturazione, perché l’Europa è un

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ca della Germania e, in misura minore, della Francia, che imposero una struttura sovranazionale capace di piegarsi alle loro esigenze. Se l’euro è nato come valuta è perché la Germania era in crisi a causa del valore del marco. Non a caso l’economia tedesca, in massima parte basata sull’esportazione di beni manifatturieri di alta tecnologia e qualità, è ripartita a razzo una volta superata quella moneta così forte rispetto alle valute dei suoi mercati di esportazione. Ma a Berlino non bastava imporre una struttura creata con regole fatte su misura per le sue esigenze; ha preteso di poterle cambiare quando queste esigenze sono cambiate. Così nel 2003 Germania e Francia hanno potuto impunemente - e nonostante la contrarietà dell’allora Commissario alla concorrenza Mario Monti violare i parametri di stabilità. I Tedeschi hanno spremuto l’UE cavandone tutto quel che hanno potuto, e ora non hanno interesse a rimettere in sesto quella che sanno essere un’istituzione fantoccio, nata per far pagare ad altri la salatissima riunificazione tedesca. Ma noi che non abbiamo mai amato questa Europa legata soltanto da vincoli finanziari vogliamo essere ottimisti: ci piace pensare che l’eventuale fine dell’UE, per quanto drammatica, sia l’occasione giusta per ricostruire quell’Europa delle nazioni sognata da tanti intellettuali del Vecchio Continente a partire dalla metà dell’Ottocento. Se veramente vogliamo un’Europa unita, occorre ripartire dalla politica e più precisamente dalla politica estera, che è il campo sul quale si misura l’importanza e l’affidabilità di qualunque istituzione territoriale. Fino a oggi l’Europa ha avuto 27 politiche estere diverse, ed è stata divisa - e quindi impotente - su tutti i principali teatri di conflitto dell’ultimo decennio, dall’Afghanistan alla Libia. Anche in questo caso, la mancanza di incisività è stata causata soprattutto da una precisa scelta della Germania, che ha sempre cercato di esporsi il meno possibile nel corso delle crisi, a costo di rendersi ridicola. Ricordiamo tutti la pessima gestione del conflitto libico; la Germania si è sostanzialmente isolata dagli altri Paesi europei decidendo di non partecipare all’operazione. Invece di difendere la sua posizione e di spiegare al mondo perché riteneva sbagliato l’intervento, Berlino ha però scelto una insensata via di mezzo. Il ministro degli Esteri Guido Westerwelle arrivò a sfiorare il patetico quando spiegò: «Non manderemo soldati in Libia, ma questo non significa che siamo neutrali. Condividiamo l’obiettivo di proteggere i civili e naturalmente di fermare Gheddafi». Come a dire: armiamoci e partite. I media internazionali si sono ritrovati prevedibilmente in imbarazzo quando hanno dovuto descrivere un’Europa ancora una volta divisa tra il protagonismo gollista di Sarkozy, i mal di pancia della signora tentenna Angela Merkel e le indecisioni del governo Berlusconi, che nel giro di qualche settimana è passato dall’appoggiare Gheddafi al fargli la guerra (rispettando del resto una tradizione italiana). La futura Unione dei Paesi Europei dovrà avere una sola voce, forte e chiara, e un vero ministro degli Esteri. La barzelletta dell’Alto rappresentante per la politica estera, forte di seimila addetti tra ambasciatori sparsi per il mondo e impiegati vari ma priva di qualunque potere che non sia quello di diffondere comunicati, dovrà diventare soltanto un ricordo. Tuttavia esiste la possibilità che l’Unione venga tenuta in vita così com’è, per il semplice motivo che tornare alle valute nazionali ha un costo enorme, soprattutto perché si accompagnerebbe al fallimento di mezzo continente. Ma non c’è dubbio che questo è il momento giusto per ripensare l’intera costruzione; se non è possibile abbattere il palazzo europeo e costruirne uno nuovo, si cerchi almeno di riscrivere il regolamento condominiale.

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L’USCITA INGLESE DALL’EURO

PROFUMO di Londra di GIUSEPPE DE SANTIS QUANDO qualche tempo fa il Daily Telegraph ha riportato che il Foreign Office, il ministero degli esteri britannico, si sta preparando per affrontare disordini violenti che potrebbero essere causati dal crollo dell’Euro, in molti hanno trovato questa notizia significativa ma non sorprendente. Il Regno Unito è sempre stato euroscettico e i giornali britannici hanno sempre attaccato l’Unione Europea e esposto i suoi difetti con uno zelo che è quasi unico nel panorama Europeo e quindi non c’è da stupirsi se in molti hanno visto negli eventi di queste ultime settimane un conferma della validità del loro scetticismo; per anni i leader dei principali partiti politici e i rappresentanti dei poteri forti hanno descritto tutti coloro che si sono battuti per far uscire la Gran Bretagna dall’Unione Europea come «little englanders», un termine dispregiativo che descrive gli euroscettici come provinciali retrogradi che sognano un passato che è ormai morto e sepolto; ma adesso sono gli europeisti a dover difendere le loro tesi e col passare del tempo questo sta diventando sempre più difficile. La grave situazione economica della Grecia sta dimostrando come un Paese che fa parte di un’area valutaria non soltanto non ha gli strumenti per affrontare una crisi ma non ha neanche la capacità di prevenirla; la Grecia non può né svalutare né ridurre i tassi di interesse e l’unica alternativa che ha è quella di tagliare la spesa pubblica e ridurre stipendi e pensioni, una soluzione dai costi sociali altissimi. Certo, tutti i mezzi di informazione hanno versato fiumi di inchiostro per spiegare come fosse stato sbagliato far entrare la Grecia nell’Euro ma il problema non è la Grecia bensì la moneta unica e questa tesi è dimostrata chiaramente dalla situazione irlandese. L’Irlanda, dagli anni ’90, ha avuto una crescita economica forte aiutata da una bassa pressione fiscale e da una politica economica che ha incentivato molte multinazionali a investire nell’isola di smeraldo; non è un caso che veniva descritta come la tigre celtica. Al contrario della Grecia, le finanze pubbliche irlandesi non erano messe male e l’economia ha beneficiato a lungo dalla presenza di industrie ad alta tecnologia e di compagnie operanti nel settore assicurativo e finanziario e nessuno si sognerebbe di dire che l’ingresso dell’Irlanda nell’Euro fosse un errore eppure l’entrata nella moneta unica ha creato le basi per una crisi finanziaria dagli effetti devastanti. L’adozione dell’Euro ha portato a un abbassamento dei tassi di interesse che, a sua volta, ha causato una bolla immobiliare e creditizia che per il governo Irlandese è stato impossibile prevenire; da una parte i cittadini irlandesi hanno iniziato a indebitarsi e a spendere senza curarsi delle conseguenze future, dall’altra c’è stata una corsa agli investimenti immobiliari favorita dai bassi tassi d’interesse

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IL BORGHESE

e dalle decisioni delle banche di cercare investimenti più redditizi. Per un po’ questo meccanismo ha funzionato e ha permesso ad alcuni di guadagnare denaro in maniera facile ma poi è diventato evidente come questa situazione non fosse più sostenibile. In casi del genere le banche centrali alzano i tassi d’interesse per raffreddare l’economia ma l’Irlanda questo non l’ha potuto fare visto che questa decisione è ora in mano alla Banca Centrale Europea e così le autorità hanno assistito impotenti alla crescita di questa bolla fino a quando non è scoppiata con effetti devastanti, destinati a durare per diversi anni. Non soltanto il crollo del settore immobiliare ha causato un forte aumento della disoccupazione ma il governo è stato costretto a intervenire finanziariamente per salvare alcune banche dal fallimento, una decisione che ha fatto aumentare enormemente il debito pubblico mentre, allo stesso tempo, si sono dovuti fare tagli pesanti alla spesa pubblica imposti dall’Unione Europea. Certo sarebbe facile pensare che i cittadini britannici abbiano tirato un sospiro di sollievo, dopotutto il Regno Unito è fuori dall’Euro ma le cose non sono così semplici e a dare la doccia fredda è stato Sir Mervyn King, governatore della Banca centrale inglese. In un rapporto rilasciato verso la fine del 2011, Sir King ha lanciato l’allarme riguardo alla possibilità di una crisi del sistema finanziario globale e come il collasso dell’Euro potrebbe costare alle banche britanniche almeno 200 miliardi di sterline e ha suggerito loro di tagliare bonus e dividendi, in modo da irrobustire le riserve di capitale da usare per coprire eventuali perdite, un suggerimento comprensibile visto che hanno investito molto nell’area dell’Euro. Però lo scetticismo non è confinato soltanto alla moneta unica ma anche all’Unione Europea. Effettivamente molti euroscettici sono convinti che questa crisi sia stata creata a tavolino per vincere le resistenze dei cittadini Europei a trasferire più poteri a Bruxelles e distruggere per sempre gli Stati nazionali. Che l’Unione Europea sia stata creata con l’inganno e le menzogne non è certo una novità, ma al di fuori del Regno Unito sono in molto pochi a condividere questa tesi. Gli eventi di questi ultimi giorni stanno lentamente svegliando tutti coloro che hanno sempre creduto che l’Unione Europea avesse soltanto aspetti positivi e anche tra i più fanatici europeisti si fa strada l’idea che esiste un problema di democrazia e che oramai non è più possibile ignorare l’opinione pubblica. Non è chiaro cosa avverrà nelle prossime settimane ma quello che è certo è che sono in pochi a pensare che l’Unione Europea potrà sopravvivere nella forma attuale.

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GUERRA FREDDA IN MEDIO ORIENTE

LUDI iraniani di ANDREA MARCIGLIANO VENTO di Guerra Fredda fra Mosca e Washington o, per lo meno, «freddina», come l’hanno denominata, ironicamente, alcuni commentatori statunitensi, per sottolineare i troppi, forti e convergenti interessi economici che impediscono, oggi come oggi, il degenerare totale dei rapporti fra i due antichi rivali a «temperature» in stile seconda metà del ‘900. Fredda o freddina che sia, tuttavia negli ultimi decenni le relazioni bilaterali non sono mai state gelide come in questi giorni, con Vladimir Putin che ha pubblicamente accusato le ONG statunitensi - e, in modo più indiretto, la stessa Amministrazione Obama - di avere brigato per falsare i risultati delle recenti elezioni legislative russe, finanziando sontuosamente alcune forze d’opposizione. E Hillary Clinton che ha risposto acida riversando sul premier russo l’accusa di brogli elettorali e affini. Insomma, un copione non nuovo, si dirà; anzi, usuale almeno da che alla Casa Bianca si è insediato il sorridente Obama. Il Cremlino, si sa, qualunque sia «il colore» di chi vi governa preferisce, da sempre, trattare con Presidenti repubblicani e conservatori e, poi, Putin e Medvedev non sembrano molto portati al sorriso. Tuttavia, dietro al vecchio, frusto gioco delle parti, questa volta è adombrato uno stato di tensione che, davvero, sembra rischiare di giungere al calor bianco. Una situazione che va focalizzata in un ben preciso quadrante geopolitico, quello compreso fra il Golfo persico e il Mediterraneo Orientale. La «strategia Obama» nel «Great Middle East» - Uno stato di crisi che si sviluppa, dunque, lungo l’asse TeheranDamasco, coinvolgendo, però, anche la Turchia e l’Arabia Saudita. La Siria e, soprattutto, l’Iran, si sa, sono da lunga pezza le bestie nere di Washington, ed oggi rappresentano, in successione, i due probabili prossimi obiettivi della strategia geopolitica posta in essere dall’Amministrazione Obama in tutto il Great Middle East, ovvero in quella vastità che va dal confine indo-pakistano al Maghreb nordafricano. Strategia estremamente aggressiva, ancorché diretta dietro le quinte, appaltando ad altri il proscenio, come è avvenuto in Libia con la Francia; e, per altro, strategia anche molto rischiosa e non poco confusa - «avventuristica» l’ha definita il Capo di Stato Maggiore israeliano - visto che, sino ad ora, ha destabilizzato Paesi «amici» degli States, come Egitto e Tunisia, o altri certo non minacciosi come la Libia di Gheddafi, rischiando concretamente di consegnarli alla deriva islamista (favorita e finanziata, per altro, dall’alleato saudita). Mentre, ad oggi, il disegno statunitense di ridisegnare totalmente gli equilibri del Grande Medio Oriente ha sortito pochi o nulli risultati in quei Paesi che Washington considera «nemici». Di qui la necessità di spingere sull’acceleratore in Siria e in Iran, anche per rassicurare il Governo israeliano, che ha ben poco apprezzato la cacciata di Mubarak e l’ascesa, al Cairo, di un partito ispirato ai Fratelli Musulmani.. Ora, l’anello debole è, appunto, rappresentato dalla Siria, dove le continue manifestazioni contro

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il regime degli Assad sembrano costantemente sul punto di degenerare in una vera e propria guerra civile. E la caduta degli Assad e dell’élite allawita - una setta di derivazione sciita - che governa a Damasco indebolirebbe, indubbiamente, anche il regime degli ayatollah, e soprattutto il Presidente iraniano Ahmadinejad, già provato da una estenuante conflitto sotto traccia con la Guida Suprema Khamenei ed i conservatori di Larijani. Insomma, una «primavera araba» ancorché tardiva in quel di Damasco permetterebbe a Washington di prendere i classici due piccioni con una fava. E senza esporsi più di tanto. Il Grande Gioco intorno a Damasco - La Siria, però, è un osso molto più duro da rodere dei Paesi maghrebini. Intanto perché appare ormai chiaro che il rovesciamento del regime di Assad potrebbe avvenire soltanto con un, corposo, intervento militare esterno. E siccome questa volta Washington non potrà contare né su Parigi, né su Londra per cavarle le castagne dal fuoco, l’unica potenza in grado di intervenire e interessata a farlo, resta la Turchia. Ma Ankara da tempo ha dimostrato la chiara volontà di ballare da sola, tant’è che sta sempre più sviluppando una sua strategia geopolitica nel Grande Medio Oriente e nel Mediterraneo che potrebbe, in un non lontano futuro, dare non pochi grattacapi a Washington. Anche perché appare in aperta concorrenza con quella dei sauditi. Ankara e Riyadh, infatti, mirano entrambe alla leadership del mondo islamico-sunnita, con i sauditi che fanno leva, attraverso la potenza finanziaria, sui movimenti più radicali ed integralisti, e i turchi che - forti del loro esercito, il secondo della NATO, e della crescita industriale - sui settori «moderati» delle società arabe. Un bel conflitto latente, insomma, e per di più tra due Paesi considerati parimenti essenziali - ancorché per ragioni diverse - alla tutela degli interessi statunitensi. E poi, in Siria, ci sono i Russi. Ci sono fisicamente, con la loro flotta, visto che Assad ha, recentemente, riaperto le basi militari siriane alle navi da guerra del Cremlino, da sempre alla ricerca di sbocchi - e porti sicuri - sui «mari caldi». In sostanza il giovane Bashir al Assad ha così ripreso la politica di suo padre che, ai tempi della Guerra Fredda, si era appoggiato all’Unione Sovietica. Insomma, i decenni scorrono, gli uomini e i regimi cambiano, ma alcuni intrecci di alleanze - dettate non dall’ideologia, bensì dall’evidenza geopolitica - restano costanti invariate. E così nuovamente, nel Mediterraneo Orientale, assistiamo ad una flotta americana ed una russa che si studiano e si fronteggiano. La (vera) «minaccia iraniana» - Più complesso ancora il «Dossier Iran» che certamente, in queste ore, si trova in evidenza sulle scrivanie tanto della Casa Bianca quanto del Cremlino. Per Washington, ora come ora, l’Iran rappresenta la Minaccia con la maiuscola. E non soltanto a causa delle sue ambizioni nucleari e delle continue intemerate anti-israeliane di Ahmadinejad. Piuttosto, gli Iraniani rappresentano un problema proprio per quel riassetto globale del Great Middle East cui mira l’attuale Amministrazione statunitense. In effetti, non soltanto le «Primavere arabe» non sembrano aver avuto alcuna (vera) eco a Teheran e dintorni, ma il regime sciita ne ha potuto addirittura approfittare, cercando di scardinare la piccola monarchia del Bahrein fomentando le rivolte della maggioranza sciita oppressa. Rivolte sanguinosamente represse - nel quasi totale silenzio dei media - dall’intervento dell’Esercito saudita. E un gioco consimile - facendo sempre leva sugli sciiti delle regioni settentrionali - Teheran lo sta mettendo in atto anche nello Yemen. Strategia che molto preoccupa i Banu Saud, anche perché potrebbe estendersi come un in-

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cendio alla costa orientale della Penisola Arabica, quella più ricca di petrolio e, guarda caso, popolata in larga maggioranza da tribù sciite. Che, nel regno feudale dei sauditi wahabiti, godono di meno diritti di un cammello da soma. A questo, poi, si deve aggiungere la crescente attenzione di Ahmadinejad all’Afghanistan, in nome della protezione della minoranza sciita degli Asara, che potrebbe costituire un problema in vista del progressivo ritiro statunitense. E ancora l’allungarsi dell’ombra di Teheran sullo stesso, sempre più inquieto, Pakistan. Senza dimenticare, poi, l’Iraq, dove il rischio che il sud del Paese - ricchissimo di petrolio e anch’esso a maggioranza sciita - venga a breve risucchiato nell’orbita iraniana è ben più che concreto. Urge, dunque, neutralizzare, o per lo meno indebolire Teheran. Soltanto che la strategia dell’Amministrazione Obama appare, anche qui, ambigua. E, soprattutto, poco propensa ad un intervento diretto. Per altro i tentativi di fomentare rivolte interne si sono, sino ad ora, risolti in ben poco; inoltre, i contrasti fra le fazioni al potere a Teheran non lasciano, chiunque si affermi, nulla di buono da prevedere per gli interessi americani. Certo, ci sono sempre i turchi. Tuttavia Erdogan - che pure pare intenzionato a dotarsi di un arsenale nucleare, con l’appoggio di industrie e tecnici giapponesi - persegue una strategia, tracciata dal suo Ministro degli Esteri Davutoglu, che tende ad evitare i «problemi con i vicini», ergo con l’Iran. Anche perché, ora come ora, Ankara ha più motivi di aperta rivalità con Riyadh che con Teheran. Temperatura sotto zero - Alla fine, dunque, Washington potrebbe essere costretta ad un intervento diretto in Iran, per lo meno ad una serie di raid aerei volti ad indebolirne il potenziale bellico. E questo per impedire che Israele «faccia da sola»; cosa che in parte sta già avvenendo ad opera di commando del Mossad, cui sarebbero - il condizionale è, ovviamente, d’obbligo - da attribuire certe sospette esplosioni in siti industriali/nucleari persiani, nonché le ancor più sospette morti di scienziati iraniani. Ma una cosa è che i servizi israeliani continuino a portare avanti la «guerra sporca», altra, ben altra un intervento diretto delle forze armate statunitensi. Che, inevitabilmente, finirebbe con il coinvolgere Mosca. Ora, il Cremlino non ha una particolare simpatia per le ambizioni nucleariste di Ahmadinejad, e tuttavia il rapporto con l’Iran costituisce un asse privilegiato per la costruzione di quella «OPEC del gas» su cui Putin ha molto investito per far tornare la «sua» Russia una grande potenza globale. E, certo, non appare disposto a lasciare che gli statunitensi di quel «ragazzotto» venuto da Chicago gli vadano a rompere le uova nel paniere. Per questo ha mostrato, di brutto, i denti agli americani; e per questo Hillary Clinton gli ha risposto con altrettanta durezza. Mentre il termometro dei rapporti bilaterali Mosca-Washington è crollato di parecchi gradi sotto lo zero.

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UN NUOVO PATTO DI VARSAVIA?

RITORNO al passato di MARY PACE UNA bufera si sta abbattendo su Putin, non meteorologica, ma politica. Nel mese di marzo ci saranno le elezioni, e il partito di Putin sembra in forte calo, a vantaggio delle forze politiche comuniste e nazionaliste. Vediamo nel dettaglio la realtà della situazione. La Russia attraverso il suo ministro degli esteri ha mostrato irritazione nei confronti degli USA al programma di dispiegamento di missili nel Mar Nero, nel Mar di Barents e nel Mar Baltico. Sulle navi da guerra sono apparsi i missili intercettori Patriot e tale dispiegamento è inaccettabile dal Governo russo. L’America dal canto suo ha spiegato che i missili non sono contro la Russia, ma vengono messi soltanto per obiettivi di difesa strategica, onde evitare un attacco a sorpresa da parte dell’Iran. Oltre a ciò la Russia avrebbe chiesto una garanzia scritta non verbale da parte degli USA, di non mettere a rischio il Paese, ma questa non c’è stata. Il Kremlino ha deciso di rafforzare le sue difese per contrastare la dislocazione dello scudo spaziale americano in Europa. Il ministro della Difesa russo, Anatoly Serdyukov, ha fatto sapere che installerà nel Baltico una stazione radar in grado di controllare tutto il continente europeo, la base è già pronta per essere operativa. Il sistema di difesa spaziale russo è in grado di intercettare qualsiasi tipo di missile, inclusi quelli a velocità supersonica. Inoltre le batterie di missili a corto raggio, che saranno dispiegati a Kaliningrad, riuscirebbero a contrastare lo scudo anti-missilistico americano, ma anche ad intercettare i missili offensivi. I russi tengono a far sapere che sono dotati di missili Iskander di nuova generazione, che possono essere balistici tattici, in grado di sopprimere le posizioni di tiro, i sistemi di difesa antiaerea, gli aerei a terra, i sistemi di comunicazione e di controllo. Sono immuni da intercettazioni ed in grado di attuare manovre evasive; inoltre agli Iskander è stata applicata la tecnologia Stealth. Questa è stata la risposta all’escalation degli USA, che la Russia considera come una minaccia ai propri arsenali strategici. Il Kremlino sta invitando i giovani ad arruolarsi, in quanto la Russia di oggi ha meno soldati di quando esisteva l’URSS; per il ministero della Difesa si deve arrivare ad almeno un milione. Anche se non venisse attaccata direttamente, la Russia si troverebbe coinvolta in conflitti ai propri confini, al momento sopiti, ma che domani potrebbero riprendere vigore in maniera virulenta. Il governo russo vede una minaccia nell’espansione della NATO, tesa ad includere le ex repubbliche sovietiche del Patto di Varsavia. Il capo di Stato maggiore delle Forze Armate russe, generale Nikolai Makarov, ha dichiarato che il ritiro programmato delle Forze NATO dall’Afghanistan potrebbe innescare conflitti nei Paesi vicini, tanto da rischiare una guerra su vasta scala. Gli ultimi eventi, la crisi in Georgia e la decisione di Varsavia di posizionare missili americani in terra polacca, hanno spronato i russi a muoversi sull’enclave di Kaliningrad. La Russia già

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in passato voleva riarmare la ex Prussia orientale, strategicamente posizionata sul Baltico, ma venne rassicurata da Washington; ora, se la politica americana di posizionamento militare ai confini russi proseguirà, Mosca riarmerà la Bielorussia, anche se era stata denuclearizzata dopo lo scioglimento dell’URSS. Nel 2001 gli esperti americani vennero a sapere che la Russia stava spostando segretamente i missili tattici nella regione di Kaliningrad, immagazzinandoli nel deposito della base navale. Di fronte alla protesta degli americani, Mosca smentì seccamente, sostenendo che il Baltico era e sarebbe rimasta una zona denuclearizzata. A chi dobbiamo credere? Ora, in questo nuovo scenario dove entrambi i blocchi giocano con le loro armi nucleari, tra chi vuole attaccare e chi vuole difendersi e tutelare il proprio Paese, la prima conseguenza è l’inasprirsi dei rapporti tra le due potenze. Il segretario americano alla Difesa Gates, ha lanciato un appello al presidente russo Medvedev affinché riprenda in mano la situazione, ridimensionando il tutto. Il senso del messaggio era che Mosca doveva «richiamare» il vice capo dello Stato maggiore che aveva minacciato ritorsioni «nucleari» contro il popolo polacco. L’ex capo della CIA ha aggiunto essere sua convinzione che la Russia non lancerà i missili contro di loro o contro i polacchi, ed in questo senso Washington ha rassicurato Varsavia. In realtà non è soltanto la crisi georgiana ed i missili polacchi a giustificare il riarmo russo di Kalinigrad. Altri motivi impediscono un normalizzarsi dei rapporti fra le due superpotenze. Mosca ha lasciato mano libera in Libia agli USA, ma per la Siria la situazione è diversa. Gli Stati Uniti spingono per la creazione di una no fly zone, e riposizionano i gruppi navali con le portaerei. Da parte sua la Russia invia a Damasco i missili terra-aria S-300, ed invia unità navali di fronte alle coste siriane per fronteggiare eventuali pressioni navali occidentali ed impedire che passino forniture di armi per le forze ribelli, in arrivo dalla Turchia o dal Libano. Nel frattempo Medvedev ha stretto un accordo con i presidenti della Bielorussia e del Kazakistan, base per una alleanza dal nome di «Unione Euroasiatica»; a questa unione dovrebbero aderire anche il Tagikistan e il Kirghizistan. Il tutto si concluderà entro il 2015, con l’ingresso di altri Paesi. In pratica, Mosca sta ricreando con nuovi alleati la struttura del Patto di Varsavia, sempre in funzione anti occidentale, ma specialmente in contrapposizione agli USA. Tutto ciò avviene in un momento negativo per la politica interna russa, dove fantasmi del passato comunista si uniscono alle giovani generazioni anti Putin. Il 4 marzo Putin, la cui popolarità in questi ultimi tempi ha subìto un brusco calo, sicuramente sarà rieletto, a meno che i venti che soffiano dal Medio Oriente non cancellino le sue speranze di continuare a guidare la Santa Madre Russia.

