Uomini e fatti dell’Italia contemporanea Mario Tedeschi moriva l’otto novembre del ‘93. Sulla bara l’ultimo numero del “suo” giornale. Il 30 marzo del 2000 nasce l’Associazione culturale “Mario Tedeschi”, con il preciso scopo di portare su Internet la collezione de il Borghese, dal 1950 al 1993. Inoltre, sulla Rete verranno trasferite tutte le pubblicazioni che nacquero nell’ambito dell’area editoriale del Borghese. Nel periodo di tempo trascorso tra la morte di mio padre e la nascita dell’Associazione che porta il suo nome, il giornale, che fu di Longanesi fino al ‘57 e di Mario Tedeschi, come direttore ed editore fino al ‘93 (36 anni!), ha visto succedersi quattro direttori e tre editori. Nessuno è stato capace di mantenere lo stile del giornale, nonostante le roboanti affermazioni dei vari “lumi” del giornalismo italiano, da Vimercati a Feltri. Mario Tedeschi era il Borghese. Senza la sua professionalità giornalis tica e politica, ineguagliata da tutti coloro che ne sono stati chiamati alla direzione, il giornale ha perso l’anima. Ed è morto per ben quattro volte, arrivando perfino a cambiare il nome pur di attirare nuovi lettori. Mario Tedeschi e Claudio Quarantotto, negli anni ‘60, diedero vita alle “Edizioni del Borghese”. Molti e famosi i nomi che comparvero nella collana: da Artieri a Bardeche, da Brasillach a Cioran, da De Gaulle a Kennedy, da de Madariaga a Mishima e così via.
Oggi il Borghese esce in edicola con allegate cassette osé al solo fine di mantenere il possesso della testata. Tutto questo ha creato in me una profonda tristezza: vedere il giornale per il quale mio padre aveva dato la vita trasformarsi in un supporto per film a luci rosse mi ha disgustato. Ed è per questo che ho depositato una “nuova” testata. Il Borghese che nasce ora non andrà mai in vendita. Esso sarà l’organo ufficiale dell’Associazione Culturale “Mario Tedeschi” e sulle sue pagine torneranno a rivivere i “pezzi” che hanno fatto la storia del giornalismo italiano di destra. Un esempio di quello che era Mario Tedeschi giornalista è l’articolo di apertura, “Un complotto contro lo Stato?”. In esso Tedeschi previde, nel gennaio del ‘93, tutto quanto è avvenuto fino ad oggi: il crollo della DC e la conquista del potere da parte dei comunisti, con l’aiuto di Scalfaro e di Amato. Il Borghese di Mario Tedeschi è il Diario di cinquant’anni della nostra storia repubblicana, scritto da un uomo che, in nome di una Patria “sì bella e perduta”, ha dato la vita e, come Longanesi, è morto al tavolo di lavoro, chiudendo il numero uscito in edicola il giorno dei suoi funerali. Claudio Tedeschi
«il Borghese» contro tutti e contro tutto ma quando si vorrà scrivere la storia d'Italia di questi anni, si dovrà andare in biblioteca a consultare la collezione de «il Borghese» per conoscere la verità. Giuseppe Prezzolini (Nella fotografia, Giuseppe Prezzolini e Mario Tedeschi)
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UN COMPLOTTO contro lo Stato? di Mario Tedeschi
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L 1992 si è chiuso con una sensazionale rivelazione, sottolineata da repubblicani e retini: il Capo della Polizia è un sovversivo. Infatti, dinanzi all’arresto del vicequestore del Sisde Bruno Contrada, responsabile del «Nucleo caccia ai latitanti» dei Servizi segreti e coordinatore dei Centri periferici per la lotta alla criminalità organizzata, il prefetto Parisi ha osato dire che prima di prendere per buona l’accusa vuole le prove, visto che al Ministero dell’Interno non risultano dati di fatto contro l’incriminato. Per completare l’opera, il Capo della Polizia si è permes so anche di dire che un coretto di quattro «pentiti», che sono e rimangono quattro criminali, non basta per condannare. Tanto più che questi «pentiti» raccontano