il Borghese - 2012 - n. 10

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ISSN 1973-5936 “Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”

PA D RA IS S TA SI TO TI

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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 10 - OTTOBRE 2012 - € 7

Salviamo i nostri «marò» del «San Marco»


pagg. 190 • euro 16,00

prefazione di Gennaro Malgieri

pagg. 290 • euro 17,00

Evita Perón,

Regime Corporativo (1935 - 1940)

Populismo al femminile Invito alla lettura di Carlo Sburlati

A cura di Gian Franco Lami

pagg. 126 • euro 14,00

pagg. 114 • euro 15,00

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Julius Evola

prefazione di Silvio Berlusconi

pagg. 150 • euro 18,00

Julius Evola Rassegna Italiana (1933 - 1952)

Jean Madiran

Giuseppe Prezzolini

Saverio Romano

“L’accordo di Metz”

Intervista sulla destra

Democrazia apparente

Tra Cremlino e Vaticano introduzione di Roberto De Mattei

introduzione di Fabio Torriero

pagg. 110 • euro 12,00

A cura di Gian Franco Lami pagg. 180 • euro 16,00

Via G. Serafino, 8 - 00136 Roma - Tel. 06/45468600 - Fax 06/39738771

Marine Le Pen Controcorrente prefazione di Fabio Torriero traduzione di Anna Teodorani

A cura di Alfonso Lo Sardo

traduzione di Milena Riolo

pagg. 210 • euro 18,00

pagg. 96 • euro 15,00

Filippo de Jorio

Michele Giovanni Bontempo

L’albero delle mele marce

Lo Stato sociale nel ventennio

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Venti necrologi fuori tempo

pagg. 110 • euro 14,00

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NOVITÀ Eccentrici, Eretici, Atipici

Giuseppe Brienza

Rivista Quadrimestrale di Geopolitica e Globalizzazione diretta da Eugenio Balsamo

Prefazione di Fabio Torriero

pagg. 122 • euro 13,00

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pagg. 174 • euro 16,00

“Nuova Destra, nuova Europa”

Rivista trimestrale di storia diretta da Roberto de Mattei

Antonio Razzi Le mie mani pulite

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Stato amico o nemico?

traduzione di Vittorio Bonacci

Italo Inglese

NOVITÀ NOVITÀ

Come cambierò la Spagna

Alain de Benoist

IMPERI

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prefazione di Marcello Veneziani

Paul Kirchhof

Una rivista per nuove sintesi culturali diretta da Fabio Torriero

NOVA HISTORICA

pagg. 228 • euro 18,00

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Aforismi del dissenso

Mariano Rajoy Brey

LA DESTRA ITALIANA

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Fausto Gianfranceschi

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Lucio Dal Buono Dall’Atomo all’anima

(60 anni di politica e di malapolitica in Italia) prefazione di Sforza Ruspoli

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Saverio Romano “La mafia addosso” Intervistato da Barbara Romano

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Ottobre 2012

IL BORGHESE

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SOMMARIO DEL NUMERO 10 Mensile - Anno XII - Ottobre 2012 - € 7,00 Piccola Posta, 2 Se ci sei batti un colpo, di Claudio Tedeschi, 3 Programmi rivoluzionari, di Franco Jappelli, 5 L’Italia ha già dato, di Riccardo Paradisi, 6 Tutti i nodi vengono al pettine, di Filippo de Jorio, 7 Le scelte della Destra, di Carlo Vivaldi-Forti, 10 Dove va l’Italia?, di Adriano Tilgher, 11 Nel «Pdl» si riflette, di Gennaro Malgieri, 12 La Destra ed i «lemming», di Gianfranco de Turris, 16 Passato, presente e futuro, di Mauro Scacchi, 19 Ipocrisia parolaia, di Adriano Segatori, 21 Caro Amico ti scrivo …, di Romano Franco Tagliati, 22 Affarismo e clientelismo, di Adalberto Baldoni, 23 Di certo, va rivista, di Nazzareno Mollicone, 25 E l’Europa affonda, di Mimmo Della Corte, 26 La scoperta di «Dicembre», di Gigi Moncalvo, 31 Tematiche su cui lavorare, di Franco Rossi, 32 La fine dello Stato, di Gilberto Borzini, 33 Primo test per le politiche, di Giuseppe Bua, 34 Democrazia virtuale?, di Astrid Peralta, 35 I misteri della jungla nera, di Daniela Albanese, 36 Un freddo autunno, di Alessandro P. Benini, 38 Non siamo più cittadini, di Antonio Saccà, 39 Chiudere e tassare, di Hervé A. Cavallera, 40 In difesa del Latino, di Alessandro Cesareo, 41 Precariato, via senza uscita, di Giovanna Omiccioli, 42 Se non sono islamici, di Alfonso Piscitelli, 43 Un liberale classico e l’euro, di Riccardo Scarpa, 44 Il mondo che verrà, di Mino Mini, 45 Nascondere i mali sistemici, di Emmanuel Raffaele, 47 Istigazione al suicidio, di Antonella Morsello, 48 Il pane in borsa, di Alfonso Francia, 50 La bolla «Apple», di Mimmo Lo Perfido, 51 In crisi anche il «Brics», di Franco Lucchetti, 52 «Jihad» tra sufi e salafiti, di Ermanno Visintainer, 56 «Dirty Harry» ed il vecchio Bill, di Andrea Marcigliano, 57 La fine di un illusione, di Francesco Rossi, 58 La Spagna nell’incertezza, di Gianpiero Del Monte, 59 L’angolo della poesia, 79

IL MEGLIO DE «IL BORGHESE»

Direttore Editoriale

LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile

CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net HANNO COLLABORATO Daniela Albanese, Adalberto Baldoni, Alessandro P. Benini, Maurizio Bergonzini, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello, Gilberto Borzini, Giuseppe Brienza, Giuseppe Bua, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Michele De Feudis, Filippo de Jorio, Gianfranco De Turris, Gianpiero Del Monte, Mimmo Della Corte, Alfonso Francia, Agata Fuso, Roberto Incanti, Franco Jappelli, Aldo Ligabò, Michele Lo Foco, Mimmo Lo Perfido, Franco Lucchetti, Gennaro Malgieri, Andrea Marcigliano, Mino Mini, Nazzareno Mollicone, Gigi Moncalvo, Antonella Morsello, Giovanna Omiccioli, Riccardo Paradisi, Astrid Peralta, Alfonso Piscitelli, Emmanuel Raffaele, Riccardo Rosati, Francesco Rossi, Antonio Saccà, Mauro Scacchi, Riccardo Scarpa, Enzo Schiuma, Adriano Segatori, Giovanni Sessa, Romano Franco Tagliati, Adriano Tilgher, Fernando Togni, Leo Valeriano, Domenico Vecchioni, Ermanno Visintainer, Carlo Vivaldi-Forti

«C’era una volta … », di Gianna Preda Il governo «cumulista», di Mario Tedeschi Una terapia sbagliata, di Gastone Nencioni

LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Paolo Ferrero: Soltanto a Sinistra la salvezza del Paese, a cura de «il Borghese», 14 Erasmo Cinque: Dobbiamo voler bene a chi vuole bene all’Italia, a cura de «il Borghese», 18 Claudio Mutti: Oltre il nazionalismo, per difendere il «soggetto» Europa, a cura di Michele de Feudis, 28 Consuelo Cannas: Chi vincerà la guerra in Cina, a cura di Daniela Binello, 53 Mary Pace: La verità su bin Laden, a cura de «il Borghese», 54 Paolo Genovese: Quando il cinema è «maturo», a cura di Roberto Incanti, 69 Italo Inglese: Eccentrici, eretici, atipici, a cura di Agata Fuso, 75

TERZA PAGINA La Destra e la bestia, di R. Scarpa, 61-Tutto per l’Italia, in cambio solo calunnie, di E. Schiuma, 62-Sempre avanti, di F. Togni, 63-Il sogno di una Capitale mondiale, di R. Rosati, 66

IL GIARDINO DEI SUPPLIZI «In Onda» tira una «brutta aria», di L. Valeriano, 67-Il mercato cinematografico, di M. Lo Foco, 68-Andiamo al cinema, di A. Ligabò, 70

LIBRI NUOVI E VECCHI Eva Peron e la Terza via peronista, di D. Vecchioni, 71-Una concezione nuova della vita, di G. Sessa, 72-Librido, di M. Bernardi Guardi, 74-Schede, di AA.VV., 76 Le foto e le vignette che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio.

Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma

tel 06/45468600 Fax 06/39738771 em@il luciano.lucarini@pagine.net PAGINE S.r.l. Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000 Stampato presso Mondo Stampa S.r.l. Via della Pisana, 1448/a 00163 Roma (RM) Per gli abbonamenti scrivere a: IL BORGHESE Ufficio Abbonamenti Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma


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IL BORGHESE

Piccola Posta BIBÌ E BIBÒ Bersani-Grillo. Trovo squallido e miserevole che un segretario di partito, rappresentante gran parte di italiani, a 60 anni compiuti, si metta a sproloquiare dal palco nei confronti di Grillo. Ascoltando i due contendenti, lo spettacolo è sempre più deprimente: e questi ci dovrebbero governare? Il successo di Grillo è dovuto ai tanti Bersani sparsi ovunque nella miriade di partiti che nascono come i funghi, a destra, a sinistra, al centro, fatti di alleanze impensabili non fosse altro che per coerenza e dignità personale. Il profumo del potere inebria più della droga. MIRANDA REMINI A DESTRA SPIRITI LIBERI Sono un abbonato de il Borghese, dai tempi del senatore Mario Tedeschi, gli articoli di Gianna Preda mi affascinavano; ero simpatizzante del MSI. Mio zio era il segretario di Filippo Anfuso e sono stato allevato con il male «nero». Noi siamo gente sconosciuta, sempre presente al richiamo della Patria, camerati «idioti» che non cambiano mai casacca. Siamo spiriti liberi, non siamo sgabelli di nessuno! Le grandi firme fanno gola ai giornali e ai direttori: chiamarsi Fini come tanti altri cretini fa scoop. Noi popolo fedele siamo tuttavia pronti alle sacre «marce», affondiamo nella nostra economia, ci isolano per le idee, ma non siamo servi di nessuno. Oggi un Duce si sceglierebbe gli apostoli fra gli sconosciuti non fra le prime donne, che poi risultano mignotte! GIANCARLO LO FARO Catania

CHI DARÀ I CALCI AI POLITICI? Noto la copertina di luglio 2012 in cui vengono presi a calci i politici. I cittadini per prendere a calci i politici devono eleggere dei politici che siano in grado di farlo e non siano peggiori. Un eventuale dittatore non darebbe garanzie, dato che abbiamo lasciato al loro posto, per molti anni, politici che ora lamentiamo essere un disastro. La stessa definizione di destra appare confusa. Intendiamo per destra i conservatori in opposizione ad una sinistra che era marxista e che ora non esiste più? Oppure ci troviamo già in una seconda fase del socialismo, quale evoluzione del capitalismo, come aveva previsto Marx e che non si ritiene più di citare? Spero di trovare nella rivista qualche risposta ai problemi che mi pongo e che non si cada nell’equivoco di cercare di trascinare dall’alto alcuni ingenui lettori perché sarebbe una battaglia persa in partenza. MASSIMO CERACCHI Ostia - Roma QUESTO GOVERNO PEGGIO DEL TERREMOTO Non si può più tacere: sin dal loro insediamento, i componenti di questo esecutivo, NON eletto dal popolo, hanno dimostrato di essere soltanto dei mistificatori, ipocriti, megalomani e demagogici! Col sisma del 29 maggio u.s., fu annunciato dai sismografi, un grado di 5.3 della scala Richter, mentre in realtà l’evento fu certamente più del 7° grado; questo per diminuire la portata dell’evento medesimo e negarci eventuali risarcimenti! La Lombardia è stata declassata come terremotata di serie B, mentre la provincia di Mantova è stata devastata per più della metà! Vedi l’ultimo Decreto del Consiglio dei

Ottobre 2012 Ministri, fondi terremoto, a noi solo il 4 per cento, l’1 per cento al Veneto e il 95 per cento all’Emilia Romagna, una vera porcata, una scelta inaccettabile! I tagli veri sono i 67 partiti emersi, coi rimborsi elettorali da restituire, i tagli degli enti inutili, i tagli dei parlamentari da subito. Mandiamo a casa questi sfaccendati; questi sono i veri tagli da eseguire. ADOLFO SALA Moglia I FURBI SONO QUELLI CHE FANNO LE LEGGI Signor Monti, Lei non mi rappresenta, così come la moneta che lei sostiene con gravosi balzelli. Il problema riguardo l’evasione fiscale è da rivolgere agli avvocati che siedono numerosi in parlamento, i quali nello svolgimento della libera professione non sempre esplicano serietà nell’applicare le leggi dello Stato riguardo il fisco. Chi conosce le leggi e non le applica come può legiferare? La politica si mantiene con rimborsi elettorali finanziati da chi le tasse le paga. Per cui le tasse le pagano sempre i soliti noti e non i furbi che lei furbescamente difende. Per dare una vera credibilità al suo mandato sarebbe stato meglio fin da subito avviare una seria riforma del fisco. Meno tasse e pene severe per gli evasori. In una Palermo dove a suffragio universale viene eletto un sindaco che dichiarò Falcone un mafioso, il fisco viene scambiato per fiasco, cioè quello del suo governo che si vorrebbe riproporre. ALESSANDRO CAMMERIERI Terni

Le lettere (massimo 10 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net

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IL BORGHESE

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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 10 - OTTOBRE 2012

SE CI SEI, batti un colpo di CLAUDIO TEDESCHI Roma, 17 Settembre 2012 NORIMBERGA, 1945. I vincitori della II guerra mondiale processano i capi della Germania sconfitta. La stragrande maggioranza degli imputati si difende affermando di aver ubbidito agli ordini dei superiori e di non aver fatto altro che applicare le leggi varate dal governo legittimo. Le stesse parole che Attilio Befera, Direttore di Equitalia, continua a ripetere: «È il Parlamento che ci dice come comportarci, quindi non facciamo altro che ubbidire agli ordini della politica». Befera, recentemente, presentando il nuovo redditometro, ha dichiarato: «Il nuovo strumento servirà a scovare gli evasori confrontando il reddito dichiarato con il tenore di vita, letto attraverso una serie di voci ‘spia’: tra queste anche le spese per la colf, il cellulare, l’asilo o l’università dei figli». Equitalia. Oggi è come parlare della Gestapo o del Kgb. Il terrore corre sulla raccomandata, basta che le Poste consegnino una lettera con sopra il logo ed il cittadino «normale» comincia a sudare, respiro accelerato da crisi di panico. Già si vede sui treni piombati diretto ad un gulag o lager, per una multa non pagata, per una tassa inevasa. Lo sa il cittadino «normale» chi dobbiamo ringraziare di tutto questo? Berlusconi ed il di lui Ministro dell’economia Tremonti, che nel 2005 vararono la riforma della riscossione, dando all’ente operativo, nel 2007, il nome di Equitalia. Alla nuova struttura furono concessi poteri immensi: avvalersi della Guardia di Finanza, accedere ai dati personali del debitore (alla faccia della «riservatezza»), applicare misure drastiche su beni mobili, ordinare al datore di lavoro di pagare all’esattore le somme dovute dal dipendente/debitore trattenendo 1/5 dello stipendio, saltando l’intervento del giudice, e mettere ipoteche sulla casa anche per debiti di poco conto. I veri colpevoli della attuale situazione, quindi, non sono da ricercarsi all’interno di Equitalia, ma in Parlamento. Fra coloro che, da destra a sinistra, hanno votato queste leggi liberticide. Berlusconi e Prodi, con i loro governi, crearono e potenziarono il Moloc fiscale. Tutti, con esclusione di poche eccezioni, votarono la legge. Tanto con quello che prendono al mese, cosa vuoi che gli frega se intere famiglie finiscono in miseria, piccoli imprenditori si uccidono per debiti, oppure che tutti coloro che finiscono nelle liste di proscrizione della Centrale Rischi o del Crif, sono condannati alla morte civile, per mancanza di lavoro e di credito.

Avete visto Berlusconi, mentre a Venezia si imbarcava sulla nave da crociera Divina, per il viaggio organizzato da il Giornale? Un uomo di oltre settant’anni, gonfio per le medicine, dal volto tirato per il restyling. Lo stesso uomo che aveva dato forfait, per la prima volta, all’annuale incontro con i giovani di Atreju2012. Al centro, a sinistra, sono tutti vecchi, ma non soltanto di età: di vita politica. Da Casini a Bersani, dalla Bindi a D’Alema, da Veltroni a Rutelli. Hanno tutti scambiato il dovere verso lo Stato come la garanzia al posto fisso a vita. Eppure, sono gli stessi che, sotto la guida spirituale di Giorgio I ed operativa del grande «fratello» Monti, hanno massacrato l’Italia e la maggioranza dei cittadini, con tasse, leggi fiscali ingiuste, ed una ignavia politica che serviva loro soltanto a mantenersi il posto in Parlamento, nelle Regioni, nelle Provincie, nei grandi Comuni, negli Enti pubblici, nelle società a partecipazione nazionale e locale. Quello che sta succedendo alla Regione Lazio è la conferma che il castello di carte costruito sul furto della nostra libertà sta crollando. Milioni di euro pubblici finiti nelle tasche dei politici, di destra come di sinistra, viaggi, cene, gettoni di presenza à go-go per tutti. Intanto i cittadini muoiono di fame e di mancanza di lavoro. È di oggi la notizia che si vuole far lavorare più detenuti per reinserirli nella società in maniera ottimale, progetto non realizzabile per mancanza di fondi. Eppure ai cittadini onesti che vivono ogni giorno nella prigione del precariato e dell’insolvenza, perché nessuno ci pensa, magari devolvendo gli stipendi pagati con le nostre tasse? La delinquenza organizzata che gestisce la «fortezza» di Scampia ha tagliato i fondi per soldati e vedette. Sono nati i «co.co.co» all’insegna della spending review nel mondo di Gomorra. Intanto Matteo Renzi, usando le parole di Berlusconi del ‘94, affascina gli orfani berlusconiani; una manovra pre elettorale che sta gettando il centrosinistra nello scompiglio. A meno che il «giovane» Renzi non sia un piano machiavellico di quella sinistra che vuole cambiare tutto per non cambiare nulla. Ed a noi cosa resta? Non abbiamo più nulla, né lavoro, né sicurezza nel futuro. Ma quello che più fa male è che non abbiamo più libertà. Libertà di votare liberamente, tanto anche con le preferenze i candidati li scelgono i partiti. Libertà di lavorare, facendo quello che piace e stimola, contribuendo alla crescita del Paese ed alla sicurezza della nostra famiglia. Libertà di scegliere quale tipo di Europa vogliamo: se quella dell’euro, succube delle banche e della grande finanza; oppure quella delle Nazioni, libere e sovrane, unite nel sogno che fu di tanti uomini e donne morti per questo. Libertà di fare una rivoluzione degna di questo nome, togliendo di mezzo poche migliaia di «padroni» ed i loro sgherri. Libertà, se ci sei batti un colpo.


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IL BORGHESE

IL ROSSO E IL NERO

PROGRAMMI rivoluzionari di FRANCO JAPPELLI CARO Direttore, Ti prego di scusarmi se, ancora una volta, ti scrivo usando la troppo spesso abusata formula della «lettera aperta». Il fatto è che questa formula mi consente di esprimere le mie tesi senza coinvolgere Te e Il Borghese. Non intendo, insomma, dettare - leninisticamente - alcuna linea né, tanto meno, pretendo di avere il monopolio della verità. Del resto, come Tu sai meglio di me, questo giornale sin dai tempi di Longanesi e poi, durante la lunga stagione che vide tuo padre Direttore, è stato sempre una variopinta orchestra polifonica e mai un coro omologato e conformista. Questo per dire, caro Direttore, che eventuali «stonature» sono esclusivamente mie e, nel bene e nel male, sono disposto ad attribuirmene la paternità. La premessa è indispensabile perché, tornando a parlare, come intendo fare, del futuro politico di quel mondo che, per comodità semantica, si usa oggi definire «di destra», ritengo probabile, per non dire inevitabile, che ci siano persone o ambienti che non siano (legittimamente) d’accordo con quanto scrivo. Dopo la pubblicazione, sul numero scorso, del mio articolo «La rivoluzione inizia da Rocca Cannuccia?» in cui motivavo la mia contrarietà al progetto «Ritorno a Itaca», promosso e ideato da Marcello Veneziani, al quale peraltro riconosco la generosità degli intenti e l’onestà intellettuale, ho ricevuto, da numerosi lettori ed amici, molte manifestazioni di consenso e di stima. Per lo più si tratta di persone che, come me, hanno trascorso buona parte della giovinezza militando nelle organizzazioni giovanili del Msi o in quelle extraparlamentari. Circostanza, questa, che personalmente trovo estremamente gratificante e che, sia detto senza enfasi, mi riempie d’orgoglio. Naturalmente non è mancata qualche voce discordante. E di questo, come sempre, me ne sono fatta una ragione. Ritengo tuttavia doveroso fornire alcune spiegazioni che possono contribuire a chiarire il mio pensiero. Io a Itaca non ci vado (e peraltro sono in ottima compagnia, visto che non intendono imbarcarsi né Stenio Solinas né Franco Cardini) non perché detesti la ciurma o i passeggeri, ma semplicemente perché in quel di Itaca si vuole ricostruire la destra. E a me, onestamente, soltanto la parola destra fa venire l’orticaria. Mi spiego meglio: nonostante condivida ampiamente la tesi di Ortega y Gasset per cui «definirsi di destra o di sinistra è uno dei due modi che ha un uomo per definirsi imbecille» non nego che, in determinati periodi storici, la destra abbia avuto un sua dignità culturale e politica, soprattutto per quanto riguarda il pensiero conservatore. Molti di noi, in passato, si sono definiti «di destra». Ma, a mio avviso, si trattava di una semplificazione imposta dalle circostanze. Il mondo era diviso in due blocchi. Da una parte c’era l’impero sovietico, che per noi era la minaccia maggiore, e dall’altra il cosiddetto «mondo libero». L’urgenza era quella di combattere il comunismo. E se il comunismo era «sinistra» era fatale, logico e inevitabile, che noi dovessimo dichiararci «di destra». Ma oggi, dopo la caduta del muro di Berlino, la fine dell’Urss e il

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conseguente delirio neoliberista, sia destra che sinistra hanno perso ogni significato. Il mondo in cui ci troviamo a vivere somiglia, come una fotocopia, a quello del primo Novecento in cui, in un magma informe, ribollivano pulsioni socialiste, nazionaliste, anarchiche e populiste. Come è andata a finire lo sappiamo: dopo la prima guerra mondiale nacquero il fascismo ed il comunismo e il mondo cambiò faccia. Per questo penso che attualmente far rinascere la destra sia come prendere il tram a cavalli nell’epoca dei treni ad alta velocità. E allora? Allora non esistono ricette preconfezionate. Si tratta di vivere il tempo presente, consapevoli che siamo alla fine di un ciclo storico e che dobbiamo essere pronti, senza pregiudiziali ideologiche, ad interpretare quel «nuovo» che probabilmente nascerà da ulteriori sintesi e da inevitabili contaminazioni. Del resto, non fu Nietzsche ad affermare «bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante»? E che dire di quell’antico motto iniziatico che recita «ordo ab caos», l’ordine nasce dal caos? Per non parlare della poetica osservazione di Mao Tse Tung il quale sosteneva che «quando grande è la confusione sotto la volta del cielo la situazione è eccellente». Occorre dunque, a mio avviso, voltare pagina. Ma, per farlo, è necessario aver letto con attenzione i capitoli precedenti e, soprattutto, averne fatto tesoro. Altrimenti si va verso il nuovo soltanto per subirlo e non per pervaderlo con le nostre idee. Non sono quindi d’accordo con quanto ha scritto l’amico Giuseppe Del Ninno su Totalità sostenendo che «bisognerebbe spezzare quel filo rosso che ancora ci lega al fascismo». Il fascismo, com’è noto, fu sconfitto dalle armi e non dalle sue contraddizioni, com’è accaduto al comunismo e come sta avvenendo al capitalismo. Certe intuizioni sono ancora valide ed attuali. Perché buttare via il bambino assieme all’acqua sporca? Il fatto è che oggi la parola destra è diventata inconiugabile con la parola fascismo. L’equivoco, dopo la caduta del muro, è finito. Del Ninno, quindi, dal suo punto di vista, ha pienamente ragione. Il filo va spezzato, nel senso che chi si sente di destra vada a destra e chi, al contrario, ritiene di appartenere, come me, ad un’altra tradizione culturale vada con altri compagni di strada. Personalmente trovo difficile non condividere le parole di Benito Mussolini quando, il 22 aprile 1945, affermava: «I nostri programmi sono decisamente rivoluzionari le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero “di sinistra”; le nostre istituzioni sono conseguenza diretta dei nostri programmi; il nostro ideale è lo Stato del Lavoro. Su ciò non può esserci dubbio: noi siamo i proletari in lotta, per la vita e per la morte, contro il capitalismo. Siamo i rivoluzionari alla ricerca di un ordine nuovo. Se questo è vero, rivolgersi alla borghesia agitando il pericolo rosso è un assurdo. Lo spauracchio vero, il pericolo autentico, la minaccia contro cui lottiamo senza sosta, viene da destra». E come dimenticare quel «sono stato e sono socialista» contenuto nel suo testamento spirituale? Mi rendo però conto - e so di dire una cosa grossa – che per andare avanti occorre «seppellire Mussolini». Seppellite Mussolini è infatti il titolo di un bellissimo libro del giornalista Salvatore Scarpino il quale, rievocando la sua giovinezza nel Msi, sostiene che la società italiana, per andare avanti, deve necessariamente liberarsi della presenza, ancora incombente, di quel morto. L’invito è rivolto soprattutto a chi, a sinistra, ha sfruttato l’antifascismo per costruire le proprie fortune politiche (e materiali) impedendo, di fatto, che l’Italia superasse i rancori della guerra civile. «Seppellite Mussolini», scrive Scarpino. «Consentite di prendere commiato dal figlio


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IL BORGHESE

del fabbro a tutti coloro che, come me, si sono appassionati alla sua straordinaria vicenda e che tuttavia ne hanno scoperto, dietro il velo del mito, debolezze e peccati. Io ne serberò una foto da riporre nell’album della memoria.» Scarpino ha ragione. Va tuttavia doverosamente aggiunto che Mussolini va seppellito con tutti gli onori che gli competono e non, come vogliono fare certuni a destra, con l’imbarazzo e la vergogna con cui si accompagna all’estrema dimora il padre pazzo e criminale simbolo del «male assoluto». Insomma, caro Direttore, come recitava un nostro vecchio slogan bisogna avere «nostalgia dell’avvenire». E per farlo, visto che è ancora difficile capire dove stiamo andando, è necessario almeno comprendere da dove veniamo. E, se sfoglio l’album di famiglia, non trovo il conte Solaro della Margarita, il marchese De Maistre e tanto meno la macchietta dandy di Oscar Giannino. Trovo, invece, Nicolino Bombacci, fondatore del Partito comunista italiano, che andò a morire a Dongo assieme ai gerarchi fascisti. Trovo Alceste De Ambris e la carta del Carnaro, il sindacalismo nazionale di Corridoni e la «corporazione proprietaria» di Ugo Spirito, la Carta del lavoro e la socializzazione. Come ignorare che Robert Brasillach parlava di «fascismo immenso e rosso» e che Drieu La Rochelle sosteneva che l’unione del fascismo con il comunismo avrebbe rappresentato il completamento delle due rivoluzioni? In realtà il rosso e il nero sono stati meno separati e molto più intercomunicanti di quanto comunemente si crede. È nota l’adesione di molti socialisti, anarchici e repubblicani al primo fascismo. Ma forse non tutti sanno che la stessa genesi è riscontrabile in tutti i movimenti fascisti europei. Il capo dei fascisti, in Francia, fu l’ex comunista Jacques Doriot, in Inghilterra Oswald Mosley proveniva dal laburismo e nel nazionalsocialismo tedesco fu presente, per molti anni, una componente «nazionalbolscevica». Un’altra costante da sottolineare è che tutti questi movimenti fascisti o socialisti nazionali furono ostacolati o addirittura perseguitati dalla destra. I falangisti di Josè Antonio Primo de Rivera furono perseguitati da Franco (lui sì sicuramente di destra), tanto è vero che il successore di Josè Antonio venne addirittura condannato a morte. La Guardia di Ferro di Codreanu subì una feroce repressione da parte prima del re Carol e poi del generale Antonescu. Per non parlare di Peron che venne costretto all’esilio dai generali reazionari legati a Washington e alla Chiesa cattolica. A questo punto penso di aver spiegato i motivi per cui non intendo ritornare a Itaca e, tanto meno, rischiare di fare naufragio tra la Scilla di destra e la Cariddi di sinistra. Meglio navigare in mare aperto e far vela verso l’ignoto. Il canto delle sirene, del resto, anche se pericoloso, rimane dolcissimo.

QUANDO CI SONO LE IDEE ...

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SILVIO RITORNA?

L’ITALIA ha già dato di RICCARDO PARADISI FARSI desiderare, apparire blasé, mostrare sprezzatura: è questo lo stile indossato dai principali leader italiani in questo caldo autunno sulla passerella della politica italiana. Autunno caldo nel senso della tensione sociale in aumento, della crescita della disoccupazione e della perdita progressiva di potere d’acquisto delle famiglie, i cui consumi non sono mai stati così bassi dal 2009. Autunno caldo anche per il livello di tensione che cresce nei partiti, nelle coalizioni, nelle alte sfere istituzionali, molto attive nel gestire questa ennesima transizione italiana. Già perché le esibizioni di distacco o ogni ambizione di premiership di Mario Monti, di Silvio Berlusconi, di Pier Ferdinando Casini, tutti verbalmente disponibili a fare un passo indietro, sono a ben vedere tecniche di attendismo costruttivo in attesa di conoscere quale sarà la nuova legge elettorale. In attesa cioè di capire su quale tavolo e con quale schema si potrà giocare la partita del 2013, quali coalizioni e alleanze sarà possibile siglare e con quale reciproca convenienza, quale sarà insomma la geometria politica entro cui le forze dovranno pesarsi, contarsi ed eventualmente scontrarsi. Monti, intanto , da Cernobbio dice che gli pare impossibile che dopo di lui non ci sia un leader da votare, come se non fosse evidente che di leader, appunto, non ce ne sono. Berlusconi continua a provare dietro le quinte e ad affacciarsi in platea per raccogliere l’appello accorato al ritorno dei suoi seguaci (dei convinti e dei coscritti) continuando a ripetere che se fosse per lui se ne starebbe in disparte ma che sarebbe ingeneroso non raccogliere il grido di dolore e di speranza «Silvio ritorna». Una tecnica per tenere i partiti, a partire dal Pdl, in sospeso. Casini infine tesse la tela della grande coalizione e lavora per il sistema tedesco che ne costituirebbe la camera di gestazione, ripete dalla convention UDC di Chianciano che «Dopo Monti c’è ancora Monti», toglie dal simbolo del partito il suo nome, ma non è mai chiaro come adesso, soprattutto con l’aggregarsi attorno al progetto centrista di pezzi importanti del mondo cattolico e di quello industriale, che il regista di questa operazione è soprattutto lui. Favorito peraltro dall’indecisione dei due principali partiti che hanno animato la lunga stagione del defunto bipolarismo italiano. Da una parte il PDL oscilla tra l’idea di una grande coalizione nel 2013 e quella di una nuova avventura all’opposizione con la Lega; due posizioni antitetiche sulle quali Berlusconi cerca una sintesi, incarnandola ovviamente nella sua persona. Dall’altra parte c’è il PD le cui convulsioni non finiscono mai e si complicano ad ogni tornante. A insidiare la marcia di Bersani al governo del Paese infatti non c’è soltanto l’antagonismo di Di Pietro e del M5S di Beppe Grillo, ma anche l’ascesa politica di Matteo Renzi sul quale non a caso ha cominciato ad aprire il fuoco tutta la nomenklatura del Pd. Ecco, in questa situazione, Bersani proprio non può permettersi quell’atteggiamento blasè che pure si concedono gli altri suoi avversari/concorrenti/alleati. No, il segretario del Pd deve


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gridare, da Reggio Emilia - rievocando i fantasmi della resistenza, di Nilde Iotti e di Dossetti - che non c’è nessun Montibis all’ordine del giorno, che il Pd è pronto a governare l’Italia. Perché «Siamo più forti di quanto pensiamo» e perché «il prossimo governo lo decideranno gli italiani non qualche agenzia di rating». Vallo a spiegare a Casini che da Chianciano, poche ore prima, scandiva chiaramente che «dopo Monti c’è ancora Monti» e che, a proposito di unioni gay - una delle priorità di un futuro governo a guida Pd - ha ribadito che la famiglia è quella naturale e tradizionale. Perché è facile dire che occorre unire i progressisti e i moderati, più difficile farlo se le differenze sono ancora così marcate. Non è nemmeno il caso di drammatizzare troppo. Siamo ancora alla pretattica: senza uno schema di legge elettorale all’orizzonte non c’è possibilità di capire quale sarà la vera partita. Certo, al di la delle orazioni e dei manifesti d’intenti, dei distacchi esibiti e delle ambizioni malcelate, resta una realtà da cui non si prescinde. Ossia che le coalizioni che abbiamo conosciuto fin qui sono esplose e le forze che le componevano, a partire da Pdl e Pd, hanno visto erodersi in questi anni il loro consenso elettorale. Per questo è molto probabile che l’attuale premier costituirà un punto di equilibrio imprescindibile anche nella prossima legislatura sebbene le forme, attraverso cui il suo impegno continuerà, non siano ancora prevedibili viste le variabili in movimento di cui si parlava. Variabili a cui va aggiunta la principale, quella cioè della successione al Quirinale, considerando che Napolitano resta il grande maker della politica italiana e che al Colle continuano ad andare Bersani, Casini e Berlusconi per ragionare sui prossimi scenari. Sono all’orizzonte dunque un Monti bis e una grande coalizione che si formerà all’indomani di una campagna elettorale di scontro simulato tra le forze che la comporranno? È ancora presto per dirlo ma è legittimo ritenere estremamente probabile questo scenario. Verso il quale potrebbero convergere diverse ipotesi di percorso. Prima ipotesi. Rapida approvazione di una nuova legge elettorale e scioglimento anticipato delle Camere tra dicembre e febbraio tanto da consentire a Napolitano, prima del 15 maggio, data di scadenza del suo mandato, di nominare il presidente del Consiglio, così da evitare il cosiddetto ingorgo presidenziale. Ma anche in un’ipotesi diversa da questa il risultato potrebbe essere lo stesso. Ammettiamo infatti che il Parlamento non riesca a trovare l’accordo sulla legge elettorale e che in Senato, dove Lega e PDL potrebbero saldarsi sul semipresidenzalismo, si venisse a creare uno scacco con la Camera, anche in questo caso potrebbe aprirsi la strada alle urne. Ma il reincarico a Monti potrebbe passare anche in caso di una legge elettorale che consenta di formare la coalizione di governo non prima ma dopo le elezioni: se nessuna coalizione riuscisse ad avere i numeri per formare l’esecutivo anche in questo caso una coalizione allargata si presenterebbe inevitabile. Senza contare che da più parti e trasversalmente viene caldeggiata la formazione di una lista Monti. D’altra parte un reincarico a Monti viene caldeggiato, con buona pace degli ex AN, anche nello stesso PDL, a partire da Gianni Letta per proseguire con Frattini e Quagliarello: «L’emergenza nazionale è una prospettiva che in via ipotetica non può essere elusa da nessun precetto ideologico». E saranno proprio l’emergenza nazionale, l’asse europeo e il sostegno al lavoro di Draghi le argomentazioni con cui fra qualche mese, dopo una campagna elettorale pour le théâtre, verrà varata la grosse koalition all’italiana. E i leader politici italiani a grande richiesta torneranno sul palco. Per il bis. Il loro e quello di Mario Monti.

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TUTTI I NODI vengono al pettine di FILIPPO DE JORIO * «TUTTI i nodi vengono al pettine» e, purtroppo, producono altri guasti in un tessuto politico e sociale già fragilizzato da anni d’avventurismo governativo e politico (l’ultima prova l’ha data il «ritorno» di Berlusconi che non ha trovato nulla di meglio che lanciarsi in una offensiva anti-europea ed antieuro, a parte le solite promesse impossibili circa le imposte, unicamente per ragioni demagogiche. Ma non fu proprio lui ad aumentare l’Iva - che paghiamo tutti su tutto - di un punto)? È fastidioso dire: «lo avevamo previsto», però è proprio questa la verità. È da molto tempo che ripetiamo che la linea prescelta per risolvere la crisi prima da Berlusconi e poi sostanzialmente da Monti, che non poteva rifiutare questa incresciosa eredità, è profondamente sbagliata ed economicamente e politicamente impraticabile. Se ad un organismo già profondamente malato e depresso il medico prescrive il digiuno, la prognosi non può essere che questa: il peggioramento delle sue condizioni e l’aggravarsi dei mali di cui soffre. Che gli inasprimenti fiscali ed il rigore deflattivo dovessero avere forzatamente effetti negativi, l’avrebbe potuto capire anche un bambino e non serve essere cultori di scienze economiche per saperlo. Ora lo stesso Monti ha dovuto ammettere che le misure che il suo governo ha posto in essere producono recessione. Ma allora perché lo ha fatto, posto che a un «bocconiano» come lui non doveva essere sfuggito che il rimedio era peggiore del male e che continuare nella linea di Tremonti e Berlusconi non avrebbe potuto portare a nulla di buono?! Non bisogna dimenticare che il miglioramento dello spread a favore dell’Italia e la «ripresina» dai minimi storici dei mercati azionari non dipendono affatto dalla politica di Monti, ma dal coraggio e dalla determinazione di Draghi che è riuscito a creare una maggioranza tendenzialmente europeista laddove più forti erano presenti contestazione e dubbio, cioè in Germania! Ma, almeno, si dirà Monti ha ammesso il suo errore. Vero. È un fatto che egli si è differenziato nettamente da Berlusconi che vive incomprensibili momenti di autoesaltazione della sua azione di governo dimenticando che ciò che

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fa Monti è esattamente un seguito impietoso e conforme di quello che per anni egli ha fatto: comprimere i diritti per salvare i privilegi, ed altrettanto incomprensibili momenti di speranza di tornare al posto che dal 1994 ad oggi ha quasi sempre occupato lui con i risultati che conosciamo. Spero proprio che un minimo di buonsenso e di memoria da parte degli italiani impedisca questo funesto bis in idem, perché i risultati della sua mala gestio sono sotto gli occhi di tutti! Dovunque giriamo lo sguardo intorno a noi troviamo disastri immani e situazioni disperate. La crisi si è avvitata su se stessa in un meccanismo infernale. Come creare posti di lavoro in una situazione di recessione, nella quale le imprese riducono il personale o chiudono e la ricerca e gli investimenti sono parole dimenticate? Ci sono almeno 25 milioni di italiani che hanno problemi per arrivare alla fine del mese; in più 10 milioni di nuovi poveri, cioè, prevalentemente di ceti medi sottoproletarizzati. Per non parlare dei pensionati costretti ad aspettare il trattamento di quiescenza per più di un anno senza pensione ed anche senza stipendio, che hanno visto pensioni già misere taglieggiate dall’aumento dei prezzi e dai prelievi fiscali (sovraimposte degli enti locali, Imu, prezzi pubblici etc.). Da questo aggregato di problemi esistenziali come attendersi la ripresa dei consumi e della domanda interna? Perciò il problema non è risolvibile se non con iniezioni di liquidità nelle tasche dei meno abbienti e ovviamente con la creazione di nuovi posti di lavoro che sostituiscano almeno in parte quelli perduti dal 2007 ad oggi. Dove trovare i soldi necessari a questa bisogna indispensabile non è un mistero. Il prof. Monti lo sa benissimo. Citiamo alcune delle cose che possono essere fatte: sospensione a tempo indeterminato di ogni contributo a TUTTI i partiti politici; taglio ai trasferimenti alle Regioni (abbiamo visto come vengono utilizzati i soldi dei contribuenti dagli ultimi eventi alla regione Lazio e Lombardia!); taglio entro l’anno come promesso - di tutte le province, enti di cui la collettività non sa che farsene; inchiesta a tutto campo sulla corruzione politica che secondo la Corte dei Conti ci costa almeno

LEGITTIMA DIFESA

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60 miliardi di euro all’anno, che pesano direttamente sul bilancio dello Stato ed inoltre ritiro del nostro contingente dalle missioni all’estero. Non ci possiamo permettere una politica di grande potenza nelle nostre condizioni e senza alcun concambio, dato che sul piano internazionale la nostra presenza non si avverte e la nostra antica aspirazione ad entrare nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sia pure come membro non permanente, è stata sempre delusa. In quell’occasione tutti ci furono preferiti, perfino la Siria! Si potrebbe continuare ad indicare possibili e plausibili interventi sulla spesa, è stata sempre delusa. Si potrebbe continuare ad indicare possibili e plausibili interventi sulla spesa, ma sarebbe inutile, dato che, finora, la strada percorsa è stata del tutto antitetica. Si è sempre preferito infatti imprimere nuovi giri di vite al torchio fiscale (vedi Imu) e la riduzione della spesa si è accanita contro i pensionati con una riforma di cui anche molti membri dell’esecutivo hanno sottolineato la perversità, l’effetto depressivo, la inutile ingiustizia (su questa riforma ha pesato, a nostro sommesso avviso, anche la naturale predisposizione di Monti contraria alle pensioni, che già conoscevamo allorché, a Bruxelles, gli facevamo rilevare che la pensione non è uno dono dello Stato al cittadino ma un riflesso, spesso sottovalutato, dei contributi versati per l’intera vita di lavoro!). Su tutto ciò - si dirà - è ormai imminente il giudizio degli elettori e perciò aspettiamo con fiducia. Purtroppo la logica e la nostra personale esperienza ci lasciano scettici su questo punto di vista. Abbiamo visto come la classe dominante, o casta che dir si voglia, è inventiva e bravissima nel difendere i suoi privilegi. Lo farà anche questa volta per difendere i suoi privilegi. Abbiamo detto all’inizio che tutti i nodi vengono al pettine. Ce ne sono anche altri, oltre quelli citati. Difatti, a tutti i motivi di preoccupazione dovuti ai nostri propri problemi si aggiungono quelli degli errori politici commessi dagli Usa (ed anche di altri Paesi dell’Occidente come il Regno Unito) ma, quelli a stelle e strisce, sono più antichi e gravi nella gestione della politica estera (da quando Foster Dulles si rifiutò di aiutare gli alleati francesi in Indocina e l’impresa di Suez, magistralmente avviata da Eden e dagli stessi francesi, fu fatta fallire consentendo la sopravvivenza di Nasser e dell’oltranzismo musulmano che, altrimenti, sarebbe stato stoppato fin da allora). L’appoggio dato alla «Primavera Araba» è stato un disastro e lo vediamo dopo pochi mesi dall’evento, così come si vide subito che cosa aveva in realtà rappresentato l’abbandono di Reza Pahlavi Scià dell’Iran da parte dell’ottusa ed imprudente politica estera di Carter. Ora è molto difficile fare qualsiasi cosa in un senso o nell’altro. Le immagini dell’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia sono troppo crudeli per essere commentate. L’odio contro l’occidente traspare in tutta la sua folle immanenza. Purtroppo quest’odio si sposa con quello contro i cristiani. Il Pellegrino Apostolico ha intrapreso con coraggio ed umiltà il viaggio in Libano. Lo hanno accompagnato i nostri voti e le nostre preghiere ed anche il ricordo di ciò che disse Don Giovanni Baget Bozzo qualche anno fa: «Lepanto non è molto lontana nel tempo e, purtroppo, per molti fanatici quella battaglia contro la Cristianità non si mai interrotta». Da allora non lo invitarono più in televisione! * Presidente della Consulta dei Pensionati e dei Pensionati Uniti


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IL BORGHESE

SARÀ UN AUTUNNO CALDO

LE SCELTE della Destra di CARLO VIVALDI-FORTI L’ESTATE scorsa sarà ricordata come una delle peggiori nella storia d’Italia, paragonabile soltanto a quelle del 1943-44, e di sicuro la peggiore del secondo dopoguerra. Non ci siamo fatti mancare nulla: dallo spread, alle consuete e ridicole speculazioni di una Borsa fuori controllo, dal caldo africano, che come sempre non intende lasciarci, agli incendi boschivi appiccati dai piromani, definizione psichiatrica dietro la quale si celano criminali che agiscono su commissione di cosche mafiose, spesso con il benevolo assenso delle autorità territoriali, che fingono di non sapere e non vedere. Abbiamo dovuto assistere alle rodomontate della presunta lotta all’evasione, come l’irruzione compiuta dalla Guardia di Finanza in un noto ristorante del Forte dei Marmi, ove gli sconcertati avventori, italiani e stranieri, si sono visti sbarrare le porte di uscita e chiedere i documenti personali, uno ad uno, come se si fosse trattato di una adunata sediziosa di terroristi. Il solo risultato che si raggiunge è quello di far fuggire all’estero non i capitali, ma i turisti, assestando l’ultimo colpo all’unica industria che in Italia ancora funziona, grazie all’enorme patrimonio culturale e naturalistico da noi posseduto. Nell’esprimere il mio sdegno, non intendo rivolgere critiche alla Guardia di Finanza, bensì a chi questi impartisce da Roma. Intendo riferirmi al governo, e in particolare al presente esecutivo di sedicenti tecnici, la cui incompetenza è pari all’arroganza. Ho compiuto molte trasferte personali nei Paesi dell’est europeo, all’epoca del comunismo, per ragioni di studio legate alle mie pubblicazioni. Allora, ebbi occasione di visitare ristoranti di tutti i livelli, compresi alcuni a 5 stelle come il celebre Pelikàn di Praga, allora ritenuto il primo della città, frequentato unicamente da stranieri o membri della locale nomenklatura. A prescindere che per noi occidentali il conto non risultava affatto salato, date le favorevolissime condizioni del cambio, che equivaleva a circa la metà dello stipendio medio di un cittadino cèco, non ho mai assistito a episodi polizieschi come quelli riportati dalle recenti cronache. Nessun militare ha mai fatto irruzione durante il pranzo o ha chiesto i documenti a chicchessia, e neppure ho mai incontrato agenti fuori dalla porta che domandassero lo scontrino. Non escludo che qualche spia in borghese della Ceteka fosse mescolata ai clienti, ma la loro presenza si manteneva rigorosamente riservata e discreta: i governanti, comunisti duri e puri di rigida osservanza brezneviana, ben consapevoli che una delle maggiori fonti d’introito dello Stato derivava dal turismo, si mostravano ben lieti se qualche bieco capitalista frequentava i loro locali e vi lasciava un po’ dei suoi soldi. Gli attuali dirigenti italiani si comportano dunque peggio degli stalinisti di prima della caduta del muro, e l’Italia presenta oggi un aspetto addirittura più poliziesco di quello delle repubbliche popolari di allora, inclusi i controlli alle frontiere, ripristinati in sordina e in totale violazione del Trattato di Schengen. E questi signori, che in obbedienza agli ordini dei poteri forti internazionali hanno ridotto il nostro Paese in que-

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ste misere condizioni, mostrano pure il coraggio di affermare che fanno tutto ciò per salvare l’unità europea! Cosa dunque ci dobbiamo attendere nei prossimi mesi e come dobbiamo comportarci? Appare evidente che siamo di fronte al tentativo di instaurare un regime autoritario, da parte della classe politica attuale, consistente nello svuotamento, dall’interno, dei più fondamentali diritti garantiti dalla Costituzione, come quello alla libera circolazione delle persone fuori e dentro la Repubblica, alla tutela della privacy, del domicilio, della segretezza della corrispondenza, del diritto alla casa, del rispetto della proprietà privata. Tutte le leggi emanate dal presente governo contraddicono questi diritti, o tendono comunque a indebolirli con l’intenzione, in una prospettiva di più lungo periodo, di abolirli completamente. Il pretesto di cui esso si serve è la presunta, gravissima crisi finanziaria, per fronteggiare la quale i provvedimenti restrittivi, definiti di emergenza, sarebbero dati. In tale logica, queste leggi inique e vessatorie dovrebbero almeno risultare temporanee. Ora, a parte che nessuno ha mai prospettato la loro limitazione nel tempo, sappiamo bene che in Italia nulla è più definitivo del provvisorio. Inoltre, appare ormai evidente che il terrorismo finanziario, guidato dalle agenzie di rating e da una speculazione di Borsa in vista di obiettivi politici, manovrato dalla cupola del malaffare, è solamente un pretesto per l’instaurazione di regimi che tutelino e favoriscano, nei singoli Paesi, gli interessi di quella stessa cupola. Visto che mancano ormai tre mesi alla fine della legislatura, è necessario che anche la destra assuma decisioni e atteggiamenti precisi in vista di tali scadenze. Occorre formulare previsioni le più realistiche possibili circa gli scenari politici futuri. Le mie sono le seguenti, e se qualcuno non le condivide lo prego di accogliere i miei più sinceri auguri, sperando che abbia ragione lui. Dato il devastante quadro socio-economico, è facile prevedere che le prossime elezioni segneranno un trionfo, apparente, delle sinistre, a cui farà da contrappeso una disfatta, reale, delle destre. Ciò perché gran parte degli elettori potenzialmente di destra non si recherà alle urne, annullerà la scheda o disperderà il voto, ed io sarò tra questi. La ragione che spinge tale categoria di cittadini a simili decisioni è palese: dopo il tradimento del mandato ricevuto, da parte del Pdl, che si è reso pienamente, volontariamente e scientemente corresponsabile della piratesca operazione di novembre, il partito stesso si è comportato in modo tale, nel corso di tutta l’esperienza Monti, da rendersi indegno del rinnovo della fiducia accordatagli quattro anni fa. Non soltanto si è supinamente piegato a votare, insieme ai nemici storici cattocomunisti, tutti i più vessatori provvedimenti contro i valori tradizionali della destra e gli interessi che questa rappresenta, ma ha spalancato le porte all’avvento di una odiosa dittatura capitalisticocomunista, ove il peggio della grande finanza si sposa al peggio del più vieto, demagogico e becero sindacalismo in perfetto stile sessantottino. Non a caso leggi come l’IMU e la prossima patrimoniale, (che adesso non si farà, ma si farà subito dopo le elezioni), vengono applaudite dai più obbedienti servitorelli del regime, quali Casini, la Bindi, la Camusso e lo stesso Fini, una volta uomo di destra poi convertitosi a quella filosofia consociativa contro la quale il suo padre putativo Giorgio Almirante, al quale egli deve tutto, ha sempre virilmente combattuto, consapevole della catastrofe in cui avrebbe precipitato l’Italia. Per paradosso, è proprio il PD ad apparire oggi più moderato, visto che si tiene prudentemente ai margini della polemica quotidiana. I bene informati, tuttavia, ritengono che al suo interno circolino già gli organigrammi per il dopo elezioni!


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A questi motivi, già di per sé sufficienti a giustificare il non-voto, si aggiunga pure che la cosiddetta destra, (ma c’è ancora chi mostri il coraggio di definirsi così?), non offre né una nuova classe dirigente, né un programma credibile, che valga a delineare un modello sociale e di sviluppo alternativo a quello oggi entrato in coma. Le liste elettorali che il Pdl andrà a formare rilanceranno i soliti personaggi ormai compromessi, in quanto complici del colpo di Stato di novembre. Per costoro, è chiaro, un elettore di autentica fede e davvero compreso della gravità dell’ora, non potrà mai votare. Per questa ragione, la stessa speranza di modificare in tempi brevi la Costituzione in senso presidenzialista è destinata a rimanere nel libro dei sogni. D’altra parte, una riforma costituzionale, anche se ottima, non basta a definire i contenuti di un nuovo movimento politico. La legge fondamentale dello Stato, infatti, è un contenitore. Per quanto ci si possa sforzare di migliorarlo e abbellirlo, da solo non basta a cambiare le cose. Occorre possedere anche un contenuto da versarvi dentro, e di questo non c’è traccia almeno nella destra ufficiale, che si appresta a chiedere il consenso agli italiani. Inutile, anche qui, domandarsene i motivi: un vero cambiamento sociale e politico è incompatibile con l’interesse di chi manovra i fili dei burattini mandati sul palcoscenico a recitare la parte loro assegnata. Le prossime elezioni, non abbiamo dubbi, schiuderanno le porte ad un esecutivo di sinistra che godrà, sulla carta, di una schiacciante maggioranza parlamentare, ma soffrirà dei seguenti limiti, che lo condanneranno al fallimento fin dall’inizio: 1) la sinistra sarà bensì maggioranza nelle due Camere, ma netta minoranza nel Paese; 2) il suo governo si formerà sulla base di una coalizione eterogenea, in cui tutti litigheranno con tutti in misura notevolmente superiore che nelle due esperienze Prodi; 3) non avrà la capacità di avviare alcun programma di risanamento economico e sociale, né tanto meno di proporre la realizzazione di un modello di sviluppo alternativo, la sola possibile luce in fondo al tunnel. Esso sarà quindi travolto sia dai dissensi interni che dal definitivo implodere della situazione generale. Per queste ragioni la prossima legislatura avrà una vita breve e tormentata. Prevedo che essa terminerà traumaticamente dopo uno, due anni al massimo. Quali dovranno essere, sulla base di questo scenario, le decisioni di una destra moderna, onesta e responsabile? Primo, organizzare una vera, dura e seria opposizione di sistema. Essa dovrà costituirsi in autentico governo ombra, e controbattere le iniziative della sinistra formulando di volta in volta diverse soluzioni. Soprattutto dovrà avviare con celerità e determinazione la formazione di una classe politica nuova, composta in massima parte da giovani, eccezionalmente anche da qualche anziano, nel ruolo di padre nobile o didatta, purché non compromesso per i passati tradimenti. Poi predisporre un programma alternativo, in grado di convincere gli elettori della bontà e serietà delle proposte. Esso dovrà comprendere al tempo stesso un nuovo modello costituzionale, in grado di assicurare la governabilità e quindi la puntuale realizzazione del programma, oltre ad un nuovo modello sociale e di sviluppo. Tali propositi esigono uno staff estremamente qualificato e affiatato di esperti di diversi settori. A tali condizioni la destra potrà vincere ancora, ma non per farsi canzonare, come avvenuto nella Seconda Repubblica, bensì per governare con pugno di ferro, senza tentennamenti né ripensamenti, il Paese, fino a trasformarlo radicalmente. Oggi occorre non scoraggiarsi per la prossima, inevitabile sconfitta. Il generale Kutuzov affermò alla vigilia di Austerlitz: «Domani sarà una battaglia perduta, ma non perderemo la guerra. Nelle guerre, la battaglia che conta è l’ultima».

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MENTRE IL «PDL» SI SFALDA

DOVE VA l’Italia? di ADRIANO TILGHER DOVE va l’Italia? Bella domanda, ma c’è qualcuno dei solerti «salvatori» della Patria che sa rispondere? O meglio che può rispondere senza svelare le proprie intenzioni inconfessabili e segrete? Penso proprio di no. E mentre gli operai dell’ALCOA ed i minatori del Sulcis lottano per non perdere il posto di lavoro, mentre i suicidi, delle vittime di questo governo di affossatori e liquidatori dell’Italia, aumentano ma non fanno più notizia, mentre la disoccupazione giovanile raggiunge vertici inimmaginabili ed insostenibili, tra la drammatica farsa degli «esodati» e le ottimistiche sconvolgenti dichiarazioni di Monti, i nostri politici o quelli che, senza esserlo, si definiscono tali, sanno soltanto discettare sulle alchimie di una legge elettorale che vorrebbero tale da consentire loro di essere sempre «seduti» ed impedisca al popolo italiano di realizzare il più grande desiderio della maggioranza autentica: cacciarli a pedate.


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IL BORGHESE

Gli Italiani, però, non vogliono cacciare i «peones» ma gli artefici ed i primi attori di questa drammatica sceneggiata e di questo spettacolo indecoroso che la politica ha dato di sé. Invece di lambiccarsi il cervello su come risolvere questa falsa crisi, come rimettere in moto l’economia nazionale, come recuperare la fiducia degli elettori con autentici progetti politici, come costruire una vera Europa con una moneta unica e liberarsi di questa ipocrita moneta apolide di nome euro, come ricreare il tessuto etico, sociale e culturale della Nazione, si studia una legge in grado di eliminare le opposizioni. E allora si parla di «porcellum», «provincellum»,… non capendo che bisogna andare al voto e di corsa, perché la gente vuole dire la sua e sarà una voce arrabbiata, delusa ma sarà una pressante richiesta di politica. Anche in questo forsennato gioco di chiacchiere ci prendono in giro. Con la scusa della governabilità, vogliono lo sbarramento alto, che serve soltanto a far fuori le opposizioni e ridurre notevolmente i margini per le voci fuori dal coro. Infatti, dire che i partiti che non raggiungono il 5 per cento dei voti non partecipano all’attribuzione dei seggi, significa che i gruppi con 2.000.000 di voti non hanno rappresentatività. Sempre con la stessa scusa insistono sul premio di maggioranza, ovvero regalare il 15 per cento dei seggi al partito che prende più voti, tacendo però la circostanza che, nel proliferare dei partiti, nessuno raggiunge la governabilità, neanche con il premio, per cui si tornerà a fare coalizioni improprie come quella sciagurata pd, pdl e udc, che tanti guasti sta facendo all’Italia. Infine, cianciano di ridare la possibilità di scelta al popolo parlando di una quota nominata e una quota con preferenza, e nessuno, tra i partiti in Parlamento, ha il coraggio di denunciare che nessun partito è in condizioni di superare la percentuale dei nominati ed i voti di preferenza saranno soltanto una presa in giro. Sono dei truffatori e dei lestofanti che dietro le parole nascondono grossi inganni. I tecnici al governo, poi, in materia sono molto abili: ci parlano di spread, rating, spending review, fiscal compact, per giustificare la loro ignavia e per nascondere, dietro queste parole esotiche, il turpe traffico che stanno mettendo in atto contro la sovranità del popolo italiano; il tutto con la complicità dei finti politici che, come dei bambini irresponsabili, sanno soltanto fingere di litigare su una fantomatica legge elettorale per far scorrere il tempo, giungere a fine legislatura e poter così assicurarsi la pensione per aver scaldato lo scranno parlamentare per tutti e cinque gli anni. Bisogna andare al voto anche con questa legge, magari aggiungendo soltanto le preferenze ed evitare che vi sia un parlamento di nominati. Per impedire, però, che rimangano i soliti noti, occorre che la gente vada a votare e voti per i partiti che hanno un progetto e sappiano affrontare in modo serio la grave situazione che si accingono ad ereditare, sono i partiti, come «La Destra», che, con coerenza hanno saputo rinunciare a stare in Parlamento pur di non tradire il proprio bagaglio di idee. Non basta! Occorre anche che, in questa fase di emergenza, creata ad arte dal governo dei così detti tecnici, che hanno l’obiettivo di espropriarci del patrimonio nobile italiano, si possa realizzare il più ampio fronte di coloro che non sono responsabili di questa abdicazione dalla politica e che sappiano incontrarsi su un progetto condiviso di riscossa e ricostruzione nazionale. La linea di demarcazione per le alleanze è proprio nella necessità di liberare l’Italia da Monti e dai suoi accoliti.