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VENTI DI GUERRA SUL PACIFICO

PECHINO contro l’«Asean» di FRANCESCO ROSSI TUTT’ALTRO che idilliaci i rapporti tra Stati Uniti e Cina. I Cinesi, in quanto titolari della maggior parte del debito americano, fanno le pulci alla politica economica statunitense e la criticano aspramente quando compromette le loro ragioni creditorie. I contrasti di tipo economico non si limitano comunque al solo rapporto dare-avere. Ce ne sono altri, di tipo «tradizionale», collegati al mare della Cina del sud. L’ammontare del traffico che vi transita si aggira sui cinque trilioni di dollari annuali e chiarire la questione della sovranità è una questione di «interesse nazionale», secondo le parole del Segretario degli Esteri Hillary Clinton. Il perché dei contrasti è presto spiegato. La fetta americana di quella gigantesca torta da cinque trilioni di dollari è di 1,2 trilioni, mentre i Cinesi non amano sentir parlare di fette altrui e reclamano la sovranità su almeno il 90 per cento del mare. Questa «pretesa» darebbe accesso ad un decimo del commercio mondiale di frutti di mare e soprattutto alle riserve petrolifere, equivalenti a quelle del Kuwait. A spingere gli USA a mitigare le pretese della Cina sono anche gli altri alleati asiatici, timorosi delle mire espansionistiche di Pechino. Da qui, la netta presa di posizione del Presidente Obama, che ha definito l’America una «nazione del Pacifico» e dunque che intende «giocare un maggiore e lungo ruolo nel dare forma a questa regione ed al suo futuro». Alle dichiarazioni hanno fatto seguito delle precise azioni, come l’aumento della presenza militare in Asia. Duemilacinquecento marines stazioneranno permanentemente in Australia, saranno più numerosi i B-2 (cacciabombardieri) e le portaerei in viaggio verso l’Australia. Questo si aggiunge alle 28.000 unità già presenti nella Corea del Sud ed alle 50.000 in Giappone. Oltre agli appoggi forniti dai tradizionali alleati asiatici come Taiwan e le Filippine, si sono aggiunti anche quelli di improbabili «alleati» come il Vietnam, che ha messo a disposizione degli USA il porto di Cam Ranh Bay per i rifornimenti e le riparazioni. Quindi, la crescente militarizzazione cinese impensierisce indistintamente i Paesi dell’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico). In effetti la Cina sta mostrando i muscoli lontano dalle proprie coste, con una moderna marina militare, velivoli a lunga percorrenza in grado di rifornirsi in volo, una rete satellitare globale, missili in grado di abbattere le portaerei e la messa in opera della sua prima portaerei, in previsione di dotarsi di una seconda. Il potenziale come corpo di spedizione è quindi notevole. Il Global Times, giornale in lingua inglese ma quasi organo ufficiale del governo cinese, ha scritto: «Se questi Paesi non vogliono mutare atteggiamento con la Cina, dovranno prepararsi al suono dei cannoni». Tra quei Paesi ci rientra anche il Vietnam, che contesta alla Cina la sovranità sulle Isole Spratley, situate, appunto, nel mare cinese del sud. Che i venti della guerra fredda comincino a spirare in Asia lo dimostrano anche altri fattori. Come ai vecchi tempi

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delle tensioni USA-URSS, tra i capi dell’esercito cinese e dello Stato maggiore americano è stata attivata una linea telefonica speciale per gestire i contrasti , onde evitare che certi errori di calcolo o giudizio possano degenerare. Oltre alle pretese sul mare cinese del sud, ci sarebbero anche altre pratiche economiche da parte della Cina che suscitano più di un risentimento. Questa sensazione è stata descritta così dal Presidente Obama: «Quando si arriva alle loro pratiche economiche, c’è tutta una serie di cose che loro hanno fatto che pongono non solo gli Stati Uniti ma anche un insieme di altri partner commerciali in una situazione di svantaggio». La conclusione è lapidaria: «Gli Stati Uniti e gli altri Paesi….ritengono di averne abbastanza». A novembre il presidente americano si è incontrato con il suo corrispondente cinese Hu Jintao per esprimere le sue riserve verso il Paese asiatico. Tra queste riserve c’è anche quella relativa alla moneta della Cina, lo yuan, che è collegata al dollaro americano e che rende le sue esportazioni più economiche di quelle dell’America. Secondo il governo cinese lo yuan si è apprezzato del 6,7 per cento dal 2010 ed i problemi americani, il deficit commerciale con la Cina e l’alto tasso di disoccupazione degli Stati Uniti, non sono dovuti al tasso di cambio tra le due monete. Il China Daily scrive: «Le ragioni dello sbilancio nel commercio Cina-USA sono le differenze nei due Paesi riguardanti gli investimenti e le strutture commerciali, la percentuale del risparmio, il tasso di consumo e la divisione del lavoro nell’industria e l’irragionevole sistema monetario internazionale». Una guerra fredda soltanto commerciale avrebbe come conseguenza il blocco delle importazioni americane dalla Cina, ma al tempo stesso anche la vendita da parte della Cina dei titoli del tesoro degli Stati Uniti, il che infliggerebbe un duro colpo al dollaro e probabilmente anche alla disoccupazione americana. Una guerra fredda militare avrebbe naturalmente ben altre conseguenze: una intanto si è già prodotta ed è il rafforzamento dell’organizzazione regionale ASEAN, che ha espressamente invitato gli Stati Uniti a bilanciare il potere cinese. Questo ricorda la formazione della NATO del 1949, quando la guerra fredda con l’Unione Sovietica ebbe inizio. La NATO partì come associazione politica, ma divenne rapidamente struttura militare con l’avvento della guerra di Corea nel 1950. Famose sono le parole di Lord Ismay, primo segretario generale della NATO, riguardo gli scopi dell’associazione: «Tenere i Russi fuori, gli Americani dentro, e i Tedeschi giù». Gli scopi della nuova NATO asiatica potrebbero coincidere: tenere i Cinesi giù e gli Americani dentro, da usare come corpo di sicurezza negli anni a venire. Il consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente, Thomas Donilon, sostiene l’importanza per gli Stati Uniti di ribilanciare la strategia militare dal Medio Oriente verso l’Asia, dove troppe poche risorse sono state investite negli ultimi tempi. Un consiglio che ha dei meriti intrinseci o che è dovuto ad altri fattori? Possibile che un Presidente che aveva annunciato di voler smantellare le guerre iniziate da George Bush e che aveva sostenuto che le guerre «non sono mai un’opzione» voglia ora impelagarsi in un terreno che ricorda le tremende controversie degli anni sessanta e la perennemente invocata guerra in Vietnam? È possibile che lo voglia far credere, visto che siamo nell’anno delle elezioni presidenziali e le prospettive per Barack Obama non sono delle migliori. La «necessità» di difendere le prerogative americane nel mare della Cina del sud potrebbe essere un’opzione preziosa al riguardo, magari da scartare poi ad elezioni concluse.

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PECHINO ED IL NUCLEARE

LUNGA VITA ai canarini di DANIELA BINELLO LA CINA ha varato il più grande e costoso piano industriale per lo sviluppo nucleare al mondo. Oltre a ciò, com’è tipico nel suo costume, ha deciso di rendere ampiamente autosufficiente nel prossimo futuro l’intero ciclo della produzione del combustibile nucleare, costruendo un complesso sistema di strutture e di siti funzionali al compimento di questo processo, dall'arricchimento allo smaltimento. Con l’intenzione di passare dai 10 GW del 2010 a una potenza di 80 GW nel 2020, fino ad arrivare a 400 GW del 2050, si comprende molto bene, allora, il motivo per cui la Cina stia correndo ad acquistare uranio in ogni dove. Il Paese, infatti, deve rispondere a un’immensa richiesta di energia, con consumi che - nel solo comparto elettrico - si sono addirittura triplicati negli ultimi anni. La crescita della domanda di energia elettrica non può essere totalmente soddisfatta aumentando ancora di più le capacità delle centrali idroelettriche o a carbon fossile, pena un insostenibile aggravamento delle emissioni di Co2, già letali ai livelli attuali. Ma se si considera che la Cina, nonostante questo, non ha esitato a firmare il Protocollo di Kyoto, dal momento che in questa fase, insieme all’India, non è tenuta a ridurre le emissioni, si comprende come ci si sia giocato il pianeta per questioni di principio. Pechino, infatti, sostiene di poter godere degli stessi privilegi storici di cui hanno beneficiato i Paesi avanzati per crescere e sviluppare le loro economie. E quindi fa valere il principio: «Se l’avete fatto voi, ho il diritto di farlo anch’io». Bel pragmatismo, non c’è che dire. Tornando al progetto cinese di rendere indipendente tutto il ciclo nucleare già pianificato per il futuro, occorre ricordare che la Cina è un produttore di uranio e possiede risorse uranifere di notevole entità, ma che non sono sufficienti a coprire l’intero fabbisogno del Paese senza dipendere dalle importazioni. Sono allo studio, perciò, anche alcune soluzioni per produrre uranio riutilizzando quello derivante dal riprocessamento delle scorie o per utilizzare le ceneri delle centrali a carbone, ma nonostante ciò il problema della quantità d’uranio necessaria rimane risolto soltanto in minima parte. Perciò la Cina compra l’uranio all’estero, approvvigionandosene principalmente dalle miniere di Kazakistan, Namibia, Niger e Australia. Attualmente in Cina sono in funzione quattro centrali nucleari,

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nelle quali sono operativi tredici reattori, ma soltanto l’1,82 per cento dell’energia elettrica è generata con il nucleare. Le centrali, inoltre, dovranno essere portate a dieci e in esse dovranno essere messi in funzione diversi altri reattori di terza generazione. Ma, nel frattempo, per produrre elettricità vengono massicciamente utilizzate le centrali idroelettriche e a carbone, che per funzionare necessitano di bruciare molto combustibile, e quindi aumentano anche i problemi logistici legati al trasporto di quest’ultimo, oltre all’inquinamento atmosferico. Ed è proprio per abbattere le emissioni di Co2 e di altri gas inquinanti che la Cina ha deciso di puntare sul nucleare per diversificare il suo mix energetico. L’eolico e altre fonti rinnovabili sono un’altra componente di questa diversificazione, ma non possono rappresentare la soluzione (in particolare l’eolico che ha una resa potenziale limitata e che perde di capacità più la centrale eolica è distante dalle aree urbane d’utilizzo finale). Le centrali a carbone, invece, rappresentano da sempre la fonte primaria (insieme a quelle idroelettriche) per la produzione d’elettricità. Ma il carbone, di cui la Cina è ricchissima, contribuisce a soffocare il pianeta in maniera impressionante, oltre che a causare migliaia di vittime fra i minatori. Il livello record del 2009 di 6.995 morti per le esplosioni di grisou non è più stato superato, alcuni provvedimenti più efficaci dell’utilizzo dei canarini per sondare la pericolosità delle gallerie sono stati adottati (in particolare mediante la degassificazione delle miniere, drenando il metano e altri gas esplosivi prima di procedere all’estrazione del carbone), tuttavia il costo in vite umane è ancora troppo elevato. Intanto, i governi provinciali per calmare le proteste delle famiglie hanno aumentato fino a 25mila euro il risarcimento per ciascun minatore deceduto. Ma il carbone non è pericoloso soltanto quando lo si estrae e quando lo si brucia. E’ l’intero ciclo della sua lavorazione che rappresenta un enorme problema. Il lavaggio dopo la sua estrazione, ad esempio, inquina ogni giorno di più i fiumi cinesi, rendendo le acque e le falde freatiche inadatte persino per irrigare le campagne, in quanto le polveri rilasciate dal carbone rendono l’acqua non potabile. Green Peace a questo proposito ha affermato che per ogni tonnellata di carbone s’inquinano 2,5 tonnellate d’ac-

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qua, aggiungendo che «le acque usate e rigettate per il lavaggio del carbone rappresentano il 25 per cento delle acque di tutta la Cina e insieme alle polveri del lavaggio trasportano anche grosse quantità di metalli tossici». Il carbone, però, è il combustibile più a buon mercato di cui la Cina è ricca, e quindi resta determinante per la produzione di elettricità. Rimane poi aperta tutta la questione dell’oro nero. Dopo che per anni la Cina ha tentato di fregare l’India per aggiudicarsi le più grandi quantità di barili di petrolio un po’ in tutto il mondo, e in particolare in Africa, da circa un paio d’anni le due potenze asiatiche hanno inaugurato il Dialogo strategico sino-indiano, una serie di accordi di cooperazione per cercare di evitare di pestarsi i piedi come in passato. Detto questo, la Cina continua a prestare soldi agli Stati africani più corrotti del pianeta e verso i quali gli organismi internazionali (di cui anche la Cina fa spesso parte) pretendono norme di trasparenza per autorizzare gli aiuti e i finanziamenti, ma Pechino, come sappiamo bene, non si sente vincolata negli scambi. Ecco allora che sono cinesi le ferrovie dell’Angola o le strade del Rwanda, come il porto del Gabon e la diga del Sudan, o i prestiti allo Zimbabwe, senza che la Cina dica «a» sulla loro politica interna. La politica estera cinese della non ingerenza, infatti, miete successi in tutto mondo ed ecco che Pechino può aprire una raffineria della Cnpc (uno dei tre più grandi gruppi petroliferi cinesi) a Kartoum e importare complessivamente dall’Africa oltre una trentina di miliardi di materie prime (fra cui l’oro nero) a fronte di un controvalore un po’ più basso d’investimenti (sono stime approssimative: probabilmente il vantaggio cinese, in realtà, è molto più ampio che non un mero pareggio fra uscite ed entrate). Da quando nel 1978 Deng Xiaoping inaugurò la politica delle aperture e delle riforme, nota come Kaifang Gaige, il Pil cinese è avanzato al ritmo del 9 per cento annuo. Una crescita di contraccolpo anche per la domanda energetica, ovviamente, che in un certo senso non ha mai visto insuccessi cinesi nella corsa ad accaparrarsi petrolio, gas e uranio ai quattro angoli del mondo. Beh, quasi mai. Quello che non le riuscì fu di dare la scalata all’americana Unocal. In quel caso la Cnooc Ltd. cinese dovette battere in ritirata dopo che Washington schierò il Congresso e bloccò l’acquisizione. Quello che si prospetta per la Cina, a questo punto, è che se da un lato la diplomazia delle pipeline in Asia centrale (gasdotti e oleodotti dall’Iran a Shanghai e, in prospettiva, dalla Mongolia fino alla Russia) è riuscita a fare di questa nazione la prima potenza regionale, dall’altro lato la Cina, come membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha la possibilità di bloccare eventuali interventi in aree che Pechino considera strategiche. E, quindi, di suo interesse protezionistico. Lungo questa strada la Cina finora non ha incontrato nessun ostacolo. Resta aperta la questione di Taiwan e la presenza americana in Asia, che non è gradita a Pechino, ma neanche a Mosca. Nel lungo periodo, perciò, sarà determinante la posizione che assumeranno gli Stati Uniti, se di cooperazione o di scontro, ma a quel punto la Cina sarà eccezionalmente forte e ben attrezzata anche sotto il profilo nucleare. Lunga vita ai canarini.

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CINA - INFEDELTÀ CONIUGALI

A SCUOLA di sentimenti di FRANCO LUCCHETTI PADRONEGGIARE le emozioni è sempre stata una condizione comportamentale, e un bisogno, con cui l’uomo ha dovuto fare i conti. Gestire le situazioni controllando l’aspetto emotivo dell’individuo che risulta alterato da ambienti e circostanze esterne hanno contribuito, nella storia dell’uomo, a determinare le condizioni della realtà su cui si è sviluppato il corso della storia. Prima di Alessandro Magno, i barbari, indicati come le popolazioni asiatiche che, a detta di Aristotele, erano coloro che sottoponevano la ragione ai sentimenti e consentivano a essi di padroneggiare l’uomo, erano raffigurati come uomini che avevano costruito la società in base alla supremazia delle emozioni rispetto a una supremazia della ragione, com’era invece basata la società ellenica, che ha detta del filosofo aveva la capacità di distruggere gli uomini e i loro sogni. (Non pensando comunque che si stava parlando di un popolo molto più antico del loro). Le emozioni si presentano sempre come esperienze soggettive di vasta intensità accompagnate da alterazioni di carattere fisiologico, comportamentale ed espressivo dell’individuo. La filosofia, per lungo tempo, fino all’avvento di Nietzsche, che come una dinamite ha distrutto le credenze che gli uomini avevano costruito per necessità di sopravvivenza, non si è occupata molto delle emozioni ritenute collegate alla sfera più bassa e irrazionale dell’uomo capace di spingerlo a comportamenti non dignitosi, personali e catalogabili solamente all’interno d’itinerari del proibito. Inoltre, l’idea comune, era che fosse più semplice comunicare con una conoscenza piuttosto che un’emozione. In realtà, come sappiamo bene, le emozioni, a volte, sono le più facili da comunicare. Anche se spesso hanno bisogno, anch’esse, di essere razionalizzate. Ecco perché adesso a Pechino le donne possono andare a scuola per imparare a gestire le emozioni interiori quando si trovano di fronte alle infedeltà del marito. È stata quindi aperta nella capitale della Cina una scuola per far fronte alle concubine. Per circa 12 mila euro le mogli di mariti cinesi in carriera, come manager e imprenditori, in altre parole la classe più abbiente della Cina in economia rampante, e quindi le persone che maggiormente vivono lontano da casa per motivi lavorativi, possono andare a lezione per imparare a gestire le loro emozioni nell’eventualità che i mariti abbiano intrapreso una relazione extraconiugale. Il programma della scuola è incentrato soprattutto nell’insegnamento della padronanza dei nervi in occasione dei litigi di coppia. Secondo il direttore dell’«Istituto per spose» Fey Yang, tutto ciò che si insegna in questa scuola è essenziale per le donne, perché sono le mogli a esprimere maggiormente i propri sentimenti. Una scuola quindi per il controllo del comportamento in uno dei momenti più delicati della vita di una coppia, ovvero quando si è di fronte ad un’infedeltà manifesta.

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L’istituzione di una scuola per far fronte al «noncontrollo» delle emozioni in uno dei momenti più inclini all’ira, ha provocato, come era prevedibile, migliaia di reazioni sul web attraverso commenti sui vari blog, strumento di espressione del pensiero più comune ai giorni nostri. In effetti, come molti dicono attraverso i loro post su internet, come può, una somma di denaro, che in Cina corrisponde più o meno a 100mila Yuan, salvare da sola un matrimonio? Anche se l’idea di un controllo delle emozioni, come idea generale, anche se discutibile, non è totalmente da buttare, l’elemento che qui affiora facilmente alla nostra mente è che ogni cosa, nella Cina di oggi, Paese spogliato dei valori puritani del comunismo, è riconducibile al denaro da parte di chi propone questi corsi e istituisce queste scuole a fini principalmente di lucro, e la volontà e l’inclinazione, di chi prende lezioni, di raggiungere una condizione sociale propria di uno status occidentale, in cui quasi tutto è riconducibile al denaro che vende la ragione quando l’uomo non è capace di governare se stesso. In questo modo, la Cina, oltre a inglobare un modello di capitalismo attraverso cui si sta affacciando all’economia globale da diversi anni, assimila anche la parte peggiore del mondo occidentale, che è il concetto attraverso cui ogni cosa può essere ottenuta e governata attraverso il denaro, tipico di un mondo governato dalla tecnica come affermava già nel secolo scorso Martin Heidegger. Sembra quindi che dopo decenni in cui persegue il dinamismo economico proprio di una società a capitalismo sfrenato, la Cina acquisisce l’aspetto critico delle nostre società, quello che stabilisce che ogni cosa può essere comprata. Anche i comportamenti. In effetti, il fenomeno delle concubine, può avere avuto una spiegazione sociologica nelle società economicamente fiorenti e capitaliste, in cui gli uomini, dovendosi spostare per motivi lavorativi (come Cina del Sud degli anni ‘80, quando gli abitanti di Hong Kong si spostavano per investire e lavorare nelle fabbriche della Cina continentale) e quindi incontrando la prosperità e la disponibilità economica, non avevano difficoltà a trovare compagne con cui affrontare il periodo lontano da casa. Alcune località come Shenzhen, sono diventate inoltre veri e propri villaggi di concubine, e nella sola provincia del Guangdong, nei pressi di Honk Hong, si calcola che queste donne siano oltre 100mila. Anche l’isola di Shangchuandao, a largo del Guangdong, è una metà turistica tra le più attive circa la prostituzione. Anche Dongguan, nel delta del fiume delle perle, una delle regioni cinesi a più alto sviluppo industriale, e uno dei luoghi più dinamici dell’industria globale contemporanea, viene chiamata la città del sesso più grande del mondo, con circa 300mila prostitute. Considerato ciò, quando una moglie di Honk Kong, viene a conoscenza di essere stata tradita nella Cina continentale, diventa spesso vittima di furore e non controllando i nervi dà sfogo a comportamenti che arricchiscono le pagine dei giornali cinesi con notizie di castrazioni o ustioni da olio bollente. Hanno pensato bene quindi, nella Cina continentale, lontano da Honk Kong, di istituire una scuola per la gestione degli stati d’animo delle moglie tradite per far fronte alle concubine scelte da mariti solitari in viaggio che decidono di far passare più velocemente il tempo lontano da casa. Ma d’altro canto, stiano attente anche le mogli. Il pensiero, in questo caso, è di Li Wei, mantide astuta, concubina imprenditrice che usando le armi della seduzione e della delazione, e pianificando amori e potere, letto e denaro, è salita ai vertici dell’apparato comunista, e dopo un breve periodo in prigione, vive oggi ad Hong Kong. Ricchissima.

