il Borghese - n. 12 - Dicembre 2011

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ISSN 1973-5936 “Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”

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MENSILE - ANNO XI - NUMERO 12 - dIcEMbRE 2011 - € 6


Intervistato da Barbara Romano pagg. 190 • euro 16,00

La mia vita con Giorgio

pagg. 110 • euro 12,00

Regime Corporativo (1935 - 1940)

a cura di Gian Franco Lami pagg. 114 • euro 15,00

L’Italia e la crisi, un Paese al bivio

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Francesco Amato Annali di piombo

(diario di un servitore dello Stato) prefazione di Giancarlo de Cataldo pagg. 472 • euro 22,00

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(60 anni di politica e di malapolitica in Italia) prefazione di Sforza Ruspoli

traduzione di Vittorio Bonacci

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Loris Facchinetti

Carlo Taormina

Il manifesto umano

“Uccidete il cane italiano”

La Destra invisibile

prefazione di Girolamo Melis prefazione di Stefano Amore postfazione di Salvatore Santangelo

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Enea Franza Giampaolo Bassi

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John O’Sullivan

Il Presidente, il Papa e il Primo Ministro

L’albero delle mele marce

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pagg. 150 • euro 14,00

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Julius Evola

NOVITÀ Donna Assunta Almirante

Tra Cremlino e Vaticano introduzione di Roberto De Mattei traduzione di Milena Riolo

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“L’accordo di Metz”

Filippo de Jorio

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La mafia addosso

prefazione di Fabio Torriero traduzione di Anna Teodorani

Antonio De Pascali

Rachele Mussolini

Benito ed io

Una vita per l’Italia prefazione di Alessandra Mussolini traduzione di Fabio Torriero revisione a cura di Anna Teodorani pagg. 270 • euro 18,00

Via G. Serafino, 8 - 00136 Roma - Tel. 06/45468600 - Fax 06/39738771 e-mail: luciano.lucarini@pagine.net

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Fabio Torriero

Federalismo tricolore

prefazione di Francesco Aracri, Adriana Poli-Bortone, Raffaele Volpi pagg. 154 • euro 15,00

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Controcorrente

Jean Madiran

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Saverio Romano

Marine Le Pen

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Michele Giovanni Bontempo

Rick Boyd

Lo Stato sociale nel “Ventennio”

La verità sulla morte di Mussolini

pagg. 272 • euro 17,00

pagg. 234 • euro 17,00

(vista da un bambino) Nota critica di Giuseppe Giuliani Aramis

Antonio Pantano Ezra Pound

E LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

pagg. 274 • euro 17,00

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IL BORGHESE

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SOMMARIO DEL NUMERO 12 Mensile - Anno XI - Dicembre 2011 - € 6,00 Piccola Posta, 2 Italia anno zero, di Claudio Tedeschi, 3 Tutto in un giorno, di Riccardo Paradisi, 6 Italia nazione aperta, di Franco Jappelli, 7 Cosa vorrà e potrà fare, di Filippo de Jorio, 9 La Destra della rinascita, di Carlo Vivaldi-Forti, 10 L’euforia del naufrago, di Adriano Segatori, 12 Ma Marta non se ne va, di Alberto Rosselli, 13 Sotto le bombe d’acqua, di Alessandro P. Benini, 14 Sono sempre i soliti morti, di Felice Borsato, 15 La rabbia dei giovani, di Adalberto Baldoni, 16 Dio, patria e mattone, di Ruggiero Capone, 18 La rana scoppiata, di Mimmo Della Corte, 19 In fuga verso Est, di Daniela Albanese, 20 La bestia «rossa», di Gigi Moncalvo, 21 La verità su Orgena, di Antonio Pantano, 26 A Destra per l’Europa, di Adriano Tilgher, 27 Il patriottismo del Cazzullo, de Il Franco Tiratore, 28 Il senso della Scuola, di Hervé A. Cavallera, 29 La cultura fatta a pezzi, di Alessandro Cesareo, 30 Pilotare il riscatto (1): Incubo, di Mino Mini, 32 Sante epopee, di Alfonso Piscitelli, 34 Politica poco economica, di Emmanuel Raffaele, 35 «Goldman Brothers», di Daniele Lazzeri, 36 Analisi di una crisi epocale, di Giovanni Sessa, 37 I professionisti dell’antiusura, di Antonella Morsello, 39 Meccanismo inceppato, di Antonio Saccà, 41 L’ombra di Hillary, di Andrea Marcigliano, 42 Già visto e peggio di prima, di Francesco Rossi, 43 Guerriglieri di papà, di Giuseppe De Santis, 44 «Goob bye Medio Oriente», di Inna Khviler Aiello, 45 Tramonto europeo, di Riccardo Scarpa, 48 Il terzo incomodo, di Alfonso Francia, 49 Morte di un dittatore, di Gianfranco de Turris, 50 La primula della Sirte, di Mary Pace, 52 In Tunisia è già autunno?, di Massimo Ciullo, 53 Al centro, economia e lavoro, di Gianpiero Del Monte, 54 Dalla Cina con la crisi, di Daniela Binello, 55 L’angolo della poesia, 79

IL MEGLIO DE «IL BORGHESE» La Repubblica degli inamovibili, di Mario Tedeschi Il cialtrone politico, di Ivanovich Koba Vivere con la crisi, di Fabrizio Dongo La cosca rossa, di Giuseppe Bonanni

Direttore Editoriale

LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile

CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net HANNO COLLABORATO Daniela Albanese, Adalberto Baldoni, Alessandro P. Benini, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello, Felice Borsato, Ruggiero Capone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Massimo Ciullo, Michele De Feudis, Filippo de Jorio, Valerio De Lillo, Giuseppe de Santis, Gianfranco de Turris, Gianpiero Del Monte, Pietro Del Tura, Mimmo Della Corte, Gabriella Di Luzio, Alfonso Francia, Norma Hengstenberg, Franco Jappelli, Inna Khviler Aiello, Daniele Lazzeri, Aldo Ligabò, Michele Lo Foco, Franco Lucchetti, Andrea Marcigliano, Fabio Melelli, Mino Mini, Gigi Moncalvo, Antonella Morsello, Mary Pace, Antonio Pantano, Paolo Emilio Papò, Riccardo Paradisi, Errico Passaro, Alfonso Piscitelli, Emmanuel Raffaele, Riccardo Rosati, Alberto Rosselli, Francesco Rossi, Antonio Saccà, Andrea Scarabelli, Riccardo Scarpa, Enzo Schiuma, Adriano Segatori, Stefano Serra, Giovanni Sessa, Angelo Spaziano, Andrea N. Strummiello, Adriano Tilgher, Leo Valeriano, Ermanno Visintainer, Carlo Vivaldi-Forti

Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI

LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Francesco Borgonovo-«Ammoderniamo il Pantheon della Destra», a cura di Michele De Feudis, 24

TERZA PAGINA La forza degli archetipi, di R. Scarpa, 57-Sono morti gli antichi Dèi?, di E. Visintainer, 58«Area» di rigore, di A. Spaziano, 59-Società e consumo, di E. Raffaele, 60-Il ruolo fondamentale della Terza pagina, di F. Borsato, 62-Festa per un tradimento, di E. Schiuma, 64

IL GIARDINO DEI SUPPLIZI Meglio «frocio» che «ciccione», di P. Del Tura, 65-Quante «comparse» strappate alla politica!, di L. Valeriano, 66-La Rivoluzione Valsecchiana, di M. Lo Foco, 67-Sorrisi di circostanza, di F. Lucchetti, 68-Alla ricerca del consenso goduto, di F. Melelli, 69-Comparando la scultura antica, di N. Hengstenberg, 70-Gestione articolata, di R. Rosati, 71-Alla scoperta del connettivismo, di E. Passaro, 72

LIBRI NUOVI E VECCHI Librido, di M. Bernardi Guardi, 73-I libri del «Borghese», a cura di S. Serra, 74-«Antares»: moderno e antimoderno, di A. Scarabelli, 75-Schede, di AA.VV., 76 Le foto che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio.

Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma

tel 06/45468600 Fax 06/39738771 em@il luciano.lucarini@pagine.net PAGINE S.r.l. Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000 Stampato presso Mondo Stampa S.r.l. Via della Pisana, 1448/a 00163 Roma (RM) Per gli abbonamenti scrivere a: IL BORGHESE Ufficio Abbonamenti Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma


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Piccola Posta I COSTI DELLA POLITICA Mentre si parla di riduzione dei costi della politica e del numero dei parlamentari, il nostro Presidente della Repubblica ha nominato un nuovo senatore a vita. Non se ne sentiva proprio la necessità. Forse il nostro Presidente ha ritenuto che su 945 parlamentari nessuno fosse capace di .... Nulla contro il nuovo senatore ma per la casta è preferibile un parlamentare in più, con tripli stipendi/ pensioni, che salvare il posto di lavoro di 50/l00 operai. PAOLO CAROLLO TRA MALAPOLITICA E SPECULAZIONI Siamo alle valutazioni completamente errate. Dopo l’ennesimo disastro idrogeologico dovuto al maltempo, le colpe sono come al solito ricadute sul governo, forse anche per leggi sbagliate e permissive; in realtà le colpe e la responsabilità diretta, va addebitata ai sindaci, ai tecnici di questi comuni, che hanno permesso la cementificazione degli alvei dei fiumi e le costruzioni a ridosso dei medesimi di manufatti piccoli o grandi; la natura si è ribellata ed ha ripreso il suo andamento normale. Questo è quanto emergerà e stabilirà che la colpa è degli Amministratori passati e presenti, di destra e di sinistra. Altro punto dolente, le speculazioni dei profittatori, tra cui le banche, e le truffe che si scoprono ogni giorno, come quella a danno dell’INPS. Gli stranieri extracomunitari, in regola con le nostre leggi, richiedono la ricongiunzione

dei familiari; una volta che questi anziani ottengono la pensione sociale se ne tornano al Paese d’origine e i congiunti rimasti in Italia continuano a riscuotere detta pensione. Delle migliaia di casi presunti, le frodi scoperte sono soltanto 300. Sino a quando poiché siamo alla frutta, potremo resistere, prima che la barca Italia affondi? Per il momento si continuano ad aumentare le tasse, come la benzina e quant’altro. Con questa crisi, ricordiamoci, che gli extracomunitari non sono più una risorsa e che dobbiamo far emergere gli evasori ed attuare i veri tagli della politica e dei suoi politicanti. ADOLFO SALA Moglia (MN) ACCOSTAMENTI INOPPORTUNI Ho trovato molto bello l’articolo sul Borghese di agosto e settembre dal titolo: Il fiume torna a scorrere di Franco Jappelli. Condivido in pieno la storia, l’analisi, i giudizi ed i riferimenti riportati in suddetto articolo. Ciò che ho trovato poco bello è che di seguito a tale articolo, nel quale viene riportata una frase di Adriano Bolzoni relativa all’8 settembre 1943, trovi spazio, in fondo alla pagina, un invito a diventare Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon. Come ci si può dimenticare del ruolo, e della magra figura fatta dalla Real Casa proprio in quella tragica data summenzionata? ALESSANDRO ELMI

Dicembre 2011 una ultracentenaria) registrato nella campagna del tesseramento in vista dei congressi provinciali e regionali. Mi piacerebbe chiedere al parlamentare siciliano se conosce il numero degli iscritti al PNF alla data del 24 luglio 1943 e quelli nei mesi successivi. Ho seguito sulle pagine locali di un quotidiano di area le notizie riguardanti la situazione a Roma, che rivela la «balcanizzazione» del «partito». Risulta, se non impossibile, proibitivo calcolare il numero delle correnti e dei consiglieri nei diversi enti scesi in campo per raccogliere tessere da far pesare al momento della contrattazione sulle poltrone, non sulla politica. Tanto per fare alcuni esempi: una fazione ne vanta 30 mila ed un’altra risponde con 50 mila, il gruppo del sindaco ne annunzia circa 30 mila e quello della presidente della Regione altrettanti. Una frangia ne deposita 6.200 e una delle mille altre in lizza 3.502. Per provare la situazione incredibile, più che paradossale, un consigliere regionale ha pubblicato su Facebook le ricevute di 1.185 tessere! Penso che dovremo cambiare, osservando questo quadro, e parlare, come esempio storico di un fallimento degli uomini, non più della caduta dell’impero romano ma del disfacimento, del suicidio della creatura berlusconiana. VINCENZO PACIFICI

IL PARTITO DELL’APPARENZA In giorni turbinosi ed agitati, come quelli iniziali di novembre, ho letto le entusiastiche dichiarazioni del segretario del PDL sull’altissimo numero di adesioni (1 milione, tra cui

Le lettere (massimo 20 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net

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MENSILE - ANNO XI - NUMERO 12 - DICEMBRE 2011

ITALIA anno zero di CLAUDIO TEDESCHI Roma, 18 novembre 2011 ALLA fine il commissariamento dell’Italia, dopo quello della Grecia, è divenuto realtà. Lo stesso «uomo della strada» o la «casalinga di Voghera» sanno che, prima in Grecia e poi in Italia, vi è stato un colpo di Stato «tecnico» voluto dai padroni della BCE, con l’utilizzo della Francia e Germania alla stregua di un qualsiasi Luca Brasi (ricordate Il Padrino?). La Merkel e Sarkozy hanno fatto alla Grecia ed all’Italia «una proposta che non potevano rifiutare». Incaricati del FMI e della BCE, si sono recati a Roma, ove hanno avuto contatti con le varie forze politiche, sottolineando che l’Italia si sarebbe salvata, soltanto approvando la nomina di Monti ed affidando al governo «tecnico» la gestione politica del Paese. Chiaramente sconsigliato il ricorso alle urne. Aiutati in questo dal comportamento scorretto di Napolitano, che ha portato alla nomina «regia» di Monti a senatore a vita ed alla indicazione «senza se e senza ma» dello stesso Monti a capo del Governo. Oggi, per Berlusconi, è finito il grande equivoco. Si riprende il partito, non deve più soggiacere al ricatto dei numeri in aula e regola i conti con la fronda interna. La Lega, all’opposizione, torna padrona dei propri destini, cercando di recuperare il consenso perso. L’operazione gestita da Napolitano, filoguidata da Francoforte, a sinistra, ha fatto svanire per Bersani qualsiasi ipotesi di correre come leader alle prossime politiche, costringendolo a votare con il sorriso sulle labbra quelle stesse leggi proposte, una vita fa, da Berlusconi. Tonino Bucci, su Liberazione del 17/11/2011, scrive: «… La borghesia non ha bisogno di partiti per governare. I suoi dirigenti, i suoi Monti e Profumo, li prende dalla Bocconi e dai management delle banche. ... La politica … non può prescindere (del tutto) dalla legittimazione del consenso popolare. Oggi sono questi spazi di mediazione, fisiologici nella democrazia, a diventare intollerabili agli occhi dei poteri forti. BCE e Confindustria puntano al sodo. I politici … hanno fatto il loro tempo. Nelle stanze dei bottoni entrano direttamente i grandi “commessi” della borghesia». La sinistra ancora ragiona con la mentalità del «padrone delle ferriere». La borghesia, come la intendeva Gramsci, non esiste più, se mai è esistita. Quelli che Bucci chiama «i grandi “commessi” della borghesia» sono i componenti di un «nuovo ordine mondiale» che vede nella borghesia il suo vero nemico. La borghesia è lavoro, ordi-

ne, disciplina, rispetto dell’uomo come unico elemento fondante della vita economica del Paese. Nel denaro vede lo strumento per migliorare, non il fine da raggiungere. Nel programma del governo Monti, vi è l’eliminazione dell’uso del denaro contante sostituendolo con il denaro elettronico. Il perché è semplice. Chiunque stampi banconote in casa propria è perseguibile dalla legge come falsario. Al contrario, le «istituzioni monetarie e finanziarie» (le banche) sono autorizzate a farlo. Il denaro è quello elettronico, che costituisce il 97 per cento della massa monetaria globale. Martin Wolf, sul Financial Times, ha dichiarato che «l’essenza del sistema monetario di questi tempi è stata la creazione di moneta, dal niente, tramite i prestiti spesso assurdi che venivano concessi dalle banche private». Quando un cittadino chiede alla banca i soldi, il denaro non proviene dalla raccolta a sportello. La banca crea soldi «nuovi» dal nulla, permettendo al cliente di spenderli. Questo modo di agire delle banche ha provocato una crescita esponenziale della massa monetaria, inflazionandone l’emissione con un tasso dell’11,50 per cento annuo. La «moneta» elettronica comporta la creazione di un debito, non in denaro reale, ma soltanto in un bit sul computer. Così le banche hanno operato nel campo della finanza internazionale, facendo crescere il loro stesso debito in maniera insostenibile e portando alla crisi finanziaria attuale. Tutto ciò perché la legge contro la contraffazione monetaria non si è mai adeguata alla nascita del denaro elettronico, creato dalle banche. Così, il potere di emettere soldi è passato dalle Banche centrali alle banche private, senza che nessuno se ne accorgesse. Su questo denaro «falso ed inesistente» le banche lucrano interessi «reali» provenienti dal nostro lavoro, indebitandoci per tutta la vita. Come uscirne? Riconsegnando alle Banche centrali l’unico diritto a battere moneta. Occorre uscire dall’euro come moneta unica, ripristinare le monete nazionali per il solo circuito interno, lasciando all’euro la funzione di moneta internazionale. Per fare questo, la BCE va «nazionalizzata», ponendola sotto il controllo della politica. È inutile dire alle banche di prestare di nuovo i soldi, aumentando ancor di più il debito; quello di cui abbiamo bisogno sono «soldi veri» non fasulli. Berlusconi, nei giorni finali della sua Presidenza del Consiglio, attaccò l’euro prospettandone l’uscita da parte dell’Italia. Ne fummo felici, perché prospettava una soluzione «argentina» alla schiavitù del FMI e della BCE. Le minacce alle sue proprietà da parte dei «poteri forti» finanziari, gli fecero fare marcia indietro. Il resto è storia. Oggi abbiamo la possibilità di creare da soli il nostro destino, ricominciando da zero, e rivoluzionando l’Europa, non più come espressione di un potere economico fine a se stesso, ma come Nazione, politicamente ed economicamente indipendente. Per Napoleone la rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette. Noi, ora, dobbiamo soltanto cercarle.