cose vecchie, apprese di seconda mano, e il più noto fra loro, Tommaso Buscetta, già nel 1984 aveva lanciato accuse contro il dottor Contrada, senza essere preso sul serio da Giovanni Falcone, che infatti non aveva trovato riscontri ed aveva archiviato la pratica. Ora ci si chiede come mai il prefetto Parisi, uomo di grande esperienza, alla guida della Polizia fino dal 23 gennaio 1987, si sia «esposto» fino al punto di rilasciare le dichiarazioni che gli vengono contestate. La risposta a questo interrogativo la danno lo stesso Parisi ed il senatore comunista Gerardo Chiaromonte, Presidente del Comitato di vigilanza sui Servizi segreti. Parisi ha detto, in un’intervista al Corriere della Sera: «Sono molto preoccupato, perché non si deve fermare l’azione dello Stato e abbandonare la via imboccata, che si è dimostrata feconda e ricca di risultati. Bisogna vedere allora chi eventualmente li ha fatti muovere, questi pentiti, perché e quali vantaggi vogliono ottenere. I miei sono semplici ragionamenti. Ma ricordo che per un paio d’anni sono rimaste in piedi le accuse contro il compianto giudice Falcone, contro di me ed altri (il riferimento è alle lettere anonime del “Corvo” palermitano) pur essendo infondate. Le sembra una cosa da poco, ben al di là della vicenda personale di Contrada, che venga gettato discredito sullo Stato?» Interviene il senatore Chiaromonte, il quale in
un’intervista premette di «non credere ai complotti, ai grandi disegni orditi per raggiungere chissà quale scopo», ma subito dopo aggiunge, a proposito del Sisde e del dottor Contrada: «Non è possibile che ogni stranezza che succede in Italia sia colpa dei Servizi. Io non accetto le facili generalizzazioni di chi afferma che ci sia sempre lo zampino dei Servizi. Sono nocive e controproducenti il che non significa che io voglia chiudere gli occhi di fronte a certi episodi. È interesse dello Stato accertare la verità, a qualsiasi costo. Ma non si può addossare tutti i casi poco chiari ai Servizi. Lo so che in Italia c’è questo vizio, però ci vogliono le prove. Se ci sono, bene, altrimenti questi discorsi finiscono per distoglierci dall’obiettivo principale, che è quello della lotta alla mafia». E a proposito del Capo della Polizia, Chiaromonte in un’altra intervista dichiara: «Il prefetto Parisi ha assunto una posizione corretta. Non esistono, non devono esistere intoccabili, ma non bisogna sparare nel mucchio, si rischia di demotivare anche i poliziotti, i carabinieri, i dipendenti dei Servizi leali verso lo Stato». Dunque, allarme confermato. E a questo punto occorre rammentare che le ricorrenti crisi dei Servizi segreti e degli apparati di sicurezza, Polizia compre sa, sono state sempre legate, fino dagli anni Sessanta, a «svolte» politiche. Nel 1964-’69, partendo come pre messa dal cosiddetto «scandalo Sifam», si arrivò prima alla distruzione del Servizio segreto militare e poi al disarmo legale della Polizia, con il trasferimento dei poteri di direzione delle indagini alla Magistratura. Tutto questo avvenne proprio mentre il movimento politico eversivo del Sessantotto si evolveva in un fenomeno terroristico di ampiezza e durata senza confronti con quanto avvenne poi in Germania e altrove. Grazie a quella crisi degli apparati difensivi, lo Stato italiano dovette affrontare l’aggressione terroristica in condizioni disastrose; ma pro prio questa situazione determinò, sul piano politico, un vantaggio per la Sinistra, che trovò modo di inserirsi ulteriormente in una gestione «consociativa» del potere. Nel 1978 si verificò una nuova crisi, proprio