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LA CHIESA RUSSA FA PROSELITI

DIO è nel cuore di INNA KHVILER AIELLO QUINDICI ore di attesa, nonostante le basse temperature del gelido novembre moscovita, non hanno spaventato circa 900mila fedeli che, in file chilometriche, hanno atteso il loro turno per entrare nella Cattedrale del Cristo Salvatore e onorare la Sacra Cintura della Vergine Maria, una delle reliquie più venerate nel mondo cristiano ortodosso. La reliquia è arrivata a Mosca dal monastero di Vatopedi, sul monte Athos dove è custodita, dopo essere esposta in quattordici città russe. È difficile credere che questi fedeli, in stragrande maggioranza con un’età superiore ai vent’anni, siano nati in URSS dove la religione, sebbene non ufficialmente vietata, era disprezzata e le chiese distrutte per affermare il primato dello Stato ateo, dove i monasteri erano trasformati in campi di prigionia per centinaia di religiosi e ministri del culto. Il Governo sovietico per combattere «l’oppio del popolo», come Karl Marx definì la religione, aveva persino introdotto nelle scuole superiori la disciplina obbligatoria dell’«ateismo scientifico» e con massicce campagne di propaganda associava i riti religiosi a qualcosa di arcaico, vergognoso, per gente ignorante e antiprogressista. Una confusione totale imperava nei cervelli dei sovietici, come è stata illustrata brillantemente dal satirico russo Mikhail Zadornov che ha reso nota una lettera di un’anziana signora dove si legge: «A scuola, l’insegnante chiedeva di ripetere in coro che Dio non esiste e invitava a un gesto offensivo nei suoi confronti». L’assenza di qualsiasi logica, poiché a uno che non esiste non può essere mostrato nulla, ha caratterizzato tante generazioni del popolo russo, storicamente portatore di una grande tradizione cristiana ortodossa. Per settanta lunghi anni, la Russia smarrì le sue radici cristiane e il significato delle più semplici tradizioni religiose. Innumerevoli statistiche di questi ultimi tempi, disapprovate dal Patriarca della Chiesa Ortodossa Russa Kirill che ha affermato «non si può calcolare quanti hanno Dio nel cuore», evidenziano che in Russia ben l’ottantadue percento si dichiara credente. Le chiese certamente sono straordinariamente affollate e non soltanto nei periodi di Pasqua e di Natale ma ogni domenica e milioni di persone offrono in voto il loro digiuno nel periodo di quaresima ortodossa. Tutto ciò, però, non va considerato come la manifestazione di un boom religioso, espressione di una moda o reazione contro qualcosa, come già avvenuto in Russia negli anni novanta. Al crollo dell’URSS, infatti, milioni di russi si dichiarano religiosi e gremirono le chiese. L’affluenza a quei tempi era dovuta più a curiosità, più a una forma di protesta contro l’oscuro passato comunista senza Dio, più per ammirazione nei confronti della religiosissima Russia zarista che per un vero profondo spirito religioso, come, invece, avviene ai nostri giorni. La gente, oggi, accoglie il richiamo della Chiesa Ortodossa Russa che, negli ultimi anni, ha svolto accuratamente un’opera di avvicina-

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mento del popolo ai veri valori spirituali, dopo i tempi bui dell’ateismo che hanno annichilito tante generazioni. Alla caduta del comunismo avvenne, per mancanza di un’educazione religiosa, una facile sostituzione dei simboli sovietici a quelli religiosi e si diffuse la percezione del Dio cristiano come una specie di mago buono che realizzava i desideri, lasciando spazio, in quei caotici anni novanta, a un terreno fertile per numerosissime sette pseudo religiose. Durante l’assemblea diocesana nella Cattedrale di Kaliningrad, il tredici ottobre 2011, il Patriarca Kirill ha ricordato che negli anni novanta un santo padre battezzava circa centosettanta persone al giorno e che, oggi, anche se le cifre sono molto inferiori, i fedeli si accostano con vero spirito religioso. Secondo il Patriarca, «la Chiesa non può essere un’alternativa a un’ideologia, la Chiesa esiste per testimoniare Dio e proporre il suo messaggio al mondo» e se molti di coloro che si accostarono negli anni novanta alla religione e furono battezzati oggi vivono senza Dio, non bisogna dimenticare anche «i tanti fedeli che pregano insieme con me ormai da venticinque anni e che sono entrati nella casa di Dio definitivamente». Il Patriarca Kirill, peraltro, anche un bravissimo oratore che affascina i giovani, spera tanto che, grazie a un incessante lavoro, la Chiesa ortodossa russa possa coinvolgere sempre più fedeli. Il Patriarca ha spesso ripetuto l’importanza della tradizione nei riti ortodossi e che la Chiesa russa, a differenza di tante altre, non scende a compromessi, non ha bisogno di innovare e di acconsentire alla licenziosità del vestiario e alla libera espressione della fede «personalizzata» pur di attrarre le nuove generazioni al culto. Le istituzioni governative appoggiano la Chiesa ortodossa nella sua attività di proselitismo e sono favorevoli a un ruolo educativo svolto dalla Chiesa tra i giovani per combattere i fenomeni della tossicodipendenza, dell’alcolismo, della corruzione, dell’interruzione artificiale della gravidanza. Gli stessi leader dei partiti politici governativi e di opposizione riconoscono il ruolo svolto dalla Chiesa nella società russa e partecipano alle manifestazioni religiose come Putin e Medvedev e addirittura Gennadii Zhuganov, capo del partito comunista, che, in occasione dell’ostensione della Sacra Cintura della Vergine Maria, ha fatto omaggio alla reliquia. Il direttore del giornale russo Scienza e religione Mark Smirnov, il primo, alla fine degli anni ottanta, a parlare di religione, in diretta televisiva, nel programma Vzgliad, ha scritto che alla base del boom religioso degli anni novanta non vi era una convinta e profonda fede, ma da allora, passo dopo passo, vi è stata, anche se parzialmente, la scoperta dei pensatori e dei filosofi religiosi russi e delle loro opere. Secondo l’esperto, nella Russia post sovietica non vi è era intellezione del percorso teologico russo. «La maggioranza di chi scelse il percorso religioso non sapeva nulla di Rozanov, Berdiaev, Soloviev, Khomiakov», ha scritto Smirnov, rilevando che ancora oggi vi è una scarsa conoscenza dei contenuti profondi della religione che non contribuisce alla crescita spirituale. Smirnov, comunque, rimane ottimista e afferma che «la voglia di religione e il desiderio di Dio sono stati sempre il motore dell’uomo russo in tutti i suoi intenti creativi. La guarigione spirituale è appena iniziata e alla fine arriverà il risultato». La sfida lanciata dalla Chiesa Ortodossa Russa per una sempre più estesa diffusione della religione cristiana è proiettata al futuro, novecentomila fedeli a Mosca per venerare la Sacra Cintura della Vergine Maria sono sicuramente un ottimo viatico.

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DISFATTA SOCIALISTA IN SPAGNA

VINCE la destra di GIANPIERO DEL MONTE LE ELEZIONI consegnano il governo al PP di Mariano Rajoy, che ottiene la maggioranza assoluta e potrà governare senza bisogno di alleanze. Per il PSOE di Rubalcaba è la peggiore sconfitta della sua storia. In parlamento entrano 186 deputati popolari e 110 socialisti. Il PP ne guadagna 32 e il PSOE ne perde 69. Ora si ha uno schieramento di tredici partiti con quattro vincitori oltre il PP. L’estrema sinistra di IU passa da 2 a 11 deputati usufruendo della debacle socialista e pescando anche fra gli «indignati». La sinistra «abertzale» ritorna con forza in parlamento ottenendo 7 deputati ed «Amaiur» ha avuto un successo rilevante sulla spinta dell’annuncio di fine della violenza dell’ETA. Anche CiU migliora le sue posizioni ottenendo 16 deputati rispetto ai 10 precedenti e vince per la prima volta in Catalogna in elezioni generali che finora erano state appannaggio dei socialisti. Il quarto trionfatore si può considerare UPyD che passa da 1 a 5 deputati anche se non potrà costituire un gruppo parlamentare. Il PNV consolida il suo gruppo anche se perde un deputato e ne mantiene 5 ma resta nei Paesi Baschi la forza più votata. Nel Congresso sono ora rappresentate più formazioni politiche che rompono il bipartitismo PP-PSOE ed i partiti nazionalisti e regionalisti trovano un nuovo impulso. Il potere dei popolari è ora schiacciante in tutta la Spagna. In Catalogna CiU deve appoggiarsi al PP per governare mentre nei Paesi Baschi i voti popolari sostengono il socialista Patxi Lòpez. L’unico contrappeso, l’Andalusia, sembra effimero e tutto fa presumere che a marzo prossimo il governo autonomo andaluso passerà in mano al PP di Rajoy che è aumentato in tutti e tre i tradizionali «granai» socialisti di Andalusia, Catalogna e Paesi Baschi dove il PSOE è affondato. Il PP si è rafforzato nei suoi feudi abituali come la Comunidad de Madrid, quella Valenciana, Castilla y Leòn, Galizia, Castilla La Mancha, La Rioja, Cantabria e Murcia ed in altri luoghi dove aveva perso nel 2008. Rajoy ha detto che governerà per tutti ed ha sottolineato che la situazione che attraversa la Spagna è la più delicata da trent’anni a questa parte. Ha aggiunto che cercherà di fare in modo che la Spagna non sia un peso per l’Europa che insiste per un piano di riforme incisive. Il PSOE dovrà analizzare in un congresso la sua situazione e i possibili sviluppi che ne potranno scaturire. Zapatero ha detto che i socialisti hanno perso perché tutto era contro di loro ma ha confermato che le relazioni con Alfredo Rubalcaba, sconfitto da Rajoy, sono eccellenti. Tuttavia, dopo la catastrofe elettorale sarà necessario ridisegnare i quadri del partito ed affrontare i temi della successione e della formazione di una nuova direzione. Si dovrà approvare un nuovo Statuto e definire una guida diversa del partito nella Segreteria generale. Zapatero non ha mai riconosciuto i suoi errori e questa superbia è stata una delle sue caratteristiche. Dovrebbe riflettere sulle condizioni in cui ha lasciato il PSOE ma non ha mai

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pronunciato una parola che abbia indotto a pensare ad una sia pur larvata presa di coscienza in questo senso. Rajoy non ha avuto tempo per godersi la vittoria ed ha subito affrontato le questioni più scottanti. Il dramma peggiore sono i cinque milioni di disoccupati ed occorre una riforma seria del lavoro che approfondisca le conclusioni approvate a settembre 2010 ed apparse insufficienti. Bisogna adeguare i salari alla situazione economica delle imprese, elaborare una forma di contratto unico che garantisca un indennizzo progressivo del lavoratore in funzione dell’anzianità ed occorre abbassare le imposte delle società per migliorare la competitività. Sullo sfondo il rischio incombente di contrasti coi sindacati pronti a dare battaglia perché ritengono che saranno colpiti i diritti dei lavoratori. Per combattere il deficit fiscale si prevede un aumento dell’IVA e delle imposte speciali come quelle sul tabacco e sull’alcol cui si potranno aggiungere quelle dell’IRPEF e delle tasse universitarie. Il sistema finanziario va reimpiantato. È assolutamente necessario risanare il sistema bancario che incontra serie difficoltà nella concessione dei crediti a famiglie ed imprese per i problemi di finanziamento che assillano le banche. Il nuovo governo dovrà intervenire per neutralizzare tutti gli ostacoli legati al settore immobiliare per ridare slancio e fiducia ad un ambiente depresso che sembra incapace di risollevarsi. È necessario produrre un forte assestamento della spesa pubblica con una profonda riforma delle amministrazioni che elabori una più efficace legge di finanziamento delle autonomie e ricentralizzi tante competenze loro demandate. Si parla anche di soppressione dei comuni con meno di cinquemila abitanti, di chiusura o privatizzazione di televisioni pubbliche regionali e di soppressione di corpi di Polizia autonoma. Occorre tagliare tutta la spesa superflua che non ha a che vedere con la produttività e la crescita. Di grande importanza la politica estera. Quella di Zapatero è stata insufficiente ed errata. Centrata sull’apertura ai regimi populisti latinoamericani ha favorito insidiose connivenze e coperture per i gruppi terroristici mentre la Spagna non ha avuto rilievo fra le grandi potenze. Bisogna allora ritrovare la fiducia nel rapporto con gli Stati Uniti e riaprirsi una presenza nei centri decisionali della politica europea. Un nuovo fronte potrà aprirsi anche nelle trasformazioni in corso nel mondo arabo ed il nuovo ministro degli esteri dovrà muoversi con accortezza e intelligenza. Le istituzioni vanno rigenerate. C’è bisogno di una legge di stabilità preventiva e di esigere maggiore responsabilità dai gestori delle istituzioni in nome di un’austerità che si dimostri produttiva su tutto il territorio nazionale. Bisogna sviluppare un’adeguata legge della trasparenza e stabilire un piano di servizi pubblici per tutti i cittadini ed occorre intervenire per eliminare gli ostacoli alla libera circolazione dei beni e dei servizi nella prospettiva di una unità del mercato che risulti efficiente in tutti i settori. È importante il campo dell’educazione, in cui gli studenti spagnoli risultano in coda all’Europa per le loro conoscenze ed in testa per gli insuccessi scolastici. Le leggi elaborate negli ultimi anni sono risultate insufficienti e bisogna intraprendere percorsi diversi che aprano migliori prospettive e forniscano speranze più costruttive in un ambito centrale per la crescita dello stato. Il funzionamento della Giustizia va sfrondato dalle intromissioni della politica e dalle manie di esibizionismo di tanti giudici. L’ultima legislatura è stata caratterizzata da questi interventi deleteri che hanno danneggiato l’immagine della Giustizia rendendo prioritaria l’esigenza di restituirle la fiducia e l’indipendenza necessarie. Rajoy ha assicurato interventi efficaci in questo senso e si spera in

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un’incisiva applicazione di nuove regole anche se i contrasti fra PP e PSOE hanno impedito la soluzione di tanti problemi. La questione dell’ETA va gestita in via definitiva. L’annuncio della fine della violenza da parte della banda armata non ha significato la consegna delle armi né il pentimento dei terroristi per le azioni criminali e i tanti assassini compiuti. I parenti delle vittime attendono ancora risposte a questo riguardo e bisognerà procedere con cautela evitando le trappole di quanti sono esperti nel prendere in giro il sistema. I responsabili dei delitti non possono rimanere impuniti. Alla fine è necessaria una riscossa morale della società spagnola. La crisi economica coincide con una crisi di valori e di fiducia che si deve combattere con la stessa energia impiegata per le problematiche economiche e finanziarie. Il nuovo governo deve essere capace di recuperare le speranze e la fiducia nei propri cittadini, specie nei giovani fra i quali si registra un’altissima percentuale di disoccupazione e ai quali si presentano esempi deleteri di corruzione da parte delle classi politiche ed economiche. Il progresso personale e collettivo non può essere incoraggiato da queste situazioni che rendono i giovani frustrati nelle loro prospettive ed incapaci di interiorizzare i valori più profondi. Questi riferimenti devono essere sottratti alla facile retorica ed applicati concretamente se ci si vuole davvero risollevare. La crisi che attraversa il mondo e la Spagna non è solo economica ma anche sociale e culturale in una dimensione altrettanto considerevole e quando il mondo ne uscirà saranno cambiati i modi di pensare e di essere che si sono affermati finora. In questo quadro una vittoria come quella del PP e di Rajoy acquista un senso un po’ diverso da quello che abitualmente le si attribuisce. Rajoy ha fatto bene a riferirsi subito alla sofferenza di molti compatrioti. Non ha promesso miracoli ma sacrifici. Il governo Zapatero lascia le casse dello Stato vuote e un deficit tremendo. Rajoy dovrà rivelare inoltre cosa intende fare con la legge sull’aborto, che ha già annunciato di volere riformare, la legalizzazione delle corride dei tori in tutto il Paese (problema non bene inteso all’estero ma di grande importanza in Spagna) e la deroga della legge sul matrimonio omosessuale. Soraya Sàenz de Santamarìa, già portavoce del PP, appare la numero due del suo gabinetto. Rajoy l’ha incaricata di dirigere il processo di passaggio di poteri dal governo socialista a quello popolare. Sa lavorare bene e Rajoy le ha confermato la fiducia anche quando tanti non credevano in lei e sono stati puntualmente smentiti. In Spagna hanno cominciato a chiedere soluzioni immediate ma Rajoy ha dimostrato che occorre pazienza. Ha detto che occorre saper aspettare. Bisogna lavorare ogni giorno con intensità ma senza l’esigenza di risolvere tutto in mezzora. Ciò che si fa con troppa fretta riesce sempre male. Lui stesso ha vinto perché ha saputo aspettare ed ha visto come gli altri agivano senza pensare, confusamente.

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IL DIRITTO DI CITTADINANZA

UN FALSO problema di ALFONSO PISCITELLI PER alcuni settori della politica italiana il primo punto all’ordine del giorno è la riforma del diritto di cittadinanza col passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli. Pensavamo che questi tempi di crisi avrebbero contribuito a concentrare le menti più lucide della nostra classe dirigente sui problemi reali e sulle soluzioni possibili. Invece ritorna, con tutto il tono retorico che da sempre lo contraddistingue, il falso problema della estensione della cittadinanza. I flussi migratori continuano anche in questi tempi difficili, ma la società italiana ha ormai esaurito ogni possibilità di assorbimento. Non sono pochi gli Italiani che si mettono in fila alle mense della Caritas. La stessa Caritas, che gestisce il circuito della accoglienza dei rifugiati «politici», deve prendere atto che una nazione quasi in ginocchio, con ampi settori del ceto medio a rischio impoverimento, non può permettersi di largheggiare con l’accoglienza e la concessione del diritto fondamentale di cittadinanza. Significherebbe ripetere in condizioni più precarie lo stesso tragico errore di Caracalla, che diede forse un impulso decisivo - con la sua legge di cittadinanza universale - al declino di una realtà un po’ più stabile della repubblica italiana fondata sul lavoro: l’Impero Romano. Certo un cinese o un egiziano che sono qui da trenta anni, che pacificamente si sono integrati, possono aspettarsi una facilitazione nella acquisizione della cittadinanza. Quello della cittadinanza non è un diritto astratto, ma si intreccia con la storia di una nazione. Devono passare gli anni, devono instaurarsi interazioni concrete e continuate negli anni prima di poter assimilare persone provenienti da lontane sponde. Altrimenti una società si trasforma in un Club Méditerranée: gente che va, gente che viene, gente che utilizza diritti: come quei turchi che hanno acquisito la cittadinanza tedesca, che quindi godono dell’assegno di disoccupazione, ma ovviamente se ne stanno in Turchia, salvo salire una volta al mese per percepire il gruzzoletto di moneta forte. Prima di estendere la cittadinanza bisogna prima bloccare i flussi migratori. Tanta gente è entrata, ora ci accorgiamo che sono fin troppi. La manovra del governo Monti produrrà inevitabilmente disoccupazione. Ergo, il primo punto all’ordine del giorno non è l’estensione della cittadinanza ai nuovi, bensì un umano rimpatrio dei troppi che hanno cercato fortuna in Italia. Chi non lo capisce, chi continua a perseguire una retorica «imperiale» di accoglienza generalizzata, soffia sul fuoco di una guerra tra poveri: poveri stranieri e italiani impoveriti. Per quelli che in Italia già ci sono, già hanno un lavoro, già vivono da molti anni si può pensare - in tempi lunghi, ovviamente, senza fretta - a un percorso di estensione della cittadinanza. Ma passare allo ius soli significa un’altra cosa. Una cosa molto pericolosa: che ogni bambino nato in Italia, figlio di una ecuadoregna o di una ghanese o di una

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indocinese sia automaticamente «italiano». Poverino, sai che fortuna… verrebbe da dire in questi tempi grami, in cui agli Italiani storici - a quelli che faticosamente hanno costruito il benessere storico italiano - vengono imposti sacrifici tanto penosi. In America c’è già lo ius soli, ma per una ovvia conseguenza della storia degli Stati Uniti: lì è il suolo che ha unificato - ovviamente sotto il polso fermo della classe dirigente anglo-sassone - genti di estrazione molto diversa. Però cosa accade in America dove pure sono molto più attenti di noi al controllo delle frontiere e dove il buonismo dell’«accoglienza» a tutti i costi non attecchisce? Accade che le madri honduregne o guatemalteche sbarcano in USA, aggirano anche il divieto di ingresso per le donne in stato avanzato di gravidanza, e partoriscono sul suolo americano un bambino «statunitense». È vero, la cittadinanza non può rimanere vincolata al retaggio arcaico del «sangue», ma a maggior ragione è vero che essa non può scadere in un automatismo legato al suolo e alla presenza recente su un territorio. La cittadinanza è un dovere legato al senso di appartenenza storica. Un dovere non un diritto in primo luogo, un dovere percepito per effetto di un profondo senso di appartenenza, che certo - non neghiamolo - passa anche attraverso l’affiliazione: il legame naturale dunque di sangue. Lo Stato di Israele oggi con determinazione cerca di connotarsi come «Stato ebraico». Senza giungere a questi eccessi «identitari», il buon senso suggerisce di confermare lo ius soli, di evitare ogni automatismo di «sbarco» nella concessione della cittadinanza, di integrare nuovi cittadini soltanto dopo un lunghissimo processo di assimilazione. E comunque sempre il buon senso suggerisce che oggi al primo punto all’ordine del giorno non c’è l’estensione della cittadinanza, ma la comprensione di quanti stranieri la società italiana può umanamente integrare. Già gli Italiani fanno alla fila alle mense della Caritas.

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DALLA STRADA ALLA FARMACIA

Nuove droghe, nuovi drogati di FABIO BERNABEI IN ALCUNI Paesi l'abuso di farmaci contro il dolore ha superato quello di droghe al punto tale che, ad esempio, in 20 degli Stati Uniti il numero di decessi per avvelenamento involontario con farmaci supera quello di morti per incidenti stradali. Alla base del fenomeno i medicinali oppioidi antidolorifici, che hanno causato anche il 36 per cento di tutti i suicidi tramite avvelenamento nel 2007. Secondo le statistiche raccolte dagli esperti della University of North Carolina a Chapel Hill e del Duke University Medical Center, la prescrizione medica di questi prodotti è alla base di un numero di morti superiore a quello provocato da overdose di eroina e cocaina insieme. Secondo i dati pubblicati dal National Survey on Drug Use and Health (NSDUH) nel 2010, la prevalenza di consumo di farmaci senza prescrizione medica come antidolorifici, tranquillanti, stimolanti e/o sedativi negli Americani risulta essere maggiore di quella di qualsiasi altro tipo di sostanza stupefacente, anche se la marijuana continua ad essere la sostanza più consumata, confermando una tendenza che già era stata evidenziata negli ultimi anni. Un dettagliato studio del Centers for Disease Control and Prevention-CDC mostra come le overdose di farmaci normalmente acquistabili dietro prescrizione sono più che triplicate negli ultimi dieci anni, con i decessi passati dai 4.000 del 1999 ai 14.800 del 2008. «L'epidemia delle overdose da farmaci prescrivibili è peggiorata sensibilmente nell'ultimo decennio», sostiene il rapporto del Centro, focalizzato sui medicinali contenenti oppiacei, come il Vicodin le cui vendite dal 1999 sono quadruplicate in farmacia. Lo scorso anno, 12 milioni di americani di età superiore ai 12 anni, pari a poco meno del 5 per cento dell'intera popolazione, ha dichiarato di aver preso antidolorifici per motivi ricreazionali e non per curare una patologia. I farmaci sono dunque la nuova frontiera della droga. Al consumo e all'abuso sostitutivo o integrativo va sostituendosi l'uso esclusivo. I medicinali contenenti narcotici e sostanze psicotrope costituiscono in molti casi la droga di prima scelta. In caso di abuso hanno effetti paragonabili agli stupefacenti. Inoltre a livello sociale tali farmaci non sono stigmatizzati e non evocano idee di forte pericolo ed il metodo di utilizzo, prendere una compressa, rende normale ed accettabile l'assunzione di antidolorifici. Anche nella produzione di famosi telefilm vi sono testimonianze, come ad esempio «Dr. House», nella quale il protagonista, il Dr. Gregory House, abusa del Vicodin, antidolorifico oppiaceo in grado di instaurare dipendenza psico -fisica da farmaco. L’Oxycontin, l'altro medicinale tra i più popolari nell'abuso, è un antidolorifico anch'esso appartenente alla cate-

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goria degli oppioidi che garantisce una copertura di 12 ore per i dolori cronici o acuti ma con alte probabilità di sviluppare dipendenza. Ray Wagner, avvocato canadese, sta conducendo una battaglia legale nei confronti della ditta farmaceutica produttrice del medicinale accusandola di aver promosso il prodotto al di là dei ragionevoli limiti di utilizzo. «C’è un boom nelle vendite dell’Oxycontin da quando la Food and Drugs Administration-FDA lo ha approvato nel 1996 grazie al quale la ditta che lo ha brevettato, la Purdue Pharma, ha guadagnato per il singolo farmaco 2,5 miliardi di dollari», ha ricordato l'avvocato Wagner al convegno internazionale WeFreeDay dell'ottobre 2011. «Abbiamo lanciato una class action in Canada nei confronti della ditta farmaceutica, la stessa ha subito condanne come quella negli USA nel 2007 dove è stata dichiarata colpevole di pubblicità ingannevole con il pagamento di una sanzione di ben 646 milioni di dollari, ma i proventi sono di un ordine così elevato che permettono alla ditta produttrice di subire qualunque class action, ogni azione legale per danni individuali o altro senza soffrirne. Questo è il vero nodo che solleva una questione etica importante.» Riguardo alla class action guidata da Wagner in Canada, l’avvocato ha voluto precisare che le persone da lui rappresentate sono diventate dipendenti non perché in cerca di uno sballo ma dopo essere entrate in uno studio medico per un comune mal di schiena o mal di denti. A questo tipo di abuso illegale non è estranea la cosiddetta «medicalizzazione» dei comportamenti umani per cui la Farmacia è la soluzione ad ogni problema o contrarietà che l'uomo incontra nel corso della sua vita. Allen Frances, psichiatra americano già capo della Commissione che ha redatto il DSM-IV, la quarta versione del manuale che definisce i disturbi mentali utilizzato in tutto il mondo ha lanciato l'allarme su un ulteriore salto di qualità: «Con l’introduzione di nuove ‘sindromi’ nella prossima edizione, quasi tutta la popolazione potrebbe essere diagnosticata di malattia psichica». Il DSM-V, in uscita nel 2013, potrebbe portare alla diagnosi come malati mentali di milioni di persone sane, affette da normali problemi di tristezza o sofferenza portandoli ad un uso di psicofarmaci. «Un sistema diagnostico è importante per stabilire i confini tra malattia e normalità e determinare chi ha effettivamente necessità della somministrazione di farmaci, il problema è che negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera e propria inflazione diagnostica, la cui responsabilità ricade sia sui medici sia sulle case farmaceutiche.» I dati forniti in merito dallo psichiatra sono impressionanti: «Già oggi, ogni anno, il 25 per cento della popolazione USA, circa 45 milioni di persone, si vede diagnosticare un disordine mentale, eventualità che accade alla metà della popolazione entro l’età di 82 anni». In Italia si parla poco di questo ma il fenomeno pare avere dimensioni più importanti rispetto alle altre nazioni europee e sappiamo dal rapporto Espad (European School Project on Alcohol and Other Drugs) per il 2009, che 1 minore italiano su 10 utilizza impropriamente psicofarmaci senza prescrizione medica. «I dati italiani di consumo di molecole psicoattive non sono allineati alla media europea, ma sono significativamente più alti», spiega la ricercatrice del CNR Sabrina Molinaro. «In questo ambito infatti la media europea è del 6 per cento, di quattro punti percentuali più bassa rispetto a quella italiana che è del 10 per cento.»

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TERZA PAGINA CAMERATA DOVE SEI?