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Crisi economica, corruzione, caste intoccabili, nessun ricambio della classe politica, perdita di princìpi spirituali dell’uomo e della comunità nazionale:

VUOI REAGIRE? Aderisci pure tu ai Circoli de

Per tutti coloro che si assoceranno e che sono già abbonati del «Borghese», la quota 2010 sarà già compresa nell’abbonamento …………………...……..……………………………………………...………………………………........ SCHEDA DI ISCRIZIONE COGNOME ……………………………………………….. NOME …………..………………………………………… NATO A …………………………………………………. PROV …… IL ___/___/______ DOMICILIATO A ………………………………………… PROV …… CAP ……………... VIA ………………………………………………………… N. ….. INT ….. SC ………… TEL/AB ……………………….. TEL/UFF …………………….. CELL ………………… EM@IL ………………………………………………………………..@.......................................... DATI PERSONALI TITOLO DI STUDIO…………………………………………………. PROFESSIONE ……………………………… ATTIVITÀ …………………………………………………………… ABB. NUM. ………………………………….. Dichiaro di accettare le norme dello Statuto, i programmi e le direttive dell’Associazione dei Circoli del «Borghese» Ricevuta l’informativa sull’utilizzazione dei miei dati personali, ai sensi dell’Art. 10 Legge 675/9, consento al loro trattamento nella misura necessaria per il proseguimento degli scopi associativi. DATA ___/___/______

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Grazie a coloro che hanno aderito in gran numero ed invitiamo tutti a fare opera di proselitismo, costituendo sempre più nuovi «Circoli» (minimo 10 soci). Tutti coloro che hanno documenti visivi possono inviarli, noi provvederemo a metterli in rete sul sito www.il-borghese.it

SALVIAMO L’ITALIA 1) Dalla sinistra radicale che a Milano svende il Paese a drogati e talebani 2) Da una Lega che ha fallito il suo progetto, ma non se ne è accorta 3) Dai «mercenari» della politica, che fanno le «manovre» per non pagare le tasse 4) Dalla dittatura delle «lobbies» che guardano ai cittadini come pecore da tosare 5) Dall’Euro «franco-tedesco» che vuole farci sparire dalla scena economica 6) Dall’invasione straniera nel nome di un «islam» politicamente corretto 7) Dall’assassinio della cultura commesso dai «reality» 8) Dai «vecchi» della politica che non vogliono mollare la poltrona 9) Dalla schiavitù economica gestita dalla finanza internazionale 10) Dalla vita sociale del Paese «sepolta» sotto i «partiti-spazzatura» Estratto dallo Statuto costitutivo dei «Circoli del Borghese» Art. 3 - Scopo e finalità L’associazione è senza fini di lucro ed opera senza discriminazione di nazionalità, di carattere politico o religioso. Si propone di promuovere ogni iniziativa culturale e politica tesa a restituire al cittadino il senso del dovere e l’etica della responsabilità. Denunciare il malcostume nel contesto politico, economico e sociale. Avversare caste e privilegi in ogni comparto della società. Educare le nuove generazioni ad assumere l’impegno di essere futura classe dirigente, onesta, libera, professionale e responsabile A questo fine si predispone per svolgere qualsiasi attività si ritenga necessaria al perseguimento degli scopi istituzionali con particolare attenzione a: Organizzazione e promozione di incontri, dibattiti e pubblicazioni per incidere nel processo culturale e sviluppo della Nazione. Esercitare, in via meramente marginale e senza scopi di lucro, attività di natura commerciale per autofinanziamento: in tal caso dovrà osservare le normative amministrative e fiscali vigenti. L'Associazione ha facoltà di organizzare, anche in collaborazione con altri enti, società e associazioni, manifestazioni culturali connesse alle proprie attività, purché tali manifestazioni non siano in contrasto con l'oggetto sociale, con il presente Statuto Sociale e con l'Atto Costitutivo. Le attività di cui sopra sono svolte dall'Associazione prevalentemente tramite le prestazioni fornite dal propri aderenti. L'attività degli aderenti non può essere retribuita in alcun modo nemmeno da eventuali diretti beneficiari. Agli aderenti possono solo essere rimborsate dall'Associazione le spese effettivamente sostenute per l'attività prestata, previa documentazione ed entro limiti preventivamente stabiliti dall'Assemblea dei soci. Ogni forma di rapporto economico con l'Associazione derivante da lavoro dipendente o autonomo, è incompatibile con la qualità di socio.


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DALL’8 SETTEMBRE AL 25 APRILE

TUTTO in un giorno di RICCARDO PARADISI LA VOCAZIONE al linciaggio che scorre nelle viscere d’una considerevole parte d’italiani - eredità di secoli di riottoso servilismo - ha trasformato le dimissioni di Berlusconi nell’ennesimo abbietto rito del capro espiatorio offerto ai divertiti occhi dell’Europa centrale e della sfera anglofona. «Una festa di liberazione», l’ha definita il segretario del PD Bersani (coscritto dell’inevitabile governo tecno-liberista di Mario Monti) facendo eco a una piazza dove attempate signore e lunatici di varia estrazione inscenavano trenini, lanciavano monetine e tiravano sputi al dimissionario premier. Una «festa di liberazione» come esito d’una sequela d’eventi politici la cui dinamica appare, a uno sguardo che voglia mantenersi obiettivo, quanto meno anomala. Insomma è significativo che il successore di Berlusconi era già da giorni stato virtualmente nominato premier dai media, dai leader di Paesi stranieri e sotto la pressione furibonda dei cosiddetti mercati una settimana prima del suo insediamento. Mercati che non sono la Spectre di cui ovviamente parlano i «complottisti» e i paranoici di varia natura ma che non sono nemmeno, come vedremo anche in merito alle vicende italiane, l’arena del bene di cui ci raccontano le domestiche del liberismo ideologico. Piuttosto il mercato è una dimensione su cui influiscono - e molto, e senza limiti, visto che nessuno si decide a mettervi delle regole virili - lobby di pressione private e nazionali. Di quelle nazioni dove l’interesse nazionale vuol dire ancora qualcosa. Nominato premier dunque già una settimana prima del suo insediamento ufficiale e dell’ottenimento d’una maggioranza parlamentare qualificata l’investitura di Monti ha evidentemente qualcosa di anomalo. Certo dal punto di vista della pura proceduralità è improprio parlare d’un colpo di mano perché quella italiana è una repubblica parlamentare che prevede, di fronte alle dimissioni del presidente del Consiglio, la possibilità che il presidente della Repubblica verifichi le condizioni d’una nuova maggioranza. Ma insomma dal punto di vista politico la pressione indebita è risultata formidabile: dai pronunciamenti di Obama a quelli di Sarkozy passando per la morsa dei mercati che hanno lasciato un poco la presa soltanto quando il nome di Monti sembrava in dirittura. Persino il matematico Piergiorgio Odifreddi, nel suo blog ospitato sul sito del quotidiano Repubblica, ha avuto delle perplessità sull’attivismo e sulla tempestività con cui Napolitano aveva nominato Monti senatore a vita. Con tutti gli scienziati, letterati e musicisti illustri che l’Italia può vantare Napolitano ha scelto Monti, il cui «altissimo merito è di essere stato Commissario europeo con deleghe economiche, dal 1994 al ‘99 per nomina del primo governo Berlusconi, e

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dal ‘99 al 2004 per nomina del primo governo D’Alema», scrive Odifreddi. Ma nei «giorni della liberazione» come l’hanno chiamata Bersani e Di Pietro l’eccitazione per la cacciata di Berlusconi senza la prova del fuoco del voto ha rimosso un’altra evidenza dalla percezione alterata dell’ex opposizione di sinistra; ossia che il successore di Berlusconi, Mario Monti, è il commissario d’un potere extranazionale chiamato a strigliare socialmente l’Italia, a rimetterla in carreggiata - come ha detto il simpatico Nicolas Sarkozy - a suon di tagli sul welfare, liberalizzazioni spietate e riforme strutturali dolorose sul mercato del lavoro. Tanto sanguinose che quelle timidamente abbozzate dal governo Berlusconi saranno carezze. Rischi che le oche del Campidoglio della sempre minacciata democrazia non vedono nei loro radar, occupate come sono a ballare per le strade. Intendiamoci, l’Italia non è l’inconsapevole e innocente vittima d’un complotto internazionale ordito dalla finanza cattiva e dai nemici dell’asse tedesco-francese, che pure esiste e fa una politica sporca. Perché mentre è intento a moraleggiare sul rigore difende le proprie banche piene di titoli tossici. In particolare la Germania non avrebbe esportato una sola Audi in questi anni senza la Grecia e senza questo euro il cui tasso di cambio era reso meno devastante proprio dalla presenza dei cosiddetti PIGS (acronimo razzista per designare Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna). Ma se esiste un offensiva franco-tedesca e una parallela pressione americana e inglese - Londra non attende altro che l’implosione dell’area euro per spostare sulla city il flusso d’affari continentale - non c’è stata un’adeguata difesa italiana, nessuna comprensione della posta in gioco, nessuna strategia di contenimento e controffensiva. Nessuna preoccupazione per la propria credibilità. Insomma Silvio Berlusconi non è una vittima innocente, e ha delle responsabilità circa la sua rapida e fulminea detroniz-


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zazione avviata peraltro un anno fa quando Fini gli portò via un pezzo di maggioranza. Se è vero infatti che l’Italia non è la Grecia, che la disoccupazione è minore di altre realtà europee, che il patrimonio degli Italiani è ingente e sestuplo rispetto al PIL, che insomma i fondamenti economici della nazione sono solidi, è anche vero che l’ignavia politica si paga. E si paga con il prezzo più alto per una nazione che è la propria sovranità. La stessa ignavia e passività con cui siamo entrati nell’euro accettando un cambio patibolare senza negoziare nessuna possibilità di condivisione del debito pubblico, di intervento decisionale sulla politica monetaria. «Il punto chiave», ha scritto sul New York Times del 10 novembre Paul Krugman, «è che entrando nell’euro l’Italia ha dato un morso alla mela - ha convertito il suo status di Paese avanzato in quanto nazione che emette debito con la sua moneta nel peccato originale, ovvero in debiti espressi nella valuta di qualcun altro (europea in linea di principio, tedesca in pratica)». La stessa ignavia con cui alternativamente governi di centrodestra e centrosinistra si sono allineati alle direttive europee usando le bacchettate degli eurocrati vibrate sull’Italia come strumento di delegittimazione politica dell’avversario; la stessa ignavia con cui il governo Berlusconi s’è lasciato ricattare e condizionare in tutti questi anni dall’interno e dall’esterno, senza il coraggio di imbastire una seria kulturkampf in campo sociale politico e culturale e quando era ora di tornare alle urne. La stessa ignavia con cui questo governo ha condotto la sua politica estera lasciandosi trascinare per esempio nella trappola della guerra francese in Libia quasi vergognandosi di legittimi rapporti internazionali volti al conseguimento d’una maggiore autonomia energetica. Ora che i nodi arrivano al pettine, che il cerchio si chiude è quanto meno ingenuo meravigliarsene, indignarsi, parlare di democrazia negata e di politica commissariata. Come se la classe politica italiana sia una classe dirigente, come se la partitocrazia italiana sia qualcosa di diverso - come denunciavano Sturzo, Maranini e Panfilo Gentile – da quel mediocre comitato d’affari da sempre privo del senso d’una missione nazionale, incanaglita da un lungo sessantennio di ruolo proconsolare al servizio di interessi stranieri, priva di una visione e d’una cultura geopolitica, di cui qualche residuo si rintracciava nelle politiche di prudenza con il medio oriente dei governi democristiani. Ora che il commissariamento è avvenuto, che la nostra sovranità è ufficialmente sospesa, che la nostra leva monetaria, dopo essere stata usata a fini di clientele per decenni, è stata alienata dal nostro potere (la stessa sovranità a cui gli Stati Uniti, l’epicentro della crisi finanziaria, non hanno mai pensato per esempio di rinunciare con la Federal reserve) ora qualcuno crede che ci poteva essere un altro esito da questo. Esito spiacevole ma necessitato e inevitabile per almeno sospendere il pestaggio finanziario a cui è sottoposto il Paese. C’era e c’è al contrario soltanto un modo, una sola arma per impedire che le nostre società «finiscano col diventare altrettante succursali delle banche» come ha scritto Galli Della Loggia. Questa arma «è la politica a tutti i costi, è il tornare a una grande politica». Ma per farlo occorre recuperare il senso della nazione, smetterla d’essere sempre quelli che attendono lo straniero per infliggere una lezione alla fazione avversa. Chissà se le lacrime e il sangue, i tagli le alienazioni del patrimonio e delle aziende pubbliche che incideranno sulla carne viva del Paese, risveglieranno nella nazione un minimo d’orgoglio e di dignità. E la consapevolezza di quanto fosse vero il monito del vecchio Giuseppe Mazzini: «Senza Patria, voi non avete nome, né segno, né voto, né diritti, né battesimo di fratelli tra i popoli. Siete i bastardi dell’ Umanità».

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DOPO L’OCCUPAZIONE

ITALIA nazione aperta di FRANCO JAPPELLI DALLO scorso mese, ovvero da quando a Palazzo Chigi si è insediato il gauleiter Mario Monti, uomo della Goldman Sachs e delle lobby finanziarie internazionali, gli Italiani hanno scoperto, con raccapriccio e sgomento, di essere una “nazione a sovranità limitata”. In realtà le cose stanno diversamente. È infatti dall’otto settembre del 1943 che non siamo più un Paese sovrano e che nel mondo, politicamente parlando, contiamo come il classico due di coppe. Del resto va sottolineato che quello firmato a Cassibile non fu affatto un armistizio, come si ostina a definirlo la storiografia italiana, ma una «resa senza condizioni», come emerge dal testo in lingua inglese del documento. Documento che, tra l’altro, contiene non poche clausole segrete - come del resto il successivo trattato di pace - le quali, è facile intuire, debbono essere, per noi, - ancora oggi estremamente onerose e condizionanti. Liberi, insomma, dalla fine della seconda guerra mondiale, non lo siamo mai stati veramente. La nostra sventura è stata tuttavia mitigata dal fatto che l’Italia è finita nella sfera d’influenza americana. Anche se ferrea, la dominazione USA ci ha consentito, per lunghi decenni, un discreto sviluppo economico e una politica estera un po’ «frondista», ma rispondente ai nostri interessi, nell’area mediterranea. Come portaerei atlantica nel Mediterraneo eravamo del resto troppo importanti per Washington per schiavizzarci brutalmente. Non dimentichiamo poi, che in America gli italoamericani costituiscono il sei per cento della popolazione e rappresentano un cospicuo serbatoio di voti che è prudente, per qualsiasi candidato, non inimicarsi. Grazie alla rendita di posizione costituita dalla nostra importanza strate-

CAPODANNO DROGATO (Gianni Isidori, il Borghese 29 Dicembre 1974)


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gica abbiamo vissuto alla grande, diventando, negli anni Ottanta, la quinta potenza economica del mondo, e continuando, sottobanco, a farci gli affari nostri nel Nord Africa. L’Italia, uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, aveva perso la libertà ed era uscita dal novero delle grandi potenze, ma, in compenso, era diventata una sorta di Paese di Bengodi. Due eventi epocali misero però fine a questa «pacchia». La caduta del muro di Berlino e la nascita dell’euro. Con la fine del comunismo e lo scioglimento del Patto di Varsavia, la nostra importanza strategica come marca di frontiera venne infatti improvvisamente meno e, di conseguenza, si dissolse anche la nostra pluridecennale rendita di posizione politica. Gli americani, di fronte ai nuovi scenari, ne approfittarono per togliersi immediatamente dalle loro scarpe qualche «sassolino» che le nostre manovre «frondiste» vi avevano imprudentemente infilato. Bettino Craxi pagò così, con l’esilio tunisino, l’atteggiamento di indipendenza dimostrato nella vicenda di Sigonella e un’intera classe politica, grazie a «Mani pulite», un evento favorito e propiziato, come ha rivelato Francesco Cossiga, dagli agenti dell’Fbi americano, fu defenestrata nello spazio di pochi mesi. La caduta del muro di Berlino non aveva avuto soltanto l’effetto di declassarci politicamente, ma anche quello di riaprire i giochi a livello europeo che erano stati congelati per decenni dalla guerra fredda. Privati dello «scudo» americano diventammo oggetto degli attacchi dei francesi e, soprattutto, di quelli degli inglesi che approfittarono della situazione e, grazie ad un manipolo di traditori italiani, acquisirono, dopo la nota vicenda del panfilo Britannia, a prezzi di realizzo il 48 per cento delle industrie pubbliche italiane. I guai maggiori, tuttavia, iniziarono proprio con la nostra forzata e innaturale adesione all’euro, voluta, non dimentichiamolo da Romano Prodi, anche lui devoto «famiglio» della Goldman Sachs, la banca che, guarda caso, aveva gestito le nostre «dismissioni». L’interesse dell’Italia, senza alcun dubbio, era in realtà quello di rimanere fuori dalla moneta unica. Il nostro Paese aveva prosperato, per oltre mezzo secolo, grazie alle periodiche svalutazioni della lira che ridavano puntualmente fiato alle nostre esportazioni nei periodi di difficoltà. Privata, in seguito alla perdita della sovranità monetaria, di questo fondamentale strumento l’Italia imboccò così la via del declino economico. Con grande gioia della Germania che aveva sempre sofferto della concorrenza italiana sul fronte delle esportazioni. Non a caso l’economista Carlo Pelanda, proprio nei giorni che precedettero il nostro ingresso nella moneta unica, sostenne che sarebbe stato molto più logico, da parte nostra, restare fuori dall’euro diventando così, grazie alla lira svalutata, una sorta di Taiwan del Mediterraneo che avrebbe inondato il mondo con le proprie merci. * * * Un altro errore, conseguente al primo, fu quello di non considerare che la finanza angloamericana, alla lunga, non avrebbe tollerato la nascita di una moneta che avrebbe fatto concorrenza al dollaro sui mercati internazionali. Non a caso la «perfida Albione» decise, sin dall’inizio, di tenersi ben stretta la sua sterlina. Gli USA non possono infatti assolutamente permettere che l’euro soppianti il dollaro, soprattutto per quanto riguarda i pagamenti delle forniture di petrolio. L’Iraq, infatti, venne invaso quando Saddam

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chiese il pagamento in euro del proprio petrolio. E le attuali frizioni con l’Iran si spiegano proprio con l’analoga richiesta formulata da Teheran. L’impero americano si regge sul potere del dollaro che, a sua volta, si fonda sul potenziale bellico USA. Senza il potere militare che lo supporta il biglietto verde diventerebbe automaticamente carta straccia. Pensare che gli Stati Uniti e l’Inghilterra avrebbero subìto, senza lottare, lo sgomitare dell’asse franco-tedesco si sta oggi rivelando una pura illusione e una temeraria follia. In questo contesto l’Italia, per usare un’abusata espressione, rischia di fare la fine del vaso di coccio tra i vasi di ferro. L’entrata nell’euro ci ha alienato la tradizionale simpatia USA nei nostri confronti e, nello stesso tempo, ci ha consegnati, con le mani e i piedi legati, a tedeschi, inglesi e francesi che ci hanno dichiarato, da tempo, una guerra economica e geopolitica che stiamo perdendo rovinosamente. Siamo, insomma, diventati «spiacenti a Dio e a’nemici sui». Mentre la Germania ci strangola economicamente con l’euro, Francia e Inghilterra ci sfrattano dalla Libia e dall’intero Nord Africa e pongono una pesante ipoteca sulle forniture di petrolio provenienti da quell’area. Non è del resto un mistero per nessuno che Berlusconi sia caduto in disgrazia presso gli Americani dopo il trattato di amicizia stipulato con Gheddafi e gli accordi sottoscritti con Putin per il gasdotto europeo. A ben guardare il Cavaliere ha fatto la stessa fine (anche se ha salvato la pelle) di tutti coloro che, prima di lui, hanno tentato di recuperare a questo sciagurato Paese un brandello di sovranità nazionale. Benito Mussolini, Enrico Mattei e Bettino Craxi, a ben guardare, si somigliavano ben poco. Le uniche cose che avevano in comune erano un indubbio amor patrio e il sogno di un’Italia non più schiava dello straniero. Un «peccato», il loro, che hanno pagato con la vita. Molto diversa è la vicenda di Aldo Moro. Lo statista ucciso dalle BR ha infatti «pagato» non soltanto la sua politica filoaraba, ma anche il proprio progetto di compromesso storico con il PCI. Va però sottolineato che Moro, ex presidente della FUCI, l’organizzazione degli universitari cattolici, non era mosso - come Mussolini, Mattei e Craxi - dall’interesse nazionale, ma da quello della Chiesa cattolica che in quegli anni, sotto il pontificato di Giovambattista Montini, praticava una politica di Ostpolitik con il mondo comunista. Ammaestrato da questi poco lusinghieri precedenti, Silvio Berlusconi ha resistito sino allo stremo, ma poi ha compreso - grazie anche al tracollo in Borsa dei titoli Mediaset - che era venuto il momento di uscire di scena per salvare sia il peculio che la pelle. L’idea di finire come Gheddafi, che è morto sputando in faccia ai suoi carnefici, non lo ha sedotto neanche per un secondo. Del resto, come recita il proverbio? Soldato che fugge buono per un’altra battaglia. Intanto l’Italia, con l’arrivo di Monti, celebra, insieme a quello della sovranità nazionale, anche il funerale della democrazia. Con l’uomo delle grandi banche internazionali a Palazzo Chigi è infatti caduto l’ultimo velo d’ipocrisia che ci consentiva, almeno formalmente, di considerarci liberi cittadini di una libera Nazione. E la situazione appare ancora più paradossale se si considera che Monti è venuto ad imporre all’Italia le norme, anzi i diktat, di un’Europa (leggi Francia e Germania) che sta letteralmente andando a fondo. Ah, Europa, quanti delitti si commettono in tuo nome!