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MENTRE RENZI SQUASSA IL «PD»

NEL «PDL» si riflette di GENNARO MALGIERI IL CICLONE Renzi si è abbattuto sulla politica italiana (e, dunque, non soltanto sul Pd) come una furia che al suo apparire nessuno poteva immaginare. Non è un guastatore, per quanto la sua fama sia legata all’idea di rottamare il vertice del suo partito. È un giovane politico che ha capito che il tempo delle oligarchie è finito ed i cittadini vorrebbero partecipare maggiormente alla vita pubblica stupidamente negatagli dagli apparati. Non è una grande idea, ma nella palude partitocratica il progetto appare addirittura rivoluzionario. Perciò Renzi raccoglie entusiasmi trasversali. Di conseguenza, preoccupa chi riteneva di tenerlo al guinzaglio fin da quando manifestò la sua eterodossia diventando prima presidente della Provincia e poi sindaco di Firenze. Adesso aspira a concorrere alle primarie e a battere i vecchi mandarini del PD. Se dovesse farcela e se la legge elettorale dovesse permetterglielo (in un sistema proporzionale la candidatura a premier non ha senso) guiderebbe il centrosinistra alla conquista di Palazzo Chigi. Ma se anche non dovesse riuscire nell’intento, Renzi di fatto ha già vinto la sfida con Bersani e con gli oligarchi i quali, demonizzandolo, hanno dimostrato di tenere più al loro potere che al necessario cambiamento politico dando, in tal modo, ragione al giovane competitore che la sua battaglia ha inteso farla nel partito, osservando le regole e producendosi in un leale confronto. Nel Pdl, purtroppo, una tale condizione non si è realizzata e tra chi ha deciso di traslocare altrove invece di battersi coerentemente all’interno del partito e chi ha accettato lo squagliamento di tesseramenti, congressi e primarie, si è realizzato il vuoto perfetto. Perciò tanti pidiellini guardano a Renzi come ad uno loro: un transfert psicologico che testimonia l’aspirazione impossibile ad essere ciò che non si è o a stare dove non si può. La politica vive di queste schizofrenie e quando viene fuori chi è in grado di evidenziarle si ha come una rivelazione che avvilisce più che consolare. Indipendentemente dalle appartenenze, infatti, le oligarchie del Pd e del Pdl sono letteralmente, e per motivi chiaramente diversi, soggiogate dal fenomeno Renzi. Entrambe lo vedono come un «alieno»: l’una perché ne teme l’impatto innovatore da cui può derivare il pensionamento di buona parte del suo vertice; l’altra perché vorrebbe averne uno (magari senza traumi) in grado di rompere il bozzolo dal quale veder volare finalmente una farfalla. In mancanza di meglio i berlusconiani devono accontentarsi di assistere al raro spettacolo del piccolo amministratore che sfida il segretario del partito, al di là delle liturgie congressuali precotte, ed esaltando così la pratica della democrazia diretta a cui ideologicamente, se non ricordo male, erano un tempo affezionati. Ma non è detto che un processo imitativo nelle file del Pdl non si metta in moto. E se dovesse accadere, l’apparato monarchico di via dell’Umiltà e di Palazzo Grazioli come si comporterebbe? Asseconderebbe le velleità di qualche lucido folle finalmente consapevole che il centro-


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destra lo si può rimodellare e farlo rivivere soltanto a patto di parlare direttamente alla gente, di scendere in mezzo al popolo, di farsi largo tra cortigiani e ciambellani guadagnando finalmente il proscenio? Me lo chiedo perché appare francamente surreale quel che accade nel Pdl. O, sarebbe meglio dire, il vistoso nulla che segna questa fase della vita apparente del partito. Mentre tutto è confusamente in movimento, il partito del Cavaliere attende. E l’attesa lo sta logorando, sfinendo, sfilacciando. Aspetta che Berlusconi sciolga la riserva una volta per tutte. Non è bastata l’estate per farlo decidere, non sono serviti gli appelli accorati (ed un po’ comici) dei suoi colonnelli affinché ridiscenda in campo, non lo hanno smosso di disastrosi sondaggi che danno il PDL inchiodato al 18-20 per cento anche se lui stesso dovesse candidarsi. Ma candidarsi a che cosa? Se, come sembra, la legge elettorale in gestazione abrogherà il flebile maggioritario e si porterà via il bipolarismo insieme con l’indicazione del premier e la scelta della coalizione di governo da parte dei cittadini, a che cosa Berlusconi dovrebbe candidarsi, a fare il capolista in qualche circoscrizione? Suvvia, siamo seri. Il Cavaliere sarà costretto a correre pur sapendo di perdere se la legge elettorale rimarrà sostanzialmente immutata. Al contrario, non c’è nessun bisogno che l’aspettativa si tramuti, come sta avvenendo, in una sorta di psico-dramma. A lui non ci sono alternative. Aveva provato a crearle, senza crederci fino in fondo come i fatti si sono incaricati di dimostrare, ma poi si è ripreso la scena ribadendo che la leadership, l’essenza, l’anima, l’identità e l’immagine del PDL sono elementi consustanziali alla sua personalità carismatica (per quanto appannata). Senza di lui, come a tutti dovrebbe essere chiaro, il PDL non esiste e non soltanto perché lo ha ideato ed costruito a propria immagine e somiglianza, ma per aver favorito la crescita e lo sviluppo di una classe dirigente dalla quale attingere nuovi leader per un movimento che avrebbe dovuto avere le ambizioni si guardare al futuro nutrendosi di pensieri lunghi e proiettandosi in una dimensione globale tale da trascendere (senza trascurarla, ovviamente) la politichetta che si pratica nel nostro Paese. Aver inserito numerosi elementi giovani e privi di esperienza nel suo esecutivo (alcuni dei quali si sono comportati egregiamente), non ha niente a che fare la composizione di un gruppo dirigente che nasce da altre dinamiche. La conseguenza è che dopo vent’anni circa di presenza attiva e costante sulla scena, Berlusconi si trova a fare i conti con la successione a se stesso e non trova altri che se stesso, alla tenera età di settantasei anni quando tutti i leader occidentali che ancora dovevano apparire all’orizzonte nel momento in cui lui sfasciò la gioiosa macchina da guerra dei post -comunisti si sono già ritirati, ma continuano comunque ad occuparsi di politica, al altissimo livello peraltro, come Blair, Clinton, Aznar presenti in maniera diversa nel dibattito internazionale sui grandi temi del nostro tempo. Ma anche restando nel recinto di casa nostra, è a dir poco incongruo che chi è stato presidente del Consiglio per tre volte in diciotto anni, segnando indubbiamente il nostro tempo e contribuendo, quale che sia il giudizio su di lui, alla modernizzazione del sistema politico in senso bipolare (paradossale alla fine del percorso la sua conversione al proporzionalismo), oggi sia alle prese con il dilemma se ricandidarsi o meno alla guida del centrodestra posto che un tale ruolo, meramente formale nelle attuali contingenze, moralmente e psicologicamente non gli verrebbe contestato da nessuno se anche decidesse di fare il padre nobile del partito. Ciò che non convince nel travaglio del PDL è l’assenza di una qualsivoglia discussione sul suo futuro e di quello che

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inevitabilmente dopo le elezioni diventerà: tutto è fermo sulla decisione/indecisione di Berlusconi, mentre altrove, sia pure drammaticamente, si tenta di guardare al di là degli steccati che bloccano la politica al fine di superare l’impasse attuale e porre le basi per la ricostruzione di una forza che sappia attrarre domani masse di elettori mossi da qualche motivazione non effimera. Scriveva Simone Weil, nel suo scintillante e provocatorio Manifesto per la soppressione dei partiti politici, che «un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva... un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte». Non so se i rottamatori del PD la pensino alla stessa maniera e cerchino di sollevare il loro movimento dalla polvere nel quale è caduto. Ma ricordo benissimo che il Berlusconi del 1994 riusciva magnificamente a «fabbricare» quella passione collettiva indispensabile per rinnovare un Paese. Possibile che si sia ridotto a passare le sue notti ed i suoi giorni assediato dall’incertezza sull’opportunità o meno di annunciare la «discesa in campo»? Del PD si può dire e pensare tutto ciò che si vuole, ma è incontestabile che un dibattito vero c’è. E su temi che dovrebbero interessare anche il PDL. Renzi ha colto il lato debole della nomenklatura del suo partito nel legame che si logorato con l’elettorato. Lui intende rinsaldarlo. E a nulla vale l’accusa di inesperienza rivoltagli da D’Alema. Il sindaco di Firenze per adesso non deve offrire ricette economiche e monetarie per uscire dalla crisi: il compito che si è prefisso è quello di costruire un modo nuovo per rinnovare i partiti, consapevole, come lo sono tutti cittadini, che essi sono morti o, nella migliore delle ipotesi, narcotizzati, a cominciare dal suo. E ritiene, come chiunque, tranne gli oligarchi probabilmente, che una democrazia senza partiti è destinata a deperire. Dunque, o si ristrutturano con il concorso popolare o la Repubblica dovrà ancora far ricorso ai tecnocrati, mettersi nelle mani di chi non viene votato per risolvere le questioni più gravi. Ma guardateli come sono ridotti e poi riflettete se è Renzi l’alieno o non lo sono coloro che lo guardano con sospetta ammirazione o con crescente preoccupazione: parlano un linguaggio incomprensibile, almanaccano di alleanze improbabili, giocano con la legge elettorale come se fosse una partita di burraco, già si accapigliano sul prossimo presidente della Repubblica ed ipotizzano addirittura le date di scioglimento delle Camere e loro successive convocazioni valutando se convenga lasciare a Napolitano l’incarico di conferire il mandato di formare il nuovo governo o al suo successore. Incredibile, ma è così. Perciò, comunque vada, Renzi ha già vinto. E non soltanto contro gli oligarchi del PD.


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A COLLOQUIO CON IL «NEMICO»

SOLTANTO A SINISTRA, la salvezza del Paese Intervista a Paolo Ferrero, Segretario di «Rifondazione Comunista» «IL BORGHESE» incontra Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista. Gli opposti si sfiorano, si annusano, ma i tempi non sembrano granché maturi per possibili reciproche «contaminazioni». Sembra che cento anni di reciproche ostilità non si possano ricucire nemmeno dopo una crisi epocale che ci ha trasportati nel Terzo millennio: per Ferrero coloro che hanno lasciato la casa socialista ai tempi di Mussolini, sono e resteranno fascisti, e quindi nemici. Ma ha un senso, oggi, dopo la caduta del muro di Berlino e la bancarotta dei regimi del cosiddetto «socialismo reale» rivendicare con orgoglio il proprio essere comunisti? Ferrero, ovviamente, non ha dubbi. «Intanto», precisa, «ci chiamiamo Rifondazione comunista, e i due termini si qualificano a vicenda. Comunisti perché lottiamo per il superamento del capitalismo e siamo parte di quella storia, rifondazione perché dentro quella storia sono stati compiuti errori che devono essere riconosciuti corretti: pensiamo soltanto allo stalinismo. Quando mi si chiede del comunismo del 21° secolo io penso ad un comunismo sociale che deve imparare dai propri errori. «La storia la si deve metabolizzare per imparare, non fare piazza pulita, ciò che è accaduto ci appartiene. La generazione di Lenin e di Gramsci parlava di democrazia formale da superare con la democrazia sostanziale. Oggi per noi è chiaro che non possa esistere la democrazia sostanziale se manca quella formale. Ma la generazione dei rivoluzionari dell’inizio ‘900 non lo sapeva: pensavano di poter superare il liberalismo e invece lo stalinismo ha prodotto una gestione del potere più arretrata.»

zioni private, sviluppare banche pubbliche e cooperative al posto delle banche private, maggiore tassazione delle rendite, delle transazioni speculative. Togliere potere al capitale finanziario è decisivo per determinare una uscita dalla crisi a sinistra, in termini egualitari e democratici. Il rischio è che la crisi sia gestita da destra.» Esiste la concreta possibilità che una nuova legge elettorale, innalzando la soglia di sbarramento, impedisca a formazioni come «Rifondazione Comunista» di far eleggere deputati e senatori. Come pensa di poter cambiare la politica stando fuori dal Parlamento? «Io penso che bisogna entrare in Parlamento. Sto lavorando ad una lista unitaria della sinistra, molto netta sui contenuti, che dichiari esplicitamente di non accettare il fiscal compact. Perché se si accetta il fiscal compact si possono raccontare tutte le cose che si vogliono ma poi si farà più o meno la stessa politica di Monti. Perché quello

Questo avveniva 100 anni fa, ma oggi il piccolo imprenditore è «sfruttato» dal potere finanziario come l’operaio di ieri lo era dal «padrone». Entrambi sono oggi schiavi delle banche. «Certo, in virtù di leggi fatte da persone che passano dalla Trilateral al governo italiano e poi ai vertici d’una banca o a fare i commissari europei o i presidenti tecnici... Luciano Gallino lo chiama sistema delle “porte girevoli”. In pratica questa upper class passa dai vertici di Volkswagen o Fiat alla presidenza d’una banca come d’un consiglio dei ministri.» Occorre dunque spezzare il legame tra alta finanza internazionale e politica. «Certo: occorre sconfiggere il neoliberismo e dimostrare che un altro mondo è possibile. Occorre distruggere l’enorme potere della finanza anche a partire dalle legislazioni nazionali: ad esempio, permettere all’Inps di gestire le pensioni integrative contro i fondi delle assicura-

PAOLO FERRERO


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di Monti è un vero e proprio governo costituente, è come se avesse posato i binari sui cui l’Italia deve andare avanti per i prossimi 20 anni: poi tu ti puoi affacciare dal finestrino di destra o da quello di sinistra e raccontare che vedi un altro paesaggio, comunque il treno sta andando verso la destinazione fissata da Monti. Perché questa tipologia d’Europa l’hanno fatta proprio per demolire i diritti delle persone, dei popoli, delle classi sociali più basse. Quindi io opero per aggregare una sinistra netta e determinata su questi aspetti, evidentemente alternativa anche al Pd che è parte del problema, perché ha votato tutto quello che noi avversiamo.» E Vendola? «Se Vendola sta col Pd è no anche a lui. Se Vendola rompesse e diventasse protagonista della costruzione di una sinistra unita autonoma dal Pd, sarebbe il benvenuto.» Se a destra nascesse una sorta di raggruppamento anti-Monti sociale e democratico che si proponesse d’entrare in Parlamento, fareste accordi elettoralistici con loro? «Mai, nemmeno sotto tortura.» Quindi lei non riconosce dall’altra parte, qualunque essa sia, una possibilità di collaborazione per la rifondazione del Paese? «No. Quando nella storia ci sono state correnti anticapitaliste di destra, l’esito finale è stato poi sempre quello che ha visto prevalere culture razziste e reazionarie. Io combatto Monti per impedire che Monti continui a fare le sue porcherie, e per evitare che l’esito delle porcherie di Monti determini risposte dal mio punto di vista regressive.» A destra, in passato, si è commesso l’errore di fondare una politica esclusivamente sull’anticomunismo. Non ritiene che sia ugualmente errato, per non dire anacronistico, dopo 60 anni e nel terzo millennio dichiararsi pregiudizialmente antifascisti? «Io penso che l’antifascismo sia costitutivo della possibilità di convivere democraticamente, dovrebbe essere la religione civile di tutti e tutte: è la vittoria dell’antifascismo che ha determinato il quadro democratico che permette che siamo qui a discutere e a fare l’intervista. So benissimo che esiste un antifascismo di facciata - alla Monti - che demolisce la democrazia dei popoli per dare tutto il potere ai governi e ai Consigli di Amministrazione delle banche. Per questo mi batto per un antifascismo vero, contro il potere del capitale, che vuol dire in primo luogo realizzare la Costituzione Repubblicana. L’antifascismo ci deve essere. Perché il fascismo è una delle componenti culturali e politiche presenti da sempre in Europa, che ha una idea gerarchica e autoritaria della società, che ci ha portato al disastro della Seconda guerra mondiale e all’orrore dei campi di concentramento.» Per il filosofo comunista francese Alain Badiou, che ha scritto un interessante libro, «Il risveglio della storia», non è vero che la storia è finita e lo dimostrano le rivolte degli «indignados», di Wall Street, le primavere arabe... Però queste sono soltanto rivolte e non rivoluzioni, perché questo è un periodo che lui definisce «interstiziale». Un po’ come il periodo che va dalla caduta di Napoleone ai risorgimenti nazionali. Le idee della rivoluzione francese si sono alle fine, sostiene Ba-

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diou, rivelate vincenti però modificandosi. Lui dice però, da comunista, che non ci potrà essere un comunismo come lo si era abituati a conoscere nel 20° secolo. Dovrà essere qualcosa di profondamente diverso, di più movimentista, di più partecipativo. Condivide questa tesi? «Totalmente. Nel ‘900 il comunismo s’è affermato in un contesto particolare, la Prima Guerra mondiale, la guerra civile: s’è affermato un comunismo di partito. Oggi siamo nella condizione di dire che è vero che bisogna costruire soggettività, ma questa non può essere nella forma del partito unico o dell’assenza della democrazia formale. György Lukács, filosofo comunista ungherese, l’aveva già detto molto intelligentemente in passato parlando di “democratizzazione della vita quotidiana”.» Ed in questa democratizzazione non ci metterebbe un pizzico di «contaminazione»? «In Italia non è che non ci siano contaminazioni, le vedo benissimo, tant’è vero che quando i movimenti sociali si determinano ci sono idee, anche diverse, che circolano. Il punto è che i movimenti sociali possono essere un moto finalizzato ad un maggior potere e ad una maggiore consapevolezza di sé da parte dei soggetti che si mobilitano oppure possono essere processi costruiti dall’alto per legittimare l’ordine esistente e identificarsi con il capo. Pensiamo alle adunate naziste. Ecco, a me piacciono le mobilitazioni che producono soggettività sociale, autodeterminazione, non quelle di legittimazione dell’ordine costituito. Per questo metto al centro la democrazia, la possibilità di potersi organizzare per cambiare le cose. Su questo ho sempre polemizzato in modo durissimo: non so se ci si ricorda di Laboratorio politico. Era una rivista della fine degli anni ‘70, vi scriveva Cacciari, che sdoganò Carl Schmitt in Italia, dicendo: “Chi se ne frega se fu l’ideologo che ha fornito argomenti e intelligenza al nazismo, è comunque un grande politologo”. È un politologo d’estrema destra, reazionario obietto io. Credo che oggi, purtroppo, ci sia una attualità di certe idee e non un superamento. C’è una tragica attualità, ed in Europa più vanno avanti queste politiche neoliberiste e più riemergono forme di nazionalismo comunitarista reazionario, come durante la Repubblica di Weimar. Io lavoro per costruire una alternativa socialista al neoliberismo e per evitare che vincano nuovamente ipotesi reazionarie. Purtroppo oggi l’Italia somiglia fortemente ad una Weimar al rallentatore.» L’analisi sulla situazione italiana è ampiamente condivisibile. Va comunque sottolineato che dal fascismo si può fuoriuscire in due modi, o da destra o da sinistra. E questo perché il fascismo non è soltanto Mussolini, è anche D’Annunzio, è anche la Carta del Carnaro, è Alceste de Ambris e il sindacalismo rivoluzionario, è Bombacci fondatore del Partito comunista che va a morire a Dongo. «Non credo. O si diventa antifascisti, oppure si continua a pestare l’acqua nel mortaio, in cui si presentano differenze enormi tra chi è uscito da destra e chi da sinistra e poi il mondo fascista o post fascista, sia sul piano culturale che relazionale, continua ad essere in larga parte unitario. O si rompe con quel mondo e si accetta l’antifascismo e la democrazia o non vedo veri passi in avanti.» Togliatti fece l’appello ai fratelli in camicia nera…


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«In quel contesto l’appello era giusto. Perché fatto in un Paese in cui per 20 anni la gente aveva vissuto dentro un indottrinamento peggiore di quello che c’è oggi...» Allora perché dopo tantissimi anni continuiamo ancora ad avere fascismo ed anti-fascismo? «Perché il fascismo ci ha portato alla guerra e ai campi di concentramento e perché in Italia c’è stata la riorganizzazione dei fascisti.» Passiamo a una domanda più storica. I trent’anni che hanno preceduto la caduta del Muro di Berlino vengono considerati, dai sociologi e dagli economisti «i magnifici 30». Perché bene o male il capitalismo riuscì a coniugare i propri interessi con delle forme di socialità. Improvvisamente cade il muro e il capitalismo torna alle sue origini a causa dell’estinzione dell’avversario storico. Non ha più la remora del confronto. La caduta del Muro provoca abbondanza di manodopera a buon mercato attraverso l’immigrazione, e spinge al lavoro in nero e senza garanzie. Per il capitalismo è una manna. Come diceva un vecchio assunto, la miglior pedagogia per il capitalismo è una fila di disoccupati all’ufficio di collocamento. Condivide l’analisi? «Nel capitalismo dei Paesi occidentali nel dopoguerra si produce una novità vera: non c’è soltanto sviluppo economico ma anche dei diritti delle persone, sociali e civili. Intorno agli anni ‘70, con le lotte operaie e studentesche, i processi di decolonizzazione, si pone il problema se si riesce a fare un “salto” oppure no. E penso che una grave responsabilità della sinistra sia stata quella di non essere stata capace d’indicare la strada attraverso cui uscire dall’imbrigliamento capitalistico. S’era arrivati ad un equilibrio di poteri che non poteva stare in piedi per tanto. O si faceva un salto avanti o si tornava indietro. Noi non siamo stati capaci di porre il tema della transizione. Penso che nella nostra sconfitta, del Pci, dei sindacati, della nuova sinistra, abbia pesato la mancanza d’una proposta veramente alternativa. Perché se a metà degli anni ‘70, quando sei al punto più alto di consenso, non pensi che al compromesso storico con la Dc ed a chiedere sacrifici ai lavoratori per le aziende, significa che non sei capace d’andare oltre. Poi, una volta che il Muro è crollato, gran parte della classe dirigente del Pci se l’è fatto cadere addosso. Ecco che il punto cardine della Rifondazione riguarda il rifiuto dello stalinismo ma anche l’attenta rilettura della nostra storia recente.» Nel ‘68, a Valle Giulia, studenti di destra e di sinistra affrontarono insieme la cariche della polizia. In quei giorni rossi e neri occupavano insieme le facoltà. Poi il «Msi» mandò i suoi attivisti ed il «Pci» il proprio servizio d’ordine. Nacquero così gli opposti estremismi. Pensa che quella di Valle Giulia sia stata un’occasione persa o la fine d’un equivoco? «Penso che sia stata la fine d’un equivoco. Però il Pci, per quanto criticissimo, aprì un dialogo con il movimento studentesco. Longo ricevette Sofri, Piperno e altri per capire cosa stesse succedendo. Non mi risulta che il Msi abbia agito allo stesso modo, mi risulta invece che abbia soltanto mandato i mazzieri a placare la rivolta.» Quindi? «Pensando a Weimar, l’idea di mettere assieme storie politiche diverse continua a vedermi totalmente contrario.»

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SE SI CONTINUA COSÌ ...

LA DESTRA ed i «lemming» di GIANFRANCO DE TURRIS LA POLITICA è talmente frenetica che nemmeno con la palla di vetro si riuscirebbe a sapere come e quando si voterà per le prossime elezioni: il caos è totale, l’incertezza pure, ed è certo soltanto che se si riprodurranno alle politiche gli equivalenti risultati delle ultime amministrative ne uscirà un Parlamento semi-ingovernabile o ingovernabile del tutto, e saremo chiamati subito dopo ad altre elezioni. Naturalmente dipenderà anche dal nuovo presidente della Repubblica. Fin qui non si dice alcunché di inedito. È però da notare che, a fianco ai partiti, si stanno muovendo altre realtà: non soltanto le Fondazioni note, ma anche alcune iniziative nuove, tutte autodefinitesi «moderate» che cercano di porsi come riferimento di un elettorato di centrodestra e «moderato», appunto, deluso, demoralizzato e arrabbiato anche se non sino al grillismo: ad esempio le iniziative dell’ex ministro Tremonti, o del giornalista Oscar Giannino, soltanto per fare due nomi. Per non parlare dell’iperattivismo di un Casini… In questo bailamme l’unica che sembra latitare è la Destra -destra che, se non si produce un qualche chiarimento interno o esterno, corre il concreto rischio si sparire dalla scena non tanto come forza politica in sé, ma in quanto contenitore di idee e valori, come modo di intendere la vita (dato che il termine Weltanschauung per qualcuno è un termine troppo filosofico ed elitario). Destra che augusti commentatori della cosiddetta «grande stampa» nei loro illuminati editoriali specie sul Corriere della Sera auspicano che resista e sopravviva all’attuale baraonda, dettandone peraltro le caratteristiche. Se una Destra italiana deve esistere, ebbene che sia come se la immaginano loro, altrimenti è bene che scompaia e ne rimanga un ersazt, tipo il futuro in libertà finisteo. Se proprio questo avverrà, si deve purtroppo dire che la colpa sarà dei diretti interessati i quali poi non si dovranno lamentare delle conseguenze. Mi riferisco alle prese di posizione che sento e che leggo anche, purtroppo, su Il Borghese. Ad esempio nel fascicolo di agosto-settembre con l’editoriale di Claudio Tedeschi e l’articolo di Franco Jappelli, due amici con i quali però, in questo caso, dissento nel merito e nel metodo. Quale il motivo? Penso, per essere chiari, che l’appello lanciato a giugno da Renato Besana e Marcello Veneziani con il loro nitido manifesto «Ritorno a Itaca», non possa venire accolto praticamente soltanto con sospetti e perplessità piuttosto che adesioni ancorché critiche. Per farlo bisogna presupporre non soltanto la loro buona fede, ma anche il loro disinteresse a risultati personalistici, come io faccio ed altri no. I due autori, pure nell’incontro del 15 luglio ad Ascoli Piceno, lo hanno detto in maniera esplicita: non vogliamo fare un partito politico, non ci vogliamo accodare ad un partito politico (e infatti i politici di lunga data del Pdl non sono stati entusiasti della iniziativa). Vogliamo invece far riemergere tutti quei sentimenti, sensazioni, idealità, punti di vista, riferimenti e valori che sono sempre stati caratteristici di una Destra, o di una pluralità di


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Destre, non soltanto italiane, da troppo tempo sommersi e negletti. Insomma, ricreare una mentalità rimettendo in circolazione dibattiti e opinioni da troppo tempo inesistenti e che potrebbero ri-costituire quel terreno pre-politico su cui poi si basa e si edifica una cultura politica. Soltanto Stefano Zecchi sembra averlo capito ed ha scritto su Il Giornale una lettera aperta a Berlusconi invitandolo a ripartire proprio dalla cultura dimenticata e penalizzata da due decenni soprattutto per colpa del Pdl e dei suoi amministratori pubblici. Purtroppo si hanno alle spalle proprio vent’anni di tempo perduto, come ho scritto su queste pagine nel mese di luglio, il tempo di una generazione… E lo scetticismo, la dietrologia, il complottismo sono diventati il pane quotidiano per certa Destra politica e non politica come dimostrano gli articoli di Tedeschi e Jappelli, ma anche di altri. Si è detto di tutto su questa iniziativa, compresi pettegolezzi da suburra. Invece di suscitare entusiasmi si sono suscitati dubbi e ostilità pregiudiziali. Io credo che sia assurdo che si possa attribuire a Veneziani e Besana l’idea di far da stampella culturale all’ipotetica nuova discesa in campo del Berlusca, ovvero alla diaspora degli ex An cacciati o esodati dal Pdl intenzionati (forse) a fondare un nuovo partito... Ma suvvia! Così non si va da nessuna parte! Mi ricordo quando Marcello ebbe il coraggio e la sfrontatezza di creare L’Italia settimanale, vent’anni fa, quando da tempo non si vedeva più una rivista di questo tipo: l’unico tentativo di riunire tutte le destre culturali dell’epoca. Ci fu chi mi disse scandalizzato «Lo finanziano i socialisti!», ma ci collaborava e si arrabbiava quando non pagavano abbastanza! Risposi: non so se sia vero, ma pure lo fosse a me interessa quello che scrivono, che idee sostengono, la battaglia che fanno… E addirittura qualcuno mi ha sussurrato che questo nuovo attivismo di Veneziani è legato all’uscita del suo nuovo libro… Come se avesse bisogno per vendere di questo tipo di pubblicità! Se arriviamo a questo punto di sospetto e acredine, credo proprio che non vi sia molto futuro di fronte a noi… L’irrisione, lo sfottimento, le rocchecannucce, il «dubitare e sospettare», le insinuazioni, le domande retoriche sul cui prodest (come si faceva di fronte agli attentati degli «anni di piombo»), non sono, a mio parere, prove di realismo politico, ma soltanto di scetticismo mentale congenito e di una sorta di utopia apocalittica, tipo «tanto peggio tanto meglio». Per la verità, mi aspettavo qualcosa di diverso. L’articolo di Marcello Veneziani sul «Ritorno a Itaca» uscì sul Secolo d’Italia lo stesso giorno in cui ci si incontrò, su suo invito, con il direttore de Il Borghese e con alcuni collaboratori della rivista per fare il punto della situazione, per comprendere quel che stava accadendo in mano al governo dei tecnici, per cercare di capire cosa si potesse mai fare. A me quella coincidenza sembrò significativa e lo dissi: non esagererò dicendo che mi parve come un segno del Fato, ma quasi. In fondo, senza saperlo due gruppi diversi stavano pensando che non si dovesse rimanere con le mani in mano, ma cercare d’inventarsi qualcosa, di promuovere qualcosa. Forse c’era una sintonia, in ogni caso una preoccupazione comune. Ammetto, dopo le reazioni di cui si è detto, di essermi sbagliato, anzi illuso. Il tasso di dietrologia, la sindrome del complottismo, la capacità di dividersi anche nei momenti difficili a quanto pare non abbandonerà mai la cosiddetta Destra, o quel che ne rimane nel 2012. E penso che purtroppo tutto ciò stia a indicare il suo inesorabile declino. Almeno a livello di gruppo, di comunità umana e culturale, perché di sicuro i singoli, certi singoli, continueranno ad considerarsi tali e a operare in quella direzione. Di chi la colpa? Sia Maurizio Gasparri sentito da Pietrangelo Buttafuoco su Il Foglio, sia Adriano Scianca, «responsabile culturale» di Casa Pound, su Libero, affermano

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che la colpa è complessiva: non soltanto dei politici, ma anche (e forse soprattutto) degli «intellettuali». Credo di aver illustrato questo aspetto della questione sempre nel mio articolo di luglio. Qui aggiungo che i cosiddetti intellettuali sono soltanto «profeti disarmati»: possono proporre idee, ma il lato operativo dipende da chi ha il coltello dalla parte del manico per così dire, cioè da chi ha la possibilità di concretizzare le idee, le proposte, le opzioni, le direttive che questi intellettuali del cazzo avanzano. E se non sono ascoltati, loro che colpa ne hanno? Gli unici che possono avere delle colpe sono coloro i quali sono andati in posti di responsabilità e non sono riusciti a fare nulla. Ma tutti gli altri? È sufficiente leggersi il dibattito sul che fare e cosa fare riproposto regolarmente dal 1993 in poi da parte di chi è nato negli anni Ottanta per capire che non si è stati con le mani in mano. Se si pensa di cambiare radicalmente le cose con un movimentismo avanguardistico, o semplicemente presidiando Rocca Cannuccia, stiamo freschi. È certo qualcosa, ma non la soluzione. E se si hanno retropensieri sulla proposta di Veneziani e Besana, quasi non sapendo chi essi sono e cosa hanno fatto nella loro vita, è ancor peggio. Insomma, allora che si fa? Niente Ulisse che tornò a Itaca per fare piazza pulita. Ma nemmeno Ettore che difende Troia. O Enea che fonda Roma. Neppure questo? I riferimenti classici fanno sogghignare i giovani ruspanti (ma non soltanto) della Destra del Duemila? Allora mi piacerebbe sapere che si dovrebbe fare: attendiamo una rivoluzione di piazza che, complice la recessione economica, spazzerà via la casta politica, come nemmeno in Grecia è ancora avvenuto? O non muoviamo un dito sperando – appunto -nel «tanto peggio tanto meglio»? O ci diamo da fare con un volontariato nobile ma di portata limitata per dimostrare che gli intellettuali del cazzo sono soltanto dei «velleitari astratti e sterili» mentre noi sì che facciamo qualcosa di concreto? Forse sarò anche io uno di quegli «intellettuali d’area dediti all’onanismo ideologico», ma di fonte a non fare (quasi) nulla o disprezzare e ironizzare, preferisco credere che sia necessario darsi da fare per porre le basi pre-politiche per una rinascita politica. Non userò di nuovo la parola Weltanschauung che fa venire l’orticaria a parecchi, ma certo è necessario ricreare una mentalità di «destra» che non deve essere necessariamente uno «Stato etico» di tipo hegeliano o gentiliano perché in suo nome sono state commesse cose orribili o al contrario ridicole: perché esso non significa soltanto «senso dello stato, disinteresse personale e spirito di servizio» come scrive Jappelli, ma anche un giacobinismo diffuso con l’intrusione nelle piccole cose di noi tutti ogni giorno: come farci perdere quegli «stili di vita sbagliati» ai quali pensa proprio l’aborrito governo Monti. Certamente, l’avvio della proposta di Veneziani e Besana può essere stata confusa e forse contraddittoria perché ad essa si sono avvicinate persone di tutti i tipi, commendevoli o forse no: ma come era possibile evitarlo? Mica si fanno gli esami del sangue a chi si fa avanti in un momento del genere, almeno all’inizio. Col tempo - sempre che ci sia - vi sarà una selezione (gli esaltati se ne andranno, gli approfittatori e i voltagabbana si riconosceranno…), ma sarebbe importante che questo spirito di reazione si diffonda, non si inaridisca a causa di sospetti e dietrologie. Preferisco a questo punto essere un ingenuo che un cinico (forse per questo motivo non ho fatto carriera in vita mia, però la mattina, guardandomi allo specchio, non mi sputo in faccia). Altrimenti, quale sarebbe il risultato? Io credo che se si continua così la Destra italiana si voterà alla estinzione, suicidandosi un po’ come quegli strani animaletti che si chiamano lemming…


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A COLLOQUIO CON ERASMO CINQUE

DOBBIAMO VOLER BENE a chi vuole bene all’Italia Caso Alcoa, crisi economica, indipendenza energetica, fine del governo Monti e fase-2 per la politica - Sì al reato di recessione DALL’Alcoa, alla crisi economica, al mercato interno, all’amore per l’ItaTornando all’attualità politico lia: è un Erasmo Cinque pimpante e -economica, cosa ci dice? combattivo, quello che, conclusa la «Semplice (sorride): si stava mepausa estiva, torna alla carica, dicenglio quando si diceva che si stava do la sua e fissando un’ipotetica peggio. Monti è riuscito a mandare agenda di governo per la politica. in recessione tutti e adesso noi Un’estate contrassegnata dai soliti Ialiani, dopo 60 anni dalla guerra, giochetti tra i partiti, che ancora si siamo tornati a conoscere la parodilaniano alla ricerca di una riforma la povertà.» del sistema elettorale che sia in grado di abrogare il Porcellum, dando finalBeh, il «si stava meglio primente un importante segnale di rinma», va però anche spiegato. In novamento al paese; partiti che ancofondo, c’è qualche partito rera si dibattono alla ricerca di alleanze sponsabile del debito pubblico, ERASMO CINQUE credibili (le vecchie sono tutte mordella spesa esorbitante, del te)... insomma, partiti che sembrano «Welfare» e della sanità, gestiti non capire l’aria che tira nella società civile e che rischiano di male o gestiti come ammortizzatori sociali per il nostro rifare la volata ad un Monti-2, ad un ennesimo esecutivo olisistema assistenzialistico molto ideologico. Che, insieme garchico, tecnico, privo di legittimazione popolari. E bisogna naturalmente a fattori internazionali, ha originato l’ofare in fretta, le elezioni del 2013 sono vicine. dierna crisi… «C’è un errore di impostazione in chi punta sempre il «Partiamo dall’Alcoa», interviene subito Erasmo Cindito su Sanità e Welfare. Il tema è diverso. Politica vera di que, «esempio paradigmatico di un grave storico problesviluppo e modello industriale sono sinonimo di mercato ma, quello energetico che priva di concorrenzialità la nointerno, produzione interna, economia interna. Soltanto stra produzione, in questo caso l’alluminio...» risollevando questi ambiti potremo riprenderci nel nostro complesso di nazione (esportazioni, Ue etc). Le nostre Beh è il solito tema da lei più volte denunciato: si imprese devono tornare a produrre per il mercato interno pensi al caso-Mattei, la dipendenza energetica che vine la politica deve capirlo. Va restituita capacità finanziacola l’Italia ai produttori di energia e indebolisce sul ria ai cittadini creando così un virtuoso mercato interno nascere ogni nostro sussulto produttivo... che potendo contare su 65 milioni di potenziali “clienti” «Certo, il costo energetico ci paralizza e fa ricchi gli fa ripartire l’economia reale.» altri.» E Monti? È questa la reale ragione del defenestramento di «Con provvedimenti recessivi ha peggiorato la crisi, Berlusconi... altro che «Bunga-Bunga»? incrementando la richiesta di cassa integrazione e umi«L’ho spiegato chiaramente in un’altra nostra converliando tanti giovani, onesti e preparati che non riescono a sazione: i poteri forti nazionali e internazionali, legati realizzare le loro potenzialità, col risultato che non si metall’esclusiva proprietà delle fonti energetiche, hanno preteranno mai in gioco.» teso la fine di Berlusconi-premier, perché il suo governo stava rendendo indipendente l’Italia sul piano energetico, Il bilancio di Palazzo Chigi è ancora negativo? attraverso il gas russo, libico e algerino e attraverso even«Sempre di più, 10 mesi trascorsi nel non fare gli intetuali future centrali nucleari da costruire e che il proressi del Paese, un vuoto demagogico, parolaio e incongramma del centro-destra prevedeva. Ci immaginiamo cludente. Se un grazie va dato lo dobbiamo a Draghi che quanto avrebbero risparmiato, in termini di tasse e bolletsalvando l’Europa aiuta anche l’Italia.» te, 66 milioni di italiani? Quanto sarebbero divenute concorrenziali le nostre industre con conseguente sviluppo Ma gli Italiani si ribellano o no? economico in barba a qualunque ipotesi recessiva? «Gli Italiani passano ciclicamente dall’antipolitica Quando mai avremmo avuto una spread negativo?» allo scoramento, dal dissenso alla disobbedienza civile.


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Prima sommessamente, poi sempre più decisamente, hanno chiesto a gran voce che questi cosiddetti tecnici vadano a studiare, vadano a fare un tirocinio da ministri e governanti. La realtà è che ad oggi il bilancio è disastroso.» Per superare lo scoramento? «Tornare al voto. La reazione più razionale e sensata è che lo scettro torni al popolo sovrano, che venga immediatamente riaffermato il primato della politica. Dobbiamo votare. Almeno quando una maggioranza non funziona, i cittadini col voto la mandano a casa. Ma qui che facciamo, se continua l’esperienza di commissariamento della politica... mandiamo a casa i politici che non hanno governato e che dovranno a loro volta mandare a casa quei tecnici che hanno contribuito a mandare al governo? Mi sembra troppo complicato.» Per concludere: qual è per Cinque il discrimine vero tra destra e sinistra, oltre naturalmente i valori e le ricette, discrimine che dovrebbe convincere gli elettori a votare per i partiti politici? «L’amore per l’Italia. Dobbiamo volere bene a chi vuole bene alla patria. Chi vuole il voto nel rispetto delle regole democratiche è un vero italiano. Politica sempre, Partitocrazia mai.»

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«VADEMECUM» PER I GIOVANI

PASSATO, presente e futuro di MAURO SCACCHI VA TANTO di moda essere contro tutto e contro tutti. Non importa neppure scandagliare le ragioni di questa insofferenza, di questo moto contestatore, ciò che conta è schierarsi in opposizione a qualcosa, giusto per sottolineare la propria diversità rispetto al contesto sociale in cui si è inseriti, contesto che può essere grande o piccolo, politico o familiare. Ci si indigna, si digrignano i denti, si vuole stare al centro dell’attenzione nella vana speranza d’essere ascoltati così da cessare d’essere soltanto omini con due zampette che calpestano il Mondo, assurgendo invece alla condizione di Persona che può fare la differenza. Tutto ciò ha un non so che di astratto, di campato per aria, di patetico. Già, perché in mezzo a questa azione di rivalsa (contro l’interlocutore o il fatto di turno) s’annida la frustrazione, la disperazione, la rabbia istintiva. Mancano, però, due estremi fondamentali: noi stessi (chi siamo, cosa vogliamo e come possiamo ottenerlo), e ciò che sta alla fine di questo utilizzo impazzito di energie, cioè l’oggetto reale con cui vale la pena relazionarsi. Insomma, si deve dare un profilo organico all’oggetto dei nostri interessi, decidendo quali siano, in esso, le priorità, i nodi principali da sciogliere, le battaglie che devono essere combattute per arrivare alla meta, meta che si deve ben chiara avere in mente. Cari giovani, fermatevi, datevi tempo per pensare, l’alternativa è divenire come vespe impazzite che sbattono contro il vetro di un barattolo senza accorgersi che il barattolo, nel frattempo, qualcuno l’ha buttato via. Una prima considerazione: senza passato non c’è futuro. Non è uno slogan, è la verità. Chi vuole rompere in toto col passato rinnega se stesso, poiché tutti noi siamo ciò che abbiamo costruito, e ciò che abbiamo vissuto, fino ad ora, e allo stesso modo non è pensabile immaginare una società del futuro che neghi la propria storia. Anche quelli che dicono di voler cambiare, stravolgere ogni cosa, saranno costretti ad usare mezzi e pensieri che conoscono grazie a qualcuno che glieli avrà forniti. Una cesura vera col passato non è possibile, semmai è possibile disporre sul tavolo in maniera diversa elementi già noti, ibridandoli e amalgamandoli sì da creare qualcosa di nuovo. Questa consapevolezza è la base di ogni progetto sensato che abbia a cuore il benessere tanto del singolo quanto della società. Una seconda considerazione: se oggi si sta peggio di ieri (economicamente, psicologicamente), significa che qualcuno, da qualche parte, ha sbagliato. O chi c’era ieri s’è mangiato tutto non pensando alle future generazioni (cioè voi, cui mi rivolgo), o chi c’è oggi vi sta prendendo in giro, sottraendovi il diritto alla felicità per controllarvi e negarvi la possibilità di continuare a pensare con le vostre teste. Finché vi affiderete a individui che si mangiano tutto, o che mirano a rendervi claudicanti e tristi, non ci sarà per voi via d’uscita. Mario Monti, in un’intervista apparsa il 27 luglio scorso su Sette del Corriere della Sera, a proposito dei trenten-


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ni e quarantenni ha dichiarato che «la verità, purtroppo non bella da dire, è che messaggi di speranza possono essere dati ai giovani che verranno tra qualche anno. Ma esiste un aspetto di “generazione perduta” [trentenni e affini, appunto], purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni, di trovare formule compensative di appoggio, ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi in qualche modo partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla “generazione perduta”, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori dei passato, a non crearne altre, di “generazioni perdute”». Insomma la colpa del disagio giovanile (i giovani vanno ormai dai ventenni ai quarantenni) è tutta da ascrivere a chi vi ha preceduti e a chi oggi non sa dare risposte adeguate. Ormai il danno è fatto, rassegnatevi. Ma per favore! Ecco la ricetta per rimontare in sella e sciabolare chiunque s’azzardi a ripetere che per voi, in pratica, non c’è più speranza. Tornare a fare comunità. Basta con le divisioni. Conservatori, reazionari, tradizionalisti, cattolici, monarchici, pseudo-atei ecc, se vi sentite di destra, o di centrodestra, ma non capite più bene perché avendo perso di vista i valori che vi legano, ebbene intanto mettetevi spalla contro spalla come fratelli in armi (metaforicamente, s’intende). Pensate a cosa non siete: materialisti, credenti dell’egualitarismo che tutto livella, scientisti, adepti della speculazione finanziaria, mondialisti che se ne infischiano della propria identità culturale. Perché, invece, si può essere europeisti senza uccidere le tradizioni nazionali, mondialisti senza essere servi di nessuno. Il Mercato Globale ammazza l’individuo umano riducendolo a numero, utile soltanto per stare sui grafici delle borse. C’è stato un tempo in cui tra il capitalismo spinto e il comunismo venne proposta una Terza Via, il Corporativismo, che non era come oggi lo si vorrebbe intendere una lobby per soli pochi padroni. Le lobbies sono altra cosa. I centri di potere Occidentale come Bilderberg, Trilaterale, ecc sono lobbies. Lo scopo, pur nobile, di voler fare quadrato contro analoghi centri di potere in Oriente, è stato offuscato dal mezzo utilizzato per raggiungerlo: moneta virtuale, giochi sporchi per cui mezza frase detta da Mario Draghi o da Mario Monti può a cascata produrre impennate di spread. Questa è «demonìa dell’economia», come soleva dire Evola. Al latino dei chierici s’è sostituito il linguaggio di borsa, misterioso, dai più incomprensibile. La religione della finanza schiaccia l’economia reale. L’irrealtà più oscura acceca il buon senso e tutto diventa discutibile, friabile, inafferrabile. Il Mercato Globale è la deviazione della Terza Via, oseremmo dire il suo «lato oscuro» di lucasiana memoria. Basta con l’aver paura, basta sterili divisioni! Prima si riprendono le redini del Paese e meglio è, poi si discuterà se era meglio Giove Capitolino, nostro Signore Gesù Cristo o se sarà meglio prestare attenzione alla questione sociale piuttosto che alla necessità di riscoprire in noi stessi lo spirito immortale e trascendente che ci avvicina alla luce, al cielo e al simbolismo solare. Fate Comunità. Riascoltate l’istinto, quel sentire empatico per cui si comprende subito chi può stare con voi e chi no. Anche qui, attenzione però ai pregiudizi fallaci. Strano ma vero, ma amici si potranno trovare anche in fazioni all’apparenza avverse. Non è vero che il giustizialismo sta a sinistra e il garantismo a destra, ma che vuol dire? Giustizia è giustizia, legge è legge. Punto. Coppie di fatto? Ci sono cattolici a sinistra che non le vogliono e a destra mi-

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gliaia di ragazzi conviventi che le vogliono vedere riconosciute quanto prima. Temi trasversali da cui, però, non dovrete farvi ingannare. Non è che non esistono più né destra né sinistra. A dirlo sono i convertiti, i traditori, gli approfittatori e gli atei delle idee. Vero anche che gli estremi si toccano. Perciò alcuni, se anche non di destra, possono oggi allearsi con voi. Le vostre lotte e le loro vanno a braccetto. Se non lavorate, vi serve un lavoro. Stessa giusta lotta, per ottenerne uno vero e non fasullo, da precari, da falsi occupati buoni soltanto per le statistiche dei Tg serali. Questo, per gli alleati. Poi vi sono i fratelli d’arme, come spartani pronti a farvi scudo, veri fratelli. E qui entra in gioco il sentire empatico di cui prima, ch’è dovuto ad un’eredità ancestrale, che per definizione s’avverte e che soltanto dopo, forse, qualcuno potrà descrivere. Diciamolo pure: orgoglio nazionale, protezionismo culturale. La Cultura deve rinascere a Destra. Deve riassumere il ruolo di pre-politica che le spetta di diritto, come benissimo dice Gianfranco de Turris dalle pagine de Il Foglio del 16 luglio scorso, nel pezzo Consigli spassionati per la rifondazione culturale della Destra italiana. Deve farlo ricevendo reale sostegno di politici lungimiranti, di statisti dunque, creando associazionismo e movimentismo, prendendo in mano mezzi di comunicazione e aprendo le porte ad ogni idea che suoni buona e sia tesa a riscattare la nostra dignità, che voglia riconfermare con forza di fronte al mondo intero il primato dell’Italia. Nel centrosinistra si azzuffano e si contraddicono. A tratti lampeggiano proposte che vedrebbero insieme clericali e pro-omosessuali. Il centro è sbandato. L’alternativa sta a Destra! Occorre solo esserne consapevoli, fare squadra e condividere un unico sacrosanto obiettivo: l’Italia deve tornare in serie A. Ogni mezzo andrà bene. Poi si discuteranno i dettagli. Vi sono delle priorità nella lotta, compresa quella politica. Se si muore di fame, è secondario far problemi sulle coppie di fatto. Chi non lo capisce è fuori dai giochi. Chi non comprende le priorità affossa il Belpaese. Soltanto voi, amici miei, giovani e meno giovani, potete lottare per voi stessi, nessun altro lo farà. Fatelo insieme, decisi, retti, leali tra voi, chi mai potrà fermarvi? Bisogna dire basta tutti insieme, non come i grillini, contestatori puri, ma con un fine nobile, un indirizzo comune. E vedrete che anche tra i grillini, e tra molti altri, ne usciranno per unirsi a voi. Ora ci serve non un industriale che nulla sa dei vostri guai, ma un politico serio, uno con le spalle larghe e la voce forte, caparbio ma giusto, inflessibile ma sensibile alla «generazione perduta» (che, tra l’altro, è ormai anche un movimento soprattutto on line da tenere in considerazione). Pio Filippani Ronconi in Le Vie del Buddhismo (Ed. Basaia, 1986) citando il Buddha affermava: «L’attenzione conduce all’immortalità, la disattenzione alla morte; gli attenti non muoiono mai, i disattenti sono come morti». La nostra (sì, anche la nostra) disattenzione ha permesso a gente lontana di comandare sulle nostre vite, ci ha storditi e resi come sonnambuli, preda dell’attendismo più patetico. Quindi: fine dell’attendismo, la manna dal cielo è già caduta, non ricapiterà ancora. Svegli, vigili, attenti. Associazioni, strutture di Comunità, ovunque e a tutti i livelli, con persone nostre che non chinino mai il capo. Camminare avanti con uno sguardo al cielo. Un moto ch’è prima interiore, poi esteriore. Senza più ipocrisie né falsi educatori. Siate stufi di ricevere paternali da chi predica bene e razzola male, da chi vuole il vostro sangue ma il suo lo ha già messo, ben custodito, sotto il materasso.


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IPOCRISIA parolaia di ADRIANO SEGATORI UNA delle innumerevoli mistificazione della democrazia è la negazione dell’indispensabile confronto amico-nemico, per giungere astrattamente all’eliminazione di ogni conflitto. Soltanto le ideologie e i sistemi totalitari, secondo i difensori di questa superstizione, sarebbero la causa della lotta e della guerra, mentre gli uomini democratici porterebbero pace e serenità con l’eliminazione buona e sentimentale di ogni tensione. Il fatto è che non può sussistere rapporto tra identità senza conflitto, e conflitto è riconoscimento della diversità e dell’antagonismo, non soltanto sangue e sopraffazione cruenta. È soltanto dal conflitto che nascono i cambiamenti ed il problema, perciò, non è la sua anestetizzazione, ma trovare le modalità per gestirlo e incanalarlo. Il problema è che il nemico - colui che è Altro, e che necessariamente non devo sopraffarlo con la violenza - è stato desimbolizzato a Male, a bandito, a delinquente, togliendogli la dignità di antagonista dialettico. Nelle nuove guerre cosiddette umanitarie il nemico è stato stigmatizzato e privatizzato, quindi ridotto nella categoria criminale e penale del delinquente, verso il quale deve agire la polizia mondiale (leggi USA e complici); una deformazione della politica codificata dal diritto internazionale nella Ginevra del dopoguerra. Scomunicata la lotta di classe e messa all’indice quella legata alle concezioni dell’uomo uomo (fascismo, nazionalsocialismo e comunismo), sorge dalle ceneri di un sistema ridotto a comitato di affari e consiglio di soci la figura del delinquente interclassista. In Italia, è sorta, su indicazione e per volontà dei ragionieri tenutari del potere parlamentare, la figura del male assoluto economico: l’evasore. Siamo ritornati al periodo del terrore giacobino, senza le motivazioni scandalose e sanguinarie di una Dea Ragione, ma con le stesse modalità delatorie e di esposizione al pubblico ludibrio. Non la testa penzolante dalla mano del boia, ma la denuncia finanziaria pubblicata sui quotidiani nazionali. Nel Paese del diritto calpestato, tutti possono evadere: dal terrorista pluriomicida allo stupratore seriale, dall’imprenditore dello spaccio al magnaccia impresario, ma non il gelataio di quartiere, né l’elettricista amico di famiglia. Il lavoratore autonomo è per antonomasia un riccone mascherato, un illusionista della sobrietà: un pirata che conosce la mappa di ogni scappatoia e il nascondiglio più adeguato per il suo malloppo. Da noi il diritto di cittadinanza viene richiesto per ogni clandestino, sia esso arrivato con un gommone nautico o nella pancia di un TIR, non importa la sua fedina penale originaria né il reale contributo al Paese di arrivo, perché l’accoglienza sinistra e pretesca prevede quel dispositivo aberrante e sdolcinato che si chiama accoglienza. Non per l’evasore! L’ex presidente dell’Autorità garante della privacy (perché nella modernità deve esistere una nullità pagata lautamente per garantire che ogni cittadino si faccia i «cazzi» propri senza infestare la vita del suo prossimo), tale Francesco Pizzetti, ha lanciato la proposta di togliere il diritto di voto agli evasori fiscali. Bella idea! E dopo dicono che in Italia c’è il fenomeno della fuga dei cervelli, quando invece

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molti esemplari così rimangono in auge. Questo ignoto signore vorrebbe punire coloro grazie al cui lavoro (meglio se in nero) da oltre mezzo secolo mantengono una economia nazionale in mano a ricattatori ed estorsori. Un astuto membro del gruppo di ricerca di cui faccio parte, Alessandro Felluga, come Max Stirner epigono dei metafisici degli straccioni, mi ha inoltrato una efficace dichiarazione rilasciata da un personaggio non sospetto in tempi altrettanto non sospetti. Ha detto Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976: «Se l’Italia si regge ancora è grazie al lavoro nero e all’evasione fiscale che sono in grado di sottrarre ricchezze alla macchina parassitaria ed improduttiva dello Stato per indirizzarle invece verso attività produttive». Questo è parlare chiaro e onesto, al di fuori della demagogia del potere costituito. È anche una modalità dirompente per denunciare una realtà e la sua manipolazione, perché - per citare il grande Orwell - «Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario». E questo è il nostro tempo. Degli inganni e della doppia morale. Dei pensionati multimilionari mensili che predicano sobrietà a quelli che non hanno i soldi per l’insalata e un pesce a settimana; che si dedicano allo strozzinaggio dei liberi professionisti, dei commercianti e degli artigiani mantenendo coorti di funzionari, mezze maniche, pennivendoli e rappresentanti di se stessi; che supportano il signoraggio bancario transnazionale e la finanza speculativa anonima, nonché la difesa di ufficio degli usurai globalizzanti; che esaltano la competenza, la professionalità e la selezione ma scelgono in base all’obbedienza, all’efficienza e alla condivisione affaristica. Questi si permettono di mettere all’indice gli evasori, che non evadono il fisco - intendiamoci bene - ma quell’apparato strozzino che piega la volontà imprenditrice con balzelli, morse burocratiche e cappi da legulei. Questi evasori tentano di sottrarsi alla garrota delle agenzie di recupero crediti, e di cautelarsi dai ritardati o mancati pagamenti per i lavori commissionati dagli uffici statali. Certo, ci sono anche i miliardari che giocano su più tavoli ed evitano la equa partecipazione economica alla società, ma alcuni interrogativi si pongono spontaneamente e provocatoriamente: è accettabile un sistema di tassazione che è il più alto del mondo ed è gestito in maniera sperequativa? Chi fa girare l’economia: quei 20-30 mila che hanno portato le barche all’estero o quelli che sono stati costretti a vendere le bagnarole domenicali per la tassazione insostenibile? Chi sostiene il benessere generale: quelli che lavorano aumentando i guadagni o quelli che rinunciano al lavoro perché le uscite sarebbero superiori alle entrate? La crisi in atto, e quella peggiore a venire, non è imputabile alla figura stigmatizzata dell’evasore. Come sottolinea Max Otto in Fermate l’Euro disastro! (Chiarelettere, 2011), essa «è stata il sintomo di un fallimento del sistema al quale hanno contribuito tutti gli operatori: banche d’investimento, banche commerciali, debitori privati, agenzie di rating, revisori dei conti e politici». Non è che non hanno previsto la catastrofe, ma l’hanno determinata, e ora cercano dei capri espiatori per buttare fumo negli occhi e spacciarsi da salvatori. Sono coloro che, con la lacrima in primo piano, sussurrano sofferenti di combattere per contrastare le leggi dell’economia, negando la verità che l’economia è una falsa scienza, senza legge né etica, e le loro omelie sono soltanto patetici inganni, perché «le sedicenti ‘leggi del mercato’ costituiscono una delle più infami imposture intellettuali della nostra epoca» (I. Stengers, Scienze e poteri, Bollati Boringhieri, Torino 1998). Non è con il carburante della finanza che si spegnerà questa crisi, ma con un nuovo e catartico diluvio politico.


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CARO AMICO ti scrivo ... di ROMANO FRANCO TAGLIATI NEI PAESI soggetti al regime comunista, come ricorderai, lo Stato possedeva ogni cosa. Le strade, i campi, le scuole, le case, gli ospedali, le fabbriche, le miniere, i tram, la metropolitana... Gestiva e, almeno in teoria, provvedeva a tutto, pagando ai lavoratori salari sì e no sufficienti a comprarsi i pochi generi alimentari che trovava sul mercato, e che spesso non bastavano a sfamarlo, a vestirlo, a ripararlo dal freddo. Un’economia complessiva e autoritaria che, nel corso di 70 anni che rimase in piedi, affossò e diffamò un’idea, quella del socialismo, che agli inizi del secolo scorso era sembrata una luce sfolgorante, che finì per trarre in inganno anche da noi una marea di brava gente che a quella giustizia aveva sinceramente creduto e che, alla fine del gioco, si trovò delusa e amareggiata. Andai in Russia la prima volta nel 1975. Ovunque incontrai lavoratori, insegnanti intellettuali arrabbiati e umiliati, in fila davanti a una vetrina vuota, o a una pila di patate. Uomini e donne disperati nel constatare che la loro voce, la loro presenza, la loro vita, non contavano nulla. Non contavano che i rappresentanti del governo che, impettiti nelle loro divise, non esitavano a dichiarare che la loro strada era giusta, che soltanto in quel modo, soltanto con quel rigore, si poteva creare uno Stato forte, indipendente, mentre rincorrevano armamenti sempre più sofisticati, affossando ogni espressione più elementare di libertà. Ogni tanto si levava la voce di un dissidente che poi finiva in Siberia. Ogni tanto circolava il libro di un contestatore clandestino, ogni tanto qualcuno si buttava sfiduciato da un balcone. In generale, però, la gente comune taceva e, vedendo in quella miseria la sintesi di un destino ormai immutabile, passando davanti ai tristi palazzi della Lubianka, chinava il capo come davanti a una chiesa. La paura rende prima prudenti poi muti. La vita umana è un bene temporaneo. Quando si alzò finalmente il coperchio che copriva manu militari quell’enorme disastro, erano passati 70 anni. Tre generazioni. Un brutto capitolo della storia d’Europa che nessuno dimentica. Dopo la deforestazione dalle mille aziende statali deficitarie (vendute o sovente svendute), la privatizzazione delle autostrade, delle Ferrovie, dell’energia elettrica, del gas... e persino delle latrine pubbliche (nonostante il continuo ribollire delle tasse) non c’è più servizio che non sia a pagamento. Se ti scappa, e non hai pronto un euro, cosa fai? Se per pagare la benzina devo vendere la macchina, dov’è la logica? Persino sul possesso di una decrepita automobile, di una casa modesta, acquistata con sacrifici e denaro che aveva già pagatole tasse, l’erario pretende una nuova imposta. Avevano ragione i sovietici? Meglio che i cittadini non possiedano nulla? E allora, in cos’è migliore questo libero mercato? Mi dirai che da noi non c’è la Lubianka, che non esistono i Gulag, che i libri, i giornali, le idee e le merci circolano liberamente, e, poiché i partiti non fanno altro che farsi la guerra tra di loro, non pare proprio che, almeno per il momento, ci sia pericolo di dittatura.