Quando la Storia fa paura di GIANFREDO RUGGIERO (*) IN ITALIA c’è ancora chi ha paura del passato e il terrore che una parte della nostra storia contemporanea - mi riferisco agli anni trenta - possa essere rivisitata in senso critico e, soprattutto, senza il filtro ideologico. A Varese è stata recentemente scoperta una targa in ricordo di Giovanni Gentile, uno dei più grandi filosofi italiani del ‘900 e artefice della attuale scuola pubblica italiana. Questo riconoscimento ha scatenato un vespaio di polemiche a causa del sostegno del grande pensatore italiano al regime fascista. Polemiche alimentate soprattutto da parte antifascista nonostante (o forse per questo) sia stato vigliaccamente assassinato nel ‘44 proprio dai partigiani. Senza voler rinfocale polemiche, ma soltanto per amor di verità vorrei proporre un breve elenco (mi limito ai nomi più conosciuti) delle personalità che sostennero Mussolini negli anni del consenso. Molti di loro aderirono al Regime per sincera convinzione e per questo sul finire della guerra, ed anche dopo, pagarono la loro coerenza con l’ostracismo o con la vita, come appunto Giovanni Gentile o come Nicola Bombacci, il fondatore del Partito comunista italiano poi strenuo assertore della socializzazione fascista, assassinato a Dongo con Mussolini. Alcuni aderirono al Fascismo per conformismo, ma tanti altri si accasarono per puro servilismo e opportunismo. Costoro, infatti, non esitarono un attimo a passare dall’altra parte quando il regime entrò in crisi, rinnegando il loro passato fascista e giustificando frettolosamente la loro entusiastica adesione al regime come un ingenuo errore giovanile (significativi, al riguardo, sono i casi del giornalista Giorgio Bocca che nel ‘42 scriveva articoli razzisti contro gli ebrei e del premio Nobel ex camicia nera Dario Fo).

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Ho profondo rispetto per gli antifascisti che in pieno regime, quando Mussolini modernizzava il Paese, edificava lo Stato sociale, dava impulso all'economia e alla piena occupazione e perfino la Chiesa considerava il Duce come uomo voluto dalla Provvidenza, ebbero il coraggio di opporsi a Mussolini come i fratelli Rosselli o di cambiare opinione come Indro Montanelli. Ho molta meno considerazione, anzi avversione e in alcuni casi disprezzo per chi, alla caduta del regime il 25 luglio del ’43, nel volgere di ventiquattro ore passò senza alcun pudore e ritegno dal fascio littorio alla falce e martello, distinguendosi poi per zelo antifascista. Vestirono la camicia nera - alcuni fino alla morte, altri poi rinnegandola e altri ancora conservandola nel cuore uomini di cultura, di scienza e di spettacolo quali: Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello, Pietro Mascagni, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Leo Longanesi, Ugo Spirito, Renato Guttuso, Enrico Falqui, Giorgio Albertazzi, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Walter Chiari, Luciano Salce, Marcello Mastroianni, Wanda Osiris, Amedeo Nazzari, Boccasile, Concetto Marchesi, Trilussa, Mario Carotenuto, Carlo Dapporto, Paolo Emilio Taviani, Enrico Maria Salerno, Gorni Kramer, Alberto Lattuada, Michelangelo Antonioni, Angelo Del Boca, Alberto Mondadori, Norberto Bobbio, Dario Fo, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Curzio Malaparte, Elsa Morante, Enrico Prampolini, Dino Buzzati, Ezra Pound, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini, Ugo spirito, Hugo Pratt, Indro Montanelli, Marcello Picentini, Ugo Oietti, Gino Bartali, Giovanni Agnelli. Molti politici, oggi antifascisti, ieri elogiavano il Duce: Giulio Andreotti, democristiano, nel 1942/43 scrive articoli apologetici sui giornali del Regime Rivista del Lavoro e Terra. Giulio

Carlo Argan, ex sindaco comunista di Roma, in pieno regime è segretario di redazione della rivista fascista Le Arti e collaboratore del Ministro Bottai. Amintore Fanfani, democristiano, nel 1941 scrive un libro, Il significato del Corporativismo, in cui esalta fra l’altro la «sanità di razza». Arrigo Boldrini, Presidente dell'associazione dei partigiani ANPI, nel 1939 lo troviamo volontario nelle Camicie Nere e Capomanipolo della Milizia. Nilde Iotti, comunista, ex Presidente della Camera, nel 1941 si iscrive al Partito Nazionale Fascista e nel 1942 aderisce alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Luigi Longo, comunista, negli anni ’30 dirigeva a Pisa il giornale degli universitari fascisti e nel 1936 è tra i firmatari con Togliatti e Leo Valiani del manifesto del PCI che dichiara «Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori». Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano di sinistra La Repubblica, sostiene la politica razziale del Governo e scrive su Roma Fascista del 24 settembre 1942 un articolo intitolato «Volontà di potenza» in cui afferma che «non è più sufficiente limitarsi all’Impero, ma bisogna andare oltre facendo leva su due elementi ben distinti: il popolo e la razza». Aldo Moro, nel 1943 raccoglie in un volume dal titolo Lo Stato le sue lezioni universitarie infarcite di nozioni sullo Stato etico, di elogio della guerra quale «tipica realizzazione di giustizia…» e di condivisione del concetto di razza.

GIOVANNI GENTILE

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58 Benigno Zaccagnini, democristiano, nel 1939 pubblicava su Santa Milizia, periodico della federazione fascista ravennate, ben tre articoli di politica razziale e contro il meticciato. Giovanni Spadolini, collaboratore di Giovanni Gentile, scrive su Italia e Civiltà del 15 febbraio 1944 un lungo articolo di sprone al Governo Mussolini e di denuncia contro gli «...opportunisti, i rimasugli della massoneria e i detriti del judaismo». Antonello Trombadori, leader comunista, nel 1937 entrò nella redazione del quotidiano Il Tevere diretto di Interlandi, noto per le sue campagne di stampa contro gli ebrei. Un elenco più completo, corredato da significative note biografiche, si può facilmente reperire su internet: ricordare.wordpress.com/perchericordare/091-i-camaleonti/ e sul libro Camerata dove sei? Collana Controinformazioni, le per le Edizioni B&CBorghese&Ciarrapico, Roma 1976. Contestare una targa ricordo a Giovanni Gentile per i suoi meriti in campo accademico soltanto perché nel momento della sconfitta non rinnegò i suoi princìpi è non soltanto ingiusto, ma soprattutto offensivo nei confronti di tutti coloro che, a prescindere dalle loro idee, hanno ancora oggi la forza ed il coraggio di rischiare per i loro ideali. Diceva Ezra Pound, il grande poeta amico e sostenitore di Mussolini internato dagli americani in un manicomio criminale alla fine della guerra, «chi non è disposto a rischiare per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale nulla lui». (*) Presidente «Circolo Culturale Excalibur» - Varese

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BELLOMO, BARBARISI E CARRETTA

Eroi o vittime della Resistenza? di ENZO SCHIUMA HO ANTEPOSTO nel titolo il nome del generale Nicola Bellomo, fucilato dagli Inglesi l'11 settembre 1945, per essere stato la prima vittima dei tre, e perché la sua, sia per i meriti che per la condanna subita, fu una Resistenza militare, cioè priva della presenza dei partiti politici, che caratterizzò invece il massacro degli altri due. L'obbligo di scrivente mi impone perciò di aggiungere, a conforto della probabile osservazione del lettore di avere io scelto un tema sconosciuto, che è proprio da questo che ne viene il merito, trattandosi di una vergognosa minimizzazione di fatti tragici della nostra Repubblica, che andrebbero invece ricordati al pari di quanto avvenne a via Rasella e alle Fosse Ardeatine. Il che non è poca cosa perché fa pensare ad un sovvertimento di verità per fini politici, da parte delle pubbliche autorità, onde non conferire alle vittime il riconoscimento dovuto. Nicola Bellomo, generale di Corpo d'Armata del Regio Esercito - Lo strano caso di Bellomo, eroe della resistenza barese, fucilato dagli Alleati è sintetizzato da quel che avvenne il 14 settembre 2006, nella Bari di oggi, a cui è stata attribuita la medaglia d'oro al valor civile - si precisa - «per l’eroico coraggio» dimostrato dalla popolazione, che affiancò l'esercito il 9 settembre del 1943, durante la rivolta contro le truppe germaniche occupanti. Lo strano è che nelle dichiarazioni ufficiali che motivano l'onorificenza, non viene mai citato il vero protagonista della vicenda, che fu il generale Bellomo. Il che la dice tutta sulla determinazione volutamente strumentale, con cui venne taciuto l'unico militare italiano decorato di «Medaglia d’argento al V.M.» per il suo contributo al definito «nostro Secondo Risorgimento». Per fare chiarezza su quant’accadde, la battaglia di Bari merita anche chiarimenti sul come e in che modo il generale Bellomo riuscì ad impedire ai

Tedeschi di distruggere le strutture del porto, luogo cruciale per i compiti cui era destinata la regione pugliese per il costituirsi a Brindisi della nuova sede del Regno e del governo badogliano. Va allora detto che lo scontro con i Tedeschi venne vinto non per «spontaneo moto di popolo», ma grazie alla determinazione di un generale italiano, e delle sue indubbie capacità di comando, che gli consentirono di mettere in campo uno spiegamento di forze raccogliticce ma così efficiente, che in una giornata di aspri combattimenti ebbe ragione dei 300 guastatori Fallschirmijager, contro cui poté condurre un assalto di finanzieri, marinai, camicie nere e soprattutto del 51° battaglione di Bersaglieri AUC, di cui sentiremo parlare per la battaglia di Montelungo e la presa di Bologna, venuti in immediato soccorso su sua richiesta. Proprio mentre nella sua Bari veniva festeggiato come l’artefice dell’occupazione alleata del capoluogo pugliese, il 28 gennaio 1944, giunse con grande sorpresa la decisione delle autorità alleate di procedere al suo arresto, con l’accusa di aver provocato nel

GEN. NICOLA BELLOMO

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Gennaio 2012 1941 la morte di un ufficiale inglese durante un fallito tentativo d’evasione da un campo di concentramento, sotto la sua direzione. La detenzione del difensore di Bari si concluse poi - incredibilmente - con la sua condanna alla pena capitale, eseguita il 28 luglio 1945 dalla Corte britannica, che commise l’abuso nei suoi confronti, trattandolo di fatto come nemico qual era stato, prima dell’armistizio. Il che non sarebbe avvenuto se la vantata resistenza partigiana non avesse sopraffatto quella militare impedendo agli inglesi di riconoscere i suoi meriti di valente cooperatore. La faziosità della Corte militare britannica, infatti, non tenne affatto conto del comportamento del generale dopo l’8 settembre, da cui trassero vantaggio anche gli inglesi. Secondo più d’una testimonianza di giornalisti britannici, infatti, l’Alto Comando Inglese "avrebbe dato libero sfogo alla sua volontà punitiva nei confronti dell'ex nemico". Significativo da parte sua, l’altrettanto volitivo rifiuto dell’offerta di grazia per non privarsi anche dopo morto dei suoi rivendicati meriti. Giorgio Barbarisi, tenente della Regia Guardia di Finanza - L’8 settembre del 1943 Barbarisi era in servizio al 1° battaglione della Legione Allievi in viale XXI aprile, a Roma. Il 15 successivo fu costituito nella capitale un «Comando della Guardia di Finanza per il servizio di polizia nella Città Aperta» formato da militari della 9° Legione territoriale, a cui i tedeschi avevano affidato la responsabilità dell’ordine pubblico. Tale impiego fu in realtà pressoché esclusivo dei compiti che la situazione consentiva, a cui si aggiungeva la scorta di protezione per il rifornimento dei viveri alla popolazione. Servizi questi che consentivano una certa autonomia, che si dimostrò utilissima per la Resistenza. Circa un mese dopo, il 21 ottobre, in casa del gen. Crimi, il più elevato in grado, fu costituito «Il Fronte Clandestino della Resistenza Romana», previi accordi con il colonnello Cordero Lanza di Montezemolo, comandante del «Centro Militare di Roma». Al Fronte furono aggregati gli elementi di sicura fede su cui si poteva contare. Fra i primi fu scelto il sottotenente Barbarisi. Sicché le mosse dei tedeschi furono seguite ora per ora, onde fornire al Fronte della Resistenza l'esatta conoscenza di dove fossero poste le mine per eliminarle al momento giusto... Il che avvenne in più occasioni.

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S.TEN. GIORGIO BARBARISI Si giunse infine al momento dell’abbandono della città da parte dei tedeschi occupanti. Il 2 giugno 1944 il corpo di Guardia della caserma "XXI aprile", a scanso di sorprese, venne sostituito con i finanzieri più ardimentosi e il Barbarisi scelto come comandante del corpo di guardia. Il giorno successivo, un maresciallo tedesco e un gruppo di soldati in fuga, transitando per via XXI aprile, prima fecero richiesta e poi tentarono di impadronirsi di alcuni autocarri visti nel cortile. Il maresciallo fu respinto dalla reazione delle guardie e ritornò con più uomini, ripetendo la richiesta con la minaccia di mortai posti nelle vicinanze. Dalla caserma accorse il sottotenente Barbarisi con un nucleo di finanzieri. Lo scontro fu violento. Un finanziere perse la vita e ferite gravi riportarono anche i tedeschi che si diedero alla fuga sparando contro la caserma alcuni colpi di mortaio. Cosa accadde ancora il giorno 4 l’apprendiamo dalla relazione del capitano Argenziano: «Alle ore 20 il Barbarisi con una compagnia di Finanzieri, e con il colonnello De Pietro del Centro Militare, occupò il Campidoglio. Verso le 22 giunse il colonnello Pollock, americano, il quale intendeva fissare soltanto le bandiere delle Nazioni Unite; il Barbarisi si oppose affermando che doveva essere issata anche la bandiera italiana, che aveva portato con se dalla Legione Allievi. Il Campidoglio era già stato occupato da lui e ci teneva. Ne nacque una discussione animata con il colonnello Pollock, il quale, ammirato dalla fermezza del Barbarisi, e appreso che si trattava di un fervente patriota, acconsentì al desiderio del brillante ufficiale italiano, rimanendone tanto impressionato che lo mise, poche ore dopo, a diretta disposizione del maggiore in-

59 glese Battersbey». Ma poche ore dopo, alle 14, 30 del giorno 5, proprio quando stava recandosi ad assumere l’incarico, il Barbarisi veniva colpito a morte da un colpo di pistola, per aver rimosso in via delle Tre Cannelle un manifesto del PCI, che ritenne abusivo. A sparare era stato Rosario Bentivegna, l'eroe, se così si può chiamare, della bomba di via Rasella, che fu condannato a 18 mesi di reclusione «per omicidio colposo per eccesso di legittima difesa», che però non scontò perché gli fu commutato in quello di «aver agito in stato di legittima difesa», avendo sostenuto che quando gli era corso incontro, il Barbarisi aveva portato la mano sulla fondina della pistola. Significativo che la proposta d’una sua decorazione «al V. M. alla memoria» inoltrata dal Comando Generale fu respinta, poiché «la Commissione laziale per i riconoscimenti partigiani», nella riunione del 21 giugno 1949, espresse «parere contrario per la concessione di qualsiasi ricompensa al Barbarisi». Della commissione - si seppe poi - faceva parte come consulente proprio il Bentivegna. Che dire? Le cose parlano da sé... Donato Carretta, ex direttore del carcere di Regina Coeli - Il 18 settembre 1944, al processo contro l’ex questore di Roma Pietro Caruso, che si apriva davanti alla Corte d’Assise di Roma, era stato chiamato quale testimone d’accusa Donato Carretta, ex direttore del Carcere di Regina Coeli durante l'occupazione tedesca, che comparve senza tradire la minima emozione, essendo certo di non aver nulla da temere. Anzi si sapeva che nello svolgimento delle sue funzioni aveva dato ampie prove di umanità, sottraendo alla deportazione e alla pena di morte molti ebrei e politici, tra cui Sandro Pertini e Giuseppe Saragat. Ma si sbagliava: quella mattina l’atmosfera era rovente, la folla reclamava vendetta e sembrava soltanto attendere l’inizio del processo. La Corte con il Presidente Lorenzo Maroni stava per fare il suo ingresso, gli avvocati e il pubblico ministero erano al loro posto, gli imputati allertati, quando inaspettatamente, scortato da due agenti, si fece largo nella ressa dell’aula il colonnello John Pollock, capo della Polizia Alleata, che ad alta voce informava i presenti che il processo era rinviato. Fu un boato di rimostranze reclamanti a gran voce che il processo si facesse subito. Tanto che il colonnello Pollock ritenne opportuno preci-

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60 sare che il processo si sarebbe tenuto nei prossimi giorni. Ma mentre la folla rasserenata s’avviava verso l’uscita, un cancelliere - non l’avesse mai fatto! accese il microfono e invitò testimoni, parti lese ed avvocati a rimanere in aula. Ciò fece pensare che il rinvio fosse un trucco e si volesse fare il processo a porte chiuse. Fu il finimondo: i più scalmanati si diressero verso la porta che conduce alla Camera del Consiglio dov’era custodito Caruso, al grido di «Accoppamolo! Senza tribunali e senza sentenze». La rabbia per quella che si ritenne giustizia derisa, si trasformò presto in furore bestiale contro le cose: si rompono sedie, panche ed arredi, per farne mazze, bastoni e quant'altro. Nel mentre, s'udì in sala un clamore crescente di grida e urla femminili. Lo sguardo di tutti è rivolto ad un mulinello di folla roteante, da cui fuoriesce un donnone, con un braccio teso ad indicare un distinto signore, piccolo di statura, scortato da due carabinieri: «Sei stato tu a far ammazzare mio marito!» E giù un sonoro schiaffone si abbatte sul volto di quell'uomo, tenuto a stento dai due militi. L’eco di quel ceffone che risuona nell’aria, ha l’effetto di un richiamo sulla folla micidiale. Sul malcapitato si riversa così tutta l’ira e la tensione della folla accumulata in ore e ore d’attesa. Nessuno sa chi era quell’uomo, ma è bastato quell’incontro per farne il capro espiatorio da offrire alla sete inappagata di giustizia, fattasi desiderio di vendetta e voglia sadica d’uccidere. L’uomo è raggiunto da alcuni colpi che vanno a vuoto perché la calca impedisce di calibrare i gesti. Un brigadiere dei carabinieri ne protegge il capo mettendoselo sotto l’ascella, ma non impedendo che un’altra donna vi infili una mano per graffiarlo e strappargli i capelli. Aiutato da altri agenti, il brigadiere, facendo scudo del proprio corpo, riesce a condurre il malcapitato fino alla porta che immette alla Camera di Consiglio. A questo punto un fermo di fotogramma è d’obbligo. Di chi si trattava, di Caruso? Per la maggior parte dei presenti sì, era per lui che si teneva il processo. Per quei pochi che invece lo conoscevano, no: era Donato Carretta, l’ex direttore del carcere, che era lì a deporre, come teste a carico di Caruso. Ma ritorniamo a lui che abbiamo lasciato al riparo in una stanza della Camera di Consiglio. La folla inferocita - informata da un usciere - lo ha

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IL BORGHESE scoperto e, penetrata dove s’era nascosto, s’avventa sullo sventurato e lo trascina fuori per i corridoi e per le scale affollate. Carretta è colpito a pugni, calci e sedie che gli vengono fracassate sulla testa. Svenuto in terra, gli strappano i vestiti e lo calpestano. Singolare, che molti di costoro, richiesti in un processo, se conoscevano quell’uomo, risposero, uno: «Si, era un fascista!»; i più: «No! Colpivano tutti, colpivo anch’io!» Carretta riesce intanto ad alzarsi, ma viene ripreso e rotolato sullo scalone centrale e sottoposto ad un terribile nuovo massacro, finché un tenente dei carabinieri riesce a farlo uscire dal palazzo e ad infilarlo cadaverico in un taxi il cui autista si dilegua. Lo riprendono a forza e lo trascinano fino alle rotaie d’un tram, pretendendo dal manovratore di metterlo in moto e stritolarlo. Ma al rifiuto di costui si grida: «Al fiume, al fiume»... Il Carretta viene sollevato e trascinato in corteo fino al ponte Umberto, e qui gettato nel Tevere. La corrente lo trascina e per quanto egli cerchi di tenersi a galla nuotando, dagli spalti gli si urla contro: «A morte, a morte i fascisti!»... I più violenti sono già sulla riva, s’impossessano di due barche e raggiuntolo, lo colpiscono con i remi sulle mani, sul capo e sul corpo finché il poveretto non perde i sensi, affonda ed annega. La corrente trasporta ormai un cadaverico fagotto che viene riportato a riva da due giovani, che lo trascinano per i piedi, mentre la testa lascia sulla strada una lunga striscia di sangue. La folla non è ancora soddisfatta, seguendo i due giovani forma un corteo macabro che dal Lungotevere in Sassia, seguendo via della Lungara, giunge infine alla sua destinazione: il carcere di Regina Coeli. Qui il corpo viene scaraventato a terra davanti al portone principale. A rendergli gli onori due ex detenuti che gli annodano una fune alle caviglie e ne appendono il corpo a testa in giù ad una finestra laterale, legandolo all’inferriata. Il tutto alla presenza della moglie affacciata al balcone superiore del carcere, dov’era l’appartamento riservato al direttore. Le urla di dolore si mescolano allora con quelle d’odio del popolaccio, che non gli risparmia i suoi insulti nemmeno da morto, gratificando il suo cadavere grondante sangue e acqua tiberina, d’un nuovo lancio di pietre che ne completerà il rituale conclusivo. Non vorrei bestemmiare, ma mi perdoni il buon Gesù: ci fu mai un Calvario peggiore di questo?

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AUGUSTO DEL NOCE

Obbligati a credere? di ANTONIO SACCÀ A PALAZZO Ferraioli, in Roma, si è avuta, per il ventennale della morte, la commemorazione di Augusto Del Noce, un volume di vari autori, curato dagli Azzaro, Salvatore e Rosalia, èdito da «Pagine» di Luciano Lucarini, ne vagliava la persona, la personalità e il pensiero. Ebbi, con Del Noce, un rapporto a duplice aspetto. Negli anni '70 io collaboravo ancora a l'Unità, quotidiano del PCI, e mi venne dato a recensire , Il problema dell'ateismo, di Augusto Del Noce. Fin dall'iniziò mi animò l'avversione di Del Noce, a me sconosciuto, contro l'ateismo, ritenuto conclusivo del pensiero moderno, sì che i «valori» perdevano ancoraggio ed orientamento. Io, agnostico, non accettavo e non accetto che bisogna essere credenti e che il non esserlo conduca al nichilismo. Il volume non lo recensii perché ruppi con il PCI, tuttavia contrastai Del Noce e l'equivalenza dell'ateismo con il nichilismo e che i valori pendessero dal cattolicesimo. Su Il pensiero nazionale, rivista assai spregiudicata diretta dal carissimo Stanis Ruinas, fui asprissimo avverso questo ricondurre ogni positività a Dio e al cattolicesimo. Credo che pure su Mondo Nuovo, del PSIUP, tenni simile convinzione, se ricordo bene. Addirittura scrissi un libro Ideologie del nichilismo, in cui davo del nichilista a Del Noce! Dicevo che il comunismo, però, non mi convinceva, ormai, e mi trovai dissestato, né credente né marxista. Portai il libro a un redattore de Il Tempo, Lucini, credo, che lo diede a Fausto Gianfranceschi, redattore culturale, legato a Del Noce! Incredibile: Fausto Gianfranceschi, tuttavia capì che io ero ormai criticissimo del comunismo, e concepimmo una lettera, a riguardo, pubblicata con scalpore su Il Tempo, al quale poi collaborai decenni e talvolta collaboro ancora, con grande empatia e ricordi sentiti. E Del Noce? Conobbi personalmente Del Noce, stavolta dalla stessa parte, sempre lui credente, sempre io

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LA CULTURA MUSEALE ATTRAVERSO LA STORIA

Il sacro scrigno della memoria di RICCARDO ROSATI

AUGUSTO DEL NOCE agnostico. Diceva Francesco Perfetti nella presentazione commemorazione che Ugo Spirito con il problematicismo non trova ancoraggio, laddove Del Noce lo trova nei valori cristiano cattolici. E ripropongo la questione: ma possibile che siamo obbligati a credere? Spirito, con il quale ebbi una indimenticabile amicizia, diceva, e mi diceva, che il Tutto non spiega se stesso, lo stesso potrebbe dirsi di Dio, spiega il reale ma non spiega perché esiste. È nichilismo, è relativismo, sia, ma è anche onestà intellettuale. Marcello Veneziani, nella stessa occasione, affermava che il '68 scadeva nell'edonismo, secondo quanto concepito da Del Noce, e che la tecnica, i tecnocrati avrebbero vinto il comunismo, sempre per Del Noce. È peccato essere edonisti, trovare piacere a vivere e vivere con piacere? E poi, non esiste una tecnocrazia, esiste la spartizione della ricchezza socialmente prodotta, la tecnocrazia è la mascheratura del profitto capitalistico che si veste di abiti «neutri», all'apparenza. Il comunismo è stato vinto dal capitalismo non dalla tecnocrazia. De Matteis coglieva in Del Noce colui che comprese la «morte della Patria», ed è giusta considerazione, al pari di quanto Veneziani osservava sull'aspetto «risorgimentale» di Del Noce, un risorgimento giobertiano, un risorgimento diverso dal corrente. Allora? Credo merito di Del Noce aver difeso la «presenza» cattolica e come essa costituisca parte ineliminabile della civiltà nazionale, europea, universale. Come essa costituisca una forma interpretativa della società e dell'esistenza. Che sia la «vera» o la più comprensiva è discorso problematico.