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MONTI E L’IMPRESA

COSA VORRÀ e potrà fare di FILIPPO DE JORIO (*) COME avevo lungamente previsto il «Berlusconismo» finisce male, molto male per l’Italia (non per diversi suoi esponenti che sono diventati favolosamente ricchi!) e così finisce la falsa destra degli affari nella quale hanno prosperato per più di tre lustri alcune delle più ridicole e ripugnanti figure che ci sia stato dato di incontrare. Purtroppo, finisce molto male anche per gli Italiani dissanguati dalle imposte dirette e indirette (cui si sono aggiunti i balzelli locali), privati di qualsiasi speranza di stare meglio dai tanti errori politici commessi, e traditi da tutte le promesse ed assicurazioni di Berlusconi e dei suoi. Oggi stanno soprattutto male i ceti medi, i pensionati, le categorie che noi abbiamo sempre difeso contro la stupidità di un potere politico che adotta iniziative sempre più pesanti contro di loro. Ritengo che negli ultimi giorni Berlusconi abbia cominciato a capire che l’essersi circondato di yesmen invece che di menti pensanti abbia determinato la situazione nella quale, alla fine, non poteva che essere perdente. L’abitudine a cercare fedeltà politica in gente di questo tipo ha portato a regalare grosse posizioni di potere e grosse occasioni per fare soldi a persone assolutamente immeritevoli e incapaci e, naturalmente, ladri. L’eredità che Berlusconi lascia al suo paese si può definire soltanto con una parola: disastro. Un disastro epocale che ci ha reso tutti più poveri e ha messo il nostro futuro in grave pericolo. Ma la rovina morale è stata anche maggiore: l’irrisione e l’obliterazione di qualsiasi ideale civile e politico; la falsificazione delle elezioni con la «nomina» di deputati e senatori da parte del capo, spesso per ricompensare prestazioni che di politico non avevano nulla e non hanno nulla l’allontanamento di quanti potevano essere utili al Paese, ma non dimostravano abbastanza servilismo e docilità nell’obbedienza; l’elevazione a ruoli pubblici di soggetti indagati o di veri e propri criminali; la vanificazione di tutti i sacrifici fatti dall’Italia e dai nostri soldati per partecipare in tutto il mondo alle imprese di solidarietà internazionale, coperta dalla grande risata indotta dalle imprese buffonesche, ma insieme sinistre del leader e dei suoi, è troppo evidente perché io ne debba qui parlare. Si può fare di più contro il proprio Paese? E veniamo al nuovo protagonista. Ho conosciuto Monti a Bruxelles, quando rappresentavo l’Italia al Comitato Economico Sociale dell’UE. Subito dopo un suo intervento nel quale disquisiva del sistema pensionistico e della sua riforma, gli parlai dell’inchiesta europea sulle pensioni che avevo promosso nella UE con l’aiuto di Beatrice Rangoni Machiavelli per fare chiarezza sul problema delle pensioni. E chiarezza vi fu, perché dalla mia inchiesta scaturì la verità, cioè che le pensioni italiane erano le peggiori d’Europa.

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Monti godeva allora e gode ancora di buona fama. Ha una notevole cultura economica, tuttavia orientata verso le banche e le imprese. Sottovaluta però, a mio avviso, per formazione culturale, la soluzione dei problemi sociali e la loro decisiva importanza allo stato delle cose, per la ripresa dell’economia. Ora il vero problema sono le cose che dovrà fare Monti e la loro compatibilità con gli interessi generali. È chiaro che, con la nomina a senatore a vita, è stato indicato esplicitamente come capo del governo del Presidente, un governo che potrà godere di larga autonomia e di pochi condizionamenti perché privo di interesse al giudizio degli elettori. Monti non è un politico e neppure è destinato a diventarlo perché il laticlavio gli è stato conferito non alla fine della sua (inesistente, allo stato) carriera politica, ma all’inizio del suo mandato. Diciamo pure che egli è indifferente rispetto agli elettori, Perciò la domanda è: che farà, che vorrà, potrà o dovrà fare Mario Monti? In queste ore molti se lo chiedono. Si parla di provvedimenti e di riforme «impopolari». Si parla di patrimoniale, di aumento delle imposte, di privatizzazioni, delle solite pensioni, della probabile reintroduzione dell’ICI sulla prima casa, di «rigore», insomma… A Dini, in una situazione analoga, fecero fare l’infame legge 335/95 che diede il via allo «scassamento» del sistema pensionistico e l’inizio di una serie di guai per i ceti medi italiani. Con lui iniziò poi quel dibattito sull’euro che culminò nella scelta di un cambio demenziale: 1 euro=1.937 lire che di colpo ci impoverì del 50 per cento dei nostri averi e dette il primo colpo mortale all’economia italiana. Sì, il mio pensiero è obbligato a ripercorrere eventi di un passato non ancora assorbito e metabolizzato, il governo Dini. Penso, appunto, alla riforma delle pensioni attuata da Dini quando successe a Berlusconi e che fu votata o subita da tutto il parlamento. Una legge iniqua che da allora iniziò una vera involuzione nelle condizioni dei pensionati e nei loro rapporti economici. Mi chiedo ora: cosa vorrebbero mai che facesse Monti? Seguitare nella soppressione dei diritti iniziati da Berlusconi, operazione che trova infinite prove nelle varie finanziarie degli anni del suo potere: Non c’è n’è una sola che non comporti sacrifici pesantissimi per le categorie più deboli! (L’ultima prova risiede nella cosiddetta legge di stabilità approvata dal parlamento per così dire a «scatola chiusa»).

INIZIATE LE CURE (Giuliano Nistri, il Borghese 28 Aprile 1971)


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I «sacrifici», il «rigore», le «cure da cavallo», la soppressione dei diritti, magari attuata con la cooperazione di zelanti magistrati assurdamente convinti che soltanto dando ragione alla Pubblica Amministrazione ed agli Enti previdenziali può essere salvato il bilancio dello Stato, servono soltanto ad «avvitare» ancora di più il circolo vizioso che ci spinge lontani dalla salvezza. Ancora una volta si indicano mete depistanti per cercare di scaricare su ipotetici «untori» le colpe della crisi che sono tutte della classe politica dominante e dei suoi indotti economici. Ora, la strada per uscire dal gorgo è molto diversa, anzi opposta a quella che, ipoteticamente, si vorrebbe indicare a Monti. Lo andiamo dicendo da tempo e lo ripetiamo. Prioritariamente: reintegrare e restaurare la capacità di accesso al mercato dei beni e servizi per 24 milioni di pensionati italiani la cui capacità di consumo è ormai ridotta a zero. Soltanto questo può riattivare il moltiplicatore e l’acceleratore keynesiani e fare ripartire l’economia. In effetti, se si vuole veramente agire per procacciare al bilancio dello Stato le somme necessarie per gli investimenti e la ripresa e, prioritariamente, per reintegrare la capacità di consumo della quasi totalità della classe media italiana, la strada è già scritta. Altra iniziativa necessaria è una seria e decisa lotta contro la criminalità politica che costa tanto al bilancio dello Stato (90 miliardi all’anno secondo la Corte dei Conti), riattivando per prima cosa la vecchia legge che imponeva alla fine di ogni mandato: il controllo economico sui beni vecchi e nuovi di ogni soggetto politico e della sua famiglia; abolire le province, ormai inutili da anni; sottoporre le regioni ad una cura dimagrante che impedisca gli sprechi di cui si sono resi responsabili alcuni governatori. (vedi l’uso delle scorte, degli aerei, degli elicotteri, vero Polverini?). Anche le Authority dovrebbero essere sottoposte ad un vaglio critico per studiare se sono o no effettivamente utili nel nostro quadro giuridico e costituzionale. A mio avviso dovrebbero essere tutte o quasi tutte abolite. Esse servono, in realtà, - nell’ambito di un sistema giuridico dove il diritto è basato sui precedenti giurisprudenziali, come negli USA o nel Regno Unito. Da noi il diritto è codificato. Perciò le Authority sono fuori quadro. Ma la loro moltiplicazione è servita soltanto per regalare posti ben retribuiti ai soliti Amici, con nessuna utilità collettiva! Infine, e forse è il caso di pensare seriamente al ritorno alla lira, come mezzo di pagamento sul mercato interno, chiedendo all’Europa di riconoscere diversi rapporti nel cambio lira=euro e mantenendo, dopo questa indispensabile rettifica, l’utilizzo dell’euro sul mercato internazionale. Potrebbe essere l’economista Monti, con un colpo d’ala, a realizzare questa iniziativa sempre più necessaria? Invece le prime intenzioni di programma che gli vengono attribuite ci fanno pensare ad una vera e propria strage dei diritti, aumento delle imposte, azione sulle pensioni, insomma il «rigore» in tutta la sua nefasta significazione… La stessa ipotizzata riesumazione di Giuliano Amato, l’autore della Finanziaria «lacrime e sangue», del prelievo forzoso sui conti correnti, dell’indulgenza sulla sua propria pensione di componente di una Authority, non è certo di buon augurio! Non ci resta che sperare che fresche illusioni, quelle indotte dal cambio della guardia, non siano rapidamente vanificate! (*) Presidente del Pensionati Uniti e della Consulta dei Pensionati

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RIPENSARE IL MODELLO DI SVILUPPO

LA DESTRA della rinascita di CARLO VIVALDI-FORTI COL PRESENTE intervento desidero partecipare all’inchiesta sulla destra promossa dal nostro direttore. Trascuro di proposito qualsiasi riferimento alla situazione presente, che ritengo virtualmente chiusa e sulla quale non c’è quindi più nulla di significativo da dire. Data la rivoluzione in atto, nel formulare proposte e nell’indicare obiettivi dobbiamo spingerci oltre, anticipando il futuro e discutendo fin da ora sull’opera di ricostruzione che ci attende, atteggiamento che ricorda da vicino quello dei colloqui di Teheran e di Yalta, quando i grandi della terra preferivano dibattere dei futuri assetti geopolitici globali piuttosto che del conflitto ancora in corso. Quest’ultimo, affidato ormai ai soli militari, non li riguardava più: la sconfitta di Hitler, fosse questione di mesi o di un anno, si profilava infatti sicura. La stessa certezza ispira il mio ragionamento, e invito i lettori a valutarlo in quest’ottica. Radicale revisione del modello sociale, di sviluppo e di crescita - Per avviare la ricostruzione è necessario ripensare in toto il modello di sviluppo. Già altre volte ci siamo soffermati sugli errori che hanno condotto non soltanto l’Italia, ma l’intero mondo occidentale alla catastrofe. Al fine di non ripetere questi ultimi è opportuno ricordarli brevemente. Le scelte sbagliate datano dall’inizio degli anni sessanta, quando le classi dirigenti ispirate al catto-comunismo e al social-progressismo distrussero in breve tempo, mediante gli strumenti del centro-sinistra e del compromesso storico, una cultura secolare fondata sull’etica del risparmio, dell’investimento, della produzione e del consumo. Ad essa venne sostituita quella dello sperpero, dell’assistenzialismo, dell’inflazione a due cifre, della tassazione confiscatoria e del livellamento generale. Il disastro che oggi stiamo subendo fu preparato fin da allora da demagoghi, ladri e criminali travestiti spesso da santi, il cui unico scopo era appropriarsi della ricchezza del ceto medio, spina dorsale del Paese e del suo benessere. Il consumismo, effetto di quella spaventosa anticultura priva di valori, è la barbarie, il mostro che ha divorato, giorno dopo giorno, l’intero patrimonio ideale e materiale accumulato in secoli di onesto e intelligente lavoro. La distruzione, purtroppo, non si limita al solo aspetto economico: le devastazioni morali e ambientali rappresentano un retaggio ben più tragico, per noi e per le generazioni future. Appare quindi evidente che nessuna ricostruzione può essere inaugurata senza prima modificare alla radice il modello di sviluppo prevalso negli ultimi cinquant’ anni. Ciò non significa, beninteso, abbracciare la filosofia pauperistica così cara alle sinistre, almeno a parole. La soluzione consiste nell’avviare un’epoca di crescita sostenibile, intendendo con questo la sua compatibilità con


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la salvaguardia dei valori etici, indispensabili alla conservazione della comunità umana, in assenza della quale l’avvenire sarebbe irrimediabilmente compromesso. Tale risultato si può ottenere ad una precisa condizione, e cioè che con il termine crescita non s’intenda soltanto l’incremento della ricchezza monetaria, ma il miglioramento delle condizioni generali di vita, che non sempre coincide con il possesso di pecunia. Il tasso di felicità, croce e delizia di statistici e sociologi, negli anni cinquanta appariva di gran lunga superiore a quello di oggi, sebbene il denaro in circolazione fosse molto inferiore. La nuova cultura di destra, pertanto, deve porsi come obiettivo una fondamentale revisione dei princìpi dell’economia politica, tuttora di matrice liberal-liberista, cui si ispira lo stesso marxismo-leninismo. Nei manuali universitari abbiamo letto che dei tre fattori della produzione, lavoro, capitale e natura, solamente i primi due rappresenterebbero un costo, mentre il terzo, disponibile in quantità illimitata, sarebbe gratuito. Inoltre l’incremento del ben-essere, sostantivo che scomposto significa star bene, non coincide necessariamente con l’aumento del PIL, altra bestialità materialista, ma col fatto di provare sentimenti di gioia, armonia e speranza nella vita. Da qui una serie di conseguenze pratiche, come per esempio la concezione quantitativa del lavoro, per la quale si presuppone che ad ogni ora lavorata in più faccia riscontro un proporzionale aumento del reddito, panzana grossa come un palazzo. Infatti, se l’opera prestata non è qualitativamente conforme alla domanda, non soltanto accrescendo i tempi della produzione non si crea maggiore ricchezza, ma la si distrugge in modo esponenziale. Tale realtà condanna senza appello gli efficientisti di mestiere, fautori tra l’altro dell’abolizione di varie festività in nome della concorrenza, come se il successo dipendesse da cinque giorni feriali in più o in meno! Analogo rilievo per coloro che vollero anticipare di due settimane la riapertura delle scuole, illudendosi di trasformare così gli asini in geni. Il solo effetto fu invece la rovina del mese di settembre, prima dedicato a un turismo di qualità, con conseguenze molto negative per l’economia di settore. Ebbene, la destra dovrà fare piazza pulita di tutte queste sciocchezze, sposando una concezione economica a dimensione della persona umana e della sua dignità, ossia l’opposto di quanto si è realizzato nell’ultimo mezzo secolo. Un diverso concetto di «Welfare» - Il cosiddetto Stato sociale, come lo conosciamo oggi, si rivela un’autentica truffa a danno dei veri poveri e degli emarginati da parte di coloro che, protetti da sindacati e partiti, hanno edificato una potente lobby del privilegio nella redistribuzione della ricchezza. Chi tutela, infatti, i giovani senza lavoro, chi lo perde in età matura, oppure chi, per ragioni di salute o altre cause indipendenti dalla propria volontà, non ha mai potuto lavorare? Essi, considerati la zavorra della società, beneficiano solamente, e non sempre, di un misero contributo che non consente loro neppure di alloggiare in un dormitorio pubblico, tanto è vero che spesso si riducono a vivere nelle stazioni o in mezzo alla strada. All’estremo opposto si collocano i trattamenti pensionistici milionari di manager pubblici e privati, di politici che cumulano talvolta due o tre vitalizi, riscossi da chi ha lavorato poco e male, purché nell’ambiente giusto; infine la mole di miliardi a carico del