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Mi sono servito della citazione, senza troppo inoltrarmi nel contesto storico di quegli anni, semplicemente per ricordare che, anche da noi come nel resto del mondo, la vita è un bene temporaneo. Se mi carichi di tasse, se mi fai pagare anche l’aria che respiro, se, per far quadrare i conti dello Stato, ti apposti dietro l’angolo e, a fronte della minima infrazione, mi chiedi l’equivalente di una giornata di salario, se per entrare in macchina a Milano pretendi una gabella come nel medioevo, se, quando mi trovo in difficoltà mi perseguiti, mi costringi a vivere da miserabile, perché mai devo vivere? Chi ha ottant’anni e ha lavorato una vita, non può, nella speranza che un giorno tutto torni alla normalità, mettere indietro le lancette dell’orologio. Non lo vieta l’alta finanza, ma non lo consente il padreterno. È vero che c’è gente (più di quanta non si pensi) che evade le tasse, ma siamo certi che se non lo facesse, l’incasso basterebbe a coprire le spese, gli sprechi, i debiti accumulati da un simile carrozzone? Ci sono tempi logici e tempi fisiologici. Non sempre i primi vanno d’accordo con i secondi. Lo sai che nel nostro paese, secondo dai forniti dalla UIL, a fronte di un milione e trecentomila insegnanti,oltre un milione e trecentocinquantamila persone, a vario titolo e a vari livelli, vivono oggi di politica? Oltre 450.000 sono parlamentari, ministri, amministratori locali. Migliaia sono i consiglieri circoscrizionali e i membri dei CDA delle 7.000 società, degli enti,dei consorzi partecipati ai quali va aggiunta la massa di personale di supporto. Circa 318.000 sono le persone che hanno un incarico o una consulenza pubblica... I lavoratori del pubblico, con contratto a tempo indeterminato sono circa tre milioni e trecentomila. Sono tutti indispensabili? Pare che siano almeno 24.000 quelli in esubero. D’altro canto, anche se volessimo o potessimo sfoltire, portarli a un numero logico, come avviene in una normale struttura privata, dove cavolo li metteremmo? Il solo fatto certo è che, requisendo di continuo con tasse, balzelli, imposte, accise, gran parte della paga dei contribuenti più poveri, li porti gioco forza sempre più nella stessa situazione dell’ex Unione Sovietica, con l’aggravante che qui le classi ancora ci sono, le disparità sociali sono macroscopiche e il confronto si fa ogni giorno sempre più doloroso. Cosa faremo? La chiameremo Italia Sovietica? Ristabiliremo il servizio militare di leva, riapriremo le caserme (ora vuote) e creeremo un esercito di diseredati? Una gavetta di rancio è sempre meglio della zuppa che si dovranno tra poco mangiare alla mensa dei poveri o in solitudine sotto un ponte. Mi ripeterai che si tratta di un’emergenza, che qui, o si rifà l’Italia o si muore! Dopo il 1861, molti milioni di lavoratori italiani provenienti da ogni regione furono costretti ad emigrare per cercare lavoro in tutti i Paesi del mondo. Repetita non semper juvant. Negli ultimi vent’anni, in Italia, di governi tecnici ne abbiamo avuti tre: quello di Amato, famoso perché rapinò nottetempo il sei per mille dai conti correnti degli italiani, quello di Ciampi, a ridosso con lo scandalo di «mani pulite» e, infine, quello di Dini che, nonostante le buone intenzioni e una blanda riforma delle pensioni, non ebbe il risultato sperato. Nessuno di loro ha messo mano al debito pubblico, nessuno alla Giustizia... Un’infilata di governi tecnici che, senza mai raggiungere lo scopo, dimostra unicamente come da noi le crisi dell’economia e della politica siano cicliche. C’era, ai tempi della guerra, un burattinaio che girava per i paesi in riva al Po con il suo teatrino ambulante, e rappresentava per noi bambini, a volte durante la stessa serata, due o anche tre diverse commedie. Dietro la tenda, lui e la figlia, si davano il cambio nel dare una diversa voce ai personaggi. Ma


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IL FALLIMENTO DELLE REGIONI

AFFARISMO e clientelismo di ADALBERTO BALDONI LA GENTE della strada, soprattutto quella che non andrà a votare nelle prossime elezioni, introdurrà scheda bianca nelle urne o, ancora peggio, sposerà la causa protestataria di Beppe Grillo, ha assistito disgustata alla rissa dei politici per la riduzione delle Province. Il dibattito (una vera e propria moina) è servito a distogliere l’attenzione dai problemi della Casta a cui deputati e senatori, di sinistra, di centro e di destra, si sono fino ad ora sottratti: la diminuzione dei parlamentari, la cancellazione del «Porcellum» per varare una nuova legge elettorale, il taglio dei rimborsi ai partiti, il riesame dei privilegi (auto blu, indennità, vitalizi, portaborse, dato che gli emolumenti finiscono nelle loro tasche). Inoltre i partiti hanno finto di ignorare, quando ras locali o del potere centrale si accapigliavano sulle Province, di un altro essenziale argomento che concerne gli enti locali: quello delle Regioni. Infatti secondo alcuni autorevoli politologi e costituzionalisti sarebbe il momento di affrontarlo con coraggio e serietà. Una vera, consistente spending review è quella a cui non dovrebbero sottrarsi le Regioni, nessuna esclusa, che rappresentano, così come sono amministrate, un contenitore di clientelismo, affarismo, malaffare, corruzione. In dieci anni, partendo dal 2000, la spesa pubblica regionale è cresciuta da 119 a 209 miliardi. L’aumento, quasi tutto imputabile alla sanità, è stato del 75,6 per cento. Dopo avere calcolato che questa cifra è pari a tre volte e mezzo l’inflazione, ma soprattutto il doppio rispetto alla crescita del 37,8 per cento registrata da tutta la spesa pubblica, Sergio Rizzo sul Corriere della Sera («Le mani bucate delle Regioni», 23 agosto), ha osservato giustamente che «senza il contributo devastante delle Regioni, il rapporto fra spesa pubblica e prodotto

i burattini erano sempre gli stessi. Perciò, buoni o cattivi, avevano sempre le stesse facce, sia quando rappresentavano un personaggio comico che uno tragico. Se si tratta davvero di rimettere in piedi il Paese, di far davvero quadrare il bilancio, di far scendere il debito pubblico, non sarà il caso di liberarci prima di tutto di coloro che, pur cambiando voce, sono gli stessi che hanno creato il disastro? Non so che fine abbiano fatto, dopo i miserabili risultati ottenuti, i grandi economisti dell’URSS, ma mi domando spesso quale fine debbano fare i nostri, quelli che, a forza di sprechi, di furti, di malversazioni clientelari, hanno saputo ridurre il Paese in queste miserabili condizioni. Sono loro destra, sinistra, o centro poco importa - che si presenteranno ancora alle prossime elezioni? Sono loro che vogliamo riportare al governo? Il nostro - si dice - è un Paese pacifico. A costo di ripetermi, mi servo ancora una volta della medesima citazione per ricordare - casomai ce ne fosse bisognoche anche da noi la vita è un bene temporaneo e... assai poco durevole. Come la nostra pazienza…

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interno lordo sarebbe , al netto degli interessi, più o meno lo stesso di una decina d’anni fa. E oggi, che ci costano almeno 90 miliardi in più, sicuramente le Regioni e la sanità, non funzionano meglio di allora». L’editorialista del Corriere ha centrato un altro aspetto, quello del demagogico «federalismo casereccio», portato avanti sia dalla Lega che dalla sinistra. La prima convinta che sarebbe stato sufficiente decentrare per risolvere i problemi dei costi pubblici, la seconda protagonista di una delle peggiori castronerie: la riforma del titolo V della Costituzione che, di fatto, ha privato lo Stato centrale del potere di controllo. Quando, nel 1970, a ventidue anni dall’entrata in vigore della Costituzione, venne sancita dal Parlamento l’attuazione delle Regioni, la maggioranza degli italiani ritenne che il decentramento potesse snellire il meccanismo centrale dello Stato, reso pesante da una vetusta e farraginosa burocrazia. Sia alla Camera che al Senato i partiti di destra (Msi, i monarchici del Pdium, Pli) votarono contro la legge che finanziava le Regioni. Fu in quell’occasione che il segretario missino, Giorgio Almirante intervenne più volte alla Camera ed un suo intervento superò le otto ore. Quello di Almirante fu un duro atto di accusa contro l’istituzione delle Regioni, così com’era stata partorita dalla Carta costituzionale approvata dall’Assemblea costituente nel dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Una Carta, disse Almirante, nata tra l’altro, da un vizio d’origine: quello del compromesso tra i partiti del Comitato di liberazione nazionale (tra i quali Pci e Dc), che si erano rifiutati di sottoporre il testo al giudizio del popolo, cioè al referendum popolare. Un anno dopo, il 16 gennaio 1971, Almirante parlò per ben nove ore contro il disegno di legge relativo alle modifiche dello statuto speciale per il Trentino Alto Adige. Il discorso del segretario missino volle essere una serrata critica all’Austria quale ispiratrice del movimento di rivendicazione della popolazione di lingua tedesca e contro il governo italiano che, con quel provvedimento, svuotava di poteri reali la funzione della Regione, mentre affidava moltissima materia della potestà legislativa primaria e secondaria alla provincia di Bolzano per favorire l’elemento tedesco e avvantaggiare la Volkspartei. Nei primi anni Ottanta, dopo che le pessimistiche previsioni di Almirante, si erano avverate, la Destra nazionale, per fronteggiare la crisi del sistema parlamentare e della partitocrazia (che sarebbe poi esplosa con Tangentopoli), iniziò a lavorare per un progetto organico di nuova Costituzione. Nacque l’idea della rifondazione dello Stato, di una nuova Repubblica, «unica soluzione per uscire dal tunnel dentro il quale brancolava, senza guida e senza bussola, la società italiana», come scrisse Franco Franchi, presentatore del testo di riforma. In questo articolato disegno rientravano anche gli Enti locali. Il prof. Gaetano Rasi, che ha collaborato allora alla stesura del documento sulla Nuova Repubblica, si è cortesemente impegnato a riprendere questo discorso, per illustrarci gli ulteriori passi compiuti dalla Destra dagli anni Novanta ad oggi. La macchina regionale non funziona - Trascorsi ben 42 anni dal ‘70, gli Italiani, anche quelli più lontani dalla politica, si sono accorti che la macchina regionale non funziona. Si è verificato un progressivo peggioramento in tutte le Regioni, al Nord, al Centro, al Sud. Non c’è amministrazione, rossa, bianca, nera, che non sia stata toccata dalla corruzione ed abbia subito gli interventi della magistratura. I centri decisio-


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nali si sono moltiplicati, le procedure sono divenute più complesse, il groviglio di norme e competenze è sempre più ingarbugliato, mentre i veti incrociati hanno paralizzato i programmi ad ampio respiro. Sono quasi sempre falliti i piani di sviluppo, si sono impoveriti i settori produttivi, è stata distorta l’attuazione della riforma sanitaria. Altre responsabilità delle Regioni: il soffocamento degli Enti locali, l’incapacità di creare nuovi posti di lavoro attraverso la valorizzazione delle risorse locali, lo sperpero di denaro pubblico in opere di vetrina improduttive. La forte burocratizzazione dell’Ente, nato per eliminare i vizi della burocrazia statale è stata capace soltanto di fare proliferare gli enti clientelari. Accentratore rispetto agli altri enti locali, nemico e antagonista dello Stato, l’ente Regione non ha saputo essere per sua natura, il punto di raccordo tra il cittadino e lo Stato, il mezzo per l’avvicinamento del potere al cittadino; mentre l’insieme dell’ordinamento regionale - sin dal suo sorgere - ha inferto un duro colpo all’economia nazionale, impreparata a sostenere una spesa tanto astronomica quando improduttiva. Quali grandi opere, infatti, quali rilevanti servizi pubblici si possono indicare, a fronte delle decine e decine di miliardi, passati attraverso la macchina regionale? L’ente è sbagliato nelle dimensioni, nelle strutture, nelle competenze, negli organi, nei meccanismi di controllo. Sarebbe quanto meno da rifondare; con mentalità nuova, sgombra dai motivi di lotta per il potere, tesa alla ricerca del decentramento più razionale. LE SPESE FOLLI DELLA REGIONE LAZIO La Polverini: parla bene ma razzola male - Da circa tre mesi, sui principali quotidiani nazionali vengono riportate le spese folli della Regione Lazio, la cui governatrice è Renata Polverini, 50 anni compiuti, ex sindacalista della Cisnal e dell’Ugl, eletta nel marzo 2010, soprattutto per i voti raccolti nelle province, dato che a Roma, l’incolore Emma Bonino candidata del centrosinistra, l’aveva letteralmente stracciata. In due anni di governo, la Polverini ha combinato ben poco. C’è chi l’accusa di prestare scarsa attenzione ai problemi del

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territorio, perché distratta dalla politica nazionale. «È una megalomane», dicono chi le sta vicino. C’è invece chi la considera incapace di gestire una realtà complessa come quella di una grande regione. Sembra che i fatti confermino i negativi giudizi sulla sua persona. Il 13 gennaio scorso la Polverini aveva presentato al Tempio di Adriano la sua nuova creatura, la Fondazione «Città Nuove», una sigla già utilizzata nelle scorse amministrative laziali per misurare i propri muscoli, anche contro candidati del Pdl, il partito che l’aveva sostenuta per sedersi sul trono della Pisana. (Se esistesse un partito vero, l’iniziativa elettorale della Polverini sarebbe stata stroncata sin dal nascere). Nel corso del suo discorso, la Polverini aveva annunciato che «”Città Nuove” sarà presente anche fuori del Lazio. Arriveremo a Taranto, Pescara, Perugia, Napoli e ovunque richiesto, dato che la Fondazione è al servizio del territorio». Claudio Marincola, nel suo pezzo sul Messaggero aveva osservato acutamente che «il manifesto di fondazione del documento, anche se partorito dal centrodestra sembra scritto dal centrosinistra per strizzare l’occhio ai sindacati più radicali». Poi, il 25 aprile, l’ex sindacalista di destra, aveva compiuto un altro passo verso le sinistre, anche quelle più radicali, affermando di riconoscersi nel valori della Resistenza, di essere stata sempre antifascista, di comprendere le ansie delle famiglie italiane in questo particolare, difficile momento. Ma la sua mentalità sinistrorsa, la sua battaglia per i lavoratori («no» all’abolizione dell’articolo 18, aveva sentenziato), il suo amore improvviso per i valori della Resistenza e per l’antifascismo, non sono bastati per avvolgere nelle nebbie dei bla-bla-bla e per fare passare in secondo piano la denuncia impietosa della disastrosa situazione in cui versa la Regione, in verità ereditata anche dalla sinistra di Piero Marrazzo ed Esterino Montino. Sotto questo aspetto la presidente di «Città Nuove» e governatrice del Lazio, ha ragione. Ma il promesso cambiamento non c’è stato. Neppure un segno di discontinuità con il passato. Né sono stati posti in essere i più volte richiamati valori etici. Sanità. Il disastro Lazio - Partiamo dalla Sanità. Nelle Regioni con i conti sanitari in deficit, i cittadini pagheranno di più già dal 2013. Sei regioni, da sole, hanno cumulato un disavanzo di 10,4 miliardi, pari al 94,5 per cento del totale. Guida il disastro il Lazio (quasi 5 miliardi, cioè 865 euro per abitante). Seguono Campania, Puglia, Sardegna, Calabria e Sicilia. Le sei aree con i bilanci più in rosso sono quelle dove i pazienti sono meno soddisfatti. Il Consiglio regionale costa 140 milioni di euro all’anno - Al momento di andare in stampa, riportiamo i dati sui costi della Regione Lazio, forniti dalle agenzie e dai giornali (mai smentiti), che potrebbero però essere modificati nei prossimi giorni. Il Consiglio regionale costa 140 milioni di euro all’anno. Il Presidente del consiglio (Mario Abruzzese, Pdl): 20.958 euro (retribuzione lorda mensile); due vice presidenti (Bruno Astorre (Pd) e Raffaele D’Ambrosio (Udc): euro 20.178 ciascuno (retribuzione lorda mensile) per un totale di euro 484.292; tre consiglieri segretari (Isabella Rauti, consorte del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, Pdl), Gianfranco Gatti (Lista Polverini) e Claudio Bucci (Idv): euro 19.153 ciascuno (retribuzione lorda mensile) per un totale di 689.514 euro. Lo stipendio mensile di un consigliere regionale (retribuzione netta) è di euro 13.321,79. Da notare che i consiglieri beneficeranno anche del vitalizio che scatta a 50 anni, senza l’ag-


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gravio di trattenute (3.100 euro, il mensile netto di un consigliere presente per una legislatura; 5.200 euro il vitalizio per 2 legislature; 6.100 euro il vitalizio mensile eletto per tre legislature). I vitalizi, ha detto la Polverini, saranno tagliati dalla prossima legislatura. Campa cavallo che l’erba cresce… Delle 20 commissioni del Consiglio, soltanto quella dei Giochi olimpici è stata soppressa nel maggio scorso, ma è rimasta in carica ben 4 mesi dalla bocciatura della candidatura italiana alle Olimpiadi 2020. Son restate 19 commissioni con presidenze, vicepresidenze e collaboratori (5 per presidenza). Ogni commissione costa annualmente un milione di euro. Camera e Senato di commissioni ne contano 15.

ELEZIONE DIRETTA NEGLI ENTI LOCALI

«Pdl» allo Regione: un insulto ai cittadini onesti - I gruppi consiliari, dotati di 201 dipendenti, hanno un costo annuo di euro 18.950.000. Sono spesi bene i fondi pubblici destinati ai gruppi?. Sembrerebbe di no, assistendo alla faida interna al Pdl esplosa in questi giorni dopo la defenestrazione di Franco Fiorito da capogruppo. L’esponente Pdl, vicino ad Alemanno, avrebbe gestito allegramente i fondi del suo partito, non soltanto per tornaconto personale ma pure per distribuire danaro ad altri suoi colleghi. Scoppiato lo scandalo è iniziata l’indagine della Procura che ha sequestrato centinaia di fatture intestate ai consiglieri: acquisti di cravatte Marinella, un servizio fotografico per Veronica Cappellaro (affettuosamente berlusconiana), bottiglie di champagne, cene nei ristoranti più esclusivi, noleggio di auto, eccetera, eccetera, eccetera. A Fiorito, in particolare, viene contestato di avere effettuato dal 2010 a oggi, sempre la stessa operazione bancaria per almeno 109 volte. Inoltre bonifici per importi pari a 4.190 euro o a 8.380 euro, prelevati da uno dei due conti del gruppo Pdl alla Regione e trasferiti sui suoi personali conti correnti, compresi cinque in Spagna. Per un totale di 753mila euro. I consiglieri che hanno sperperato i soldi dei cittadini, dovrebbero vergognarsi del loro comportamento. Dimettersi, sparire, trovare altre occupazioni. Infine speriamo che la magistratura indaghi anche sui fondi degli altri gruppi.

COME si ricorderà, negli anni ottanta il Movimento Sociale Italiano avanzò la proposta di elezione diretta dei vertici degli Enti Locali (Sindaci, Presidenti di Provincia e di Regione) con la duplice finalità da un lato di ridimensionare il potere dei partiti nell’amministrazione delle comunità locali (per contrastare quella che si chiamava «partitocrazia») e dall’altro di valorizzare le competenze di personaggi che, pur godendo di prestigio in sede locale, non potevano accedere alle più alte cariche amministrative perché lontani dalle logiche interne dei partiti. Nel clima di sfiducia verso i partiti derivato da «tangentopoli», la proposta missina venne recepita dal Parlamento e, a partire dal 1993, i sindaci, i presidenti delle circoscrizioni, i presidenti delle province e delle regioni vennero eletti direttamente dal popolo. Alle prime esperienze elettorali del 1993-1994 ci furono sorprese e duelli interessanti che davano ragione a quella proposta: l’elezione di Formentini della Lega a Milano, quella di Moffa (Msi) a Colleferro, di Finestra (Msi) a Latina, di Viespoli (Msi) a Benevento, di Poli Bortone a Lecce, i duelli tra Rutelli e Fini a Roma e tra Bassolino ed Alessandra Mussolini a Napoli, e tanti altri casi ancora che non è qui il caso di ricordare, indicavano chiaramente una svolta ed un rinnovamento della politica italiana, soprattutto in quella amministrativa. Ma, passati ormai quasi vent’anni, possiamo interrogarci sugli esiti di questa esperienza. A nostro parere, gli iniziali entusiasmi si sono via via stemperati e molti difetti stanno emergendo in questo tipo di elezione. Innanzitutto, non è vero che i partiti siano scomparsi dalle elezioni delle amministrazioni locali. Anzi, in una certa misura si sono rafforzati da due punti di vista. Il primo riguarda la scelta dei candidati i quali - pur essendo talvolta esterni alle «nomenclature» interne dei partiti - in realtà non scendono in campo da soli in nome della cosiddetta «società civile» ma sono individuati e proposti dalle segreterie dei partiti. Il secondo riguarda il sostegno ai candidati: essi sono sempre sostenuti da una coalizione di partiti, chiaramente indicati sulla scheda elettorale e nella propaganda, ed anzi si va alla ricerca del partitino che disponga di quel 2-3 per cento (od anche meno) di voti che consenta l’elezione al primo turno, e la stessa ricerca si ripete - anzi, diviene indispensabile - al secondo turno. Ma l’altro aspetto riguarda i sindaci o presidenti eletti. Avendo conseguito un consenso popolare maggioritario, spesso molti di essi ritengono di essere stati eletti per propria virtù e capacità, e non per le manovre intessute dai partiti di riferimento per estendere le alleanze e conseguire la vittoria. Questa percezione (nella maggior parte dei casi del tutto errata) induce gli eletti non già ad amministrare meglio e con dedizione la città, la provincia o la regione

Il presidente dell’assemblea, Mario Abbruzzese («Pdl»), incamera uno stipendio mensile come Obama! Merita un cenno la questione Abbruzzese, il cui stipendio mensile - come ha rilevato il maggiore quotidiano della capitale - è come quello del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. (nella sua scarna biografia, Abbruzzese confessa di leggere i libri di Obama…). Il presidente dell’assemblea regionale si avvale di 18 segretari (costo all’anno, euro 900mila) e di 9 consulenti (euro lordi 178mila annui). Un milione e mezzo di euro le spese di rappresentanza. Mario Abbruzzese (nato a Cassino nel 1958, già consulente di impresa, ha aderito al Pdl nel 2008) ai rilievi mossi dai media, dopo che la governatrice del Lazio, Polverini aveva assicurato di procedere ai tagli e all’eliminazione degli sprechi, ha reagito con una certa arroganza: «Sono pronto a fare i tagli, poi però l’aula dovrà votarli». Come dire, io ci provo, però è il Consiglio che decide… Resta da capire perché Abbruzzese, detto «faccia di bronzo», per lanciare un segnale alla gente che sputa sangue per arrivare a fine mese, non si sia ridotto lo stipendio ed abbia destinato ad altri uffici gli amici che lo circondano. Attendiamo, inoltre, che la Polverini, tirando fuori gli attributi di cui va fiera, adotti la «linea del rigore», per smentire ciò che si sghignazza alla Pisana: «La governatrice naviga a vista, su un mare di merda». Dopo lo scandalo al gruppo Pdl, non c’è alcun dubbio. È proprio merda.

DI CERTO, va rivista di NAZZARENO MOLLICONE


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per cui sono stati eletti, ma a pensare di capitalizzare il consenso avuto per diversi e più elevati incarichi politici. Questo non soltanto induce a trascurare i problemi del territorio amministrato per dedicarsi piuttosto a coltivare la propria immagine e predisporre le basi della futura più elevata aspirazione politica, ma crea anche turbamento nell’assetto politico nazionale per gli inevitabili contrasti suscitati tra i vari partiti interessati. È diventata ormai una moda per molti eletti, dal nord al sud, creare una propria lista personale o pensare ad aggregarsi autonomamente con altri eletti (il «partito dei sindaci», la «lista civica nazionale» ed altri simili progetti). In altri termini, a noi sembra che l’iniziale proposta missina tesa a valorizzare la figura del buon amministratore interessato soltanto al bene della propria città o comunità, senza altre finalità o scopi reconditi, sia stata molto ottimistica e non corrispondente alla realtà dei fatti per come si è poi manifestata. Vi è poi un altro problema insito nella legge istitutiva dell’elezione diretta del sindaco e delle altre cariche. Per garantire la governabilità dell’Ente, si è stabilita la permanenza nell’incarico dell’eletto per tutta la legislatura ed in caso di sua cessazione a causa di dimissioni, sfiducia, assunzione di altro incarico incompatibile, decade l’intero consiglio e si torna al voto. Principio certamente giusto e corretto dal punto di vista democratico che s’ispira al detto latino «simul stabunt simul cadunt». Ma ci domandiamo: questo principio fa bene alla città od al territorio amministrato? Perché anche in caso di evidente incapacità dell’eletto ad amministrare, in caso di contrasti con la maggioranza dei consiglieri, in caso di problemi giudiziari pendenti, è ben difficile che la maggioranza dei consiglieri dia la sfiducia in quanto il consiglio sarebbe immediatamente sciolto con la nomina di un commissario ed i singoli consiglieri dovrebbero sottoporsi anzitempo ad una incerta ed onerosa campagna elettorale. Ciò però provoca, in alcuni casi, la paralisi dell’Ente ed il lento trascinarsi fino alla scadenza della legislatura. Almeno questo punto della legge andrebbe modificato, prevedendo la possibilità di sostituzione del sindaco o presidente eletto in caso di sfiducia o di altro evento che ne provochi la decadenza, fermo restando il consiglio eletto, fissando un tempo predeterminato per evitare un altro tipo di paralisi prima di procedere allo scioglimento. Insomma, a distanza di venti anni dalla loro emanazione, le norme per l’elezione diretta dei sindaci e degli altri presidenti necessiterebbero di una revisione, alla luce dell’esperienza maturata e di molti casi clamorosi evidenziati.

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IL PATTO CINA - GERMANIA

E L’EUROPA affonda di MIMMO DELLA CORTE CHI lo avrebbe mai detto. Nella prima repubblica abbiamo temuto di morire democristiani; con Mario Monti, stiamo rischiando di spirare cinesi, con la regia tedesca ed in nome del moloc anni 2000: l’Europa. Basta riflettere su come vanno le cose, vedere come gira (meglio: non gira) l’economia europea e prendere nota degli eventi che ne stanno conseguendo, per averne piena consapevolezza. Una realtà evidente che soltanto chi non vuole può non vedere, e non essere colto dal dubbio che quello che stanno mettendo in scena, la «can-celliera» Angela Merkel ed il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann sia semplicemente un gioco delle parti, teso a ribadire e conservare lo strapotere della Germania sull’Unione europea. E poiché alla testa di questi «orbi per convenienza» c’è il nostro tecnico premier così appeso alle labbra della cancelliera teutonica e tanto affascinato dalle sue simil-finte coccole, da non riuscire « anche perché, come recita l’antica saggezza «il peggior cieco è quello che non vuol vedere» - ad accorgersi che quelle «tenere moine», vengono sempre smentite dai comportamenti e non si trasformano mai in «carezze» concrete, a pagare le conseguenze più pesanti di tutto questo siamo sempre e soltanto noi, da cui la Germania pretende - così come dagli altri Paesi europei - quelle «solidarietà» che lei non ha alcuna intenzione di offrire. Il che non può assolutamente sorprendere, dal momento che, come sosteneva Federico II di Prussia, «I trattati sono soltanto giuramenti dell’inganno e della infedeltà». Una massima la cui validità, anche se con qualche secolo di ritardo, quelli: che «noi siamo l’Europa e non avrai altra Europa al di fuori di noi»; che «le risorse della Germania non sono inesauribili»; che «in dieci anni hanno approfittato al meglio delle debolezze altrui e sono riusciti ad assurgere a prima forza economica dell’Unione Europea» e grazie allo spread fra i propri titoli di Stato e quelli degli altri Paesi hanno tutto da guadagnare e poco - anzi, niente - da perdere dalle difficoltà altrui; che «reputano d’essere i padroni e dominatori assoluti dell’Euro, ma pagano (stranezza della moneta unica, del modo barbino con cui è stata costruita, lasciandone il controllo effettivo nelle mani dei mercati finanziari e, quindi, della speculazione) meno (e non perché lo sostenga il sottoscritto, bensì perché lo ha certificato, numeri alla mano, Erik Nielsen, capo economista dell’Unicredit) di Italia e Spagna (ovvero due, dei quattro maggiormente a rischio) per aiutare i Paesi in pericolo e difendere concretamente la sopravvivenza della moneta comune» (realtà che, per altro, la grande stampa continua a sottacere), magari inconsapevolmente, si sono assunti il compito di dimostrare. Ebbene se tutto questo è vero, com’è vero, non può che sorgere spontanea una domanda: per quale ragione, quelli che possono trarre il massimo vantaggio possibile da un’Europa che zoppica, dovrebbero preoccuparsi di questa zoppia e contribuire ad eliminarla? Domanda, però, dalla risposta


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decisamente scontata: nessuna. Le vere riforme vengono sempre dal basso, perché chi ha 4 assi in mano non chiede carte e neanche si gioca le proprie, per non favorire gli avversari. Ed, infatti, non se ne preoccupano per niente. Anzi. Tant’è che - non soltanto stanno facendo alcunché per sostenere l’euro - addirittura continuano a mettersi di traverso sulla strada di qualsiasi iniziativa avanzata dagli altri allo scopo di uscire dal tunnel della crisi. A meno che, ovviamente, non prevedesse, e non preveda, la cessione di sovranità e, quindi, il commissariamento del Paese «in panne». Perché, in realtà, la vera posta in gioco è proprio questo: il controllo dell’economia europea. Un controllo sull’Europa che la Germania è disponibile a dividere con la Cina, con la quale sin dal 2000 ha intessuto rapporti economici ed industriali di grande riscontro - che, per altro, dal 2010 si sono intensificati e moltiplicati come i «pani» ed i «pesci» di evangelica memoria : soltanto nel 2011 ne sono stati firmati per 15 miliardi di dollari - finalizzati al rafforzamento di un certo tipo di euro che la Germania considera il marco d’Europa. Sicché, nell’ultimo anno la Cina - unica economia in crescita, anche se attualmente in leggero rallentamento, grazie all’assoluta mancanza di rispetto dei diritti umani e civili - ha riversato una parte notevole delle proprie risorse, nell’acquisto dei Bund, contribuendo a tenerne bassi i tassi. Consentendo, così, con le riserve prodotte dal differenziale degli spread, alla Merkel, da un lato, di guadagnare consensi elettorali, in vista delle politiche 2013, riducendo il cuneo previdenziale, infilando, quindi, più soldi nelle buste paga dei propri connazionali e, dall’altro, di fare shopping nell’Eurozona e provare a portarsi a casa, a prezzi di affezione, i «gioielli di casa» degli altri Stati membri. «Cugini», sì ma concorrenti. Parenti, quindi, ma soprattutto serpenti. E se la Merkel ha previsto che gli scambi bilaterali nei prossimi 5 anni ammonteranno a 200miliardi di euro, 70 in più rispetto a due anni addietro; la Cina ha ufficializzato un programma di crediti per 2miliardi, per consentire alle medie imprese tedesche di approdare nei suoi territori, dove al momento ne operano già 4.500. E, non ancora soddisfatta, del bottino portato a casa nelle precedenti trasferte in terra cinese, proprio a fine agosto frau Angela vi si è recata per la sesta volta, la seconda quest’anno ed ha sottoscritto un altro pacchetto di 14 accordi di cooperazione bilaterale tedescocinese per complessivi 6 miliardi di euro, in settori strategici quali energia, elettromobilità, medicina, tecnologie produttive, protezione ambientale e trasporti. Certo, durante i colloqui, la cancelliera pare si sia anche preoccupata di chiedere, ottenendola, al primo ministro cinese, Wen Jiabao, la disponibilità ad acquistare titoli pubblici dei Paesi europei in difficoltà, ma il top business del «milione» della Merckel è rappresentato dalla vendita per 3miliardi e mezzo di euro, di 50 Airbus 320 di nuova generazione. Per l’eurozona, quindi, promesse a futura memoria, per la Germania impegni concreti ed immediati. «Zompa chi po’», come si dice a Napoli. Ma nessuno protesta. A conti fatti, insomma, Mario Monti e Mariano Rajoy stanno costringendo italiani ed iberici a sacrifici immani che li stanno riducendo in mutande. In teoria per ridurre i debiti pubblici di Italia e Spagna, in pratica per risolvere i problemi degli altri ed aggravando i propri. Vedi, il paventato rischio d’insolvenza delle aziende italiane, denunciato dalla BCE, nel bollettino ufficiale di agosto, in conseguenza anche dei ritardi dei pagamenti dello Stato dei debiti maturati verso di loro. Quegli stessi imprenditori ai quali, poi, ha chiesto di sottoscrivere un patto con lui per il rilancio del Paese. Il che, diciamocelo con franchezza, per un Governo che vorrebbe

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imporre ai suoi cittadini stili compartimentali corretti e rispettosi degli altri, questo non è proprio il massimo degli esempi. Questo, pur volendo - sull’esempio della grande stampa italiana indipendente, ma soltanto dalla verità - sottacere i numeri, tutti fallimentari, scaturiti dalle misure assunte dall’esecutivo dei professori, dal momento del suo insediamento ad oggi: PIL crollato del 2,3 per cento; debito arrivato a quasi 2mila miliardi e rapporto debito/PIL ed inflazione cresciuti, invece, rispettivamente del 3,8 per cento e dell’1,5; disoccupazione aumentata del 2,7 per cento e produzione industriale, peggiorata del 3,7; i giovani senza lavoro cresciuti del 20 per cento e la spesa annua aumentata di 2.333 euro annui. Senza dimenticare l’aumento delle tasse, l’IMU, che ha fatto crollare anche il mercato immobiliare, le addizionali locali IRPEF e le spese da sostenere per mandare i figli a scuola. E meno male che i decreti che hanno prodotto tali risultati erano stati definiti: «salva-Italia», «cresci-Italia», «libera-Italia» e «sviluppo-Italia». Ed ora, evidentemente, non ancora contento, pare che il nostro premier si stia predisponendo a mettere a punto un ulteriore provvedimento per lo sviluppo. Con queste premesse, obiettivamente, c’è di che preoccuparsi! Non dello spread, ma dell’economia reale italiana che continua a colare a picco e continuerà a farlo anche quando, e se, Mario Draghi e la BCE potranno cominciare davvero ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, nel tentativo di mettere un freno alla speculazione. Avrebbero dovuto farlo prima. Se Germania e Bundesbank lo avessero consentito, ovviamente. Il premier bocconiano, potrà continuare a svolazzare impettito da un capo all’altro del mondo, sedersi ai desk finemente imbanditi di colazioni di lavoro, bilaterali, trilaterali, quadrilaterali, ma anche a più lati, partecipare, poi, a pompose conferenze stampa, raccontando che si è perfettamente in sinergia (anche se lessicalmente sarebbe più giusto dire, sintonia, ma che volete fare i prof. della Bocconi, possono anche concedersi certe «licenze poetiche») per una «crescita non fondata sugli squilibri della finanza pubblica» ed, infine, concedersi anche il lusso di dare i numeri ed annunciare - non rendendosi conto che mentre lui continua a scimmiottare Mina, «parole, parole, parole, soltanto parole per noi», la nostra economia ha già consumato anche la frutta - che la ripresa è vicina. Ma ci crede veramente? Tutto questo, nella speranza di mantenere in vita una moneta unica, ormai moribonda e, soprattutto, per consentire alla signora Angela Merkel - che, intanto, continua a truccare i bilanci teutonici e nascondere che il debito pubblico della Germania è ben più alto (quasi il 115 per cento del PIL ) di quello ufficiale - ed alla Bundesbank - i cui controlli non devono essere stati proprio tanto accurati, se le casse delle banche tedesche mostrano buchi di centinaia di miliardi - di fare, come si dice a Napoli, «e’ galli ‘ncoppa à munnezza». Per consegnarci armi e bagagli al controllo politico della Germania ed allo strapotere economico della Cina, alla quale volevamo imporre il rispetto dei diritti umani, ma che rischia di cancellarli anche da noi. Non era certo questo, che sognavano De Gasperi, Schumann ed Adenauer, quando cominciarono a pensare alla nascita dell’Unione Europea. Viene da chiedersi, allora, se valga davvero la pena di restare in un’Europa, laddove c’è chi, non fa che dimostrare, un giorno sì e l’altro pure, che aveva ragione il capitano del Reggimento di Champagne, Gatien Courtilz De Sandras, commilitone di D’Artagnan, quando lasciato il servizio nel 1688 e diventato scrittore, sosteneva che «l’arte della politica è il segreto di fare i propri affari ed impedire agli altri di fare i propri». E «così è, se vi pare». Vi piaccia o no!


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INTERVISTE SULLA DESTRA - CLAUDIO MUTTI

OLTRE IL NAZIONALISMO, per difendere il «soggetto» Europa a cura di MICHELE DE FEUDIS SUPERATE perché obsolete le categorie novecentesche, nel nuovo millennio andrebbe costituito «un bipolarismo autentico», con «una forza politica schierata a difesa della sovranità europea e capace di inserirsi in un panorama internazionale», in costante divenire: questa è la lettura dell’attualità politica italiana del professor Claudio Mutti, direttore della rivista di geopolitica Eurasia, saggista autore di pubblicazioni su Mircea Eliade, Emil Cioran, René Guénon e Julius Evola, nonché animatore delle Edizioni all’insegna del Veltro di Parma. Scrittore esperto di storia, letteratura e lingue dei Paesi est europei, è convinto che per la destra politica non sarà facile ricostituire un contenitore partitico di idee conservatrici ed economicamente sociali, e per questo indica come modello di distinzione rispetto all’omologazione liberaldemocratica l’esperienza del premier ungherese Viktor Orban. Professor Mutti, è ormai impossibile interpretare il quadro politico italiano senza collegarlo agli equilibri continentali e globali. Dopo la parentesi del governo guidato dal tecnocrate Mario Monti, cosa si profila all’orizzonte nazionale? Resterà in piedi il sistema bipolare che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni? «Il bipolarismo dell’ultimo ventennio italiano è tutto sommato formale, poiché costituisce essenzialmente la proiezione locale della coppia elettorale statunitense: l’Asino democratico e l’Elefantino repubblicano, due simboli che non a caso qualcuno avrebbe voluto introdurre anche nell’iconografia partitica della colonia Italy. Si potrebbe parlare di un bipolarismo autentico, soltanto se in Italia e in Europa prendesse forma, in alternativa al “partito americano” e alle sue correnti interne di sinistra e di destra, una forza politica schierata a difesa della sovranità europea e capace di inserirsi in un panorama internazionale ormai segnato dalla crisi dell’unipolarismo statunitense e dall’emergere di nuovi soggetti continentali.» La sorte della politica italiana non è molto dissimile da quella dei governi spagnoli e francesi, commissariati da Germania e «BCE». C’è spazio per un progressivo recupero della sovranità nazionale e per esecutivi che tendano a rappresentare con maggior forza le ragioni del proprio popolo rispetto ai «diktat» che derivano da accordi internazionali? «La sovranità italiana, che è inseparabile da quella tedesca ed europea, può essere recuperata soltanto ricacciando l’occupante statunitense oltre l’oceano dal quale è arrivato una settantina d’anni fa. Soltanto un’Europa sovrana, unificata secondo un modello imperiale, potrà equilibrare gli interessi nazionali e subordinare le direttive economici al bene comune, impedendo qualsiasi com-

missariamento da parte di forze particolari. La via da percorrere, a mio parere, non è quella del pollaio nazionalistico, ma quella della liberazione dell’Europa, in sinergia con i grandi Stati eurasiatici che si oppongono all’unipolarismo americano.» I partiti italiani sono fortemente delegittimati tra polemiche anticasta, corruzione e progressivo arretramento delle facoltà di intervento. È possibile immaginare il sorgere di un movimento di destra sovranista? Cresceranno le forze populiste, nello Stivale raccolte soprattutto nell’asse Grillo-Di Pietro? «Mi permetta una puntualizzazione che non è puramente lessicale: il sistema che in Italia si esprime nelle mafie partitiche non è “delegittimato”, perché legittimo non lo è stato mai, in quanto è stato imposto dall’occupante straniero; è stato soltanto un sistema legale. Adesso questo sistema ha perso ogni credibilità, per cui teoricamente dovrebbe esistere lo spazio per un movimento “sovranista” (tutto da definire). Ma un movimento del genere non può essere di destra né di sinistra, poiché in Italia sia la destra sia la sinistra hanno espresso, nel periodo democratico, interessi antinazionali ed antieuropei. Entrambe, infatti, hanno collaborato con l’occupante straniero, prima approvando l’adesione italiana all’Alleanza Atlantica e alla NATO e poi sostenendo le “operazioni di polizia” e le “operazioni di pace” volute da Washington. La crescita dell’area populista, qualora sottratta all’egemonia di buffoni e di agenti della CIA, porterebbe un con-

Sarà lo spirito del tempo, sarà la forzata convivenza nei contenitori partitici postmoderni, sarà il sistema politico tendenzialmente bipolare che tende a smussare diversità e omologare differenze. Il perimetro di un arcipelago culturale che si è riconosciuto - pur tra contraddizioni e ossimori - in una visione spirituale della vita e nell’umanesimo del lavoro, visione declinata a destra dal Msi e da una miriade di circoli, case editrici, associazioni, comitati civici e riviste, sembra adesso attraversare un momento di forte disorientamento. Oltre i rassicuranti confini del «nostalgismo» e dei paletti novecenteschi, però, persistono idee forti, autori di riferimento e nuove battaglie da combattere. Per questo Il Borghese pubblicherà un ciclo di interviste con scrittori, filosofi ed intellettuali per analizzare gli scenari presenti e futuri, offrendo ai nostri lettori le possibili coordinate delle nuove rotte nel mare della politica italiana. (m.d.f.)


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tributo positivo alla formazione di un movimento popolare “sovranista”.» Come giudica il percorso del «Popolo della Libertà»? C’è spazio per la formazione di un soggetto politico rilevante a destra dell’attuale «Pdl», con posizioni sociali in economia e conservatrici sul piano dei contenuti? «Le forze di destra italiane, che nel dopoguerra sono state contigue al Partito Liberale e al cattolicesimo liberale, hanno logicamente finito per dissolversi in una coalizione, quella berlusconiana, che si proponeva la “rivoluzione liberale”. Data questa sua evoluzione storica, la destra italiana stenterà parecchio a generare un soggetto politico caratterizzato da posizioni sociali in economia e da un orientamento conservatore sul piano dei contenuti etici. Ciò infatti comporterebbe un deciso rifiuto della cultura politica liberale, che è liberista per quanto riguarda l’economia e libertina per quanto riguarda i costumi.» La caduta del governo Berlusconi, oltre ad una debolezza parlamentare frutto delle scissioni maturate nella legislatura, è stata fortemente influenzata da pressioni di istituzioni sovranazionali. La politica estera berlusconiana, però, era apparsa volta a ristabilire un ruolo da attore per l’Italia nel «Grande Gioco» geopolitico. Che cosa resta di questa esperienza? Chi potrebbe proseguire la politica di attenzione proposta verso la Russia e verso il Medio Oriente? «Come Craxi è stato punito per l’affronto di Sigonella e per la sua eccessiva libertà nella politica mediterranea, così Berlusconi è stato liquidato a causa della sua disinvolta diplomazia personale, che, prima della pugnalata alle spalle inferta controvoglia a Gheddafi, aveva fruttato all’Italia relazioni amichevoli con Tripoli, oltre a fruttare accordi privilegiati con Mosca e, nonostante tutto, una crescita dell’interscambio commerciale con l’Iran. Col golpe di Napolitano l’Italia è stata richiamata al rispetto assoluto della sua condizione coloniale: il governo della Goldman Sachs, in cui gli Esteri e la Difesa sono presidiati da estremisti made in USA, esclude per il momento ogni tentativo di riprendere il filo di una politica conforme agli interessi italiani ed europei.» Ci sono nello scacchiere internazionale «leader» o esperienze politiche che potrebbero essere modello per una rinascita della politica come soggetto autonomo in Italia? «Cito solo alcuni nomi esemplari, in ordine puramente alfabetico: Ahmadinejad, Chavez, Correa, Lukashenko, Morales, Nazarbayev, Putin. Ma sarebbe irrealistico pensare che questi capi di Stato e di governo possano rappresentare un modello per il nostro disgraziato Paese. Sarebbe già sufficiente se l’Italia potesse prendere a modello l’esperienza politica ungherese. Ma nella classe politica italiana non si riesce a vedere nessuno che abbia gli attributi di Viktor Orban.» Recentemente c’è stata una polemica tutta tendenziosa sulla messa in scena dell’«Ifigenia in Aulide» di Mircea Eliade nel Teatro Stabile di Catania: l’opera era stata da lei tradotta, ma dopo forti polemiche con gli eredi del filosofo rumeno, la versione italiana porta la firma di un altro traduttore. Quanta faziosità persiste nel mondo culturale europeo?

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«L’erede di Mircea Eliade, suo nipote Sorin Alexandrescu, ha posto come condizione irrinunciabile per la concessione dei diritti che la rappresentazione dell’opera non si avvalesse della mia traduzione, pubblicata due anni fa dalle Edizioni all’insegna del Veltro. Il motivo di questo aut-aut dell’erede di Eliade è dovuto ad un puro e semplice pregiudizio ideologico. Infatti Sorin Alexandrescu, già fondatore di un comitato per i “diritti umani”, ritiene che oggi, “grazie al trionfo mondiale del liberalismo, noi comprendiamo più facilmente quello che molti intellettuali e cittadini non potevano comprendere allora [cioè nel periodo interbellico], ossia che la società liberale è la società meno imperfetta”. Ora, siccome lo zio non ebbe la possibilità di comprendere quello che invece è stato compreso dal nipote, quest’ultimo si trova in grande imbarazzo allorché il nome di Eliade viene associato alla cultura del tradizionalismo o, peggio ancora, al movimento legionario; perciò si sforza di dissociare Eliade da tutto ciò che è culturalmente e politicamente scorretto. Ai suoi occhi io ho commesso la grave colpa di pubblicare in più lingue alcuni studi che sine ira et studio documentano le liaisons dangereuses di Eliade sia col tradizionalismo (Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni) sia con il legionarismo (Mircea Eliade e la Guardia di Ferro e Le penne dell’Arcangelo). Di qui il diktat di Sorin Alexandrescu al regista italiano.» La religione musulmana è la seconda per numero di praticanti in Italia, ma resta forte il pregiudizio nei confronti di questi italiani e degli immigrati che si riconoscono nell’Islam. Come procede il dialogo tra le comunità islamiche e il governo? «Sembra che il governo italiano selezioni i suoi interlocutori musulmani sulla base del loro orientamento politico e non della loro rappresentatività. Sono stati chiamati a far parte della Consulta Islamica presso il Ministero dell’Interno, infatti, dirigenti di “comunità religiose” che, pur raggruppando una ventina d’individui al massimo, presentano però credenziali di lealismo atlantico, in quanto hanno partecipato a programmi di scambi culturali del Dipartimento di Stato USA per dirigenti musulmani europei; o, comunque, sono stati “accuratamente analizzati e approvati” (carefully verified) da un ufficio dell’ambasciata statunitense denominato “Islamic Outreach”.» Quali autori possono aiutare i lettori de «Il Borghese» a orientarsi nel nuovo millennio? «Quelli che hanno diagnosticato lo scatenamento delle forze titaniche, come Guénon e Junger; ma anche quelli che, come Esiodo ed Eschilo, hanno evocato l’inevitabile sconfitta dei titani e la vittoria di Zeus.»

CLAUDIO MUTTI


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LA STRANEZZA DEGLI AGNELLI

LA SCOPERTA di «Dicembre» di GIGI MONCALVO ANCHE (o perfino?) il Corriere della Sera si è accorto della «stranezza» segnalata nello scorso numero de Il Borghese con tanto di riproduzione dei documenti: la «Dicembre società semplice», la società-cassaforte che un tempo era della famiglia Agnelli, anzi più esattamente del ramo del solo Gianni, e che si trova alla sommità dell’Impero Fiat (ora Exor), ha impiegato ben diciassette anni, dal 1995, per mettersi in regola con la legge in vigore da allora. La Dicembre - la cui data di nascita risale al 1984 -, finalmente è «entrata nella legalità», e - come prevede la legge - risulta iscritta nel Registro delle Imprese. E pensare che, pur trattandosi di una società non da poco dato che la si può considerare la più importante, finanziariamente e industrialmente del nostro Paese - detiene il 33 per cento dell’Accomandita «Giovan-ni Agnelli sapa», di fatto la scatola di controllo dell’impero di famiglia, ed è dunque l’azionista di riferimento di Exor, la superholding del gruppo Fiat-Chrysler -, la Camera di Commercio di Torino ha impiegato anni prima di accorgersi dell’anomalia, di quel vuoto che figurava nei propri registri (no-nostante quella società avesse il proprio codice fiscale). E, nonostante lo sapesse, non ha fatto mai nulla. Ci sono voluti parecchi mesi prima che il sottoscritto, alle prese con una inchiesta per il suo nuovo libro (Agnelli segreti, in uscita dall’editore Vallecchi) riuscisse a convincere, con un bel pacchetto di corrispondenza, l’austero organismo camerale sabaudo a ri-volgersi al Tribunale affinché ordinasse l’iscrizione d’ufficio. Finalmente, il 19 luglio scorso, ciò è avvenuto e l’ordine del Giudice Anna Castellino (che porta la data del 25 giugno) è stato eseguito. Grandi applausi si sono levati dalle colonne del Corriere ad opera di Mario Gerevini che, in un articolo del 23 agosto, non ha avuto parole di sdegno per gli autori di questa illegalità ma ha parlato, generosamente e con immane senso di comprensione, di una semplice e banale «inerzia dettata dalla riservatezza». Poi il Corriere ha ricostruito tutta la vicenda, a modo suo e con parecchie omissioni importanti, e ha avuto di nuovo tanta comprensione, anche per la Camera di Commercio: si era accorta dell’anomalia, anzi del comportamento fuorilegge, fin dal 23 novembre 2009, aveva «già inviato una raccomandata alla Dicembre invitandola a iscriversi al registro imprese, come prevede la legge. Senza risultato. Da lì è partita la segnalazione al giudice». Il che dimostra come in due righe si possano infilare parecchie menzogne e non si accendano legittimi interrogativi. Dunque, quella raccomandata di tre anni fa non sortì alcuna risposta. E la Camera di Commercio di fronte a questo offensivo silenzio, anziché rivolgersi subito al Tribunale, non ha fatto nulla, se non una grave omissione di atti d’ufficio. Non è dunque vero che «da lì è partita la segnalazione al giudice» dato che al Tribunale di Torino non impiegano ben tre anni per emettere un’ordinanza in un campo del genere. È stato invece necessaria, questa la verità, una ennesima racco-

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mandata di un giornalista che intimava ai sensi di legge alla signora Maria Loreta Raso, responsabile dell’Area Anagrafe Economica, di segnalare tutto quanto al giudice. Visto che non lo aveva fatto a suo tempo come imponeva il suo dovere d’ufficio e, soprattutto, la legge. Gerevini aggiunge che «fino a qualche tempo fa chi chiedeva il fascicolo della Dicembre allo sportello della Camera di commercio si sentiva rispondere: “Non esiste”. All’obiezione che è il più importante socio dell’accomandita Agnelli, che è stata la cassaforte dell’Avvocato (ora del nipote), che è più volte citata sulla stampa italiana e internazionale, la risposta non cambiava. Tant’è che dal 1996 a oggi non risulta sia mai stata comminata alcuna ammenda per la mancata iscrizione». Giusto, è proprio così. Ma Gerevini, rispetto al sottoscritto, per quale ragione non ha mai pubblicato un rigo su questa scandalosa vicenda, non ha informato i lettori, non ha denunciato pubblicamente questa anomalia e illegalità che ammette di aver toccato con mano? Non pensa, il Gerevini, che sarebbe bastato un piccolo articolo sul suo autorevole giornale per smuovere le acque? No, ha continuato a tacere, e a sentirsi ripetere «non esiste» ogni volta in cui bussava allo sportello della Camera di Commercio chiedendo il fascicolo della «Dicembre». Come mai certi giornalisti delle pagine economiche, e non soltanto, spesso come dicono i colleghi americani - «scrivono quello che non sanno e non scrivono quello che sanno? Forse ha ragione Dagospia che, riprendendo la notizia, la definisce “grave atto di insubordinazione e vilipendio del Corriere al suo azionista Kaky Elkann (così impara a smaniare con Nagel di far fuori De Bortoli)”»? Questo retroscena conferma che il direttore del Corriere, per ora, non ha osato andare oltre tenendo in serbo qualche cartuccia, in caso di bisogno? Gerevini dice che «la latitanza» della «Dicembre» ora è finita. Non è vero. La Camera di Commercio, infatti, nonostante sapesse tutto fin dal 2009, ha «preteso» che il giornalista che rompeva le scatole con le sue raccomandate inviasse ai loro uffici l’atto costitutivo della «Dicembre». Fatto. Ma, a questo punto, non si è accontentata del primo esaustivo documento inviato sollecitamente, bensì ha preteso, forse per guadagnare qualche mese e nella speranza che il notaio Ettore Morone non la rilasciasse, una copia autenticata. Si è mai vista una Camera di Commercio, che nel 2009 ha già fatto - immaginiamo - un’istruttoria su una società non in regola, ed è rimasta immobile dopo che si sono fatti beffe della sua richiesta di regolarizzare la società, chiedere a un giornalista, e non agli amministratori di quella società, i documenti necessari, visto che i diretti interessati non si sono nemmeno curati a suo tempo di rispondere? Invece è andata proprio così. Forse è una coincidenza il fatto che a presiedere la Camera di Commercio ci sia Alessandro Barberis, un arzillo settantacinquenne entrato in Fiat a 27 anni, rimasto in corso Marconi per trentadue anni, e poi diventato per un breve periodo, che non passerà certo alla storia, direttore generale di Fiat Holding nel 2002, e infine amministratore delegato e vicepresidente nel 2003? A Torino tutto è possibile. Anche che la «Dicembre» figuri (finalmente) nel Registro delle Imprese ma soltanto sulla base dei dati contenuti nell’atto costitutivo del 1984 e cioè con due morti come soci, Giovanni e Umberto Agnelli, e con un terzo socio, Cesare Romiti, che da anni ha lasciato la Fiat e che venne fatto fuori dalla «Dicembre» nel 1989, cioè ventitré anni fa. Non soltanto, ma il capitale della società risulta ancora di 99 milioni e 980 mila lire, allineando come azionisti Giovanni Agnelli (99 milioni e 967 mila lire), Marella Caracciolo (10.000 lire, e dieci azioni), e infine Um-


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berto Agnelli, Cesare Romiti e Gianluigi Gabetti (ciascuno con una azione da mille lire). Non pensano alla Camera di Commercio che sia opportuno, adesso che l’iscrizione è avvenuta, aggiornare questi dati fermi al 15 dicembre 1984? Che cosa aspettano a richiederli? Forse temono che il loro sollecito rimanga di nuovo senza riscontro? Dall’altra parte, che cosa aspettano Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, che danno lezioni di etica e moralità ogni cinque minuti, a mettersi in regola? E il grande commercialista torinese Cesare Ferrero, anch’egli socio della «Dicem-bre», non sente il dovere professionale di sanare questa anomalia, anche se i suoi «superiori» magari non sono del tutto d’accordo? Ora nessuno di loro può continuare a nascondersi. Quindi diventa molto facile dire: ora che vi hanno scovato, ora che sta venendo a galla la verità, non vi pare corretto e opportuno mettervi pienamente in regola? Ora che perfino il vostro giornale vi ha mandato questo «messaggio cifrato» non ritenete di fare le cose, una volta tanto, in modo trasparente, chiaro, limpido, evitando la consueta «segretezza» che voi amate chiamare riserbo, anche se la legge in casi come questi non lo prevede? Oppure volete che sia di nuovo un giudice a ordinarvi di farlo? E Jaky Elkann non ha capito quanto sia importante, per sé e per il proprio personale presente e futuro, che le cose siano chiare e trasparenti, nel suo stesso interesse? Il Corriere non va diretto al bersaglio come noi e non fa i nomi e cognomi: inarcando il sopracciglio, forse per mettere in luce l’indignazione del suo direttore Ferruccio De Bortoli, l’articolo di Gerevini fa capire che è ora di correre ai ripari: «L’interesse pubblico di conoscere gli atti di una società semplice che ha sotto un grande gruppo industriale è decisamente superiore rispetto a una società semplice di coltivatori diretti (la forma giuridica più diffusa) che sotto ha un campo di granoturco». Dopo di che, trattandosi del primo giornale italiano, ci si sarebbe aspettati qualche intervento di uno dei coraggiosi trecento e passa collaboratori «grandi firme», qualche indignata sollecitazione tramite lettera aperta al proprio consigliere di amministrazione Jaky Elkann (lo stesso che oggi controlla la «Dicembre»), un editoriale o anche un piccolo corsivo nelle pagine economiche o nell’inserto del lunedì, dando vita a un nutrito dibattito seguito dalle cronache sull’evolversi, o meno, della situazione e da una sorta di implacabile count-down per vedere quanto avrebbe impiegato la società a mettersi completamente in regola, con i dati aggiornati, e la Camera di Commercio a fare finalmente il suo mestiere. Niente di tutto questo. E adesso? Non soltanto noi nutriamo qualche dubbio sul fatto che la società si metta al passo con i documenti. E, qualcuno ben più esperto di noi e che lavora al Corriere, dubita perfino che la «Dicembre» accetti supinamente un’altra ordinanza del giudice. Ma a questo punto, svelati i giochi, la partita è iniziata e se la società di Jaky Elkann si rifiuta di adempiere alle regole di trasparenza è di per sé una notizia. Che però dubitiamo il Corriere avrà il coraggio di dare. Anche perché la posta in palio è altissima: che cosa potrebbe succedere se, ad esempio, Jaki - che è il primo azionista con quasi l’80 per cento, mentre sua nonna Marella (85 anni) detiene il 20 per cento - decidesse di farsi monaco o gli dovesse malauguratamente accadere qualcosa? Chi diventerebbe il primo azionista del gruppo? Non certo una anziana signora, con problemi di salute, che vive tra Marrakech e Sankt Moritz? A quel punto, ad avere - come già di fatto hanno - prima di tutti la reale governance attuale della cassaforte sarebbero Gabetti e Grande Stevens, con Cristina, la figlia di quest’ultimo, e Cesare Ferrero a votare insieme a

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«QUATTROGIUGNO ITALIA NUOVA»

TEMATICHE su cui lavorare di FRANCO ROSSI (*) A GENNAIO di quest’anno, in un incontro nazionale, consapevoli della situazione che evidenziava già una serissima crisi economica, coerenti con la mission della nostra Associazione (progettualità politica e legislativa) abbiamo individuato 3 temi sui quali lavorare e specificatamente: Abbattimento del debito pubblico Liberalizzazione del lavoro e consequenziale rilancio dell’economia Riduzione strutturale della spesa pubblica Per il primo punto abbiamo sposato la proposta Pelanda/ Savona alla quale grosso modo si può ricondurre l’attuale proposta del PdL, per il secondo punto abbiamo elaborato una proposta di legge che abbiamo chiamato «Libera Lavoro». L’elaborazione presentata come disegno di legge intende «liberare il lavoro», stabilire un «patto fiscale» onde consentire di incrementare i propri redditi, in maniera estremamente semplice e trasparente, a tutti coloro che lo vogliano o che ne abbiano necessità. La proposta riprende, amplia e semplifica il sistema degli attuali voucher INPS. Si prevede una deroga alle attuali disposizioni per permettere ad una più ampia platea di soggetti di accedere alle prestazioni di lavoro occasionali e un «patto fiscale» per il doppio lavoro e il lavoro saltuario attraverso appunto forme simili agli attuali voucher INPS; la «legalizzazione» e «semplifi-cazione» di tutta una serie di attività che oggi vengono svolte normalmente «in nero» e che, invece, potrebbero essere svolte in maniera «trasparente e produttiva» per il committente e per lo Stato. Viene, inoltre, consentito ai percettori di incrementare il loro «conto previdenziale» senza alcun tipo di obbligo burocratico. Va aggiunto che l’applicazione della norma proposta potrebbe dare un significativo contributo, da un lato ad un rilancio dei consumi, oggi più che mai indispensabile anche alla luce della attuale recessione, e dall’altro al recupero di significative quote di contribuzione fiscale e previdenziale. Tale proposta, lungi dal voler essere la «soluzione globale» ai mali del mercato del lavoro in Italia, aveva ed ha però il pregio di iniziare a «liberare» veramente il lavoro e chi ha

loro per raggiungere i quattro voti necessari come da statuto (anche se rappresentano soltanto 4 azioni da un euro ciascuna) per sancire il passaggio delle altre quote e la presa ufficiale del potere. Ecco, al di là di quella che sembra un’inezia - l’iscrizione al registro delle imprese e l’aggiornamento degli atti della società - che cosa significa tutta questa storia. Ci permettiamo di chiedere: ingegner John Elkann, a queste cose lei ha mai pensato? E perché le tollera? (P.S.: nel prossimo numero, per favorire il lavoro della Camera di Commercio, elencheremo i riferimenti dei documenti della «Dicembre» che possono consentire di aggiornare, finalmente, tutti i dati).