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il BORGHESE alla vigilia del sequestro Moro. Quella volta, con il pretesto della riorganizzazione, i Servizi vennero affidati ad esponenti della Loggia P2, in seguito a decisione concordata di democristiani, socialisti e comunisti. Il tutto all’insegna della «solidarietà nazionale». E ciò consentì ai comunisti di compiere un ulteriore passo avanti verso le «stanze dei bottoni», divenendo addirittura determinanti per imporre quella «politica della fermezza» dalla quale ebbe inizio l’isolamento del PSI nei confronti della DC. Una «svolta» che continua a dare i suoi frutti avvelenati, come è dimostrato anche dalle affabulazioni di Tommaso Buscetta sui documenti di Aldo Moro. Ora siamo alla vigilia di una nuova «svolta», che dovrebbe concludersi finalmente con l’ingresso dei comunisti nel Governo e il declassamento del socialismo craxiano; cioè di quel socialismo che nel corso degli ultimi dodici anni aveva cercato di far prevalere l’intesa DC-PSI contro le manovre cattocomuniste. È sufficiente rileggere la cronaca degli ultimi venticinque anni, per constatare che tutte le crisi dei Servizi sono state sempre utilizzate per favorire il progressivo spostamento della politica italiana verso l’intesa coi comunisti. Nel 1962-’69 la crisi del Sifar fu determinante per salvare il centrosinistra di Aldo Moro; quello stesso Aldo Moro che, non dimentichiamolo, si poneva come mèta finale l’ingresso dell’allora PCI nella maggioranza. Nel 1978, la nuova crisi e la scelta dei vertici «piduisti», coincisero con quella politica di «solidarietà nazionale)) che Enrico Berlinguer aveva adottato illudendosi di trovare, grazie ad essa, una scorciatoia per arrivare al potere. I contatti fra esponenti del PCI e alcuni dirigenti dei Servizi avrebbero dovuto garantire gli sviluppi dell’operazione da possibili sorprese. Fu grazie alla politica di Giulio Andreotti che l’iniziativa berlingueriana si tradusse per il PCI in un clamoroso insuccesso, consacrato da una disfatta elettorale di grandi proporzioni. Venne poi negli anni Ottanta, come risultato di una lotta fra massonerie, la crociata contro la P2, tradottasi alla fine nella andata al potere dei «laici»: Pertini al Quirinale; a Palazzo Chigi prima Spadolini, poi Craxi. Fu, sul piano morale, la «svolta» peggiore: Giovanni Spadolini fu il primo Presidente del Consiglio (ed anche l’ultimo, a quanto risulta) a firmare l’autorizzazione per il pagamento di una maxi-tangente di 180 miliardi per la fornitura di navi da guerra all’Irak; dopo di lui, il craxismo rampante trasformò Milano in Tangentopoli. E adesso, come dicevamo poc’anzi, si profila la nuova «svolta». Essa è stata anticipata da tre clamorosi attentati di ma fia: l’assassinio di Salvo Lima, avvenuto a Palermo il 12 marzo; la strage di Capaci, avvenuta il 23 maggio, nel corso della quale furono uccisi il giudice Falcone, la moglie e tre agenti della scorta; la strage di Palermo, del 19
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luglio, nella quale perirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Avvenimenti clamorosi e tragici, che addirittura determinarono le scelte per la Presidenza della Repubblica e la Presidenza del Consiglio. Ma ora, con il 1993, si tratta di andare avanti e di completare la ma novra; e a questo punto, l’intera struttura dello Stato deve essere messa in discussione, perché sia possibile arrivare alla mèta finale, cioè all’ingresso dei comunisti nel Governo. * * * Tutte le premesse sono state poste per giungere a questo risultato, che avrebbe per il comunismo mondiale un valore eccezionale: l’Italia , infatti, sarebbe il primo Paese occidentale a chiamare al potere gli eredi morali (ed anche materiali) di Stalin e Togliatti dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’impero rosso nell’Europa dell’Est. È stato scelto come Presidente della Repubblica un uomo di specchiata onestà, ma anche un assertore convinto della cosiddetta «centralità del Parlamento», che prescinde dalla realtà di fatto dell’esistenza della partitocrazia e considera deputati e senatori come «rappresentanti del Popolo», mentre in realtà rappresentano soltanto le botteghe politiche che li hanno fatti eleggere. È stata affidata la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali al più noto esponente democristiano della politica di intesa con