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bilancio pubblico per sanità e previdenza. Questo insieme di nefandezze deve essere cancellato con un semplice tratto di penna. Il Welfare di destra dovrà prendersi carico di tutti, in virtù del solo diritto di cittadinanza, e non per l’appartenenza a questo o a quel gruppo di potere. La soluzione, da me più volte ribadita, appare quindi un Reddito Minimo Garantito decoroso, corrisposto esclusivamente a chi ne è sprovvisto, nella misura e per il periodo in cui tale carenza perdura. Ciò, beninteso, non in cambio di nulla, ma di una attività socialmente utile svolta a titolo gratuito e accompagnata alla frequenza di un corso di formazione professionale. Qualora il beneficiario dovesse sottrarsi anche ad uno solo dei suoi doveri, il sussidio verrebbe istantaneamente sospeso. Questo nuovo istituto dovrebbe rimpiazzare ogni altro trattamento previdenziale, assistenziale e ammortizzatori sociali, fatti salvi i diritti acquisiti, visto che lo Stato non deve mai comportarsi da ladro. Dovrebbe inoltre essere resa obbligatoria la stipula, per ogni cittadino, di una polizza assicurativa a copertura dei rischi personali, contratta con compagnie private operanti sotto il severo controllo di una apposita commissione ministeriale e/o parlamentare. Partecipazione e Socializzazione - La visione sociale della destra non può prescindere da una forma di partecipazione aziendale che si estenda progressivamente a tutte le imprese, pubbliche e private, di qualsiasi settore produttivo o di servizi. Essa, a pieno regime, dovrà comprendere l’associazione dei dipendenti alla proprietà, alla gestione e ai risultati delle medesime. Contemporaneamente, almeno per le aziende di grande rilievo e interesse nazionale, si dovrà prevedere una loro socializzazione. Con questo termine s’intende la funzione sociale delle stesse garantita dall’inclusione, nei loro organi amministrativi, decisionali e di controllo, dei rappresentanti di fornitori, clienti e consulenti, oltre a quelli pubblici, del Comune, della Regione o dello Stato. Poiché il capitale di funzionamento resterebbe in mano ai privati non si può parlare di nazionalizzazione. Al contrario, anche i soggetti giuridici di carattere pubblico dovrebbero col tempo essere socializzati, a condizioni e con criteri simili. In tal modo, a poco per volta, scomparirebbe la differenza fra i predetti settori, una delle cause dei nostri problemi. Tale provvedimento dovrebbe essere esteso alle banche, imprese come le altre, nel cui CDA siederebbero pure i delegati della clientela, depositanti e correntisti, con pieno diritto di voto. È evidente che in tal modo la speculazione finanziaria d’assalto su derivati e titoli spazzatura terminerebbe, obbligando la banca a ritrovare la vocazione originaria di erogatrice del credito. Si tratterebbe quindi di una rivoluzione sociale completa, molto più ampia di quella che trasformò il capitalismo privato in capitalismo di Stato nel 1917! Gli effetti sarebbero tali da prefigurare l’avvento di una nuova forma di convivenza umana: scomparsa del concetto di classe sostituito da quello di ruolo, concertazione sistematica delle decisioni e fine di ogni differenza tra proprietari e dipendenti. Un nuovo modello di Stato - La visione partecipativa non può arrestarsi agli aspetti economici e sociali, ma deve estendersi alle istituzioni politiche. In tal senso le riforme indispensabili appaiono le seguenti: trasformazione della seconda Camera in assemblea a rappresentanza d’interessi con delegati eletti nel seno delle diverse categorie


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produttive, del lavoro, della cultura e dell’arte, in base a criteri che non è qui il caso di approfondire; elezione della metà dei Consigli locali in modo analogo; elezione popolare diretta del Capo dello Stato con l’attribuzione, al medesimo, di facoltà simili a quelle previste dalla Costituzione francese; creazione di uno specifico articolo che preveda l’assunzione dei pieni poteri, da parte sua, in caso di grave e immediata minaccia all’ordine pubblico, alla sicurezza, al regolare e legittimo funzionamento delle istituzioni; ampio decentramento amministrativo pur nella salvaguardia dell’unità nazionale. Tali riforme completerebbero la struttura partecipativa della società e segnerebbero la rinascita a pieno titolo della politica, nel senso classico di politìa, ovvero autogoverno dei governati, oggi offuscata dallo strapotere dei partiti e delle lobby. Beninteso, i partiti continueranno ad esistere, rappresentati nella prima Camera, ma esclusivamente nella loro specifica funzione di orientamento e guida dell’opinione pubblica. Balza quindi evidente che la soggezione della società civile alle cieche forze del mercato e della speculazione diverrebbe impossibile. Una nuova civiltà creditizia e fiscale - La società partecipativa condurrà a nuovi scenari nella stessa politica creditizia e fiscale. Le banche dovranno reinventare la pratica del Venture Capital, del tutto abbandonata dopo la crisi dei mutui americani. Questi ultimi, però, nulla avevano a che vedere con i prestiti alle aziende sane o ai giovani imprenditori in fase di decollo. Ciò che renderà possibile questi finanziamenti sarà proprio la socializzazione, ossia la partecipazione incrociata di rappresentanti degli istituti di credito nei CDA delle imprese e viceversa. Grazie a tali accorgimenti scomparirà, sia pure col tempo, la contrapposizione d’interessi fra creditori e debitori, poiché questi rivestiranno entrambi i ruoli. A seguito dell’integrazione delle funzioni e delle competenze nessuno avrà più la tentazione di turlupinare nessun altro, visto che se lo facesse il danno colpirebbe innanzitutto se stesso. Analoga considerazione concerne i rapporti fra cittadino e fisco. L’eterna guerra tra guardie e ladri, col funzionario delle imposte che insegue l’evasore fuggiasco, ricorda la scenetta dell’omonimo film di Totò e Aldo Fabrizi; se tale meccanismo non avvelenasse la nostra esistenza ci troveremmo davvero nel bel mezzo di una comica. La società partecipativa, annullando la differenza fra settore pubblico e privato, farà giustizia anche di questa gravissima anomalia del sistema. Le tasse, che serviranno esclusivamente a mantenere le strutture portanti dello Stato, essendo tutto il resto gestito dalla società medesima, verranno ricondotte nella misura fisiologica del 30 per cento o forse meno. Non soltanto a questo livello la propensione all’evasione si ridurrà enormemente, ma la socializzazione delle imprese la renderà di fatto impraticabile. Conclusione La visione sinteticamente esposta formerà oggetto di un mio prossimo saggio. Essa delinea i contorni di una società nuova nella quale la politica con la «P» maiuscola tornerà a giocare il ruolo che le spetta, mentre economia e finanza ridiventeranno uno strumento e non lo scopo della vita. Soprattutto, si distruggeranno le fondamenta sulle quali poggia l’impero della mafia globale, spalancando le porte ad una civiltà più equa ed umana.

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LA VERA POLITICA BIPOLARE

L’EUFORIA del naufrago di ADRIANO SEGATORI CHE NESSUNO si faccia illusioni! Non sto iniziando un discorso sul problema del bipolarismo, né sulla democrazia realizzata delle alternanze, ma sto soltanto psichiatricamente tentando un’anamnesi ed una diagnosi della politica bipolare in atto, quella che si esprime attraverso il ciclo patologico e alternato della depressione e dello stato maniacale quale quadro ben conosciuto della malattia mentale. Ognuno di noi sente dentro di sé l’umore che cambia secondo circostanze più o meno favorevoli o stati interiori mutevoli per qualche inconscia motivazione. È un fatto normale, che di solito è controllato da un’attività piacevole e da un diversivo soddisfacente. Grave è quando la ragione perde completamente il controllo delle emozioni e queste sconfinano, alternativamente, dal pensiero più negativo con idee di rovina e di annullamento a quello più invasato con fantasie di onnipotenza e di esaltazione. È quanto sta accadendo da diverso tempo dall’Europa all’Italia, e viceversa. Da quando si è inventato questo aborto di Europa, questa mostruosità giuridica ed economica battezzata con l’instaurazione dell’euro, durante la fase maniacale di Prodi e dei governanti dell’epoca, tronfi per chi sa quale concepimento geniale, è stato tutto un alternarsi di umori e di sentimenti, senza la minima gestione delle emozioni. Dal trionfalismo onnipotente di allora, un su e giù incontrollato fino alla depressione catastrofica di oggi. Il perché di questo scompenso psicopatologico è piuttosto semplice da inquadrare, almeno usando un’immagine metaforica. Perché la politica, cioè la mente razionale, la parte della coscienza del proprio esistere, il dispositivo che permette l’esame di realtà e l’autocritica, è andata a puttane, con la conseguente prevaricazione dell’economia, cioè della natura irrazionale, vegetativa, semplicemente materiale della questione. Tanto per capirci la politica sta all’economia come la dieta sta alla sta pancia. Ovvero: è la ragione che stabilisce il giusto introito di cibo e la sua qualità, mentre la pancia seguirebbe l’istinto di ciò che piace e il peccato della gola. Ecco: questa condizione bipolare della politica è data dal prevalere dell’istinto di quest’ultima sul rigore della prima. Se si valuta di ciò che è accaduto nel nostro piccolo e grande Paese con questa griglia di interpretazione le faccende assumono dei contorni più precisi. Tutto è iniziato con la «fine delle ideologie» e il messaggio martellante di origine statunitense della «fine della storia». Da quel momento virtuale, per altro comunque preceduto da una sottile e pervasiva neutralizzazione della politica, il fattore impulsivo del mercato ha iniziato a dettare le sue leggi e a prescrivere le sue condizioni. Naturalmente, a causa del fatto che l’economia non segue il segno del destino, ma i sintomi soggettivi e fuorvianti delle Borse, si è perso ogni limite legato alla ragione, e si è permesso il libero corso degli istinti più incontrollabili.


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La Politica, elemento formativo delle idee, era lo strumento che conteneva all’interno di una cornice di disciplina metodologica e di visione realistica le istanze pulsionali delle economia; era la condizione essenziale per dirigere le sue pressioni e per arginare le sue voglie. In questa sua funzione non c’è dubbio che ci fosse, psicosociologicamente parlando, una normale e salutare componente depressiva, come in tutte le condizioni nelle quali si è costretti a fare i conti con la frustrazione della rinuncia e la consapevolezza del limite. Quando questo controllo è venuto meno, l’economia ha preso il sopravvento, e non potendosi dare delle limitazioni, in quanto categoria di per sé autoreferenziale e quindi mancante di ogni confine interiore, si è potuto assistere alla sua espressione incontenibile, alla sua agitazione maniacale. È qui che, meglio che altrove, emerge il delirio di onnipotenza e lo scompenso patologico. Avendo perso di vista il suo ruolo naturale, quello che dal pensiero classico la delegava ad ancella della Politica, si è montata la testa, come il maggiordomo che pretende di dirigere e di comandare il suo padrone. L’economia, da serva (al servizio di), pretende ormai un riconoscimento da padrona (essere servita da). La sovversione di questo valore e di questa funzione ha determinato il quadro anomalo che a livello sia italiano che europeo è davanti agli occhi di tutti coloro che sono uomini liberi, capaci ancora di vedere e di elaborare ciò che vedono. Di fronte ad una Politica che definiva paletti e ostacoli alla prevaricazione del mercato e allo strangolamento della finanza internazionale, quest’ultima ha dapprima innescato il meccanismo depressivo, imputando alla Politica la causa della precarietà economica e poi, in un sussulto maniacale, si è posta a curatrice del disastro, con la velleità megalomanica di qualunque paziente o sistema disturbato. Quello che è accaduto nelle ultime ore in cui sto terminando questo articolo è la descrizione puntuale di questo processo patologico. La fine del governo di Berlusconi, dopo un martellamento mediatico sul baratro verso cui staremmo andando a causa sua e della sua compagine (quindi la fase depressiva), è stato l’elogio funebre della Politica, o almeno di quella parte che ha tentato con le unghie e con i denti di difendere l’Italia dalla predazione da parte della pirateria bancaria sovranazionale. Immediata, quasi contemporanea, si è ufficializzata l’egemonia del potere finanziario (fase maniacale), con tripudio onnipotente verso una soluzione rapida, gloriosa e definitiva di ogni problema economico dell’Italia e dell’Europa. C’è un particolare che sfugge a chi non è un addetto ai lavori sulla psiche, e a chi, politicamente, soffre di questo disturbo che altera ogni esame di realtà e ogni critica della ragione. Che la depressione è una condizione esistenziale che deve essere elaborata per dare un senso ragionevole e corretto all’esistenza e alle sue implicite difficoltà; la maniacalità, invece, è uno stato patologico che proprio perché nega la verità dei fatti non può che trascinare verso una certa ed euforica rovina. Nello specifico, al di là delle metafore, la conquista del potere da parte dell’economia, e la messa da parte golpista di un Parlamento e di un popolo sovrano, significa la fine di un’autorità politica nazionale ed europea e la resa incondizionata di uno Stato agli usurai e ai faccendieri del capitalismo anonimo. Quello che è triste e sconcertante è constatare l’effetto contaminante di questo disturbo, simile ai peggiori contagi della folla, che sta inesorabilmente portando al disastro un’intera nazione, mentre, come sul Titanic, la musica e le danze continuano, all’insegna di quell’atmosfera suicida che Evola ha definito l’«euforia del naufrago».

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GENOVA - DISASTRO ANNUNCIATO

MA MARTA non se ne va di ALBERTO ROSSELLI DOPO il disastro, abbondantemente annunciato e quindi prevedibile, che ha colpito il capoluogo ligure lo scorso 4 novembre, il primo cittadino di Genova, la signora Marta Vincenzi, è costretta suo malgrado, a fare i conti con la sua coscienza (sei sono stati i morti causati dalla sua incompetenza e centinaia di milioni di euro i danni provocati dalla sua negligenza). Ma lo fa - atteggiamento tipico del politico «impunito» - con l’arroganza di chi è abituato a detenere, arbitrariamente, potere e ragione: cioè accampando scuse, scaricando colpe su altri, e raccontando penose e vergognose fandonie. La Vincenzi piange, sì, ma nel contempo attacca, rabbiosa e puntigliosa. Eh sì! Piange i morti (non può farne a meno, ma accusa il prossimo e cerca, disperatamente, di crearsi un alibi, facendosi, nella sostanza, beffe del dolore di una città. Accusa l’opposizione di centro destra di «irresponsabilità e sciacallaggio» (il suo operato è stato criticato, giustamente e regolarmente, in sede municipale); accusa i suoi «compagni» di partito e le compagini alleate del PD, di averla abbandonata; accusa l’inclemenza della natura e i tecnici del Meteo, ma ben si guarda dal guardarsi dentro, dal dare le dimissioni e dal dichiarare di non essere stata in grado di fronteggiare una calamità, come si è detto, abbondantemente annunciata. Se la prende persino - la nostra geniale «Super Marta», come ama farsi chiamare dai suoi fan - con la Protezione Civile, con i Servizi Meteo, con Dio. Roba da non credere. Le colpe trasudano dai suoi insufficienti (caritatevole eufemismo) e superficiali provvedimenti a tutela di una città, ma «Super Marta» accampa scuse, e piange. Il sindaco pd di Genova prova a rispondere alle polemiche che l’hanno investita dopo la tragica alluvione con perle di contraddittoria saggezza: «I sei morti sono sulla mia coscienza (…) Cosa penso dentro di me e come soffro questo è un fatto umano, non certo un fatto da responsabilità politica (…) E proprio per questa ragione non penso proprio alle mie dimissioni (…) abbandonare in questo momento la mia città mi sembrerebbe una cosa vergognosa». Peccato che, dai sondaggi, il 95 per cento per MARTA VINCENZI cento della popo(Dal sito www.notizia24.it)


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lazione genovese la vorrebbe fuori dai piedi. Immediatamente. Intervistata da più testate, «Super Marta» si butta sul «tecnico» in salsa politichese, rispolverando modi di dire sinistri e ritriti: «Il problema è a monte... Nella misura in cui... Cioè…», afferma. Delirio dialettico in parte vero: se avesse fatto dragare il torrente Bisagno e mettere in sicurezza il Ferreggiano, anziché spendere milioni di euro per organizzare feste demenziali multiculturali come «Le notti bianche», forse i danni sarebbero stati minori. Ma andiamo avanti. «Super Marta», in preda ad un delirio schizofrenico, afferma: «La responsabilità ce la prendiamo tutti ed io per prima (la coerenza è un dato relativo, scopriamo). Spero che col tempo si capisca che ciò che è accaduto era da segnalare come disastro e non allerta 2 (che gli esperti ne facciano tesoro: Marta insegna)». Insomma, il primo cittadino ne ha per tutti: «Le mie colpe sono da condividere con la Protezione civile!» Ma non basta: «Col senno di poi avrei fatto chiudere l’intera città (...) A seguito dell’Allarme 2 ricevuto dalla Protezione civile, quest’anno a noi segnalato sei volte, abbiamo applicato un protocollo che però non prevede la chiusura di tutte le scuole, né il blocco di tutta la città» (un vero genio!). Risultato: il 4 novembre, nell’arco di 15 minuti, il torrente Ferreggiano (che ha travolto una mamma e due bambini) è passato da nemmeno un metro d’acqua ad oltre quattro, distruggendo tutto al suo passaggio e allagando asili e scuole. Ma adesso assistiamo al finto crollo psicologico di «Super Marta»: «Un’alluvione così, con i mezzi di prevenzione previsti in essere, non è stata possibile né da gestire né da fermare come sarebbe stato giusto». Complimenti! «Sindaco Vincenzi, lo spieghi ai parenti delle vittime!», le ha gridato una donna che ha perso tutto in Via Ferreggiano. «Le sono vicina», ha balbettato «Super Marta». «Mi stia lontana, è meglio, e si dimetta!», le ha risposto la donna inferocita. Difficile, dopo un’alluvione «colposa» tentare di lavarsi la coscienza nell’acqua dei fiumi che hanno stroncato vite e speranze. Ora, non per fare gli accusatori a tempo libero, occorre però puntualizzare ciò che è vero ed inoppugnabile. Ma come fa il sindaco Vincenzi a non rendersi conto delle sue molteplici, gravissime ed oggettive colpe? Non a caso la magistratura ha avviato una sfilza di indagini, e mica per caso. E ancora. Come si fa a prendersela con i Giuliacci che «pontificano in televisione»; come si fa a prendersela con la Protezione civile e le Centrali operative meteo che «con satelliti che scrutano ogni acquazzone e anticipano ogni refolo di vento». Come si fa a sostenere che un evento come quello del 4 novembre non era prevedibile? E con quale coraggio Marta Vincenzi piagnucola, terrea, di fronte a sei morti e di fronte alla devastazione di una città colpita al cuore, accampando, tuttavia, continue scuse. Con che cuore, ci domandiamo. Con quale cervello. Davanti a quei due bambini, così come davanti alle altre vittime di Genova o quelle delle Cinque Terre, la gente non può più accettare fragili scuse e lacrime da coccodrillo di una Vincenzi di turno. La gente non ne può più - a Genova come a Reggio Calabria - di una classe dirigente incapace e demente Se è vero, come sostiene «Super Marta» «che non si poteva fare nulla per contrastare il disastro», se «non ci sono responsabilità oggettive da parte dell’amministrazione», se «ci sono stati dei disguidi», perché mai - ci chiediamo - gli Italiani dovrebbero continuare a mantenere un esercito di politici e amministratori da spazzatura, che, tra l’altro, per numero non ha pari nel mondo? Per sentirsi dire ogni volta che «non ci si poteva fare niente»?