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voglia di lavorare da lacci e lacciuoli burocratici. Peraltro nel «Rapporto Italia 2011» dell’Eurispes viene di fatto certificato che in Italia nel 2011 circa 6 milioni di cittadini hanno svolto un lavoro senza contratto, in «nero» per un giro di affari ipotizzato in circa 95 miliardi di €, e ciò anche per le complicazioni burocratiche o all’impossibilità di svolgerlo in maniera trasparente. Si pensi ai giovani che saltuariamente, per raggranellare dei soldi, fanno i barman o i pony express, a coloro che fanno ripetizioni, a pensionati che vorrebbero integrare la misera pensione che ricevono. La proposta di legge è stata presentata al Senato (S3219) e poi, alla luce della proposta del Ministro Fornero, trasformata in emendamento all’articolo 11 della stessa proposta Fornero (S3249). E qui viene il bello. La 5° Commissione Permanente del Senato ha dato «parere contrario» all’emendamento in forza dell’art. 81 della Costituzione. Cosa recita tale articolo della Costituzione? «Art. 81 (Articolo modificato con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1) «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. «Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. «Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. «L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. «Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale». Alla richiesta di chiarimenti la risposta, non ufficiale, è stata che il rigetto era in relazione al terzo comma del predetto articolo («Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte»). È di tutta evidenza che la bocciatura è strumentale in quanto la nostra proposta di legge non prevede assolutamente alcuna spesa per lo Stato ma semmai, come prima evidenziato, il possibile recupero di quote di evasione fiscale e previdenziale. Ora cercheremo di ripresentare la proposta di legge alla Camera ma ciò che ci chiediamo è: in che mani siamo? Come è possibile che gli uffici legislativi respingano un emendamento in base ad una asserzione palesemente insussistente adducendo un articolo della Costituzione che nulla ha a che vedere che la proposta presentata? Come vengono elaborati i testi delle leggi? A che mani, impreparate o peggio, è affidata la stesura delle leggi che sovraintendono la vita e lo sviluppo del Paese? Come è possibile credere che il Paese potrà uscire dal baratro se siamo in tali mani? Non sarà il caso di dare un colpo di spugna su un Governo, una classe politica e burocratica che sta dimostrando tutti i suoi limiti e sta affondando l’Italia? La proposta di legge è disponibile nel nostro sito(info@quattrogiugno.com) per chi vorrà approfondirne i contenuti *Presidente de Associazione «quattrogiugno ItaliaNuova» www.quattrogiugno.com - info@quattrogiugno.com

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LA FINE dello Stato di GILBERTO BORZINI L’attuale, prolungata crisi sistemica mette nuovamente in evidenza il conflitto tra il concetto di Stato e la necessità accrescitiva dell’economia. Fino a ieri hanno vinto gli Stati, oggi forse … BASTA rileggere la storia del ‘900, dove economia, finanza e politica si intrecciano vorticosamente e violentemente, per rendersi conto che il vero «conflitto» non è tra «Stati» ma tra economia e organizzazione statale. Cerco di spiegarmi meglio. Alla fine dell’Ottocento l’economia tendeva a modelli di globalizzazione favoriti dal telegrafo, dalle relazioni ferroviarie e dal colonialismo. La cosiddetta crisi balcanica, ovvero la necessità di Paesi industrializzati di disporre dell’accesso alle miniere di carbone, ferro e bauxite, scatenò la prima guerra mondiale. Una barcollante ricomposizione geopolitica condusse rapidamente alla successiva Grande Depressione del 1929 che in Europa si riverberò nell’affermazione del fascismo (al potere dal 1922), nella presa del potere del nazionalsocialismo (1933), nella guerra civile spagnola (1936-1939), nell’espansione coloniale in Africa per poi esplodere nel secondo conflitto mondiale. La nuova, successiva ricomposizione mise gli Stati europei sotto il controllo di due sistemi di potere (USA e URSS) grazie ai quali per una quarantina d’anni il continente Europa sembrò trovare una discreta tranquillità. Fino al 1989, quando con il crollo dell’URSS si rimisero in moto sistemi diversi di affermazione «statale». Dall’Impero romano in poi l’Europa ha vissuto serenamente soltanto quando esisteva un «Meta-Stato», capace di controllare le tentazioni dei singoli Stati. Stati che a loro volta, quasi sempre, rappresentavano esclusivamente gruppi di potere raccolti in un determinato spazio geografico, senza ulteriori elementi di appartenenza capaci di generare un diverso valore. Un elemento significativo è ad esempio la continuità geografica italiana (priva di un collante economico e sistemico in grado di renderla nazione agli occhi dei propri abitanti) rispetto al sentimento nazionale tedesco, dove la Germania è uno Stato definito dal territorio economico ben più che da un’appartenenza geografica. Meglio, e con maggior vigore, sembrano oggi funzionare le appartenenze regionali, con amministrazioni coese da collanti di necessità economica, tanto che gli Stati ricompostisi dopo la disgregazione yugoslava non potrebbero mai riunirsi in una nuova confederazione yugoslava, ma sembrano molto soddisfatti nel ritrovarsi un una metaorganizzazione europea. Il potere «statuale» europeo ha a lungo combattuto la globalizzazione economica e finanziaria, in particolar modo lo fecero gli Stati totalitari come Germania e Russia, certi del fatto che sistemi trasversali e internazionali (giudo-plutocratici per dirla all’antica) sottraessero risorse allo Stato e minassero le fondamenta della sovranità nazio-


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nale: lo sterminio ebraico voluto da Hitler e da Stalin coincise perfettamente con quell’idea economica. Ancora oggi l’Europa, anello debole della speculazione finanziaria planetaria, è minata da diverse prospettive e modelli avendo al suo interno Sistemi Statali di opposta concezione e modalità aggregative di differente appartenenza: Geografica Non Economica (Italia. Grecia); Geografica Economica (Francia, Spagna, Germania, Inghilterra, Polonia); Territoriale e Economica (Land tedeschi, regioni italiane e spagnole, cekia, slovakia); Globalizzata (Inghilterra con Commonwealth); Coloniale (Francia con Maghreb e Africa sub sahariana); Colonizzatrice (Germania, verso Europa orientale). Insomma, il quadro è talmente vasto e destrutturato da risultare difficilmente organizzabile e governabile, a meno che gli Stati - comunque intesi - non rinuncino contestualmente e simultaneamente alla loro Sovranità, limitandosi a tradursi in organismi amministrativi locali. Ma, anche in caso di cessione del potere, a chi andrebbe questo potere ? Ad un organismo «politico», come il Partito Comunista Cinese, il Congresso Americano, la Duma Russa, ovvero un Meta-Decisore capace di orientare politicamente economia e organizzazione, o ad un’organizzazione «finanziaria» (BCE, FMI con relative ancelle operative nel rating?). Su questo punto si gioca la tenuta del Continente.

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DALLA SICILIA AD ITACA

PRIMO TEST per le politiche di GIUSEPPE BUA ABBIAMO discusso a lungo e per più di un uscita del «Ritorno ad Itaca», gli esimi autori che hanno affrontato l’argomento, trascinati dalla voglia di vedere nuovamente una destra vera, hanno con forza ribadito la tesi che un ritorno all’ancien regime, qui da considerarsi non nell’accezione negativa bensì nel più pregnante dei sensi, cioè come un ritorno alle tradizione, alla buona politica, al ritorno tra la gente ed al senso di comunità, potesse rappresentare la via di fuga dalla crisi economico, sociale, culturale e dei valori che stiamo subendo. La Sicilia terra maledetta o per usare un termine imprestato da Pietrangelo Buttafuoco: «buttanissima» potrebbe tornare ad essere faro e guida nella e della destra italiana e rappresentare il primo approdo per le navi di Ulisse. 18.000 dipendenti conto i 6.000 della regione Lombardia, disoccupazione giovanile al 35 percento , un sistema burocratico che definirlo terribile sarebbe un eufemismo e una totale incapacità nello spendere i fondi europei 20072013; insomma la Sicilia è una piccola Italia ma con tutto amplificato, dalla crisi economica e quella politica. Ed è proprio la politica che è stata la madre di tutti i problemi di questa terra, per anni serbatoio di schede elettorali della DC, i cittadini siciliani sono stati sfruttati e si sono fatti sfruttare ma non per il bene della loro terra ma per il bene di qualche singolo barone. Il Sig. Lombardo ex governatore dall’eccelsa carriera diplomatica e giudiziale, di cui senza dubbio bisogna ricordare i fastosi summit con Cosa Nostra e l’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Sig. Cuffaro , residente presso il carcere di Rebibbia, meglio conosciuto come «Totò vasa vasa» autore di favoreggiamento alla mafia e rivelazione di segreto d’ufficio. I 27 deputati su 90 dell’Assemblea Regionale Siciliana indagati e/o condannati e la classe dirigente che li ha portati sulle comode poltrone di Palazzo dei Normanni, rappresentano il peggiore dei mali che questa terra tiene al suo grembo. Bisogna dar atto a costoro, però, del grandioso compito avuto in questi anni perché contrariamente a quanto si possa pensare un compito importante lo hanno avuto: hanno fatto «schifiare» i Siciliani, li hanno fatti indignare, talvolta vergognare ed altre arrabbiare e quando l’indignazione si trasforma in voto si traduce in buona parte in voti seri, decisi e oculati ed in piccola parte in strani disegni di natura fallica che di fatto rappresentano un urlo contro il sistema vigente. Figlia di questa voglia di cambiamento è la candidatura voluta e partorita in automatico dalla gente, di Nello Musumeci, a Presidente della Regione Sicilia, uomo retto di destra ha vissuto sotto scorta in seguito a reiterate minacce di morte da parte di Cosa Nostra, ex segretario provinciale del MSI di Catania nonché ex Presidente della Provincia di Catania ora vicesegretario de La Destra e fra gli uomini politici più amati della Sicilia. Bi-


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sognerebbe capire il perché quest’uomo è tanto amato dalla gente: io nel corso del tempo in cui ho avuto il piacere di vederlo all’opera devo dire che incarna pienamente quelli che sono gli ideali, le voglie, lo spirito e la dialettica che nella prima repubblica erano propri del Movimento Sociale, elementi che la maggioranza dei soggetti appartenenti all’attuale classe dirigente di destra sconosce assolutamente, ma che fra la gente hanno di sicuro ancora forte presa, poiché di fatto il popolo cerca risposte in gente seria e di certo Nello li rappresenterà. Le elezioni in Sicilia si svolgeranno il 28 ottobre e si scontreranno 6 coalizioni politiche, due di centro destra, due di centro sinistra e due indipendenti, rispettivamente: Nello Musumeci (PdL, La Destra, Cantiere Popolare), Gianfranco Miccichè (Forza del Sud, Mpa-Partito dei Siciliani, Fli) , Rosario Crocetta (Pd, Udc), Claudio Fava (Sel), Giancarlo Cancelleri (M5S), Mariano Ferro (Forconi). Il centrodestra si presenta dunque spaccato in seguito alle rivendicazioni indipendentiste di Gianfranco Miccichè, che aveva in un primo momento appoggiato la candidatura di Musumeci, salvo poi tirandosi indietro per differenti visioni sicilianiste , ma chi ci crede? Miccichè che i più definirebbero un «candidato stupe-facente» si presenta dunque insieme al partito dell’ex Lombardo sul quale credo sia meglio stendere un velo pietoso. Il Pd candida insieme all’Udc (il partito dell’ex Presidente Cuffaro) Rosario Crocetta, che ha avuto numerose esperienza antimafia da Sindaco di Gela, ci chiediamo quindi cosa se ne faccia di un alleanza con l’Udc?! Corrono da soli il Movimento 5 Stelle, il Movimento dei Forconi e Claudio Fava sostenuto da Sel. La Sicilia, come al solito, sarà il primo test prima della politica nazionale e a mio parere la prima tappa di un percorso di riunificazione della destra italiana; l’indignazione della gente è un crescendo spaventoso, ed il vento di antipolitica può portarci dovunque, persino nelle mani di chi non conosce e non rispetta la politica come l’arte del governare nel bene per le prossime generazioni. Ma d’altro canto quando si fa politica fra la gente sentendone i bisogni e mettendo a fuoco le loro esigenze non può che esserci una buona politica quella che la destra italiana spiegò al mondo negli anni passati e che perse nelle stanze buie del potere.

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«INTERNET», «FACEBOOK»,«TWITTER»

DEMOCRAZIA virtuale? di ASTRID PERALTA LE ELEZIONI amministrative del maggio scorso, di fronte ad un orizzonte politico in cui l’unica certezza è la mancanza di novità e di un leader che se ne faccia portavoce, offrono una chiave di lettura per entrare nel prossimo scenario elettorale. Le urne di primavera hanno decretato la disfatta dei partiti dalle vesti classiche, tanto risvoltate da essere ormai logore, e si è registrato il successo del movimento del Web. Il tòpos dello stravolgimento degli assetti politici, con l’evanescenza del significato di «destra» e «sinistra», è Internet, quel «Villaggio Globale» prefigurato nell’89 da Marshall McLuhan come realtà «onnicomprensiva che raggiunge la sua apoteosi con l’interazione tra computer, satellite, data-base e società», in cui le relazioni si trasmutano in input e output alla ricerca di nuove frontiere di senso e di contenuti più vicini alle nuove istanze degli internauti, ma sempre più distanti dai rappresentanti politici cristallizzati ai vecchi codici dei numeri, dei simboli e delle alleanze ante e post elettorali. L’agorà della partecipazione si è trasferita nelle piazze virtuali di Facebook e Twitter, tra i più noti social network, dove post e commenti, tweet e stream views, notizie e video con milioni di utenti al mese, hanno prepotentemente tolto il posto all’informazione ufficiale di giornali e televisione che arrancano cercando di stare al passo con le edizioni online. Una lotta impari quella dei media tradizionali. Il «massmediologo» Mario Morcellini, nell’intervista all’Adnkronos sui problemi del giornalismo lontano dalla realtà, ha detto che «la crisi segna il fallimento dell’intermediazione giornalistica, ormai sorpassata dai nuovi media e dalla generale sfiducia in ogni tipo di istituzione». Il popolo del Web, scavalcando Tv e carta stampata, col passaparola dei bit ha alzato la voce, e, insieme, il velo pietoso dell’ipocrisia mostrando il fallimento della classe dirigente italiana che, dietro l’editing delle sigle, maneggiava liste e comode poltrone abbandonando la realtà, lasciando senza risposta le richieste degli elettori, e, colpa ancor più grave, rimanendo indifferente agli appelli dei giovani prossimi all’esercizio del voto che, con lucida lungimiranza, prevedevano l’attuale realtà quotidiana priva di lavoro e di un futuro. Internet, inoltre, supera le quote rosa: i dati di audiWeb.it del giugno scorso attestano che su 14 milioni della popolazione online nel giorno medio sono collegati 6,3 milioni di donne e 7,8 milioni di uomini tra i 35 e i 54 anni. Porte aperte anche per i giovani: sono online 1,5 milioni quelli tra i 18 e i 24 anni. Il Web sarà il campo d’azione sia dei partiti, o di quel che ne rimane, sia dei mezzi d’informazione; occorrerà perciò tenere d’occhio l’uso che se ne farà e i contenuti che verranno veicolati a milioni di utenti. Esempio recente del successo riscontrato dalla partecipazione digitale è il denominato M5Stelle che il padre putativo Beppe Grillo promuoveva su Internet e che poi, nel 2007, avrebbe portato nelle piazze reali, e non a caso l’8 settembre, l’idea del «Vaffa...day». Una parolaccia che diventa il medium digitale della


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«liberazione dalla politica che non fa più gli interessi della gente e che porta in Parlamento 23 condannati in via definitiva». Il fallimento dei partiti, trasversale a tutte le sigle, con la bancarotta delle idee, è l’humus da cui si è sviluppato il moto digitale dei grillini. Di fronte alla possibilità che, tra i media, Internet sia quello maggiormente in grado di offrire una possibile via verso il rinnovamento della politica, con un rinato moto di partecipazione, bisogna però fare i conti con il rischio della propaganda e dello scontro tra mass media a repentaglio proprio della democrazia. Infatti abbiamo assistito al paradosso del Caso Favia, il consigliere regionale grillino eletto in Emilia che, nel fuori onda televisivo, fortuito o costruito, della trasmissione di Corrado Formigli su La7, avrebbe confessato «adesso in rete non si può più parlare», denunciando l’assenza di democrazia, un paradosso per un movimento che proprio nella libera partecipazione aveva trovato la sua ragione d’essere. La sovrapposizione di televisione e Web ha dunque scoperto il dietro le quinte di un movimento che, secondo Il Sole24Ore, avrebbe il suo perno nella srl che porta il nome del suo fondatore Gianroberto Casaleggio, un guru del marketing e della comunicazione, come dire che rimarrebbe poco dello spontaneismo veicolato sul blog di Grillo. Tra polemiche e guerre mediatiche, dunque, si ripropone il problema della democrazia, che rischia di rimanere sul piano virtuale se in soccorso non arriva un leader o, perlomeno, un insieme di idee capaci di realizzare i primi quattro articoli della Costituzione, in un Paese in cui è una chimera trovare un lavoro e votare il proprio rappresentante, dove si è lontani dall’essere tutti uguali di fronte alla legge e dove risulta difficile credere che ognuno sia messo nelle condizioni di esprimersi per concorrere al bene comune. Le speranze, però, si infrangono, immediatamente, nelle dichiarazioni rimpallate, nelle ultime settimane, da un network ad un blog , dai candidati delle prossime primarie. Renzi: «Bersani? Un «vecchio», «icona del fallimento della sinistra», «amico di Penati». Bersani: «Bamboccione», «arrivista» e «berlusconiano». Bit sprecati tra insulti e appellativi che poco spazio lasciano ai programmi, e che allontanano quel mondo reale dove non è difficile raccogliere dichiarazioni come quelle dei manifestanti dell’ALCOA che, in corteo a Roma, hanno spintonato e allontanato il responsabile Economia e lavoro del Pd: «Abbiamo contestato Fassina, e Bersani è meglio che rimanga dov’è. Tutti i politici, anche Alfano, Casini si dimentichino del nostro voto. Noi vogliamo lavorare, non vivere di assistenzialismo». L’immagine politica non migliora con la propaganda dei moderati che si affidano al cancellino e al caro scudo crociato svecchiato con la parola «Italia» al posto del nomen di Casini, forse ravvedendosi se i nomina sunt omina…Altro scenario elettorale poco rassicurante è quello siciliano, dove testate locali e blog hanno offerto colonne e post ai candidati: da Rosario Crocetta, ex sindaco antimafia di Gela, europarlamentare e candidato del Pd (alleati Udc e Api), gay dichiarato, che ha promesso che se eletto si asterrà «da ogni attività sessuale», all’excusatio non petita di Gianfranco Micciché, ex ambasciatore berlusconiano dell’Isola, leader di «Grande Sud» sostenuto da Fli, per lui l’astinenza sarebbe impossibile , dice «diventerei troppo nervoso», per poi fare outing sull’uso degli stupefacenti «sono a favore della legalizzazione delle droghe leggere, ma da giovane ho anche provato quelle pesanti», che fa il pari con la battuta surreale dell’alleato Raffaele Lombardo, governatore dimissionario, sotto processo per concorso esterno con aggravante mafiosa, che a Radio 24 aveva detto: «Voglio coltivare marijuana».

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ITALIA, INDIA ED I DUE «MARÒ»

I MISTERI della jungla nera di DANIELA ALBANESE AMMAINATE le vele! Il vascello è pronto. All’alba inizia il via vai dei marinai e nessuno resta con le mani in mano: chi porta le scorte in cambusa, chi controlla le vele e la tenuta delle sartie, anche il mozzo Jack fa la sua parte tirando a lucido il ponte di comando e la cabina del capitano. Sì, è così che iniziano in genere storie e leggende di pirati e corsari che con le vele gonfiate dal vento si spingono verso il mare aperto. Certo, ai tempi dei grandi pirati dalla barba incolta come Barbanera non si usavano distinguere le acque internazionali da quelle contigue o territoriali, non si parlava certo di diritto marittimo o di convenzioni e giurisdizioni. Oggi invece diviene quanto mai attuale e spinosa tale questione tra l’Italia e l’India all’indomani della vicenda che ha portato i due marò della petroliera Enrica Lexie ad essere accusati di aver ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati. L’impressione è che il governo italiano sia stato colto di sorpresa dall’incriminazione dei fucilieri, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, giunta quasi fuori tempo massimo. Sulla vicenda l’Italia ha rimediato finora soltanto fallimenti e brutte figure non riuscendo a farsi valere con Nuova Delhi ma, anche l’India, rischia di giocarsi buona parte della sua credibilità internazionale. La reputazione di quest’ultima come Paese rispettoso del Diritto internazionale rischia di essere minata con gravi ripercussioni nel rispetto dei Trattati sul piano internazionale e, non ultimo, anche sul piano economico per la grande importanza che la lotta alla pirateria riveste nei traffici marittimi per il loro progresso quale Paese emergente. Dopo tanti ritardi e rinvii si spera che una sentenza possa venire emessa entro metà settembre. La decisione della Corte Suprema stabilirà quindi se Latorre e Girone dovranno rispondere esclusivamente alla giustizia italiana e potranno quindi rientrare in Italia oppure se prenderà il via il processo in Kerala, già istruito dal tribunale di Kollam, dove la sentenza di colpevolezza sembra già scritta grazie, o meglio a causa, di prove discutibili se non apertamente manipolate. Uno dei più illustri giuristi italiani, infatti, docente della Luiss di Roma, dopo aver sottolineato che la petroliera è stata fatta entrare nel porto di Kochi con un artifizio, usando peraltro inganni e sotterfugi, riflette sul fatto che in questo caso le corti di Common Law, incluse le ex colonie britanniche, applicano il principio bene captus male detentus, cioè giudicano pur se la cattura è avvenuta in violazione di leggi internazionali. La posizione degli indiani-italiani appare anch’essa coerente con il Diritto internazionale per cui l’Italia è titolata a processare i due fucilieri e quindi anche il processo in corso nello stato del Kerala dovrebbe essere conseguentemente sospeso per palese incompetenza.


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Parole e posizioni sagge che ci saremmo aspettati fossero gli Italiani a sostenere con ogni possibile forza, ma è il caso di dire che siamo totalmente in mano agli Indiani, nel bene e nel male! Gli attacchi e le critiche a chi di dovere, soprattutto al Ministro degli Esteri, non sono mancati da parte dell’intera comunità italiana che ha dimostrato, attraverso foto in luoghi pubblici, case private, cruscotti di auto e magliette, quanto sia vicina ai nostri militari. «I veri italiani non li dimenticano, metta la loro foto sulla scrivania!», così senza troppi giri di parole e con tono poco istituzionale l’Assessore della Regione Veneto Donazzan, in qualità di promotrice della Rete Patrioti nel Nordest, si è rivolta al ministro degli Esteri Giulio Terzi, in una lettera nata sull’onda dell’indignazione la cui replica più che repentina dimostra come ciò che è stato toccato sia una ferita aperta che si sta cercando di ricucire a tentoni con un’attenzione che soltanto Terzi può ritenere «quotidiana, collegiale e costante». A quanto pare in occasione del 14° compleanno del varo dello Statuto della Corte Penale Internazionale, celebrato dalla Farnesina, si è pensato di farne un’occasione evocativa, consolatoria ed autoreferenziale, senza minimamente condannare il sopruso che stanno soffrendo i due connazionali, privati di un loro pieno diritto di non essere giudicati da un tribunale indiano incompetente per giurisdizione. Eppure è così palese che i nostri marò non erano certo imbarcati per fare il tiro al bersaglio sui pescatori, ma per difendere e proteggere la nave ed il suo equipaggio, in servizio antipirateria! Motivi di Security, sono questi gli stessi che indussero l’equipaggio della nave americana Rappahannock a far fuoco sulla barca di pescatori (anche stavolta indiani) che si avvicinarono pericolosamente ad una unità militare pregiudicandone la sicurezza. Trascorsi 12 anni dall’evento del USS Cole che nel porto di Aden fu oggetto di attacco terroristico condotto con barchini kamikaze, con danni ingenti e numerosi morti, il governatore dello Stato del Tamil Nadu, accettate le scuse di Washington per la morte di un pescatore indiano e di tre feriti, non ha fatto poi tanti capricci per processare gli americani, ma ha richiesto che le famiglie fossero adeguatamente risarcite, punto. Altro episodio, giusto per capire con chi si ha a che fare, nel 2008 quando i protagonisti indiani, nell’ambito stesso della lotta ai pirati nel bacino somalo, scambiando una motopesca tailandese per una barca di pirati, non sono andati molto per il sottile e senza pensarci due volte, li hanno affondati a cannonate: questo sì che è un grande esempio di garanzie e tutele internazionali ed anche di sensibile rispetto umanitario! Noi invece abbiamo sborsato soltanto soldi in quantità senza ancora ottenere risultati: l’indennizzo per il padrone della barca, fino ai 140.000 euro sborsati per ottenere la libertà vigilata su cauzione, il risarcimento alle famiglie dei pescatori, per non parlare poi del denaro che la compagnia di navigazione ha dovuto pagare per lasciare il porto di Kochi. È ormai noto che l’Italia e gli Italiani non soltanto, si possono prendere per i fondelli ma si possono spremere senza problemi! Non bastano le false dichiarazioni sulle posizioni delle due imbarcazioni, le ridicole perizie balistiche, non basta imporre il primato della loro legge penale su quella internazionale aver sequestrato armi e personale militare di uno Stato sovrano.

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Se soltanto avessimo un po’ di fegato, un po’ di sana immaginazione, chiederemmo l’espulsione dell’India da ogni consesso internazionale. Ormai siamo avvezzi ai soprusi ed abusi che si moltiplicano continuando ad alimentare una ingiustizia arrogante nei nostri confronti. Forse perché nessuna denuncia nostrana, né alcuna voce autorevole si è levata in questi mesi contro i comportamenti nefandi degli Indiani. Tante sono le domande legittime che richiederebbero indagini accurate per raggiungere la verità vera, non quella artefatta e voluta dalle corti indiane, che, come dimostra il differente approccio adottato con gli Americani, dimostra come anche l’India sa fin troppo bene che in Italia il potere è nelle mani dei salottieri, dei compassati, degli imperturbabili superficiali i quali godono di mille comodità, e nel loro intimo pensano. Sì ma cosa? Pensano di non aver doveri verso nessuno tanto più verso due militari qualunque che rappresentano soltanto un’entità trascurabile.


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FAMIGLIE IN CRISI

UN FREDDO autunno di ALESSANDRO P. BENINI UN BEL revival degli anni cinquanta, in questi giorni d’inizio autunno: le automobili (invendute) con linee morbide e tondeggianti di quel tempo, i consumi ridotti al necessario, come allora, e, dulcis in fundo, un bel 6,5 per cento in più di emigrazione verso la Germania. Siamo proprio tornati agli anni della miseria, quando a varcare i confini tedeschi e belgi erano decina e decine di migliaia di lavoratori italiani e non soltanto del nostro meridione. Adesso, a salire sul treno per Stoccarda e Francoforte, c’è una umanità più consapevole delle difficoltà e meno speranzosa, soprattutto più giovane e più evoluta. È già da qualche anno, che, quando il discorso cade sull’emigrazione nel potente Paese europeo, si mette in evidenza la fuga dei «cervelli», quei ragazzi laureati con il massimo dei voti e non adeguatamente inseriti nel mondo del lavoro o costretti, nel precariato, in ruoli marginali, in cerca di una posizione consona alla preparazione acquisita; ora, invece, a lasciare il nostro disgraziato Paese, sono laureati e diplomati alla caccia di una qualsiasi occupazione. Questa generazione senza futuro, il 35 per cento del totale dei disoccupati, non calcolando tutti quelli che il lavoro non lo cercano più, non riescono a vedere la luce, nemmeno quella fioca di una lanterna, in fondo al tunnel. Nella fascia di età compresa tra i 18 ed i 35 anni, negli ultimi dodici mesi, ben 234.000 persone hanno perduto il lavoro, mentre, il numero dei lavoratori anziani è sorprendentemente aumentato; attenzione, questo incremento è, in parte, spiegabile, con l’innalzamento dell’età pensionabile e con la necessità di rimanere più a lungo in attività proprio per sopperire alle difficoltà dei figli senza una occupazione. Questa «generazione perduta», come il Presidente del Consiglio Mario Monti ha definito l’esercito dei giovani disoccupati, si aggiunge ai cinque milioni e oltre di europei under 35, privati del lavoro dalla crisi economica. Senza lavoro e senza reddito, i consumi prima ristagnano, poi cadono rovinosamente: lo sanno molto bene i 120.000 addetti alla produzione di elettrodomestici, il comparto industriale al secondo posto nella scala delle attività manifatturiere del Paese; è, infatti, angosciante l’attesa delle inevitabili riduzioni di personale tra i lavoratori, che hanno assistito, nel giro di quattro anni alla caduta del 40 per cento della produzione, mentre alcune aziende traslocano in Polonia, Ungheria e Turchia, dove il costo del lavoro è minore del 50 per cento. Frigoriferi e lavatrici hanno imboccato la discesa già da tempo: siamo passati dai trenta milioni di pezzi prodotti nel 2002, agli attuali quindici milioni. Il pessimismo non abbandona nemmeno il commercio al dettaglio, con una ulteriore diminuzione dei consumi e con le previsioni di prossime e consistenti perdite: alla fine dell’anno la somma degli esercizi commerciali chiusi si

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aggirerà intorno alle 150.000 unità e per il 2013 la crisi dovrebbe assestare un altro duro colpo con un calo dei consumi del 3,3 per cento pro capite. Un quadro certamente negativo, che, però, lascia qualche piccolo spazio alla speranza; mentre le attività tradizionali come l’abbigliamento, l’arredamento e l’oggettistica abbassano per l’ultima volta le serrande, altre forme di commercio, definiamole alternative, aprono i battenti: stanno nascendo, infatti, numerose, piccole imprese di servizi alla persona, quali punti di assistenza infermieristica, consegne a domicilio, piccoli trasporti, riparazioni domestiche. Tutte iniziative nate per superare la disoccupazione e per sviluppare un modesto mercato locale. Il problema centrale, comunque, rimane il forte divario, sempre più marcato, tra reddito e costo della vita, tra stipendi e salari e prezzi in costante aumento: qui non si tratta di arrivare alla fine del mese, il problema si è spostato alla prima settimana, poi si vive di equilibrismi e privazioni, e tutti quegli impieghi, un tempo, garanti di una vita dignitosa, sono divenuti una fonte di reddito insufficiente al mantenimento di una famiglia. E questo è valido anche per quei nuclei famigliari dove i redditi sono due, ma non si riesce a sostenere i costi impazziti della vita. Siamo, date le circostanze, tornati al doppio lavoro, impiegati che si offrono per la contabilità di artigiani ed artigiani che servono, nei giorni festivi, ai tavoli dei ristoranti. Poche categoria si salvano dalla tirannia del doppio e triplo lavoro, tra queste circa centomila militari, Carabinieri ed Agenti di Polizia, che, terminato il turno di notte, si trovano a dover cucinare o a lavorare come operai, oppure a mettere in piedi piccole attività in proprio. Di questi cittadini in divisa, costretti a svolgere una doppia attività, soltanto il 10 per cento è stato autorizzato, ma è possibile vivere con stipendi fermi da anni, mentre i costi della mera sopravvivenza corrono senza tregua? Indossare l’uniforme significava condurre una vita dignitosa, assicurare alla famiglia normali possibilità di esistenza e di studio, adesso si è infranto anche quest’ultimo scudo della dignità dello Stato. Non si può, per motivi di cassa, costringere chi lo Stato, per giuramento e per dovere, lo difende e lo rappresenta, a trasformarsi nelle ore di libertà dal servizio, in un manovale o in un cuoco, magari al servizio di persone che dovrebbero essere oggetto di accertamenti. Il rigore economico deve cessare quando è in gioco la dignità di un Paese e quando dopo mesi ed anni di chiacchiere non si è provveduto ad eliminare i costosi privilegi della eterna casta.


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NON SIAMO più cittadini di ANTONIO SACCÀ SONO sconvolto. Non immaginavo di vivere quel ho vissuto. E ritengo che avverrà, anzi: avviene similmente, più frequentemente delle mie supposizioni. Un medico, un cortese, rispettabile medico, mezza età, barba grigia, capelli ricci similmente grigi, una pancetta che dovrebbe eliminare in un corpo energico... Caldo da sfiatare, gli chiedo un certificato, studio deserto, neanche le cavallette oserebbero, mentre scrive per me, una telefonata, capisco, parla esplicitamente, gli chiedono di onorare un pagamento, suppongo un acquisto che esauriva a tempo, il medico, senza minima vergogna , dice che non potrà pagare, non riceve denaro da sue prestazioni, e in quanto al suo stipendio è gravato da cifre mensili per altri impegni, l’interlocutore insiste e gli dichiara che non pagando gli verrà tolto il bene o che sia, mi è chiaro giacché il medico dice che facciano quel che devono fare, l’interlocutore continua l’invito, e la minaccia, in fondo, e il medico con una serenità mortale ribadisce che facciano, che sequestrino... Mi si torce l’animo a sentire quel modo della risposta, uno che non ha perso dignità, no, ha perso speranza, e lascia se stesso e gli eventi al precipizio, il cui perbenismo, tuttavia, gli impedisce di gridare, scendere in piazza, sparare. C’è da supporre che di queste morti «perbeniste» della piccola, media borghesia ne avvengano, in silenzio intanato, chi sa quante... Un amico mi chiama in ore precoci, non parla, torrentizia, mi dice, mi urla che è soggetto ad una ingiustizia da scannare, qualcosa di totalmente folle, fosse un incubo sarebbe meno del reale, invece è realissimo quel che gli avviene, me ne intende mostrare l’esistenza, posso venire da te?, vieni, giunge, e mi legge e io leggo che un negozietto da lui comprato e prezzato davanti al notaio quarantamila della moneta attuale, ne varrebbe duecento otto, dunque è richiesto di versare ventunmila della odierna moneta alla Agenzia delle Entrate che gli ha inviata tutta una elaborazione tassativa a riguardo. Il mio amico è stralunato, riconosce di aver attestato una cifra non verosimile, ma il negozietto stava malmesso, in zona incommerciale, e soltanto per un errore di supposto investimento l’aveva comprato, e adesso non riesce né a venderlo né ad affittarlo, aggiunge che un negozio accanto al suo, e tre quarti del suo, quarantacinque metri, è stato pagato settantacinquemila della odierna moneta, dunque il suo non oltrepasserebbe i cento, centodieci, al grosso... Duecento otto mila: non riesce a cogliere da che origine è venuta tale inconcepibile somma. Dice che ha chiamato, che si è recato a visitare i tassatori, una signora lo ha ricevuto cortesemente, confortandolo che è soltanto un «accertamento», non si aggireranno nei conti bancari o nel resto, esclusivamente quel bene, il mio amico comprende la cennata dichiarazione di potere contro di lui, confessa che ha pagato o dichiarato poco, ma dice della penosa condizione del locale, di posteggi di macchine davanti alla porta le quali invalidano l’uso dello stanzone, che non vi è passaggio, si è informato: il valore di un locale non è la semplice perimetrazione... La signora gli dice di presentare le sue ragioni. Il mio

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amico dice che le presenterà. Ma è scombussolato: perché presentare ragioni quando è evidentissimo che il suo posticino non può costare la cifra attribuita?! Questa è capitata a me. Un pagamento di luce elettrica in un appartamento discontinuamente abitato, trecentotrentuno denari, sempre della attuale moneta , il tormentato Euro, per un bimestre, ma, ecco il sortilegio, vi sono dei «conguagli», c’è una lista di conguagli interminabili, incontrollabili, per le mie capacità. Mi reco in un Ufficio, a Roma, presso la Piramide, il perspicace Dante se ne sarebbe ispirato. Nel grande luogo a finestrelle stanno degli addetti, i quali ricevano persone furibonde, urlanti, derelitte, tutte con un foglietto simile al mio, e son clamori, risse, pianti, e narrazioni, non uno di quanti ne vedo e taluno con cui parlo si reputa ben trattato o con pene giuste. Compare un numero, una luce rossa, e il dannato si reca dal suo Giudice, alla finestrella. Non so che avverrà del mio broglio. Devo leggere il contatore, e riferire. Conguagli. Ma perché, conguagliare? Non possono far pagare al momento appropriato? Anche questa è capitata a me. Faccio un abbonamento telefonico con la Carta di Credito. Il Gestore è Tre. Mi dicono: con ventinove, mi pare, della nuova moneta avrai a tuo godimento Ottocento minuti al mese. Sottoscrivo immediatamente. Pure in tal caso c’è un segreto. I minuti vengono divisi in duecento alla settimana. E un segreto ancora più nascosto: se si va al di sopra dei duecento minuti alla settimana la tariffa non è quella dell’abbonamento sebbene venga percepita nella Carta di Credito. Avete capito: ho sempre oltrepassato i duecento minuti, e ho pagato assai, assai, assai maggiormente dei soldi pattuiti nell’abbonamento mensile. Anche in questo caso, come controllare? Forse è possibile, ma non ho la disposizione a combattere falsari e ladri. Intendiamoci, posso sbagliare, non lo credo, ma perché non indicare tutte le telefonate e la loro data e durata? Conclusione: mi sento angariato, perseguitato da poteri che non stanno dalla mia parte. In un lungo saggio in uscita per la rivista Imperi, ricordandomi di essere stato, in vari modi, docente di Sociologia, considero che ormai siamo in una società antisociale, nella quale taluni gruppi obbligano a restare nella società moltissimi per usarli, vampirarli, cadaverizzarli, pelleossarli, senza che le vittime possano replicare. Mi diceva un dannato della Bolgia Luce Elettrica: hanno bisogno di soldi, e lo fanno come gli pare e piace. Mi auguro che non accade qualcosa di molto grave. L’estate sarà caldissima. E l’autunno infuocato. Dico francamente: non siamo più cittadini.


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IL BORGHESE

LA POLITICA CULTURALE DI MONTI

CHIUDERE e tassare di HERVÉ A. CAVALLERA UNO degli aspetti caratterizzanti il Governo Monti, nello slogan «tagli agli sprechi» - si capisce: non agli sprechi dei politici - è la chiusura degli Enti culturali di antica e gloriosa tradizione. Si cominciò con gradualità. Così nel 1995 l’IsMeo (Istituto per il Medio ed Estremo Oriente) fondato nel 1933 da Gentile e Tucci, venne fuso con l’Istituto Italo Africano di Roma, facendo nascere l’IsIAO, che poi con Decreto dell’11 novembre 2011 (G. U. 14/01/2012) è stato assoggettato alla liquidazione coatta amministrativa. Ora l’attuale Spending review prevede la chiusura di altri antichi e eminenti istituti culturali tra cui la Stazione Zoologica Anton Dohrn e l’Istituto Italiano di Studi Germanici. Si può rilevare che alcuni di tali Enti erano dei retaggi di un passato glorioso, ma soltanto dei retaggi. Orbene, di là dalla veridicità - da verificare, appunto - di tale annotazione, perché tali Istituti hanno registrato - sempre se vero - un decremento produttivo nella ricerca? La risposta evidente non può che trovarsi nella incapacità di controllo e sollecitazione da parte dello Stato. Il semplice tagliare, anche quando può avere una qualche giustificazione economica, non serve a niente. Impoverisce e basta. Sono tradizioni e tesori culturali che vengono meno, che andranno ad essere accatastati in qualche contenitore senza vita e gli antichi palazzi destinati a divenire alberghi o residenze di nuovi ricchi, possibilmente d’Oltralpe. Di là a non molto le tante Fondazioni culturali, riconosciute come Enti Morali dai vari decreti dei Presidenti della Repubblica, potrebbero essere ben chiuse. Si pensi alla miseranda fine dell’Istituto di Studi Filosofici di Napoli. Non producono. Quindi, nella logica economicistica, non servono a nulla. Viceversa occorre far pagare. Accade allora un altro fatto apparentemente paradossale. Da un lato si pretende, secondo malaccorti accordi internazionali, di far laureare tutti, dall’altro si constata - o meglio lo constatano i laureati sulla propria pelle - che la laurea non garantisce più un posto lavorativo. Allora si vorrebbe (e siamo ad un passo dalla sciagurata attuazione) togliere valore legale al titolo di studio e, attraverso l’altrettanto fantasioso e sciagurato sistema di valutazione delle Università, valorizzare coloro che si laureano nelle Università di eccellenza. Insomma, l’americanizzazione in atto del sistema universitario, con tutto quello che consegue. In questo marasma, che riduce gli studenti ad automi che devono conseguire il titolo nel più breve tempo possibile, che si fa? 1°. Si aumentano le tasse universitarie per tutti; 2°. Si aumentano soprattutto le tasse per i fuori corso. «Non studi? Non fai il tuo dovere? Paga di più!» Al tempo stesso, meno sovvenzioni per quelle Università ove si registra lentezza nei tempi del curriculum studentesco, prescindendo del tutto che una persona ha una sua volontà, pertanto può e non può volere studiare. Ma ai burocrati dell’economia l’idea che un soggetto possa avere una sua volontà e pensarla come crede

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(bene o male, non importa) non ha senso. Quindi tassare e tagliare, tagliare e tassare. La situazione drammatica e grottesca che si vive, ha dietro però una sua logica, che è maturata nel tempo. Gli Stati europei concepivano le istituzioni culturali e professionali in una forma piramidale. Selezioni difficili e dolorose, ma che garantivano sia una classe dirigenziale efficiente e preparata sia la tranquillità lavorativa. Il mondo anglosassone e soprattutto lo «spirito della frontiera» statunitense hanno sempre preferito una apparente libertà di tutti, lasciando poi che ognuno se la sbrigasse da solo o per quello che il clan di appartenenza poteva. Ne è venuto fuori un sistema oligarchico e capitalista, che, però, non avendo codificato alcun sistema piramidale, è stato percepito nell’immaginario europeo continentale come il mondo della libertà. Di qui la diffusione di un mito mal posto che si è incontrato con quello, di retaggio illuministico e materialistico, della naturale eguaglianza degli uomini e con quello comunistico della parità nella pianificazione. Il cocktail di tutto questo ha condotto alla tesi che tutti possano e debbano arrivare ai livelli più alti. La versione ufficiale di tale mistificazione è divenuta un dogma e finché la barca è andata, ossia sino a quando si è potuto assumere, tutto è sembrato andar bene. Poi, la saturazione ed il trovarsi di fronte ad una situazione prevedibile, ma non prevista, e quindi il dover accettare di conseguenza le regole del mondo statunitense. Tagliare ogni cosa e lasciare poi che i singoli si arrangino. Il lavoro non è un diritto, pare abbia detto non felicemente un ministro. Di quello che riferiscono i giornalisti, non c’è sempre da fidarsi, se non altro per il fatto che devono semplificare ecc. Ma di là da questo, la realtà è proprio questa: dopo aver eliminato ogni ordine, è evidente, per chi pensa economicamente, che l’unico modo di sopravvivere è tagliare i più deboli, far pagare i più deboli e poi farli arrangiare. Intanto si bandiscano concorsi per poche migliaia di professori, e si liberalizzino le poste, la sanità, la cultura (come se la cultura non fosse già di per sé libera). Non si tratta dell’antica arte napoletana, ma di qualcosa di peggiore: la fine dello Stato sociale conduce alla conseguenza di uno Stato più leggero, sì, ma pel fatto che se ne frega (e si scarica) dei tanti problemi. L’importante è che tutti paghino le tasse. Principio sacrosanto, anche perché evasori ce ne sono tanti. Ma non sufficiente, perché chi paga tasse come accade oggi rischia poi di non arrivare a fine mese e di doversi sacrificare e arrivare talvolta al suicidio. Ma la morte, si potrebbe osservare con cinismo, è la conseguenza della vita, quindi anche di questo non ci si dovrebbe preoccupare. Figuriamoci poi se ci si deve preoccupare delle istituzioni culturali di matrice umanistica. Quelle si chiudano e basta! C’è già da rimpiangere i secoli bui del Medioevo.


FOTOGRAFIE del BORGHESE

SGUARDI PERDUTI - IL GRANDE ASSENTE (Nella fotografia, Silvio Berlusconi)


IL PADRONE (Nella fotografia, Mario Monti)


LA VOCE DEL PADRONE (Nella fotografia, Pierferdinando Casini)


UN CRISANTEMO SU «L’ISOLA DELLE ROSE» (Nella fotografia, Walter Veltroni)


SACRO CUORE DI GESÙ, FA CHE WALTER NON CI SIA PIÙ (Nella fotografia, Matteo Renzi, sindaco di Firenze)


PICCOLI UOMINI DORMONO . . . (Nella fotografia, Renato Brunetta)


. . . . «GRANDI» DONNE AGISCONO (Nella fotografia, Daniela Santanché)


SOTTO IL REGNO DEL «GRANDE DRAGONE» . . . (Nella fotografia, Mario Draghi, Presidente della «BCE» )


. . . LE BANCHE CI RUBERANNO ANCHE LA VITA? (Nella fotografia, un senzatetto si ripara davanti ad un’agenzia di credito)


I SANTONI DELL’ANTIMAFIA - IL PROFETA «QUOTIDIANO» (Nella fotografia, Marco Travaglio)


«L’INQUISITORE» (Nella fotografia, Antonio Ingroia)


PAGA, IL FISCO TI VEDE (Nella fotografia, Attilio Befera, Presidente di «Equitalia»)


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«C’ERA UNA VOLTA…» Favola vera del regime raccontata a chi vive nell’«austerità» di GIANNA PREDA «POTREI cominciare questo articolo come una favola: «C’era una volta...», anche se non si tratta di una favola convenzionale con personaggi inesistenti e fantastici. Difatti, è una fiaba di regime e, perciò, vera. Tuttavia non l’avrei scritta se, nello stesso giorno in cui Aldo Moro illustrava in termini estremamente drammatici la situazione italiana appellandosi allo spirito di sacrificio e alla rassegnazione di tutti quanti, non avessi incontrato un conoscente, appena giunto da Parigi, e costui non mi avesse raccontato la «dolce vita» francese di una signora dell’italico regime. Una signora di cui s’è molto parlato e che io ho conosciuto bene. Sarebbe inutile riparlare di lei, se il suo giocondo modo di vivere e il suo nuovo modo di essere, tanto diverso da quello dei tempi in cui la frequentavo, non contrastasse brutalmente con le cupe note di Aldo Moro, e se da un tal contrasto illuminante non si potesse trarre una morale di grande attualità e realismo. E siccome la signora del regime, protagonista della mia favola vera, ha subìto in questi anni mutazioni tanto prodigiose da renderla irriconoscibile a chi l’abbia conosciuta prima della sua metamorfosi, vien naturale, parlando di lei, cominciare con un «C’era una volta…». Infatti, c’era una volta una donnetta venuta dal niente, arrivata da una provincia meridionale dove non era mai stata niente. A farla risalire a Roma era stato, se così si può dire, un suo amoroso destino, che aveva fatto di lei la compagna di un noto «compagno» del profondo Sud. Di certo, quel suo convivere pubblicamente e senza sacri crismi di legittimità, l’avrebbe condannata a penosi ostracismi, se quello da lei scelto fosse stato un «compagno» qualunque. Ma non era uno qualunque, perché nella provincia del Sud in cui anche egli era nato e cresciuto, già era noto e onorato come «ras», e perché giunto a Roma era diventato nientemeno che Ministro. Così, anche la donnetta arrivata da laggiù, venne come irradiata da quell’aureola di potere, tanto che tutti, pur non ignorando la situazione della felice coppia, la chiamavano con il cognome di lui. E questa era più che una consacrazione sacramentale. Negli anni in cui presi a frequentare la coppia (frequentazione che non contrastava con le mie ideologie, visto che lui allora parlava come se fosse stato più a destra di me e dal momento che lei pareva ancor legata a certe nostalgie e a certi nostalgici del suo passato provinciale) lei era ancora una donnetta, non tanto per la limitatezza della sua cultura quanto per la sua modestia e un certo suo goffo disagio, più paesano che provinciale, allorché si trovava a contatto con gente importante o già arrivata al potere. Viveva con lui, in quel tempo remoto, in un appartamento non completamente ammobiliato e i mobili erano più che altro vecchi e non antichi: una casa piccoloborghese, di quelle un po’ squallide e patetiche, con le poltrone durissime e con le pareti nude. Ma una casa che, per certi versi. s conciliava con le ideologie sociali di lui, e che lei mostrava di condividere più per amor di pace che

per reale convinzione. Difatti, ogni discorso sui vari modi possibili per dare un assetto socialmente giusto alla società la lasciava indifferente e, semmai, soltanto l’ipotesi (che allora il suo «compagno» respingeva con fermezza e con orrore) di un ricorso al comunismo per far giustizia, la ravvivava tutta: per il timore che davvero i comunisti potessero arrivare («non sia mai!», diceva). Anche per questo, non mi era difficile intrattenere amichevoli rapporti con la felice coppia concubina. Un concubinaggio che però le pesava, non tanto per questioni morali, che aveva avuto il tempo di superare, quanto per un’ansia non dichiarata di legittimità, che avrebbe definitivamente inquadrato la sua vita, e nel migliore e più vantaggioso dei modi. Fui proprio io, attraverso un vecchio e potente cardinale chiamato «il Carabiniere della Chiesa», che le detti una mano per mutare il suo stato anagrafico. Con inconsueta sollecitudine, la Sacra Rota provvide a scioglierla dal precedente matrimonio da cui erano nati tre figli e a indurre il suo importante concubino ad impalmarla in chiesa. Strano a dirsi, cominciò proprio allora, la nuova moglie del regime, ad assumere atteggiamenti politici «sinistri», del tutto nuovi e perciò fervidissimi. E proprio nel tempo di quelle fauste e consacrate nozze il «compagno» Ministro, al quale tante volte io stessa avevo rimproverato di ragionare come un reazionario, prese a guardare sempre più a sinistra: oltre Nenni e verso il PCI. Così, fatalmente, finirono i nostri amichevoli rapporti. Ma val la pena di rievocare la signora del regime, così come era prima della grande arrampicata. Difatti, c’era una volta una donnetta che vestiva con abitini mal tagliati e preferibilmente neri: perché si macchiavano meno facilmente, e facevano un bel contrasto con i suoi capelli biondi. Capelli acconciati come le chiome «domenicali» delle donne di provincia e che la facevano sembrare più vecchia della sua età, avviata verso il mezzo secolo. E portava cappottini semplici e indaganti, che però non stonavano affatto con il suo personaggio. Mi ricordo poi che una volta. in quella ancor umile casa di Ministro, si parlò di un progetto: il progetto di lui di acquistare un pezzo di terra su cui far sorgere una casetta che piacesse a lei. Si parlò di un acquisto «con il mutuo», perché ambedue mi fecero capire di non aver tanti soldi, o perlomeno non tanti da poter pensare ad un acquisto della terra senza l’aiuto del mutuo e tantomeno alla costruzione di una villetta. Ricordo anche che quando io, più per celia che sul serio, dissi al Ministro che quel progetto poteva sembrare il principio di profitti di regime, egli, serio serio, ammise che sì, avevo ragione: e concluse dicendo che non ne avrebbe fatto nulla. E io, cretina, non fui nemmeno sfiorata dal sospetto d’essere la spettatrice di una commedia recitata da attori di primissima categoria. O forse mi illudevo ancora, in quei tempi, che non tutti facessero politica soltanto per rimpannucciarsi. Cera una volta, dunque, una donnetta del profondo


IL MEGLIO DEL BORGHESE Sud. Aveva mani non curate e una pelle un po’. grossa e unta e con molte rughe, che. se non le davano ancora l’aspetto di una nonna, le davano però quello di una zia un po’ sciatta e non più verde. Era, la sua, una pelle che non conosceva creme e massaggi, soprattutto nel collo che era come spiegazzato, intorno al quale luccicava una catenina d’oro: di quelle benedette. Era, insomma, una donnetta che pareva vivere, mite e modestina e senza grilli pel capo, all’ombra grande e prestigiosa del suo uomo Ministro, non ancora marito. E niente, ancora, poteva far supporre che il potere l’avrebbe «miracolata» e avrebbe fatto di lei un’altra donna, di un altro mondo. Siccome però io non l’ho più vista, la descriverò cosi come me ne ha parlato (ma non è stato il solo, in tutti questi anni della escalation di lei), il mio conoscente arrivato da Parigi. Egli infatti ha avuto occasione di vederla alcune volte, non visto, in quella città e ha anche avuto modo di apprendere, di lei e di quella sua vacanza francese, alcuni particolari, da certi amici comuni. Dunque, la Signora del Regime ha trascorso di recente una lunga vacanza in quella città, Stava al Giorgio Quinto: l’albergo dei principi e dei miliardari, quello che costa, bene che vada, centomila lire al giorno. Soltanto per dormire e per fare bagno. A Parigi, forse perché nonostante tutto è sempre Parigi, la Signora del Regime è stata vista più volte da Chez Maxim un posto dove si mangiano prelibatezze per palati e per portafogli speciali: un posto da privilegiati, come gli amici di lei. A Parigi, infatti la nostra Signora «pimpava» nel giro dei compagni Loren e del costruttore capitalista G.C.; quello che, se non sbaglio, tempo addietro fece parlare di sé per aver perduto in una sola notte, al casinò, qualcosina come un miliardo e passa. Per la verità fu uno scandalo che durò lo spazio di un mattino, non so se per l’importanza «condizionante» del personaggio o per quella delle sue amicizie. Lo dicono difatti legatissimo ad Andreotti oltre che al «girone» socialista, D’altro canto, uno come il G.C. non avrebbe ospitato nel suo aereo il gruppo di cui faceva parte l Signora del Regime, per certi «fine settimana» a Londra. perché la domenica a Parigi è invasa dai provinciali ed è così noiosa. Chissà, probabilmente anche le vacanze di lusso, alla lunga, stancano: proprio come il mangiar sempre pernici. Ed è per divertirsi un po’, mi ha raccontato il mio conoscente giunto da Parigi, che la bella combriccola di cui faceva parte la Signora del Regime «volava» a Londra, per poi tornare a Chez Maxim dove la ex donnetta ordinava ogni volta caviale: forse perché l’austerity ha fatto rincarare vitelli e i polli, o forse per dirozzar il suo palato e liberarlo dal sapore di certi piccanti salami meridionali che. ai tempi della nostra frequentazione, regalava anche a me. Ma come può, il caviale soltanto, nutrire una dolce vita? Difatti, la Signora del Regime è andata talvolta anche in locali di spogliarello come il Crazy Horse, dove mi si dice che lei e i suoi amici si siano divertiti un sacco. E in effetti deve essere esilarante per la Signora di un Regime che ha spogliato tutti gli italiani, assistere a quella versione eccitante di spogliarello. Tanto più eccitante,visto che la Signora in questione stava ben coperta, perché indossava sopra «toilettine» di Saint-Laurent e di Dior (robina che sembra niente, ma costa un occhio) un mantello di zibellino lungo sino alla caviglia, come ve ne sono pochi. Mi hanno detto infatti che di zibellini come quello della Signora Compagna ve ne saranno in tutto il mondo meno di dieci e che, anzi, uno ce lo ha anche Indira Gandhi, alla

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quale è stato regalato dal Governo di Mosca. Un Governo che deve saperla lunga sui gusti delle donne, anche quando sono impegnate a guidare un Paese di morti di fame e di vacche sacre. Fatto sta, che la nostra Signora Socialissima, si portava in giro per Parigi quel po’ po’ di pelo prezioso, che a Roma pare porti poco: forse per non dar nell’occhio del popolo che soffre, anche se il popolo, nella sua incompetenza di peli, è capace di scambiare lo zibellino per un gatto bastardo. Comunque sia, lo zibellino della Sposa del Potente Socialista deve essere di buona qualità, se è vero che certi occhi esperti lo hanno valutato sui venticinque milioni, lira più lira meno. Per non parlar di altre preziosissime pellicce che, ormai, la Signora del Regime si mette addosso alla carlona, come certi scialletti «fatti a mano» che le coprivano le spalle nei tempi in cui la frequentavo. Il mio conoscente mi ha anche detto di averla vista tutta «sbrillucicante» di gioielli e addirittura «eclatante», oltre che per il pelo prezioso, anche per un colbacco ben calcato sulla testa acconciata da sommi maestri parrucchieri. Un bel colbacco peloso e prezioso anch’esso e per certi versi «emblematico». Perché poteva simboleggiare una specie di cordone ombelicale ideologico fra lei, la Compagna del Regime, e Mosca, dove anche le bestie randagie diventan colbacchi. «E la pelle? Adesso ha anche una pelle diversa. Pelle vecchia, ma come rinnovata», mi ha detto, come divertito, il mio conoscente. E, per dar l’idea della compiutezza della miracolosa metamorfosi, mi ha raccontato che, sebbene la Signora sociale dimostri egualmente la sua sessantina di anni, la sua pelle, là dove non vi sono rughe, porta bene l’età. È facile immaginare mani proletarie di estetiste battere e sbattere velocemente il volto della Compagna, per far scorrere il sangue e far penetrare quelle creme costosissime che nutrono da sempre le illusioni di giovinezza delle donne vizze e anziane. Ed è facile rendersi conto come una signora così pimpante, elegante, con la pelle vecchia eppure rinnovata, con lo zibellino, con i gioielli e il colbacco, una signora così che passa dal Giorgio Quinto al Crazy Horse, da Parigi a Londra, da un caviale all’altro, al Chez Maxim, non abbia più nulla da spartire con quella che io conoscevo. Dunque, se pure son finiti in Italia i «miracoli» economici, anche se i più sono oppressi da mille guai e miserie, anche se la Nazione intera è stata chiamata a compiere, a fronte alta, petto in fuori e cuore saldo, sacrifici immensi, e anche se ormai tutto va nel peggiore dei modi, v’è pur sempre chi, al vertice del regime, non soffre per simili bazzecole austere. E però il fatto che al vertice dei regime vi sian personaggi femmine, scaldati dagli zibellini e gaiamente saltabeccanti in «giri» di miliardari, non impedisce ai mariti delle suddette femmine del regime di tuonare contro il capitalismo, contro il fascismo, contro il «sistema» e contro le ingiustizie sociali. E mentre i mariti, a Roma, fan ganascino al popolo inguaiato, promettendogli futuri paradisi marxisti, le loro mogli, a Parigi, se la spassano, anche se, dai e dai, gli spassi portano al tedio. Ma è un tedio-alibi: l’alibi dei ricchi e degli arricchiti, dei vecchi capitalisti e dei pescecani. Immagino però che il peso di un tedio siffatto sia leggero da portarsi, soprattutto se lo si porta insieme agli zibellini e ai gioielli e in giro per la Parigi miliardaria: quella dove non si sentono l’odore e il sapore della grigia periferia e delle umane fatiche. Questa, dunque, è la favola bella di questo brutto regime: la favola di una donnetta diventata (si fa per dire) regi(Continua a pagina 15)