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SIN dall'inizio della sua storia, la società occidentale ha sentito l'esigenza di istituire luoghi ove coltivare la cultura, pensiamo ad esempio al Liceo aristotelico e alla Accademia platonica. In Grecia, dove tutto nacque, si comincia col raccogliere nei templi i doni fatti alle divinità. Rammentiamo per giunta che la stessa fondazione del museo, per volere di Tolomeo, intorno al 280 a.C. ad Alessandria d'Egitto, avviene prima come luogo sacro dedicato alle Muse, per diventare nei secoli un centro per l'accumulazione di oggetti preziosi. Infine, la mitica Biblioteca di Alessandria che ci dimostra come non sia possibile creare una vera raccolta di beni culturali sprovvista di una apposita sezione libraria. La parola museo è di origine latina. Essa deriva a sua volta dal greco mouseion: «posto delle Muse». È utile a tal proposito rammentare come le stesse Muse siano figlie di Mnemosine, che nella mitologia dell'antica Grecia è la personificazione della memoria. Per tale motivo è d’obbligo considerare qualsiasi tipo di istituzione museale come «sacro scrigno della memoria» di una specifica collettività. Con i Romani giungono i preziosi bottini di guerra dei vari regnanti e condottieri; per non parlare delle stupende ville extraurbane, con le loro sontuose collezioni di marmi e mosaici. Da ricordare inoltre che grazie a Costantino, primo imperatore cristiano, nasce una forma iniziale di catalogazione museale. La lunga «pausa» medievale vede la sola Chiesa come parziale garante della tutela del patrimonio culturale, sebbene poco disposta a preservare edifici e opere di origine pagana. Dobbiamo attendere l’avvento di un nuovo Umanesimo, grazie allo spirito della Rinascita, per poter parlare di una collezione museale come la intendiamo oggigiorno. Difatti grazie a Sisto IV si forma nel 1471 il

nucleo iniziale degli odierni Musei Capitolini. Così si tenta per la prima volta una «laicizzazione» di una raccolta museale, in virtù del dono fatto da questo Papa alla città di Roma, rendendo pubbliche le sue ricchissime collezioni private. Lo imiterà nel 1503 Giulio II della Rovere, che appena eletto sommo Pontefice colloca una statua di Apollo nella corte interna del Palazzo del Belvedere, fondando in tal modo i Musei Vaticani. Nella seconda metà del ‘500, le grandi famiglie al seguito dei Papi si dotano tutte di pregevoli quadrerie e gallerie di arte antica, così da ostentare la propria posizione sociale. In virtù di ciò oggi possiamo vantare in Italia una quantità ineguagliabile di collezioni d'arte e musei. Nel ‘700 avremo l’affermarsi del concetto di museo pubblico con l'istituzione del Louvre a Parigi e del British Museum a Londra. Ciò è dovuto alla rapida espansione, specialmente in Inghilterra, di una prospera classe borghese, ispirata dalla sete enciclopedico-scientifica dell'Illuminismo. Inoltre, un crescente interesse per il classico nel Nord Europa, espresso in larga misura dal Grand Tour, inco-

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raggia la ricerca di opere antiche da esporre in grandi collezioni accessibili a tutti. A questo si aggiunge la curiosità verso l'«esotico», segnatamente in seguito all’avventura coloniale di Napoleone in Egitto. Con l’800, si consolida sempre più una classe borghese colta e desiderosa di arte e cultura. Il conseguente sviluppo delle collezioni pubbliche fa sì che vengano istituiti nuovi tipi di musei. La crescita tecnologica e lo spirito positivista tardo ottocentesco e del primo Novecento danno impulso alla creazione di raccolte a tema scientifico: musei etnologici e antropologici. Il periodo pre-bellico e quello della ricostruzione attribuiscono un valore didattico fondamentale al museo, il quale ora non è soltanto luogo del Bello, ma anche, e soprattutto, della memoria e della ricerca. Gli ultimi decenni hanno visto infine il fiorire di numerosi luoghi dedicati all'arte contemporanea, con l'instaurarsi di una consuetudine a tratti inquietante, ovvero il privilegiare l'architettura del museo sulla collezione in esso contenuta. Come abbiamo potuto vedere, da secoli la struttura museale accompagna la evoluzione della nostra società. La cultura di tutela e conservazione è sempre stata alla base dello spirito collezionistico, prima privato poi pubblico. La giusta valorizzazione dei nostri musei porterebbe prima di tutto a ricompattare il tessuto nazionale, grazie alla scoperta di una storia ricca e sostanzialmente unica. Nei musei, infatti, possiamo incontrare una Italia ben diversa e migliore di quella che ci hanno mostrato negli ultimi cinquanta anni.

SOCRATE (LOUVRE)

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SIAMO OSTAGGI DELLA OLIGARCHIA BANCARIA

La nostra identità va mantenuta di GIANNI CAMUSSO ALCUNE riflessioni a ruota libera cercando punti di riferimento nel marasma di opinioni e ipse dixit che ci piovono quotidianamente sulla testa. Io sento che siamo in ostaggio di un’oligarchia. È un’oligarchia che da anni, tramite le banche centrali, esercita un potere forte su tutti i Paesi europei. Non favorisce mosse espansive di politica economica e determina invece misure di politica economica restrittiva. Perché non aiuta lo sviluppo in Europa? Perché le grandi banche vogliono liberarsi degli obblighi verso la politica una volta per tutte. Anche a costo di una recessione europea. Quest’anno le banche si stanno liberando dell’ultimo ostacolo: vendere le obbligazioni legate ai debiti sovrani europei. È un processo ancora in corso che porterà le banche a muovere capitali ingenti sui mercati mondiali senza comprare zavorra pubblica europea. La zavorra europea rende, è vero, ma quanto può rendere di più investire in Brasile, India, Cina, in Paesi destinati al nuovo dominio globale? Cosa importa, se l’Europa decade, a chi non sente di appartenere ad una cultura comune costruita in secoli di scambi intellettuali e ora spazzata via da un consumismo ideologico che ha dato un prezzo, purtroppo molto basso, perfino ad un ideale di patria europea? Il relativismo francese ha molte colpe ma non voglio aprire un ulteriore tema anche perché nessuno avrebbe potuto prevedere lo sciacallaggio effettuato dal mondo capitalista in questi ultimi anni con la nascita di generazioni di manager cittadini del mondo che se ne fregano di tutto il mondo. L’Europa può attendere il prossimo ciclo di crescita, se mai ci sarà, e intanto morire di morte lenta, come io penso stia succedendo anche grazie alle banche.

La politica europea ha guardato impassibile mentre i debiti sovrani, ieri considerati debito garantito, si sono trasformati in debito ad alto rischio. La trasformazione è avvenuta grazie alla mancanza di garanzie della BCE. I Francesi e i Tedeschi pensavano che mai i propri titoli di Stato sarebbero stati colpiti dalla bufera finanziaria. Francesi e Tedeschi non hanno capito che non di bufera si tratta ma di una semplice emancipazione da residui obblighi politici. La nostra unica speranza è che si sveglino. Altrimenti le conseguenze per l’Europa possono essere devastanti. L’Italia è già passata sotto il controllo del direttorio bancario. La strategia del direttorio è semplice: prelevare dai conti e dalle proprietà denaro stagnante mediante una forte tassazione. Mettere in circolazione il denaro evitando il contante affinché affluisca nelle casse delle multinazionali operanti in Italia, operanti in settori di largo consumo. Indubbiamente così facendo vi può essere crescita, crescita selettiva ovviamente, e con rischi altissimi. Cambiare la propensione al risparmio, alla proprietà, e alla piccola impresa degli Italiani è un’operazione scellerata. Non siamo l’Inghilterra, per fortuna, dove tutti i centri storici sono stati sventrati, spesso fisicamente ma sempre psicologicamente e socialmente, e trasformati in copie l’uno dell’altro con gli stessi negozi e le stesse banche, ma questo è il piano. Vorrebbero trasformarci in un contenitore di consumatori catalogabili perché diventeremmo più controllabili e manipolabili. Non mi piace. L’identità italiana va mantenuta. Il tessuto sociale ed economico italiani vanno rispettati nella loro antica tradizione e diversità territoriale. Non accetto di cambiare tutto perché è inevitabile, come dicono. La Germania deve accettare una Bce solvente per i debiti sovrani o i

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Gennaio 2012 famosi eurobond. E noi dobbiamo andare a votare. Spero che i politici si rendano conto che la posta in gioco è la nostra identità. Alle banche non importa nulla degli artigiani e piccoli produttori che vengono sostenuti da banche locali e da una forte tradizione. Vogliono prima impoverirci e poi imporre un potere ancora più soffocante da parte delle grandi aziende che avranno gioco facile a comprare proprietà nei centri storici a prezzi bassi e offriranno merci a prezzi irresistibili per gli italiani impoveriti. Nel mondo dell’elite bancaria vi è una diffusa filosofia, purtroppo favorita dal mondo anglosassone, che vede un declino inevitabile dell’Europa continentale con l’eccezione della Germania, una tenuta di America e Regno unito, e un’ascesa inesorabile di altre aree del pianeta. Manca una visione positiva e reattiva alla decadenza reale che investe il nostro continente. Non è possibile affidare la politica a chi ci vede spacciati. La rinascita europea e italiana passa per una mentalità politica orgogliosa di essere europea e audace e non avverrà certo grazie a visioni fatalistiche del mondo come se una nuova religione dalle leggi implacabili governasse le nostre vite, quella religione bancaria che ha già commesso errori micidiali.

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CULTURE DELLA DESTRA

«Per una nuova oggettività» di RICCARDO SCARPA NELL’EPOCA che qualcuno chiama del «pensiero unico», sarebbe meglio dire della forma senza l’oggetto della cosa immaginata, l’idea di raccogliere assieme pensieri ed esseri umani delle culture che volta a volta si sono definite: «di Destra» è l’azzardo di Sandro Giovannini, promotore di cultura con una vitalità che ricorda ben altri tempi. L’idea ritrovò subito risonanza nella sempre pronta figura di «filosofo perenne» che è, nelle sua permanente presenza tra noi, Gian Franco Lami, ed il parto di Minerva dalla testa di Giove è questo eccezionale libro-manifesto Per una nuova oggettività, testé uscito coi tipi d’Heliopolis edizioni di Pesaro (€ 25,00). Un manifesto usuale, una scrittura programmatica, definita, d’un movimento politico culturale s’è rilevato, sin dalle prime riunioni preparatorie, impossibile. Infatti, in sé, «Destra» è termine che acquisì un significato politico, molto generico, dopo la Rivoluzione francese, quando l’Assemblea Nazionale cominciò a riunirsi a Palazzo Borbone, in un aula già di tribunale, con seggi posti in emiciclo, in cui i renitenti agli entusiasmi ed i moderati si posero alla destra del tavolo della presidenza. Oggi molti degli autori di questo libro-manifesto non si riconoscerebbero certo nelle posizioni di quei reazionarî, ma gli è che, se un fatto di seggi non ha a che fare con sistemi d’idee, da allora ad oggi si sono viepiù collocati «a Sinistra» tutti gli appassionati aderenti e gli acquiescenti, per fede od opportunità, alle «magnifiche sorti e progressive» non della democrazia ma d’una vulgata sempliciona ed acritica, degradata a luoghi comuni, sulla quale s’innescò il lucido disegno egemonico gramsciano, fatto proprio dal partito di Palmiro Togliatti e che, tramontata quella credenza rivoluzionaria, sopravvive a se stesso, proprio grazie a quel catechismo progressista, come stampella ideologica dei poteri economico dell’usurocrazia bancaria e chiesastico postconciliare di comodo. Le persona-

lità di pensiero, belle o brutte lettere ed arti che, a diverso titolo o per differenti gusti, sistemi e vissuto non accettarono ed accolgono quell’abbecedario ideologico si trovarono e si trovano catalogati a Destra e, taluni, accettano la categoria per tigna. Soggetti repellenti a catechizzarsi e diversi per linguaggi, tuttavia, sarebbe non tanto difficile quanto meschino e impoverente ridurli alla redazione e sottoscrizione d’un testo piatto ed unidimensionale. Alla lettura, il libro-manifesto rileva una eccezionale coerenza di logica interna. La definizione di «libro-manifesto» è riduttiva, in quanto le opere figurative che lo illustrano, la copertina e la tavola fuori testo, fanno parte integrante della ideale presa di posizione pubblica, come l’in folio grafico-testuale ed il disco coll’opera musicale acclusi. Così il richiamo alla Tradizione e il futurismo prometeico, il nietzschiano salto nichilistico nell’ultraumano e le istanze partecipative comunitarie, l’attacco all’usurocrazia e l’ideale gerarchico non appiattito dell’essere umano nel liberalismo nazionale tradizionale hanno prodotto testi, immagini e sensazioni che si scontrano nella forma ma trovano il terreno comune d’una nuova oggettività, appunto, data: dal superamento dell’ideologia come strumento di convinzione; dal riappropriarsi della filosofia quale intuizione del mondo delle cause come archetipi di ciò che è, oggettivamente rilevato da discipline volte a sondare il reale; dalle arti, espressive del dinamismo che dà materialità all’Ideale; dall’economia e dall’ecologia quali regole della «casa»

AA:VV. Per una nuova oggettività Heliopolis Ed., 2011 Pag. 261 - € 25,00

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64 dell’essere umano nell’armonia cosmica; dalla coscienza dell’essere umano stesso nella sua identità. Letto il libro, guardate le opere illustrative, con nell’orecchio la musica le differenze appaiono di terminologia, mentre nel contesto la Tradizione trasmette ideali eterni nei plurimi riflessi della realtà: nella copertina di Sandro Giovannini e nella bella tavola di Gianni Chiostri; nelle premesse di Gran Franco Lami sempre presente tra noi, Giovanni Sessa, Claudio Bonvecchio e Stefano Vaj; negli argomenti di MetastoricaMetapolitica di Gabriele Adinolfi, Giuliano Borghi, Giandomenico Casalino, Luigi Capozza, Giovanni Damiano, Germanico Gallerani, Carlo Gambescia, Aldo La Fata, Alberto Lombardo, Francesco Mancinelli, Luca Leonello Rimbotti, Alberto Rosselli, Marco Rossi, Andrea Scarabelli, Primo Siena, Piero Vassallo, Ubaldo VillaniLubelli; di Geopolitica di Umberto Bianchi, Leonardo Clerici, Giulio Manganzini, Matteo Marconi, Marino Micich; di Geofilosofia-Ecologia di Giuseppe Casale, Giuseppe Gorlani, Luigi Lombardi Vallauri, Simone Marletta, Paolo Aldo Rossi, Gianferdo Ruggiero, Giovanni Tuzet, Eduardo Zarelli; di Simbolica-Psiche di Luciano Arcella, Mario Bernardi Guardi,

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Davide Bigalli, Francesco Capuccio, Riccardo Campa, Sandro Consolato, Alessio De Giglio, Francesco Franci, Sandro Giovannini, Domenico Lancianese, Rita Catania Marrone, Roberto Sestito, Adriano Segatori; d’EticaPolitica-Economia di Vittorio de Pedys, Susanna Dolci, Luca Gallesi, Teodoro Klitsche de La Grange, Guglielmo Maria Lolli-Ghetti, Francesco Paolo Menna, Alberto B. Mariantoni, chi scrive, Augusto Sinagra; di Comunicazione di Marco Canestrari, Gaia Conventi, Marco Ferazzoli, Alberto Figliuzzi, Maurizio Ganzaroli, Biagio Luparella, Elisabetta Oggero, Giuseppe Puppo, Antonio Saccoccio, France-

Gennaio 2012 sco Sacconi, Luigi Sgroi; d’Estetica per le arti figurative d’Ettore Benessio di Terzet, Mario Bozzi Sentieri, Graziano Cecchini, Vincenzo Centorame, Vitaldo Conte, Alessandro Guzzi, Giuseppe Manzoni di Chiosca, Filippo Venturini; per la poesia e la letteratura di Manlio Bichiri, Brunello De Cusatis, Giuseppe Di Gaetano, Zairo Ferrante, Cesare Ferri, Sylvia Forty, Roberto Guerra, Bruno Labate, Anna Lamberti Bocconi, Ferdinando Menconi, Raffaele Perrotta, Miro Renzaglia, Riccardo Roversi, Paolo Silvestri; per la musica di Alberto Cesare Ambesi, Stefano Balice, Paolo Melandri, Marco Monaldi; con la postfazione di Luigi Sessa, l’in folio di Sandro Giovannini; il disco musicale Intemporanea di Mario Mariani. Non è il Libro d’oro della cultura di Destra dopo la serrata d’un ordine storico chiuso, moltissimi altri sono ascrivibili a pieno titolo in questa prospettiva, ma va riconosciuto all’iniziativa il merito d’aver dato espressione a diverse visioni del mondo ed aver rilevato in esse una consapevolezza comune, più vera ed oggettiva delle sistematiche di scuola dominanti, la cui insostenibilità si sta svelando in una crisi in apparenza economica, in realtà etica, coscienziale ed, in questo, anch’essa oggettiva.

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IL GIARDINO DEI SUPPLIZI IN QUESTO MONDO DI IPOCRITI

Il cinema torna in sala di MICHELE LO FOCO CHE il cinema sia perennemente in crisi è un dato di fatto. Io stesso, più di trent’anni orsono, ho vissuto la prima crisi del settore ed ogni anno ho percepito sinistri scricchiolii che non facevano presagire nulla di buono. Ma se il pendio della cultura cinematografica è sempre stato rivolto unicamente verso il basso, un tempo esistevano strutture solide che in qualche misura attutivano la discesa. Una solida legge, innanzitutto, ed enti più o meno operativi a supporto dello Stato. Una struttura finanziaria, soprattutto, che ripartiva il rischio delle produzioni o degli acquisti su tutte le componenti del settore rendendo meno rischiosa e più democratica l’iniziativa, che per definizione era ed è ancora aleatoria. Oggi la crisi è senza freni. Le strutture si sono sciolte grazie ad un costante lavoro di demolizione mentre lo Stato, che avrebbe dovuto rafforzarsi di conseguenza, è divenuto un fantasma che non può nulla e semmai prende o trattiene; le banche si sono trasformate in sanguisughe egoiste ed illiquide; le entità sovrannaturali televisive, dopo decenni di scialacquamenti, sono ridotte al ruolo di carrozzoni zeppi di personale e senza contenuti. Ecco che lo spettro della recessione è visibile a tutti: come si può produrre se Rai Cinema è commissariata e congelata, e Rai Trade è stata immediatamente sciolta se lo Stato non soltanto non contribuisce ma trattiene i soldi dovuti, senza una ragione specifica, per anni, se Sky, pur in semimonopolio, non ha obblighi di alcun tipo verso l’industria nazionale? Quali sono i ricavi sui quali basare un piano economico plausibile? L’home video è stato stroncato dalle nuove tecnologie che però non rendono nulla grazie alla pirateria, le

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vendite estere sono inesistenti da anni ed ecco che il quadro è completo. Le Giornate Professionali del Cinema di Sorrento, quest’anno, hanno evidenziato un dato sconvolgente che fino a pochi giorni fa avrebbe fatto sorridere, e cioè che l’unico segmento che ha ancora la possibilità di farti guadagnare qualcosa è la sala cinematografica. Eppure parliamo di una diminuzione degli spettatori intorno al 25 per cento! Non importa. La sala è comunque un’entità pulsante, che non risponde ad un direttore generale incapace o ad un CdA politico, tanto pulsante che con alcuni è avara e con altri è generosa. Così il cinema torna alle origini, nella culla che lo ha svezzato. Ma chi può permettersi di produrre con tali premesse? Non c’è più il paracadute televisivo, e il film o è «a richiesta» o non serve più, soffocato com’è dai Vespa e dai Santoro.

Ma la richiesta è poca, visto che in Italia i ragazzi scaricano «gratis» e così il film è diventato realmente un bene immateriale, tanto immateriale da non valere più nulla, come il fumo o la nebbia. In queste condizioni chi può permettersi di produrre se non un ristretto gruppo di oligarchi protetti da forze occulte? Bisogna guardare con ammirazione quegli imprenditori che ancora credono di poter guadagnare qualcosa navigando tra i soldini dello spettacolo, senza alcuna protezione. Ma è necessario anche prendere atto del disastro ed affrontare il problema. Per esempio produciamo ancora troppo, perché un numero considerevole di film o non escono o è come se non uscissero. In realtà in Italia, a giudicare dagli incassi, ci sono troppi film in distribuzione contemporanea, più di cento, ed il pubblico non è sufficiente per tutti. Altro elemento fondamentale è lo spazio televisivo: le emittenti devono ritrovare il ritmo con il cinema, dedicando appuntamenti e serate alla settima arte con un minimo di simpatia. Se poi venisse oscurato Marzullo i danni al settore sarebbero minori. Infine sarebbe bene ricordare a tutti che un film bello con una buona sceneggiatura è meglio di un film brutto con una brutta sceneggiatura. Sembra banale ma non lo è.

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TORNA IL «GRANDE CINEMA» DI PUPI AVATI

Sui luoghi della memoria di FABIO MELELLI QUANDO si pensa ad un cinema «nazionale», autenticamente italiano, nei temi e nella declinazione poetica, non si può non pensare a Pupi Avati, un regista che negli anni ha saputo rinnovarsi mantenendo fede ad una personale weltaschaung. Non cedendo mai alle lusinghe del mercato, o alle sirene del politicamente corretto, Avati ha sempre perseguito un cinema «proustiano», capace di restituire sullo schermo l’ineffabilità della memoria, coltivando un pensiero artistico decisamente antimodernista. Essenziale nella composizione dell’inquadratura, maestro nella recitazione sussurrata e sottotono, il regista di Una gita scolastica si sottrae ancora oggi alla dittatura visiva del montaggio frenetico, dell’assemblaggio convulso di fotogrammi, lasciando ampi margini di riflessione all’occhio e alla mente dello spettatore, chiamato a dismettere l’abito del consumatore distratto di immagini per indossare quello dell’utente consapevole. Anche il suo ultimo film, Il cuore grande delle ragazze conferma lo stile e l’autorevolezza di un regista fuori dagli schemi convenzionali, attento ai valori fondanti della settima arte, dalla recitazione, sempre curata anche nei dettagli, alla messa in scena, improntata ad un rigore linguistico che andrebbe finalmente indagato fino in fondo. Nel raccontare la storia di Carlino Vingetti e della bella Francesca, e del loro contrastato amore sullo sfondo della campagna padana, Avati traspone vicende familiari che lo riguardano direttamente, pescando l’ispirazione dal proprio vissuto, affidandosi ad interpreti eccellenti e poco frequentati dal nostro

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cinema: il protagonista è il cantante Cesare Cremonini, al suo secondo film, il padre un misurato Andrea Roncato, senza Gigi, lo zio fascista un asciutto Massimo Bonetti e il suocero designato Gianni Cavina, la cui compagna romana è una strepitosa Manuela Morabito, autrice di una caratterizzazione degna dei grandi ruoli che nella commedia all’italiana ricopriva Franca Valeri. E se il cinema è l’arte del visibile, Avati riesce a rievocare un’epoca, quella dell’Italia in camicia nera, con poche e incisive pennellate, lontano dagli stereotipi e dalla retorica ai quali tanti registi italiani sono abbonati (tanto per intenderci non si versa nemmeno una goccia di olio di ricino e non ci sono spedizioni punitive al suon di manganello). C’è invece la nostalgia per una società in cui i sentimenti venivano ancora vissuti con pienezza, i valori tradizionali rispettati con devozione, il progressismo industriale e tecnologico di là a venire.

Gennaio 2012 Non è un caso che quando Avati racconta il presente, da Regalo di Natale a Una sconfinata giovinezza, passando per Il figlio più piccolo, assuma uno sguardo intinto nel cinismo assoluto: persa la loro dimensione autenticamente «umana», sballottati in una società di numeri i personaggi dell’oggi nei film di Avati sono destinati alla sconfitta in un mondo in cui sopravvive solo il più furbo, il più scaltro, quello in grado di muoversi al motto «mors tua vita mea!», quello che insomma abdica anche ad un ultimo refolo di umanità. Ma quando Avati racconta il passato c’è anche, sempre, una dimensione magica, un’atmosfera sospesa, un mondo di riti e rituali, uno sconfinare nel fantastico: e d’altra parte uno dei suoi film più riusciti, il suo capolavoro, continua ad essere il gotico La casa dalle finestre che ridono. Oltre tutto questo c’è anche il gusto per il grottesco, per la deformazione del dato visibile: l’Avati della memoria non è infatti interessato ad un realismo spiccio e banalmente mimetico, puramente descrittivo; il suo è un cinema che restituisce con forza la dimensione del sogno che riscatta la dimensione troppo terrena delle vicende umane. Irriducibile alla fruizione televisiva, sempre e comunque sbrigativa e distratta, il cinema di Avati è grande anche perché richiede il buio di una sala, l’imponenza di uno schermo gigante, il fascino di una proiezione fotografica, che sovrasta lo spettatore.