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IL TERRITORIO NAZIONALE INDIFESO

SOTTO le bombe d’acqua di ALESSANDRO P. BENINI UNO tsunami alla rovescia: le immagini da tutti viste per giorni e giorni in televisione ed in rete sono del tutto simili a quelle diffuse mesi fa, quando il sisma ed il successivo maremoto sconvolsero il nord del Giappone. Con la differenza che il vortice d’acqua, qui da noi, era composto da piovaschi e dalle acque esondate da fiumi e torrenti in corsa verso il mare. Soltanto una strada, meglio definirla un sentiero, che corre da Porto Venere fino a Vernazza, è rimasta parzialmente percorribile, a mezza costa tra le terrazze riarse ed il mare profondo delle Cinque Terre. È la «Strada dell’Amore» oggi percorsa dai tanti turisti in estate, ieri comodo viottolo per i contadini ed i pescatori di questi borghi rivieraschi. Un camminamento antico, che ha comunque resistito alla violenza del fango e dei detriti, così come i ponti romani e medioevali della Lunigiana, sconvolta dal nubifragio; i ponti più recenti, quelli costruiti trenta, vent’anni orsono, giacciono divelti o piegati nel letto dei corsi d’acqua che attraversavano. Tutta la Liguria, di levante e di ponente, con al centro Genova letteralmente annegata con alcuni dei suoi abitanti, è stata sconvolta da una serie di nubifragi che definire di tipo monsonico forse è poco, ma le domande che tutti si pongono e molti hanno gridato in faccia al Sindaco del capoluogo, rimangono, regolarmente, senza risposta. Le colline e le montagne che sovrastano la fascia costiera, da Ventimiglia a Lerici, centinaia di chilometri di paesaggio tra i più ammirati al mondo, sono state, nel corso di un secolo, tagliate, bucate, edificate, disboscate e spesso decolonizzate, essendo il turismo più redditizio del lavoro agricolo. E il caso di Monterosso, dove proprio al turismo di massa è stato sacrificato il difficile equilibrio tra territorio e flussi giornalieri di migliaia di persone. Un docente dell’Università genovese, a poche ore dal disastro delle Cinque Terre, ha dichiarato ai cronisti: «Ci siamo venduti la terra, la casa e l’anima», parole che stanno a significare, nello sgomento della circostanza, come il turismo, anche in una zona «protetta» abbia condizionato le iniziative locali, quasi si dovesse assolutamente rincorrere i soliti schemi del divertimento e delle comodità, in contrasto con la natura dei luoghi. Oggi, a coltivare quelle terrazze, a mantenere pulite ed efficienti le piccole muraglie a secco, messe su, pietra su pietra, sono rimasti pochi anziani, gli altri, abbandonati gli strumenti del contadino, hanno preferito diventare albergatori e cuochi. Malgrado i vincoli ferrei stabiliti dal 1977, con l’istituzione del «Parco delle Cinque Terre», delle cementificazioni sono state autorizzate ed effettuate, come, ad esempio un parcheggio-silos da circa 300 posti auto è stato costruito in cima al paese. La verità è che in tutta questa martoriata provincia di La Spezia il pericolo di frane ed esondazioni è presente da decenni: quasi tutti i comuni della zona hanno contrade abitate in prossimità di fiumi e di torrenti, spesso in secca, ma non per questo meno pericolosi, e, senza valutare il rischio, si è continuato a costruire anche delle strutture turistiche negli


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alvei dei fiumi. Non è soltanto il territorio limitrofo alla Lunigiana a rappresentare il maggior pericolo, ma, in pratica, tutta la Regione Liguria, dove il 98 per cento dei Comuni è a rischio e dove, talvolta, si è rinunciato ad edificare minime opere di messa in sicurezza per l’opposizione di un ambientalismo esagerato, che, per salvaguardare una valletta o un pendio a macchia, ha favorito l’azione devastatrice delle acque. Non c’è poi da meravigliarsi se Genova, città chiave del sistema delle comunicazioni europee e metropoli industriale, viene travolta dalla piena di due fiumi urbani, con le sue strade trasformate in vorticosi torrenti assassini; lì, oltre all’infelice morfologia del territorio, c’è la consueta superficialità, l’incuria, la leggerezza, l’irresponsabilità di non procedere alla bonifica dei letti dei corsi d’acqua cittadini, nonostante le segnalazioni pervenute in Comune fin dal luglio scorso. Dove è finita, ammesso che ci sia mai stata, l’attenzione delle giunte di sinistra alle condizioni di vita della gente, se con l’abbandono della manutenzione del territorio comunale, con la colpevole, mancata pulizia dei letti dei fiumi e lo sgombero non fatto dei detriti, accumulatisi alle foci si diventa complici della forza distruttrice di un nubifragio? Molte chiacchiere, dichiarazioni d’intenti e niente di fatto. Già nel 1970 Genova subì la medesima sorte, con le stesse scene di distruzioni di oggi, allora viste in televisione in bianco e nero e adesso a colori; quali opere di prevenzione, in quarant’anni, sono state effettuate? Come sono stati spesi i miliardi stanziati per i lavori di messa in sicurezza? Tutte domande che la popolazione rivolge ad una classe politica ancora ideologicamente datata e più adatta ai convegni salottieri di una sinistra radical-chic, che non all’amministrazione di una grande città. La realtà, comunque, è ancora più nera: è tutto il nostro Paese ad essere in precario equilibrio sulla voragine del dissesto idrogeologico; sono sessant’anni che si preferisce agire con i risarcimenti, invece di scegliere, una volta per tutte, la strada maestra della prevenzione. Il passaggio di una perturbazione, a novembre, ha disseminato l’Italia di lutti e rovine, dall’Elba alla Campania, alla Basilicata. Un percorso tragico, che è una replica, certamente più disastrosa, di quanto è già avvenuto in passato. Abbiamo già dimenticato le frane del messinese e le acque che hanno sommerso Vicenza e buona parte del Veneto. Nonostante i morti, i feriti, i senzatetto, si continua a fare finta di niente come niente è rimasto nella memoria collettiva dei 213 miliardi di euro pagati per risarcimento negli ultimi cinquanta anni, ci si dimentica dei trentamila chilometri quadrati del nostro territorio costantemente a rischio idrogeologico, ed anche dei 6 milioni di italiani che in questo territorio vivono. Regioni, Comuni, Genio Civile, Governo… Tanti centri direzionali preposti alla sicurezza del Paese, tanta parcellizzazione delle responsabilità e poca sicurezza. E, intanto, il temporale si avvicina.

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DOPO IL NUBIFRAGIO DI GENOVA

SONO SEMPRE i soliti morti di FELICE BORSATO NEL 1963, erano i primi di ottobre, parte del Monte Toc franò nell’invaso della diga di Longarone e in pochi attimi di quel mercoledì sera morirono quasi duemila persone. Il livello dell’acqua aveva raggiunto la quota 715, per una capacità complessiva di 722 metri. La zona circostante, in quelle condizioni, doveva essere chiusa al traffico e sgomberata dove era abitata. Ma non fu così. E seguì un processo celebrato a L’Aquila per motivi di ordine pubblico che si concluse in Cassazione con condanne minime. Il 9 ottobre 2011 - quarantotto anni dopo - sono state ricordate le vittime delle calamità naturali e, genericamente, degli incidenti, con una sollecitazione del Capo dello Stato. Ma il Vajont è stato ignorato, con l’unica eccezione di Rai 5 (oggetto misterioso del digitale terrestre in quasi tutta Italia) che la sera prima ha mandato in onda parte di un celebre monologo teatrale di Marco Paolini che nel 1997 trasmesso da Rai 2 - era risultato il migliore spettacolo dell’anno! Le cronache di quel disastro (ed altre di disastri drammatici, ma meno clamorosi) tornano alla mente davanti alle immagini del web di fine ottobre e principio di novembre 2011, relative alle alluvioni in Toscana e Liguria. E come allora, si criticano i soccorsi, si accusano gli amministratori locali per presunta inerzia, si istruiscono processi negli affollati salotti tv e gli interventi umanamente indispensabili e urgenti, tardano anche con il ritorno del sole. Tornano alla mente le immagini del Vajont e di altre catastrofi, come, per esempio, il terremoto del Friuli. In quelle zone della Venezia Giulia, ferita dal sisma, ci pensò la gente che si mise al lavoro durante le scosse di assestamento. Andò diversamente in provincia di Belluno e la «diversità» merita di essere rievocata. A Roma, presidente del Consiglio era Giovanni Leone. Ma il miracolo - considerato tale universalmente - fu compiuto dal ministro della Difesa Giulio Andreotti. Volle conoscere la effettiva portata della sciagura e, resosi conto che non c’era rimasto niente da salvare, che i «pompieri» di Belluno non bastavano e che gli aiuti dalle regioni vicine non sarebbero stati che palliativi, decise di muovere il IV° Corpo d’Armata, comandato dal generale Carlo Ciglieri, di stanza nel vicino Alto Adige. Quando il prefetto di Belluno ebbe sentore dell’imminente arrivo della truppa e del suo comandante, requisì l’Albergo delle Alpi e lo mise a disposizione del generale Ciglieri; ma il militare preferì istituire il comando sotto una tenda e indicò ai suoi uomini il luogo dove sistemarla: un ricordo lucido e indimenticabile. Era il 10 ottobre e la conformazione del terreno limitò le operazioni di scavo, imponendo ai soldati la rimozione del fango soltanto per il recupero dei corpi senza vita: lavoro portato a termine con approssimazione nell’intera giornata di giovedì. E si pose subito il problema della sepoltura di tante vittime.


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Punto primo. Disporre di almeno duemila bare. Punto secondo. Effettuare il riconoscimento dei corpi. Punto terzo. Individuare la zona dove dare sepoltura alle bare, nel più breve tempo possibile. Ciglieri diede il via al suo piano di emergenza che si sarebbe rivelato unico possibile e vincente. Da Belluno partirono decine di jeeps con due uomini a bordo, uno per la guida, l’altro per i contatti con i falegnami che sarebbero stati incaricati di fabbricare in fretta e furia (poche ore, dal mattino alla sera) il maggior numero possibile di casse, ad un prezzo uguale per l’intero territorio, anticipo e ricevute; a raggiera, l’operazione partì dalla città, verso la Venezia Giulia fino a Trieste, il Trentino (Bolzano e Trento) e nella zona centro-meridionale del Veneto fino a Padova, attraverso Vicenza, Verona, Treviso e Venezia. Nel pomeriggio, da Belluno partirono i camion per lo stesso percorso fatto il mattino dalle jeeps, per ritirare le casse e saldare i conti. Nelle ore di punta di questo andirivieni di auto e camion, la Pontebbana fu parzialmente chiusa fino a Conegliano e, di qui, per Vittorio Veneto; e lo stesso per la strada diretta al Cadore, quindi Longarone. Il venerdì mattina, a 36 ore dal disastro, cominciò la pietosa opera del riconoscimento dei corpi, mentre Ciglieri e il prefetto - dopo aver individuato la zona di Fortogna per improvvisare un grande cimitero - cominciavano l’estenuante opera di convincimento per ottenere, immediatamente, la piena disponibilità del terreno. Non fu operazione semplice, in quanto si trattò di convincere agricoltori di molte generazioni ad abbandonare, seduta stante, le terre che avevano coltivato per decenni e le case abitate con intere famiglie. Alla fine il terreno fu ottenuto con una regolare cessione e nella mattinata di domenica vennero effettuate solennemente le sepolture alla presenza di Antonio Segni, Presidente della Repubblica. Un autentico miracolo di piena dedizione ed efficienza! Così apparve agli occhi del mondo intero il saper fare degli Italiani. E non mancarono i confronti con il dopo-terremoto di Skopje, in Macedonia, dell’estate precedente, con i corpi delle vittime piegati in due e sistemati alla meno peggio nelle cassette per gli ortaggi: operazione che pietosamente seguii, attonito, al centro della città, giorni dopo il disastroso terremoto del 26 luglio. E in Macedonia, al contrario di Longarone, c’era tanto cemento da spostare e per farlo, in fortissimo ritardo, ci vollero gli escavatori della FIAT, partiti da Torino, ma costretti ad un viaggio interminabile attraverso l’intero arco alpino, Trieste, Lubiana, Zagabria, Belgrado e altri 450 chilometri di strada. Quasi mezzo secolo dopo, non sono possibili confronti e considerazioni. Il disastro del Vajont poteva essere evitato e il vertice della SADE (Società Adriatica di Elettricità) finì giustamente sotto processo. Ma a Skopje fu terremoto; non prevedibile. Diversa la situazione delle alluvioni in Toscana e Liguria. Qui è stato fatale l’aver costruito in modo selvaggio, per loschi interessi di bottega, aggredendo il territorio dove andava…ammirato e protetto. Non impossibile, dunque, individuare le responsabilità: e basterà leggere le firme sulle autorizzazioni. A Genova il sindaco è stato contestato senza mezzi termini. Se è vero che per tanti anni, prima di governare la Lanterna, la signora Marta Vincenzi fu presidente della Provincia, risalire alle responsabilità dell’incuria non sarà difficile. P.S. - Felice Borsato, in quell’anno1963, fu inviato speciale de Il Giornale d’Italia, prima a Skopje e poi a Longarone.

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COSA C’ENTRANO I «BLAK BLOC»?

LA RABBIA dei giovani di ADALBERTO BALDONI LA STRAGRANDE maggioranza degli Italiani pare sia rimasta sorpresa dai disordini che si sono verificati il 15 ottobre scorso nella capitale. Come svegliati di soprassalto nel sonno, hanno scoperto la Violenza, come se gli eventi drammatici al «G8» di Genova del 2001, appartenesse alla preistoria. Una violenza dura, di piazza, esercitata da un migliaio di giovani, anzi di giovanissimi che hanno devastato il centro di Roma. Nel capoluogo ligure andò peggio, sia perché ci scappò un morto, sia per la maggiore estensione delle zone colpite dai dimostranti. Ci si è chiesti chi fossero le centinaia e centinaia di ragazzi che hanno infranto vetrine, incendiato auto, assaltato filiali di banche, divelto sampietrini per scagliarli contro gli incolpevoli poliziotti perché simbolo dello Stato, del Potere. Black bloc, ultras degli stadi, anarco-insurrezionalisti, ragazzi dei centri sociali che gravitano nell’area di sinistra o in quella di destra, è stato scritto… Sia il Viminale che i partiti non hanno avuto dubbi, etichettandoli sbrigativamente black bloc. Non soltanto. I Servizi, sotto sotto, avrebbero avallato questa versione, facendo circolare una mappa dei black bloc che, a loro parere, sarebbero localizzati su tutto il territorio nazionale ma con punte di maggiore consistenza nel Lazio, in Campania, in Toscana e in Lombardia. Se rispondesse a verità questa notizia (riportata da alcuni autorevoli giornali, tra cui Repubblica), bisognerebbe domandarsi come mai la nostra intelligence, in prossimità del raduno degli «indignati», non abbiano segnalato tempestivamente al Viminale i movimenti dei cosiddetti, presunti black bloc. Perché questa doverosa, indispensabile opera di prevenzione, avrebbe consentito alle Forze dell’Ordine di bloccare i facinorosi, impedendo loro di inquinare con la violenza (la guerriglia è tutt’altra cosa) il corteo di migliaia e migliaia di giovani che manifestavano pacificamente. L’intento di chi era sceso in piazza era quello di unirsi alle agitazioni che stanno scuotendo il mondo. Gridare il proprio dissenso contro chi persegue l’idea esclusivamente economicistica dello sviluppo, inteso come crescita di pochi a spese della comunità. In ogni Paese, infatti, gli «indignati» chiedono che il benessere sia distribuito con razionalità e giustizia. Tentiamo di redigere un bilancio degli incidenti. Nella fatidica giornata del 15 ottobre, le forze dell’ordine hanno arrestato 12 manifestanti per resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale. Il Gip ne ha convalidato gli arresti: otto sono restati in carcere, due ai domiciliari e uno scarcerato. Alcuni giorni dopo, sono finiti in manette altri tre ragazzi, tutti residenti fuori Roma. Le indagini sono poi proseguite per identificare altri violenti. Successivamente il 4 novembre, il tribunale del Riesame ha spedito tutti a casa, ai do-


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miciliari, tranne uno che è rimasto in carcere. Tutto qui? Sì, purtroppo, tutto qui. Sorge spontanea una domanda: ma dove erano i black bloc, in particolare quelli che provenivano dall’estero (come era accaduto a Genova)? Non si sono visti, non compaiono nei filmati, nemmeno in quelli amatoriali. Ergo: non c’erano. Che i violenti (gli arrestati provengono da famiglie borghesi, sono quasi tutti studenti, conducono una vita normale) abbiano scimmiottato i black bloc è indubitabile. Come è certo che il loro comportamento violento era mirato a provocare un notevole effetto sull’ambiente esterno. Per attirarne l’attenzione. Niente richiama l’attenzione come la Violenza, che permette perciò di pubblicizzare e rendere visibile in massimo grado la rivendicazione o il risentimento. Con gli odierni mezzi di comunicazione di massa, un episodio di violenza particolarmente clamoroso può raggiungere l’attenzione di milioni e milioni di persone. Tuttavia, lo scopo principale della violenza non dovrebbe limitarsi ad attirare l’attenzione, ma a seminare consensi e sostegni alle proprie rivendicazioni. Questo obiettivo non è stato raggiunto, anzi è stato controproducente perché ha offuscato i motivi delle istanze degli «indignati», giovani precari, disoccupati, emarginati, sfruttati con il «lavoro nero», senza-casa… Ed allora chi erano, chi sono, i ragazzi che hanno scelto la violenza come strumento di protesta? Sembra non abbiano una colorazione politica, né un retroterra culturale e ideologico, come invece accadeva negli anni Sessanta e negli anni Settanta, nel corso della contestazione giovanile prima e durante gli anni di Piombo poi. Le ideologie sono finite con il crollo del Muro di Berlino nel 1989, che ha sancito anche il termine della Guerra fredda. In questi ultimi anni i giovani sembrano smarriti, confusi, avvelenati dal consumismo. Senza prospettive, ideali, valori in una società sempre più relativista, egoista, chiusa, dove trionfa soltanto il Dio danaro. Non hanno modelli, né punti di riferimento, né bandiere da sventolare sulle barricate. Le tensioni sociali sono il loro humus, la Rete il loro principale strumento di comunicazione. Qualcuno li ha definiti gli «eroi del nulla», i vessilliferi della violenza fine a se stessa. C’è da dire che la famiglia (i genitori si fanno vivi soltanto quando i loro figli incappano in qualche disavventura…), la scuola (insegnanti frustrati, mal retribuiti e demotivati), la classe politica (mai scesa così in basso dal dopoguerra ad oggi), dimostrano di non capire le esigenze e le aspettative dei giovani. A proposito di politici. Subito dopo gli incidenti, senza neppure attendere gli esiti delle indagini, un deputato vicino al centrodestra, dichiarò ai media che, per risolvere la questione della violenza, sarebbe stato sufficiente chiudere i centri sociali, motore delle agitazioni di piazza. Non specificò se di sinistra o di destra. Una proposta, questa, palesemente strumentale ma, al tempo stesso, provocatoria. In quel momento significava gettare benzina sul fuoco. Il che la dice lunga sul livello politico, morale e culturale di alcuni personaggi che siedono in Parlamento. È azzardato affermare che l’esplosione della rabbia incontrollabile dei giovani può trovare una qualche giustificazione nel constatare che il nepotismo, le clientele, i favoritismi, la corruzione vengono anteposti alla meritocrazia, ai sacrifici e ai diritti?