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Il Governo «cumulista» di MARIO TEDESCHI LA «Commissione Parlamentare Inquirente» tace sul «caso» di Ministri e Sottosegretari che incassano uno stipendio da «superburocrati» oltre alla indennità parlamentare, pur avendo promesso nel 1972 di rinunciarvi. «Enti dello Stato, del parastato, Banche ed organismi pubblici, oltre che aziende a partecipazione statale, hanno assunto e continuano a trattenere in servizio grossi funzionari ed alti ufficiali delle forze Armate e delle Forze di Polizia in posti di grossa responsabilità, con adeguate retribuzioni»; lo ha dichiarato il deputato socialista Giuseppe Macchiavelli, fino a poche settimane or sono Sottosegretarie alle Finanze: aggiungendo che vi sono «enti i quali si avvalgono della consulenza interna ed esterna di tali persone contro lo Stato, come avviene in materia fiscale». Questo, per i «superburocrati d’oro». Ma esistono anche i «mini-burocrati», anch’essi dorati. I deputati Borro(Continua da pagina 14)

na. Una donnetta venuta dal niente, arrivata dalla provincia. dove era niente, e che ha trovato a Roma, grazie al regime sociale, la bacchetta magica che le ha permesso di vivere, in una Italia così amara, una dolce e ricca e spensierata vita. Però una vita «impegnata». Tanto è vero che molti proletari e borghesi pendono ancora dalle promesse del marito di lei, e si fanno aizzare dai furori socialisti del marito di lei, e si fanno far fessi dagli sdegni sociali del marito di lei, «compagno» di sicura fede. E lei, che è la moglie di lui, intanto risolve il problema del caro-carne mangiando, poverina, il caviale. Miracoli così non toccano a tutti: bisogna, infatti, portare un nome del regime, per diventare protagonisti di prodigi e di metamorfosi tali da potersi permettere il lusso di non preoccuparsi di niente, per quanto male vada l’Italia. Morale: come diceva Dante: «Rade volte risorge per li rami, l’umana probitate». Basta infatti sapersi arrampicare lungo i rami dell’albero della cuccagna del potere, perché chiunque, quali che siano i suoi vizi e i suoi limiti, possa cogliere in alto i frutti più nutrienti e rari, Ed è una morale, quella che vien fuori dalle cronachette francesi della Compagna del Regime, che fa sembrare roba da favole per bambini scemi quanto disse alla Camera G.B. Giorgini nell’aprile del 1863, nella relazione sul disegno di legge per una pensione e dono nazionale a Luigi Carlo Farini: «In Italia, il potere, non ha mai arricchito nessuno». La Compagna in zibellino. potrebbe raccontarla come una barzelletta ai suoi amici capitalisti e ai suoi compagni miliardari di Francia e d’Italia. Tanto per rompere la noia di una dolce vita al caviale. C’era una volta una donnetta che, diventata compagna di un ometto finito nella «stanza dei bottoni», divenne «Donna»: donna di pelo costoso. (il Borghese, 15 Dicembre 1974)

meo d’Adda, Bollati e Tassi, della Destra Nazionale, hanno infatti chiesto di sapere se il Governo sia informato che in Sicilia la Regione, nel maggio del 1973, ha messo in pensione un commesso «con la pensione annua lorda di 8.147.000 lire, la tredicesima mensilità di 678.925 lire e l’aggiunta di famiglia di 40.600 lire mensili»; il tutto a prescindere dalla liquidazione, di cui si ignora l’entità. Insomma, lo scandalo dei burocrati, «super» o «mini», messi in pensione a peso d’oro e, per di più, gratificati di promozioni in extremis, rivela ogni giorno episodi inediti. Intanto, però, si continua a tacere su un altro episodio di malcostume legato a questa vicenda: il cumulo delle indennità da parte di Ministri e Sottosegretari. Personalmente, è dal gennaio del 1974 che, in Parlamento e attraverso Il Borghese, tento invano di far luce su questo abuso, modesto forse per entità, ma senza dubbio grave sui piano del costume. Sono riuscito a fare in modo che il «caso» giungesse all’esame della «Commissione Parlamentare inquirente»; ma il relatore nominato dalla Commissione, il senatore «indipendente di sinistra» (cioè eletto dal. PCI) Galante Garrone, non risulta che abbia concluso la sua indagine. Eppure, i fatti sono ben conosciuti. Ministri e Sottosegretari sono equiparati agli alti gradi della burocrazia statale e ricevono, per questo, uno stipendio che si somma alla indennità parlamentare. Quando, nel 1972, fu approvato il decreto delegato sulle retribuzioni degli alti burocrati, si stabilì che i funzionari direttivi dello Stato avrebbero avuto un forte aumento di stipendio, ma non avrebbero più potuto «cumulare» varie indennità. «Un mensile alto, ma uno solo», Fu la regula. E i Ministri e i Sottosegretari?, chiese qualcuno. Il Presidente del Consiglio dell’epoca, onorevole Andreotti, con una nota ufficiosa del 17 novembre dichiarò: «È da ritenersi che da ora innanzi membri del Governo non percepiranno più l’indennità parlamentare o non percepiranno più lo stipendio parlamentare». Infatti, se così non fosse accaduto, i membri del Governo avrebbero tratto dal decreto (il loro decreto) un doppio vantaggio: si sarebbero aumentati gli stipendi come «alti burocrati» e non avrebbero subìto il salasso imposto agli autentici funzionari statali dal divieto di «cumulare» più retribuzioni. La dichiarazione di Andreotti rimase lettera morta. Rivelai il fatto sul Borghese del 13 gennaio 1974; il 16 del mese presentai una interrogazione in Senato. Nessuno replicò. Il 2 febbraio scrissi una lettera all’ex Presidente del Consiglio, Rumor, sollecitando spiegazioni; 1’8 maggio, non avendo avuto risposta, replicai la lettera, ma sempre inutilmente. Infine, stanco di aspettare, il 16 luglio scorso mi recai dal Procuratore capo della Repubblica di Roma, dottor Siotto, e gli consegnai, insieme ad altre, l’interrogazione sui membri del Governo «cumulisti» di stipendi e di indennità. «Poiché nessuno ha voluto rispondere», dissi al dottor Siotto, «veda la Magistratura il da farsi.» La Magistratura esaminò il «caso» e, trovandosi dinanzi a possibili responsabilità di membri del Governo, trasmise l’interrogazione alla «Commissione Parlamentare Inquirente». Dove fino ad oggi, come ripeto, non mi risulta che il senatore Galante Garrone abbia sciolto il quesito: Ministri e Sottosegretari, hanno diritto o no a «cumulare» indennità e stipendio da funzionari dello Stato? Nel momento in cui tutti sono chiamati a sacrificarsi e il fisco annulla le «tredicesime» dei semplici lavoratori, il problema non è di poco conto. (il Borghese, 22 Dicembre 1974)


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Una terapia sbagliata di GASTONE NENCIONI IL GOVERNATORE della Banca d’Italia, in un’intervista all’ANSA, ha parlato della necessità di respingere gli usurpatori che hanno invaso la provincia creditizia, Ancora una volta si profila un contrasto tra la «linea Carli» e la «linea» del Presidente del Consiglio, così netto come già si verificò ai tempi del Governo Rumor. Il mercato finanziario, praticamente, non esiste più e, quello che è peggio, non esiste una politica finanziaria, Mentre il Presidente del Consiglio ha auspicato un rallentamento della stretta creditizia che dovrebbe essere articolata attraverso la politica della Banca d’Italia e del Comitato del Credito, nel momento del rinnovo del plafond di espansione del credito, il dottor Carli, responsabile tecnico della politica governativa, ha affermato senza mezzi termini: «Le difficoltà non si superano mediante l’invocazione all’espansione del credito, che in ultima istanza si risolve nell’invito all’Istituto di emissione a fabbricare una maggiore quantità di moneta, ma riconducendo all’equilibrio le gestioni pubbliche e private ». Carli ha poi incalzato: «Secondo stime arrendibili, nel corso del 1975 i proventi dell’ENEL non saranno sufficienti per conseguire all’Ente di pagare l’olio combustibile, le retribuzioni ai dipendenti e gli interessi passivi: crediamo che questa sia una situazione che si risolva con la espansione del credito? Quando si invoca una politica selettiva, occorre ammettere che la prima selezione da compiere è quella di arginare il flusso del credito che viene impiegalo per finanziare perdite. Ma ciò non dipende dai comportamento del sistema bancario; dipende dai comportamenti degli amministratori pubblici e privati e dei cittadini tutti». Non vi è, dunque, una nuova «linea» della Banca d’Italia e degli organi tecnici. Il Governatore, nelle sue dichiarazioni del 31 maggio scorso, aveva detto di concordare sulla necessità di accentuare la selettività creditizia, ma è rimasto fermo sulla linea suggerita al precedente Governo. Per ogni cento lire di nuovo credito erogato, aveva affermato il Governatore, 52,30 lire sono affluite all’area pubblica e 47,70 all’area privata. Aveva indicato negli Enti locali, negli Enti ospedalieri e nella pubblica amministrazione la fonte di pressione sul sistema bancario, che sottrae linfa vitale alle attività produttive. Ed aveva concluso: «Neppure i più arrabbiati espansionisti oserebbero chiedere tanto (cioè la chiusura del credito agli enti pubblici); ma, per ottenere un risanamento almeno in parte, occorre respingere», quelli che egli aveva chiamato: «gli usurpatori». Dunque, nonostante la filosofia economica dell’onorevole Moro, è pacifico che le difficoltà del momento non si superano attraverso l’espansione del credito, che si risolverebbe nella fabbrica di nuova cartamoneta, come noi stessi abbiamo da tempo denunciato. Carli sottolinea la necessità di condurre all’equilibrio le gestioni pubbliche e le gestioni private, ma, al solito, finge di ignorare il quadro politi-

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co, che questo non consente: e si tratta di un quadro politico di cui egli è in larghissima parte corresponsabile e sostenitore. I «quattro cavalieri dell’Apocalisse» sono perciò; la deflazione, l’inflazione. la disinflazione e la carenza di una qualsiasi politica di equilibrio. È pacifico, ma il Governo non riesce a comprenderlo, che l’economia italiana, sottoposta ad una pressante fase inflazionistica, si trova di fronte, non certo ad una inflazione da domanda, ma ad una inflazione da costi; fenomeno che un’indagine più approfondita ci porta a classificare come «importato», per l’aumento del prezzo del petrolio (arrivato a quadruplicare i livelli del 1972), per il rincaro delle materie prime all’origine (anche se in questo momento molto attenuato) e per la svalutazione della lira. Da una parte l’aumento dei prezzi all’origine, dall’altra il tasso di cambio peggiorato, ci portano entrambi impulsi inflazionistici da costi provenienti dall’estero. Quando l’onorevole Moro, rispondendo ai rilievi fatti sulla esposizione della sua politica economica, ha precisato che il suo obiettivo, la sua terapia, consistono nella contrazione della domanda, ha dimostrato di voler seguire una via completamente errata. Se vi è un disavanzo che scaturisce dalla domanda, questo è unicamente il disavanzo del settore pubblico, che nel 1974 è arrivato a 9.200 miliardi. Per il 1975 non è dato immaginare a quali livelli si potrà arrivare. È vero (e le dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia lo confermano) che una contrazione del credito alle operazioni speculative ha prodotto tensione sui prezzi, aggravando la bilancia dei pagamenti; ma il fenomeno non può essere certo attenuato colpendo la domanda interna. Per ottenere minori importazioni, che si traducono in un miglioramento del tasso di cambio e quindi in attenuazioni della pressione esercitata attraverso la lira lasciata fluttuare, il ricorso alla compressione della domanda non serve a nulla. La terapia dell’inflazione da costi non può essere mutuata da quella valida per l’inflazione da domanda. Occorrerebbe una strategia di equilibrio, della domanda dei pagamenti, attraverso misure di alleggerimento fiscale per i capitali, ormai diretti verso lidi ritenuti più sicuri; e, carne abbiamo sostenuto per primi sul Borghese, accorrerebbero penetranti controlli doganali sulle fatturazioni delle merci nell’interscambio, per impedire esodo di capitali celati nelle partite correnti. Oltre a ciò, occorre (ed occorreva già da tempo) quella politica che ora si tenta in extremis attraverso i contatti con i Paesi arabi, cioè lo sviluppo di scambi bilaterali con i fornitori di petrolio. Tutte le altre misure: la restrizione del credito all’industria, l’appesantimento fiscale, portano soltanto miseria e disoccupazione. I lunghi «ponti» delle imprese metalmeccaniche, la «cassa integrazioni», la restrizione del credito alle piccole e medie aziende (sia attraverso i noti provvedimenti limitativi, sia attraverso i tassi attivi delle Banche, che rendono proibitivo anche il credito concesso o concedibile), hanno creato il crollo fisiologico dei sistemi di scambio e di produzione. Il prevalere della fluttuazione dei cambi, lungi dal determinare un aggiustamento dei rapporti, ha operato come fattore aggiuntivo di inflazione e di disordine economico-finanziario. Il rovesciamento della situazione è inconcepibile. Non tanto per ragioni economiche, quanto per sfiducia in chi manovra le leve del potere. (il Borghese, 29 Dicembre 1974)


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PER IL PROGRESSO E LA CIVILTÀ

IN DIFESA del latino di ALESSANDRO CESAREO IN un suo recente intervento sul Corriere, Luciano Canfora dichiara apertamente che, di questi tempi, «Difendere l’insegnamento del latino non è una battaglia di retroguardia». Ha ragione, in questo, Luciano Canfora, quando non esita a scendere in campo per ridare dignità ed autorevolezza allo studio del latino, che la massificazione pericolosamente imperante in questa nostra epoca, espressione del qualunquismo ad ogni costo, vorrebbe vedere già cancellato e dimenticato da un pezzo. E molto è stato fatto in questo senso, se si pensa alla drastica riduzione, se non addirittura alla cancellazione, delle ore d’insegnamento del latino all’interno delle nostre scuole. Un programma che, iniziato negli anni ‘60, sta di fatto arrivando a compimento. È dunque una battaglia d’avanguardia, quella di cui parla Canfora, nelle motivazioni e, soprattutto, nelle finalità. Più variegata, invece, nonché più sfumata, è la riflessione relativa alle modalità, alle strategie con cui il nobile fine di non far dimenticare e di non far sparire la lingua di Roma dalle nostre aule può essere preso in considerazione e perseguito in tutta la sua grandezza ed in tutta quanta l’efficacia che lo contraddistingue. Latino è civiltà, è progresso. Quello vero, però. Latino è verità, è impegno. Quello serio. Vero, frutto di una volontà tenace e costantemente, quotidianamente allenata in base ad una serie di attività di tirocinio e di esercizio che non ammettono, in realtà, molte deroghe. È quella stessa volontà che, circa due secoli fa, fece coraggiosamente gridare a Vittorio Alfieri; volli, sempre volli, fortissimamente volli, e che non ammette compromessi, né cedimenti. Di nessun genere. Di nessuna forma. Una volontà forte, in grado di superare ogni tipo di ostacolo ed in grado di scalare agevolmente le montagne. Anche le più ripide. Le più scoscese. Le più insidiose. Ecco perché occuparsi dello studio del latino, così come degli spazi da dedicare alla lingua di Cesare e dei tempi nei quali realizzare un coerente ed efficace approccio con lo stesso, corrisponde ad una scelta significativa, dal valore profondamente etico e con il quale non è affatto lecito scherzare. Il latino, è vero, può generare degli equivoci, ma ciò accade soprattutto quando dalla parte di chi protesta contro lo studio e la pratica dello stesso non sussiste una vera comprensione della grandezza, dell’efficacia, della nobiltà di questa lingua. Il suo valore formativo, infatti, riconosciuto in sedi assai autorevoli ed in ambiti decisamente illustri, è invece soggetto ad una grottesca azione di boicottaggio in Italia, la terra che ne è, invece, l’erede più direttamente legittimata, e non soltanto per motivi di carattere territoriale. Per far sì, dunque, che la battaglia di cui parla Canfora assuma connotati ed aspetti dignitosi, ma anche che venga effettivamente compresa nelle sue finalità più immediatamente spendibili e perché la stessa non venga dunque erroneamente confusa con una battaglia di tipo ideologico, così come

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ancora molti pensano, è dunque importante che le motivazioni a sostegno dello studio del latino escano alla luce, si facciano conoscere, si rendano evidenti. È dunque importante che si dibatta davvero sul perché del latino, sui motivi che ci fanno dire: Latino? Sì, grazie! Che c’introducono all’interno del ricco e variegato mondo dei valori che dal mondo antico arrivano fino a noi e che ci rendono ancora capaci di conservare il senso dell’equilibrio, della misura, del giusto mezzo. Valori che ci rendono uomini saggi, con le idee chiare, e meglio ancora se questa categoria di uomini ha iniziato a studiare il Romanorum sermo in un’età piuttosto precoce, quando tutto è più facile ed ogni tipo di studio o di apprendimento risulta facilmente accessibile. Il prolungare, il ritardare, l’annacquare l’incontro con un tipo di studio serio e rigoroso non fa altro che rendere ancora più insostenibile una situazione di generale confusione e di totale disorientamento cui gli adolescenti ed i preadolescenti) sono quotidianamente ed ingiustamente sottoposti. La battaglia per la reintroduzione dello studio del latino fin dall’undicesimo, dodicesimo anno d’età, non ci stancheremo mai di dirlo, è una battaglia importante, si potrebbe anche dire decisiva, fondamentale e necessaria per favorire un processo di maturazione che è stato quasi del tutto eliminato dai programmi educativi di scuola e famiglia, più chiaramente improntati, invece, al «pargoleggiamento» ad oltranza ed orientati, tra l’altro, al prolungamento della fanciullezza ben oltre i termini naturalmente ed oggettivamente consentiti Se, infatti, assistiamo al poco esaltante diffondersi del fenomeno dei quarantenni ancora semiadolescenti, costretti a prolungare il vero ingresso nella vita a causa del loro effettivo indugiare in stili e scelte più consoni a dei ventenni o poco più, non possiamo di certo ritenere che tutto ciò derivi dal caso o che, peggio ancora, sia frutto di un’improvvisazione. Tale, umiliante condizione, peraltro non scevra da motivazioni di ordine sociale, politico, legislativo ed anche lavorativo, affonda le proprie radici in una lunga serie di motivazioni legate anche ad un processo formativo troppo leggero fin dall’inizio e, soprattutto, troppo superficiale tanto nell’approccio iniziale che nel suo effettivo prosieguo. Un grande male, quello che affligge la società odierna è, appunto, quello di rinviare, prolungare, rimandare, stabilendo di fare domani quello che, invece, potremmo (ed in certi casi anche dovremmo) fare oggi. Insomma, l’esatto, inquietante contrario di quanto prevedeva la saggezza degli antichi, in base alla quale non era affatto opportuno rimandare al domani ciò che, invece, poteva essere realizzato nell’oggi. Cosa c’entra tutto questo con il latino e con la battaglia d’avanguardia? C’entra, eccome se c’entra, soprattutto perché coinvolge a fondo la Weltanschaung di intere generazioni ma, soprattutto, perché mette i giovani in condizioni tali da iniziare a pensare con la propria testa e, inoltre, ad esprimersi nella propria lingua italiana, appunto, la nostra amata, ma sempre più sconosciuta lingua, che per tanti Italiani sta diventando lingua straniera. Ma il dubbio di fondo che alberga sempre in mezzo al cuore è (e rimane) sempre il seguente, ovvero: arriverà mai una flebile eco di queste parole all’interno dei palazzi del potere e, soprattutto, varcata la cortina ferrea dell’indifferenza che ivi notoriamente e solitamente alberga, riuscirà sul serio a farsi udire? A volte, infatti, può succedere che anche una vox clamantis in deserto riesca a lasciarsi udire, o sul serio o per celia, da qualcuno, ed a questo eccellente traguardo che si vorrebbe effettivamente arrivare, anche se lo sforzo sarà grande e le energie da impegnare abbondanti. Sed spes ultima dea…


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QUALE LUCE IN FONDO AL «TUNNEL»?

PRECARIATO, via senza uscita di GIOVANNA OMICCIOLI QUESTA è la storia di Tommaso, un ragazzo di 27 anni anche lui segnato da una storia di precariato senza via d’uscita: ha iniziato a lavorare molto presto come operaio, aveva 15 anni quando firmò il suo primo contratto di lavoro, dopo diversi anni passati in una falegnameria, decide di cambiare quella monotonia e trova un nuovo impiego in un’azienda metalmeccanica; nuovo lavoro, nuovi obiettivi, nuova paga e, dopo qualche anno, nuove responsabilità, dato che la sua azienda lo eleva a «capomacchina»! Tommaso è orgoglioso del suo nuovo compito, si sente incoraggiato dai suoi datori di lavoro. Si fidano di lui e, anche se si iniziano a sentire gli influssi negativi della crisi, non lo lasceranno mai a casa dopo una qualifica così. Purtroppo, però, la disillusione spezza i suoi sogni quando, in seguito ad una riunione aziendale dei «capi», viene affisso in sala mensa un foglio con scritti i nomi dei dipendenti che verranno licenziati per mancanza di lavoro, e c’è anche il suo nome. I suoi responsabili sono dispiaciuti, ma dovendo fare una scelta hanno deciso di mandare a casa chi ha meno problemi economici o impegni legati a mutui, famiglia, ecc… Delusione, rabbia, sconforto, Tommaso non ha più un lavoro. Inizia l’immenso salto nel vuoto, avvolto dalla nebbia della disoccupazione. Inizia a cercare una nuova occupazione, rispondendo a tanti annunci di lavoro: muratore, facchino, saldatore, imbianchino, addetto al confezionamento, cameriere, magazziniere, macellaio, carpentiere, saldatore, fornaio, giardiniere, agricoltore, prestigiatore: insomma, le prova tutte! Lo chiamano per alcuni colloqui, ma in queste sedi gli viene detto chiaramente che le aziende cercano degli apprendisti e personale in mobilità, poiché nessuno si prende la briga di spendere per poter assumere un giovane senza sgravi fiscali. Tantissime aziende non si scomodano nemmeno di rispondere agli annunci: che siano finti? Poi ci sono i «colloqui di gruppo»: gli è capitato di recarsi in un’azienda

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per un posto da operaio e si è ritrovato in una stanza con altre venti persone, gli spiegano che nel pomeriggio ci sarà un’altra ondata di persone, tutte per un unico posto di lavoro! I responsabili della ricerca del prestigiosissimo operaio su un’ora di incontro passano circa tre quarti a parlare dei numeri della ditta, di quanto sia importante, di quanto sia salda e seria, poi i rimanenti 15 minuti li impiegano per far scrivere ai candidati le loro generalità ed a fare una carrellata veloce di nomi e l’indicazione dell’ultimo lavoro svolto. Tommaso non passa questa selezione, forse non è piaciuto il suo tono di voce, visto che non ha avuto modo di spiegare le sue esperienze professionali. Infine ci sono le agenzie internali: forse l’ultima speranza di poter firmare un contratto di lavoro di due settimane! Tommaso ha una ragazza, vorrebbe costruire una famiglia, comperarsi un appartamento e magari fare anche un figlio, ma una banca concederà mai un mutuo ad un ragazzo con una condizione lavorativa così? E se dovesse fare un figlio, cosa gli darà da mangiare? Senza parlare del fatto che i suoi genitori sono ormai esasperati da tutto questo e scaricano su di lui la solo frustrazione: «possibile che non si riesca a trovare nulla?» «Hai fatto tutto il possibile per trovarti uno straccio di lavoro?» Sembra assurdo, ma è proprio così, non c’è la luce in fondo al tunnel e, quando Tommaso pensa alla sua storia e sente parlare di nuove tasse, aumento di benzina, aumento del pane, aumento, aumento, aumento, aumento... Ha soltanto un’idea nella testa: andare via dall’Italia e subito! Forse i nostri politici nelle loro manovre e contromanovre non tengono conto del fatto che stanno spazzando via coloro che dovranno in futuro reggere le sorti del Paese. Non ci danno in alcun modo la possibilità di crescere, di slegarci dalla famiglia, di camminare con le nostre gambe, annientano completamente il nostro patriottismo e aumentano una sola cosa: la rabbia!


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ACCOGLIAMO I MIGRANTI ANCHE...

SE NON SONO islamici di ALFONSO PISCITELLI LA TORRIDA estate 2012 si è conclusa e ai primi di Settembre è stato diramato il consueto bollettino di guerra al quale siamo ormai abituati: un giovane italiano su tre è senza lavoro. Cifra da valutare col beneficio di inventario (soprattutto al Sud, molti giovani lavorano in nero), ma che corrisponde grosso modo alla serietà della situazione occupazionale europea. Coloro che dovrebbero affluire verso le occupazioni sono respinti alla frontiera del mondo del lavoro. Viceversa non si fermano gli sbarchi di nuovi immigrati, dei quali a questo punto non c’è alcuno bisogno e ai quali non si può promettere alcuna prospettiva di occupazione, se non a discapito di coloro che sono nati e vivono in Italia. E tuttavia mentre la torrida estate declinava verso temperature più miti notavo i ragazzi che smontavano i lidi ormai deserti sulle spiagge o che ancora tenevano in piedi l’attrezzatura balneare: erano tutti o quasi tutti ragazzi di colore! I giovani italiani sono in forte percentuale disoccupati; ma continuano ad arrivare immigrati, questo è il primo paradosso. I giovani italiani non trovano il lavoro che cercano, ma ci sono occupazioni che prontamente vengono acquisite da immigrati ed evidentemente vengono scartate dagli indigeni. È forse giunto il momento di una forte riflessione, anche di una severa autocritica da parte della nostra società. Si è spinto troppo nell’orientare i giovani verso professioni intellettuali; una società complessa ha bisogno di «creativi», ma anche di persone che svolgono lavori manuali. Quanti ragazzi hanno studiato in facoltà senza sbocchi come «scienze della comunicazione» e ora si trovano disoccupati? Quanti hanno inseguito il miraggio di professioni d’elite come «grafic designer» o «organizzatore di eventi»? Ora sono disoccupati, non hanno ancora capito che la stragrande maggioranza delle persone deve trovare la propria realizzazione in lavori più ordinari; oppure l’hanno capito, ma bussando alla porta di una panetteria per cercare lavoro, si sono visti rispondere: no grazie, abbiamo già un egiziano che impasta il pane. A questo punto il discorso sull’immigrazione si intreccia strettamente con il tema della crisi. L’epoca delle vacche grasse dell’Europa e dell’Occidente è finito. L’Europa in particolare somiglia per molti aspetti al pavido don Abbondio e rischia di finire come «un vaso di coccio» in mezzo ai vasi di ferro di agguerrite società emergenti (Cina, Corea, India). Inutile negarlo: le idee di sinistra sono particolarmente popolari tra i giovani, ma proprio queste idee hanno portato in un vicolo cieco concettuale. I no-global del 2001 giocavano alla guerriglia contro l’Occidente che con la globalizzazione affamava il mondo. In realtà con la globalizzazione l’Occidente e l’Europa si sono terribilmente impoveriti. Le merci a basso costo prodotte dagli schiavi del sistema comunista-capitalista cinese distruggono le imprese europee. E l’afflusso di manodope-

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ra immigrata ha creato una spaventosa concorrenza alla «classe operaia» un tempo tanto mitizzata. Gli ultimi due anni di crisi hanno mostrato un volto dell’Europa che sembrava dimenticato per sempre: il volto della fame… I Greci hanno dovuto tirare la cinghia, anche gli Spagnoli sono in serie difficoltà. In Italia si nota un drastico calo dei consumi. Dai Paesi mediterranei si ricomincia a emigrare. Nell’Italia del Sud si stanno riattivando quei circuiti di «migrazione stagionale» per cui tanti giovani cercano appoggio presso i parenti che ai tempi classici della emigrazione italiana andarono in Germania e cercano un lavoro magari di pochi mesi, per poi far ritorno in Italia. Per i Greci e gli Spagnoli l’emigrazione è diventata una necessità ancora più impellente. In realtà gli Europei non avevano mai smesso di emigrare. Negli anni passati l’attenzione si concentrava prevalentemente sull’emigrazione dei popoli di colore e degli islamici. Tutto il discorso si concentrava su argomenti anche fortemente mistificati: la «solidarietà» agli africani, «l’importanza della cultura islamica nella storia europea», o al contrario il «pericolo negro» e «i mussulmani kamikaze». Ma nel frattempo gli Europei dell’Est migravano verso la parte occidentale, sfuggendo alle drammatiche condizioni di vita determinate per mezzo secolo o più da una dittatura comunista. Il buon senso avrebbe suggerito di favorire i flussi migratori intraeuropei: flussi che avevano come soggetti popoli caratterizzati da una stessa religione, stesse radici storiche, stesso destino geopolitico. Oggi però la crisi economica introduce una novità a suo modo drammatica: i «meridionali d’Europa» tornano a migrare. E a questo punto non si può più sfuggire al buon senso in nome di funeste utopie: bisogna aiutare con criteri di assoluta preferenza gli emigrati provenienti da Paesi dell’area UE, essere nello stesso tempo ben disposti ad accogliere (ovviamente in forme regolari e ben controllate) Europei dell’Est. Rimane una quota per emigrati provenienti da culture radicalmente diverse? Il buon senso suggerisce che oggi come oggi questa quota è tendente allo zero.


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JESUS HUERTA DE SOTO

UN LIBERALE classico e l’euro di RICCARDO SCARPA NEL MESE d’Agosto di questo torrido 2012, presero a pubblicarsi analisi d’economisti che non studiarono soltanto la crisi precedente, ma cominciarono ad andare al fondo di questioni ormai antiche che, però, assurgono agli onori della cronaca nelle circostanze attuali. L’Opinione pubblicò una difesa liberista dell’euro di Jesus Huerta De Soto, che fu poi presentata il 3 di Settembre in Praga, durante una riunione generale della Mont Pèlerin Society. Il circolo porta il nome di questa località, vicino a Montreux, nella Confederazione elvetica, in quanto ivi fondato nel 1947 tra economisti, sociologi, storiografi e filosofi invitati da Friedrich von Hayek, per studiare la possibilità di difendere e riproporre nella pratica gli indirizzi del liberalismo classico. Il saggetto di Jesus Huerta De Soto implica, in fondo, la classica definizione della moneta come un bene che, in quanto scambiabile con ogni altro, ne fornisce una misura della relativa scarsità, e quindi del valore, e permette l’espressione sintetica del prezzo. Siccome anche la moneta è perciò un bene, pur le monete hanno un valore relativo, e però esse svolgono tanto meglio il loro compito quanto più sono stabili, fisse in quel valore, non come il metro del tessitore o del sarto truffaldini, che cambia a seconda delle disponibilità e della dabbenaggine del cliente. Per questo un tempo la si coniò in oro od in altri metalli nobili e leghe preziose, o la si rappresentò in biglietti di banca sempre convertibili in oro; eppure anche allora sovrani imbroglioni ricorsero alle tosature, ad alterare le leghe per aumentare il volume dei pezzi coniati con la stessa quantità aurea od argentea. Tra i fondatori della Mont Pèlerin Society vi fu Ludwig von Mises, il quale negli anni trenta s’oppose tenacemente all’abbandono della parità aurea delle monete, il gold standard, per abbattere un vincolo all’espansione monetaria circolante e finanziare, stampando carta, coll’inflazione, l’espansione della domanda e le politiche sociali per uscire dalla crisi recessiva del ‘29. Ludwig von Mises, contro John Maynard Keynes, ritenne che l’instabilità monetaria alterasse i prezzi, dando cattive informazioni sulla relativa scarsità dei beni, quindi non favorisse la migliore allocazione delle risorse, ma la demagogia del personale politico, il quale col stampare carta moneta, ad esempio, sostenne un mercato del lavoro falsato poiché incurante della scarsità del lavoro stesso, a prezzi, cioè salarî di comodo per compiacere i sindacati. Di fatto, tutto fu finanziato con un’espansione d’un disavanzo pubblico incontrollabile, ch’è una delle cause della crisi attuale. Ludwig von Mises, allora, elaborò una sua dottrina, secondo la quale, in attesa del ritorno alla convertibilità aurea delle monete e per prepararlo, propose sistemi di cambî fissi che, vincolando l’espansione monetaria per salvaguardare le parità di cambio, frenasse l’arbitrio dei governi nello stampare carta moneta. Soluzione non accolta pacificamente all’interno della stessa Mont Pèlerin Society, dato

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che gli economisti della scuola di Chicago, capeggiati da Milton Friedman, ritennero il valore di cambio delle monete frutto delle differenti politiche nazionali, e quindi improponibile vincolare le monete a cambî fissi tra loro. Jesus Huerta De Soto è dell’avviso che l’immenso risultato ottenuto con l’Euro, cioè sottrarre al personale politico nazionale la determinazione della massa monetaria, vada ben oltre i cambî fissi e voglia dire aver ottenuto un effetto di fatto simile al ritorno al gold standard. Del resto fu l’esito pronosticato per una moneta unica già da Luigi Einaudi, in Problemi economici della federazione europea, che pubblicò nel 1944, e che Huerta De Soto non cita. Il successo sarebbe dimostrato dal fatto che l’euro costringe, in effetti, il personale politico nazionale a riforme di fondo, facendo di nuovo i conti con la realtà della relativa scarsità dei beni e revocando le scriteriate misure, frutto della demagogia populista, seguita agli anni trenta del millenovecento. Il successo dell’euro è dimostrato, inoltre, dall’aver comportato persino la caduta dei governi che rifiutarono di prenderne atto nelle loro scelte di politica sociale, e dalla natura beceramente populista dell’opposizione montante contro la moneta unica. Invece le critiche nordamericane e britanniche celerebbero il timore che, qualora l’euro riuscisse ad imporsi nell’Unione europea, costringerebbe la stessa ad un ritorno risoluto al liberalismo classico, la metterebbe in grado di vincere la competizione sul mercato globale e s’imporrebbe come moneta di scambio internazionale, soppiantando il dollaro e mandando definitivamente in soffitta la lira sterlina. Gli amici della Destra contrarî all’euro sanno quanto questa di Jesus Huerta De Soto sia musica per le mie orecchie e riassuma tutte le mie ragioni favorevoli alla moneta unica. Lo stesso scrivente, tuttavia, se è convinto che la rinunzia alla moneta unica sigillerebbe la catastrofe, il definitivo inabissamento dell’Europa come un’Atlantide tra i marosi della storia del ventunesimo secolo, non è peraltro persuaso che la mera difesa dell’euro e della Banca centrale europea, come essi sono, sia sufficiente a farci uscire dalla crisi, come questa oggi si rappresenta. Intanto, se anche l’euro ha ad oggi un effetto simile al gold standard, nondimeno questa moneta unica non soltanto non è convertibile in oro, ma è la prima moneta a dare per scontata l’irreversibilità dell’abbandono della parità aurea, ostentando sulle banconote, invece della desueta espressione: «pagabile a vista al portatore», il simbolo del copyright:©, seguito dalla sigla della banca centrale europea come appare nelle diverse espressioni linguistiche e dall’anno di stampa. Il che non soltanto non impedirebbe un domani alla banca centrale di diventare finanziatrice del debito pubblico, e si ricorda come Ludwig von Mises proponesse la soppressione delle banche centrali e l’emissione di moneta direttamente da parte degli Stati, ma di fatto prestatrice già lo è. In antico, quando gli Stati coniarono in oro, argento od altre preziose leghe, naturalmente i Sovrani fornirono alla zecche quei preziosi metalli. Poi, allorché s’introdusse la carta moneta, depositarono l’oro nei forzieri perché in esso fossero sempre convertibili le banconote. Oggi, che le stesse banconote non sono più convertibili, gli Stati versano il signoraggio alla banca d’emissione in titoli del debito pubblico; ma emettere titoli del debito pubblico è come sottoscrivere cambiali, cioè indebitarsi col portatore degli stessi, che li presenta alle scadenze delle cedole. In definitiva, gli Stati versano titoli di debito pubblico, quindi s’indebitano con la banca d’emissione, che finanzia il debitore con pezzi di carta non pagabili a vista al portatore in


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oro od altro bene prezioso, ma che hanno un potere d’acquisto dato dalla credibilità degli Stati che fanno uso della moneta, cioè dal credito del debitore stesso. Il quale debitore, più s’indebita, meno credito riscuote, e meno varrà quella carta moneta. Penso di non errare di molto se affermo che Ludwig von Mises sarebbe ancora più convinto nel chiedere l’abolizione delle banche centrali ed agli Stati dell’Unione europea di rivolgersi ad un tipografo, pagandolo soltanto per il suo lavoro. Così gli Stati membri dell’Unione europea unificati dall’uso dell’euro: vedrebbero, coll’abolizione del signoraggio, ridimensionato il debito pubblico senza spennare i proprî cittadini; mirerebbero questi avere maggiori risorse, grazie all’abbassamento della pressione fiscale, per produrre, dando a quegli Stati più gettito non in quanto più tartassati, ma poiché più produttivi. E gli Stati membri dell’Unione europea, dovendo fronteggiare un debito pubblico molto minore, potrebbero destinare risorse per tesaurizzare una riserva aurea comune, a copertura dell’euro, e dichiararlo convertibile in oro, cioè tornare al gold standard. V’è, però, un altro aspetto di questa crisi: l’incombere della speculazione finanziaria determinato dal fatto che la globalizzazione, fenomeno in sé liberistico che favorisce gli scambî tra fattori produttivi, ha premiato soprattutto, però, la circolazione del capitale finanziario, che gira per via telematica, senza spese, rischî, ritardi ed incomodi di viaggio. In teoria, ogni operazione in «moneta elettronica» rappresenterebbe spostamento di contanti, ma questi di fatto restano dove sono, mentre le operazioni li fanno viaggiare in gran velocità, talmente celeri da moltiplicarli virtualmente, attraverso la simultaneità delle operazioni stesse. Quindi la moneta elettronica ingrossa la massa monetaria e, di fatto, non è coperta e nemmeno controllabile dalle autorità monetarie per il suo sviluppo apparentemente spontaneo, ma in realtà intenzionale delle banche. Tanto produce una sorta d’inflazione di fatto, non frenabile neppure con la convertibilità aurea della carta moneta, se i governi e l’Unione europea non pongono un freno. Occorrerebbe ribadire che si paga in contanti, ed i computer, come dice la parola stessa, debbono ritornare a fare i conti, ad essere una forma elettronica sofisticata del vecchio buon abaco a palline. Insomma, l’esatto opposto dei provvedimenti del governo di Mario Monti e Passera, e dell’indirizzo dominante in molti Stati membri dell’Unione europea, che l’Unione dovrebbe combattere per ridare valore alle cose reali.

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LA FINE DELLA FORZA-LAVORO

IL MONDO che verrà ... di MINO MINI PRIMA di affrontare il tema del nostro articolo proponiamo, a mo’ di introduzione, il seguente quesito: chi scrisse che l’innovazione tecnica «scompone progressivamente l’attività del lavoratore in una sequenza di operazioni elementari, in modo che a un certo punto una macchina possa prenderne il posto?» Semplice! Risponderebbe chiunque conosca un minimo di storia dell’economia e della tecnica: fu l’ingegnere Frederick Winslow Taylor che nel 1911 pubblicò i suoi Principles of Scientific Management. Infatti, applicando gli stessi, aveva dato avvio al metodo di produzione industriale che si diffuse sotto il nome di taylorismo e fu adottato e diffuso da Henry Ford nella sua fabbrica di automobili. Sbagliato! Fu Karl Marx che ne trattò in uno degli ultimi Grundrisse del periodo 1857-59 scritto prima del Capitale [Grundrisse der kritik der politischen Oeconomie]. Il concetto, per esteso, così continuava: «Così si può vedere direttamente come una specifica forma di lavoro si trasferisca dal lavoratore al capitale, che assume la forma di macchina e come, in conseguenza di questo processo, il valore del lavoro stesso venga ridotto. Ecco quindi la lotta del lavoratore contro la macchina: Ciò che un tempo era dominio dell’attività del lavoratore, diviene quello della macchina». Forse un’affermazione marxiana come questa non dice nulla a chi sta leggendo, ma se si vuol comprendere quanto sta avvenendo con questa crisi - che non è soltanto economica - e quale futuro si stia formando, è proprio da questa affermazione che bisogna partire. Ma si tranquillizzi il lettore; abbiamo il massimo rispetto per l’integrità dei suoi attributi che potrebbe essere seriamente compromessa dall’aridità dell’argomento. Pertanto non ci avventureremo in una esegesi né in una confutazione della filosofia di Marx per le quali, chi scrive, non ha alcuna predisposizione. Tuttavia occorrerà brevemente rilevare, ai fini della tesi di questo articolo, la stupefacente contraddizione in cui incorse lo stesso Marx. Chi non intende impegnare i propri neuroni cerebrali può, tranquillamente, saltare il paragrafo che seguirà sulla contraddizione e andare oltre. Di quale contraddizione stiamo parlando? È noto, dai suoi scritti, che il filosofo faceva professione di realismo e di organicismo e mostrava poca o nulla considerazione per l’ideologia e gli ideologi. Ebbene ne il Capitale - la sua «opera magna» - pur avendo concepito e distinto efficacemente la categoria della forza-lavoro da quella del lavoro, ignorò ideologicamente - proprio lui - quanto, in un empito di reazione luddista, aveva realisticamente formulato nel Grundrisse del 1859 più sopra citato. E cioè che, all’interno di un processo economico, la forza-lavoro era nient’altro che una delle diverse forme nelle quali si esprime il capitale in quanto, potendo identificarsi con le macchine - altra forma del capitale - poteva dalle stesse essere sostituito. Al contrario la deformazione ideologica di


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Marx, invece, nobilmente protesa al riscatto dallo sfruttamento della forza-lavoro identificata con il proletariato, lo portò a sovvertire, anche sul piano scientifico, la realtà del processo economico. Infatti attraverso la rivendicazione del plus-valore erroneamente attribuito, come diritto, alla categoria - non più economica, ma politica - del proletariato, entrava in contraddizione. Se la forza-lavoro, come aveva chiaramente individuato nel 1859, poteva equipararsi alle macchine, in caso di sostituzione dell’una con le altre si generava il paradosso per il quale il plus-valore - secondo logica - sarebbe divenuto competenza delle macchine. Una contraddizione tale da indebolire, purtroppo a posteriori, le fondamenta del pensiero del filosofo di Treviri e del marxismo conseguente. Fine del rilievo Veniamo ora alla tesi del nostro articolo che prende le mosse dalle conclusioni che Marx aveva involontariamente «profetizzato»: la fine della forza-lavoro con le conseguenze sul consumo la cui scomparsa, secondo Marx, avrebbe tagliato l’erba sotto i piedi del capitalismo. La tesi è la seguente: - La crisi attualmente in corso denuncia un processo involutivo di natura antropologica, economica e civile della natura del quale né la cultura né la politica e ancor meno la tecnica economica al potere, protese a puntellare lo sfaldamento dello status quo, sembrano rendersi conto. Enea Franza, su un articolo pubblicato on-line il 21 agosto su Europa della Libertà, criticando la politica del MEF (Ministero dell’Economia e delle Finanze) in merito alla crescita rileva: «A nostro modo di vedere il problema cardinale della bassa crescita registrata in USA ed Europa negli ultimi dieci anni sta nella contrazione dei consumi privati e nella stagnazione degli investimenti pubblici. La colpa? È da imputare alle politiche fiscali scelte e attuate». È indubbiamente vero e a confermare l’affermazione di Franza vediamo che il fenomeno si estende ancor di più colpendo anche la famosa locomotiva d’Europa. È notizia del 24 agosto: gruppi industriali come Bosch e Thyssen Krupp hanno annunciato la riduzione delle ore di lavoro dei dipendenti mentre alla Opel, per salvare almeno i posti di lavoro, i lavoratori dovranno rinunciare fino al 6 per cento dello stipendio netto mensile. Meno soldi, meno consumo. Sempre il 24 agosto su Il Giornale, Paolo Guzzanti, a proposito dell’America ha scritto: « … timidi ma evidenti segni di ripresa si stavano manifestando, lasciando intravedere la fine del tunnel. Poi il tunnel si è richiuso nel buio: il parametro più importante, il numero dei jobs, i posti di lavoro, è in netto calo dopo una ripresina promettente, ma effimera. E sul numero dei jobs si regola per prima la Borsa di Wall Street. … In America la crisi dei posti di lavoro è certificata dal termometro dei sussidi di disoccupazione la cui richiesta è cresciuta di quattromila unità in una sola settimana, peggior dato assoluto da anni: le richieste di sussidio sono ormai poco meno di 400mila». Meno stipendi meno consumo. In Europa il governo di Atene sta mettendo a punto un nuovo piano di austerità che prevede, fra l’altro, l’uscita di 150.000 dipendenti statali entro il 2015. Meno stipendi meno consumo. Tutto effetto della maledetta crisi? Se spostiamo all’indietro l’intervallo temporale di osservazione degli ultimi dieci anni utilizzato da Franza vediamo che c’è ben più che la contrazione dei consumi. Siamo in presenza della progressiva scomparsa della parte più consistente dei consumatori: la forza-lavoro.

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Allora occorre chiedersi: cosa sta accadendo? La risposta ce l’aveva anticipata Karl Marx e noi l’abbiamo posta ad introduzione di questo scritto: le macchine hanno preso il posto della forza-lavoro. La terza rivoluzione industriale, quella basata sui computers, sta rendendo attuale, in termini quantitativamente colossali, la «profezia» dell’autore del Grundrisse 1859 con l’inevitabile corollario che lo stesso aveva intuito: la perdita del posto di lavoro per milioni di persone ed il crollo a livello globale, del potere d’acquisto. Il fenomeno non è recente, ma è maturato lentamente e progressivamente dall’immediato dopoguerra per esplodere negli anni della New Economy fino alla situazione attuale. Non si è ancora esteso alla totalità della forza-lavoro del mondo industrializzato, ma si sta diffondendo endemicamente in tutto il globo e non mostra segni di regressione. Le rovine d’Europa ancora fumavano quando, nel novembre del 1946, la rivista Fortune pose il tema della Automatic Factory (fabbrica automatica). In quel numero comparve un articolo - illuminante nel suo cinismo - dal titolo Machine Without Men (macchina senza uomo) a firma di J.J. Brown e E.W. Leaver che così recitava: « … non sono soggette [le macchine, N.d.R.] ad alcuna delle limitazioni dell’uomo. Non sono sensibili all’orario di lavoro, non hanno bisogno di mangiare o di dormire, non si lamentano delle condizioni di lavoro e non accampano pretese retributive sulla scorta della capacità che l’azienda ha di pagare. Non solo provocano meno fastidi degli esseri umani, ma possono anche essere costruite in modo da dare un segnale d’allarme alla sala di controllo nel caso non funzionino al massimo dell’efficienza». E non c’erano ancora le «macchine pensanti» a programmare e dirigere gli automi ed a manipolare i «sistemi viventi» a tutti i livelli. Da poco era entrato in funzione il primo gigantesco calcolatore elettronico, realizzato dall’ingegnere John Mauchly, nel poligono missilistico di Aberdeen (Maryland). Pochissimi potevano, allora, rendersi conto delle conseguenze che questa realizzazione tecnica avrebbe provocato nel campo dell’automazione. Soltanto nel 1969 N. Wirth elaborerà il linguaggio Pascal per la programmazione dei computers per comandare gli automi e bisognerà aspettare il 1980 affinché Bill Gates realizzi per l’IBM il linguaggio operativo Ms/Dos. Ma già allora il padre della cibernetica, Norbert Weiner se ne era reso perfettamente conto. Nel suo trattato del 1950 (The Human Use of Human Beings: Cybernetics and Human Beings L’uso degli esseri umani: cibernetica ed esseri umani) affermò: «Ricordiamoci che la macchina automatica è l’esatto equivalente economico del lavoro degli schiavi». Alla luce di quanto conosciamo del Grundrisse 1859 e di quanto sta avvenendo nell’odierna crisi, viene spontaneo l’involontario accostamento tra schiavi e forza-lavoro che rivela la crudezza drammatica della realtà. A questo punto avvertiamo il lettore che ci ha seguito sin qui sopportando il peso del nostro argomentare, che le difficoltà di comprensione non sono finite. D’altra parte, come si sarà reso conto, la crisi non è più soltanto economica. Nella visione economicistica della modernità il valore della forza-lavoro è sempre stato misurato con il valore attribuitogli dal suo mercato (il famoso mercato del lavoro). Avendo un prezzo - in quanto ammette marxianamente equivalenti come le macchine - la forza lavoro viene reificata, ridotta al livello di cosa, di mezzo. Ne consegue che, allorché il suo valore di mercato si marginalizza tendendo alla totale irrilevanza, per l’economicismo che ci governa


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totalitariamente la sua esistenza diviene inutile: non produce, non consuma e quindi non è più sfruttabile. Spinta ai bordi del consesso civile, esiliata socialmente, cessa di essere un fattore economico per divenire, su un piano di livello sistematicamente più elevato, un problema politico. Infatti se per l’economia la forza-lavoro è mezzo, per la politica essa è composta - pur sempre - di individui. In quanto tali detentori della sovranità dell’«io» e soggetti di democrazia. Ogni singolo si sente un microcosmo, soggetto finito in se stesso, che tendenzialmente rifiuta ogni forma di organismo civile di livello superiore. È un uomo-atomo che «concepisce» una sola forma di aggregazione elementare con altri uomini-atomo: la Massa. Ma la massa degli individui è - per natura e per logica - asistematica, paradossalmente antisociale e antisolidale. È amorfa, anonima, indistinta e tale deve rimanere per essere condizionata con espedienti demagogici - ogni volta che deve esprimersi con un voto - da chi, invece, vota ogni giorno: nelle borse, nelle banche, nei governi. Indistinta signora la Massa, recitava il Bagaglino d’antan, quello di vicolo della Campanella. E qui le situazioni cominciano a farsi spinose: in una società democratica e liberale, com’è la nostra, l’ex forzalavoro, perduta la sua valenza economica e con essa la retribuzione conseguente, in quanto uomo-atomo all’interno di una società fondata sull’individuo si ritrova auto-emarginato alla stessa stregua di quanto lo è diventato nel processo economico-produttivo. La società democratica e liberale non sa che farsene di chi non produce, non consuma, non paga le tasse per farsi pilotare e godere dei «servizi». Li considera, in cuor suo, dei parassiti. Occorre, allora, porsi alcuni interrogativi sul mondo che verrà. Chi dovrà farsi carico degli ex forza-lavoro allorché il processo di sostituzione con la macchine sarà compiuto? Chi e come riuscirà ad indicare loro la via del riscatto da individui a persone. Ovvero - per dirla con Immanuel Kant uomini portatori di una legge morale, capaci di autonomia e perciò degni di «rispetto», dotati di «dignità» e, soprattutto, senza «prezzo»? Chi e come riuscirà a dare un fine, un obiettivo, alla loro esistenza? Se non troveremo risposte adeguate occorrerà prepararci ad un tipo di società repressiva ancor più poliziesca di quella che già ci opprime in nome della «libertà». Perché le masse che stanno crescendo giorno dopo giorno, i disperati, dovranno in qualche modo sopravvivere e non avranno altra scelta - loro considerati parassiti - che comportarsi come tali delinquendo. A meno di reintrodursi - almeno nel processo economico - non da forza-lavoro ma da persone, ovvero da lavoratori appartenenti alla categoria di cui altre volte abbiamo trattato su queste pagine e, mediante copia e incolla riproponiamo: quella che rappresenta il momento di convergenza di diverse e complementari decisioni a più livelli (ricerca ed elaborazione, organizzazione, direzione controllo del lavoro, pianificazione e gestione delle risorse materiali e finanziarie etc). Reintrodursi attraverso le imprese di lavoratori di cui trattammo il mese scorso e di cui - con la persistenza catoniana del delenda Carthago - scrive ripetutamente su queste pagine Antonio Saccà: «Un’impresa senza capitalista esterno ai lavoratori, un’impresa in cui il lavoratore sia imprenditore, un’impresa di lavoratori imprenditori». È il primo passo da compiere verso la salvezza perché la fine della forza-lavoro non è la fine dell’economia. Anzi.

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DRAGHI, MERKEL ED IL VELO DI MAYA

NASCONDERE i mali sistemici di EMMANUEL RAFFAELE A SENTIRLI, tutti contro l’inaffidabilità dei mercati. Mario Draghi, presidente della BCE, presunto alfiere dei debiti sovrani contro la speculazione. Mario Monti, che si difende dall’impennata dello spread tentando di ridimensionare l’affidabilità delle agenzie di rating, bocche della verità nell’èra tardo-berlusconiana ed ora seconde soltanto agli «Evasori Fiscali» quanto a colpe da espiare. Infine, Angela Merkel, cancelliere tedesco che poche settimane fa si è scagliato contro il predominio dei mercati sulla politica. Posizione coerente con la pretesa tedesca di avviare riforme strutturali anziché limitarsi a tappare il buco del debito con enormi immissioni di liquidità. Sacrosante, necessarie, ma non risolutive. Certo, se l’euro svanisse, anche la Germania ci rimetterebbe (si parla di raddoppio della disoccupazione e crollo del PIL). E se i PIGS non servissero il proprio debito anche le banche tedesche ci rimetterebbero (dal 2008 le banche tedesche hanno ridotto l’esposizione verso i Paesi del mediterraneo del 49,7 per cento). Ma anche se la caduta dell’euro non serve né ai PIGS né alla Germania (unica via per una riforma strutturale obbligatoria), ciò non vuol dire che la Germania abbia nel merito tutti i torti di questo mondo. Il problema originario del debito può «risolversi» con la ristrutturazione, il ripudio o con la creazione di moneta. Essendo le prime due ipotesi fuori discussione, ci si limita a rincorrere la terza via, seppur le banche centrali nazionali, né la BCE appartengano agli Stati. Ciò che dimentica chi vede nella mossa di Draghi, che ha deciso di eliminare i vincoli all’acquisto di titoli sovrani concedendo di fatto la garanzia di un credito illimitato, un vero e proprio «ritorno al futuro» (Pierpaolo Benigno su Il Sole 24 Ore). La Merkel non vede di buon occhio quella che, pur essendo l’unica scelta possibile stando così le cose, non è certo una soluzione che impedirà al problema di reiterarsi se l’Europa rimane così com’è e la speculazione continua a dominare sull’economia reale. Nel 2008, per capirci, fallirono duecento banche statunitensi e la Federal Reserve stampò moneta per salvare le banche e così i risparmi dei cittadini. Nel 2010 l’economia Usa si risollevò ma la bolla dei derivati (causa della crisi di allora) ricorda Sergio Luciano su Panorama - «è tutta lì, ancora pronta a scoppiare» e «pare valga nell’insieme oltre la metà del PIL europeo e i due terzi di quello statunitense». Una non-soluzione obbligata perché nessuno osò mettere mano alle radici del problema. Proprio quello che succede oggi con l’Europa e la crisi del debito, che è in realtà crisi di un sistema economico difettoso, il quale ha infatti origini negli USA e che nessuno però pensa a riparare sul serio. Fabio Scacciavillani, Chief Economist del Fondo d’investimenti dell’Oman, racconta: «Le maggiori banche di Wall Street impiegano un battaglione di diverse migliaia di fisici, mentre gli economisti di mercato ammontano al massimo a qualche centinaio». Ad elaborare equazioni per il calcolo dei prezzi di derivati e quant’altro ci pensano loro. «Purtroppo»,


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continua il moderato Scacciavillani, «questi fisici trattano le equazioni sui prezzi dei derivati come se fossero una descrizione accurata della realtà (al pari delle equazioni della termodinamica) senza rendersi conto di quali assunzioni ci siano dietro. Forti di queste loro dubbie certezze, producono numeri talora senza senso. Quando si verifica un disastro scrollano le spalle asserendo che i calcoli erano giusti». È sulla base di simili presupposte verità scientifiche che si fonda gran parte del nostro sistema economico, di cui è parte integrante il mercato dei titoli di Stato, in balìa di agenzie di rating, pressioni di grandi giornali e lobby, banche e gruppi di potere non soltanto politico. Altri esempi di ciò che non va li fornisce Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, in un’interessante intervista al quotidiano Italia Oggi: «Il debito pubblico? È misurato male […], il rapporto debito/PIL è sbagliato perché il debito è uno stock: è ciò che si accumula negli anni. In sostanza, è una somma che, però, viene parametrata a un flusso annuale, il PIL». «Se l’Italia», aggiunge infatti, «non fosse misurata in base al rapporto debito/PIL ma al rapporto debito/patrimonio netto delle famiglie, avremmo un valore intorno al 20 per cento come quello tedesco. E nettamente migliore di quello USA, sul 30 per cento […]. I confronti vanno fatti tra variabili simili». Le parole di Fortis permettono di comprendere l’assurdità della situazione italiana. A cominciare dalla cura Monti, forse necessaria - ammette Fortis -, ma «ingiusta» dal momento che l’Italia è «dal ‘93 in situazione di deleveraging per il debito pubblico. Un’onda lunga che ha impatti negativi sulla domanda interna». Tirando sempre la cinghia, gli italiani dimostra Fortis - dal 1993 al 2013 hanno prodotto «oltre 700 miliardi di euro di avanzo primario cumulato». Peccato che «gran parte di quest’avanzo è stato prodotto da tassazioni continue […], non è stato fatto con tagli alle spese correnti, ma prodotto da tasse aggiuntive sui consumi delle famiglie». La casta ha continuato a spendere, risolvendo i problemi con nuove tasse, che spiegano uno dei prelievi fiscale più alti al mondo e - segnala ancora Fortis - la contrazione cronica della domanda interna, causa prima della nostra difficoltà a crescere. La casta, dunque: male d’Italia, carte alla mano. Responsabile anche di non aver capito cosa nel frattempo accadeva intorno a noi. «La Grecia», aggiunge l’economista, «ha drogato la crescita con debito pubblico e privato. In altri paesi la crescita è stata drogata con debito privato che oggi viene scaricato sui conti pubblici. Ma, se oggi azzerassimo quelle lancette di crescita e squalificassimo chi era dopato, ci accorgeremmo che Germania, Italia e Francia, che manifestavano bassi tassi di crescita, non erano così male […]. A differenza di USA, UK e Grecia, l’Italia non ha mai preso il doping per crescere. Eppure, oggi è costretta a prendere persino la purga». E come se non bastasse, a dimostrare l’assoluta irragionevolezza del sistema, c’è la fuga dei capitali, conseguente alla crisi di fiducia nei Paesi europei: «è paradossale: i capitali sono andati in un Paese, gli USA, che ha un rapporto debito/ PIL quasi uguale a quello italiano e che per di più l’anno prossimo affronterà l’incognita del Fiscal Cliff». Un Paese il cui rapporto debito/PIL in soli sette anni è passato dal 67 per cento al 111 per cento e che a breve dovrà anch’esso affrontare una «cura-Monti» con ovvie ricadute sulla produzione. Noi, invece, siamo al Draghi o non Draghi, Merkel o non Merkel, euro o non euro; contrapposizioni secondarie che non sciolgono il nodo gordiano che abbiamo davanti e continuano a farci guardare il dito anziché alzare gli occhi al cielo per mirare alla luna.