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NOSTRA SIGNORA TELEVISIONE

Anno nuovo, Vita vecchia di LEO VALERIANO L’ANNO vecchio è terminato, in un mare di polemiche e di incertezze. Soprattutto nel settore radiotelevisivo e particolarmente nella RAI, in cui la mancanza di un futuro prevedibile sta creando sconquassi a non finire. Si ha l’impressione che tutti abbiano paura di tutto e, basilarmente, di perdere le posizioni conquistate. Tutti si muovono in un’atmosfera ovattata, cercando di defilarsi il più possibile. Anche se non è facile. A inizio dicembre è stato messo in rete un nuovo sito in cui sono raccolti in tempo reale le esternazioni affidate al social network Twitter di oltre 200 tra i principali giornalisti, direttori, e testate italiane. Stampa Tweet: http:// www.fpsmedia.it/stampatweet/. Già dalla prima uscita ha avuto un numero incredibile di accessi. Porta la firma di Fps Media, una piccola agenzia giornalistica a regime cooperativo i cui soci non superano i 30 anni di età. Sono giovani provenienti da ogni parte d’Italia che hanno deciso di mettersi insieme e creare un'agenzia da zero, senza finanziamenti. Per un paio d’anni hanno lavorato in silenzio, ed ora sono usciti allo scoperto. Ed ora hanno un ufficio in centro a Milano con uno studio di registrazione radiofonico e una cabina di montaggio video. Un ottimo esempio su quello che si può fare, se si ha la volontà di farlo. Una piccola novità è stata quella riguardante il Tg5, il cui direttore Clemente Mimun ha assunto come praticante Jacopo Pesciarelli, figlio di Andrea, il giornalista del tg del Biscione tragicamente scomparso proprio negli ultimi mesi dello scorso anno. È una cosa che ci fa particolarmente piacere. Non conosco personalmente Jacopo, ma ho conosciuto molto bene suo padre. Un grande giornalista che, tra l’altro, aveva il dono di saper tirare su, in maniera egregia, la sua prole. Altra novità di fine anno è quella che ha caratterizzato la partenza del nuovo sistema all news di Mediaset Tgcom24. Anche se, molto probabil-

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mente, avrà soltanto la funzione di occupare una casella, per ora poco produttiva. I canali televisivi all news, infatti, hanno ascolti non molto alti e incontrano una concorrenza spietata. Rai news, tanto per fare un esempio di tv in chiaro, ha medie attorno ai 60 mila telespettatori, con punte sopra i 100 mila. Ma soltanto al mattino molto presto. Evidentemente sono questi i numeri con cui dovrà confrontarsi Tgcom24 puntando, ovviamente, a raggiungerli ed a superarli. Ma la presenza di Mario Giordano con la sua agguerritissima redazione fa ben sperare. E che, quasi certamente, il canale, si avvarrà dell’esperienza fatta nella rete telematica dove Tgcom si è già affermato con oltre 600 mila utenti. Ricordo che sul piccolo schermo, Tgcom24 è visibile sul canale 51 del Digitale terrestre, e sul canale 24 di TivuSat. Da quello che si vede, è tutto il settore dell’informazione a cercare nuove strade. Purtroppo, lo si fa seguendo le strade più facili e non confrontandosi, realmente, con i grandi

67 problemi del pianeta. Praticamente, tutti insieme parlano delle stesse cose e, tutti insieme, ne ignorano altre. Purtroppo, finché si punta a creare «prodotti» gradevoli ed appetibili e non si considera questo lavoro come una missione (sia pur remunerativa) si continueranno a commettere gli stessi errori. Intanto continua l’avanzata, con proposte nuove, di Repubblica Tv che si rinnova e porta in onda il sito della testata madre. La rete del gruppo Espresso, ha cominciato a trasmettere sugli schermi televisivi degli italiani il primo sito internet per l’informazione, forte di oltre 2 milioni di utenti. Intervistato da Lilli Gruber, Carlo De Benedetti che è presidente del gruppo, ha fatto capire di essere piuttosto interessato all’acquisto di altre reti televisive. Magari con l’utilizzo dei denari che la sua Azienda, ha ancora intenzione di chiedere a Mediaset. Sembra strano, ma della caduta del governo Berlusconi, sembra essere stato proprio il settore della TV ad averne sofferto di più. All’improvviso, tutti gli innumerevoli programmi di approfondimento politico, hanno dato l’impressione di essersi afflosciati. Con i conduttori che non sapevano più di che cosa parlare; con gli opinionisti che sfornavano in maniera ripetitiva, ed ossessiva, una corbelleria dietro l’altra; con le notizie che non erano più notizie. Perfino i comici hanno mostrato la loro crisi di astinenza. In ogni programma abbiamo sentito discutere sulle crisi nazionale e mondiale, ma è apparso evidente a tutti che, i conduttori, la loro

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Pillole a cura di GIANFRANCO NIBALE

«Doppiopesismo» su Berlusconi e Monti L’establishment sedicente progressista ha riservato all’ex premier Berlusconi attacchi, insulti, fango e accanimento mediatico giudiziario. Mentre s’inchina al nuovo premier Monti, gran tassatore, considerato «salvatore della patria». Monti è cattolico osservante dichiarato. Non ha origini popolane, proletarie. È figlio non di contadino, operaio, artigiano ma d’un direttore di banca, nonché pronipote di Raffaele Mattioli (già Presidente della Banca Commerciale Italiana). Monti è un grande italiano e ottimo economista all’eccellente Bocconi, che non è però Harvard. Forse non raggiunge le vette dei premi Nobel F. A. von Hayek e M. Friedman, né la verve polemica di S. Ricossa, né l’inventiva di A. Laffer, noto per la sua «curva». Monti non è un privato imprenditore, soggetto a dure alee: insolvenza, decozione, fallimento, bancarotta. Ha avuto rapido successo, a partire dalla fortezza universitaria, dove si entra per cooptazione (senza escludere l’interferenza di famiglia, nepotismo, politica, religione, «scuole»). La Chiesa deve pagare l’«ICI» e le altre imposte come tutti noi cittadini tassati Politici, giornalisti, quotidiani e cittadini coraggiosi affermano giustamente che pure la Chiesa deve pagare l’ICI sugli oltre 30mila immobili di proprietà presenti in Italia e destinati - non al culto - ma ad attività «commerciali» (negozi, alberghi, ospedali, centri turistici, altri immobili locati, ecc.). Si vedono - su internet - richieste di cittadini per la regolare imposizione tributaria anche degli stipendi dei religiosi, che usufruiscono dei servizi statali, come tutti noi cittadini tassati. Presidente Napolitano Giorgio Napolitano è stato comunista (migliorista) dal 1942 e ha tenu-

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to tutte le massime cariche del partito, tranne quella di segretario. È ammiratore di J. M. Keynes, celebre sostenitore della spesa in deficit. È stato eletto presidente della Repubblica con 543 voti - i 540 del centro sinistra più 3 - (G. Dell’Arti e M. Parrini, Catalogo dei viventi, Marsilio 2007, pag. 1.213). È un presidente attivista, decisionista, interventista ed esternatore, da Repubblica presidenziale più che parlamentare. Non è stato amico del presidente del Consiglio Berlusconi. Numerosi italiani di centro destra pensano e agirebbero diversamente da lui. Dovrebbe ridurre drasticamente le enormi spese della nostra presidenza della Repubblica (la più costosa al mondo), evitando di sostituire i pensionamenti del personale con nuove assunzioni e riducendo a meno di 10 le 35 auto blu attualmente disponibili. Il suo lodevole e insistente monito «mai più morti per incidenti sul lavoro» dovrebbe estendersi esplicitamente ai lavoratori (orefici e altri) ammazzati da rapinatori e alle troppe vittime della strada per responsabilità e colpa altrui. Statalismo liberticida La maggioranza dei mass media inclina a sinistra. Si sono diffusi e cronicizzati: la statolatria, il big government, la spesa in deficit e l’elefantiasi della Nuova Classe burocratica. Nonché uffici inefficienti, enti inutili, assenteismo, lentocrazia, doppioni, formalismi, pastoie e adempimenti amministrativi vessatori. L’ingerenza, l’invadenza e l’interposizione dello Stato riducono la privacy e la libertà personale ed economica del cittadino. Lo Stato assistenziale tassa e spende: appare un Padre Padrone, un Grande Fratello orwelliano o una Supermamma oppressiva. Per vincere le elezioni, il politico si declassa a demagogo: appaga le crescenti pretese di sudditi e clientele, mediante la finanza allegra («bancarottiera») e lo sperpero del pubblico denaro - diversamente dal «buon padre di famiglia», che amministra con oculatezza e parsimonia -. Si recita il ritornello «equità, eguaglianza». Ma «libertà ed uguaglianza sono nemiche giurate ed eterne: quando l’una prevale, l’altra muore» (Will Durant). Subordinare la libertà all’uguaglianza significa nuocere al vantaggio collettivo e pure alla giustizia giusta.

Gennaio 2012 crisi personale la vivevano con enorme difficoltà. Persino Crozza, sempre piuttosto attento e indiscutibilmente bravo nei suoi giochi e nelle sue imitazioni, per non cadere nella spirale della crisi di astinenza da Berlusconi, ha preferito rivolgersi al musical. E, forse, è stato meglio anche per lui, perché ci ha fatto scoprire doti canore che non sospettavamo, in lui. E di questo, anche la rete nella quale egli da il meglio di se, La7, si è giovata. A proposito di questa emittente, va comunque detto che, nel corso dell’ultimo anno, la rete targata Telecom è cresciuta in maniera impressionante. Con l’assestamento dei programmi, l’inserimento di Geppy Cucciari e Myrta Merlino nelle nuove trasmissioni, con la partenza del nuovo programma di Gianluigi Nuzzi, con l’acquisto di Serena Dandini e con l’avere magistralmente evitato il macigno Santoro, ha veramente fatto il pieno. Ed è proprio sul piano dell’informazione, che La7 ha raggiunto i migliori risultati. Nel corso degli ultimi 12 mesi, il notiziario delle ore 20 della rete di TiMedia ha registrato una crescita degli ascolti del 250 per cento. Nel corso del 2011, l’edizione serale del Tg La7 condotto da Enrico Mentana è stata vista da oltre 37 milioni di italiani, che equivalgono al 64 per cento, circa, dell’intera popolazione. Sono numeri reali, non inventati. Da notare che La7 si sta giovando anche dell’opera di Paolo Ruffini, dopo il suo allontanamento da Raitre. Ed è proprio Raitre che ha cominciato ad organizzarsi in maniera più agguerrita, visto che il pubblico che segue le due reti è quasi lo stesso. Intanto, è risultata abbastanza efficace la decisione del direttore di rete Antonio Di Bella di mettere Lucia Annunziata tutte le sere contro il Tg di Enrico Mentana. Annunziata non ha un ascolto altissimo, tuttavia toglie presenze. Da quando questo è accaduto, Mentana non è più riuscito a raggiungere il 12-13 per cento di ascolto, come prima. Per la prossima primavera invece è attesa un’altra sfida tra le due emittenti. Si terrà al venerdì sera in prima serata. Su Raitre scenderà in campo il neoacquisto Luisella Costamagna, l’ex compagna di lavoro del furbo Telese , che occuperà lo stesso spazio temporale di Daria Bignardi che, con la sua collaudata trasmissione, rischia veramente poco. Insomma, in televisione si sta assistendo a un grande spostamento di caselle affinché, come diceva il protagonista del Gattopardo, tutto cambi, affinché tutto resti come prima.

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LIBRI NUOVI E VECCHI INTERVISTA A CARLO VIVALDI-FORTI

Quando in Italia tornerà la democrazia A cura di VALERIO DE LILLO

IL NOSTRO collaboratore Carlo Vivaldi -Forti, nel suo ultimo articolo sul Borghese, stabilisce un paragone piuttosto inquietante fra la Primavera di Praga e la situazione italiana attuale. Egli ha fatto pure riferimento a un libro di cui è autore, Pravda vitezi-La verità vince, che dal titolo sembra ambientato nella Repubblica Cèca. Per tali motivi abbiamo deciso di porgli qualche domanda. Dottor Vivaldi-Forti, Lei ha scritto di recente che tra la Primavera di Praga e quello che potremmo definire, per analogia, l’Autunno di Roma, vi sono notevoli somiglianze. I motivi li ha già sufficientemente delineati nell’articolo, per cui non torneremo sull’argomento. Ci incuriosisce invece la Sua profonda conoscenza della storia cecoslovacca e dei Paesi dell’est europeo. Potrebbe dirci qualcosa in merito? «Il mio idillio intellettuale con la Repubblica Cèca risale a molti anni fa ed è dovuto all’amicizia con un noto dissidente praghese rifugiatosi all’ovest a seguito del colpo di Stato comunista del 20 febbraio 1948. Avendo egli sposato una mia lontana parente, o per meglio precisare parente di parenti, ho avuto occasione di frequentarlo fin dalla giovinezza. Le nostre numerose conversazioni sono state tutte interessantissime e mi hanno rivelato un mondo per me allora sconosciuto.» Immaginiamo che per stendere il libro si sia servito pure di quelle testimonianze. Ce lo può confermare? «In realtà ho scritto due libri ambientati in Boemia. Il primo, negli anni Settanta, s’intitola La Corona di San Venceslao, ed è un romanzo fantapolitico nel quale avevo previsto con assoluta esattezza gli eventi che

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avrebbero condotto alla crisi e alla dissoluzione dell’impero sovietico. I protagonisti, però, sono di pura fantasia. Adesso sarebbe istruttivo rileggerlo, essendosi in pratica trasformato in un documento storico. Purtroppo è ormai quasi introvabile, in quanto l’editore, La Città Armoniosa di Reggio Emilia, ha cessato da tempo l’attività. Quello da Lei citato invece ha visto la luce tre anni fa per i tipi di Campanotto, che ne custodisce tuttora diverse copie. Si tratta della biografia rigorosa, anche se redatta in stile narrativo, del mio amico cèco. Egli, tra l’altro, è deceduto proprio nel febbraio dello stesso anno in cui l’opera è uscita. Mi dispiace molto perché, per pochi mesi, non ha fatto a tempo a leggerla.» Ci potrebbe riassumere in breve la trama del romanzo? «Come ho già precisato non si tratta di un romanzo ma di una biografia storica. È vero, però, che la vita del protagonista è di per sé una magnifica fiaba, senza nulla aggiungere e nulla togliere. Egli appartiene all’alta nobiltà asburgica, la cui famiglia possiede uno dei più monumentali palazzi barocchi di Praga, espropriato dai comunisti nel 1948 e recuperato negli anni Novanta grazie alla legge sulle restituzioni voluta dal presidente Havel, che dichiarò illegittimi, e quindi destituiti di ogni effetto fin dall’inizio, tutti i decreti di esproprio emessi

Carlo Vivaldi-Forti Pravda vitezi La verità vince Campanotto Ed. 2008 Pag. 259 - € 15

dal parlamento dopo il 1948, in quanto non legittimamente eletto. Questa, detto per inciso, potrebbe essere una soluzione da applicare anche in Italia, quando sarà restaurata la democrazia, rispetto agli espropri fiscali del governo Monti. La sua rocambolesca fuga, la sera antecedente il golpe, del quale era stato avvertito all’ultimo momento da un amico ministro, raffigura l’eterno dramma degli esuli, dei perseguitati politici costretti a scegliere tra gli affetti più cari e la propria coerenza morale. I quarantuno anni tra il 1948 e il 1989 li trascorre quindi fra Italia, Svizzera e Francia, ove si sposa e si costruisce una brillante posizione di giornalista e scrittore. Le sue vicende s’intrecciano con la storia europea, dalla guerra fredda a Gorbaciov, fino al rientro in patria. Essendo nel frattempo deceduta la prima moglie, a Praga ritroverà la vecchia fiamma di gioventù, che aveva abbandonato il giorno dell’esilio, anch’ella vedova; l’antico amore rinasce, concludendosi con un bellissimo, romantico matrimonio a bordo di un battello sulla Moldava.» Sembrerebbe davvero una splendida favola, se non sapessimo che è la verità. A parte l’aspetto narrativo, però, cosa ci insegna una vicenda del genere sul piano morale e politico? «Di sicuro l’amore per la libertà e il coraggio di lottare contro la tirannia. Il comunismo, per chi lo ha vissuto sulla propria pelle, ha rappresentato una grande scuola di vita. Affrontare la quotidianità sotto un regime così disumano e intollerante esigeva una forza morale straordinaria. Pensiamo soltanto al durissimo destino del fratello del protagonista, rimasto a Praga nel 1948 perché, temporaneamente allontanatosi da casa, non era stato avvertito in tempo di quel che stava per succedere. Egli, in quanto discendente da una casata illustre, era considerato a priori nemico del popolo, indipendentemente dalle sue azioni, e quindi meritevole di una sana rieducazione proletaria. Giovane liceale del tutto estraneo alla politica, viene arrestato e gettato per dieci anni ad metalla, nei pressi di Ostrava, scontando una disumana condanna in miniera. Solamente la sua forza di carattere e il suo attaccamento al lavoro gli

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70 valgono alla fine l’iscrizione all’Università. La sorella, allora ventenne, si carica invece il figlioletto di due anni in spalla e, nella gelida notte tra il 20 e il 21 febbraio, riesce a raggiungere a piedi Eisenstein, il primo paese tedesco oltre frontiera, dopo aver traversato l’intera foresta boema sotto una tormenta di neve, nel buio più assoluto, munita unicamente di una lanterna a olio. Quando si sono vissute esperienze del genere, nulla fa più paura. Credo che nei momenti drammatici che ci aspettano, densi di scenari di guerra e miseria, esempi simili risultino di grande conforto. Se ce l’hanno fatta loro, perché noi no?» Nel libro traspaiono le convinzioni politiche e morali dell’autore? «Nei limiti del possibile ho cercato di mantenermi neutrale. Le prese di posizione ideologiche, se così possiamo chiamarle, si limitano a quelle dei personaggi. Il protagonista, ad esempio, si professa conservatore, monarchico e cattolico, come la grande maggioranza della nobiltà asburgica. Questo, però, non gli impedisce di stringere amicizia con altri dissidenti laici, comunisti e socialisti, tutti uniti dal grande ideale della liberazione della patria e della sconfitta della tirannide.» È vero che il libro ha ricevuto alcuni premi letterari? «Nel 2008 mi è stato conferito il Premio Firenze Il Fiorino d’Oro, considerato per importanza il secondo in Toscana dopo il celebre Premio Viareggio Leonida Repaci.Nel settembre 2011, infine, il libro ha ricevuto una segnalazione di merito dal Premio Città di Massa.»

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IL BORGHESE

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LE PUBBLICAZIONI DELLA FONDAZIONE EVOLA

Educare gli uomini nella Tradizione di GIOVANNI SESSA DUE volumi, recentemente apparsi nelle librerie, hanno riaperto il dibattito intorno al senso e al significato dell’opera di Julius Evola. Essi, sono il risultato del lavoro condotto sui testi del filosofo romano, dal gruppo di studiosi che agisce all’interno della Fondazione che porta il suo nome, il cui Segretario è Gianfranco de Turris. Il primo libro, raccoglie articoli e saggi pubblicati dal pensatore tradizionalista, tra il 1935 e il 1940, sulla rivista Regime Corporativo, di Antonio Goglia (J. Evola, Regime Corporativo (1935-1940), i Libri del Borghese, Roma 2011. Per ordini: 06/45468600, info@pagine.net). L’opera è stata curata da Gian Franco Lami, filosofo politico della «Sapienza», recentemente scomparso. A lui si deve, del resto, la curatela anche delle altre antologie di scritti giornalistici di Evola, raggruppati per testate, comparse negli anni scorsi. Queste pubblicazioni, fin dall’inizio, hanno mirato a rivalutare il contributo filosofico e politologico, per lungo tempo sottostimato, prodotto dall’illustre interprete della Tradizione, in numerosissimi interventi su quotidiani e riviste. In questa sua ultima fatica dedicata ad Evola, che ha visto la luce postuma, grazie alla lungimirante disponibilità dell’editore Luciano Lucarini (a breve darà alle stampe anche la raccolta degli scritti comparsi su La Rassegna Italiana), Lami fornisce l’ennesima prova dell’accortezza esegetica e storicofilosofica che, da sempre, ha connotato i suoi scritti sul filosofo. In particolare, tra i saggi comparsi su Regime Corporativo, giocano un ruolo fondamentale, ci ricorda in prefazione il curatore, i tre scritti sul problema ebraico. Essi sono un rifacimento di precedenti articoli, apparsi nel 1933, sulle pagine di Vita Nova. La comparazione delle due terne, permette di cogliere differenze notevoli d’impostazione ideale, sia in merito al problema ebraico che, più in generale,

in tema di razza. Le precisazioni di Evola, sviluppate negli articoli del 1936, mirano, infatti, a rettificare in termini spirituali l’idea razzista, attraverso il rifiuto di tutte le generalizzazioni darwinistico-biologiste, proprie dell’approccio al tema del nazionalsocialismo. Per cui, nessun lettore attento del libro che presentiamo, potrà ancora incorrere nell’errore di confondere le posizioni di Evola, con quelle di un razzismo volgarmente «zoologico», e con i drammi che esso produsse. La critica al moderno, che il pensatore presenta nelle pagine di questa raccolta, è tutta volta a mostrare come, per realizzare effettivamente un’antropologia tradizionale, sia necessario tendere virtuosamente, verso l’alto, la natura umana, in un percorso inconcluso di svincolo dai condizionamenti biologico-animali. La Tradizione, in questa prospettiva non è: «qualcosa di dato, o di rivelato, una volta per tutte, quindi di contemplabile nella sua fissità e assolutezza» (p. 20). La Tradizione di Evola, spiega correttamente Lami, è dinamica, si realizza e manifesta in un processo, è assunzione di responsabilità interiore ed esteriore. Soltanto mettendo in pratica un comportamento tradizionale, si è liberi e nella Tradizione. Dal che, ci pare si evinca il tratto costitutivo dell’«equazione personale» del pensatore romano: la vocazione pratica. È proprio in forza di ciò, che negli altri scritti raccolti nel volume, egli si confronta, in un periodo storico cruciale, con le problematiche politiche aperte dall’alleanza italo-tedesca. Più precisamente, egli affronta: 1) gli indirizzi ideologici all’interno e all’esterno dell’intesa Italia/Germania; 2) definisce il ruolo dell’Italia nello scenario geo-politico europeo e mondiale; 3) suggerisce al Regime una condotta non nazionalista, mirata all’effettiva realizzazione della vocazione imperiale della stirpe latina. Insomma, Evola tenta di indurre nella politica del suo tempo, un cambiamento profondo, dai

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tratti antichi ma sempre attuali. Infatti, egli aveva compreso l’importanza di educare gli uomini, o la parte più avveduta di essi, affinché nell’esplicazione delle funzioni civico-politiche, grazie al «mutamento di cuore», fossero posti in condizione di sintonizzare il loro agire al «precedente autorevole» del proprio popolo. E in ciò, perfino negli articoli a carattere divulgativo, Evola manifesta, in termini di esemplarità, la qualità che maggiormente qualifica la sua sfera intellettuale, quella filosofica. Valgano quale esempio, le pagine dedicate a Trilussa che aprono la raccolta. In esse, il poeta di Trastevere, diviene paradigma degli insegnamenti del tradizionalista, in quanto con la satira sferzante apre gli occhi ai lettori, facendo comprendere che il vero progresso sta nel: «…conquistare un carattere, avere una fede vivente, difendere l’intima dignità di un essere libero» (p. 29). Parole di straordinaria attualità. Il secondo volume che presentiamo, Studi Evoliani 2009 (Arktos editore, Carmagnola 2011. Per ordini: edizioniarktos@yahoo.it; 011/9715340), è il quarto almanacco della serie e raccoglie le relazioni del Convegno «Evola e la cultura», che si tenne ad Alatri (FR) il 13 e 14 Maggio 2006. Il primo di una serie di Convegni di studio dedicati al filosofo, organizzati dalla Fondazione e dalla Scuola Romana di Filosofia politica, con scadenza biennale (il prossimo a Maggio 2012, sul tema «Evola: Oriente e Occidente»). Tra i relatori del primo Convegno, figuravano noti studiosi: da Piero Di Vona a Giano Accame, da Stefano Arcella a Roberto Valle, da Luciano Pirrotta a

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IL BORGHESE Giovanni Damiano, soltanto per fare qualche nome. Naturalmente, il libro presenta una vasta gamma di temi, che rispondono ai diversi momenti dell’opera prodotta dal poliedrico intellettuale: interventi sull’orientalismo, sull’influenza filosofica di Carlo Michelstaedter, sui rapporti con la Rivoluzione Conservatrice, sull’analisi del Rinascimento, cui si affiancano anche numerose recensioni a opere di Evola o su Evola, comparse sulla stampa negli ultimi anni. Ciò consente al lettore di maturare una chiara visione del dibattito e delle polemiche, sorte recentemente intorno al tradizionalista e al suo pensiero. Rimandiamo, in questo senso, allo scritto del germanista Marino Freschi, pensato in risposta a un articolo di Roberta de Monticelli, illuminata interprete di Agostino ma, guarda caso, ipercritica nei confronti del lavoro filosofico evoliano. Entrambi pubblicati a commento dell’ultima edizione di Fenomenologia dell’individuo assoluto. Crediamo che, altra ragione di interesse del volume in questione, sia da cogliersi nella pubblicazione di un inedito: il carteggio, che si dipana intorno all’esegesi dell’opera di Evola, ma non soltanto, intercorso tra il già ricordato Lami e un altro insigne studioso, Roberto Melchionda. L’epistolario, è diviso in due diverse sezioni: la prima comprende le lettere del periodo 199698, la seconda le lettere del biennio 2006-08, introdotte da Alessio de Giglio. I due amici di penna, convengono sulla necessità di elevare a livello di analisi scientifica il dibattito intorno al filosofo. Melchionda riconosce, altresì, l’importanza del lavoro critico di Lami, prevalentemente condotto sui testi giornalistici. Ma, tra i due, emergono anche delle differenze interpretative. Per ricordarne soltanto alcune: Lami individua nella Neue Sachlichkeit, la Nuova Oggettività, ritornata al centro del dibattito culturale (si pensi al recentissi-

Gian Franco Lami (a cura di) Julius Evola - Regime Corporativo (1935-1940) Pagine editore, 2011 Pag. 120 - € 14,00 AA.VV. Studi evoliani 2009 Arktos Editore, 2011 Pag. 238 - € 22, 00

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mo Libro-Manifesto di Sandro Giovannini), il momento cruciale della proposta evoliana, in quanto a suo giudizio, per contestualizzare storicamente il pensiero del romano, è necessario inquadrarlo nelle risorgenze di certo post -romanticismo: «totalitario, ma non totalitarista». Al contrario, Melchionda ritiene che la Nuova Oggettività non consenta il conseguimento del piano metafisico e sia espressione di un approccio fenomenologico, significativo, ma non ancora tradizionale. Perciò, mentre per Lami, Evola deve essere collocato, pur nella sua importanza, tra i minori di rango del pensiero contemporaneo (stimolante il raffronto con Heidegger), per Melchionda il tradizionalista è sic et simpliciter, da inserire tra i maggiori rappresentanti dell’«intelligenza» del secolo XX. Egli, infatti, giunse e superò, fin dalle prime fasi del suo percorso esistenziale, i confini estremi della filosofia, cui altri arrivarono dopo di lui, senza, però, riuscire a valicarli. Al di là delle differenze tra i due, l’analisi delle lettere evidenzia la dignità interiore dei contendenti, le loro elevate qualità intellettuali, che non si limitano alla mera erudizione, ma testimoniano un percorso di vita certamente segnato, dall’interno e in profondità, dal magistero evoliano. In conclusione, riteniamo che i due volumi, chiariscano la propositiva vitalità della filosofia di Evola, e mettano in luce l’incessante attività di quanti operano all’interno della Fondazione che da decenni ne tiene viva la memoria. È forse giunto il momento, data la crisi valoriale che stiamo vivendo, che anche altri, afferenti all’area politica di riferimento, ne prendano finalmente contezza!