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CHI SONO GLI AUTENTICI «BLACK BLOC» Il termine Black bloc era nato in Germania nei primi anni Ottanta, quando gli squatter tedeschi avevano occupato centinaia di palazzi abbandonati a Francoforte, Berlino, Amburgo. La polizia li aveva chiamati «schwarzer bloc», blocco nero. Man mano agli squatter si sono aggiunti punk, barboni, hooligan da stadio. La loro età varia dai 17 ai 25 anni, ma nelle loro fila ci sono anche più anziani, quasi tutti disoccupati. Dopo essersi diffusi in Olanda, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Grecia e Svezia, hanno dilagato anche negli Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda. Scarsa la presenza in Italia. Non hanno un’organizzazione strutturata, né capi ed iscritti. Il loro volto è coperto da bandane. Per collegarsi usano semplicemente le reti informatiche. I Black bloc si definiscono radicals e anarchici che lottano per gli ideali di libertà per tutti, democrazia diretta e autonomia. I loro quattro princìpi basilari sono: libertà individuale, eguaglianza sociale ed economica, libera associazione e mutuo soccorso (cioè cooperazione e solidarietà). Sono svariati i motivi che spingono gli anarchici a formare dei «black bloc» alle dimostrazioni: Tra queste ragioni ci sono: 1) la solidarietà - un consistente numero di anarchici fornisce copertura contro la repressione della polizia e mette in pratica la solidarietà della classe operaia; 2) la visibilità - il Black bloc è come una marcia dell’orgoglio gay; 3) le idee - è un modo per presentare la critica anarchica alla protesta «du jour»; 4) il mutuo soccorso e la libera associazione - fornisce un esempio visibile di come i gruppi di affinità possono unirsi in un gruppo più ampio e coordinare obiettivi comuni; 5) l’escalation - è un metodo per innalzare il livello di una protesta così che vada oltre il mero riformismo o gli appelli allo Stato perché rimedi alle ingiustizie. La specificità dei Black bloc, nel corso delle manifestazioni, è quella di danneggiare soltanto cose (i simboli del potere politico ed economico) e non persone. Ecco perché a Genova le «tute nere» non hanno assaltato la «zona rossa». Le loro incursioni sono state improvvise e rapide. Quando hanno danneggiato locali e sedi, assaltato il carcere di Marassi, lo hanno fatto smantellando sul posto il selciato per farne pietre, hanno raccolto bottiglie nei cassonetti delle immondizie per trasformarle in molotov, hanno smontato staccionate per ricavarne bastoni. Hanno evitato cioè gli scontri con la polizia al contrario di parte delle tute bianche, dei noglobal. A.B.


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L’INTESA PERINA-POLVERINI

DIO, PATRIA e mattone di RUGGIERO CAPONE A ROMA e nel Lazio la politica ha confini davvero labili. Uno steccato potrebbe essere inteso come invalicabile o meno, a seconda che l’incontro tra due esponenti di partito sia più o meno organizzabile in un salotto. Ne consegue che la nomina a commissario cittadino romano di Flavia Perina (ex direttrice del Secolo d’Italia) per «Futuro e Libertà» sia funzionale ad aprire nella Capitale un canale di scambio e dialogo con Renata Polverini (presidente della Regione Lazio). E non è certo un caso che a coordinare FLI nel Lazio sia stato comandato Giulio La Starza, finiano di ferro della prima ora. In previsione delle politiche (e delle future comunali) Umberto Croppi (ex assessore di Alemanno), Renata Polverini, Flavia Perina e Gianni Alemanno starebbero organizzando un dialogo tra la dissidenza del PDL romano e la componente moderata di FLI. Non si tratterebbe certo d’un modo per rimettere insieme una forza di destra e nemmeno di tentare una riedizione della melensa Alleanza Nazionale. È piuttosto un modo, tutto «romanocentrico», di costruire una via partitica che possa sopravvivere alla fine del PDL berlusconiano come di eventuali sconfitte del FLI di Fini. Del resto il vicepresidente di FLI, Italo Bocchino, e lo stesso presidente della Camera, Gianfranco Fini, possono davvero poco condizionare i pacchetti di voti romani. Flavia Perina e Renata Polverini starebbero tentando la costituzione d’una forza autoctona, romano-laziale, che si poggi a metà tra il Terzo Polo e l’ex PDL. Una democristianata? E non c’è da stupirsi. Infatti, come ha ben documentato Dagospia, i party organizzati dall’opulento generone romano in favore di governatrice e coordinatrice sono meta di ex democristiani oggi indecisi tra un PDL alla Pisanu e un Terzo Polo alla Casini. E Fini? Di lui non c’è traccia, pare eviti di fare capolino agli incontri per Renata e Flavia, ben conscio di poter dare meno garanzie delle due donne di ferro. Ma nomi come Perina, Polverini, Umberto Croppi rappresentano anche una destra pronta a intese a sinistra per Roma e Lazio. Anche l’addio a FLI da parte di Antonio Buonfiglio (coordinatore regionale approdato in area Polverini) fa parte della strategia gelatinosa. Ovvero non solidificare intese partitiche locali se non nell’immediato delle urne. Del resto Roma e Lazio si governano «inciuciando» tra moderati e social-sinistri. La stessa giunta Alemanno s’è ben guardata dal tracciare per Roma strade diverse da quelle battute da Rutelli e Veltroni. Anche la bocciatura, da parte dell’ultimo governo Berlusconi, del «piano casa» della giunta Polverini, va letta come una stroncatura del PDL agli inciuci «romanocentrici» della governatrice. Infatti la legge targata Polverini avrebbe dato molte soddisfazioni agli storici costruttori romani e ai piccoli speculatori da sempre centristi. Non aiuterebbe chi non ha un alloggio, ma permetterebbe a chi possiede suoli, opifici dismessi e ville con grandi giardini e terrazzi di ampliare la cubatura.

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Si tratterebbe di far piovere sul bagnato. D’agevolare le storiche famiglie che organizzano proprio i party per Renata e Flavia. Qualche malevolo suggerisce che agli incontri non mancherebbero le facoltose amiche (e relativi mariti) della madre di Elisabetta Tulliani (attuale compagna di Fini). Terzi poli e piani casa - Tra i potenziali beneficiati del programma ci sarebbero, per esempio, i fratelli Anemone (Daniele e Diego): ebbero una parentesi di notorietà con le vicende della Protezione civile, sono comunque «immobiliarmente» molto solidi ed avrebbero gradito ampliare alcune loro case. Poi Franco Caltagirone, imperatore capitolino del mattone ed editore del Mattino di Napoli e del più grande quotidiano romano, Il Messaggero. E ancora gli onnipresenti Angelucci, i re delle cliniche: famiglia bipartisan da sempre, inclini a fare affari con tutti, anche con la futuribile diarchia Perina-Polverini. E non è certo un caso che il «piano casa» porti la firma di Luciano Ciocchetti (ex democristiano oggi leader laziale dell’UDC). Ciocchetti avrebbe dovuto vigilare sulla commissione regionale all’Ambiente, ma alla sola idea di poter favorire il partito gelatinoso, l’intesa centrista Perina-Polverini, ha subito sfornato l’idea. E non è nemmeno un caso che a presiedere la commissione regionale che ha fatto questa legge ci sia un altro udc: si parla di Roberto Carlino, immobiliarista che ha ottenuto in esclusiva su Roma la vendita delle case di Caltagirone costruite grazie all’ultimo piano regolatore di Veltroni. E Carlino non soltanto ringrazia la Polverini, ma spinge perché ai party Renata-Flavia vi partecipi tanta gente legata al salotto del Terzo Polo, quello di Caltagirone. Nemmeno la scelta di Giulio La Starza è scevra da questa logica: il coordinatore regionale di FLI è uomo che conosce il palazzo e i salotti romani. La commissione Telecom-Serbia acclarò che La Starza aveva guidato l’aereo che trasportava a Belgrado il danaro contante dell’affare. Poi La Starza, pilota personale di Gianfranco Fini, era stato eletto in Parlamento nelle fila di AN. All’apice del successo politico-imprenditoriale (non guardiamo ai pregressi: il fallimento di qualche compagnia aeronautica, stranamente riacquistata da Toto dell’AirOne) La Starza acquista «Villa Cacciarella» all’Argentario: una delle ville italiane rinomate nel mondo, paragonata a quelle palladiane come «Villa Feltrinelli». Ma sull’affare immobiliare hanno indagato gli inquirenti ai tempi dell’arresto di Stefano Ricucci. «Villa Cacciarella» è una delle più belle costruzioni del promontorio toscano: vista panoramica sul mare, 266 mila metri quadrati di parco con torre saracena del ‘400, 34 stanze, abitazione del custode, eliporto. Ricucci ha sposato Anna Falchi in quella dimora. E a Ricucci sarebbe costata 34,82 milioni di euro: all’ex odontotecnico di Zagarolo è stata ceduta da Giulio La Starza, che però ha smentito di conoscerlo. La Starza soffrirebbe di «scajolite», nota perdita di memoria a contatto con mattoni e cemento. Secondo il contratto, la Magiste di Ricucci ha acquistato l’Immobiliare Cacciarella dalla Portfolio Finanz Anstalt di Vaduz (Liechtenstein) che, nel 2000, pagò la villa soltanto 2,5 milioni, decollati vertiginosamente dopo una ristrutturazione: è stata messa a reddito dall’immobiliarista per un valore pari a 70 milioni di euro. Soldi veri o fittizi? Una cosa è certa: La Starza è persona che di “piani casa” ne capisce e pure tanto. Del resto la Polverini è persona concreta, con case acquistate bene all’Aventino e all’Eur. Insomma, a Roma il partito gelatinoso offrirà presto un nuovo tetto a tanti nostalgici del mattone democristiano, quello che dal ‘63 ad oggi non ha mai onorato il fondo Gescal.


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«GIGGINO SETTE BELLIZZI»

LA RANA scoppiata di MIMMO DELLA CORTE CHISSÀ che, per la felicità di «Giggino sette bellizzi» De Magistris, che lo ha scelto, Roberto Vecchioni, attaccandola alla coda del «grande cavallo», bagnandola nelle «chiare, dolci e fresche acque» della sorgente del «Forum delle culture», non riesca davvero a trasformare Napoli nella sua mitica «Samarcanda». E, chissà, magari, durante quest’anno e mezzo che ancora ci si separa dall’evento, i due troveranno anche il tempo per un pellegrinaggio a Milano all’ombra di San Siro, per una domenica calcistica in nome di quella comune fede interista, che il capo condomino di Palazzo San Giacomo - recentemente definito da un periodico napoletano l’Imper-adone, ma che a dire il vero, sembra più un «menestrello» al servizio di se stesso cerca di dissimulare, facendosi ammirare sugli spalti - e, qualche volta, anche a bordo campo - del San Paolo, al fianco di De Laurentiis in occasione delle partite casalinghe della squadra azzurra. Ehi, ma non siate malpensanti, non lo fa per «tirarle i piedi», bensì per convenienza elettorale. Pensa, così, di conquistare il cuore, e soprattutto il voto, dei tifosi del «ciuccio». Forse, chissà! Una cosa, però, è certa: quelli che attendono Napoli, nei prossimi cinque anni, non saranno di certo i «migliori anni». Anzi. A mio modestissimo avviso, c’è rischio che possano essere ancora peggiori di quelli dell’assolutismo bassoliniano che ci siamo appena lasciati alle spalle e dei quali, non si sa fino a quando, saremo costretti a pagare il conto e che ora, addirittura, rischiano di trasformarsi negli anni dell’autoritarismo, della «vanità» e della vacuità, del novello «re sole», che a quattro mesi dalla sua elezione già si sente «strozzato» dalla fascia tricolore e comincia a guardare oltre. Magari, perché no, verso, Palazzo Chigi. Per riuscirci, però, non gli basta Napoli, ha bisogno di allargare i propri orizzonti al di là della frontiera del Garigliano. Sicché, ha dato il via alla sua personale «rivoluzione d’ottobre» con l’annuncio della nascita di un movimento politico nazionale, insieme a Pisapia, Vendola, Di Pietro, & c. ed ha levato le ancore per un personale «giro d’Italia», alla ricerca di potenziali proseliti. Per rendere beneaccette alla gente le sue profferte le fa sapere che «partecipare a certi tavoli, gli crea disagio» e che lui «è dalla parte dei lavoratori» e, soprattutto, «di quelli meridionali» e per dimostrarlo li ha chiamati a raccolta per «una grande manifestazione» che, a suo dire, «il nord non dimenticherà». Ed, in previsione di tale evento, ha organizzato un’assemblea sul lavoro a Napoli, alla quale ha invitato i lavoratori, ma non le organizzazioni sindacali perché a lui «non serve il permesso dei sindacati». Il che, ha aperto una frattura fra i lavoratori e le loro rappresentanze e fra queste ultime e l’amministrazione comunale. Come Attila, insomma, dove passa lui «non cresce più l’erba». Accusa Berlusconi di voler stravolgere la Costituzione, ma, poi, decide di anticiparlo e lancia l’idea di dar vita ad una sovrastruttura di chiara marca bolscevica:

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l’«assemblea del popolo» che dovrebbe, con progetti e programmi, supportare il Consiglio comunale. Per evitare, però, che qualcuno di quelli che saranno chiamati a farne parte possa montarsi la testa sull’effettività del costituendo organismo, si è affrettato a ribadire che comunque a decidere sarà sempre e soltanto lui. Credo che in proposito nessuno nutrisse alcun dubbio. Oltretutto, ha già ampiamente dimostrato il proprio «modus agendi» assolutistico, quando ha annunciato pubblicamente che «la vendita dello stadio “San Paolo” a De Laurentiis è un problema soltanto suo», estromettendo, in tal modo, preventivamente da ogni possibile trattativa - anche soltanto formale - l’assessore comunale con delega allo sport Pina Tommasielli e con la scelta - in questo caso, a parere personale, giustamente - di Bagnoli quale sede delle regate (evento, per altro, del quale continua ad assumersi il merito in prima persona, sorvolando sulla questione più importante ovvero che i circa 40 milioni necessari alla sua realizzazione, arriveranno in massima parte dalle casse regionali e provinciali, mentre soltanto gli spiccioli verranno da quelle comunali che, comunque, al momento, non hanno ancora scucito neanche un euro bucato) della Coppa America, nonostante il «niet» degli ambientalisti e della lista «Arcobaleno» che lo aveva sostenuto durante la corsa elettorale. Per lui, i cittadini, devono servire soltanto come «foglia di fico» per coprirne l’inverecondo «assolutismo». Di più, a chi - come il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco - osa, seppure garbatamente, fargli notare che la luna di miele fra lui e la città, sembra essersi già rotta, ribatte, accusandolo, di essere «amico di Cosentino». Accusa che - visto il mittente e quanto scrive, relativamente al centrodestra - appare, se non proprio un assurdo, quantomeno un paradosso. Così come è paradossale la sua levata di scudi contro l’Associazione Nazionale Magistrati rea di aver «osato» deferire ai probiviri il pm Giuseppe Narducci diventato assessore comunale nella stessa città in cui aveva svolto l’attività di magistrato, tra l’altro, indagando e chiedendo l’arresto per il coordinatore regionale del centrodestra, Nicola Cosentino. «Noi siamo più avanti anche dei probiviri dell’Anm», ha detto, a dimostrazione che lui non se le tiene da nessuno ed a tutti replica con identica ed uguale violenza verbale. Resta da scoprire, però, cosa intendesse dire con quel «noi siamo più avanti». Forse, che l’amministrazione di Napoli è «più avanti» della stessa Magistratura sulla strada per la trasformazione dell’Italia in un Paese a libertà vigilata? Eppure lo ha votato soltanto un napoletano su cinque - Certo, al ballottaggio, con il candidato del centrodestra, Gianni Lettieri, ha stravinto, portando a casa addirittura il 65 per cento dei consensi, ma in quei due giorni per le urne, è passato soltanto il 51 per cento degli aventi diritto. In pratica, a sceglierlo, se è vero che la matematica non è un’opinione, è stato soltanto un napoletano su cinque. Eppure, facendosi forte di questo striminzito consenso, lui ha deciso d’imporre le sue scelte a tutta la città. Purtroppo, il sindaco voluto da una minoranza dei napoletani, rischia di trasformarsi in una vera e propria iattura per la città. Come se non bastassero a «precarizzarne» il futuro quelle che le si sono abbattute addosso, in questi ultimi 20 anni. Il successo elettorale, insomma, lo ha gasato al punto da farlo sentire - non soltanto il primo della classe e sarebbe già un’esagerazione - addirittura un unto dal Signore, l’uomo della Provvidenza. Venuto sulla terra «a miracol mostrare».


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Tant’è che, già in piena campagna elettorale, cominciò ad annunciare il proprio celestiale impegno per la risoluzione dell’emergenza rifiuti, garantendo che la spazzatura sarebbe scomparsa dalle strade di Napoli, nello spazio di non più di 5 giorni dal suo arrivo in quel di piazza Municipio, riconfermando l’impegno ad impedire la realizzazione del termovalorizzatore a Napoli Est e rassicurando il presidente della Regione, Stefano Caldoro che privilegiando la raccolta differenziata ed il cosiddetto progetto «rifiuti zero», avrebbe definitivamente debellato la «munnezza» e riportato i soldi di Bruxelles a Napoli. Purtroppo, come sempre capita a chi presume di essere un «un inviato dal cielo», anche sulla strada del sindaco, si sono materializzati l’arcidiavolo Belfagor ed il suo esercito di satrapi infernali (leggi: camorra ed organizzazioni criminali, grandi e piccole, sfuse ed a pacchetti), per impedire che il prodigio assicurato avesse a realizzarsi. Lui, da indomito combattente e nemico giurato di delinquenti e prepotenti, immediatamente ha denunciato la cosa, gridando ai quattro venti che se l’evento auspicato non s’è realizzato, la colpa non è da addebitare alla sua incapacità, all’incredibilità ed inattuabilità delle proprie proposte, bensì ai boicottaggi di chi non vuole che Napoli sia «nettizzata» dalla «munnezza». Siamo, ormai, ben oltre i cinque giorni assicurati e la spazzatura effettivamente scomparsa - anche se con qualche settimana di ritardo, rispetto alla tempistica garantita e, a parere personale, soltanto per il momento - dal centro storico e, quindi, dalle strade battute da turisti e visitatori, fa ancora bella mostra di sé, lungo i «sentieri» della periferia, laddove nessun ospite «oserà» avventurarsi; il livello di «differenziata» è, addirittura, sceso al di sotto, di quello raggiunto ai tempi della Rosa Russo Iervolino ed, infine, non soltanto non sono arrivati i soldi di Bruxelles, fra un po’ bisognerà cominciare a pagare quelli per le «crociere della munnezza», per trasferire il pattume fuori dai confini patrii. Poi, a conferma della saldezza delle proprie convinzioni e del rispetto per i campani che vivono al di là della cinta confinaria partenopea, assicura che quel termovalorizzatore che a Napoli «nun s’addà fa» perché pericoloso per i cittadini, si può anche fare, ma nel casertano ovvero a Capua. Ma le contraddizioni ed i comportamenti incomprensibili di De Magistris non finiscono qui. Anzi! Agli altri contesta il diritto a ricorrere al «legittimo impedimento», ma lui se ne serve ad «ogni piè sospito»; inveisce contro la FIAT che accusa di mettere in discussione i diritti dei lavoratori e la democrazia nella fabbrica di Pomigliano d’Arco, ma poi si prepara, felicitandosi per l’annuncio, ad aprire le danze, quando il 14 ed il 15 dicembre prossimo, l’amministratore delegato di Corso Marconi a Torino, sarà a Napoli per presentare la nuova Panda, costruita nello stabilimento pomiglianese. Parla di «tutto» e del «contrario di tutto», è alla quotidiana e spasmodica ricerca di un «titolo di giornale» ad effetto, forse perché consapevole che se calasse il sipario della ribalta mediatica, per lui - con il vuoto di risultati prodotti - sarebbe davvero la fine. Potrebbe ritrovarsi «scoppiato» come la rana di Fedro. Quella che, vedendo un bue e presa dall’invidia di tanta grandezza, cominciò a gonfiare la pelle rugosa e lo fece così a lungo e con tanta violenza che alla fine scoppiò. Sperò se ne avveda per tempo. È un po’ vanitoso, egocentrico, supponente ed arrogante ai limiti della prepotenza e della presunzione, ma come disse quella popolana partenopea che lo aveva votato: un «simbadicone».