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BANCHE, POLITICA E SPECULATORI

ISTIGAZIONE al suicidio di ANTONELLA MORSELLO SARÀ l’ultimo dei suicidi di piccoli imprenditori che negli ultimi anni si sono tolti la vita, disperati per mancanza di aiuto da parte del sistema bancario? Gabriele è morto suicida dopo tantissime vicessitudine legate all’azienda agricola di famiglia, alla crisi economica Ci troviamo nella città di Ari (CH). Gabriele ha avuto da sempre un’azienda agricola. Nel 1976, l’azienda era costituita da 5 ettari di terreno agricolo coltivato, dotata di trattori impiegati per conto proprio e per conto terzi, oltre a di bestiame. Nella gestione il Gabriele è sempre stato oculato e prudente, affidandosi alla tutela delle Associazioni di categoria come la Coldiretti (sia per le consulenze fiscali ed amministrative, che per ogni pratica di prestito agrario), ovvero dei Piani di Sviluppo Rurale cosiddetti PSR, per garantire alla sua azienda un giusto sviluppo imprenditoriale, per ampliarla e migliorarla, e garantire alla sua famiglia un futuro se non di benessere quanto meno decoroso (famiglia composta da 3 figli, tutti successivamente, coinvolti nella conduzione dell’azienda agricola). Nel 2004 acquista un terreno agricolo in agro di Bucchianico e perciò sottoscrive un mutuo fondiario ipotecario presso la Carichieti filiale di Ari, della durata di 20 anni, per un importo di € 370.000,00. Nel 2005 con i fondi Europei, Gabriele realizza lavori di ampliamento e ristrutturazione della sua azienda, questi fondi erano regolati nella misura del rimborso, a fondo perduto, del 40 per cento della spesa sostenuta. Il tutto avviene nel pieno rispetto degli accordi pattuiti e con tempi molto brevi, per un importo totale di € 100.000,00, regolarmente ottenuti in misura del 40 per cento. Nel 2006, tutti gli investimenti descritti, avevano permesso a Gabriele di portare la sua azienda a possedere ben 24/25 ettari di terreni agricoli da coltivare, suddivisi più o meno in parti uguali tra quelli di proprietà e quelli condotti in affitto, (regolati da legale contratto di affitto). L’azienda poteva contare quindi in un ampliamento notevole ed all’avanguardia, concretizzatosi nell’acquisto di moderni macchinari agricoli e con un coinvolgimento totale dei suoi figli, (di cui 2 già sposate) oltre all’impiego di operai assunti in pianta stabile. In questo periodo Gabriele sottoscrive un nuovo mutuo ipotecario, sempre con la Carichieti S.p.A., per un importo di € 270.000,00; stipula determinata dalla esigenze di ristrutturare la propria abitazione. Successiva-mente, per i motivi sopra esposti, ma soprattutto per la fattibilità dei PSR, già constata precedentemente dallo stesso Gabriele, per quanto riguarda l’effettiva erogazione dei fondi, la famiglia si sente motivata e rassicurata ad esporsi con investimenti aziendali. Tra l’altro Alessandro, uno dei figli, rileva l’azienda agricola del padre, e crea l’azienda Agricola di Alessandro, si attiene a tutti i princìpi previsti dalla scienza agraria ed alle norme della legislazione di settore e in tal modo rientra tra i primi sei nella graduatoria regionale prevista per il rimborso dei fondi PSR al


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50 per cento, oltre alla procedura cosidetta «primi insediamenti». Già in questo periodo Gabriele intrattiene un rapporto di scambio assegni con «Antonio E.» da sempre suo conoscente, che nello specifico erano cosi regolati: «Antonio E.» staccava un assegno a Gabriele per fronteggiare un esigenza di liquidità, e quest’ultimo gli staccava un suo assegno di pari importo. Antonio E. era uno dei faccendieri che «lavorava» con la banca. Nel 2008, Gabriele viene informato dagli organi di consulenza ai quali da sempre si rivolge, della sussistenza di nuovi rimborsi ottenibili con i PSR del 2007-2013, ma soprattutto che, se nella sua azienda subentra il figlio Alessandro, lo stesso potrebbe ottenere un rimborso pari al 50 per cento e non al 40 per cento, come per il padre, in virtù del regolamento (C.E.) n° 1698/05 misura 1.2.1., e della misura 1.1.2. del PSR 2007/2013, per l’imprenditoria giovanile. Inoltre sempre gli stessi consulenti della Confagricoltura, suggeriscono a Gabriele di fare richiesta di pre-pensionamento ai sensi della normativa PSR misura 1.1.3., che prevede un indennizzo pensionistico agli imprenditori agricoli, che cedono l’attività ai figli per favorire il «ricambio generazionale». Gabriele espleta la richiesta, ed entra in graduatoria al posto n° 80, con un previsto indennizzo pari a circa € 80.000,00. Le erogazioni sono, suddivisi in 3 fasce. L’azienda di Alessandro, secondo il giudizio dei consulenti di categoria, rientra nella seconda fascia,da € 255.000,00 a 500.000,00, per tale motivo egli viene indotto a valutare anche un progetto «più ampio», vale a dire rinnovare macchinari, attrezzature, ed addirittura realizzare anche un punto vendita di gastronomia e macelleria. Dalle previsioni di spese e dagli acquisti fatti, dall’azienda Agricola Alessandro , gli spetterebbe un rimborso a fondo perduto di oltre € 350.000,00; più l’indennizzo di circa € 80.000,00, previsto per il pre-pensionamento di Gabriele. La famiglia di Gabriele ovviamente confida in questi fondi, tra l’altro, come detto in precedenza, già «provati» dallo stesso Gabriele, e meritevoli quindi di fiducia. Nel 2009, iniziano i primi seri problemi. I fondi del PSR tardano ad arrivare e viene comunicato ad Alessandro che non fa più parte della seconda fascia di contributi, ma, pena l’annullamento della richiesta, è costretto ad accettare una retrocessione alla prima fascia di appartenenza, con una conseguente penalizzante decurtazione dei rimborsi previsti, e per onorare le esposizioni precedentemente contratte e tamponare la mancata erogazione dei fondi PSR, la famiglia di Gabriele è costretta nuovamente a ricorrere a vari crediti bancari. Nei mesi successivi naturalmente aiutato sia da Antonio E. sia da Antonio C., intermediari bancari e finanziari di turno. E poi da Romolo un rom, tutti amici di direttori di banca collusi. Le banche coivolte sono la Carichieti S.p.A., la Banca del Fucino di Pescara, la Banca del Vajont. filiale di Pescara, la Banca Tercas filiale di Atri, la Caripe di Pescara, la BLS di Villamagna, la Banca del Fucino, la Monte dei Paschi di Siena filiale di Francavilla al Mare, la finanziaria MPS Consumit Gruppomontepaschi. Mesi in cui le istruttorie pratiche venivano fatte senza «regole valide», e molte sono state le intimidazioni. Nel novembre 2011, permanendo grosse difficoltà economiche in famiglia, Gabriele è sempre più sconvolto, e non riesce più a fronteggiare la situazione ormai oggettivamente ingestibile, chiede anche soldi a parenti ed amici, la famiglia lo vede sempre più preoccupato, non vuole rispondere più al telefono, teme persino ad andare in giro da solo, cosa mai successa, e chiede alla moglie di «accompagnarlo». La famiglia lo vede piangere e supplicare al telefono l’interlocutore di turno, a volte Antonio C., a volte altri, di non incassare gli assegni. È una situazione al limite della soprav-

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vivenza, la paura di Gabriele è tangibile, è sempre alla ricerca di soldi, la famiglia ha ragione di credere che forse ha contratto altri debiti non «leciti», ma di cui non hanno però oggettivi riscontri. Il 23 gennaio 2012, Romolo dopo una trattativa con Gabriele gli propone di vendere un trattore, per abbassare il debito con il direttore della banca, fanno una valutazione sommaria e stabiliscono che il mezzo agricolo valga € 14/15.000,00 che saranno decurtati dal debito dei 40.000,00. Quando Romolo arriva con il compratore al quale Alessandro emette una fattura di € 6.500,09. Alessandro riceve, dall’acquirente, l’assegno di pari importo ma viene accompagnato dal medesimo presso la Banca BCC di Pianella, dove Alessandro entra, incassa l’assegno e poi all’uscita trova Romolo e Gabriele ed è costretto a consegnare la somma appena frutto del cambio pocanzi eseguito. Questo accadeva il 23 gennaio 2012, Gabriele sconvolto nel vedersi togliere il trattore in questo modo, cade in un profondo sconforto, che di lì a 7 giorni l’avrebbe portato all’estremo gesto. La famiglia di Gabriele risulta così in mano non soltanto di uomini meschini, «ominicchi» come i due Antonio, Romolo ed altri ma in mano a direttori di banca che si avvalgono degli «ominicchi» per far affossare anche di più uomini per bene che si fidano dello Stato! I reati subìti da tutta la famiglia di Gabriele sono usura, estorsione, danneggiamento, istigazione al suicidio. Siamo nel terzo millennio, ma purtroppo nel mondo finanziario siamo tornati all’età della pietra, in cui ognuno pensa solo a se stesso e chi, come le banche, ha in mano i destini di milioni di clienti, pensa solotanto a fare più profitti anziché a dare più sostegno al sistema produttivo.Quanti altri suicidi dovremo piangere prima che qualcuno prenda in considerazione provvedimenti per dare veramente slancio a chi produce (anziché tutelare chi campa alle spalle degli altri)? Quante altre aziende dovremo registrare tra i fallimenti o le liquidazioni forzate per mancanza dei capitali necessari a finanziare l’attività corrente? Certo, le banche non sono istituti di beneficenza, sono imprese economiche e debbano avere i loro margini di profitto; ma svolgono anche un essenziale ruolo sociale, come cinghia di trasmissione dei capitali, tra chi li ha e chi ne ha bisogno. Se la cinghia si ferma ed anche un prestito di 1.000 euro è un ostacolo insormontabile, occorre provvedere con urgenza. Monti ci ha messo tutti a stecchetto per risanare il bilancio dello Stato; pensi ora a distribuire qualche briciola del lauto banchetto dei «ricchi epuloni» che vivono nelle ovattate stanze dei «templi del denaro», senza farsi condizionare dai piagnistei di chi non vuole mollare la presa…


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IL PANE in Borsa di ALFONSO FRANCIA SE vi siete infuriati per l’attacco dei mercati all’Italia tramite il lancio dello spread a livelli stellari, controllate la vostra indignazione e conservatene almeno un po’ per l’ultima trovata della finanza internazionale: la speculazione sul cibo. Il primo giornale ad affrontare lo scandalo è stato l’Independent: il quotidiano britannico ha denunciato che la banca d’affari Barclays - già sotto inchiesta in Europa e negli Stati Uniti per lo scandalo della manipolazione dei tassi Libor e Euribor - ha guadagnato oltre mezzo miliardo di sterline (circa 680 milioni di euro) grazie al rialzo dei prezzi di generi di prima necessità come grano e soia, ovvero gli alimenti base con i quali le popolazioni povere di tutto il mondo evitano - guerre e carestie permettendo - di morire di fame. Per il mondo della finanza, titoli di stato e pane pari sono: in entrambi i casi si tratta di affari, come esplicitamente ammesso dal gigante multinazionale Glencore, secondo il quale la crisi alimentare mondiale «è una buona opportunità di business». L’articolo dell’Independent ha per la prima volta rivelato al pubblico una situazione già familiare agli addetti ai lavori: il mercato alimentare è ormai sfuggito dalle mani di agricoltori e commercianti ed è diventato un parco giochi per investitori che si comportano come scommettitori, lanciando puntate sull’ulteriore impoverimento dei più poveri della Terra. Durante l’estate la fame speculativa ha contribuito a un violento innalzamento del valore delle derrate alimentari, già aumentati a causa della siccità che ha rovinato i raccolti negli Stati Uniti e in Russia. Il risultato è stato un aumento dei prezzi del dieci per cento nel solo mese di luglio, con punte del 25 nel caso del mais. La situazione è stata ovviamente differente nelle varie regioni del mondo, e tanto per cambiare i Paesi che più hanno sofferto sono quelli più poveri. Tra aprile e luglio in Mozambico il costo del mais è raddoppiato, mentre in Malawi è salito del 174 per cento! Stiamo parlando di Stati i cui abitanti spendono oltre metà del reddito per il cibo, quindi aumenti di questo genere significano l’impossibilità di mettere qualcosa sotto i denti. Ma le conseguenze non si limitano alla malnutrizione: una famiglia dove si fa fatica a comprare il pane deve rinunciare a servizi «di lusso», come cure mediche ed educazione per i più giovani, sprofondando le popolazioni colpite in una miseria dalla quale è impossibile riprendersi. È su queste situazioni che gli speculatori come Barclays puntano per arricchire se stessi e i loro investitori. Il costo del cibo già ha raggiunto livelli tali che potrebbe verificarsi presto un’ondata di rivolte nei Paesi più poveri del mondo. Ma pure la grassa Europa sta cominciando a soffrire: nello stesso Regno Unito, patria della finanza più feroce, i prezzi delle derrate sono aumentati del 40 per cento in appena sette anni. A dirlo non è qualche ONG politicizzata o un’associazione di consumatori, ma l’Ufficio nazionale di statistica

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britannico. Le conseguenze si fanno già sentire: dato che le entrate delle famiglie sono diminuite più o meno ovunque, la percentuale di reddito necessaria per imbandire la tavola ha ricominciato a salire per la prima volta dal 1946. Sbaglia chi pensa che la situazione attuale sia figlia dell’ultima crisi economica. Le radici di questa stortura affondano nella deregolamentazione finanziaria dei floridi anni Novanta, avviata dalle politiche ultraliberiste di Bill Clinton, che pure era considerato presidente «di sinistra». L’assenza di un inquadramento giuridico ha permesso a banche come la Barclays di offrire servizi specializzati nell’acquisto di ogni genere di prodotti agricoli usando le montagne di soldi di fondi pensione, compagnie di assicurazione e investitori privati, i quali si ritrovano generosi dividendi a fine anno. Così, mentre nel 1996 il mercato dei prodotti agricoli era detenuto da speculatori per il 12 per cento, ora siamo arrivati al 61! I prezzi del cibo non sono quindi più decisi dalla vecchia regola della domanda e dell’offerta, ma dalle strategie di fondi d’investimento che cercano di massimizzare i loro impieghi e vendono e acquistano milioni di tonnellate di cibo senza aver mai visto un sacco di grano. Ma il tavolo al quale giocano questi signori è truccato, perché si sa che gli speculatori vincono sempre. Con il continuo aumento della popolazione mondiale, l’arricchimento di Paesi popolosissimi come la Cina e l’utilizzo di grano, mais e canna da zucchero per produrre biocarburanti, è ovvio che il prezzo del cibo non potrà che aumentare. La grande finanza non fa altro che accelerare questo processo, impedendo inoltre la ridiscesa dei prezzi dopo aumenti eccessivi. Purtroppo non è facile misurare il peso specifico della speculazione nel mezzo di questi continui rialzi. Gli analisti dei fondi potranno sempre dire che è tutta colpa delle continue siccità, dell’instabilità politica in molti Paesi africani, del sempre maggior numero di Cinesi che può permettersi l’acquisto di carne, la quale «consuma» molta più terra coltivabile di qualunque altro prodotto alimentare. Finisce quindi che le responsabilità della finanza restano nascoste nel mare delle concause che contribuiscono ad affamare e impoverire mezzo mondo. Che Barclays abbia precise responsabilità è stato comunque rimarcato anche dall’ONG inglese World Development Movement la quale, tramite la sua responsabile politica Christine Haigh, ha lanciato accuse pesanti: «Non c’è dubbio che il più grande speculatore sui mercati delle materie prime speri che quest’anno possa fare più utili con l’aumento dei prezzi alimentari, anche se il suo comportamento rischia di alimentare una bolla speculativa che provoca fame per milioni di persone». Bolla che potrebbe essere anche più grande a causa di un altro campo di speculazione nella quale la banca è particolarmente attiva, quello sul prezzo del petrolio. Essendo i carburanti un fattore fondamentale in agricoltura - servono benzina e gasolio per far funzionare i macchinari agricoli e per muovere le navi, gli aerei e i tir che trasportano i prodotti - il suo aumento va a incidere ulteriormente sul costo del cibo. Ufficialmente, la grande banca inglese ha respinto ogni accusa: non soltanto ha assicurato di monitorare la situazione per evitare che l’aumento dei prezzi sia «influenzato» dall’esterno, ma ha anche affermato che i suoi commerci permettono a molti agricoltori di garantirsi vendendo il proprio raccolto in anticipo, prima ancora della semina, evitando così i rischi derivanti da siccità, inondazioni e simili. Questo è vero, ma sempre più spesso questi contratti sono passati tra le mani di intermediari che con l’agricoltura non


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hanno nulla a che fare, e che comprano e vendono di continuo scommettendo sui prezzi futuri del cibo. In una nota ai suoi clienti risalente allo scorso febbraio, Barclays è stata però più sincera: ha ammesso che la speculazione ha effettivamente contribuito all’aumento dei prezzi, definendola «uno dei tre fattori chiave» nella determinazione del valore delle materie prime. Non c’è molto che sia stato fatto per arrestare questo commercio sulla pelle delle persone: un anno fa un gruppo composto da 450 economisti di 40 Paesi, Italia compresa, inviò una lettera ai Ministri delle Finanze del «G20» denunciando il collegamento tra speculazione finanziaria e volatilità dei prezzi delle derrate alimentari. I firmatari proponevano l’approvazione di una riforma del mercato alimentare che mettesse un tetto alla presenza di attori finanziari. Nessuno dei membri dei governi coinvolti la citò in pubblico. La politica finora ha preferito affrontare la questione affidandosi a dichiarazioni abbastanza altisonanti da suonare sincere ma pure sufficientemente vaghe da non impegnare i parlamenti a intervenire. L’Unione Europea si è come sempre stracciata le vesti - tramite il commissario al mercato interno Michel Barnier - definendo la speculazione sul cibo «uno scandalo quando un miliardo di persone muoiono di fame», ma non ha ovviamente assunto alcun impegno concreto. Barnier si è limitato ad annunciare battaglia «per un mondo più giusto» assicurando che l’Europa «sarà in prima fila». Ci mancava soltanto che promettesse la pace nel mondo. Certo l’intervento di Bruxelles è reso arduo dalla ferma opposizione del Regno Unito all’imposizione di vincoli alle attività finanziarie. Purtroppo continuiamo a permettere che Londra faccia pesare la sua adesione all’UE solo quando si toccano i suoi interessi. Sarkozy si scontrò duramente con Cameron su questo punto, ma con il francese fuori dai giochi e la Merkel sostanzialmente disinteressata all’argomento è difficile che l’Unione faccia ora pressione sugli inglesi. Occorre agire presto, tanto più che rendere i poveri ancora più poveri potrebbe non essere un «effetto collaterale», ma una precisa strategia. Si sta infatti cominciando a scoprire che il bene rifugio più pregiato, più ancora dell’oro, sono le terre coltivabili. In un mondo iperpopolato il cibo è l’unico bene che, pur nel mezzo di una violenta crisi economica, non può subire cali di domanda. Viene quindi da domandarsi se ci sia un collegamento tra l’aumento dei prezzi dei beni alimentari - che colpiscono soprattutto i più poveri - e i paralleli acquisti di terre nei Paesi dove i poveri vivono, ovvero l’Africa e il Sud dell’Asia. Paesi ridotti alla fame accetteranno di vendere a poco prezzo l’unico bene loro rimasto la terra appunto - pur di non morire di fame. È questa una nuova forma di colonialismo, messa in atto non dagli Stati ma da fondi, banche d’investimento e multinazionali: la terra non viene sottratta con la guerra, ma viene regolarmente ceduta - è proprio il caso di dirlo - per un tozzo di pane. L’Africa è diventata per l’ennesima volta terra di conquista. Prima di ritrovarci in un mondo in cui pure le coltivazioni sono in mano a pochi gruppi di potere, che sarebbero in grado di imporre i prezzi che vogliono pure sui beni di prima necessità, sarebbe bene intervenire per frenare questa guerra così subdola. Persino gli Stati Uniti hanno cominciato a limitare lo strapotere della finanza: nel 2010 il Dodd-Frank Act, il pacchetto di regolamentazione di Wall Street, ha imposto seri limiti alla speculazione sul cibo. Noi europei dobbiamo dotarci come minimo di uno strumento paragonabile se non vogliamo essere costretti a controllare le quotazioni in Borsa ogni volta che andiamo a fare la spesa.

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DAI TULIPANI ALLA MELA

LA BOLLA «Apple» di MIMMO LO PERFIDO «DOTTORE, ha visto Apple?»: il mio consulente è sempre molto solerte. Qualunque novità - specie quelle clamorose - me le spara appena metto piede in banca. «Certo ho visto: anzi ho letto. Ma ci si può fidare?» Lui non risponde mai con un sì o con un no. Ama spalmare sulle risposte una serie di dati, a suo giudizio molto più efficaci: «Il titolo stamattina vale 664 dollari. E il valore di mercato della società segna 622 miliardi di dollari. Bill (il suo modo confidenziale di individuare Gates) non è mai riuscito ad andare oltre i 619 miliardi: che botta. Pensi che Apple oggi come oggi vale una volta e mezzo le società quotate a Piazza Affari messe insieme. E mi creda, non finisce qui. Vedrà i fuochi d’artificio appena esce Iphone 5...» Contro la forza (dei numeri) la ragion non vale. Non me lo sarei tolto di dosso se non avessi fatto ricorso ad un escamotage: «D’accordo, adesso mi faccia andare dal direttore, devo parlargli. Ci sentiamo la prossima settimana». «Bene, bene, quando vuole, siamo qui…» È innegabile che una performance come quella del colosso di Cupertino, faccia notizia. Ma è opportuno che chi è attento all’economia ed alla finanza o ama seguire la borsa, prima di lanciarsi in operazioni apparentemente sicure, faccia qualche riflessione: anche di carattere storico. Per esempio, vanno sempre ricordate le bolle speculative. Mirabili esempi di «illuminato marketing finanziario» che hanno una caratteristica: riescono ad ottenere mirabolanti e repentine impennate dei prezzi di alcuni beni (o titoli), poi seguite da altrettanto repentini rovinosi crolli della domanda. I suicidi di cui le bolle finanziarie si sono rese responsabili nella Storia, non si contano. Ricordate quella di internet. 12-13 anni fa, piccole aziende sorte dal nulla, giunsero ad essere valutate 100/200 volte i ricavi. Il fenomeno durò poco più dello spazio d’un mattino. Fallite. I libri di gran parte di quelle società, giacciono ora nei polverosi scaffali dei tribunali di competenza. Sic transeat gloria mundi. E sempre a proposito di bolle finanziarie, non vanno dimenticate quelle della new economy, dell’Union Generale, della South Sea Company, o quella delle «società finanziarie». Ma fra tutte (ahinoi ce ne sono state tante...), quella che gli storici dell’economia più amano raccontare, è quella dei «tulipani». Risale al ‘700, quando, provenienti dalla Turchia, arrivarono quei magnifici fiori che oggi hanno un valore significativo nel PIL dei Paesi bassi. Scoppiò la febbre del tulipano. Vuoi per ostentare uno status symbol o per puntare su uno strumento di arricchimento, pochi olandesi resistettero alla tentazione di investire in bulbi. Una domanda inarrestabile: non furono pochi gli olandesi che dettero via case, palazzi, terreni e gioielli, per accaparrarsi radici e gemme: il sogno di una rapida ricchezza. Non soltanto. In quella circostanza, per la prima volta nella storia del capitalismo, si concretizzarono contratti molto simili ai futures: «Dammi del danaro,


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io compro i più quotati bulbi sul mercato e poi, una volta coltivati, dividiamo i profitti». Con una stretta di mano, si conclusero migliaia di più che promettenti contratti. Una storia tanto intrigante, che ha fatto meritare alla bolla dei tulipani una citazione in 2010 Wall Street: il denaro non dorme mai, un film cult di Oliver Stone. Ben, la prima bolla nella storia del capitalismo si sgonfiò miseramente. I prezzi cominciarono a scendere, la febbre d’acquisto si trasformò in febbre di vendita, e sui campi color arancione non si contarono più i morti (dal punto di vista economico e non soltanto). Al di là della Storia, ci sono altri elementi che in casi simili a quello di Apple, dovrebbero invitarci alla prudenza. La storia dell’uscita dell’iPhone 5, per esempio. Siamo così certi che l’evento - al di là di un inevitabile riscontro di carattere euforico - potrà decretare un ulteriore balzo in avanti dell’azienda che fu di Steve Jobs? Quante volte è accaduto che, a rompere le uova nel paniere, qualche tempo dopo la presentazione di un prodotto innovativo, un concorrente non ne abbia lanciato uno simile sul mercato, con un costo assai inferiore? Un altro esempio: chi non usa un sistema operativo Microsoft? Pur essendo migliorato di anno in anno, il risultato è che un titolo di Bill nel 2000 valeva 53 dollari, ora poco più di 30. E ancora. Nelle passate Olimpiadi di Londra, come in tutti i grandi avvenimenti sportivi, la Coca Cola l’ha fatta da padrona: vi risulta che il titolo abbia fatto boom? Nel ‘98 valeva 86, oggi non arriva a 70 dollari USA. Così come l’Oracle, la General Electric, Ciscom, Cisco, Nasdaq, ecc. ecc.. Sì, può accadere che talvolta ci siano oscillazioni vantaggiose. Così come, evidentemente, le strabilianti performance di un touch screen, possono far lievitare il prestigio di una casa. Ma di qui a dire che la commercializzazione di un telefonino possa segnare un significativo incremento di valore per un’azienda quotata, ne passa. Ma proprio per questo, c’è un terzo aspetto che ci preoccupa di più. È giusto far schizzare il valore di una produzione ad alta tecnologia e a modesto impiego di risorse umane? Mi spiego meglio. Apple ha circa 60.000 dipendenti, un terzo della Fiat che però, capitalizza quasi un sessantesimo della mela morsicata. Per carità, non ce l’ho con la casa di Cupertino, è soltanto un esempio. Ne faccio un altro ancora più emblematico. Google ha circa 30.000 dipendenti, capitalizza 200 miliardi di dollari: un decimo del nostro debito pubblico, quasi tutto il debito greco, e due tre decreti che (a giudizio di Mario Monti) dovrebbero salvare l’Italia. Passiamo alle amare conclusioni. Delle due l’una: o l’economia reale sta cedendo definitivamente il passo a quella finanziaria, con conseguenze - specie sul piano occupazionale - che peseranno moltissimo; oppure, il fenomeno Apple può trasformarsi nella bolla più luccicante e vaporosa che il nostro capitalismo abbia mai conosciuto. Ma anche questa eventualità, tutto sommato, potrebbe non cambiare la vita a noi miseri mortali. Le bolle ci sono sempre state. C’è chi le ha rese ricchezze straordinarie; chi ci ha rimesso l’osso del collo. La vita (anche quella intorno al recinto delle grida) continua. Se oggi è orso, domani può essere toro. Il problema si crea invece quando titoli-robaccia (absit iniuria verbis, non è certamente il caso dell’Apple) danno vita a bolle mostruose, che volano in tutto il mondo, e finiscono nei portafogli di banche d’affari e non. Finché la bolla galleggia nell’aria, tutto ok. Poi, può succedere che la bolla faccia «pluff», e le conseguenze ricadano su altri, compresi gli Stati, compresi quelli europei.

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EMERGENTI IN CALO

IN CRISI anche il «Brics» di FRANCO LUCCHETTI PER CAPIRE la situazione economica internazionale, basta guardare al di fuori dell’Italia, in cui l’andamento delle economie nazionali dei Paesi emergenti, il così detto Brics (Brasile, Russia, India, Cina) è sufficiente per stemperare gli animi, seppur pallidi, del Presidente del Consiglio Mario Monti, che afferma a fasi alterne che l’economia del mondo è in fase di ripresa (e quindi anche dell’Italia). Queste affermazioni trovano riscontro in una dichiarazione di Murat Ulgen, direttore dell’HSBC per l’Europa centrale, orientale e dell’Africa sub-sahariana che afferma, in una dichiarazione al Guardian, che «l’aggravarsi della situazione economica dell’Eurozona ha rivisto i tassi di crescita al ribasso ancora una volta». La crisi dell’Eurozona sta causando un’inquietante tendenza all’aumento della disoccupazione giovanile che abbraccia sia l’Europa mediterranea che il Nord Africa, dove la situazione è particolarmente drammatica. I dati registrano in queste settimane che i giovani senza lavoro sono circa il 27,6 per cento. Lo studio giunge prima dei dati ufficiali sul Pil in Cina, con un tasso di espansione economica che dovrebbe essere appena superiore all’8 per cento. Gli economisti, dal canto loro, dicono che la Cina ha bisogno di un tasso di crescita, come minimo, pari al 6 per cento per accogliere la sua popolazione in espansione. Proprio i leader comunisti cinesi, in previsione di un rallentamento della crescita economica, stanno approntando dei piani per rilanciare lo sviluppo e tamponare l’emorragia di posti di lavoro. La crisi attuale colpisce la domanda di petrolio importato, il ferro e le componenti industriali. In particolare, la crisi si riferisce ai settori chiave dell’acciaio, del carbone e della costruzione navale. Allo stesso tempo la produzione di energia elettrica è aumentata soltanto dello 0,7 per cento. La vendita di case, poi, ha rallentato sensibilmente con una diminuzione dei prestiti per l’acquisto. L’edilizia residenziale e commerciale che rappresentava il 10 per cento del Pil ha fatto segnare un forte ribasso. Nelle ultime settimane, circa 600 piccole imprese nella regione dello Zhejiang - la zona sudorientale della Cina - hanno chiesto aiuto al governo locale dichiarando la loro difficoltà. Si sono registrati casi limite di chiusura delle aziende e altri imprenditori sono scappati all’estero, rifugiandosi quindi in altre nazioni. La Cina è in crisi di liquidità, e la situazione, che inizia a farsi difficile, dimostra anche come sia quasi impossibile ottenere nuovi prestiti. In questa situazione, si è sviluppato un sistema denominato «sistema bancario ombra», che ha visto coinvolte circa l’89 per cento delle famiglie e il 60 per cento delle società di Wenzhou con tassi medi di circa il 25 per cento all’anno (sistema descritto negli articoli del China Securities Journal, che denunciava questo sistema.) Il governo cinese, per ovviare alla situazione, sta allentando le morse delle tasse del biennio 2010-2011, raffreddando un’economia pompata e cercando quindi di diminuire l’infla-


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zione. Pechino, inoltre, procede tagliando i tassi di interesse due volte dall’inizio di giugno ed ha annunciato altre misure cercando di stimolare la crescita. E proprio lo sviluppo ha fatto segnare nel mese di giugno il livello più basso da molti mesi a questa parte, come per esempio le importazioni, tornate al livello di maggio (6,3 per cento). Le previsioni governative (crescita nel 2012 del 7,5 per cento) sembrano essere rispettate, ma il forte rallentamento nel settore automobilistico, della spesa al dettaglio ecc. fanno pensare che queste cifre potrebbero rivedersi al ribasso. Tutto questo provoca ovviamente tensioni sociali, che in Cina sono sempre dietro l’angolo. L’inflazione al consumo è scesa al 2,2 per cento nel mese di giugno, dando più gioco al Governo di Pechino di stimolare ancora l’economia, però con pericoli reali di innescare aumenti nel costo della vita, che in ogni periodo storico è sempre un rischio. L’attività manifatturiera cinese scende ancora ad Agosto, con l’indice Pmi (Purchasing Managers Index) ai minimi da nove mesi, sceso a quota 49,2. Potremmo dire che fino a qualche anno fa, senza andare molto indietro, la crescita mondiale spingeva economie come gli Stati Uniti e quelle dei Pesi emergenti ad andare avanti, a dare un impulso alle economie nazionali e di rimando all’economia mondiale, superando quindi l’impasse che si creava in determinati periodi storici e che aveva carattere più o meno lungo. Secondo l’indice dei mercati emergenti, il settore dei servizi, riferito ai quattro grandi Paesi suindicati, Brasile, Russia, India e Cina è in forte contrazione. Lo studio, diffuso dall’HSBC (primo istituto di credito europeo), rivela come le economie emergenti siano cresciute negli ultimi tre mesi, ma soltantoo a un ritmo più lento. L’indice dei mercati emergenti è passato dal 53,6 nel primo trimestre, al 53 attuale. Brasile e Cina, in particolare, hanno un rallentamento più significativo rispetto a India e Russia. L’economia brasiliana, dopo aver avuto nella prima parte dell’anno indici molto alti, ha sofferto nella seconda parte e un crollo della produzione manifatturiera è stato decisivo, così come per l’economia del Dragone. Inoltre il FMI (fondo monetario internazionale) diminuirà le stime di crescita nel 2012, considerando anche l’andamento a rilento delle economie emergenti. Il FMI ridurrà le stime della crescita economica globale per la debolezza in investimenti, lavoro e disoccupazione nel nostro Continente, Stati Uniti, Brasile, India e Cina. Le dichiarazioni del presidente del Fondo Christine Lagarde non lasciano dubbi: «Le previsioni della crescita globale saranno leggermente inferiori a quanto abbiamo anticipato tre mesi fa», ha detto Lagarde in un discorso in Giappone, aggiungendo che le nuove stime saranno annunciate dopo quella di aprile del 3,5 per cento. Il numero uno del FMI ha spiegato che «molti indicatori dell’ attività economica - investimento, occupazione, produzione - si sono deteriorati, e non solo in Europa o Stati Uniti». La situazione che ne scaturisce blocca le due principali misure che potrebbero costituire elementi di assicurazione per i mercati: la possibilità per la BCE di acquistare titoli pubblici dei governi, direttamente o indirettamente attraverso il Fondo ESM, e l’attivazione del Fondo «anti spreads» richiesto dall’Italia, contestato da altri Paesi europei. In Italia la situazione del primo trimestre ha registrato, come sappiamo un andamento ancora negativo, i distretti industriali hanno visto mediamente un forte rallentamento, con le esportazioni che sono cresciute soltanto dell’1,4 per cento , anche i nostri cavalli di battaglia, i beni di consumo del sistema moda e la meccanica, che hanno registrato rispettivamente un -0,2 per cento e un -1 per cento.

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INTERVISTA A CONSUELO CANNAS

CHI VINCERÀ la guerra in Cina a cura di DANIELA BINELLO PIÙ o meno tutti siamo consapevoli delle grandiose potenzialità offerte da Internet e sappiamo che, da quando la Rete ha cominciato a diffondersi, Internet è stato considerato non soltanto un nuovo strumento di comunicazione mondiale, ma anche (e non a torto) un incredibile «acceleratore» di democrazia dal basso. Analogamente, tutti sappiamo che è proprio per questa ragione che la libertà intrinseca della Rete è strenuamente osteggiata dai regimi illiberali. E perciò, ritenendo di aver capito tutto o quasi, siamo consapevoli che Internet è stato depotenziato, nelle sue opportunità di utilizzare la Rete, in Cina. Sappiamo, insomma, che Internet in Cina ha la «mordacchia». Forse, però, non abbiamo ancora capito fino in fondo cosa rappresenti il web per un Paese come la Cina. Una giovane sinologa del Sulcis (Carbonia), è andata a scavare molto al di sotto del «comune sentire» e dalle ricerche che ha compiuto per la sua tesi di laurea è venuto alla luce Il controllo politico di Internet in Cina. Il saggio è stato pubblicato nel maggio del 2012 dalle Edizioni Ex Libris (80 pagg., euro 9,90). Consuelo Cannas, autrice del saggio, che abbiamo intervistato, si definisce una viaggiatrice «per lavoro e passione» e facendo la spola fra Pechino, Singapore e l’Italia (fa la consulente alle imprese interessate all’import-export con la Cina) continua ad approfondire il suo interesse di studiosa della cultura cinese. Nel suo libro lei cita la teoria chiamata «expectation of convergence» secondo cui, a causa dell’aumento sempre più massiccio di internauti in Cina, Pechino convergerà in maniera naturale verso una democrazia di tipo occidentale. Nella sua esperienza diretta, avendo vissuto e studiato in Cina, questo processo le sembra davvero possibile? «Premetto che in Cina il numero degli internauti è cresciuto, da un modesto inizio con poco più di duemila naviganti nei primi anni ‘90, oggi ne conta all’incirca 500mila. Si stima che ogni mese l’Internet cinese accolga circa un milione e 200mila nuovi utenti. Per il governo cinese, perciò, è sempre più impossibile gestire il controllo di un numero così colossale di utenti. Il Pcc si avvale di centinaia di cyberpoliziotti che 24 ore su 24 controllano, in Rete, tutti coloro che si connettono e tutto ciò che avviene. Inoltre il controllo, come ho scritto nel mio libro, si estende a livello legislativo, quindi sotto forma di documenti che gli utenti devono firmare, oltre che con telecamere nascoste nei cyber-cafè e così via.» Una questione di «grossi numeri», quindi? «È sempre più difficile, come dicevo, gestire il controllo di un numero così impressionante di utenti. Infatti, il governo non riesce nel suo intento. E sono sempre di più gli hacker, i gruppi di utenti rivoluzionari e i gruppi di dissidenti e quant’altro che nascono ogni giorno nel web cinese, riuscendo a sfuggire al controllo. Le pene sono severissime, perché


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vanno dalle multe, molto salate per i casi più semplici, alla reclusione e/o pena capitale nei casi più seri.» Cosa l’ha colpita soprattutto di questo fenomeno? «Quello che io ho visto nei lunghi periodi di lavoro in Cina è che dal 2007 a oggi la presenza straniera nel Paese è aumentata tantissimo. A Pechino troviamo per le strade in egual modo cinesi e occidentali. Questo fenomeno è importante per capire quanto il cinese medio, abituato a una Cina chiusa, si trovi attorniato da “nuove culture”. Le contaminazioni straniere e la conoscenza di ciò che esiste fuori dalla Cina sono, perciò, inevitabili. E ciò che esiste fuori dalla Cina si chiama “libertà di pensiero, di parola”, “informazione libera” e “libertà di espressione”. E Internet è lo strumento che accelera questa conoscenza, sulla comunicazione mondiale, il business, la globalizzazione.» Come reagiscono i cinesi? «I cinesi in un certo senso si stanno svegliando e stanno richiedendo sempre più libertà di agire e di esprimersi con un bisogno sempre maggiore di democrazia. Per questo motivo credo che la mia teoria sia esatta: la democrazia ci sarà, ma con un processo lento e graduale.» Perché, se da un lato «Internet» si è reso responsabile di aprire delle «falle» nel «muro» eretto dal «Pcc», il governo cinese, dall’altro lato, ha agevolato una maggiore diffusione di «Internet» nel Paese? «Al governo cinese fa comodo, perché ha bisogno di una “globalizzazione virtuale” appunto per globalizzarsi con il resto del mondo. Però, lo fa con le sue leggi e regole. La Cina mira a essere il maggiore mercato mondiale, e lo sta effettivamente diventando. Ma ha bisogno di eguagliarsi al resto del mondo e di accelerare i tempi per fare tutto ciò. Ha bisogno di essere all’avanguardia con i più grandi Paesi. E Internet è diventato col tempo lo strumento per eccellenza per arrivare a questo scopo. Soltanto che, essendo il web un’arma a doppio taglio, perché è una finestra aperta sul mondo, nonché un tunnel verso la libertà, cosa che un regime comunista, una dittatura, non si può permettere, tenta d’imbavagliarlo più che può. Altrimenti, come ho scritto nel mio libro, si andrebbe incontro a un “suicidio politico”. La Cina, perciò, ha creato un web con un sistema di filtraggio in modo, sì, da portare Internet nel Paese, ma mettendo comunque un muro tra i cinesi e la democrazia, la libertà d’espressione e informazione.» Leggendo il suo libro si capisce che c’è un accordo fra i principali gestori dei domini registrati in Rete e si ipotizza che già nel 2015 americani e cinesi controlleranno l’intero «business» di questo settore. Quali saranno le conseguenze a livello mondiale? «A livello mondiale credo che ci saranno in proporzione e per forza di calcolo più utenti cinesi che altro. I cinesi vorranno giocare un ruolo ufficiale su chi dovrà gestire le Reti. Questo è ciò che credo sul futuro.» Lei ha scritto che «molti dei “media” controllati dal “Pcc” stanno aprendo brillanti siti “web” con l’aiuto di ditte straniere». A chi si riferiva in particolare? «Per “ditte straniere” mi riferisco a Compagnie come Microsoft, Yahoo, Google, eccetera. Queste Compagnie si trovano su un piatto d’argento la possibilità di poter vendere i loro prodotti a oltre un miliardo di cinesi. Però, per poter entrare in Cina, devono sottostare alle ferree regole di Pechino. Per cui inizialmente hanno comprato quote di siti web

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«IL BORGHESE» INTERVISTA MARY PACE

LA VERITÀ su bin Laden MENTRE scriviamo, due navi da guerra americane sono dirette verso la Libia mentre duecento soldati sono stati inviati a difesa delle installature civili diplomatiche nel Paese nord africano. Ricordate quando nel 1986 agenti libici fecero esplodere una bomba nella discoteca La Belle di Berlino? In quell’attentato morirono tre americani e 250 furono i feriti. L’allora presidente americano Ronald Reagan non ci pensò su due volte ed ordinò la rappresaglia. L’attacco aereo alla Libia provocò una ventina di morti, tra cui una nipotina di Gheddafi. Il colonnello si salvò, per finire linciato, 25 anni dopo, grazie alla guerra «per la democrazia» voluta dalla strana alleanza anglofranco-americana, supportata dai soliti ascari della Nato, fra cui brillò per maramaldesca condotta il governo Berlusconi. Oggi ad Obama ammazzano un ambasciatore, e tre funzionari, e lui che fa? Condanna, supportato dalla Clinton, il film su Maometto, fatto in casa da un ebreo americano e presunta causa scatenante delle manifestazioni violente di folle esaltate nel nome dell’islam contro le ambasciate americane situate nei Paesi della Mezza Luna, da Gibilterra a Damasco, da Saana a Teheran. Manifestazioni alla cui origine sembra vi siano i Salafiti, anche se il gruppo salafita libico Katibat Ansar al-Sharia ha negato fermamente il proprio coinvolgimento nell’attacco. Lo stesso Presidente egiziano Morsi, pur essendo membro dei «Fratelli Musulmani», sa di dover stare attento all’improvviso vento salafita che squassa il mondo islamico all’indomani delle primavere del 2011. Nella stessa Siria, sono scoppiati scontri all’interno delle forze ribelli al legittimo governo siriano. Lo scontro è tra

cinesi. Mi spiego: hanno aperto brillanti siti in Cina in società con Compagnie cinesi. E questo perché la Cina non fa entrare Compagnie straniere a giocare “da sole”, ma in società. In modo da farsi insegnare, per poi rubare il mestiere, perché la Cina ha bisogno di tecnologia che da sola non riuscirebbe mai a creare.» Il governo cinese, in definitiva, con l’avvento di «Internet» e il suo indiscutibile successo nei confronti di tutti i tipi di popolazione, ne esce fortificato o indebolito nella sua autorità? «Assolutamente indebolito. Perché Internet indebolisce lo stretto guinzaglio che da sempre il governo cinese tiene sull’informazione e quindi sul popolo. Perché sempre più gruppi e persone stanno sfuggendo al controllo e sempre più hackers e pirati del web creano siti di incitamento sovversivo e software per criptare i segnali e accedere ai siti da sempre bloccati in Cina. Il giro di vite sul web cinese sta uscendo troppo allo scoperto e come tutte le cose di questo tipo non credo che durerà troppo a lungo. Arriverà il momento in cui si vedrà sempre di più la perdita di potere del regime comunista in Cina.»


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ribelli «laici», aiutati e guidati da «consiglieri» anglo-americani, e le sempre più numerose formazioni «islamiche», che intendono abbattere il regime alawita (sciita) a cui fa riferimento il clan degli Assad. Ecco il vero scontro in atto in Siria, e nella maggior parte dell’Islam: tra sciiti e sunniti, quest’ultimi appoggiati da Teheran. Quello che però sta diventando sempre più certo è il ritorno sul campo di Al Qaeda. Dopo l’uccisione di bin Laden, ad opera di truppe speciali americane, Obama aveva messo una croce sulla «vicenda» bin Laden e l’11/9. Però lo sceicco del terrore sembra che non voglia saperne di starsene tranquillo nella tomba marina, nella quale l’hanno sepolto dopo il blitz. Film, libri, interviste ad ex «foche» (in italiano l’acronimo Seal, SEa, Air and Land, si traduce appunto con foca), hanno riportato a galla tutta la vicenda a poche settimane dalle elezioni presidenziali americane. Per questo abbiamo voluto che Mary Pace, collaboratrice del Borghese, e profonda conoscitrice del mondo dell’intelligence interno ed estero, ci spiegasse cosa c’è dietro la «leggenda» della morte di bin Laden. Come i nostri lettori ricorderanno, nel 2007 Mary Pace scrisse un articolo, nel quale fra le altre cose rivelava il luogo dove era nascosto il capo di Al Qaeda. Ecco quanto ci ha detto. Chi le rivelò il nascondiglio di Bin Laden e quando? «Fu Guido Giannettini a rivelarmelo, poco prima della sua morte nel 2003.» Cosa le disse esattamente? «Mi indicò quattro località che delimitavano un’area quadrata di circa 30 km. All’interno di questo quadrato si trovava il rifugio di bin Laden » Come faceva Giannettini a sapere dove si nascondeva Bin Laden? «Nonostante che da alcuni anni, tanti purtroppo, fosse fuori dal ‘’Grande Gioco’’, credo che egli mantenesse stretti rapporti, sicuramente più a livello personale che altro, con varie agenzie di informazioni.» Lei, queste informazioni, dapprima a chi le comunicò? «Telefonai alla Digos, dove ero conosciuta e dissi loro che avevo delle informazioni importanti.» Fu lei a recarsi presso la Questura? «No, furono due ispettori, Corrado Renzi e Pasquale Fiorini, a recarsi presso la mia abitazione.» Come reagirono quando lei nominò bin Laden, indicando loro dove era nascosto? «Non ci fu nessuna reazione, ricordo soltanto che feci lo spelling dei nomi delle quattro città pakistane.» In seguito, come si sviluppò la vicenda? «La Digos approntò l’informativa che inoltrò tempestivamente al Ministero dell’Interno. Aspettavo che qualcuno si mettesse in contatto con me, ma non accadde nulla.» Come reagì a questa mancanza di interesse da parte dei nostri servizi informativi della Polizia di Stato? «Nell’ottobre 2007 scrissi su Il Borghese un articolo sulla riforma dell’intelligence italiana, e facendo una critica alle condizioni dei nostri Servizi ci inserii il fatto che sapevo dove si poteva rintracciare Bin Laden, dando anche le coordinate per acciuffarlo. Non successe nulla.»

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Ma lei non restò ferma… «No, cercai un contatto con l’FBI tramite il cancelliere del Tribunale di Perugia, ma non fu possibile farmi ricevere. Non mi arresi, cercai un contatto con la CIA che si rivelò arduo.» Alla fine lei riuscì a parlare con qualcuno? «Si, navigando sul sito della CIA trovai un link che permetteva di comunicare informazioni e documenti. Così feci, non pensando che mi rispondessero, perché non avevo fatto il nome del n 1 di Al Qaeda, scrissi soltanto che avevo delle informazioni.» Ebbe qualche risposta o contatto? «Sì dopo circa un mese e mezzo. Quando vidi la risposta, mi attivai con cautela e mandai il mio CV come mi era stato richiesto.» Ci furono altre «mail» tra lei e la «CIA»? «Tante, alla fine mi arresi e inviai l’articolo de Il Borghese, dal quale potevano estrapolare le informazioni utili alla cattura di Bin Laden.» I contatti proseguirono? «Sì, ricevetti alcune mail di complimenti, poi tutto tacque e nessuno mi richiamò. Ora ho rimesso il tutto nelle mani all’avvocato Carlo Taormina, che già ha provveduto a notificare gli atti sia al Dipartimento di Stato Usa e al nostro Ministero dell’Interno.» Come mai ha deciso di fare causa agli «Usa» ed al Ministero dell’Interno? «Molto semplice. Prove alla mano, sono in grado di dimostrare che la segnalazione sull’ubicazione del rifugio di bin Laden l’ho data prima io di qualsiasi altro fantomatico “pakistano”, inventato dalla fantasia dei funzionari americani. Quindi la taglia mi spetta, sempre se il governo americano rispetta i patti. «Per quanto riguarda il Viminale, il 20 Agosto 2003, dopo averlo detto ai due ispettori della Digos, che la girarono all’Ucigos, non ho più saputo nulla. Nessuno mi ha mai contattata per sapere se avevo ragione oppure ero una mistificatrice. L’esposto presentato dall’Avvocato Taormina serve anche a far venire alla luce eventuali responsabilità penali di tipo omissivo da parte del Viminale.» I recenti fatti di Bengasi, le «fatwe» emesse periodicamente contro coloro che attaccano l’islam oppure concorrono a danneggiarlo, la preoccupano? Ha timore per la sua persona? «No, perché la mia vita è stata sempre a rischio per il lavoro che svolgevo, tuttavia ho chiesto di essere tutelata alle Forze dell’ordine soprattutto per la mia famiglia. E come si dice e spero sempre “ meglio morire con un AK-47 in mano per difendere il giusto che nel proprio letto”.»


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STRAGI NEL CAUCASO

«JIHAD» TRA sufi e salafiti di ERMANNO VISINTAINER UN ATTENTATO kamikaze ha recentemente sconvolto il Daghestan, repubblica della Federazione Russa del Caucaso Settentrionale, perpetrando una strage nella quale è rimasto ucciso lo Sceicco Saaid Effendi Atsayev, un teologo musulmano di posizioni - a quanto pare - sufi-tradizionaliste. In Caucaso è in atto un vero e proprio jihad salafita nei confronti dei sufi. In verità, la guerra in corso all’interno dell’islam è su scala planetaria e si combatte da alcuni decenni, se non secoli, a questa parte. Salafismo è un termine che si riferisce alla voce araba salaf, «antenato», e si potrebbe tradurre come «tradizionalismo arabo-islamico». Un movimento riformista sorto in Egitto verso la metà del XIX secolo che postulava la rivivificazione della religione islamica attraverso il ritorno alle sue fonti. Non scevro di collegamenti con il wahhabismo, altra corrente religiosa anteriore ad esso di circa un secolo e nata come reazione all’autorità costituita dall’Impero Ottomano nei confronti del mondo arabo. Entrambi caratterizzati per le loro vedute - che oggi in occidente definiremmo fondamentaliste - radicalmente iconoclaste, anti-sufi e anti-sciite. In realtà, dietro lo scenario della propaganda salafita categoricamente incentrata sull’ortoprassi, il conflitto è etnocentrico e contrappone gli arabi, il popolo della rivelazione coranica, alle altre due grandi compagini etniche del mondo islamico: i persiani, oggi sciiti, ma storicamente artefici dell’elaborazione culturale, letteraria ed anche mistica del pensiero islamico. Ed i turchi, simili a questi ma maggiormente orientati verso l’aspetto politico-amministrativo - anche eterodosso - della storia delle istituzioni di questa parte del mondo. Dal punto di vista delle influenze teologiche, sia l’islam turco sia quello persiano procedono oltre la jāhiliyya, letteralmente l’ignoranza religiosa. Termine arabo che designa il periodo precedente alla missione profetica di Maometto. La turcità, così come l’iranismo, precedono, infatti, l’islam di secoli se non addirittura millenni, forgiando la loro realtà religiosa su tradizioni pre-esistenti. Sciamanesimo e tengrismo (il monoteismo delle steppe) i primi, zoroastrismo i secondi. Contraddistinti da una spiccata tendenza monoteistica. Come scrive lo studioso Henry Corbin, nell’islam sciita e con altre modalità, anche sufi, esiste un ciclo della santità o dell’iniziazione, dā’irat al-walāyat, che si distingue dal ciclo della profezia, dā’irat al-nobowwat. L’interiore prevale sull’esteriore, ovverossia l’esoterico sull’essoterico. Come dire che esiste un’autorità spirituale che si pone oltre la funzione storica di Maometto. Wahhabiti, salafiti e tutti i loro attuali epigoni come qaidisti o talebani, stigmatizzano come eretiche tutte le innovazioni post-mohammediane - dette bid’a - appartenenti al mondo turco-persiano-centrasiatico, tacciandole di shirk o politeismo e kufr, miscredenza. In realtà, si potrebbe dire che essi, avversando l’evoluzione storica dell’islam, inficiano lo spirito tradizionale di solidarietà verso una umma, la Comunità dei fedeli, in altre parole la

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comunità dei musulmani, vincolandola a una contestualizzazione etnico-linguistica e culturale. Infatti, nonostante l’islam sia una religione universale, i salafiti la vorrebbero etnicizzare, rendendola una religione arabocentrica e arabofona, considerandosi una sorta di popolo «eletto da Dio». Nostalgici di un’età dell’oro appartenuta ai cosiddetti Khulafa al-Rashidun, i primi quattro «retti califfi» dopo Maometto e dell’Emirato Omayyade, disprezzano perfino gli Abbasidi considerati non rappresentativi, in quanto mawālī, cioè non arabi, iranici e altro. In realtà, benché il nazionalismo arabo sia posteriore, wahhabismo e salafismo potrebbero essere definiti come un innesto di nazionalismo di stampo massonico in seno all’islam. Sta di fatto che nella Penisola Araba wahhabizzata, fra il 1916 e il ‘18, non senza atteggiamenti in odore di apostasia, una Rivolta Araba cappeggiata dallo Sharif al-Husayn ibn Alī, impaziente di autoproclamarsi califfo, rinnega la legittimità, per quanto formale, del Califfato Ottomano retto da Abdul Hamid II, assecondando - ieri come oggi - gli interessi di Londra, che cercava di sfruttare il malcontento arabo nei confronti del nemico di allora rappresentato dagli Ottomani. Sintomatica e non fortuita, a tal proposito, la collusione con la figura del colonnello inglese Thomas Edward Lawrence. Per converso sintetizzare l’essenza di un fenomeno religioso complesso come il sufismo non è cosa di poco conto. Un sufismo «soffocato nel silenzio delle sparatorie», nel senso che wahhabismo e salafismo hanno guadagnato terreno anche in Paesi tradizionalmente refrattari a questo tipo di visione dell’islam, come l’Afghanistan, oggi martoriato dalla presenza dei Talebani. Emblematico un distico di Mewlânâ Jalâl ad-Dîn Rûmî (1207/1273), uno dei più celebri poeti e mistici sufi d’Anatolia, sebbene originario dell’Afghanistan, in cui scriveva: L’Uomo di Dio è oltre fede e non fede,
 L’Uomo di Dio è oltre il male e il bene (…) L’intera produzione poetica di Rûmî esonda, tracima di nostalgia cosmica per la propria pienezza ontologica e di anelito ineffabile ed anagogico verso l’Assoluto. Associazioni lessicali come questa suggeriscono al lettore assonanze con una certa sensibilità moderna di concepire il sacro. Venendo al Caucaso, esso è una sorta di microcontesto situato su un crocevia nevralgico di conflittualità interreligiosa ed interetnica. Il Caucaso musulmano, è una regione dove l’influenza sufi, è sempre stata più centrasiatica che anatolica e dove fino a ieri dominavano le «tariqah», «confraternite mistiche» e le «adat» o «tradizioni o usi locali». Usi legati a confraternite centrasiatiche come la naqshbandiyah e la qadiriyah, ma anche ad antiche tradizioni epiche di origine pagana e sciamanica, estendentisi dall’Adyghezia al Daghestan, ovvero dal Caucaso nord-occidentale a quello nord-orientale. Il fondamentalismo vi ha messo piede da qualche decennio. Ricordiamo le infiltrazioni di estremisti ceceni nel Daghestan verso la fine degli anni ‘90, dove Basaev proclamò la sua «repubblica islamica». I salafiti in Caucaso stanno conducendo una lotta armata contro gli infedeli ma altresì contro quelli che essi considerano musulmani apostati o «murtadd». Del resto negli ultimi anni gli investimenti dei Paesi arabi con conseguente wahhabizzazione delle nuove generazioni stanno monopolizzando gli scenari regionali. Lo scopo è evidente. Altro non è che una strategia di scardinamento dell’influenza secolare di un islam turco-persiano, onde fra l’altro scongiurare il neo-ottomanesimo, al fine di consolidare la testa di ponte per la penetrazione di tali concetti in Asia Centrale e oltre.


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STORIE DI «CONVENTION»

«Dirty Harry» ed il vecchio Bill di ANDREA MARCIGLIANO A TAMPA, in una Florida dove più che alla Convention Repubblicana si guardava, con preoccupazione all’arrivo dell’uragano «Isaac», un «ispettore Callaghan» attempato ma non addolcito è salito sul palco, ha fissato la platea dei delegati con i suoi, famosi, occhi di ghiaccio, e ha fatto proprio quello che ci si può, e deve, aspettare, da «Henry la Carogna»: ha demolito, con una serie di battute secche e fulminanti, l’immagine di Barack Obama - un uomo, e soprattutto un politico che sull’immagine, più che sui contenuti, ha costruito le proprie fortune - evocato, quasi come un fantasma, con il simulacro di una sedia vuota. Poi, Callaghan, ovvero Clint Eastwood, se ne è andato così com’era venuto, solo e sventolando la «bandiera dei nostri padri», mentre i delegati repubblicani esplodevano in una tale ovazione da far pensare che fosse lui, l’ottuagenario attore, il vero Candidato del Partito dell’Elefante. A dire il vero, in molti, in quella sala - mentre «Isaac» veniva declassato a semplice tempesta tropicale - devono averlo pensato. In fondo, con gli attori o ex attori, i Repubblicani hanno avuto fortuna in passato, tanto che la New Right, quella che ha trasformato in profondità l’America facendone la «Right Nation» è giunta al potere, prima nel Partito, poi a Washington, con Ronald Reagan. E Ronnie, per altro, è stato davvero un grande Presidente. Peccato, però, che Clint Eastwood non abbia mai davvero preso sul serio l’ipotesi di una discesa in politica, e sia, ormai, troppo «vecchio». Peccato, perché ha quello che manca all’attuale candidato repubblicano: fascino, carisma, ed un’oratoria secca, ma entusiasmante. Tutti gli errori dei Repubblicani Già, Mitt Romney, l’ex Governatore del Massachusetts, un buon Governatore, per altro, forse un po’ troppo liberal per convincere i veri conservatori. Romney il mormone - che stravincerà, ovviamente, nello Utah e nell’Indiana - ma che è guardato con sospetto nella Bible Belt, la Cintura della Bibbia, il profondo ventre meridionale degli States, dove le Chiese Battiste bianche spostano venti milioni di voti, e quelle pentecostali altri otto, e dove i fondamentalisti protestanti continuano a considerare i Mormoni alla stregua di pagani. Una forza elettorale dirompente che fece le fortune di Reagan e ancora di George W. Bush; un elettorato che, certo, mai voterà per Obama, ma che potrebbe, il prossimo novembre, disertare

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le urne. Perché Romney non piace, soprattutto non affascina e non convince. È il suo difetto, ed il tallone d’Achille del Partito Repubblicano. Nonché l’atout principale in mano a Barack Obama. D’altro canto la colpa è dei Repubblicani, o meglio dell’establishment del Partito, che mai ha creduto davvero nella possibilità di riconquistare la Casa Bianca dopo quattro anni dal disastro elettorale che travolse McCain. Così, di fronte alle Primarie, i veri pezzi da novanta, i gioielli di casa repubblicana si sono defilati, tutti da Marco Rubio a Chris Christie, da Condy Rice a Jeb Bush. Così facendo hanno spianato la strada a Mitt Romney, certo il migliore fra i sette nani (politici) scesi in campo, ma comunque un candidato di risulta. Votato alla sconfitta; magari una sconfitta dignitosa, ma comunque una sconfitta. Poi, però, gli indicatori economici hanno cominciato a segnalare che la ripresa, vantata da Obama, era e resta un mezzo bluff: appena un +1,7 per cento, che a noi europei potrebbe, in questo frangente, sembrare molto, ma che per gli USA rappresenta un vero e proprio disastro. Perché questa crescita è data soltanto dalla ripresa delle Merchant Bank, le stesse che sono state la causa della crisi del 2008, che hanno ricominciato ad inondare i mercati di titoli/ spazzatura, favorite in tutti i modi dalle politiche del loro pupillo Barack Obama. Una ripresa che non si riflette sull’economia reale e, quindi, sull’occupazione. Tant’è vero che, a settembre, la disoccupazione negli States ha superato la soglia dell’8,3 per cento. Un livello di guardia che suona come campana a morto per Obama e per i suoi Democratici riuniti in una - triste e crepuscolare - Convention a Charlotte, in North Carolina. Nessun Presidente è stato mai rieletto con un tasso di disoccupazione superiore al 7,2 per cento; nessuno tranne

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F. D. Roosevelt nel 1936. Ma era Franklin Delano, e comunque la disoccupazione non aveva raggiunto le soglie attuali. Paul Ryan, l’iperliberista che spaventa la «Middle Class» - Così, tra giugno e luglio, i Repubblicani hanno cominciato ad accorgersi di potere, nonostante tutte le previsioni, vincere di nuovo. E, come si diceva a Tampa, riprendersi Washington. Soltanto che era troppo tardi per cambiare candidato; per far scendere in campo qualcuno dotato di maggior fascino e carisma. Tant’è che le speranze di Obama si appuntano tutte proprio sul suo rivale. E soprattutto sui confronti diretti in televisione, che sempre contano molto; ed ancor più conteranno quest’anno, in uno scontro che si annuncia sul filo del rasoio. Due (almeno), forse tre faccia a faccia che, prevedibilmente, non avranno storia. Obama è un oratore affascinante, con una dialettica scintillante, anche se un po’ appannata rispetto a quattro anni fa. Romney, quando parla, ha il fascino di un funzionario di Equitalia. Per rimediare gli hanno affiancato Paul Ryan, il «giovane» e fascinoso deputato del Wisconsin, una sorta di «Obama bianco», grande parlantina, parole d’ordine entusiasmanti. Ma è dubbio che sia stata davvero la scelta giusta. Ryan è un iper-liberista arrabbiato, tutta Scuola di Chicago, nemico giurato dell’intervento pubblico nella sanità voluto da Obama. Una riforma che, per paradosso, assomiglia molto a quella attuata da Romney nel Massachusetts quando ne era Governatore. E poi Ryan piace soltanto ad una fascia dell’elettorato, bianco e con notevole reddito, mentre inquieta la Middle Class, la più provata dalla crisi, quella il cui voto sarà determinante a novembre. Insomma, i Repubblicani hanno commesso una serie di errori strategici, appena mascherati, a Tampa, dal carisma trascinante del vecchio Texano con gli Occhi di Ghiaccio, dal fascino discreto di Ann Romney - l’antidoto alla vistosa e invasiva Michelle Obama - e forse soprattutto dal Keynote Speech, il discorso di apertura di Chris Christie, il simpatico ciccione Governatore del New Jersey, da molti considerato il vero erede di Reagan. E possibile candidato nella corsa Presidenziale del 2016, sempre che Obama resti nello Studio Ovale. Cosa che, nonostante tutti i limiti di Romney, non è affatto certa. Charlotte. Nostalgia canaglia - A Charlotte, i Democratici hanno schierato le artiglierie pesanti a difesa del loro Presidente. Una parata di star che manco sul red carpet nella Notte degli Oscar, da Scarlett Johansson ad Eva Longoria. Una Kermesse da «Circo Barnum», nella tradizione delle Convention Dems, da sempre molto, ma molto meno sobrie di quelle Repubblicane. Hanno, prudentemente, oscurato il vice Joe Biden e gli uomini dello staff obamiano, considerati responsabili dei molti fallimenti di questa Amministrazione. Hanno puntato il tutto per tutto su Bill Clinton, l’ultimo Presidente democratico davvero amato - nonostante tutto - dagli Americani. Ma non da Obama, che da buon liberal si è sempre detestato con Clinton ed i suoi New Democrats. E il vecchio Bill ha entusiasmato la platea, ha difeso il Presidente, gli ha testimoniato il suo appoggio, ma, al contempo, ha fatto desiderare a molti, moltissimi delegati che fosse di nuovo lui a difendere in prima persona i colori dei Democratici. Insomma, due ben strane Convention, con i candidati messi in ombra dall’intervento di coloro che erano lì per sostenerli. Quasi un segno della politica americana di questi tempi, pervasa da un senso crescente di disincanto. Priva di magia e, in fondo, preda della nostalgia. Quella nostalgia che gli «asinelli» democratici hanno provato rivedendo il sorriso del vecchio Bill Clinton. E gli «elefanti» repubblicani fissando gli occhi di ghiaccio del loro «Ispettore Callaghan».