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NELLE OPERE DI GIOVANNI FASANELLA

La realtà della geopolitica di NAZZARENO MOLLICONE ALLA fine dello scorso ottobre, l’Associazione dei «Seniores» (attualmente presieduta dal prof. Augusto Sinagra) ha invitato alle sue cene culturali mensili, in Roma, il giornalista Giovanni Fasanella per parlare dei suoi libri pubblicati negli ultimi due anni, trattandosi di opere che offrono un contributo fondamentale per conoscere la storia reale della politica estera dell’Italia contemporanea, con riflessi sulla politica economica ed interna. L’occasione di quella conferenza ci offre lo spunto per parlare di queste opere le quali peraltro non sono testi di storia nel senso classico in quanto l’autore, giornalista e non storico di professione, ha usato gli strumenti tipici del giornalismo: l’intervista, in un caso; la ricerca di documenti in archivio, nell’altro I libri di cui parliamo sono entrambi editi dalla casa editrice Chiare Lettere e sono intitolati Intrigo Internazionale, il primo, pubblicato nel 2010; ed Il golpe inglese, l’altro, pubblicato nel 2011. Il Borghese già si è occupato, nelle sue recensioni, di quest’ultimo: tuttavia è importante ritornare sull’argomento collegando le due opere perché indicano in modo sufficientemente chiaro il ruolo geopolitico dell’Italia nel Mediterraneo e gli ostacoli che la nostra Nazione incontra nell’affermarlo, dallo «schiaffo di Tunisi» del 1881 alla Libia di Gheddafi del 2011: centotrenta anni di contrasti palesi od occulti con le altre Potenze europee. Un «Intrigo Internazionale» - In Intrigo Internazionale, Fasanella fa una lunga ed articolata intervista a Rosario Priore, il magistrato romano che seguì, come giudice istruttore e pubblico ministero, tutte le principali vicende di terrorismo avvenute in Italia negli anni settanta ed ottanta, dal rapimento ed uccisione di Aldo Moro all’attentato al Papa Giovanni Paolo II. Dalle indagini effettuate, dalle confessioni, dalle ricostruzioni dei

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fatti, dai documenti, dalle impressioni ricavate, il giudice Priore giunge alla conclusione che l’Italia, dal dopoguerra ad oggi, è sempre stata di fatto in una guerra, senza consapevolezza a livello di opinione pubblica (non soltanto quella di massa), con la Francia e l’Inghilterra (a volte alleati, a volte concorrenti) per l’egemonia del Mediterraneo, il controllo delle fonti energetiche, il timore che l’Italia acquisisse - per la sua posizione geografica e per i suoi rapporti con i Paesi rivieraschi, dall’Algeria alla Tunisia, dalla Libia all’Egitto - una posizione di media potenza capace d’indebolire, per la sua capacità diplomatica, la sua visione culturale, i suoi rapporti economici, le posizioni gelosamente difese da Francia ed Inghilterra da oltre un secolo. A questo proposito Rosario Priore afferma: «Sembrerà strano, ma il progetto di Mussolini [quello del mare nostrum e dell’amicizia con i Paesi mediterranei, N.d.R.] ha influenzato anche la linea di condotta dell’Italia democratica dei governi democristiani e socialisti fino ai giorni nostri. E con un certo successo, dal momento che la nostra politica mediterranea, nel dopoguerra, è riuscita a ridimensionare fortemente la presenza britannica». Non soltanto britannica, però, perché anche la Francia è stata danneggiata dalla politica estera «mediterranea» dell’Italia come quando, ad esempio, l’ENI di Mattei appoggiò la rivolta algerina per l’indipendenza: mentre con la Tunisia ci sono da oltre un secolo rapporti di scambi economici ed umani (non a caso Craxi si rifugiò in quel Paese, dove morì ed ebbe sepoltura). Ma, ovviamente, quelle potenze europee - con noi formalmente alleate nella NATO e nell’Unione Europea, ma intimamente ostili - non stavano a guardare. E qui si ripercorrono alcune pagine dolenti della nostra storia, dall’ormai accertato attentato mortale contro Mattei alle oscure manovre

dietro le stragi (Priore ricorda che il termine «strategia della tensione» apparve per la prima volta sulla stampa inglese ed afferma che - «secondo un’ipotesi non provata, dietro la strage di Piazza Fontana ci sarebbe stato un mandante inglese»). A questo proposito, egli fa presente che pochi mesi prima vi era stato il colpo di Stato libico guidato dal colonnello Gheddafi, organizzato e preparato in Italia, il quale come primo atto eliminò la monarchia al servizio dell’Inghilterra e chiuse la base della marina militare inglese presente in quel Paese. Un’analoga coincidenza internazionale, sempre con riferimento a Gheddafi, si ebbe con la strage dell’aereo esploso sul cielo di Ustica, che sembrerebbe avvenuta nel corso di un duello aereo in cui avrebbero partecipato aerei francesi. Ma anche il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro rientrerebbero in quella occulta strategia anti-italiana. Moro era considerato (insieme a Fanfani, all’epoca accantonato dalla DC per ragioni di età e perdita d’influenza nel partito) il massimo esponente della politica mediterranea italiana. Ormai è ampiamente diffusa l’opinione che all’interno delle Brigate Rosse operassero più filoni, alcuni dei quali legati ad ambienti internazionali, e lo dimostrano anche le modalità dell’agguato di Via Fani effettuato con tecniche militari e sembra sotto gli ordini di un personaggio rimasto sconosciuto. In genere, il giudice Priore - nel suo libro-intervista - afferma che «le stragi silenti, cioè senza rivendicazioni, come la quasi totalità delle stragi compiute in Italia, sono in genere dei messaggi da governo a governo, che i

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Gennaio 2012 governi recepiscono e comprendono, agendo poi di conseguenza». Un’affermazione sconvolgente per la comprensione degli avvenimenti occorsi in Italia durante i lunghi «anni di piombo», che parte dalla considerazione secondo cui da Piazza Fontana in poi nessuna delle grandi stragi compiute in Italia è mai stata rivendicata: il che conferma la teoria delle «stragi silenti» le quali, anche se realizzate dalla criminalità o da organizzazioni terroristiche italiane, sono sempre messaggi esterni per i governi. Nel suo lungo libro-intervista, ad un certo punto il giudice Priore fa una interessante affermazione di carattere storico: l’Italia, per risollevarsi dalla pesante eredità della sconfitta nella seconda guerra mondiale, individua aree geopolitiche per tutelare il nostro interesse nazionale. Tuttavia, vi è una costante (valida fino ai nostri giorni): quando riuscivamo a ritagliarci un nostro “spazio vitale”, scattano immediatamente gelosie e rappresaglie. Un interminabile «golpe inglese» - L’altro libro di Fasanella, Il golpe inglese, approfondisce alcuni aspetti di queste vicende partendo dall’esame dei documenti conservati negli archivi di Stato inglesi situati a Kew Gardens, nei pressi di Londra. In questi documenti trovano conferma alcuni degli intrighi britannici per bloccare i tentativi di autonomia politica, industriale ed energetica del nostro Paese. È importante, ad esempio, leggere come la Gran Bretagna intendeva la sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale: l’obiettivo reale dell’Inghilterra non era quello di «liberare l’Italia dalla dittatura fascista», come proclamato dalla propaganda di «Radio Londra», ma piuttosto quello della «conquista assoluta dell’Italia», com’è scritto apertamente sui rapporti diplomatici. Cosa confermata brutalmente da Churchill al delegato apostolico di Papa Pio XII, William Godfrey, in un colloquio avuto nel mese di novembre 1945, come emerge dal rapporto dello stesso al Vaticano. Dopo aver promesso che l’Italia «godrà di eccellenti condizioni per la ripresa economica», Churchill nel contempo afferma: «L’unica cosa che mancherà all’Italia sarà una totale libertà politica», aggiungendo poi, bontà sua, che «il controllo politico sarà effettuato con la massima discrezione possibile»! Nel libro vi è poi un interessante capitolo riservato a descrivere tutti i giornalisti ed uomini di cultura italiani

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IL BORGHESE che, per affinità ideologica, servilismo politico o remunerazione economica, mettevano in buona luce sulla stampa la politica inglese criticando tutti coloro che, avendo ruoli importanti nella politica o nell’economia nazionale, la ostacolavano al fine di far avere all’Italia una sua autonomia in politica estera. L’elenco è davvero lungo e sorprendente, e tutto passa attraverso un «Information Research Department» (Ird) che aveva ereditato le funzioni del «Psychological Warfare Bureau» (Pwb) creato durante l’occupazione alleata dell’Italia per autorizzare, controllare ed indirizzare la stampa. Il libro termina con l’omicidio Moro, e null’altro può contenere visto il segreto ancora esistente sui documenti successivi a quegli anni. Ma certamente esso è importante per delineare da un lato il ruolo potenziale, ed a volte effettivo, di media potenza mediterranea dell’Italia, superiore a quello che si possa comunemente pensare; e, dall’altro, l’attenzione e l’ostilità con cui il nostro Paese viene visto dai nostri alleati-concorrenti quando cerca di attuare una politica estera autonoma e di conquistarsi, come dice il giudice Rosario Priore, «uno spazio vitale». La rivincita della «geopolitica» Gli eventi di questi ultimi mesi, dalla guerra in Libia contro Gheddafi alla speculazione finanziaria cui non è estranea la City di Londra (a proposito: quanti sanno che la Borsa di Milano è di proprietà della Borsa di Londra?), dall’ostilità agli accordi con la Russia all’indebolimento dei governi italiani fino alla caduta di quello guidato da Berlusconi, appaiono essere, alla luce dei precedenti storici succitati, un’ulteriore conferma. In sostanza, l’analisi di queste due opere dimostra a sufficienza la realtà della geopolitica che è superiore a quella dei governi e dei regimi che un Paese può avere, e dell’affermazione (fatta non a caso da un governante inglese, Disraeli) secondo cui «il mondo è guidato da forze ed uomini ben diversi da quelli che appaiono all’esterno». Si evince però anche il sempiterno ruolo dell’Italia che - da Roma in poi - ha dovuto sempre combattere per difendere la sua posizione centrale nel Mediterraneo, da Cartagine ai Turchi, dalla Spagna alla Gran Bretagna. E la «guerra» non è finita, sta continuando «con altri mezzi», come diceva Clausewitz.

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Librido a cura di MARIO BERNARDI GUARDI G IORDANO Bruno Guerri fan dell’«Antirisorgimento»? Il liberale, liberista, libertario ed ex libertino (da qualche anno è marito e padre esemplare) Giordano Bruno, con quel fiammeggiante (in tutti i sensi…) nome di eretico, che si ritrova messo accanto ai nostalgici del Papa Re, agli alfieri dei Borboni, agli aedi dell’Austria Felix absburgica? C’è chi incomincia a sospettare che se lo meriti e con qualche ragione, visto che il nostro, non per niente un «maledetto toscano», dunque un «bastian contrario» quasi per vocazione, è dall’anno scorso che ce la mette tutta per rovinare le celebrazioni unitarie. Scherzi a parte, non si può negare in GBG una gran voglia di mettere in discussione la retorica unanimistica del 150°, che ha avuto le sue star in Napolitano, Morandi e Benigni, metaforicamente, e un po’ stucchevolmente, avvolte nel tricolore. Insomma, prima l’illustre storico si è messo a parlar male non soltanto di Garibaldi, ma anche di Cavour, Mazzini, Vittorio Emanuele II, padri, patrigni e padrini della Patria, raccontando il Risorgimento come guerra civile, con tanto di vincitori e vinti (Il sangue del Sud, Mondadori), e torna adesso a stracciare i santini unitari con un’opera ancora più scandalosa visto che evoca «le lotte e gli amori delle brigantesse che difesero il Sud» (Il bosco nel cuore, Mondadori). E se lo «difesero» vuol dire che c’era qualcuno che lo «offendeva». Chi? Non ci vuole un grande sforzo per capirlo: i «liberatoriconquistatori», soldati di Sua Maestà o guerriglieri in camicia rossa che fossero. Due schieramenti che spesso si guardarono in cagnesco, in qualche circostanza, in (dis)amore e (dis) accordo, fecero l’uno il lavoro pulito, l’altro, quello sporco, mirando allo

Giordano Bruno Guerri

Il bosco nel cuore Mondadori Pag. 223 - € 20,00

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stesso fine, in ogni caso, sempre e comunque, mostrarono di non capire un accidente dei meridionali, della loro storia, dei loro costumi, dei loro valori «forti». Perché, insieme a vizi endemico-atavici, c’erano anche quelli, i «valori»; c’erano virtù antiche e robuste; c’era la «percezione», il «sentimento» di una identità che non poteva essere né sconciata né tanto meno annichilita: un sentimento, certo, imbastito di superstizioni e di ignoranza, ma anche di devozione e di lealtà, E invece il Sud fu non soltanto conquistato, ma umiliato, offeso, derubato e martoriato. Si può dire che era storicamente «necessario»? Si può dire di tutto e di più: e lo diciamo noi che, come Guerri, siamo decisamente nazional-unitari e all’Italia ci teniamo. Il che non esclude che la verità va detta. «O tutta o niente», proclamava quel reazionario di Monaldo Leopardi, il papà di Giacomo. E noi siamo dello stesso avviso: quel che è successo va raccontato, documentato, spiegato. Senza che questo significhi inalberare - che so? - il vessillo dell’Austria Felix o quello di Franceschiello. Non ha nessun senso consacrarsi ad una estetica impolitica; il nostro dovere, però, è quello di raccontare come e quando, dove e perché, la politica, facendo quello che fece, non soltanto fu «anti-estetica», ma aprì delle ferite profonde che, almeno storicamente, dovremmo rimarginare. Questo vuol dire forse che i briganti evocati da GBG fossero tutti purissimi eroi che combattevano, col cuore vibrante nel petto «di antico sentire», a difesa di Franceschiello, del Sud e della tradizione contro gli invasori? No, nelle

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IL BORGHESE loro file c’erano fior di delinquenti, assassini, stupratori ecc. e capitava che coraggiosi combattenti «pro aris et focis» all’occorrenza si trasformassero in biechi «vendicatori» e sanguinari «tagliagola». Ma «dietro» e «dentro» la guerriglia c’erano ragioni ed emozioni «forti»: e se la storia vuol, sul serio, essere memoria condivisa non può ignorarle. Men che meno trascurare il fatto che tra le prime donne che «portarono i pantaloni» ci furono le brigantesse. Chi erano? Com’erano? Cosa volevano? Dobbiamo figurarcele come virago baffute pronte ad usare il rasoio per tagliare gli attributi del malcapitati patrioti che cadevano nelle loro grinfie? Ebbene, per parafrasare un tormentone vetero-femminista, non erano né streghe né madonne, ma solamente donne. Donne appassionate che condividevano la vita dei loro uomini nel fondo più profondo delle boscaglie, che dormivano all’addiaccio, che affrontavano ogni sorta di sacrificio, che avevano un codice dell’onore di tutto rispetto, che, certo, non usavano il coltello soltanto per affettare il pane, ma se contribuivano a far scorrere il sangue, spesso avevano il cuore che sanguinava di sentimenti calpestati e di avvelenati risentimenti, che, è vero, imbracciavano il fucile da tiratrici provètte e miravano per colpire, ma non erano «mostri» da mettere alla gogna. Quanto alle motivazioni, è chiaro che di politica non se ne intendevano (neppure i briganti maschi, del resto…), ma i loro «diritti» volevano difenderli con le unghie e con i denti. Già, i «diritti» di una donna del popolo, di una contadina del Sud nell’Ottocento… Poca roba, se si vuole, eppure consistente: il lavoro nei campi e quello domestico, le care abitudini, le consuetudini inveterate, il focolare, la casa, il marito, i figli… Ovvero quegli uomini che il Regio Esercito strappava alla fatica quotidiana e al conforto notturno delle loro braccia con la coscrizione obbligatoria. In nome di uno Stato che tassava e reprimeva dispoticamente, molto più di quanto non avessero fatto i Borboni, indolenti, ma tutto sommato accomodanti. Anche se Franceschiello fu tutt’altro che un vile. E GBG fa bene a dedicare un capitolo a lui e alla sua sposa, quella Maria Sofia, bella, fiera e affascinante, determinata e intrepida, che animò l’orgogliosa resistenza di Gaeta contro i «liberatori». Ma, per tornare a briganti e «dintorni», il fatto è che un bel po’ di

Gennaio 2012 maschi si davano alla macchia e si ribellavano. Qualche femmina li seguiva. Condividendo disagi, odio e amore. Una vita sicuramente difficile, ma con i tratti affascinanti dell’avventura e della ribellione all’ingiustizia. Guerri racconta la storia di Maria Capitanio, Filomena Pennacchio, Michelina De Cesare, Dora Garbone, Arcangela Cotugno, Maria Oliverio, Lauretta D’Onghia, di tante altre: femmine ruspanti, militanti e fiere, anche nel senso che qualche tratto belluino ce l’avevano, al pari dei loro uomini. Del resto, proprio come loro, avevano fatto una scelta. Che pesava ancora di più, perché il ruolo tradizionale della donna (e figuriamoci di una popolana meridionale dell’Ottocento!) prevedeva la sottomissione. Nella vita difficile dei briganti, tra attese e agguati, sangue e morte, si realizza una paradossale «parità» tra uomini e donne. Stessi diritti, stessi doveri? Più o meno. Comunque, la «modernità» nasce «fuorilegge», nel cuore del bosco, con il bosco nel cuore. P.S. - C’è stato un altro periodo, nella storia d’Italia, in cui le donne si sono messe i pantaloni, ovviamente nel senso «militante» del termine, per «combattere» accanto ai loro uomini. Vinti ma non convinti, i maschi; vinte ma non convinte, le femmine. Non erano vere e proprie «soldatesse», non erano costituite in reparti da combattimento, ma molte di loro furono vere e proprie eroine. Nessuno, nemmeno il più feroce dei detrattori, le ha chiamate «brigantesse». Anzi, non pochi tra quelli che hanno scritto delle ausiliarie della RSI non hanno potuto fare a meno di parlarne con ammirata «pietas».

GIORDANO BRUNO GUERRI

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PIÙ VERO DEL VERO

Storie degli altri Risorgimenti di MAURO SCACCHI OGNUNO si è confrontato con il Centocinquantesimo a modo suo. I politici politicanti di ogni estrazione e colore hanno dato il meglio di sé: chi s’è riscoperto più patriota che mai, onorando un Tricolore fino a ieri quasi disprezzato, chi per evitare emulazioni con questi ritrovati amanti della nostra bandiera ha fatto l’esatto contrario, in cuor suo poi vergognandosene e chi, infine, ha apertamente dileggiato la storia nazionale e l’inno di Mameli, preferendogli pensieri padani. Il popolo, come sempre, ha fatto il tifo un po’ per questi, un po’ per quelli, ma in generale ha atteso che quest’anno volgesse al termine per sfuggire alle tediose ipocrisie di partito e, soprattutto, alla doverosa e quasi imposta riflessione sul Risorgimento. Un periodo storico, quello risorgimentale, in cui brillarono alti ideali, primo fra tutti quello di libertà. Peccato che, quando si parla di libertà, non tutti la pensino alla stessa maniera. Ecco allora il proliferare di centinaia di titoli, in cui autori noti e meno noti si sono cimentati per dir la loro su come è nata l’Italia, e se ciò sia stato più un bene o un male. Professori, saggisti, opinionisti e lacchè, ognuno a divulgare la propria interpretazione del Risorgimento, possibilmente operando raffronti con l’epoca attuale. Sommersi da tanta carta (per carità, in molti casi ben confezionata) anche le persone più interessate all’argomento hanno spesso desistito, limitandosi a comprare, per paradosso, un manuale sintetico in qualche centro commerciale. Altri Risorgimenti (Edizioni Bietti, Milano 2011) resta fuori da questo teatro. Si tratta di un libro speciale, godibile a tutti i livelli (dal serio al faceto). Il sovratitolo recita «L’Italia che non fu (1841-1870)», ma che «potrebbe essere stata» aggiungiamo noi. L’opera, curata da Gianfranco de Turris e prefata da Paolo Granzotto, è difatti un’antologia di racconti ucronici. L’ucronìa è una finzione letteraria in cui, prendendo le mosse da fatti storici realmente accaduti e docu-

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mentabili, s’immagina un seguito diverso, una realtà parallela che, però, deve risultare al lettore credibile e verosimile. In Altri Risorgimenti 19 autori si cimentano in 20 racconti (uno scritto a quattro mani). Errico Passaro, Augusto Grandi, Pierfrancesco Prosperi, Luigi De Pascalis, Mario Farneti, Marco Cimmino, Francesco Grasso, Giorgio Ballario… e ancora altri, tutti dalla penna fantasiosa ma non per questo meno erudita. La conoscenza dei fatti che precedono l’ucronìa vera e propria è fondamentale per la riuscita del lavoro, affinché la finzione possa apparire anche più desiderabile della realtà, e comunque in certi casi addirittura più verosimile. Il momento in cui la storia ufficiale viene abbandonata è lasciato all’immaginazione dello scrittore. Si legge nell’introduzione del curatore, citando dal De bello gallico di Giulio Cesare: «In guerra gli eventi importanti sono il risultato di cause banali». E se lo sono in guerra, perché non già nella vita, nella storia? Piccoli dettagli sono importanti quanto grandi avvenimenti. Non è dato sapere quanto una circostanza influisca sul destino se non quanto è già passata. A posteriori tutti pretendono di saper giudicare un evento, ma durante il suo svolgimento chi mai ne potrà riconoscere l’esatta portata storica? Il presente è fatto di scelte grandi e piccole, di situazioni che sembrano determinanti per poi risolversi in nulla e di altre che,

AA.VV.