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LA REALTÀ SUPERA LA FINZIONE

IN FUGA verso Est di DANIELA ALBANESE «L’INDUSTRIALE»: un giovane che deve far fronte ai debiti della sua azienda, in una Torino che vive gli effetti della grande crisi economica, tra scioperi e aziende che chiudono, le banche si rifiutano di rifinanziare i suoi debiti, lui spera nella joint venture con una compagnia tedesca che salvi lui e i suoi operai, a cui chiede sostegno e fiducia. Così si riassume la triste realtà dell’economia italiana che oggi irrompe anche nel cinema italiano con il film del regista Giuliano Montaldo. In tal caso la realtà supera la finzione. Siamo abituati già da qualche anno ad aziende che chiudono, operai incatenati, occupazioni, cortei. Certo, l’Italia non è la sola a dovere affrontare questa ondata, ma questo non basta a tranquillizzare gli Italiani verso, non soltanto le perdite dei loro titoli, ma soprattutto sui sacrifici che saranno sulle loro spalle. Sembra assistere ad un effetto domino, dove cade il primo pezzo e gli altri seguono a catena. «Una scintilla può incendiare una prateria», celebre frase di Mao utilizzata dall’Ambasciatore Vattani, presidente dell’ICE - Istituto per il Commercio Estero - per commentare l’attuale situazione politicoeconomica internazionale. Le liste di aziende in crisi tendono ad allungarsi, a dimostrazione di un sistema, quello italiano, che già arranca da qualche tempo, quando Berlusconi negava ogni forma di declino e affermava che l’Italia reagiva alla crisi meglio degli altri Paesi europei. Ripercorrendo insieme quel drammatico panorama si capisce quanto il percorso verso la deindustrializzazione del Paese fosse già da tempo drammaticamente tracciato. La proiezione verso l’estero sembra essere l’unica alternativa, per chi può permetterselo, per prendere armi e bagagli e salvare il salvabile. Così molte aziende leader nel mercato italiano affermano che produrre nei Paesi dell’Est è molto meno caro che produrre in Italia. Grazie al minor costo del lavoro, dell’energia, ad un fisco meno oppressivo nonché alla prossimità geografica delle due aree, molte imprese, che non riflettono più quelle esigenze di competitività necessarie a sopravvivere sul mercato, decidono di fare le valigie. Il Mediterraneo rappresenta oggi una delle maggiori opportunità per gli investitori italiani grazie al ruolo predominante che l’Italia occupa in quest’area geopolitica. Negli ultimi anni l’Italia è divenuta infatti il ponte di dialogo tra l’Europa e i Paesi Sud del Mediterraneo. Purtroppo proprio il Mediterraneo è stato negli ultimi tempi il teatro di forme di rivoluzione estremamente violente, che hanno colpito soprattutto le nostre aziende, che nella regione si sono collocate ai primi posti. Molte di queste sono state costrette ad abbandonare il Paese e a rimpatriare i propri lavoratori, tra cui l’Italcementi, primo produttore italiano di materiali da costruzione che ha interrotto la produzione di cinque fabbriche. Altri colossi italiani come Eni, Edison, Telecom e Pirelli hanno ugualmente rimpatriato i propri dipendenti.


Dicembre 2011

IL BORGHESE

Secondo quanto affermato dall’Amministratore Delegato della SACE, società del Ministero dell’Economia e Finanze, «Il problema non è dove si produce, ma è di rendere il Sistema Paese competitivo. Bisogna aprirsi. Non vorrei che le crisi che scoppiano in molti paesi, a partire dall’Egitto, convincano le imprese italiane a tornare in patria: sarebbe un errore». Restare in attesa del risolversi della crisi significa oggi correre il rischio di compromettere la propria azienda e soprattutto favorire i competitori vicini e lontani che cercano di approfittare del vuoto per candidarsi «conquistatori» dell’area. Ma dinanzi a tutto ciò qual è la risposta del Governo italiano? L’imprenditore italiano si guarda intorno e si specchia negli occhi di chi dovrebbe dargli indicazioni: l’UE e il Sistema Italia. La prima lo guarda senza esprimere un consiglio o strategia, il secondo tentenna, balbetta ma poi tace. La crisi acuisce la solitudine. Magari la recessione passa ma, la solitudine di sicuro rimane soprattutto all’estero. Forse un labile tentativo di sostenere le aziende per fare in modo che non abbandonassero il campo c’è stato. In gioco il ruolo delle ambasciate, dei consolati e dell’ICE che sembrano, per un breve periodo, aver rafforzato i propri uffici seguendo le imprese italiane più da vicino. Come ha affermato al momento della crisi l’Ambasciatore Maurizio Melani, Direttore Generale per il Sistema Paese della Farnesina: «Le ambasciate, con coordinamento del Ministero degli Esteri sono impegnate per assicurare a tutti gli operatori nell’area un’adeguata assistenza rispetto alle esigenze che la situazione in corso sta generando». Lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico aveva attivato, insieme ad ICE, una task force per il monitoraggio e la valutazione dell’impatto economico della crisi, nel medio e lungo periodo, con lo scopo di assistere le imprese italiane che operano nella sponda sud del Mediterraneo. Siamo alla fine del 2011 e a quanto pare per trovare un nostro imprenditore in un’ambasciata, che l’ultimo Governo ha caricato di rilevanti responsabilità nella diplomazia economica e nella valorizzazione degli interessi delle imprese italiane, bisogna cercarlo con il lanternino: soltanto uno su duecento ha fatto all’estero degli investimenti tramite la rete governata dalla Farnesina. In declino il vecchio ICE, in chiusura con la Finanziaria 2011, che prevede al suo posto una cabina di regia per l’internazionalizzazione appena varata dal Ministero per lo Sviluppo Economico. Esiste oggi una valida ricetta che un’impresa o un investitore possa adottare evitando di essere contagiata dal virus della crisi? La Mattel potrebbe essere un esempio da imitare: l’azienda produce la celebre Barbie in più di 10 Paesi diversi: i capelli arrivano da una parte, le gambe da un’altra e così via. Poi la vende in tutto il mondo. In questo modo, se scoppia una crisi in un’area geografica, non ne risente eccessivamente, perché continuerà a produrre e a vendere altrove. Forse la ricetta è quella di evitare di mettere tutte le uova in un paniere e di fronte a scenari che cambiano continuamente fare previsioni macroeconomiche e valutare bene tutti i rischi globali. Oggi che, sullo sfondo di una decadenza economica, ai posti di comando si agitano mezze figure d’economisti ispirate soltanto dall’arroganza intellettuale e politici poco più che aspiranti stregoni, alle prese con l’immane tornado della globalizzazione, ci si chiede: quale sarà lo scenario futuro per le nostre imprese? In una Italia, il cui debito pubblico e il cui peso sul PIL europeo, ci rendono dei sorvegliati speciali, il Governo pur di restare in trincea, ancora una volta, troverà qualche cartuccia da sparare.

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SANTORO E BERLUSCONI

LA BESTIA «rossa» di GIGI MONCALVO CHISSÀ se il Cavaliere Berlusconi in queste ultime settimane ha capito alcune «lezioni», non soltanto dal punto di vista politico, ma soprattutto da quello mediatico che gli sono piovute sul groppone e che è stato egli stesso a determinare e a facilitare. Il «re dei media», il «padrone assoluto» delle televisioni, il tycoon che ha costruito la sua affermazione politica sul piccolo schermo non ne ha imbroccata una e, alla fine, si ritrova a dover fare i conti con una realtà che, sul terreno della comunicazione, è sfuggita dalle sue mani e dal suo stretto controllo. Al punto che è stato superato perfino dal Capo dello Stato, Napolitano, che lo ha «bruciato» con la notizia della nomina di Mario Monti a senatore a vita, via web, proprio mentre il cavaliere stava già ridendo con i suoi alle spalle dell’inquilino del Colle dicendo di averlo «fregato» con quell’iniziale annuncio di dimissioni al quale, ovviamente, non avrebbe mai tenuto fede. Ma la penultima «lezione», la più bruciante e ugualmente dannosa in quanto a effetti politici, gli è arrivata da Michele Santoro che, dopo esserlo stato negli ultimi anni in Rai, continuerà ad essere la sua «bestia nera» (o, meglio, «rossa») anche nei prossimi mesi di trambusto preelettorale recitando un ruolo informativo anti-Cavaliere di altissimo potenziale. Santoro ha vinto, senza dubbio, la sua sfida e ha fatto ricredere tutti coloro che, a partire dal sottoscritto, credevano fosse impossibile crearsi uno spazio adeguato e rilevante al di fuori dei due colossi Rai e Mediaset e dell’outsider la7. L’assenza di un vero mercato televisivo faceva ritenere fosse impossibile trovare un varco, a meno che non ci si volesse accontentare di una angusta nicchia di ascolto con numeri attorno alle centomila unità. La sfida di Santoro invece è riuscita grazie al fatto che egli ha evitato


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l’errore di affidarsi a un solo media - la TV o una catena di TV a copertura regionale - ma è riuscito a creare una inedita e capillare rete di diffusione del suo programma «Servizio Pubblico» anche attraverso il satellite e il web, riuscendo perfino a fare televisione attraverso la radio. Il tutto con un supporto di «immagine» che non deriva soltanto dalla sua storia e dal suo «vissuto» televisivo ma anche da una piccola grande corazzata che è ormai diventato il quotidiano Il Fatto, la vera chiave di volta di tutta l’operazione. Il giornale infatti, fin dal primo momento, ha avuto ed ha accentuato una sua fondamentale e preziosa connotazione: i suoi non sono lettori ma veri e propri «militanti», di un popolo trasversale che non include soltanto la sinistra, i dipietristi, il «partito dei giudici», ma anche pezzetti di leghisti e di un elettorato di centrodestra «orfano» di riferimenti ma, giustamente, incavolato e desideroso di lapidare la casta al potere. Il Fatto ha messo in piedi, in maniera molto più organizzata ed editorialmente professionale, ciò che ai tempi di «Mani Pulite» fece Vittorio Feltri con L’Indipendente. Un giornale che, per stessa ammissione del suo direttore (ma non fondatore dato che tale era nientemeno che il compassato Riccardo Franco Levi, futuro spin-doctor di Romano Prodi e poi parlamentare dell’Ulivo), aveva il compito di «dare ai lettori la razione di mezzo litro di sangue che essi reclamavano». Chissà se Renato Soru si è mai reso conto del danno che ha procurato a l’Unità rinunciando ad Antonio Padellaro, Marco Travaglio, Furio Colombo, sostituendoli con … Concita De Gregorio - si è visto con quali risultati catastrofici è finita questa storia - e inducendo l’ex direttore a creare il nucleo fondatore de Il Fatto, il vero e unico fenomeno editoriale di carta stampata degli ultimi anni. Il Fatto ha creato un vero e proprio «movimento» e, grazie anche a una serie di scoop di carattere politico e giudiziario, ha moltiplicato i suoi lettori con una penetrazione anche in settori borghesi e di ceto-medio ben lontani dall’impostazione ideologica iniziale e che, comunque, appartiene al DNA originario. Il merito di ciò è proprio di Padellaro, un giornalista che ho conosciuto bene lavorando con lui al Corriere della Sera negli anni Ottanta dato che toccava a me «passare» la sua nota politica quotidiana destinata alla prima pagina e sempre improntata all’equilibrio, all’eccellente scrittura, alla qualità e primizia delle informazioni. Se Feltri aveva avuto la sfortuna di avere un editore come Andrea Zanussi, che decretò la propria fine rifiutando la richiesta del suo direttore di diventare anche azionista, Padellaro ha potuto contare su Lorenzo Fazio, l’intelligente inventore della casa editrice «Chiarelettere», che sa far quadrare i conti e ha avuto la necessaria capacità di guidare un brigantino agile e bene armato facendosi largo nell’oceano popolato dalle corazzate mediatiche berlusconiane. Ma Padellaro, rispetto a Feltri del 1993, ha avuto un’altra risorsa: il web che ogni giorno lo porta in contatto con quasi mezzo milione di persone. Così come per Padellaro, anche per Santoro la chiave di volta sta tutta qui. L’operazione «è possibile fare una tv senza editore» è potuta partire soltanto grazie a Fazio, ai suoi 350 mila euro e al 18 per cento delle azioni acquistate da Il Fatto. Da lì è poi arrivata, col tam tam di appoggio del quotidiano in edicola e della sua edizione on line - una tra le più cliccate del panorama -, anche la sottoscrizione popolare e la successiva aggregazione di capitali. Da lì sono arrivati anche gli editori di tv locali che hanno assicurato una copertura terrestre e, soprattutto la piattaforma satellitare di Sky, il che vuol dire essere posizionati sui

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canali più facili (100 o 500 interactive) e che hanno la fidelizzazione maggiore da parte dei cinque milioni di abbonati della TV di Rupert Murdoch. Ai non abbonati, Santoro arriva su canali web come quello del Corriere della Sera e Repubblica, che assicurano un ascolto di qualche centinaia di migliaia. Il «popolo» di Santoro, ufficialmente accreditato di tre milioni di ascoltatori, in realtà è quasi il doppio, proprio grazie a questo tipo di variegata copertura. Ed è un ascolto destinato a crescere e a raccogliere, quindi, sempre più pubblicità. E a dare un colpo mortale anche all’Auditel, una «istituzione» al servizio di Berlusconi e Rai su cui prima o poi andrebbe fatta davvero luce… Santoro è stato fortunato a non firmare per La7: avrebbe portato ascolto e immagine e sarebbero stati altri a raccoglierne i frutti, a partire da Mentana, e nel senso di denaro e profitti. In questo quadro il Cavaliere ha continuato a usare armi che non hanno ottenuto effetti se non quello di scatenare ancora di più Santoro. L’errore iniziale è stato quello di non impedire l’ingresso di Murdoch sul mercato italiano, errore dovuto al fatto che il Cavaliere pensava di «comprarselo» o «strozzarlo» a suo piacimento con leggi contra-personam. Oggi la TV non si fa con i Minzolini, i Vespa, le Santanchè, i giornali-partito (che creano più danni che vantaggi e fanno spaccare il Pdl), i direttori con l’elmetto, gli opinionisti finto-indipendenti ma a libro paga di Arcore, gli pseudo sondaggisti sull’orlo della condanna per bancarotta fraudolenta (e di cui si servono incredibilmente anche Alemanno e la Carfagna…). Oggi le condizioni sono tali per cui perfino fuoriclasse come Giuliano Ferrara devono fare miracoli per conquistare ascolto e vincere il boicottaggio del «partito Rai». Quello stesso vero e potente partito che ha affossato Vittorio Sgarbi dopo una sola puntata ed è pronto a fare lo stesso a gennaio quando il direttore del Foglio prenderà proprio lo spazio del giovedì su Raidue che era di Santoro. Ormai il mondo della comunicazione è cambiato: la crisi dell’editoria, sia su carta stampata sia in tv, è irreversibile data l’affermazione della rete. Oggi, non a caso, chi prova a fare un giornale, prima inizia sulla rete poi, se funziona, passa alla carta stampata. Le copie realmente «diffuse» e «vendute» dai grandi giornali sono ormai in picchiata, e le tirature sono «drogate» dal gran numero di copie regalate, che non arrivano nemmeno in edicola e servono soltanto a giustificare certe tariffe pubblicitarie. Qualcuno ha notato che quell’imprenditore che ha acquistato una pagina sul Corriere della Sera invitando gli Ialiani a comprare titoli di Stato, l’ha pagata solo ventimila euro? Fino a qualche tempo l’avrebbe pagata dieci volte tanto… L’offerta, spesso a poco prezzo o gratis, riempie il mercato. In TV è lo stesso. Se si prova a fare lo zapping, al giovedì sera sul televisore si trova «Don Matteo» o un film o «Piazza Pulita» che tentano disperatamente di fare concorrenza a Santoro. Senza tener conto che mezzo minuto di Santoro vale molto, ma molto di più - dal punto di vista dell’efficacia politica - dei sei milioni che, in preda alla sonnolenza, guardano la fiction su Raiuno. Lo stesso Cavaliere è ormai rassegnato: sulle sue reti ha affidato la «concorrenza» a Santoro a un programma noiosamente pazzesco («La versione di Banfi»), mentre il suo testimonial che gira per i talk show è nientemeno che Emilio Fede. A quel punto al giovedì uno è quasi «costretto» a stare due ore e mezza con Santoro…


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INTERVISTE SULLA DESTRA - FRANCESCO BORGONOVO

«AMMODERNIAMO il Pantheon della Destra» a cura di MICHELE DE FEUDIS LUCI e ombre della destra italiana evidenziate da un giovane protagonista del dibattito delle idee. Francesco Borgonovo, caporedattore di Libero, è il curatore delle pagine culturali dalle quali, senza alcun timore reverenziale verso le parrocchie del conformismo, rilegge grandi autori classici del pensiero conservatore internazionale e della destra italiana, fascista e liberalnazionale. Studioso partito da posizioni radicali antisistema ed eterodosse, invita a corroborare la proposta del centrodestra con la riscoperta di autori finora letti soprattutto a sinistra, come il sociologo Cristopher Lasch, e l’approfondimento di scrittori come Tom Wolfe e Hunter Thompson. Autore del saggio L’invasione insieme a Gianluigi Paragone, auspica la selezione dei talenti intellettuali della destra attraverso palestre come riviste e pubblicazioni: intorno a un possibile futuro progetto vorrebbe radunare giornalisti e studiosi disponibili ad offrire un contributo creativo. Inquadrare il panorama politico con le categorie novecentesche può essere un azzardo o un «divertissement». Che «appeal» ha nell’Italia dei nostri giorni la parola «Destra»? «Questo riferimento nei nostri giorni ha poco richiamo nell’elettorato. Il cittadino comune collega subito lo schieramento a Silvio Berlusconi. Il Cavaliere da un lato ha fatto del bene alla destra, dall’altro ne ha assorbito tutte le attenzioni nell’elettorato. Attualmente la categoria “Destra” resta legata al novecento e quindi di fatto superata. È utile per semplificare sui giornali, ma è assorbita dal berlusconismo e dal forza leghismo che vanno oltre la destra. Non a caso Sandro Bondi ha scritto nel 2004 Tra destra e sinistra. 1994-2004, la nuova politica di Forza Italia (Mondadori) per definire i nuovi confini del soggettività in questione.» Dove sono transitate le sensibilità politiche e culturali che una volta si riconoscevano nell’area politica divisa tra «MSI», liberali, monarchici e democristiani conservatori? «La gran parte di queste suggestioni hanno trovato casa nella Lega e nel PDL. A questo orientamento bisogna aggiungere il ruolo essenziale svolto dai quotidiani di area. Libero ha raccolto attorno a se un’opinione pubblica anche delusa dall’esperienza di governo del centrodestra, alla pari de Il Giornale: prima con Indro Montanelli e poi con Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, si è creata una identificazione con l’elettorato di destra. Adesso è molto frequente riconoscersi nelle posizioni espresse da Marcello Veneziani o dal mio direttore: se si candidassero raccoglierebbero tanti voti. Spesso si guarda alle loro posizioni per avere un’idea di destra alternativa.»