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LA CORSA DI OBAMA

LA FINE di un’illusione di FRANCESCO ROSSI LA SCELTA compiuta da Mitt Romney, candidato repubblicano per la Casa Bianca, per quanto riguarda il suo vice non poteva essere migliore. Paul Ryan, deputato repubblicano dal 1998 dello Stato del Wisconsin, ha tutti i requisiti per rafforzare la squadra. È più giovane del candidato vero e proprio e questo è un requisito che dovrebbe essere fisiologico, perché il compito principale del Vicepresidente è quello di sostenere la politica del Presidente, che si suppone con maggiore esperienza. Giusto l’opposto rispetto a quanto è avvenuto - ed ancora avviene - con i democratici, dove a fronte di un Presidente, Barack Obama, giovane e con poca esperienza, c’è un vice che per età anagrafica (settant’anni) e di servizio (Senatore dal 1973) dovrebbe essere lui stesso il Presidente. Il deputato del Wisconsin, con i suoi quarantadue anni, è in grado di intercettare il voto giovanile, un segmento importante nella campagna elettorale, perché costituisce il bacino di votanti sul quale punta maggiormente Obama. Paul Ryan è la scelta ideale non soltanto per un fatto di età. Egli è attualmente il Presidente della Commissione della Camera sul Bilancio ed è stato incaricato quest’anno dal suo partito di replicare al discorso presidenziale sullo Stato dell’Unione. Oltre al fatto di essere una stella crescente tra i repubblicani, Ryan ha l’importante qualità di essere conservatore, importante perché una parte della base repubblicana non era troppo entusiasta della scelta di Romney, giudicato non abbastanza conservatore. Questa mancanza non poteva essere compensata con quegli esponenti della destra repubblicana che avrebbero soddisfatto questa esigenza, perché quegli esponenti come Rick Santorum o Newt Gingrich avevano condotto una battaglia serrata contro lo stesso Romney durante le primarie e la loro selezione per la carica di Vicepresidente si sarebbe rivelata opportunistica, insincera e imbarazzante. Se c’è una cartina di tornasole come riprova della scelta azzeccata di Romney, questa è lo stato d’isteria in cui sono caduti i democratici ed i principali canali d’informazione televisivi, oltre ad alcune testate giornalistiche di spicco. Nel 2008, che la scelta di Sarah Palin fosse giusta come vice di John McCain la dette proprio la cartina di tornasole di cui sopra. I democratici impazzivano perché i repubblicani rischiavano di sottrar loro «la questione femminile» ed i mass media erano impegnati a trovare tutti i possibili elementi negativi da ricordare in continuo agli elettori, dalla pretesa inesperienza della Palin al fatto di essere contraria all’aborto tanto da essersi dimostrata consistente al riguardo, avendo scelto di non ricorrere all’estremo rimedio nonostante fosse risultata incinta di un bambino down. Nel caso di Paul Ryan, tutto questo isterismo risulta meno comprensibile, visto che Ryan è già conosciuto ed è uno degli esponenti più in vista della Camera, per aver, tra gli altri, guidato il dibattito repubblicano per l’opposizione al piano sanitario del Presidente Obama. Il suo era da tempo uno dei nomi in cima alla lista di possibili candidati alla vicepresidenza. La


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scelta di Ryan rischia di oscurare lo stesso Romney, rischio esemplificato dalla reazione ai rispettivi discorsi durante il Convegno del Partito repubblicano a Tampa in Florida: non c’è dubbio che il discorso di Ryan ha scaldato gli animi dei partecipanti più di quello dello stesso Romney. Un fattore che più di altri dovrebbe favorire i repubblicani ed influire sul risultato delle prossime elezioni è la fine dell’illusione Obama. Dopotutto, non poteva durare. Il fedele ed attento partecipante della chiesa del reverendo Jeremiah Wright - che si distingue per considerare gli Stati Uniti un Paese fondato sul razzismo e sull’illegalità interna ed a livello internazionale - che parla di tolleranza; il praticante della politica in stile «Chicago» (favoritismi, corruzione, lotta tra feudi) che discetta di civiltà; colui che al Senato ha votato nella maniera più faziosa possibile che promette la riconciliazione tra i partiti; colui che sempre nella stessa vena tiene discorsi politici che si distinguono per il granitico progressivismo e che vorrebbe esporli come prova del superamento della distinzione tra Stati rossi (quelli governati dai repubblicani) e quelli blu (governati dai democratici). Obama aveva promesso che sotto la sua direzione il deficit si sarebbe ridotto della metà durante il suo primo mandato e che avrebbe preferito essere un Presidente di successo e con delle realizzazioni al suo attivo, che non un Presidente di due mandati. Aveva affermato che non avrebbe dovuto essere rieletto se l’economica non fosse tornata robusta. Egli pensava che dopo ogni fase recessiva (quest’ultima terminata nel giugno del 2009) una fase di ripresa sarebbe seguita, una ripresa tanto più decisa quanto la crisi era stata pesante. Obama ha ritenuto che nonostante la sua riforma sanitaria, gli interventi federali nell’economia, l’aumento delle tasse e all’inondazione di regolamenti, il tanto deprecato settore privato avrebbe ritrovato vigore, indipendentemente dalle politiche obamiane di controllo ed avrebbe quindi ripreso a macinare profitti che naturalmente il Presidente Obama avrebbe tentato di «ridistribuire». Proprio quando una serie di affaristi ben connessi sperperavano centinaia di milioni di dollari di sussidi per le imprese per la produzione di energia alternativa, una parte del settore privato dava vita ad una vera e propria rivoluzione nella perforazione di vaste riserve di gas e petrolio - a dispetto di, non a causa delle politiche energetiche di Obama. Il paradosso ha raggiunto punti così estremi che Obama si è trovato a vantarsi del fatto che gli Stati Uniti stanno producendo più gas e petrolio sotto la sua direzione che non prima, evidentemente in base alla logica che i petrolieri sono così esperti da trovare enormi quantità di nuove risorse energetiche su terreni privati senza preoccuparsi degli sforzi del governo Obama di eliminare praticamente tutti gli affitti di terre federali. Il risultato è che il primo Presidente «verde» si trova un valore del carburante di 4 dollari al gallone (all’incirca 20 centesimi di euro al litro!) mentre continua a vantarsi che quello che non è riuscito a bloccare (le trivellazioni) in effetti non si è bloccato. Sono molte le inconsistenze, le promesse non mantenute, le finzioni smascherate dell’attuale amministrazione che la squadra repubblicana ha molte possibilità di avere la meglio alle prossime elezioni. I nemici principali sono un Presidente in carica che non si fermerà davanti a nulla pur di ottenere la conferma, i mass media ancora schierati a suo vantaggio, portati a scovare in ogni discorso o presa di posizione repubblicana una gaffe o, va da sé, un’espressione più o meno velata del solito razzismo. Infine, il mondo incantato di Hollywood, da sempre cassa di risonanza democratica. Superare questa fortezza sarà tutt’altro che facile.

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GOVERNO ED AIUTI EUROPEI

LA SPAGNA nell’incertezza di GIANPIERO DEL MONTE CHE dire di questa Spagna rientrata dalle vacanze? Ci sarà il «rescate total» dell’economia? Il Re ha incontrato gli impresari per seguire l’evolvere della situazione economica e le strategie di uscita dalla crisi, ascoltando le analisi e le conseguenze delle misure adottate dal governo spagnolo. Il ministro dell’economia, De Guindos, ha affermato che la Spagna terrà fede agli obiettivi stabiliti indipendentemente dall’intervento della BCE. Il governo è assolutamente convinto delle decisioni prese, ha detto, e questo è quel che i partners europei devono tenere in considerazione. Ha sottolineato comunque che il governo non ha preso alcuna decisione sul «rescate» e sta analizzando le alternative. Non si può fare diversamente finché non si determini un’azione più precisa della BCE, le cui misure nei confronti di Paesi come la Spagna devono essere effettive e si rimane quindi in attesa che siano stabilite le condizioni che favoriscano l’intervento della Banca europea. De Guindos ha replicato alle critiche comparse su organi di stampa internazionali verso la Spagna, affermando che il governo lavora per gli interessi della Spagna e dell’euro che alla Spagna sono connessi. L’Esecutivo sa bene quali sono i problemi economici sul tappeto e sta prendendo misure per realizzare una situazione più equilibrata. La riforma finanziaria che attiverà il Consiglio dei ministri servirà a prevenire altre crisi e darà alla Spagna delle leggi più avanzate e complete a questo riguardo. Ci sarà un decreto legge che eviterà il riprodursi di altre crisi nel settore bancario, in cui si avrà una spinta di miglioramento fondata su regole più adeguate. Su questo punto, però, De Guindos non ha fornito ulteriori dettagli. I dubbi sono tanti, ci si interroga sul futuro dell’Euro mentre si prospettano minacce sindacali in tutti i settori. Si pensa che la Spagna subirà il «rescate» e ne seguirà una lunga lista di notizie negative. Gli incontri dei rappresentanti del governo con quelli dell’Eurozona sembrano tendere a negoziare le condizioni di un possibile «rescate total» dell’economia, anche se non viene sollecitato formalmente. Secondo alcuni nelle conversazioni non si è trattata nessuna quantità concreta ma si è discusso delle raccomandazioni dell’Unione Europea e di un nuovo regime di vigilanza più stretto. La via del «rescate» potrebbe consistere nell’acquisto di debiti spagnoli da parte del Fondo di «rescate» europeo e poi subentrerebbe la BCE con l’obiettivo di ribassare gli alti interessi attuali. In ogni caso l’Esecutivo non prenderà nessuna decisione prima dell’approvazione di altre misure in campo fiscale a livello europeo e della prossima riunione dei ministri di Economia e Finanze dell’Eurozona. La situazione rimane incerta. Alcuni dicono che c’è bisogno di un ottimismo responsabile e si richiamano allo spirito patriottico. Dicono che la Spagna ha attraversato momenti anche peggiori nella sua storia da cui ha saputo venir fuori e niente impedisce che possa accadere anche ora. In questo quadro emergono le critiche alla cancelliera Merkel, poco


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europeista e preoccupata soltanto dell’influenza tedesca da allargare ovunque e dell’esito delle elezioni in Germania. Qualche segno di miglioramento si manifesta nelle esportazioni, in cui grandi e piccole imprese si stanno aprendo una via fuori della Spagna; nella prima metà dell’anno il turismo è aumentato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I prezzi degli immobili lungo la costa sono diminuiti e questo ha favorito l’entrata di tanti turisti invogliati anche da un clima favorevole e da servizi che appaiono ai livelli dei Paesi più avanzati. È anche un luogo comune, si dice, affermare che la Spagna ha una cattiva economia ma ci sono anche delle imprese eccellenti che creano posti di lavoro ed anche nelle banche spagnole ci sono multinazionali di successo mentre si assiste talvolta all’emergere del software e della tecnologia spagnola. Laureati eccellenti escono da scuole di ingegneri, facoltà di medicina ed altri campi professionali ottenendo validi riconoscimenti a livello internazionale. I licenziamenti nelle amministrazioni pubbliche dimostrano poi che, al di là degli scontri politici, ci sono sintomi di una maturazione di coscienza volta a combattere gli sprechi. Certo la disoccupazione tocca picchi mai raggiunti prima e un’inchiesta ha rivelato che il 30 per cento degli spagnoli rifiuterebbe un impiego al di sotto dei 1.000 euro di paga e una percentuale anche maggiore non accetterebbe mai un lavoro per meno di 800 euro. Il presidente degli industriali Rosell ha dichiarato che la situazione è caratterizzata da una grave spossatezza ma non ci si trova in uno stato di catastrofe. Bisogna spendere molto meno, privatizzare i servizi dove occorra ed eliminare strutture amministrative inefficaci. Non bisogna diffondere il panico in Spagna perché la situazione coinvolge tutta Europa e Moody’s ha prospettato di togliere la tripla «A» anche alla Germania. È tutta l’Europa che deve cambiare modello. La Spagna è

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in crisi ma ha anche i meccanismi di manovra per poterla superare sia pur lentamente. Sul «rescate» Rosell ha detto che bisogna parlare anche di aiuti finanziari quando l’economia non ha liquidità, senza di che tutto si deteriora. Bisogna ridurre il deficit pubblico, sopprimere organismi superflui, evitare gli sprechi e ridurre gli indebitamenti come stanno facendo le imprese. Sulla disoccupazione Rosell ha dichiarato che la Spagna aveva creato più lavoro di altri Paesi europei ma non ci si è accorti in tempo di quando la situazione ha cominciato a peggiorare e c’è stata molta lentezza nel correre ai ripari. Ci si è abituati a pensare che ad ogni soluzione debba pensare soltanto lo Stato, che da parte sua ha prodotto interventi sbagliati in vari campi. Tante sovvenzioni sono state concesse alle cosiddette ONG che dovrebbero invece lavorare in altro modo e tanti aiuti internazionali, in misura scandalosa,, sono stati mangiati da varie strutture arrivando soltanto in minima parte alla destinazione finale. Il problema dell’economia spagnola è di gestione ed investe anche la sanità e l’educazione in cui le spese si sono moltiplicate in modo squilibrato. Ci si chiede talvolta perché i funzionari preferiscano la sanità privata a quella pubblica. Il fatto è che il servizio privato o pubblico deve funzionare ma quando il primo non funziona si chiude mentre il secondo si mantiene per interesse politico. Altri Paesi europei hanno fornito migliori servizi al cittadino e faticano a comprendere lo stato autonomico spagnolo. Bisogna andare verso nuove e più responsabili forme di gestione ed in molti casi bisogna sviluppare una maggiore centralizzazione diminuendo i poteri autonomici specie nel campo del lavoro. Lo Stato stesso deve responsabilizzarsi perché, come è accaduto con l’IVA, quel che si abbassa da una parte si rialza dall’altra nel campo della tassazione. Ora l’esportazione, che è salita, può diventare la via di uscita dalla crisi.

Gino Cortelazzo (Este, 31 ottobre 1927 - Este, 6 Novembre 1985) è stato uno scultore italiano.

Luce oro argento. Le sculture di Gino Cortelazzo Quando la materia incontra la luce e si lascia plasmare dalle mani esperte dell’artista, si trasforma in opera d’arte. Vere e proprie “opere d’arte-gioiello”, da scoprire e contemplare nella loro essenza più pura: luce, oro e argento, in un sodalizio tra l’eleganza tradizionale dell’oggetto antico e la bellezza siderale di questi frammenti di poetica contemporanea. «Per Cortelazzo – descrive Stefano Franzo – il gioiello deriva sempre dalla stessa concezione della scultura, realizzata però con un materiale nobile che è tale solo per l’orafo».


TERZA PAGINA La Destra e la bestia di RICCARDO SCARPA A SETTEMBRE s’è riaperta la caccia, e fino a Gennaio, secondo il calendario venatorio, nelle campagne tutto viene e verrà calpestato da cittadini maleducati che sparano ad ogni cosa si muova, dai passeri ai sorci, mentre nelle aziende faunistico venatorie due giorni a settimana i più danarosi sparano e spareranno a fagiani ed altro d’allevamento, seminati la sera prima, e quindi ad esseri indifesi e spaesati nel nuovo ambiente dove si trovano. Conobbi molti cacciatori in famiglia, cioè in una famiglia d’agricoltori, militari e medici veneti e friulani pei quali quella era gioco antico d’astuzia colla preda, che ebbe allora buona possibilità di scamparla e riprodursi; nulla a che fare con la sguaiata macelleria dell’attuale plebaglia urbana in trasferta fuori porta. Un comportamento penoso, che disonora la specie umana. Non sono contro la caccia, ma per una regolamentazione d’essa. È vero che oggi, per cacciare, occorre una licenza e per ottenere quel patentino è necessario superare un esame, severissimo, sulle specie protette e, quindi, non cacciabili, o sulle distanze minime da tenersi dalle case e quant’altro; ma avuto il pezzo di carta la gentaglia di quello che ha dovuto studiare se ne infischia. Le regole dovrebbero essere cambiate sulle armi, per restituire un minimo quasi di parità ai competitori. Personalmente manderei tutti a caccia con l’arco, lo spiedo pei cinghiali ed il falcone per chi ha l’abilità d’addestrarlo; ma se proprio si vogliono armi da fuoco, già la vecchia doppietta mi pare un eccesso, meglio un colpo solo e quindi tornare ai fucili ad avancarica. Quanto alle aziende faunistico venatorie, dovrebbe essere loro impedito di seminare selvaggina i giorni innanzi le battute, sarebbe necessario l’obbligo di farla crescere e riprodursi sul terreno nei lunghi mesi di chiusura della caccia, tra Febbraio e Agosto, perché essa possa ambientarsi, inselvatichirsi e scaltrire. Questa sarebbe una legge di Destra! Cos’è la Destra? Prima di chie-

dersi se tornare ad Itaca o restare a Troia («Troia, Troia, Troia? Questo nome non m’è nuovo …», diceva il buon Totò) bisognerebbe avere una carta nautica per sapere dove siamo e dov’è l’isola. La Destra non è il Fascismo, sul modernismo del quale persino Julius Evola ebbe dei dubbî, né di per sé la Destra storica degli eredi del Conte di Cavour, che ad un liberale come me andrebbe bene, ma è un atteggiamento nei confronti del mondo: un’inclinazione alla conservazione o restauro del naturale contro l’artefatto, dell’autentico invece della contraffazione, nelle leggi, nelle istituzioni e nella vita. Un autore di Destra è, senza dubbio, Konrad Lorenz. Il sentire di Destra non è ideologico e, ancora prima d’essere etico, è etologico, guarda i comportamenti e sa che l’essere umano, proprio in quanto animale razionale, è innanzitutto animale e quello che lo accomuna a quanti d’altre specie è l’anima, e ciò che lo distingue lo spirito individualizzato. Il sentire di Destra è per la proprietà privata non in quanto antisociale ma poiché sa che l’essere umano è territoriale, e mentre il suo cane marca il territorio con la pipì egli lo fa coi termini dei confini. Ed è anche animale di branco, i popoli hanno bisogno delle Patrie, anche se queste possono organizzarsi e federarsi in Stati Uniti d’Europa. Non è che un’altra dimensione della Patria, il romano fu cives d’una piccola città Stato latina e lo rimase d’un Impero ecumenico. L’umano ha dei diritti in quanto uomo ed in quanto cittadino, perché ha una natura antropologica che và tutelata per tale, ed in questa rientra il suo carattere d’animale comunitario, che vive nello Stato. L’essere umano il cui cuore batte a Destra, anche se spesso ha il portafoglio a sinistra è questa è la differenza col radical-scic, non è contro l’Euro o per la liretta, sarebbe idealmente per gli Zecchini, cioè per un conio in buon oro, ma s’adatta alla carta moneta purché torni, se del caso, ad essere pagabile a vista al porta-

tore nel prezioso metallo e, comunque, considera con diffidenza, sente aria di truffa nel veder svanire ogni concretezza tangibile nella virtuale moneta elettronica. L’uomo di Destra è contro i matrimonî omosessuali non poiché è omofobico, fatti loro, ma in quanto il matrimonio serve a rendere stabile il rapporto procreativo. Infatti i bimbi non nascono in piedi come i puledri, hanno bisogno d’anni per diventare autosufficienti nel fisico e di almeno un ventennio per essere educati ed istruiti a stare al mondo; quindi, abbisognano d’una famiglia; mentre i rapporti omosessuali non sono procreativi. Ripeto, sono certezze etologiche non giudizî etici. In genere, con buona pace di Karl Marx e Friedrich Engels, la sinistra è ideologica, la Destra etologica. Essa sa che l’uomo attinge alla luce dello Spirito, ed in questo ha la sua eticità e le ragioni dell’uguaglianza fra gli esseri umani; sa che al cuor non si comanda, e quindi che và rispettata e tutelata la libertà, la sua anima libera; ma in definitiva non si dimentica mai di quale bestia lui stesso sia, preso nei suoi istinti corporali, e che proprio essi lo fanno universalmente fratello d’ogni animale della sua specie, e delle altre.

KONRAD LORENTZ


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IL BORGHESE

LA VERITÀ SU ENZO GROSSI ED IL «BARBARIGO»

Tutto per l’Italia, in cambio solo calunnie di ENZO SCHIUMA SE C’È un uomo nell’ultimo conflitto mondiale che alla Patria ha dato tutto, ricevendo in cambio calunnie, contumelie e il disconoscimento totale dei suoi meriti, questo è Enzo Grossi, l’invitto comandante del sommergibile «Barbarigo». Su di lui e sulle sue imprese, nonostante i 70 anni trascorsi, grava ancora l’oscuramento più cupo. Soltanto pochi, i più anziani, ricordano di lui che nel lontano 1942 il suo nome e le sue gesta interessarono più volte i bollettini di guerra, i giornali-radio e le prime pagine dei quotidiani. Ebbene, consultati gli archivi della Marina militare e trovato quel che qui riportiamo, possiamo ridare piena luce alla figura del signor nessuno, che se ignorato in morte, in vita ... è esistito eccome. Nella notte tra il 19 e il 20 maggio di quell’anno, il sommergibile «Barbarigo», al comando del capitano di corvetta Enzo Grossi, era in azione lungo le coste brasiliane. Costruito nei cantieri di Monfalcone, il «Barbarigo» era un battello che poteva tenere il mare per intere settimane. «Quella notte, tuttavia», precisa Vinicio Araldi in un servizio sulla rivista navale Le Marine, «non è nelle condizioni migliori per dare il meglio di sé: l’allagamento d’una batteria costringe il comandante a navigare in superficie, in acque non sicure perché battute dalla flotta statunitense.» È quasi l’alba, quando improvvisamente un cacciatorpediniere nemico esce dalla foschia. Il comandante Grossi ordina l’attacco, quando la sagoma di un’altra nave si staglia sulla sinistra, la visibilità è scarsa ma è certamente di grande tonnellaggio. Dalla preda piccola la mira passa alla grande e alla distanza di 500 metri vengono lanciati due siluri, e dalla fiancata della nave nemica si levano due fiammate seguite da scoppi quasi simultanei. Non c’è dubbio, il colpo è riuscito. In molti dalla torretta hanno visto e tutti a bordo hanno sentito. Il comandante si concerta con i suoi, concludendo che debba trattarsi d’una corazzata: il boccone più

ambito. Alle 7 del mattino viene dato l’annuncio alla base di Bordeaux e da questa a «Supermarina», a Roma, dove desta grande sensazione. Si vuol essere certi dell’obiettivo raggiunto e, come d’uso, si richiedono a Grossi ulteriori informazioni. Alle 21 della sera questi comunica: «Sì, ripeto, unità nemica affondata. Aveva entrambi alberi traliccio, quattro torri, due fumaioli et altro corrispondenti nave battaglia classe California U.S.A.». Il 22 maggio, superando le riserve di «Supermarina», il Comando Supremo dispone l’emanazione del bollettino straordinario n.721 con cui dà notizia dell’impresa. Il giorno dopo al Comandante Grossi viene comunicata la promozione a capitano di fregata e concessa la medaglia d’oro. Il suo nome diviene subito popolare: la sua foto è sulle prime pagine dei giornali e la sua impresa celebrata su tutti i rotocalchi. Da parte americana non si hanno invece né conferme né smentite. Non passano cinque mesi che il 6 ottobre l’avventura si ripete: alle 5,40 un altro messaggio sensazionale viene trasmesso dal «Barbarigo» alla base di Bordeaux: «Seconda corazzata affondata, questa volta del tipo Mississippi». La fortuna a molti pare eccessiva e i vecchi dubbi riemergono: un errore è sempre possibile, specie in mare e di notte. A «Supermarina» si vorrebbe attendere il ritorno di Grossi alla base, ma è tempo di rovesci: l’offensiva inglese ad El Alamein è in pieno svolgimento e allo Stato Maggiore necessitano buone notizie. Nel pomeriggio è diramato un altro bollettino straordinario: «Questa notte alle 2,34 ora italiana, a circa 320 miglia a sud ovest di Freetown (Africa Occidentale), il sommergibile “Barbarigo”, comandato da Enzo Grossi, ha attaccato una corazzata statunitense che, colpita da quattro siluri, è stata vista affondare». Sulle prime l’euforia torna a riesplodere. Al comandante Grossi si rinnovano i riconoscimenti: una nuova promozione a capitano di

Ottobre 2012 Vascello e un’altra medaglia d’oro; e da parte tedesca, due croci di ferro, con le congratulazioni dirette dell’Ammiraglio Raeder. Da parte degli USA si ha stavolta invece un’isterica reazione. Il 7 ottobre la Reuter dirama un comunicato in cui si afferma, circa l’affondamento da parte italiana d’una loro corazzata, che «la Marina degli Stati Uniti si rifiuta di fare qualsiasi dichiarazione». Perché rifiutare una dichiarazione se questa può consistere in una semplice smentita? Un altro elemento a suo favore gli perviene da un rapporto inviato dall’allora Capo del SIS (l’insospettabile ammiraglio Maugeri, noto per le sue intelligenze col nemico) al Servizio Informazioni della Marina, in cui si riferisce «che in una taverna a Tangeri è stato udito un discorso tra marinai che dichiaravano di provenire da Freetown, dove era stata affondata la loro corazzata». Cosa confermata da un ufficiale greco, ritenuto allora rintracciabile (da De Gasperi, secondo il rapporto), a cui era riferita l’annotazione «che non aveva alcun interesse a mentire in favore della Marina italiana». Ed ancora a Taranto, nel 1944, l’ammiraglio americano Ziroli, che, sulla questione, elogia il comandante del «Barbarigo» che «ha operato con abilità e con valore ma non ha affondato nessuna corazzata». E a chi gli chiede cos’abbia allora affondato, risponde: «La guerra non è ancora finita… » Ma nonostante ci sia molto a suo favore, quando le cose vanno male il dubbio trova sempre i suoi spazi. Si aggiunga che dopo l’8 settembre il comandante Grossi rifiutò la resa e aderì alla RSI assumendo il comando di «Betasom». Per la prima e la seconda ragione, si fa largo la convinzione che le imprese di Grossi siano state due colossali «sviste» dovute alle condizioni di visibilità. Ma è a guerra finita che si diffondono le illazioni più apertamente denigratorie, al limite della calunnia. A diffonderle sono proprio i suoi nemici americani, che soltanto alla fine del conflitto si decidono a smentire, quando la campagna diffamatoria trova facile accoglimento nell’establishment antifascista che governa il Paese. Sicché contro di lui, vinto e indifeso, infieriscono senza ritegno gli amici postumi e primigenii della sconfitta. Arrestato e processato, per aver ritorto le accuse ai suoi accusatori, viene assolto e va in Argentina, a Buenos Aires, ad attendere che finiscano la polemiche. La Marina, per il vero, non parteci-


Ottobre 2012 pa all’offensiva cannibalesca contro di lui, ma si limita per quel che può all’accertamento della verità. Ci si chiede come sia possibile che comandante ed equipaggio abbiano potuto «sognare» le loro imprese, così ricche di particolari, se in entrambe gli obiettivi sono stati mancati? Se le due versioni non collimano, una delle due sarà mendace. Grossi ha detto la sua verità, gli americani dicano la loro. Se il nostro ha sbagliato - perché soltanto di sbaglio può trattarsi: come potrebbe un comandante indurre l’intero equipaggio alla correità senza perderne la fiducia? - dicano gli americani contro che cosa ha lanciato i suoi siluri e cosa ha visto affondare? Si nomina una Commissione Tecnica d’Inchiesta, presieduta dall’Ammiraglio di Squadra Emilio Brenta, che, esaminati attentamente i fatti e consultati inglesi e americani, il 18 agosto 1949 così si esprime: “nel corso delle due azioni del “Barbarigo” non venne attaccata nessuna nave da guerra statunitense o britannica o di altra nazione alleata». Dopo di che, il Ministero della Difesa invia all’ex comandante del «Barbarigo» una «riservatapersonale» con la revoca della medaglia d’oro e delle due ultime promozioni. Enzo Grossi, convinto che nulla potessero le ragioni del vinto contro l’ostinazione a negare dei vincitori, inviò una risposta altera che fu ritenuta offensiva nei riguardi del Capo dello Stato, da procurargli una condanna in contumacia. Ne cito qualche passaggio: «Tutti sanno, che in entrambe le occasioni, attaccai, silurai e affondai in superficie, ciò significa che oltre a me, almeno altre sei persone videro i siluri colpire i bersagli e udirono gli scoppi che ne seguirono. Vi concedo l’allucinazione collettiva, ma gli scoppi furono sentiti anche dall’interno dello scafo. E come mai nella seconda azione la corvetta inglese, sfuggita ai siluri, non speronò il sommergibile che era lì a galla vicinissimo? Certamente non per fellonia, ma perché preferì rinviare la partita col sommergibile dopo aver assolto il suo compito primario di soccorrere i naufraghi della nave affidata alla sua scorta, che colpita da siluri stava affondando». Poiché, evidentemente, alcuni suoi interrogativi devono essere apparsi più che fondati, viene promossa una seconda Commissione Tecnica d’Inchiesta, presieduta dall’Ammiraglio di Divisione Nicola Mursi, che in data 22/12/1962 presenta una nuova relazione, in cui si ammette che nella prima

IL BORGHESE «v’erano coincidenze temporali non collimanti». La seconda commissione poté così accertare che in quel giorno, a quell’ora, fuso orario di Roma, una nave americana, «probabilmente un incrociatore» era stata silurata e che le tenebre, foschia od altro potevano aver favorito l’equivoco. Quanto al nome della nave affondata: Top Secret! Comunque, per la prima azione, Grossi non aveva né mentito né sbagliato, se si considera che la marina statunitense privilegia le portaerei, rispetto alle corazzate, facendo grand’uso degli incrociatori costruiti come vere e proprie navi da battaglia. Quanto alla seconda azione, si cita soltanto la dichiarazione della corvetta inglese «Petunia» «di essere riuscita a evitare i siluri, ma avendo le apparecchiature antisommergibile non attivate, reagì tardivamente col lancio di bombe di profondità». Ma se il «Barbarigo» navigava in superficie, evidentemente sono «balle» e non bombe di profondità! Dunque, la figura morale del comandante Grossi esce da questa tormentata vicenda pienamente riabilitata. «Se errori da parte sua ci sono stati», riconoscono gli inquirenti, «ciò rientra tra quelli che specie di notte si sono verificati, anche da parte di inglesi e di americani». Come si vede la nuova Commissione non s’è fatta influenzare da pregiudiziali «resistenziali» facendo sue le ragioni di Grossi, per quel che è stato e che per essa era rimasto: un valoroso ufficiale della Marina italiana, contraddetto con animosità dall’ex nemico. Di questo gliene diamo atto. Ma non ha completato il suo compito di rendergli giustizia piena, restituendogli il dovuto. Probabilmente la Marina la sua parte l’ha fatta, è stata la volontà politica, interessata soltanto a non dispiacere agli americani, che ha imposto il suo «no» al prosieguo delle ricerche. Sicché, tornato in Italia nel 1958, il signor nessuno, alias Enzo Grossi, si ritira a Corato, in Puglia, presso un parente e vi muore l’11 agosto 1960, senza quasi fare notizia. Che dire? Stando così le cose e considerato il nostro impegno passato e presente in Irak e Afghanistan, non potremmo pretendere dagli alleati americani un maggior rispetto per le nostre richieste rimaste in sospeso? Non dovrebbe essere difficile per il nostro Ministero della Marina farsi carico di richiedere presso la Marina statunitense il dovuto completamento dell’inchiesta, onde onorare come merita un eroico combattente del mare?

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Sempre avanti di FERNANDO TOGNI LA LETTURA dell’ultimo libro di Giampaolo Pansa, TIPI SINISTRI - I gironi infernali della casta rossa pag.430 RCS Libri, Milano 2012 - Ed. Mondolibri luglio 2012, terminata nella settimana di ferragosto, m’ha indotto a rileggere quanto gli avevo scritto privatamente a fine gennaio 2010 a commento del suo Il revisionista" - RCS Libri, Milano 2009 - Ed. Mondolibri ottobre 2009. Ciò ha rafforzato la decisione di scrivere il presente articolo. Mi limiterò a poche osservazioni poiché quanto ci viene raccontato è testimonianza e d’una chiarezza solare. Accenno all’abituale garbo del vocabolario di Pansa: già in copertina l’aggettivo «sinistri» gli dà occasione d’indicare un’area politica e lasciare nelle sfumature che è anche sinonimo di funesti. Il nuovo corso di indagini e attestazioni realizzato da Pansa su un particolare binario è cominciato dieci anni fa pubblicando I figli dell’aquila. I volumi sono stati parecchi; li ho letti quasi tutti. Pansa spesso premette a questi libri poche pagine di orientamento, titolandole: «Prologo» o «Al lettore». Lo fa anche nell’ultimo, dove, nelle prime righe, scrive: «Non sono né di destra, né di sinistra, né di centro. Insomma non sono più di nessuno». L’affermazione è una risposta a chi gli chiede se è diventato di destra. Pansa - pur mostrando d’essere un ottimo Piemontese - non sarà mai di destra, come io non sarò mai comunista. Sappiamo entrambi, e l’abbiamo già scritto, che certe definizioni sono ormai cianfrusaglie: archeologia di un linguaggio politico che non ha più senso (nemmeno di comodo) se mai l’ha avuto. Gli unici che non l’hanno ancora capito, e soprattutto dimostrato, sono le poche (troppe) migliaia di professionisti politici italiani a tutti i livelli (con eccezioni rarissime come l’oro nei fiumi). Oggi comunque l’etichettare è come aggiungere acqua al brodo. Montanelli diceva: «Gli Italiani sono socialisti e non lo sanno». Avrà certo pensato, ma non l’ha scritto: «Gli Italiani sono cattolici, però non se ne


64 rendono conto nemmeno dopo quattrocento anni». E lo dico naturalmente con riferimento politico, non religioso. In Tipi sinistri Pansa si definisce un qualunquista, anarcoide, che ama l’ordine e la libertà: sarà d’accordo, sorridendo, che l’espressione è molto bizzarra, all’italiana insomma, anche se tutti comprendiamo benissimo - oggi cosa intenda. In altre parole: da noi è già bello quando gli intelligenti - magari reduci da una vita di scelte ed esperienze anche istintive o inconsce - fanno sinceramente, dopo, un bilancio per capire e farsi capire. Il prologo dell’ultimo libro ha per titolo una domanda: «Vinceranno loro?» Esprimendo un dubbio, l’Autore si salva in corner: cioè, vincano gli uni o gli altri, non c’è molta differenza; non perché importi poco a lui o a me, ma perché razionalmente la realtà non offre ricambi adeguati per ora, e nella botte c’è il vino che c’è. Su un particolare non sono d’accordo. Pure Pansa ha di certo pensato ciò che scriverò, ma ha scelto di mitigare il problema ai lettori, ed essi, nella confusione attuale, rischiano di equivocare. Il prologo finisce dicendo: «Tipi sinistri è soprattutto un libro allegro». Se uno sta leggendo il prologo, il libro ormai l’ha comprato, quindi lo scopo promozionale è stato raggiunto. Ma se 50/100.000 Italiani acquirenti fanno felice l’editore, sono i 60 milioni di persone della nazione italiana che vanno esortati a smettere di ridere e sorridere, pur sempre preferendo libertà e democrazia al cazzotto educativo. Ciò che Pansa racconta è tutto vero e per niente divertente. La situazione è più che drammatica - anche se al massimo prevale lo smarrimento sulla consapevolezza - e sono i 60 milioni che devono decidere di darsi una mossa, se tra un secolo dovrà essere cambiato qualcosa. Arrivati a certi eccessi, è dura ma occorre anche operare senza equivoci a ridurre il mondo, l’atmosfera, l’illusione delle scommesse: la vita non è un bingo; gli ipocriti moralismi sono al capolinea, anche se i puritani esisteranno sempre. Quindi il prossimo rinnovo del Parlamento, il cambio al vertice della Repubblica, l’indispensabilità delle riforme - indilazionabili (Taranto è un esempio) e pure costituzionali, economiche, burocratiche - sono episodi in un quadro ben più grande pesante e incombente. Non dubito d’essere stato capito (anche dalla destra!). La seconda Repubblica - ormai finita - è servita prevalentemente a far

IL BORGHESE intendere che non sappiamo immaginare come sarà la terza; però fare l’ipotesi che non potrà essere quella della svolta è più che logico, poiché le macchine a tasti per ora non producono persone (per fortuna). Trovo brillante, saporita l’idea di Pansa di collocare i suoi «Tipi» in dieci gironi infernali, che trascrivo per condensare in poco spazio l’originale impostazione dell’Autore: ciascun lettore intuisce tutto il resto con la sua fantasia. Nell’ordine i capitoli sono questi: Invincibili - Sconfitti - Superstiti - Isterici - Apprendisti - Indignati - Bolliti Dispersi - Rinati - Inguaiati. Non scrivo l’elenco dei quarantuno personaggi (e di tanti altri a contorno). Si fa comunque presto ad intendere la differenza fra Carlo De Benedetti e Bertinotti, Eugenio Scalfari e Fassino, fra Tremonti e il killer Battisti (in Brasile) e Toni Negri (che è ormai in Italia libero e tranquillo, con editori di blando pudore che pubblicano i suoi libri, firmandoli Antonio Negri per aggirare i reati penali che lo riguardano e i lettori disattenti). C’è invece affinità tra Vendola e Agnoletto (comune radice in Rifondazione Comunista) come tra D’Alema e Rosy Bindi (chi l’avrebbe detto). Anche Pansa non ha mai negato di venire da sinistra e quella radice gli ha consentito - nel colore della informazione e cultura dominanti - di scrivere per quarant’anni. Ha voluto fare solo il cronista (d’alto rango) di cose italiane. Nel tempo libero s’è rifatto con i libri che ha pubblicato. Enzo Biagi e Giorgio Bocca (simili ma diversi) visti su una linea d’orizzonte sono a 180 gradi da Pansa, anche soltanto perché egli non ha la loro presunzione e animosità. Un articolo non concede spazio per lunghe spiegazioni (che possono pure annoiare) ma i lettori italiani - quando vogliono - sanno leggere molto bene le righe e tra le righe. Usando l’ironia del Nostro, che se ne è servito per alleggerire un po’ le pagine di fatti e comportamenti drammaticamente spiacevoli, io pure mi lascerò andare a una considerazione più leggera. Transessualità - stando a un vocabolario medico elementare sappiamo significa ripulsa del proprio sesso e desiderio di passare all’altro. Però il prefisso della parola senza dubbio esprime soltanto passaggio. Avete già capito il giochino. I «Sinistri» (non soltanto quelli purtroppo) data la loro immagine di partenza, colpiscono più degli altri nei successivi approdi a diverse sponde dopo la liquefazione

Ottobre 2012 (1989) di una utopia durata settant’anni ad un prezzo pazzesco di vittime umane. Tale fu la dottrina politica di Lenin radicale e violenta, eticamente falsa e culturalmente ipocrita. Con riferimento alla realtà italiana, mezzo secolo di gestione democristiana - in proprio o in società - guardando il quadro degli eventi accaduti è lì a dimostrare il nostro ritardo, l’arretratezza d’una cultura bloccata. Fingiamo di sorridere, concludendo che un paese di galli ha dato vita a un ibrido di trans. E la comunità nella quale oggi fatichiamo a galleggiare è un’Italia paranoica, che nei momenti di malinconia può fare tenerezza ai 60 milioni come vedere un monumentale cactus in una sconfinata area riarsa dell’Arizona. Oltre due anni fa scrissi a Pansa che non sapevo se, dopo Il revisionista ci fosse spazio per continuare su quel binario. Oggi pubblicamente - compiacendomi con lui - cambio la conclusione. Giampaolo Pansa continuerà a scrivere nei prossimi trent’anni (e non mettiamo limiti al Padreterno) anche perché occorrono I TIPI come lui (che non sono quelli dell’ultimo libro) e sono rimasti in pochi. È ciò che gli auguro di cuore, anche se non si usa più. Negli anni ‘70 gli eroi dell’epoca (sinistri) non trascurarono di accoppare pure i giornalisti: il nome simbolo rappresentativo è quello di Andrea Casalegno, Nel 1980 anche Pansa era stato designato. L’angelo custode lo protesse (come nel 2010 fece con Belpietro) e uccisero Walter Tobagi invece di lui. Credo che in questi ultimi tempi - vedendo il comportamento del suo vecchio ambiente contro di sé - Giampi possa essere stato sfiorato da una umana riflessione sul rischio fisico. Ebbene, nonostante il marasma, sempre avanti Pansa: con la nostra anagrafe e sincerità, ci fa un baffo.


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IL BORGHESE

IL MUSEO ANDERSEN A ROMA

Il sogno di una Capitale mondiale di RICCARDO ROSATI NELLA zona del quartiere Flaminio sorge una seminascosta palazzina di tre piani in stile neorinascimentale. Questa si inserisce con gusto e armonia nella complessa urbanistica della zona, che presenta varie tipologie edilizie tra la fine del XIX, fino al XX secolo inoltrato. Al suo interno si trova il museo dedicato alla figura di Hendrik Christian Andersen: norvegese di nascita (Bergen, 1872), americano di educazione e italiano per scelta. Difatti, fu proprio l’amore per le bellezze del nostro Paese che lo spinse a passare gran parte della sua vita in Italia e in particolare a Roma, dove morì nel 1940, lasciando tutto quello che possedeva in eredità allo Stato. All’interno della palazzina sono allestite praticamente tutte le opere dell’artista, insieme a vari cimeli di famiglia. Il museo presenta una suggestiva collezione formata da numerose sculture, di cui circa quarantasette di grandi dimensioni tra gesso e bronzo, oltre duecento dipinti e più di trecentocinquanta opere grafiche. Tuttavia, l’aspetto singolare di questa raccolta è rappresentato dal fatto che essa è quasi esclusivamente legata a un progetto per una grande Capitale Mondiale, destinata a essere la sede internazionale di un perenne laboratorio di idee nel campo delle arti, delle scienze, del pensiero filosofico e religioso, chiamata World Centre of Communication. A tale progetto e alla sua diffusione Andersen dedicò la sua intera esistenza, sostenuto economicamente e moralmente dalla ricca cognata Olivia Cushing, moglie del fratello Andreas, morto poco dopo essersi sposato. La struttura della casa-museo presenta due grandi atelier al piano terra: una galleria o sala di rappresentanza per l’esposizione delle opere finite e un laboratorio per la modellazione delle forme, costituendo in tal modo un suggestivo scenario nel quale si inseriscono le monumentali

figure create da Andersen sui temi dell’amore, della maternità, del vigore fisico, dell’intelletto che trionfa sulla forza bruta. Un’altra parte fondamentale della collezione è rappresentata per l’appunto dai grandi progetti per la sua città ideale, a cui appartengono quelle figure di eroi, di eroine e della loro progenie che popolano tutto il piano terra. Andersen non può certo essere considerato un artista celebre. Egli, sebbene incoraggiato da amici e parenti a proporsi come autore di busti, per i quali riscuoteva un discreto successo specie nella cerchia degli intellettuali stranieri di passaggio a Roma, continuò pervicacemente a scolpire le sue imponenti figure; opere non soltanto senza committente, ma soprattutto fuori da qualsiasi logica di mercato. Il progetto per una capitale mondiale dovrebbe essere considerato come una «gloriosa utopia» che fu per Andersen quasi una ossessione. Ciò traspare nelle stanze della palazzina, dove pressoché ogni cosa racconta, più che la vita di coloro che vi hanno dimorato, delle ansie e specialmente dei sogni di Andersen e Olivia per un mondo migliore, facendo metaforicamente di questo museo un moderato «pamphlet» dove si propone una idea, forse sarebbe meglio dire una visione, sorprendentemente vicina a quel fenomeno che noi oggi chiamiamo globalizzazione. L’artista auspicava infatti un mondo universale, senza confini nazionali, in cui il progresso e l’arte potessero affrancare l’essere umano da ogni meschinità, rendendolo infine libero. È giusto non liquidare la visione di Andersen come il mero sogno di un utopista, poiché gli anni del concepimento del suo progetto furono fortemente influenzati sia da un movimento pacifista internazionale guidato da una colta borghesia, che dal fenomeno delle fiere mondiali. In effetti, il World Centre of Communication è da un punto di vista progetti-

Ottobre 2012 stico e concettuale molto vicino alla idea di una grande fiera dove esporre il meglio della produzione umana in ogni settore. Il Museo H. C. Andersen si attesta come uno scrigno particolarmente curioso nel pur vastissimo panorama museale della Capitale, contraddistinguendosi in quanto luogo dalle molteplici caratteristiche. Per prima, quella di appartenere chiaramente alla tipologia della casa-museo, fattore che conferisce alla collezione un valore non solamente artistico, ma anche storico-sociale: la vita degli Andersen fa parte delle vicende legate alla borghesia internazionale residente a Roma fino a prima della II Guerra Mondiale. Il Museo è inoltre un centro di riflessione, più che di pura ricerca, sull’architettura e sull’urbanistica su grande scala. Concludendo, la città sognata da Andersen ha in sé delle chiare aspirazioni politiche, le quali, come già affermato, si inseriscono nel movimento internazionalista sostenuto dalla borghesia intellettuale di inizio Novecento. La maestosa retorica delle sue sculture, ospitate nel silenzio di questa «teca» dalle molteplici utopie, mostra come un grande progetto urbanistico fosse in verità uno studio per un homo novus, privo di qualsivoglia interesse di casta, il quale aspirava a farsi da solo, grazie alla cultura e all’amore per la classicità. Un individuo dunque simbolo di una middle class erudita e cosmopolita, decisa a dettare le regole morali per il futuro. Regole che nel caso di Andersen non sono state altro che semplice utopia. Ciononostante, esse rappresentano una visione politica di alto valore morale, che sarebbe forse interessante rileggere con l’ottica contemporanea, per accorgersi che le soluzioni pensate quasi un secolo fa da Andersen hanno in buona sostanza anticipato l’avvento della globalizzazione. A tal proposito, va fatta una fondamentale precisazione, ovvero la società auspicata dall’artista non aveva però nulla a che vedere col sordido brodo multiculturale di oggi, se non quello di essere transnazionale, giacché essa era pensata come una comunità di virtuosi, dove la cultura e la ricerca erano viste con devozione religiosa. Infine, l’aspetto spirituale, in questo caso interconfessionale, era cruciale in questo progetto e, cosa fondamentale, il denaro/mercato, oggi il nostro unico dio, non aveva alcuna importanza.


IL GIARDINO DEI SUPPLIZI NOSTRA SIGNORA TELEVISIONE

«In Onda» tira una «brutta aria» di LEO VALERIANO

TERMINATA l’estenuante stagione estiva farcita di antiche proposte televisive e vecchie dispute politiche, il mondo dei media inizia la sua nuova stagione. Il periodo estivo ha, comunque, portato sullo schermo televisivo qualcosa di gradevole ed altamente professionale con la trasmissione meridiana di Rai uno, E state con noi in TV di e con Paolo Limiti. Un vero signore del teleschermo che, con garbo, semplicità ed ironia sa riproporre vecchie glorie introducendo, in sordina, autentiche e valide novità. Ci aspettavamo qualcosa in più anche dalla versione estiva di In onda, su La7, nella versione presentata da Natasha Lusenti e Filippo Facci. La presentatrice svizzera, spesso inutilmente aggressiva, ci è parsa simile al famoso formaggio del suo Paese, il groviera: piena di buchi. E da Filippo Facci ci saremmo aspettati una maggiore presenza ed una pienezza che non ha saputo (o voluto) mostrare. Del resto, la performance di Natasha Lusenti, è stata conseguente a quelli che sono stati i suoi momenti più noti: con Enrico Deaglio a Il diario, e con Michele Santoro nella prima edizione di Anno zero. Sempre nel corso dell’estate e quasi in sordina, Aldo Reali, ha rassegnato le dimissioni dalla carica di Consigliere e Amministratore Delegato di Sipra SpA, «recependo le istanze di discontinuità rappresentate dalla Capogruppo». Cose che succedono, in casa Rai. Ma veniamo alle altre nuove programmazioni. Per quanto riguarda la Rai, voglio ricordarlo, questa non può fare a meno di essere caratterizzata dalla presenza della nuova dirigenza in cui fanno spicco il nuovo direttore generale, Luigi Gubitosi, e il nuovo presidente del CDA, Anna Maria Tarantola, entrambi voluti dal Presidente Monti. Conoscendo la tipologia dei personaggi, credo che non dovremmo aspettarci

grosse novità nel breve termine. Qualcosa potrebbe accadere invece, per quanto riguarda la seconda metà del palinsesto invernale. Quella che ci porterà a ridosso delle elezioni politiche. Del resto, il potere (di qualunque tipo) ha bisogno della comunicazione. Accenniamo soltanto un momento a un programma che ha avuto ed avrà qualche ripercussione. Non potendo parlare di altro, per incompetenza o insipienza, i media tornano ad occuparsi di Mussolini. Nei primi giorni dello scorso mese, su Rai3, è andato in onda Mussolini. Il cadavere vivente documentario di Giuseppe Giannotti, Davide Savelli e Clemente Volpini, con la regia di Fedora Sasso. Il programma anticipava la serie prodotta da Rai Educational per Rai Storia: Ben e Clara. Le ultime lettere. Quattro puntate che hanno iniziato ad andare in onda dal 22 settembre ogni sabato alle 23.00, su Rai Storia, Digitale Terrestre e TivùSat. Il documentario riguarda la storia della Repubblica Sociale Italiana in modo particolare. Si tratta di un progetto nato dalla collaborazione tra «La Grande Storia» di Rai3 e «RES-RaiStoria» di Rai Educational per raccontare il periodo della fine del fascismo attraverso le lettere di Benito Mussolini e Claretta Petacci, interpretate per l’occasione da Michele Placido e Maya Sansa. 318 lettere scritte da Benito Mussolini e conservate negli archivi di Stato, tra l’ottobre del 1943 e l’aprile del 1945, diverse centinaia le risposte di Claretta Petacci. Interpretando gli scritti, ci hanno infilato un po’ di tutto: dalla rinascita del Partito fascista alla nostalgia per la fondazione dell’impero, dalla questione femminile nella Repubblica Sociale, dalle riflessioni del Duce sulla crudeltà degli italiani ai commenti personali di Claretta Petacci. A parte la questione del cattivo gusto, i commenti mi sembrano inutili!

Sulle altre reti Rai tornano i soliti ritriti programmi del day time, da La prova del cuoco a L’Eredità, da Radio Londra ad Affari tuoi. Insomma, ci sarebbero tutti i presupposti per buttarsi sull’offerta a pagamento di Sky, se non fosse che i tempi economici sono duri e le famiglie italiane devono tirare la cinghia. E, in qualche caso, anche turarsi il naso. In casa Sky, infatti, si respira un’aria pesante. Intanto, dallo scorso 1° settembre E! Entertainment ha cessato le sue trasmissioni in Italia. Ed ha terminato la sua avventura sul satellite anche Arturo, canale di Sitcom Televisioni che continuerà a trasmettere sul digitale terrestre. Quindi è seguita l’interruzione del canale Mgm, che ha chiuso per diventare una parte di palinsesto all’interno del canale Sky Cinema Classics. La ristrutturazione dell’offerta canali Sky era partita già in estate, con la sospensione in luglio delle trasmissioni di Onda Latina e di Lady Channel. Perfino il canale Disney Xd si è trasformato in HD. È evidente che si tenta di favorire i canali trasmessi in HD, spingendo gli italiani, non soltanto a cambiare televisore ma anche ad estendere il proprio abbonamento con la famosa PayTv, accettando l’offerta dei canali ad alta definizione! Torniamo alle novità de La7. La giornata autunnale si apre, come al solito, con Omnibus, lo spazio dedicato al dibattito in studio con i protagonisti della politica e del giornalismo. Al mattino si alternano alla conduzione Andrea Pancani e Alessandra Sardoni, mentre la nuova edizione notturna, Omnibus Night, è affidata a Edgardo Gulotta e Flavia Fratello. Restano anche Coffee Break e L’aria che tira, la trasmissione di Myrta Merlino che racconta e analizza l’economia più vicina alla vita di tutti i giorni. Cristina Parodi, nuovo arrivo nella rete, apre la programmazione del pomeriggio con un appuntamento quotidiano di circa due ore in diretta dal lunedì al venerdì per raccontare l’attualità, la cronaca ma anche le tendenze e i costumi, con servizi e con l’aiuto di opinionisti in studio e del pubblico da casa. L’Infedele di Gad Lerner, da quest’anno ospita le inchieste di Gianluigi Nuzzi. Al giovedì, nuovo arrivo: Servizio Pubblico di Michele Santoro (con carta bianca e querele a carico) che si alternerà a Piazzapulita di Corrado Formigli. Altra new entry è quella di Se stasera sono


68 qui, il nuovo show condotto da Teresa Mannino che propone un ritratto personale e abbastanza discutibile del Paese che cambia. Il programma In onda ha, attualmente, ripreso la sua veste invernale condotto anche quest’anno da Luca Telese e Nicola Porro e va in onda di sabato in prima serata e di domenica nella fascia di access prime time per lasciare poi spazio alla nuova edizione di Atlantide condotta da Mario Tozzi. Sempre nel corso di questo autunno Corrado Guzzanti sarà protagonista di alcune serate evento mentre nel corso della stagione verrà proposto un lavoro di Marco Paolini, che porterà ancora una volta in televisione il suo particolarissimo tipo di teatro. Inoltre, dopo l’esperienza di Quello che (non) ho, il programma condotto con Fabio Fazio a Maggio scorso, nel 2013 Roberto Saviano potrebbe tornare con un nuovo progetto. Su La7d la nuova stagione comincerà con il programma gastronomico di Simone Rugiati, e Notturno Femminile, un ciclo di film arricchito da immagini d’archivio. A settembre debutterà anche Mister Green, il nuovo programma di Luca Buonaccorsi, fidanzato della Cucciari, anche lei con un programma completamente rinnovato. In Mediaset confermati i programmi più collaudati. Il calcio della Champions League (che dall’autunno non è più in Rai, ma in Mediaset) e dell’Europa League verrà trasmesso da Italia 1 che ha in palinsesto anche il ritorno di Belen con Colorado. Su Rete 4, molto interessante è l’esperimento riuscito di Quarto grado con Salvo Sottile coadiuvato in studio da Sabrina Scampini. Sulla stessa rete dallo scorso mese, rivoluzione del telegiornale con quattro edizioni quotidiane del nuovo Tg4 che sotto la direzione di Giovanni Toti propone una nuova edizione alle ore 14, un nuovo studio, una nuova sigla e una nuova grafica. Per chi non lo avesse capito, a Mediaset tentano di mettersi alle spalle tutto quanto possa essere riferito al padre fondatore del Tg4, Emilio Fede, che si inventò quel telegiornale nel luglio del 1991, dirigendolo per quasi 21 anni fino al 28 marzo 2012. Intanto, ricordo che il 12 settembre scorso l’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea ha bocciato la legge Gasparri. Un fatto formale che, almeno secondo noi, sarà privo di conseguenze di qualsiasi rilievo. A meno che si debba cominciare a parlare di una effettiva dittatura di questa inesistente Europa sugli Stati sovrani che la compongono.

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Il mercato cinematografico di MICHELE LO FOCO IL DATO ufficiale è che il cinema in sala ha perso oltre il 20 per cento che, in molte situazioni, vuol dire oltre il 30 per cento. Il passaggio epocale tra pellicola e digitale, che ovviamente in Italia avviene con grande ritardo, modificherà le metodologie in uso da molti anni per quanto riguarda le copie e la pubblicità. Ma soltanto quando la pellicola sarà un ricordo potremo tornare in equilibrio: oggi la realtà è una scacchiera nella quale chi è attrezzato si salva e chi è in ritardo soffre. D’altra parte è ovvio che l’esercizio, come tutti i negozi, deve adeguarsi alle novità. In Italia sentiamo ancora dire che lo Stato deve intervenire per evitare la chiusura delle monosale in centro. Ma chi è che si può permettere di sopravvivere in perdita? E poi perché? Nelle città grandi le sale centrali sono più che sufficienti ed in provincia ci vuole un attimo per raggiungere un multiplex. La verità è che per produrre film, oggi, bisogna essere dei giocatori d’azzardo. La parola «imprenditore» o «industriale» è finita nel cassetto: le due televisioni che compravano cinema oggi non possono spendere e pertanto si limitano ad un piccolo cabotaggio di diritti digitali pagandoli 8/10.000,00 euro cadauno. Le prime serate dedicate ai film si contano sulla punta delle dita ed il meccanismo di scelta è talmente complesso che ci vuole un bonzo per arrivare alla fine. In RAI prima il direttore editoriale della rete, poi il vicedirettore generale, poi di nuovo la rete poi di nuovo il vicedirettore generale, poi il direttore acquisti di RAI Cinema, poi l’Amministratore Delegato di RAI Cinema. Ognuno talvolta ha la febbre, le ferie, un giustificato malcontento. Il produttore invece, che non ha mai né la febbre né il tempo di riposarsi, deve cercare di capire la sua domanda dov’è, in quale punto si è fermata. E su questa base deve fare i calcoli dei ricavi che sono i seguenti: la televisione è soltanto per pochissimi, quindi zero, l’home-video non esiste

più, zero, l’estero neanche a parlarne, zero. Resta l’incognita sala: una roulette. La RAI in questo ha una enorme responsabilità, avendo posizionato le proprie risorse in maniera folle sulla fiction, impedendo alla sola struttura tecnica professionale che è rimasta, RAI Cinema, di lavorare come sarebbe capace. Continua a foraggiare i soliti produttori raccomandati, i soliti attori raccomandati, i soliti registi commissionando mini serie in due puntate a 2.500.000,00 euro a puntata che l’Europa rigetta, invece di aiutare il cinema, che ha ben altra platea, a risollevarsi dal baratro: più del 50 per cento dei film italiani costano ormai dai 200.000,00 agli 800.000,00 euro. E comunque perdono. Il mercato ovviamente non si può reggere su queste basi. Ma non esiste né il Ministero né un Ministro. Veniamo dagli anni bui di Bondi e Galan e mi sembra che anche oggi domini il buio. Con questi ministri qualunque mercato farebbe fatica a sopravvivere. Gli sconti fiscali vanno bene, ma in un contesto omogeneo di incentivazione che non premi soltanto il prodotto culturale. Andrebbe ripristinato il fondo di intervento per abbassare il costo del denaro, andrebbe ripristinato il reference alla Urbani, vanno agevolate le distribuzioni che sono il vero problema attuale e soprattutto bisogna ricostituire una morale, una democrazia e la parità tra gli operatori. I produttori passano il 70 per cento del loro tempo a cercare di capire come possono «avvicinare» un dirigente, o una sua segretaria, una sua amante, o l’attrice preferita del momento. È una modalità che svilisce il lavoro e uccide la dignità delle persone. Servirebbero spazi pubblicitari gratuiti, le televisioni potrebbero agevolare la pubblicità, dovrebbero nascere trasmissioni sul cinema e dovrebbero morire quelle che ci sono. Inoltre siamo il primo Paese per pirateria grazie al disinteresse dei giudici. I festival, in periodo di crisi, esalano l’ultimo respiro. Venezia langue


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favorita dalla nuova direzione, ed i mercati che con tanta solerzia sono stati innestati sui festival sono pure rappresentazioni teatrali. Le vendite estere sono un ricordo del passato. Nel nostro Paese il giro d’affari assomiglia a otto milioni di euro l’anno, tanto tanto al di sotto di Francia e Germania, e non accenna ad aumentare. In realtà siamo ormai considerati un piccolo paesino, come Malta, ed i grandi produttori, che una volta ragionavano valutando l’Italia il sesto paese più importante del mondo, oggi ci snobbano. Questo panorama può cambiare o è la fotografia di un passaggio irreversibile? Che ci sia un transito storico da una formula ad un’altra non ci sono dubbi. La pellicola sparisce come sono spariti altri supporti, ma con maggiore sofferenza. Tramonta con lei un mondo di celluloide che ha segnato la storia, Kodac, 35 millimetri, Technicolor, la pizza, la moviola. Quanti nomi, ricordi , immagini! Internet travolge tutto, il digitale inonda il terreno come uno tzunami e tutti diventano registi. Si monta con il telefonino e si riprende con l’Ipad, un bambino di cinque anni diventa un tecnico con i fiocchi. Poi c’è la mancanza di soldi che sposa la tecnologia: faccio da solo, scrivo e giro, monto e distribuisco. Il Paese viene percorso da troupe raffazzonate e da giovani pieni di entusiasmo, ma il prodotto è miserabile, mentre gli americani cavalcano Batman, Supereroi e Superuomini conquistando tutti i territori. Il cinema diventa altro, non c’è dubbio, la forbice si allarga, da una parte le megaproduzioni dall’altra il cinemino nostrano, con attoruncoli e testi stentati, il tutto allo stesso prezzo. C’è bisogno di una politica sana, di un ministro che comprenda quello che sta succedendo e che possibilmente se ne occupi: il mercato senza una guida non può non sbandare, soprattutto nel nostro Paese nel quale lo Stato ha preteso di diventare socio occulto dei produttori. Diversamente è meglio che Cinecittà diventi un quartiere di grattacieli e che ognuno si guardi il proprio film fatto in casa, come una volta si guardavano gli album di fotografie.