SCUOLA “DI VITA”: LA RICERCA (Isidori, “il Borghese” n. 20 del 20 maggio 1973)
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i comunisti. È stato affidato il Governo ad un socialista che si circonda di consiglieri pidiessini, a cominciare da colui che dovrà affrontare i problemi dell’occupazione e gestire il portafoglio degli investimenti. E contemporaneamente, il Governo così presieduto ha applicato e sta applicando una politica economica che è destinata a creare la situazione di eccezionalità, in cui il salto del PdS da Botteghe Oscure a Palazzo Chigi diventerà logico e giustificato. Sempre secondo una linea politica che dura da anni. Quella stessa linea per cui Donat Cattin, nel 1969, affermava che per salvare l’ordine in Italia bisognava chiamare i comunisti al Governo; nel 1978 i fautori della «linea dura» contro le Brigate Rosse insistevano sull’importanza della solidarietà comunista; negli anni Ot tanta i «crociati» antipiduisti invocavano la collaborazione di Botteghe Oscure e cercavano di ottenerla alimentando ogni «teorema» giudiziario sullo «stragismo». Che i risultati economici e sociali cui andiamo incontro siano disastrosi, nessuno ne dubita. L’economista Antonio Martino, liberale, afferma che «non abbiamo mai pagato tante tasse nell’intera storia d’Italia» e che, nonostante i sacrifici, «il debito pubblico è diventato quasi il triplo del debito estero di tutti i Paesi dell’America latina messi insieme e più della metà dell’indebitamento annuo globale dei dodici Paesi CEE». Gli esperti economici del gruppo democristiano della Camera, dal canto loro, denunciano il fatto che «nella manovra attuata dal Governo sembra del tutto assente l’azione sugli sprechi, che si ha motivo di ritenere siano assai ampi»; ricordano che quest’anno il gettito dell’Iva dovrebbe aggirarsi sui 78.300 miliardi mentre l’onere per interessi supererà i 203.000 miliardi, e concludono che «le tasse, se non si interviene sulla pesante voce delle uscite pubbliche, non serviranno più per fornire servizi, ma solo per pagare i debiti». Diagnosi proveniente da posizioni politiche diverse, ma coincidenti nella sostanza: il Go verno Amato porta l’Italia alla rovina, in una situazione politica tale da rendere formalmente «inevitabile» il ricorso al PdS, in nome di un’emergenza da fronteggiare tutti insieme. E il Capo dello Stato ha già coniato anche la formula: una «nuova resistenza». Un progetto del genere, che del resto si intravede dalle cronache politiche quotidiane, comporta il rischio calcolato di gravi agitazioni sociali (è prevista la cancellazione di 400 mila posti di lavoro) e, soprattutto, la necessità di creare nuovi fantasmi, sui quali scaricare ogni colpa. Non ci vuol molto a rendersene conto; basta rinunciare al comodo giuoco delle dimenticanze. Come hanno fatto il pre fetto Parisi e il comunista Chiaromonte, che sono diversissimi fra loro, ma non sono «scordarelli». (Da “il Borghese” n. 2 del 10 gennaio 1993)