Altri Risorgimenti L’Italia che non fu (1841-1870) Bietti Ed. - 2011 Pag. 550 - € 22,00

al contrario, all’apparenza banali si rivelano un domani significative. La prima ucronìa, Il Natale del colonnello, è di Ballario. Un colonnello brasiliano racconta ai nipoti il suo incontro con Garibaldi, il quale non è ancora l’eroe dei due mondi bensì un fuggiasco, condannato a morte dal Regno di Sardegna per aver cospirato con i mazziniani. Garibaldi approda in Sudamerica e combatte assieme ai separatisti brasiliani, al confine con l’Uruguay. Tra i ribelli diviene un ufficiale e una leggenda. «Se in Italia voleva unire, in Sudamerica voleva separare. Un Garibaldi», fa notare Ballario, «che noi conosciamo poco, considerato un mezzo terrorista». E fin qui, anche se ignorata dai più, è storia vera. Il colonnello dell’esercito imperiale, avverso ai separatisti, stima il bandito ma gli rinfaccia l’eccessiva violenza. In questo racconto Garibaldi non tornerà mai più in Italia. Niente spedizione dei Mille. Un dettaglio, la scelta di un uomo, cambia la storia della nostra Nazione. Il Risorgimento non sarebbe più stato lo stesso. Il Grandi, con La lettera galeotta, inizia da fatti reali anche se poco note. Nigra, ambasciatore sabaudo presso Napoleone III, riceve da Cavour l’ordine di sedurre l’imperatrice Eugenia, moglie del francese, per convincerla a sostenere la spedizione dei Mille. Napoleone, e qui parte l’ucronìa, intercetta la lettera con l’ordine cavouriano. Saltano le alleanze e la spedizione dei Mille; Napoleone si riprende la Lombardia. Attualmente il Piemonte sarebbe sotto l’influenza francese mentre il Lombardo-Veneto sotto quella tedesca. Niente Italia unita, ma frammentata e preda d’interessi stranieri. Un po’ come

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76 nel Seicento. Anzi, «più debole di come è oggi la Grecia» dice Grandi. Passaro descrive un’Italia attuale governata dalla Massoneria in La parola perduta, De Pascalis immagina cosa sarebbe successo se Carlo Alberto e Vittorio Emanuele fossero morti durante la battaglia di Goito in Simmetrie. Grasso, ne L’Eroe dei Due Sud, immagina il famoso bandito ed ex confederato Jesse James sbarcato in Italia e divenuto capo del brigantaggio meridionale. Menzionare tutti i racconti, qui, è impossibile. Vi sono poi quelle che si possono definire «ucronìe allo specchio» quando, dall’interno di una storia alternativa, s’ipotizza un’altra ucronìa, raccontata da qualche personaggio del racconto, che coincide con la storia ufficiale. Magistrale il Prosperi, con L’Italia s’è desta. Senza dir nulla della trama, vale citare il momento in cui il regista Mascambruno spiega l’idea del suo film, in cui mille volontari avrebbero vinto l’esercito partenopeo forte di oltre centomila uomini. Quando gli dicono «lei fa sconfiggere questo po’ po’ di esercito da mille volontari armati di spingarde?», lui risponde: «Lo so, può sembrare inverosimile». La realtà, allora, sembra più incredibile di qualsiasi finzione letteraria. Ucronìa perfetta. Leggendo questi Altri Risorgimenti non possiamo non riconoscere quanto la nostra storia sia dipesa da mille piccoli anelli perfettamente concatenati tra loro. Sarebbe davvero bastato un nonnulla per far andare le cose diversamente. Non sempre, in questi universi paralleli, ci saremmo trovati a stare meglio. Nel complesso, questo libro piacevole e originale onora l’unità d’Italia più di tanti altri perché ci ricorda che, in fondo, siamo fortunati a vivere in questo Belpaese così com’è.

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IL BORGHESE

SCHEDE Mario Benedetto L’Italia di K Aliberti Ed., 2011 - pp. 119 - € 13,00 Gatto sardo, gestore dell’ordine pubblico dalla mano pesante, irrefrenabile Picconatore, coraggioso revisionista. Francesco Cossiga è stato uno dei protagonisti indiscussi, tra luci e ombre, della Prima e della Seconda Repubblica. Per trentacinque anni è stato testimone del destino italiano. Il saggio L’Italia di K, scritto da Mario Benedetto, giornalista e membro dell’Aspen Institute, è il ritratto di un giovane appassionato di politica, centrato sullo spirito riformista del politico sassarese. L’autore racconta le intuizioni attraverso le quali Cossiga, interpretando in maniera costruttiva il ruolo che la costituzione assegna al Quirinale, all’inizio degli anni novanta contribuì in maniera determinante all’evoluzione verso l’attuale sistema politico. L’Italia del pentapartito fu spazzata via da Tangentopoli e dall’elezione diretta dei sindaci, consumata dai malvezzi di un ceto politico preparato quanto arrogante, ma una spinta rilevante arrivò dalle sferzate del Colle abitato da Cossiga. Benedetto sottolinea come il presidente emerito fosse un sostenitore della «Grande Riforma», di un rinnovamento del rapporto tra politica e cittadini, di una svolta decisionista dell’esecutivo (poi avvenuta con la sostanziale elezione diretta del presidente del Consiglio, indicato sulla scheda elettorale delle elezioni politiche). Cossiga era un politico molto amato dai giornalisti, in grado di donare con una chiacchierata pillole di saggezza popolare sardista e acute analisi politologiche, richiami pop e dissertazioni filosofiche. L’Italia di K è un testo interessante ma parziale, limitato al ruolo del leader sardo dagli anni novanta in poi, non trattando il vissuto politico che portò una parte larga della gioventù italiana a deformarne il cognome nelle scritte sui muri, come risposta a una interpretazione materiale e spesso ultrareazionaria dell’ordine pubblico in senso stretto. Strenuo sostenitore dei movimenti indipendentisti, con particolare sensibilità

Gennaio 2012 per la lotta irredentista del popolo basco, resta un personaggio ricco di sfaccettature e contraddizioni. Da presidente del Consiglio, nel 1980, fu il primo a indicare la pista «fascista» per la strage di Bologna, salvo il 17 marzo 1991 fare una retromarcia di cui bisogna riconoscergli l’onesta intellettuale. Nel rivedere il giudizio sulle responsabilità della bomba alla stazione emiliana, interrogato dall’onorevole missino Giuseppe Tatarella, Cossiga argomentando così il suo abbaglio, svelò il meccanismo che animava la macchina del fango usata contro il Movimento sociale italiano: «Io ritengo che il giudizio da me espresso fu frutto di una errata informazione specifica, di una insufficiente comprensione della cultura e della dottrina della sicurezza e di intossicazione». E aggiunse: «Si era instaurato l'assioma stragi=destra. (…) Era un certo modo di fare a tesi le inchieste penali che non permetteva di conoscere la verità. L' intossicazione invece era dovuta al fatto che allora trionfava, ben dissimulata, una cultura politica e storica che si dichiarava democratica ed era soltanto invece una subcultura elitaria appartenente a forti lobbies politicofinanziarie. Sono stato fuorviato e allontanato da una schematizzazione destra-sinistra e intossicato da questa subcultura. Ho sbagliato e quando sbaglio sono abituato a chiedere scusa. A chi devo chiedere scusa? Onorevole Tatarella, lei è l’unico al quale posso chiedere scusa perché qui lei rappresenta la destra: io, Francesco Cossiga, ex ministro dell’Interno, ex presidente del Consiglio, le chiedo scusa». Tatarella replicò così: «Ne prendo atto». MICHELE DE FEUDIS Franco Palmieri Sommossa - La Piazza contro la Democrazia Bietti Ed., 2011 - pag. 224 - € 17,00 Per la serie «certi dibattiti non finiscono mai», il saggio storicosociologico Sommossa - La Piazza contro la Democrazia di Franco Palmieri rievoca con dovizia documentaria i fatti del luglio 1960 di Reggio Emilia e Genova. Nel luglio di quell'anno un esponente della sinistra dc, Ferdinando Tambroni, porta in Parlamento un monocolore democristiano con l'appoggio esterno, cioè senza incarichi ministeriali, del MSI di Giorgio Almirante. I tempi non

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erano maturi; come dire che certe pietanze anche se buone non sono commestibili grazie al cuoco ma dipendono dalla maturità e dal gradimento di chi doveva consumare il piatto. Il lungo dopoguerra che si avvia e costruisce il boom economico che tanti segni di qualificazione sociale portò nelle case degli italiani, sul versante del dialogo e dello scambio e confronto delle idee rimase ancorato alle contrapposizioni delle origini, quel lungo periodo di «guerra civile» che dal 25 aprile 1945 al giugno dell'anno successivo, fu teatro di vendette culminato nella zona della Bassa reggiana nota poi come «triangolo della morte». Quella convergenza DC-MSI scatenò «la piazza»; ma i moti protestatari spontanei riescono se dietro c'è una regia che ne prepara le strategie e i fini. Tambroni ritirò il suo governo poche settimane dopo. Il libro si sviluppa su due linee parallele una della cronaca politica narrata attraverso i documenti dell'epoca e l'altra che fa rivivere il quadro culturale di quel fervido decennio, i Cinquanta, sotto molti aspetti contraddittorio eppure fervido di novità. Reggio Emilia, capitale del «triangolo», è ferma nella nostalgia resistenziale sulle cui ricorrenti apoteosi il PCI costruiva il suo consenso popolare servendosi della capillare proliferazione sul territorio delle Case del popolo. È grazie a questa mossa politica culturale e di conseguenza ideologica, che la risposta della militanza di sinistra è non soltanto compatta ma irriducibile e violenta e scende in piazza per scardinare il governo «fascista» dal Parlamento. Più che un'analisi politica appare oggi molto più congeniale all'interpretazione dei fatti tragici di quei

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IL BORGHESE giorni - cinque morti a Reggio scenari di guerriglia urbana a Roma, Genova, e in altre città italiane - riconsiderare la delusione subita dal Patto di unità e d'azione PSI-PCI-NenniTogliatti - per l'esito a favore della DC nello scontro elettorale del 18 aprile. Perciò il libro si sofferma ad inquadrare i risvolti culturali di un'epoca in cui tutto il contributo portato dalle avanguardie che operarono in Italia nel cinema, nella letteratura, nelle arti e nella musica - dal Futurismo alla rivoluzione architettonica del Ventennio - resta soffocato ed emarginato da una cultura facilitava che chiedeva prima il consenso e poi elargiva uno strumentale riconoscimento. Tanto è vero che se i consumi materiali sono italiani, quelli delle novità culturali arriveranno dalla Francia con la Nouvelle Vague, dalla contestazione letteraria degli Angry man di Osborn, dai beatniks del Big Sur californiano. Così, mentre da una parte si snoda il racconto della piazza che prefigura nei suoi esiti e modi quelli dei futuri black bloc, emerge un'ampia e «magistrale rappresentazione» - come ha scritto Cesare Cavalleri su Avvenire -, resa attraverso una ricca citazione tratta da i romanzi, dai film, da nuove versioni critiche e revisioni storiche mai irretite dalla dominante impostazione strumentale della cultura di sinistra dell'epoca. Completano il lavoro di Palmieri una utile appendice storicocronologica dei Cinquanta, una biografia e una filmografia che ripropone titoli importanti, come Legge di guerra di Paolinelli, I Delfini di Maselli, o del romanzo di Giose Rimanelli Tiro al piccione. Un libro argomentato e coraggioso che se condanna la violenza della «Piazza» sostiene sempre la legittimità della protesta, linfa vitale delle democrazie. VALERIO DE LILLO

77 sta e nel suo testo fa a pezzi ogni banalizzazione dell’idea fascista. D’altra parte, si tratta di racconti, cinque per la precisione, ragion per cui la lettura risulta notevolmente alleggerita da un incedere rapido e vivace. Cinque racconti per raccontare «il rapporto l’Uomo e l’Idea», in una definizione che osiamo trafugare ad un giovanissimo consigliere comunale, Roberto Rizza, che ha entusiasticamente accolto la presentazione del libro in terra calabra. L’opera, per ammissione dello scrittore, è una raccolta in cui la fantasia tiene insieme storie vissute in prima persona, storie fatte proprie e storie condivise da persone vicine: dall’ausiliaria Gina Romeo, protagonista del terzo racconto, «Il Manifesto», alla «puttana Alima», che figura nel secondo. Gina, che nel racconto, si staglia vittoriosa rispetto ad un Ludovico, eterno indeciso, in fondo poco coraggioso e con scarsa forza di volontà, consapevole del proprio dovere ma troppo debole per perseguirlo, finito suo malgrado dietro una scrivania importante a rimpiangere le cose non fatte. Alima, che invece vien fuori alla fine di una vicenda in cui è sapientemente mescola la storia, quella grave, pesante e politicamente scorretta, qual è la storia del colonialismo fascista, ad una storia d’amore altrettanto scomoda, vissuta tra un giovane italiano, giunto in terra d’Africa per imparare a non sprecare la sua vita in un letto, ed una etiope insieme alla quale sfida le leggi di difesa della razza. Lei, che incarna contemporaneamente l’Africa, la Passione, la Terra e la Donna.

Mario Michele Merlino Atmosfere in nero Settimo Sigillo Ed., 2011 Pag. 128 - € 14,00 Il luogo comune non abita da queste parti. E le Atmosfere in nero, titolo del nuovo libro di Mario Michele Merlino, potrebbero in verità essere d’ogni colore. Rosse magari. Perché no. «Il titolo, del resto, è provocatorio, visto che dà l’idea di qualcosa di tombale», spiega nel presentarlo l’autore, che di starsene buono buono in una casella proprio non ci

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78 «Un uomo guarda il confine del suo mondo spesso insofferente e come fosse una prigione, ma la sua donna e la sua terra sono il rifugio, rifugio d’anime». Una donna quasi stilnovistica se non fosse per la forte carnalità con cui lega Marco, il protagonista, in un racconto in cui l’Africa torna ad essere «lavacro purificatore di ogni spirito d’avventura fissato sui romanzi di Salgari, è la porta dischiusa dove ogni fantasia appare realtà, grembo materno in cui ridestare il corpo e i suoi istinti primari, primitivi forse ma anche più liberi e spontanei» ed, al tempo stesso, «è l’umiliazione della sconfitta ad Adua e riscattata con le armi ed ora con il lavoro. Il gladio e l’aratro». Un racconto che termina con l’avvento degli inglesi, che spazzano il tricolore e si portano via Marco. «Non una parola, non una lacrima. Lo guarda dritta negli occhi e lui la guarda, raddrizzando la schiena e sorridendole. L’una è conforto per l’altro, l’altro è conforto per lei. Fiera e sprezzante verso i vincitori, i nuovi signori della sua terra, verso la sua stessa gente, ella leva il braccio destro nel saluto che conosce appartenere agli uomini della stessa razza del suo uomo, rigida nell’esile corpo e ferma nell’animo forte. È l’ultima immagine che Marco porterà con sé». Un’altra donna vittoriosa, un’altra donna fascista - seppur inconsapevolmente quest’ultima - che, come l’ausiliaria Gina, rimane donna fin nel profondo senza mai risultare sottomessa. Un’immagine, quella conclusiva, da cui si passa bruscamente ad un mondo che, sessant’anni dopo, ci riporta ad un’Alima, giovane etiope, discendente della protagonista, che finisce in Italia a fare la prostituta rimpiangendo la sua terra e, implicitamente, facendo quasi rimpiangere il suo passato. «L’idea coloniale non era solo un’idea di conquista», commenta Merlino, «e noi possiamo anche cospargerci il capo di cenere e lanciarci in piagnistei su quanto siamo stati cattivi. Ma, oggi che siamo buoni, che cosa stiamo facendo per queste masse di diseredati, cosa offriamo loro se non rimpinguare la linfa della delinquenza invece di portare in quei paesi gli strumenti per uno sviluppo localistico?» Una storia in qualche modo collegata al quarto racconto, «Il silenzio della terra», in cui un teso ma commovente rapporto tra padre e figlio

Il Borghese - gennaio 2012 pagina 78

IL BORGHESE disvela cautamente il senso di un silenzio carico di significati. «In Etiopia tutto è più lento. Non ci sono orologi a scandire i minuti né i campanili delle chiese a ricordare ogni quarto d’ora. C’è ancora il sole e le ombre della sera, il vento e la pioggia a disegnare le stagioni». È la conclusione del racconto di Alima. «Adesso cominciavo a capire il silenzio della terra, il suo silenzio, il silenzio degli uomini abituati da secoli a dialogare attraverso i gesti quotidiani con la natura e i frutti e le difficoltà, che essa stabilisce di distribuire in un disegno intraducibile. Di fronte ad essa non servivano lunghi discorsi, ma l’offerta tacita e dura». È invece pressoché la conclusione del quarto racconto, momento di riconciliazione tra il padre ed il figlio, tra l’uomo e la natura e, soprattutto, tra l’uomo e se stesso. Nessun senso di colpa per il vivere cittadino, chiarisce Merlino, ma senz’altro, implicitamente, nella figura del padre, ex combattente della RSI, la consapevolezza, sottolinea ancora l’autore, che «dietro le armate alleate si celava l’assalto a quei valori rurali che il Fascismo voleva far propri anche della città e diffondere nella società industriale. Un richiamo, insomma, all’eterna guerra del sangue contro l’oro, pur ricordando che non è necessario nell’esser vinti piangersi addosso». «Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti», è d’altronde l’omaggio a Marguerite Yourcenar in apertura dell’ultimo racconto, «Il Maestro di Scuola», che il nostro spiega esser l’unico finora mai scritto al computer, ma prima di tutto il racconto che «gli amici ritengono più bello, forse perché, essendo romagnolo, ci ho messo un po’ di animus campanilistico», confessa lo scrittore. Sta di fatto che la chiusa del libro regala attimi di disorientamento ed entusiasmo ad un tempo con la Rivoluzione tradita a fare da protagonista implicita e la violenza politica (reciproca) degli anni movimentisti del Fascismo a ricordare le basi di un regime incompiuto, con repubblicani ed anarchici, interventisti e socialisti e varia umanità a raccontare il Ventennio a partire dall’idea frenetica e primigenia che portò dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla Marcia su Roma. Un racconto che è un punto di vista sul Fascismo nonché espressione della visione del mondo dell’auto-

Gennaio 2012 re, anarco-fascista per autodefinizione, convinto che dalla Marcia su Roma a Valle Giulia, rispettando gli insegnamenti di Robert Brasillach, rimane valido un monito: quello di «rimanere fedeli al sentimento fondamentalmente libertario di chi, dopo l’8 settembre, parte senza speranza e certezza di vincere, consapevoli che la dimensione spirituale e la dimensione libertaria possono e devono coabitare». EMMANUEL RAFFAELE Giammaria L. Ricciotti Anticapitale (La lotta di classe: guerra tra Capitale e Lavoro, come guerra tra Libertà ed Uguaglianza) La Stamperia, Rimini, 2011 Pag. 95 - s.p. L’Autore ritiene che Libertà ed Eguaglianza - piuttosto antitetiche e conflittuali - possano trovare naturale composizione e opportuna conciliazione nell’insegnamento cattolico, utile e necessario alla pace sociale, nonché all’attenuazione d’aggressività e conflitti. Respinge sia l’individualismo (espressione d’egoismo) che il collettivismo. Questo - causato da invidia, rancore, rabbia e frustrazione - genera «nomenklature» di burocrati, privi di merito, orwellianamente «più uguali degli altri». Liberismo estremo e comunismo sono dottrine ingiuste, che fanno emergere i furbi e i peggiori; non i migliori, gli onesti, diligenti, capaci, preparati. Invece Hayek vede l’emersione dei peggiori solo nel totalitarismo collettivista (F. A. von Hayek, La via della schiavitù, Rusconi 1995, pp. 190-207 - opera ristampata da Rubbettino). Il corporativismo teorizza la società interclassista. Ricciotti è un avvocato umanista, scrittore, pubblicista: il suo libro è chiaro, assai curato, ben documentato e di agevole lettura. Conduce un intenso e appassionato dialogo critico con fondamentali apporti conoscitivi della dottrina sociale della Chiesa, di Karl Marx (definito ideologo più che filosofo e scienziato), Adam Smith, John Locke, David Ricardo, Max Weber, Werner Sombart, Ayn Rand e altri. Vengono citati numerosi brani dottrinali tradotti - alcuni dei quali espressi anche in lingua originale (latino, inglese) -. L’opera costituisce un contributo scientifico affascinante e di notevole spessore: merita d’essere ristampata da un grande editore, per la più ampia diffusione. GIANFRANCO NIBALE

domenica 25 dicembre 2011 11.25 Colore campione Magenta Ciano Giallo Nero 1


Gennaio 2012

IL BORGHESE

MARCO BIAVATI J Jo penzo cco’ la testa, co’ la fronte, Sto composta, nun baccajo, nun strillo, Stillo ‘na lacrima de coccodrillo E torgo ar penzionato puro er ponte. È goccia d’acqua scenne giù dar monte, Nun se incanala drento de ‘n cavillo, Ma pe’ la scenza che n’è più un busillo, Va senza intoppi a ingrossà la fonte. a cura di Carla Piccioni

ALBA ANGELUCCI Due farfalle Due farfalle si incontrarono si guardarono negli occhi e scoprirono un po’ di tristezza invece della spensieratezza che gli altri vedevano in loro. Si unirono non si sa per quanto tempo, ma nei momenti trascorsi insieme furono spensierate e felici, come non mai, come d’altronde è nella loro natura. Hanno svolazzato a destra e sinistra, ma alla fine del loro viaggio, come ogni farfalla, si sono posate su un fiore ed hanno schiuso le ali per sempre.

DINO ARTONE Ironia “Lascia fare a me che me ne intendo” disse il Tempo. “Passerà tutto nel salterio della gloria, dove bambole sghembe si faranno vive e sorgeranno arpe da fili di ruggine e ogni altro ridicolo si farà serio”. E l’Artista già illuso: “Oh dimmi, ma quando? ” E il Tempo alle corte: ”Quando di maestria il gioco si farà ironia, fino alla morte”.

‘Sta fessuretta c’ò ched’è ‘na jota È quello ch’arimane de lorica, D’esoschertro, der ceffo mio da idjota Da arcosavuro che cià la fica. La pelle da gaviale mia se dota Ebbè così de n’urterior vescica.

GIORGIO BOLLA Poesia di corte Alati asini circondano le mie vanità o strade sbiancate dalle corse dei lunari sogni davanti al sole del tempo. Si affastellano allora campioni di carrozze di beltà nel pomeriggio di bianche torri, su fiumi di ali davanti le lagune fiorite dal canto indaco e spudorato fiore garbato incontro delle lune e dei sogni, vene di cervo in rossi barbagli di pietra. MARIO BRACCI Isola del Giglio Agosto 2011

Isola verde profumata di mirto circondata da pietre turgide come membra di adolescenti sul monte dalle pietre sparse come case si leva solitario il pianto di un violino l’ocra violento del tramonto spenge il verde e l’azzurro mentre si accendono i sogni piccola isola cornucopia di ricordi

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80 LUCA DE RISI Capita a volte che un senso desertificante dilati lo spazio … che tutto intorno rifulga di luci sconosciute …. che i sogni si involino al levarsi di richiami allontanati … che la mèta si stagli all’orizzonte nello scintillio di un diamante Capita a volte

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IL BORGHESE

LICIO GELLI Di sabbia sottile (A Wanda… poesie, La Rosa Ed,, 1992)

Appoggiava la fronte alla montagna, batteva le dita sui tetti, mordeva furioso gli strumenti terrestri. Spingeva le vele, farfalle impazzite, verso gole bianche di sabbia sottile, strappava i colori, gli sguardi, i pensieri, l’ombra fuggiva nei labirinti contorti. Un’amaca vuota piangeva nel verde il suo dondolare.

MASSIMO DE SANTIS Una storia Uscivano dal mio cuore parole ardenti che facevano bruciare i vogliosi fogli, ansiosi di raccogliere la mia rabbia interiore. Man mano che scrivevo il mio dolore, il rosso cupo del mio cuore si confondeva con il fuoco delle parole che scaturivano dalla minuta penna. Una passione ancestrale scaturiva dal cuore, indomita e pressante. Le nubi della ragione si addensavano cariche di pensieri opprimenti sul cuore palpitante e stanco. A conforto di ciò, una matita e un foglio; a raccogliere fiumi d’inespresso amore.

QUINTINO DI MARCO Amore con la “A” minuscola Io sarò sempre innamorato di te perché ti amo, semplicemente, come sei. Adoro i riflessi del sole sulla lacca sui tuoi capelli, mi piace accarezzare la crema idratante sul tuo viso, perdermi nel rossetto che copre le tue labbra e stringere la leggera consistenza delle spalline. Sì, sarò sempre innamorato di te perché ti amo come sei, semplicemente.

TIZIANA MARINI NEL VENTO PINNACOLI DI DISPERATA BELLEZZA SCORGO COME TRALICCI NEL VENTO E ASSAPORO UN’ADAMANTINA DESOLAZIONE NEI CONTRASTI STRIDENTI DELL’ESSERE COME POSSO SENTIRE LA GIOIA DELL’INFINITÀ SENZA CHIEDERMI PERCHÉ IO VIVO COSÌ BREVEMENTE? SE TUTTO QUESTO HA UN SENSO, SORPRESA BEVO LE ORE.

GABRIELE RONCO Quando mi fermo cado in me stesso lontano da ogni cosa che odora di vita. Settembre 2008

Per proporre poesie per questa rubrica (max 20 versi), spedire una email con nome, indirizzo e numero di telefono a: luciano.lucarini@pagine.net con la dicitura «per il Borghese»


L’albero delle mele marce (60 anni di politica e di malapolitica in Italia) prefazione di Sforza Ruspoli

John O’Sullivan

Loris Facchinetti

Carlo Taormina

Il Presidente, il Papa e il Primo Ministro

Il manifesto umano

“Uccidete il cane italiano”

La Destra invisibile prefazione di Girolamo Melis prefazione di Stefano Amore postfazione di Salvatore Santangelo

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Fabio Torriero Federalismo tricolore prefazione di Francesco Aracri, Adriana Poli-Bortone, Raffaele Volpi pagg. 154 • euro 15,00

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traduzione di Vittorio Bonacci

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Filippo de Jorio

Michele Giovanni Bontempo

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Lo Stato sociale nel “Ventennio”

La verità sulla morte di Mussolini

Ezra Pound

(vista da un bambino) Nota critica di Giuseppe Giuliani Aramis

E LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

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ISSN 1973-5936


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