INTERVISTA A PAOLO GENOVESE

Quando il cinema è «maturo» a cura di ROBERTO INCANTI PAOLO Genovese è, senz’altro, uno dei giovani registi più interessanti del panorama cinematografico italiano. Persona preparata e competente, sotto i punti di vista sia artistico che tecnico produttivo del prodotto filmico, è passato, dagli esordi in coppia con un altro regista, Luca Miniero, alla carriera da solista inanellando, nel corso di un paio d’anni, una serie di successi non indifferenti coniugando, cosa non facile in Italia, i gusti del pubblico, con il consenso della critica. Ci concede quest’intervista in una calda mattinata di inizio settembre, sul set del suo nuovo film: Una Famiglia Perfetta con Sergio Castellitto, Francesca Neri, Marco Giallini e Carolina Crescentini, per una chiacchierata, a tutto tondo, sul cinema, e non soltanto… Maestro, in questi giorni di inizio settembre si trova sul set, intento a girare il suo nuovo film, dal titolo «Una Famiglia Perfetta» in sala, per «Medusa» e «Lotus Production», dal 3 gennaio 2013. Ci racconti, in breve, di questo suo nuovo progetto. Una Famiglia Perfetta racconta la storia di un uomo molto ricco e potente, ma solo e senza una famiglia che, per ovviare a questa mancanza ingaggia, per la notte di Natale, una compagnia di attori, che metta in scena la rappresentazione di una normale famiglia, affinché possa, in un certo qual modo, fare un paragone su come sarebbe potuta essere la sua vita, se ne avesse avuta una anche lui. Chiaramente è un film sulla famiglia ma, finanche, sull’ineluttabilità delle scelte, e le conseguenze che da queste derivino.» Per Lei è stato un anno da non dimenticare: dai successi, correlati dai conseguenti «record» d’incassi, di «La Banda dei Babbi Natale» di Aldo, Giovanni e Giacomo ad «Immaturi» ed «Immaturi-Il Viaggio» culminato, per quest’ultimo, con il premio personale del «Castello

PAOLO GENOVESE Award», come miglior regista, all’«Ischia Film Festival». Che sensazioni sta provando, in questo momento della sua carriera? «Sicuramente un senso di responsabilità maggiore rispetto agli esordi; i recenti successi dei film come La Banda dei Babbi Natale, Immaturi ed Immaturi-Il Viaggio, hanno incontrato i favori della critica ma, soprattutto, i giudizi positivi del pubblico. Quando un autore, o un regista, ha in mente un film, ed inizia a scriverne il relativo soggetto e la sceneggiatura, pensa sempre a “lasciare” qualcosa di personale al pubblico, e che questi esca dal cinema soddisfatto e contento. Poi, certo, il successo al botteghino è importante ma, quando si ha in mente una storia, si pensa sempre a cercar di far sentire meglio le persone.» Lei è stato presidente della giuria tecnica nello scorso «Circeo Film Festival» ed ha iniziato un rapporto di collaborazione con Leonardo Pieraccioni. Con il film che sta scrivendo insieme a lui, di concerto ad «Una Famiglia Perfetta», il Suo personale registro stilistico sta evolvendo verso un linguaggio ulteriormente riflessivo? In che stato versa, secondo Lei,


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ANDIAMO AL CINEMA

ROMANZO DI UNA STRAGE MILANO, venerdì 12/12/1969, alle ore 16.37 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, una violenta esplosione provoca diciassette morti e centocinque feriti. Oggi, dopo quarant’anni e vari processi conclusi con assoluzioni, la giustizia ha gettato la spugna: non ci sono colpevoli ma soltanto indizi e sospetti. Le piste seguite dagli inquirenti sono due: quella anarchica e quella neofascista. Il gruppo anarchico sospettato è quello milanese del Ponte della Ghisolfa guidato dal ferroviere Pino Pinelli. I gruppi di estrema destra indiziati, invece, sono due: Avanguardia nazionale di Stefano delle Chiaie e Ordine Nuovo dei veneti Franco Freda, Giovanni Ventura, Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi. Piazza Fontana è un capitolo drammatico e misterioso della storia repubblicana che ogni cittadino dovrebbe approfondire per capire quali furono veramente i «pupari» e le marionette. Ispirato ai fatti di Milano, è uscito il film Romanzo di una Strage di Marco Tullio Giordana, basato sul libro-inchiesta del giornalista parlamentare dell’ANSA Paolo Cucchiarelli, intitolato Il segreto di Piazza Fontana. Il film, attraverso i due protagonisti, l’anarchico Pinelli e il commissario Calabresi, interpretati rispettivamente da Pierfrancesco Favino e Valerio Mastrandrea, trasmette al pubblico quello che era il conflitto ideologico tra l’eversione e le forze dell’ordine. Calabresi è il vice dirigente dell’ufficio politico della Questura milanese, che ha il compito di sorvegliare gli ambienti eversivi della metropoli lombarda, anarchici, neofascisti ed estrema sinistra marxista-leninista. Giuseppe Pinelli è un’altra vittima di Piazza Fontana, ma la sua morte non sarà causata l’esplosione nella banca. Circostanze misteriose e mai chiarite, lo videro precipitare dal balcone della sala degli interrogatori della questura milanese. Calabresi è incaricato di coordinare le indagini. L’inchiesta, sin dall’inizio, prende la direzione della pista anarchica sulla scorta della testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, che giura di aver accompagnato alla BNA un uomo con una borsa, poi tornatone senza. Rolandi identifica quell’uomo in Pietro Valpreda. Il colpo di scena del film consiste nella teoria delle due bombe, una anarchica e l’altra di matrice neofascista. Gli estremisti di destra veneti di Ordine Nuovo, ispirati dai servizi segreti italiani deviati, secondo la teoria del film, avrebbero lasciato un secondo ordigno nella banca al fine di potenziare l’esplosione della bomba a bassissimo potenziale che non avrebbe provocato vittime per far ricadere la colpa sugli anarchici di Valpreda. L’intelligence italiana, attraverso il SID, Servizio Informazioni Difesa, durante quegli anni aveva infiltrato gli ambienti dell’eversione sia nera sia rossa per strumentalizzarli. Calabresi, alla fine delle sue indagini, individua un disegno oscuro e spietato di alcuni poteri occulti. Una parte dei servizi deviati e alcuni settori della NATO non esitano a compiere attentati in Italia al fine di far ricadere la responsabilità sugli ambienti eversivi di sinistra. Tutto ciò avviene per alimentare la cosiddetta strategia della tensione, creare un clima di paura nel Paese, sospendere le garanzie costituzionali e dare il via libera ad un golpe di destra. Quando Calabresi intuisce questa amara verità ne parla al direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale. Il Prefetto lascia sottintendere che Calabresi si è avvicinato molto alla verità, ma la ragione di Stato deve prevalere. Tutto verrà insabbiato. Dal Viminale parte una campagna di delegittimazione di Calabresi, secondo cui egli è vicino alla CIA. Purtroppo la campagna denigratoria raggiungerà il suo obiettivo: Calabresi, nel maggio del 1972, sarà assassinato da Lotta Continua. Il film di Giordana giustamente si intitola «Romanzo», perché la verità è ben diversa. Sicuramente dietro la bomba vi furono apparati interni ed esteri, ma la morte di Calabresi non fu «interna», ma dovuta ad una campagna di stampa della sinistra che vide in Repubblica il portavoce di coloro che firmarono il famoso manifesto contro il funzionario condannandolo a morte. Ed è per questo che si chiama, appunto, «Romanzo di una strage». ALDO LIGABÒ

Ottobre 2012 al giorno d’oggi, il cinema italiano e la commedia in particolare? «Trovo che la commedia italiana goda di buona salute in quanto, negli ultimi due anni, ci sono state, in successione, una serie di titoli molto riusciti. La commedia cosiddetta “all’italiana” è uno dei capisaldi del nostro cinema; gode, giustappunto, di un pubblico di riferimento molto “fedele”, al quale è giusto donare prodotti interessanti.» Cosa ne pensa dell’attuale momento politico, in Italia? «Ritengo che ci sia, indubbiamente, una fama di disaffezione, da parte dei cittadini, nei confronti della politica; soprattutto da parte della classe medio-borghese. Chi fa il mestiere del regista, o qualunque altra professione che comporti il contatto diretto con una vasta quantità di persone, tocca, meglio di chiunque altro, la “pancia” del Paese e la sensazione che appare è quella di un Paese civile “migliore”, rispetto alla classe politica che lo governa. Gli italiani, dall’imprenditore all’operaio, dal libero professionista al lavoratore dipendente, sono molto più uniti tra loro, di quello che si possa pensare: è per questo che posso capire tutta questa disaffezione nei confronti della politica.» Cconsigli da dare ad un giovane che vuole intraprendere una professione nel settore dello spettacolo? «Di consigli se ne possono dare tanti: il primo è quello di prendere questo lavoro come tutti gli altri, è vero che ci si può trovare a gestire la notorietà e, in un certo qual modo, a dover stare sempre “sotto i riflettori”, però è un mestiere, come tanti altri, fatto di incontri, relazioni, e quindi richiede tempo e dedizione. In secondo luogo, bisognerebbe ricordare che la formazione è molto importante e necessita, quindi, di una gavetta seria e lungimirante, senza affidare tutto alle cosiddette “botte di fortuna”. Infine, non bisogna mai arrendersi.» Futuri progetti in cantiere? «Finire di girare Una Famiglia Perfetta, continuare la stesura del film di Leonardo Pieraccioni e vagliare, infine, un altro progetto cinematografico, ancora in fase di definizione.» La ringrazio, Maestro, ed in bocca al lupo per i Suoi progetti futuri. «Grazie, ed un caloroso saluto a tutti i lettori de Il Borghese.»


LIBRI NUOVI E VECCHI CONTRO IL CAPITALISMO FINANZIARIO

Eva Peron e la Terza Via peronista di DOMENICO VECCHIONI CREDO che questo libro di Giuseppe Brienza meriti di essere letto (e meditato) a più di un titolo. Il primo grande pregio dello studio di Brienza, giornalista, saggista oltre che dottore di ricerca presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università «La Sapienza», è in effetti quello di mettere nella dovuta evidenza una delle attività di Evita Perón più significative, ma paradossalmente meno conosciute, almeno in Europa: la battaglia per la parità dei diritti uomo/donna e per la promozione politica, culturale e sociale della donna argentina. Della Madonna dei descamisados si conosce certo il ruolo politico svolto accanto al Presidente Juan Domingo Perón, la sua stupefacente attività assistenziale basata su inediti parametri («assistenza dovuta, non concessa»…), il suo straordinario carisma, la sua sensazionale abilità oratoria, meno nota invece è la sua lotta tesa al ribaltamento del posto occupato dalla donna argentina nella società borghese della seconda metà del secolo XX. Una lotta che avrà il suo massimo risultato con l’approvazione, nel 1947, della legge detta appunto Evita, di concessione dei diritti politici alle donne. Con una narrazione attenta e sapientemente dosata, alla luce di precisi riferimenti documentali, con approccio da vero storico, Brienza ci spinge a seguire con indubbio interesse tutte le fasi della evoluzione del pensiero di Evita, da molti definita una formidabile «femminista antelitteram». Ma, attenzione - si affretta a mettere in guardia Brienza - un femminismo che ha poco a che vedere con il «suffragismo» della grande borghesia argentina o con le correnti radicali che si manifesteranno negli anni Settanta del secolo scorso. Evita, in realtà, non disconosce la

«femminilità» della donna, né il suo ruolo speciale nella struttura familiare. La signora Perón tende piuttosto a conferire alla donna maggiore «dignità femminile», in un rinnovato ruolo nella famiglia, dove possa conciliare la necessità di essere sposa e madre con gli inalienabili diritti che ogni persona umana porta con sé. Riconoscendo appieno la funzione sociale della famiglia («cellula sociale che sta a base della formazione dei popoli»). Insomma Evita manda in frantumi il rigido schema che rendeva le donne argentine oppresse ed esiliate nel proprio Paese, vivendo in una situazione di evidente inferiorità giuridica rispetto agli uomini. Fonda il Partito Peronista Femminile proprio per dare a tutte le donne argentine un «focolare» politico dove ritrovarsi e dove poter diventare protagoniste della vita politica nazionale. Una vera scelta di civiltà. Se l’Argentina oggi è ai primi posti nella classifica mondiale dei Paesi dove le donne esercitano funzioni politiche e ammi-

EVA DUARTE PERON

nistrative (non citiamo il posto occupato dell’Italia per non arrossire!) il merito va senza dubbio attribuito a Evita. Altro notevole pregio dello studio di Giuseppe Brienza è quello di rivelare aspetti poco noti del viaggio Arcobaleno di Evita in Europa nell’estate del 1947, con particolare riferimento al suo soggiorno in Italia e alla visita resa al Papa Pio XII. Incontro sul cui valore e risultati peraltro sono state date diverse interpretazioni. Da una parte infatti per alcuni autori (tra i quali il sottoscritto) l’udienza papale si rivelò assai deludente per la coppia presidenziale argentina, desiderosa di maggiori cortesie formali (la controversa questione della mancata onorificenza a Evita e quella «minore» concessa a Juan Domingo) da parte di Pio XII, suscettibili di elevare Eva Duarte de Perón alla pari delle grandi dame dell’aristocrazia platense. Sull’atteggiamento del Papa - cortese ma distante deve aver avuto una qualche influenza il passato opaco di Evita, attrice di poco successo e frequentatrice di ambienti equivoci prima dell’incontro fatale col futuro Presidente. Dall’altra, invece, altri autori - e Brienza si colloca con brio tra questi - pensano che l’incontro fu, in realtà, molto proficuo per la prima dama argentina. Il Papa, cioè, si sarebbe mostrato molto soddisfatto non soltanto della «dottrina sociale» del giustizialismo, ma anche del ripristino dell’insegnamento religioso nelle scuole, conferendo in qualche modo la consacrazione vaticana al nascente regime peronista. Comunque siano andate le cose, è certo tuttavia che il rapporto Chiesa Cattolica/Peronismo è destinato a degradarsi abbastanza rapidamente, soprattutto dopo la prematura morte di Evita nel luglio del 1952, quando Juan Perón dà quasi l’impressione di voler contrapporre la «religione» del peronismo e di «Santa Evita» a quella Chiesa romana. Su questo argomento Brienza utilizza poi gli studi, inediti in Italia, dello storico argentino Roberto Hector Bosca, autore fra l’altro di un corposo volume intitolato appunto La Iglesia Nacional Peronista: Factor Religioso y Poder Politico (Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1997).


72 Nel periodo successivo alla morte di Evita, Juan Perón introduce infatti il divorzio, deroga all’insegnamento religioso nelle scuole, elimina dal calendario le feste religiose, «legalizza» la prostituzione. Insomma ne fa abbastanza da meritarsi la scomunica vaticana. Chissà, forse le cose sarebbero andate diversamente se Evita, con il suo fervore religioso, fosse rimasta accanto a Juan Domingo ... Del lavoro di Brienza va specialmente apprezzata l’accuratezza della ricerca, la verifica delle fonti, l’acutezza dell’analisi, l’assenza, insomma di approssimazione e di semplificazione. Tutto ciò che afferma è giustificato e dimostrato da precisi riscontri storici. Opportunamente poi l’autore pubblica (per la prima volta in italiano), in appendice al volume, un testo di Evita dal titolo assai emblematico («La donna può e deve votare»), dove vengono illustrate tutte le motivazioni alla base della sua battaglia per l’emancipazione femminile. Un opuscolo stampato, ma non edito pubblicamente - rivela Brienza -, nel 1947 durante il viaggio in Italia di Evita, la quale suscita sentimenti di ammirazione e di stima nelle componenti della Associazione Donne Italiane alle quali dichiara con fierezza: «Porto un nome che si è trasformato in un grido di battaglia per tutte le donne del mondo!» Non mancano poi nel saggio di Brienza precisi riferimenti al contesto politico-istituzionale in cui opera Evita, accenni alla sua famosa Fondazione di Aiuto Sociale dove viene favorita in tutti i modi la promozione del lavoro femminile, interessanti considerazioni sulla genesi del giustizialismo e, naturalmente, riflessioni sul rapporto Juan Domingo/Eva Perón. In definitiva un libro che si legge con interesse e con piacere e che aiuta a meglio conoscere la poliedrica personalità dell’eroina argentina. Un libro utile. Un libro da non perdere.

Giuseppe Brienza Evita Perón, populismo al femminile Pagine Editore Collana «I libri del Borghese» 2012 - pp. 121 - € 14,00

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DAVIDE BIGALLI E LA REINTEGRAZIONE DELL’UOMO

Una concezione nuova della vita di GIOVANNI SESSA IN MOLTI, di fronte alla crisi che ci attanaglia, e non soltanto in relazione ai suoi devastanti esiti economici, fanno appello alla necessità di variare i parametri interpretativi, con i quali da troppo tempo tendiamo a leggere la realtà. Altri avvertono, altresì, l’esigenza di una Nuova Cultura in grado di determinare, in termini esistenziali, spirituali e politici un Nuovo Inizio. È, infatti, necessario aver contezza dello scacco cui sta andando incontro il sistema politico ed economico che ha dominato il mondo, dal termine del secondo conflitto mondiale. Probabilmente, al di là del facile catastrofismo, il 2012 si presenta davvero come un anno mirabile, segnato dalla fine di un mondo, quello prodotto dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario. Potrebbe, l’anno in corso, assumere, a breve, il volto di un nuovo 1989 che, come è noto, segnò la fine del sistema comunista. Non basta, in conseguenza di ciò, dotarsi di strumenti analitici appropriati: bisogna costruire una possibile alternativa allo stato attuale delle cose! Dove guardare, al fine di rintracciare una concezione della vita siffatta, che sia, al medesimo tempo, centrata su una critica in profondità del presente, ma che sia latrice dei germi positivi del mondo di domani? Una nuova e coraggiosa iniziativa editoriale, pare rispondere pienamente al nostro quesito. Mi riferisco alla collana «L’Archeometro», diretta da Andrea Scarabelli, della casa editrice milanese Bietti, che proporrà ai lettori una serie di testi di autori inattuali e di cultura antimoderna. Infatti, è all’interno di tale orizzonte ideale, che l’uomo contemporaneo potrà rinvenire la bussola che gli consentirà di orientarsi nella difficile contingenza attuale, al fine di tornare a proporsi come costruttore di storia. È bene chiarire preliminarmente che, in questo tentativo, non si cela alcuna in-

tenzione di proporre esempi significativi di cultura, sic et simpliciter, reazionaria. Infatti, il più autentico antimodernismo non si configura mai come nostalgico sguardo sul passato. Al contrario, tale atteggiamento spirituale induce a individuare nel tempo il luogo dell’eterna vigenza del mito e, pertanto, anche nei momenti di massimo degrado spirituale e di distanza dall’Origine, è possibile agire per una reintegrazione effettiva dell’uomo. Per questo, nella collana compariranno monografie dedicate a Ezra Pound, Andrea Emo, Cristina Campo: autori che vissero un confronto serrato con la propria epoca, e dalle cui pagine si può trarre linfa vitale per ripartire, per il Nuovo Inizio. Ciò è confermato dal primo libro della collana, da poco nelle librerie, Un’altra modernità di Davide Bigalli (per ordini: acquisti@edizionibietti.it; 02/29528929). L’autore, noto docente di Storia della Filosofia dell’Università statale di Milano, formatosi alla rigorosa scuola di Paolo Rossi, presenta nelle pagine di questo lavoro un excursus storico filosofico, dal quale con evidenza emerge, innanzitutto la complementarietà di moderno ed antimoderno. Il fine e l’obiettivo teorico, perseguito con acume e attraverso un significativo apparto erudito, con il quale l’autore legge alcuni momenti esemplari della storia del pensiero a partire dal periodo rinascimentale per giungere al Novecento, sta nell’individuare una filosofia della tradizione latrice di una modernità altra, non costruita sul paradigma razionalista. Una modernità cioè, in grado di riscoprire, di fronte allo scacco reificante prodotto, come i filosofi francofortesi colsero, dalla dialettica dell’Illuminismo, il realismo dell’utopia, l’utopia di un antimoderno aperto al futuro. Allo scopo, Bigalli si avvale in termini originali dell’approccio di storia delle idee, mutuato dalla scuola del Love-


Ottobre 2012 joy, riuscendo a dimostrare l’esistenza di un file rouge speculativo, da cui poter ripartire per infrangere il comandamento intoccabile del pensiero unico, l’esistenza di una sola modernità. È questa via speculativa che consente di sorprendere la storia, di tendere imboscate alla contemporaneità reificata. Il dogma dell’Unica modernità ha fatto del progresso ininterrotto ed incondizionato, l’orizzonte di riferimento della vita umana. Per la verità, nel primo Rinascimento si affermò una vera e propria ribellione, in nome dell’Antico, nei confronti delle degenerazioni moderne indotte dalla Scolastica. Il rinnovamento fu esperito come ripristino della condizione primigenia, a causa del rifiuto del presente, avvertito come epoca di decadenza. La cosa, in termini esemplari, fu sintetizzata da Erasmo: «Noi restauriamo le cose antiche, non propugniamo novità». A tale atteggiamento mentale si accompagnò il presentarsi del genere letterario-filosofico dell’Utopia, il cui spazio elettivo è mostrato dall’isola: realtà geografica controllabile, divenuta oggetto di narrazione razionale. È nel progressivo trasformarsi dell’Utopia, di origine classica, nell’Utopismo moderno, che la critica alla modernità perde il connotato nostalgico-archetipale originario, per disporsi come oltrepassamento del presente, disancorato dalla tradizione. Strumento essenziale di tale cambiamento prospettico, la nascita del pensiero scientifico, la matematizzazione e riduzione a mera quantità del mondo e della natura. Le due tendenze convissero per un certo periodo, fino a Francesco Bacone, per poi divaricarsi. Momento topico di tale processo, il movimento dei Lumi. In esso emerse definitivamente il tema dell’ineluttabilità della Rivoluzione, non più intesa in senso eminentemente etimologicoastronomico, come ritorno all’Origine, ma quale proteiforme forza cosmicostorica, profonda cesura. Eppure, ricorda Bigalli, è proprio all’interno del dibattito illuministico sull’idea di progresso, che si presentano due tendenze fondamentali per l’individuazione di un’altra modernità: la prima è la tendenza propriamente controrivoluzionaria, di cui De Maistre fu il più insigne rappresentante, che si scontrò con il Nuovo. La seconda, in termini non contrappositivi, tese invece ad affermare una modernità altra, antirazionalistica. Herder, certamente ne fu interprete di

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primo piano, quando volle delineare una storia della civiltà, non costruita sul concetto di ragione. Autore di confine per antonomasia, la sua filosofia si dispone sul crinale non sempre facile ad individuarsi, che distingue i Lumi dalla Romantik. Nel filosofo tedesco, forte è il richiamo al particolare, al pensiero antiuniversalista che lo indusse a criticare il Rinascimento, inteso come percorso di omologazione intellettuale, imposto in chiave latina, all’Europa. Questo colloquio tra le parti in causa, il moderno e l’antimoderno, costituito di convergenze e divergenze, è proseguito lungo tutto il corso del Novecento. Nelle pagine del libro, Bigalli ne traccia l’iter, scandito da alcune tappe fondamentali, da brusche fermate e da ripartenze perentorie. Egli, allo scopo, si sofferma sulla cultura romantica ed idealista, presenta il disgusto antimoderno di Baudelaire, individua in Chateaubriand un autore di sintesi, in grado, pur in diversi momenti della propria vita speculativa, di inquadrare la triade rivoluzionaria di libertà, uguaglianza e fraternità, nell’orizzonte cristiano, al fine di farsi profeta di un regno divino di giustizia e per mitigare le ferite inferte alla civiltà dal giacobinismo. L’autore presenta, inoltre, la centralità dell’antimodernismo tragico di Nietzsche, la cui esaltazione del Rinascimento, facente aggio sulla lezione di Burckhardt, diviene la ragione profonda della filosofia del martello che contraddistingue la sua critica sociale.

73 Infine, gli ultimi capitoli di quest’interessante volume, sono dedicati all’analisi del tradizionalismo integrale, al pensiero di Guénon e di Evola. Del francese, viene rilevata la volontà di acquisire un punto di vista oltre la crisi e superiore ad essa. Da qui la vocazione metafisica e contemplativa, il suo richiamo all’élite intellettuale, come unica possibile via d’uscita dalla inevitabile regressione del mondo occidentale. La sua via è riassumibile in una sorta di nuovo rosacrucianesimo, in grado di porre termine al Regno della quantità. Riguardo ad Evola, si sottolinea come, nonostante l’impianto guénoniano delle opere del periodo tradizionalista, la tensione attiva e pratica della sua equazione personale, l’abbia condotto a valutare positivamente la possibilità della rinascita di un Ordine, capace di vivificare la tradizione ghibellina ed imperiale. Inoltre, Bigalli rileva in Evola una profonda capacità diagnostica, che lo ha indotto a una puntuale descrittiva del contemporaneo. Nelle sue pagine, il fatalismo che contraddistingue la morfologia della storia tradizionalista e il tema della regressione delle caste è, in qualche modo, mitigato o addirittura superato dalla speranza riposta nell’uomo differenziato. Alla presenza e all’azione di quest’ultimo, che non si contrappone al moderno, ma lo cavalca e lo controlla, come si fa con la tigre impegnata in una corsa irrefrenabile, è demandato il compito di un Nuovo Inizio. Dalle pagine di Bigalli, pertanto, il lettore imparerà che chiunque voglia oggi impegnarsi in un’azione di rettifica dell’esistente, dovrà porsi al di là delle oramai desuete categorie della Rivoluzione e della Reazione. Probabilmente, si dovrà pervenire ad una posizione teorica che coniughi, in un’unica istanza «…e Rivoluzione e Reazione» o, ancor meglio, per dirla con de Benoist, «…e Destra e Sinistra». Conclusivamente, ci auguriamo che l’appello implicito di questo libro, mirato a costruire Altre Sintesi trovi, quanto prima, chi sappia corrispondervi. È , questa, un’esigenza di valenza epocale.

Davide Bigalli Un’altra modernità Bietti 2012, pp. 225, € 22,00


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Librido a cura di MARIO BERNARDI GUARDI IL REGISTA John Milius, quello di Un mercoledì da leoni e di Conan il barbaro, ama definirsi un «fascista zen». E, tanto per non lasciare dubbi ai fighetti della Hollywood liberal, aggiunge di amare la giovinezza, l’eroismo, i miti, i riti di passaggio, il senso del destino, i cavalieri erranti, compresi quelli «on the road» di Kerouac, le folgorazioni di Nietzsche e l’etica guerriera del Bushido. Perché c’è non soltanto un «tempo perduto» ma un «uomo perduto» da ritrovare alla faccia della società massificante, del potere del denaro e del pensiero unico e unificante. Sulla stessa lunghezza d’onda c’è Clint Eastwood, di cui tanto si è parlato in queste ultime settimane per la sua scelta di sostenere Mitt Romney, sbeffeggiando Obama per gli scadenti e contraddittori risultati della sua amministrazione. Ci è andato giù duro, Clint Eastwood, visto che sul palco della convention repubblicana di Tampa, ha parlato con una sedia vuota, fingendo che fosse lì seduto un Obama decisamente impacciato nel rispondere alle sue provocatorie domande. E siccome ci è andato giù duro, i progressisti yankee e quelli di casa nostra ci sono rimasti male. E qualcuno ha reagito, dicendo che Clint ormai è vecchio e fuori di testa. Una affermazione difficilmente sostenibile perché da anni Eastwood è un astro di prima grandezza del firmamento cinematografico. E per universale ammissione par che migliori invecchiando. Insomma, pubblico e critica osannano Eastwood, ogni suo film si merita quattro o cinque stelle: come fai a gettargli la croce addosso per le sue scorrettezze politiche? Certo, in passato era già avvenuto, perché Clint non aveva mai fatto mistero di essere un individualista libertario più in sintonia con i repubblicani che con i democratici, un tipo, insomma, da guardare con sospetto. Non si era forse trovato a proprio perfetto agio nel personaggio dell’Ispettore Callaghan, un duro che si fa giustizia da sé in un mondo in cui la giustizia tira fuori dalla galera per insufficienza di prove criminali noti e patentati? Clint fascista al pari del giustiziere della notte Charles Bronson?

Bè, Dante Matelli, giornalista de la Repubblica e de l’Espresso, scrittore e sceneggiatore, definendolo «nipote di Céline» e «anarchico di Destra», non brillò di originalità, ma, se non altro, azzardò un giudizio, al contrario dell’«indignata» Pauline Keel che dalle colonne del New Yorker lanciò l’anatema «dagli al fascista!». In ogni caso, se puoi tener fuori dal salotto buono «liberal» l’Ispettore Callaghan, per eccesso di zelo giustizialista e fai-da-te, non è possibile liquidare con lo stesso snobismo tranchant altre incarnazioni del coriaceo Clint. Insomma, si debbono fare per forza i conti con la fascinazione esercitata dal presunto «fascio» Eastwood. La storia di questa, vogliamo chiamarla «conversione»?, la racconta Gianna Carluccio, in un profilo dedicato all’attore e regista californiano, pubblicato da Marsilio tre anni fa e che vale la pena leggere. Prima di tutto perché in esso si esaminano film come Gli spietati, Un mondo perfetto, Mystic River, Million Dollar Baby ovvero opere così esemplari e nutrite di cultura e di sensibilità, che sei costretto a profonderti in esercizi di ammirazione. Cui, magari, può far seguito qualche tentativo di appropriazione indebita. Forse ci sbagliavamo, hanno infatti cominciato a dire radical- chic e postcomunisti, forse Clint, così innegabilmente «bravo», «è dei nostri» (Cfr. Mariuccia Ciotta, «Clint era dalla nostra parte», in Clint Eastwood, a cura di L. Barisone e G. D’Agnolo Vallan, La Biennale di Venezia/Il Castoro, 2000). In realtà, non ci hanno capito un accidente prima - quando schifavano il

Ottobre 2012 cowboy inventato da Sergio Leone e poi ritornato a sparare negli States, e il repubblicano sindaco di Carmel by-thesea in California - e non ci capiscono niente ora che sono alle prese con uno che è arduo etichettare. E come si fa con un patriota che non è né un sanguinario né un guerrafondaio, ma un «miles pacificus», capace di raccontare la guerra dalle due parti in lotta con la stessa ammirata «pietas», come il regista di Lettere da Iwo Jima e di Flags of Our Fathers? E poi non è forse un correttissimo «laico» fieramente antifondamentalista quel Frank Dunn, vecchio gestore di una palestra, che sceglie la dolce morte per la sua campionessa Maggie Fitzgerald, rimasta paralizzata dalla testa in giù dopo un feroce incontro di pugilato con Billie, la «bestia»? Schemi, schemi e ancora schemi, senza alcuna volontà di comprensione, ma con la solita voluttà di mistificazione. Ci vuol tanto a capire che il pistolero di Per un pugno di dollari (siano rese grazie al geniale e sregolato Sergio Leone che lo inventò), è tutt’altro che «lontano» da Walt Kowalski, lo spigoloso pensionato di Gran Torino? L’uno e l’altro non stanno al gioco, sparigliano le carte anche con sé stessi, non si lasciano condizionare, mandano al diavolo ogni ipotesi fatta sul loro conto, stupiscono con gli «effetti speciali» di un carattere che si misura e si plasma incontrandosi/scontrandosi con la realtà. Roba da uomini, insomma. Anche un po’ eroi, sia pure senza enfatici sbandieramenti: e il mondo ne ha più che mai bisogno (ed è beato se continua ad averne bisogno) alla faccia di Bertold Brecht.


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I «LIBRI DEL BORGHESE» - ITALO INGLESE

Eccentrici, eretici, atipici a cura di AGATA FUSO LA CONCLUSIONE di una lettura stimola sempre nel lettore un «bilancio intellettuale». Italo Inglese, sin dal prologo, suscita l’ammirata curiosità di farsi conoscere. Il libro Eccentrici, eretici, atipici pubblicato dalla casa editrice Pagine nella collana I libri de Il Borghese è una raccolta letteraria di «venti necrologi fuori dal tempo» su personaggi inconsueti e in stile obituaries britannici. Il libro spazia dal «dandy» Sir Brummell, all’«inimitabile» Lenny Bruce, dal «diavolo bianco» Gustaf Mannerheim, al sentito ricordo personale di Giuseppe Berto, dall’«intrinsecamente inglese» Enoch Powell, alla «seduttiva» Palma Bucarelli, allo «chansonnier» Serge Gainsbourg, agli «spietati» gangster chic quali i fratelli Kray, a «profeti» come Osho, soffermandosi inoltre con interventi approfonditi su impavidi toreri, sul senso dell’arte taurina e su molto altro. Nasce da tale curiosità l’incontro con l’autore, dirigente d’azienda, giurista, pubblicista, autore di saggi su molteplici argomenti. Da dove prende ispirazione la sua raccolta di epitaffi letterari? «Il passato ci offre punti di riferimento per orientarci nel presente ed è fondamentale per costruire il futuro. Per quanto riguarda la storia, io non credo nelle soluzioni di continuità. Natura non facit saltus. Chi è incline a liquidare sbrigativamente la tradizione non ha radici da difendere, non ha niente da perdere; non dovrebbe pretendere di parlare anche a nome di coloro i quali, invece, vogliono preservare la propria identità a dispetto della standardizzazione globale e delle mode transeunti. Oggi siamo ancora influenzati dalla credenza illuministica nelle magnifiche sorti e progressive che ha dominato il pensiero negli ultimi due secoli. Ma due secoli sono l’espace d’un matin in rapporto alla storia del mondo.

«Ovvio che non si può vivere con lo sguardo perennemente rivolto al passato, ma appiattirsi sul presente è altrettanto incongruo. L’uomo differenziato ha bisogno di porsi in una prospettiva di più ampio respiro traendo linfa vitale da valori non effimeri. In questo senso, le voci dei personaggi descritti nel libro, pur appartenenti a epoche lontane dalla nostra, serbano intatta la loro scandalosa capacità di contrapporsi al conformismo, alla dittatura del pensiero unico, oggi quanto mai opprimente.» Nella loro varietà i necrologi restituiscono una coerenza cronologica e ideologica (sono tutti individui affrancati da egemonie di massa vissuti nell’800 e nel ‘900). Tale intreccio di dati biografici e di riflessioni critiche intendono far emergere un suo personale dialogo tra generazioni? Una specie di scambio di idee tra luoghi e personalità lontane accomunate dalla comune condizione di individui liberi e «negletted» al pubblico italiano? «Come dicevo, io credo in una continuità tra le generazioni che, al di là delle fratture che indubbiamente si sono prodotte negli ultimi decenni, si invera nella trasmissione di alcuni valori fondamentali. Per quanto mi riguarda, pur avendo avuto in gioventù un rapporto conflittuale con mio padre, dovuto alla necessità di un fisiologico regolamento di confini per affermare la mia personalità, constato che gli insegnamenti paterni mi accompagnano tuttora e mi confortano nelle fasi cruciali della vita, indicandomi un’onesta e ragionevole via da seguire. Certo, questo bagaglio di saggezza ancestrale non serve - è anzi antitetico - alla scalata sociale in un sistema connotato dall’egemonia dei mediocri, dei lacchè e dei frodatori. Ma io compatisco questi arrampicatori perché, privi come sono di princìpi, sono

75 destinati prima o poi a perdersi nei gorghi che la loro spregiudicata navigazione non sa padroneggiare. Il tempo è galantuomo. «Circa la seconda domanda, mi piace pensare a un dialogo ideale tra i personaggi del mio libro, i quali, pur nella loro eterogeneità, credo che scoprirebbero, in tale immaginaria conversazione, alcune affinità elettive (les grands esprits se rencontrent), essendo tutti accomunati da una sorta di inadeguatezza o eccentricità rispetto alle epoche in cui hanno vissuto.» Nel suo libro affiorano talvolta le figure di Emil Cioran e Mircea Eliade, intellettuali romeni dissidenti e protagonisti del panorama culturale europeo della prima metà del ‘900, esuli dalla dittatura e dai luoghi comuni del pensiero culturale comunista. Secondo lei oggi è ancora attuale la nota disputa nazionale sull’egemonia culturale della sinistra? «Purtroppo sì. In questo campo la sinistra esercita non soltanto un’egemonia, ma una vera e propria dittatura, che relega nell’oblio coloro che non si allineano. Si tratta di una forma, subdola e particolarmente efficace, di censura. Solo poche testate e pochi valorosi editori riescono a sottrarsi a questo stato di cose e a dar voce al dissenso. «Falsa la tesi – sostenuta paradossalmente anche da alcuni autori che non si collocano a sinistra (anche se, con patetico e autolesionistico snobismo, rifiutano di definirsi di destra) – secondo cui la situazione sarebbe determinata dall’assenza o dall’inconsistenza di una cultura di destra. In realtà, gli intellettuali più originali del nostro tempo, tra i quali sono da annoverare i due da Lei citati, sono quasi tutti estranei alla visione del mondo che la sinistra rappresenta. Un esempio emblematico è quello di Giuseppe Berto, il quale non a caso figura tra i protagonisti del libro. «Vero è che il centro-destra in Italia ha fatto ben poco per promuo-

Italo Inglese Eccentrici, eretici, atipici Pagine Editore Collana «I libri del Borghese» 2012 - pp. 155 - € 16,00


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muovere una cultura alternativa a quella dominante; ha sottovalutato la questione, che invece riveste un’importanza decisiva anche dal punto di vista delle dinamiche politiche.» Il libro non descrive soltanto personaggi ma racconta anche le ambientazioni, le atmosfere che li circondano alimentando spesso leggende e miti. Tra queste atmosfere risalta il capitolo dedicato alla tauromachia, l’arte iberica del coraggio, approfondita storicamente e spiegata con partecipazione grazie anche al contributo di Emidio Santarelli. La tauromachia è interpretata come metafora del necrologio? «Sì, del necrologio del toro. A parte le battute, la tauromachia ha indubbiamente uno spiccato carattere simbolico, come ho cercato di evidenziare, sia pur brevemente, nel libro. Un mondo complesso, circondato da pregiudizi e luoghi comuni che ne offuscano il significato profondo. Ma, se si sgombera il campo da tali preconcetti, la corrida de toros può disvelarsi in tutta la sua conturbante bellezza.»

SCHEDE Lionel-Max Chassin Storia militare della Seconda guerra mondiale Odoya Editore, 2012, pp. 652, € 26,00 Della «guerra civile europea», come da definizione del filosofo tedesco Ernst Nolte, nella cultura contemporanea restano soltanto schegge legate all’utilizzo strumentale delle ricostruzioni belliche. La casa editrice Odoya ha meritoriamente ripubblicato Storia militare della Seconda guerra mondiale di Lionel-Max Chassin, generale dell’esercito francese insignito della croce di guerra e Grande Ufficiale della Legione d’onore, componente dello Stato Maggiore del governo di Parigi durante la seconda guerra mondiale. L’opera, già edita nel 1961 da Sansoni, presenta una monumentale ricostruzione delle varie fasi del conflitto, viste dichiaratamente con un’ottica transalpina e corredate da decine e decine di illustrazioni e foto del tempo.

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Ottobre 2012 «Il progresso dei mezzi di comunicazione», scriveva Chassin, «(radiotelegrafia, radiotelefonia, radar) trasformò durante la seconda guerra mondiale l’esercizio del comando. Mentre un generale del 1918, come del resto un generale francese nel 1940, veniva a conoscenza di ciò che era accaduto sul fronte con un ritardo di ventiquattr’ore, il comandante del dopoguerra era in grado di prendere quasi immediatamente le decisioni. Egli disponeva di un quadro della situazione continuamente aggiornato, cosa indispensabile se si considera la rapidità dello spostamento delle formazioni avversarie.» Da analisi come queste è possibile comprendere come sia stata la Tecnica il convitato di pietra del conflitto globale, la Tecnica declinata con strumenti per l’intelligence, operazioni navali o bombardamenti spregiudicati per abbattere le resistenze delle popolazioni civili. Chassin non manca di riconoscere il rigore logico dei piani messi in atto dai nemici, come nel caso della programmazione strategica della campagna di Russia da parte dei generali tedeschi: «Essi», spiegava, «si rendono conto che, con il procedere della loro avanzata, il fronte si allargherà sempre di più, dato che l’Europa altro non è che l’estremità dell’Eurasia a forma di cuneo. (…) L’obiettivo di questa strategia consisteva nel raggiungere una linea parallela al fronte di partenza MemelCostanza situata a mille chilometri di distanza; tale linea - delimitata dal lago Onega, da Mosca, da Voronez e dal mar Caspio - racchiudeva un territorio comprendente oltre cento milioni di abitanti, il 90 per cento della produzioni carbonifera e petrolifera della Russia europea, l’80 per cento del ferro, l’80 per cento dell’industria bellica, i due grandi centri di Leningrado e Mosca e la ricca regione dell’Ucraina. L’occupazione di questo territorio avrebbe significato per la Russia sovietica una sconfitta politica e militare». La guerra poi prese un’altra piega, ma il libro di Chassin consente di rivivere dalla Francia al Fronte dell’Est le pagine cruciali di un conflitto che ha segnato per decenni gli equilibri del nostro continente. MICHELE DE FEUDIS Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori Anno IV, n. 17, Roma giugno 2012, pp. 100, € 8


Ottobre 2012 Diretta da Oscar Sanguinetti, ricercatore del Dipartimento Identità Culturale del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e direttore dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale (ISIIN), questa rivista è nata nel 2009 da un gruppo di studiosi, letterati, professionisti dell’informazione convinti, come riportato nel «Chi siamo» del sito www.culturaeidentita.org, «che il futuro della nostra nazione, cioè del corpo storico dei popoli della Penisola, riposi su un saldo legame di continuità con un passato per molti versi pregevole, se non unico, che residua ancora nella memoria e nei desideri di molti italiani» Il fascicolo è aperto con l’editoriale del direttore, nel quale si ripercorrono le «grandi linee» del processo di indebolimento della politica nel nostro Paese a partire all’incirca dal 1989 fino al momento culminante dei nostri giorni. Fra le «Riflessioni», fa seguito il saggio di Daniele Fazio su Persona umana, ordine naturale e rivoluzione sessuale, nel quale si svolge un’ampia indagine sulla ricaduta della libertà sessuale sull’ordine interiore della persona. Segue la traduzione della voce «Conservatorismo» che Bruce Frohnen ha redatto per un dizionario del conservatorismo americano. Quindi viene riproposto un illuminante intervento in materia di dottrina economica, nell’articolo Corporativismo cristiano, di padre Ernest Mort, che affronta il tema della concezione corporativa della società in prospettiva cattolica. La sezione «Riflessioni» si conclude con il contributo di Ermanno Pavesi su Radici antiche della «psicologia del profondo». I «Confronti» si aprono con un articolo - Il conservatorismo liberale e la sua deriva fatale - dello scrittore tradizionalista catalano Francisco Canals Vidal, scomparso pochi anni or sono, sul tendenziale sbilanciamento «a sinistra» implicito nel conservatorismo «di riporto» liberale. La sezione è chiusa dal saggio di Emilio Martinez Albesa Considerazioni sulla struttura dei testi della dottrina sociale della Chiesa. Conclude il numero di Cultura & Identità la rubrica delle recensioni, anche questo caso dedicate ad alcuni dei più rilevanti, dal punto di vista scientifico e storico-politico, saggi recentemente pubblicati, d’interesse «conservatore». Oltre a quelle affidate ai giornalisti e saggisti Giuseppe Bon-

IL BORGHESE vegna e Omar Ebrahime, si segnala fra le recensioni quella del prof. Roberto Spataro S.D.B., dedicata al saggio, pubblicato postumo, dell’economista e sociologo Ferdinando Enrico Loffredo (1908-2007) dal titolo: La sicurezza sociale nelle dichiarazioni del Pontefice Pio XII (cfr. Il Magistero di Pio XII e l’ordine sociale, con Prefazione di Francesco Mario Agnoli, Fede & Cultura, Verona 2012). Per ricevere il numero in distribuzione o per sottoscrivere un abbonamento (€ 40.00 per 6 numeri): tel. 347.166.30.59, info@culturae-identita.org). GIUSEPPE BRIENZA Augusto Grandi Razz! Politici d’azzardo Daniela Piazza editore Pag. 232 - € 17,00 Le notizie «politiche» estive riguardanti la tecnico igienista dentale Nicole Minetti consigliere regionale della Lombardia (dimissioni richieste, offerte, imposte, accettate, rifiutate) hanno spinto l’estensore di questa scheda a rileggere un bel romanzo pubblicato tre anni fa da Daniela Piazza Editore: Razz! Politici d’azzardo di Augusto Grandi. Un romanzo che merita di essere segnalato e letto per tre motivi. Perché, ben scritto, racconta una vicenda ambientata nella Torino politica con personaggi squallidi, descritti nella loro nullità morale e culturale («Se uno non ha coraggio non può darselo» è attribuibile a «Sciopearauer» secondo uno di loro) ma non privi di una descrizione attenta e precisa dei loro caratteri. Personaggi veri, corposi dunque che si muovono in una trama che riprende i toni del giallo e che delineano una vicenda di banali ambizioni politicanti, di piccoli intrighi, di slealtà. Personaggi che si esprimono con un linguaggio scurrile, preso dalla realtà: un linguaggio che disturba tanto che in un’intervista di Giorgio Ballario l’autore così diceva: «Anche il loro linguaggio mi disgusta. Ne avrei fatto volentieri a meno, purtroppo è quello che usano tra di loro, negli incontri privati. Ignoranti, maleducati, arroganti, indifferenti a tutto». Perché dimostra come non sia vero che la crisi etica e di credibilità delle organizzazioni politiche non fosse stata indicata e analizzata per tempo. I danni di una «politica» di annunci e di mera apparenza, l’evidenza di un surplus di arroganza, il becerume di una certa prassi non erano soltanto impressioni

77 vivide di chi al «pubblico» doveva rivolgersi per un’autorizzazione o per un’indicazione ma anche di chi li osservava con attenzione professionale. E che non poteva, e non voleva, fingere come Augusto Grandi, redattore del quotidiano economico Il Sole 24 Ore, corrispondente per Torino, Piemonte e Valle d’Aosta. Il terzo motivo per cui si suggerisce la lettura di Razz è legato alla personalità e alla «storia» dell’autore che merita di essere sottolineata. Grandi,vincitore del «Premio giornalistico Saint-Vincent», è infatti autore di mostre fotografiche sullo sfruttamento del lavoro nel mondo e sulla condizione del lavoro femminile, realizzate nell’ambito del Festival Nazionale della Sicurezza, coautore de Il Grigiocrate, Mario Monti nell’era dei mediocri, per le edizioni Fuori Onda, (autobiografia non autorizzata che ha «goduto» di una significativa penuria di recensioni), scrittore di montagna Lassù i primi. La montagna che vince, Un Galeone tra i monti, analista in chiave critica della storia economica dell’Italia Eroi e cialtroni: 150 anni di contro storia. Ma anche autore di Baci & bastonate (Edizioni Angolo Manzoni), racconto incentrato su quella frazione di generazione che, tra militanza giovanile missina e avanguardie culturali, si prefiggeva di rinnovare l’ambiente della destra italiana. Ed è per questo, forse, che in Razz gli unici personaggi positivi sono due giovani che rifiutano le regole. MAURIZIO BERGONZINI Stanley Karnow Storia della guerra del Vietnam Rizzoli (BUR) 2000 XXXII-542 p., ill. - € 10,50 LA SPIEGAZIONE della sconfitta francese prima e statunitense dopo nel Vietnam sta tutta in questa frase che il leggendario Ho Chi Minh, padre dell’indipendenza vietnamita, amava ripetere: «Potete uccidere dieci dei miei uomini per ognuno dei vostri che riesco ad uccidere io, ma anche cosi voi perderete e io vincerò». Il libro Storia della guerra del Vietnam, scritto dal premio Pulitzer americano Stanley Karnow, edito in Italia da Rizzoli, è senza dubbio un classico per comprendere e approfondire le guerre che si sono succedute nel Sud-est asiatico dal secondo dopoguerra fino all’evacuazione dell’ambasciata Usa a Saigon nel 1975. Il consiglio per poter apprezzare a pieno questo saggio è


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IL BORGHESE neva il Vietnam meridionale per contrastare il comunismo. Il suo obiettivo era disinnescare l’effetto domino: Washington riteneva, infatti, che l’eventuale perdita del Vietnam avrebbe comportato l’affermarsi del comunismo in tutto il Sud-est asiatico. L’intervento diretto degli Stati Uniti fu deciso da Kennedy: «Abbiamo un problema: rendere credibile la nostra potenza. Il Vietnam è il posto giusto per dimostrarla». Dopo Dallas, novembre 1963, il testimone passò nelle mani di Johnson, che continuò la politica del suo predecessore. Ma fu con il repubblicano Nixon che si verificò l’escalation. Il presidente dello scandalo del Watergate profuse il massimo impegno americano sia attraverso un ricorso senza precedenti a bombardamenti aerei, effettuati da migliaia di incursioni dei bombardieri B-52 sul Vietnam del nord e sul sentiero di Ho Chi Minh, sia attraverso l’impiego di oltre mezzo milione di soldati. I bombardamenti americani furono inefficaci perché l’economia nordvietnamita, essendo prevalentemente agricola, era poco industrializzata. Fu, quindi, sufficiente una minima industrializzazione per resistere ai bombardamenti americani. Nonostante le immense risorse impie-

vedere prima il celebre filmcapolavoro Apocalypse Now, diretto da Francis Ford Coppola. Karnow, inviato del Time e di Life in Vietnam dal 1959 fino alla caduta di Saigon, ricostruisce con rara maestria le varie guerre che si sono svolte in Vietnam: dal colonialismo francese all’occupazione nipponica, dalla sconfitta francese in Indocina all’intervento americano. Il popolo vietnamita, al di là degli aiuti sino-sovietici, ha conquistato la sua indipendenza grazie alla sua incrollabile determinazione, alla sua disponibilità di sopportare sacrifici inimmaginabili, pagando sofferenze e perdite di vite umane altissime. La Francia fu sconfitta, nonostante ingenti aiuti sia economici che militari da parte degli Usa, per due ragioni:la mancanza dell’aviazione e la forte motivazione da parte vietnamita. La Francia fu definitivamente estromessa dal Sud-est asiatico con la sconfitta di Dien Bienphu del 7 Maggio 1954. Gli accordi di Ginevra suddivisero il Vietnam in due parti:Vietnam del Nord e Vietnam del Sud, in corrispondenza del diciassettesimo parallelo. Il contesto internazionale, in cui gli Usa si trovarono ad operare in Vietnam, fu lo scenario della guerra fredda. L’America soste-

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Ottobre 2012 gate, Nixon fu costretto a negoziare la pace. L’America era dilaniata da movimenti di protesta sempre più crescenti. L’opinione pubblica era stanca di una guerra che avvertiva lontana. Era stanca delle continue perdite dei propri ragazzi. La sorte della guerra fu decisa oltre che dallo stoicismo di Hanoi anche dalla gigantesca corruzione del regime del Vietnam del sud. I Sudvietnamiti non erano motivati alla lotta, preferivano delegare tutto agli Americani. Nixon per giungere agli accordi del cessate il fuoco, firmati a Parigi nel 1973, dovette minacciare il ricorso alla «teoria del pazzo: l’impiego di armi nucleari». Bisogna aggiungere che la pace fu raggiunta anche grazie al lavoro diplomatico dell’Unione Sovietica e della Cina. La guerra poteva avere un epilogo diverso? Probabilmente a due condizioni: la disponibilità americana a sopportare perdite umane nella stessa misura del Vietnam del Nord e forse l’impiego di armi nucleari. ALDO LIGABÒ Maria Grazia De Angelis Benessere personale e benessere organizzativo: un binomio possibile? La cultura del lavoro come leva strategica per il successo d’impresa Franco Angeli Editore - 2011 pp. 240 - € 29,00 Quanto può giovare ad una impresa saper organizzare il lavoro, considerando il termine «organizzare» nel modo più vasto, comprendente? Per Maria Grazia De Angelis, giova moltissimo. Interviste, statistiche, analisi, la De Angelis considera molti lati della problematica, dall’importanza delle donne al mobbing, dalla competitività al ruolo del leader, interessante il dialogo con Evaldo Cavallaro, su come utilizzare l’innovazione tecnologica, l’importanza dell’etica, e poi, biografie o pareri di personalità sulle diverse problematiche. Sostanzialmente, per la De Angelis, è la presenza di un leader carismatico essenziale. Un leader che non comandi gerarchicamente ma susciti entusiasmo, motivazione, scopi. Il tutto nel rispetto delle persone, le quali, del resto, si sentono e sono rispettate se entusiaste, coinvolte, responsabilizzate, partecipi. La De Angelis, in tutto il libro, evidenzia i malanni che l’individuo, anzi la persona, subisce se immessa in una organizzazione che lo opprima, indebolisca, non lo motivi. Un lavoro nemico della vita. È l’aspetto più drammatico del volume. ANTONIO SACCÀ


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ancora un missino! … ascolta la gente; ...almirante!! … “ Si grida nel cuore!” …“SEMPrE PrESEntE!!” l’amico Pino; ancora un missino! Fiamma nel cuore! ringrazia il mattino nel suo tricolore… SEconDo BuFaccHi A Fasma

Luciano cirri Occidente good-bye correte gente per fallimento oggi si liquida quest’occidente. occidente dei sogni occidente dei guai occidente good-bye. Senza inventario doniamo storie di giorni euforici di vecchie glorie. occidente che fuggi e non sai dove vai occidente good-bye. Le fedi spente le guerre vinte le date storiche tutto per niente. occidente che butti tutto quello che hai occidente good-bye.

Sauro catozzi Ancora un MISSINO …ancora un missino ringrazia il mattino, ascolta la gente, …respira nel vento, nel suo tricolore… [ammira un tramonto. anni settanta! Via del corso, almirante !! …la gente decanta! … Giorgio!!, Giorgio!! …Piazza navona … bandiere al vento… …Fiamma!! … Fiamma!: “che nel seggio hanno spento” ancora un missino! Fiamma nel cuore …ringrazia il mattino! …senza scordare, ragazzi caduti gridando alla piazza: [ideali perduti …moventi di lotta! adesso infamati. ancora un missino! senza scordare: a Piazza navona …tante bandiere, un palco due bare, […una di Giorgio, una di Pino; …poi tanta gente; e uno di noi: era il Delfino.

conoscerti per me, triste e provato, è stato un sogno che mi hai regalato; conoscere e apprezzare i tuoi valori, ha fatto palpitare i nostri cuori: il mio ed il tuo, all’inizio contenti dei reciproci sentimenti. uniti nel medesimo destino, proseguiamo, mano nella mano, nel cammino. raFFaELE D’orazi Una foglia S’apre un sentiero nel disincanto serale per ascoltare una foglia che vola senza più rumore come fosse il sospiro d’un uomo che s’accascia e lentamente muore sul suo cuscino. S’unisce ai ricci sparsi, persi dal frutto quasi marcio, arrotolato fra le terre umide dal lento gocciolare delle piogge torrenziali che portano via le fatiche di braccia consumate dal lungo tempo. Passa il sonoro risveglio di strani passi solitari quasi a capire qualcosa estranea ai dolci fatti, di entità diverse care all’istante che invano si è perse, come speranze turbolenti spariscono al vento. otELLo FaBiani Ponte Quattro Capi ce stanno solo loro sù la tera che vann’a fini’ sopra ‘n’insolotto, la chies’ar centro, pe’ di ‘na preghiera, la tibberina, lì, fa da salotto. Sopra ‘sti ponti stai fora der monno, ripenzi a li tarquini (che genia) come ‘n caledoscopio dar profonno, senti la storia fatte compagnia. co’ l’acqua che corenno va pe’ scesa, te fa du stretti, come i dardanelli, c’è san Bartolomeo drento la chiesa e l’ospedale de li bon fratelli.


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naDia FrEzza Solo chi ama Solo chi ama, davvero sa vivere, solo chi ama, sa riconoscere i buoni sentimenti, solo chi ama, si differenzia dalla massa, io credo che nella vita ognuno di noi almeno una volta ha [amato, e chi non ci è riuscito, non ha avuto questa fortuna, allora è povero [di sentimento… povero nel cuore, povero di vita, povero di sé… povero della luce che l’amore dà. Povero d’amore soprattutto per se stesso… Luciano PranzEtti Santa Marinella 1639 (Sopra un quadro di Claudio Lorenese) È un tutto d’oro, l’oro d’occidente che veste il paesaggio vaporoso, quello che tu stendesti, generoso, o claudio di Lorena, nel pendente che ti commissionò il Barberino. tale t’apparve Santa Marinella nell'ansa che il tirreno mar modella e, dove, lungo il litoral cammino tra fronde ambrate vanno i cacciatori, cui una muta levriera segue stanca, stanchi pure i destrier, verso i bagliori

non esiste realtà che non sia tua, con una sola parola puoi far tuo l’universo e consacrarlo come nostro. continuerò il viaggio delle voci e della materia verso l’eternità. nell’attesa, le particelle del mio corpo si uniranno alle tue, nel tempo della vita nella scia dei tramonti maturano i frutti per la grande vendemmia del Kosmos. VincEnzo tatti Aquilone Vola aquilone raggiungi la luce delle stelle Dove vivono i desideri del cuore. ritorna in un’esplosione di luce avvolgendo le sue labbra Di delicati profumi nel silenzio di un sogno d’amore E… nel tempo del suo volare trasporti il suo desiderio che grida… che attende che ogni giorno chiami. carLo tErrEnzio

d’un croceo sol occiduo, a mano manca. Su una lastra turchese sta il vascello. Ferrigno e forte domina il castello

immerso nel normale per un istante ho lasciato che la mente vagasse, è andata via.

anGELa PutzuLu Brezza nella Sera…

Sono rimasto solo. il tutto un lago di silenzio. i suoni, bolle rare, salivano alla superficie scoppiavano… svanivano.

Solleva lieve il vento nella brezza della sera a me sconosciuta attorno a giorni accartocciati nella mente confusa fra emozioni vissute a metà. il cuore accetta ancora queste sfaccettature diamantifere che brillano su visi sapientemente incisi da ricordi di vita ora nella mia memoria conservo il ricordo di un giorno di festa.

Ottobre 2012

il giorno è diventato un’eco, mi sentivo ascoltare, mi vedevo guardare, non suggerivo parole. Ho visto me stesso: un’ombra. Poi nulla.

castel Baronia, 12 agosto 2012 GianLuiGi attiLio SaPoriti Pensieri dopo il tramonto di un mercoledì complicato Quando, soli, mano nella mano, giungemmo all’orizzonte, sognai che saremmo stati immortali, e nel sogno apparvero mille sentieri, ed era verità il sogno.

Per proporre poesie per questa rubrica (max 20 versi), spedire una email con nome, indirizzo e numero di telefono a: luciano.lucarini@pagine.net con la dicitura «per il Borghese»


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ISSN 1973-5936 “Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”

PA D RA IS S TA SI TO TI

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