ORRORI di famiglia di Federico Maffei FAMIGLIA addio. Il tramonto dell’istituto familiare è l’unica melanconica e raccapricciante certezza che si profila all’orizzonte di questo desolato ed infido 1993. Luigi Barzini junior, anni fa, venne subissato dalle critiche, per aver affermato nel suo libro «Gli Italiani» che gli abitanti del Bel Paese sono mammoni ed hanno più fiducia in cognati, zii e cugini di quanta ne ripongano nel patrio governo e nelle istituzioni statali. «La famiglia», scriveva il poco profetico Barzini junior, «per l’italiano è tutto». Del resto, nei primi anni dell’ultimo dopoguerra, Leo Longanesi non sosteneva forse che sulla bandiera nazionale, ormai orbata dello stemma sabaudo, andava scritto, per simboleggiare l’unico valore universalmente condiviso, il motto «tengo famiglia»? Altri tempi e, soprattutto, altre famiglie. Quella patriarcale, tipica dell’Italia rurale, si è ormai estinta per difficoltà logistiche. Nel bicamere urbano con angolo cottura ingombrano, e non poco, non soltanto i nonni ma anche i genitori. Ed è paradossalmente proprio in questa famigliola striminzita sin quasi allo stato cellulare, che divampano odii profondi e fatali. Nel corso del 1992, annotano puntigliose le statistiche della follia, sono stati ben quattordici i casi di padri e madri che hanno ammazzato i propri figli. Un primato senza precedenti. La gamma delle atrocità è ampia e articolata. Si va dalla vicenda di Domenico Mazzitelli, che fredda il figlio che faceva uso di stupefacenti, a quella del ferroviere Francesco Giovetto, che prima uccide il figlio handicappato di 21 anni e poi si spara. Non mancano i drammi della gelosia. Maurizio De Manicor, un pubblicista di Verona, ammazza la moglie a coltellate e poi si getta nel lago di Garda con la figlioletta di quattro anni. Frequenti anche le crisi di nervi. Nicola Pelle, un invalido civile di Cairo Montenotte ha, ad esempio, ucciso la figlia di nove mesi sbattendola ripetutamente sul pavimento. L’esordiente 1993 rischia comunque di insidiare il triste primato del 1992. Il nuovo anno si è infatti aperto con l’ennesima tragedia familiare: Georg Gostner, un ricco commerciante di Bolzano, ha ucciso, con una 44 magnum i figlioletti Diego e Amanda, rispettivamente di cinque e due anni, per
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il BORGHESE vendicarsi dei presunti tradimenti della bella e giovane mo glie brasiliana Rubia Carvalho. Va detto però che la crudeltà familiare non è a senso unico. Al mito di Cronos, il dio crudele che uccideva i propri figli, si contrappone infatti la pratica sanguinaria dei figli che accoppano i genitori. Anche per questa «variante» la casistica è numerosa. Dal ‘75 ad oggi, sottolineano i cronisti, sono più di cento i giovani che hanno ammazzato, spesso con sadica ferocia, mamma e papà. L’ultimo, in ordine di tempo, è Giovanni Rozzi, il giovanotto di Cerveteri, ricco e opulento borgo dell’alto Lazio, che ha ucciso i genitori la notte di Santo Stefano con una pistola Bernardelli calibro 7,65. Interrogato dai Carabinieri, il ragazzo cade subito in contraddizione. Alla fine crolla e confessa. «L’ho fatto per i soldi», ammette. Un movente al tempo stesso autentico ed assurdo. A Giovanni, infatti, i soldi non mancavano. I genitori, titolari di un avviato ristorante, avevano addirittura aperto una pizzeria per consentirgli di lavorare in proprio ed essere autonomo. Ed allora? L’ipotesi più probabile è che il ragazzo, morsicato dalla tarantola dell’avidità e del «tutto e subito», non abbia saputo aspettare il giorno in cui sarebbe entrato «naturalmente» in possesso dell’eredità. La responsabilità di questi massacri, forse, va attribuita agli antibiotici ed alle vitamine, che negli ultimi decenni hanno allungato, oltre ogni
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previsione, la vita media. A settant’anni, prima della guerra, si era già vegliardi con un piede nella fossa; ora si è soltanto giovanotti un po’ stagionati. Per contro, l’adolescenza dei figli arriva ormai, in moltissimi casi, sino alla maturità. Qualche ragazzotto più fragile decide così di abbreviare i tempi dell’attesa e si sostituisce alla natura vanificando i prodigi del Gerovital e della medicina preventiva. Questo, secondo alcuni, spiega perché i parricidi godano della stima e della simpatia di tanti loro coetanei. Pietro Maso, il ragazzo di Montecchia, in provincia di Verona, che due anni fa accoppò i genitori per acquistare un’automobile sportiva, riceve tuttora in carcere centinaia di lettere di ammiratori e, soprattutto, ammiratrici. «Sì», ammette, «mi scrivono in tanti, da varie città d’Italia. Livorno, Roma, Grosseto, Milano. Persone che non ho mai conosciuto. Scrivono per fare amicizia, per creare un rapporto.» Qualche mese dopo l’orrendo delitto numerosi giovani si presentarono in alcune discoteche di Verona vestiti «alla Pietro Maso»: abito gessato, capelli unti di gel, basette corte e foulard macchiato di finto sangue. Erano gli aderenti al «Pietro Maso fans club». Uno scherzo di pessimo gusto? Non proprio. Anche perché il fascinoso parricida ha subito trovato imitatori, come il violoncellista quattordicenne di Bolzano che ha
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ucciso il padre perché gli impediva di suonare, o il giovane tossicodipendente di Varese che ha strangolato mamma e papà perché non volevano comprargli l’eroina. «Abbiamo viziato i bambini», spiega l’avvocato Anna Maria Bernardini de Pace, esperta in diritto di famiglia, «e li abbiamo fatti crescere male. Le cause sono da ricercarsi nella mentalità bambinocentrica degli anni Settanta e Ottanta, che ha messo i figli al centro della vita dei genitori. I figli sono diventati il fiore all’occhiello dei genitori, testimoniano la riuscita, il successo di mamma e papà, che per questo affollano la vita dei bimbi con corsi, stages, sollecitazioni, stimoli. Poi il genitore si aspetta il frutto di questo investimento forzato e il bambino si ribella. C’è chi uccide, purtroppo», sostiene la Bernardini, «ma c’è anche chi fa una cosa diversa rispetto alle attese dei genitori. Per esempio, si droga; e la droga non è altro che una mamma silenziosa, una mamma che non sgrida, che culla, che fa sognare. I genitori devono capire che anche i bambini sono persone. E devono imparare a rispettarli. Assecondando i loro capricci, facendoli sentire quasi onnipotenti, non negando mai nulla e anzi sovraccaricandoli di
attenzioni, i bambini perdono invece la loro infanzia che è anche fatta di “no”, di attese, di sogni, di pianti». L’avvocatessa non lo dice: ma, aggiungiamo noi, qualche robusto ceffone vibrato al momento giusto non farebbe male. Intere generazio ni di italiani sono sopravvissute, abbastanza bene, sia all’olio di fegato di merluzzo che alle sberle paterne. Oggi, invece, si comp ra l’affetto dei figli largheggiando in concessioni e regali. «La responsabilità delle difficoltà che il ragazzo incontra», sostiene il professor Slepoi, presidente della Federazione italiana psicologi, «è del genitore che lo ha abituato ad avere tutto e subito. È naturale che dietro ogni delitto c’è una patologia, ma il delitto diventa comunque un modo per scaricare le responsabilità. Uccido il genitore quando questi diventa un ostacolo: ma come? Prima mi davi sempre tutto e adesso dici no? Questo è il ragionamento del ragazzo. Io sono infelice, la colpa è della mamma o del papà e quindi me ne libero o comunque li punisco. Del resto, i ra gazzi di oggi vogliono tutto e subito. E la nostra cultura oggi sembra non prevedere più la punibilità di qualcuno, tutto sembra permesso, nessuno è responsabile di niente». Di troppa libertà, insomma, si può anche morire. (Da “il Borghese” n. 3 del 17 gennaio 1993)
Anno I - Numero 1 - Marzo 2001 www.mariotedeschi.it
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LA GUERRIGLIA È BELLA QUANDO LO STATO GARANTISCE I “COMFORTS” (Nistri, “il Borghese” n. 45 del 5 novembre 1972)
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