I giornalisti surrogano la scarsa attività culturale dei partiti? «Sì. È giusto che sia un giornale più di un movimento politico ad occuparsi di idee. Per questo molte nostre campagne sono diventate delle autentiche battaglie pubbliche che hanno definito l’agenda delle priorità dei partiti.» Quali elementi culturali o temi o provocazioni riconosci come ancora attuali di quella destra? «Un certo atteggiamento conservatore andrebbe coltivato, si tratta di una sensibilità fuorviata da miraggi che vengono da sinistra: conservare cosa c’è di valido nel nostro passato e nella nostra cultura nazionale è una pratica da sostenere.» Le riletture di fenomeni creativi a destra come «Giovane Europa» e i «Campi Hobbit» possono spingere le nuove generazioni impegnate in politica a cercare soluzioni aggregative in sintonia con lo Spirito del Tempo? «Studiare esperienze del passato è sempre utile, a patto che non si riciclino in peggio come è stato fatto recentemente. Mi riferisco al tentativo della destra post-missina di sperimentare: in Futuro e Libertà alcuni intellettuali ci hanno provato con Fare Futuro e Il Futurista. Alla fine però sono emersi vecchi schemi, con venature libertarie annacquate e perse dietro temi che non venivano da altre posizioni. L’esperienza libertaria, che è una reminiscenza

Sarà lo spirito del tempo, sarà la forzata convivenza nei contenitori partitici postmoderni, sarà il sistema politico tendenzialmente bipolare che tende a smussare diversità e omologare differenze. Il perimetro di un arcipelago culturale che si è riconosciuto - pur tra contraddizioni e ossimori - in una visione spirituale della vita e nell’umanesimo del lavoro, visione declinata a destra dal Msi e da una miriade di circoli, case editrici, associazioni, comitati civici e riviste, sembra adesso attraversare un momento di forte disorientamento. Oltre i rassicuranti confini del «nostalgismo» e dei paletti novecenteschi, però, persistono idee forti, autori di riferimento e nuove battaglie da combattere. Per questo Il Borghese pubblicherà un ciclo di interviste con scrittori, filosofi ed intellettuali per analizzare gli scenari presenti e futuri, offrendo ai nostri lettori le possibili coordinate delle nuove rotte nel mare della politica italiana. (m.d.f.)


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positiva del fascismo, ha sempre contraddistinto la destra rispetto alla sinistra e andrebbe preservata. Il nostalgismo dei Campi Hobbit, invece, corre il rischio di rendere sterile l’approccio con la realtà. Discutiamo di raduni avvenuti ormai trent’anni fa… Fermo restando l’apprezzamento per gli studi di Marco Tarchi, servirebbe inventarsi qualcosa di nuovo.» Destra e berlusconismo. Un ossimoro o una realtà concretizzata nella Seconda Repubblica? «Nell’immaginario collettivo il berlusconismo, che non è necessariamente di destra, ne ha assorbito molti temi. Nel Cavaliere si ritrovano ascendenze dell’”Uomo qualunque”, della cultura televisiva ed eminentemente moderna. Chi ha una formazione “aristocratica” può non apprezzarne il profilo, senza aggiungere la resistenza di una parte di destra sul nodo irrisolto del rapporto con il capitalismo. Di fatto, però, le tante anime della destra sono state tenute insieme, forse in maniera raffazzonata e tendenzialmente “fusionista”, proprio dall’attivismo del Cavaliere. Non vorrei che si dimenticassero le battaglie unificanti di Berlusconi come quella di Milano contro i brutti grattacieli ideati dalle archistar: in quella polemica c’erano le intuizioni di Tom Wolfe raccolte nel saggio Maledetti architetti. Nelle tesi dello scrittore americano conservatore c’è un linguaggio rivoluzionario unito alle istanze ecologiste, alla difesa del territorio e all’affermazione dell’idea di bello.» Quale classificazione - se fosse possibile - è più adatta a interpretare il confronto parlamentare e d’opinione nel Paese? Riformisti/conservatori? Comunitari/«liberal»? O il quadro è più complesso? «Molte categorie sono superate dall’attualità. La divisione tra comunitari e liberal in Italia non c’è mai stata. Sono favorevole a tutte le forme di libertà, economiche ed individuali. Allo stesso tempo ritengo che andrebbe riscoperto Cristopher Lasch: è un antiliberale, non anticapitalista livoroso. Il sociologo americano consente di recuperare la cultura del limite. La sua analisi del populismo e la sua critica della modernità non sono temi da declinare a sinistra. Anzi. Insomma i vari Pantheon della destra andrebbero ammodernati.» E sulla ormai prossima ridefinizione del «welfare» la politica tornerà a dividersi su nuove opzioni. «Armando Torno con Il paradosso dei conservatori ha evidenziato questioni dirimenti. Chi difende lo Stato sociale? I precari che vogliono avere il posto fisso per sempre, non comprendendo che la realtà mondo del lavoro deve correre al passo con i tempi e con più libertà. Da questo punto di vista essere conservatori non significa difendere i privilegi che hanno portato l’Italia al collasso, ma mettere in cantiere nuove strade per il progresso.» Quali luoghi di formazione reputi più adatti a forgiare una nuova classe dirigente politica? Fondazioni? Circoli giovanili del «PDL»? Associazionismo? «A Villa San Martino. Ad Arcore… [sorride, N.d.R.] Quanti giovani scrittori di centrodestra esistono? I pochi che ci sono li hanno lanciati Feltri o Giuliano Ferrara. Ci sono poche case editrici che cercano firme, ci sono pochissime riviste. A sinistra Rolling Stone alleva giornalisti tendenzialmente progressisti, a destra non c’è niente di simile. Più che delle scuole di partito - non abbiamo biso-

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gno di Frattocchie dalle nostre parti - sarebbe stato importante avere dei giornali in grado di sfornare professionisti di destra, capaci di narrare in televisione, dopo vent’anni di berlusconismo, una realtà diversa da quella veicolata dai soliti Soloni giustizialisti legati al ritornello che “Il Cavaliere mangia i bambini” e “Fini è bravo” perché allineato alle posizioni della sinistra. Insomma nelle scelte culturali ci sarebbe voluto maggiore coraggio: tra le eccezioni annovero la nomina operata dall’allora ministro della Cultura Sandro Bondi di Luca Beatrice e Beatice Buscaroli alla Biennale di Venezia, una scelta di qualità e prestigio assoluto.» Ci vorrebbe una rivista laboratorio come palestra per giovani studiosi a destra? «Sì. Investendo in un periodico di questo tipo adesso il panorama sarebbe molto diverso, sia sui giornali che in televisione.» «Web» politica e destra. Che uso viene fatto da questa area dello spazio sulla rete e dei nuovi media? «È frequente lo scambio di opinioni attraverso i siti dei quotidiani tra redattori e lettori, così come anche su Facebook o Twitter. Non saprei però dire se il PDL ha costruito una comunità virtuale sulla rete. Di sicuro lo ha fatto Nichi Vendola: il leader di Sel ha usato la rete come il Cavaliere anni fa la televisione. Infatti Nikita è un Berlusconi rosso.» «PDL», «FLI», «Destra» di Storace, Fiamme varie. Se il sistema politico italiano tende al bipolarismo, resta una forte frammentazione partitica. È un destino inevitabile? Quale formazione è meglio attrezzata per cogliere i cambiamenti in atto nello scenario internazionale? «Il Popolo della Libertà è impegnato in un percorso di radicamento territoriale che potrebbe rafforzarne la capacità di intervento nella società.» Politica estera. Il «PDL» e la maggioranza di governo tra Libia e Mediterraneo, tra Putin e Obama, che ruolo hanno svolto nello scacchiere del «Grande gioco»? «Berlusconi ha provato a tessere relazioni con Vladimir Putin o con Gheddafi, preziose per la difesa dell’interesse nazionale. Magari l’ha fatto con rapporti personali più che con relazioni diplomatiche secondo i canoni tradizionali. Il leader del centrodestra ha avuto una idea chiara di una presenza dell’Italia nello scenario internazionale.» Destra e cultura. Che autori ritieni fondamentali per la formazione politica di un giovane ventenne che vuole intraprendere un percorso di impegno nello spazio pubblico? «Cristopher Lasch con il saggio La ribellione delle élite, Tom Wolfe e Hunter Thompson, autore di Meglio del sesso, confessioni di un drogato della politica. I libertarian americani e Aleksandr Solgenitsin. Tra gli autori italiani Massimo Fini e Giorgio Bocca, insieme a Marcello Veneziani e Pietrangelo Buttafuoco. Poi ci vorrebbe un luogo intellettuale, una rivista, dove sarebbe interessante e utile mettere insieme firme brillanti e giovani come Camillo Langone, Massimiliano Parente, Luigi Mascheroni, Davide Brullo, Giordano Tedoldi. Infine Aldo Busi, autore che parla di diritti e politica con cognizione di causa e coraggio. E un classico come Giovannino Guareschi.»


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I FALSI STORICI DI «BANKITALIA»

LA VERITÀ su Orgera di ANTONIO PANTANO PUBBLICANDO l’elenco dei governatori della Banca d’Italia, in occasione della nomina nell’ottobre 2011 di Ignazio Visco al vertice di essa, si è taciuto il non breve periodo corrente tra la fine maggio 1944 e la fine aprile 1945, quando la banca centrale fu trasferita al Nord della penisola, da Roma a Milano, per sottrarla ai bombardamenti aerei nemici e sotto l’incalzare della avanzata delle truppe militari del fronte degli Alleati (USA, Gran Bretagna, URSS, Francia, ecc.). Queste furono nemiche dal 10 giugno 1940 e, per l’atto di resa (sotto forma di sospensione dello stato bellico) sottoscritto e subìto a Cassibile dal generale Giuseppe Castellano, assistito dall’avvocato Vito Guarrasi (cugino di Enrico Cuccia e, negli anni successivi, potente personaggio del sottobosco della politica siciliana e nazionale) plenipotenziari dello illegittimo (perché incaricato motu proprio dal sovrano, ma MAI ratificato dal Parlamento, con altri concomitanti errori formali e sostanziali inficianti la validità giuridica) governo Badoglio (vedasi: Elio Lodolini, Dal governo Badoglio alla Repubblica Italiana, Genova, Italia Storica, 2011) il 3 settembre 1943, divennero, dal giorno 8 settembre 1943, «occupanti del territorio italiano» (secondo la dizione del testo della «resa incondizionata», che in Italia fu, invece, contra pacta et legem, chiamata falsamente ed arbitrariamente «armistizio») ove imposero un proprio Governo Militare Alleato per i Territori Occupati - AMGOT - , vigente fino al 31 dicembre 1945 e, per alcune prerogative, fino al 31dicembre 1947, con «impegni e vincoli» successivi tutt’ora vigenti. È storia incontestabile che, nel trasferimento della sede e di tutti i servizi al Nord d’Italia (effettuato dopo l’abbandono della capitale da parte del re e del suo governo, avvenuto il mattino del 8 settembre 1943, con «fuga concertata con plenipotenziari germanici» conclusa all’alba del 10 settembre 1943 con l’imbarco ad Ortona sulla corvetta Baionetta e l’approdo la notte dello stesso giorno a Brindisi, in zona ormai controllata dal nemico Alleato) compiuto negli ultimi giorni del mese di settembre 1943 dal governo fascista della Repubblica Sociale Italiana, naturalmente subentrato alla vacatio su due terzi del territorio creata dalla tragicomica «fuga» della monarchia verso il nemico, il governatore della Banca d’Italia in carica, Vincenzo Azzolini, seguì doverosamente la sede, l’organico dirigenziale, le riserve monetarie e la riserva aurea presso di essa custodita, a Milano. A causa del rientro a Roma di Azzolini, dopo 8 mesi dalla costituzione della RSI, verso il 28 maggio 1944 (certamente in vista della conquista di Roma da parte degli Alleati, ma ufficialmente «per urgenti motivi familiari», con preavviso al suo Ministro che gli contestò il «sospetto» ed i rischi conseguenti - Azzolini fu incarcerato poi e condannato anche a 30 anni di reclusione dalla «giustizia del Regno d’Italia»), il Ministro delle Finanze

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della Repubblica Sociale Italiana, prof. Domenico Pellegrini Giampietro, con Decreto ministeriale n. 400 del 28 giugno 1944-XXII, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 159 il 10 luglio 1944-XXII, ratificato dal Consiglio dei Ministri il 14 novembre 1944, in forza di Decreto del Capo dello Stato del 8 ottobre 1943, confermò la nomina a Commissario Straordinario al governo della Banca d’Italia l’avv. Giovanni Orgera, insediato di fatto dal 1° giugno, che quell’incarico di surroga di tutti i poteri di governo della banca mantenne fino al 28 aprile 1945, cioè fino all’arrivo degli Alleati a Milano. Ciò, in modo inconfutabile, è confermato anche da pubblicazioni ufficiali dell’ufficio storico della Banca d’Italia. Il regno del Sud, sedicente «Regno d’Italia», fu svuotato di ogni prerogativa (senza territorio, senza parlamento, senza popolazione, tutti assoggettati al naturale governo dello AMGOT, ed esautorato anche nella fondamentale emissione monetaria) e fu costretto-ridotto ad almanaccarsi soltanto nella utopica creazione di un governo fantasma non governante. Molto più tardi, «tollerato» dagli Alleati per precostituire capisaldi per il dopo guerra, trovò necessario - per completare la gamma delle «poltrone fantasma» relative ad enti et similia, retribuite lautamente con valuta in AM-lire - nominare un governatore della Banca d’Italia per poter esercitare, dopo l’ingresso degli Alleati a Roma, una funzione formale nell’edificio di via Nazionale. E in ciò, per la suddivisione di posti (criterio caratterizzante poi tutto il regime postbellico), fu insediato il senatore del regno (economista liberista ma interessato anche fattivamente all’opera del Ministro delle finanze del governo fascista Alberto de’ Stefani, ed ai novatori criteri fascisti e corporativi, e sempre fedele monarchico) Luigi Einaudi, approdato a Salerno nel febbraio 1945, dopo cauta lunga permanenza in Svizzera in conseguenza degli sventati, ma a lungo preparati, accadimenti determinati dall’8 settembre 1943. Governatore nominale, giacché nei territori conquistati dall’avanzata militare Alleata, di fatto le sedi provinciali della Banca d’Italia, anche per assenza di fondi monetari, non svolgevano attività, essendo fondamentalmente interrotto il servizio di tesoreria per conto dello Stato, che soltanto al Nord, nella giurisdizione effettiva e veritiera della Repubblica Sociale Italiana, aveva corso ed efficienza, persino con emissione monetaria. Al sud d’Italia lo AMGOT stampò e pose in circolazione titoli monetari - le famose AM-lire - per valore di 640 miliardi di lire, utili e necessari alle proprie truppe di occupazione per intrattenere rapporti civili, ma perniciosi per la pesante inflazione provocata nell’intero sistema della circolazione monetaria italiana e protrattasi per anni, a causa della circolazione forzosa di quella carta moneta formale, di nessun valore reale. Senza ragione, ma soltanto al mero fine di falsare la storia, la Banca d’Italia odierna ha omesso l’indicazione e l’opera del commissario Orgera, svolta con zelo tra il maggio 1944 e l’aprile 1945 (un intero anno!), riconosciuta, però, nella Relazione presentata nel luglio 1946 dal governatore Einaudi, che elogiò quel Commissario per la rettitudine e la correttezza utili alla Banca ed allo Stato, precipuamente per il dopoguerra, che fu meno pesante proprio per ciò che fu attuato, e lasciato in eredità dalla Repubblica Sociale Italiana (vedasi: Collana storica della Banca d’Italia, I nazisti e l’oro della Banca d’Italia, Laterza, 2001). Va aggiunto, per dovere di verità, che il ministro delle finanze Domenico Pellegrini Giampietro, con l’assorbimento integrale allo Stato della Banca d’Italia spa, anche


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mediante il commissariamento (secondo i Decreti citati), e delle sue disponibilità in liquidità monetaria e riserve auree, NULLA cedette gratuitamente ai germanici. Al contrario del Governo Badoglio, che barattò la riserva aurea in cambio di convenienze «personali» lasciando il Governatore Azzolini in balìa di un documento esibito il 10 settembre 1943 dal rappresentante della Banca del Reich di Germania, così che tra il 22 ed il 28 settembre 1943 quella riserva fu trasferita a Milano, sotto «protezione militare germanica», senza, comunque, che MAI uscisse dal suolo nazionale, nemmeno quando la stessa Banca d’Italia, trasferì quella riserva in provincia di Bolzano il 16 dicembre 1943, nel comune di Fortezza, ove istallò apposita propria sede (vedasi: Domenico Pellegrini Giampietro, L’oro di Salò, Milano, in Candido, da 2 marzo a 1° giugno 1958) ove fu svolta sorveglianza da gendarmeria italiana e germanica. Sorveglianza che terminò il 5 maggio 1945, con il «subentro forzoso» delle truppe Alleate, che di tutto si accollarono proprietà e dominio. Inoltre, come già pubblicato più volte (vedasi: anche Antonio Pantano, Ezra Pound e la Repubblica Sociale Italiana, Roma, Pagine, 2009), la situazione finanziaria generale lasciata dalla Repubblica Sociale Italiana alla sua cessazione, con attivo di bilancio dello Stato di 20,9 miliardi di lire, MAI più verificato dopo nella storia successiva della Repubblica oggi vigente, fu certificata da una commissione del Senato degli USA presieduta dal senatore Winkersham, che, con dichiarazione diffusa il 25 agosto 1945, affermò aver trovato nella sola RSI del nord Italia situazione attiva di bilancio e florida nelle riserve e nei depositi bancari, al contrario di tutti gli altri Stati europei visitati, inclusi gli scandinavi. Floridezza che permise all’Italia del dopoguerra facile ripresa economica e finanziaria, seppur gravata dagli oneri di svalutazione delle AMlire imposti e confermati dagli USA nel 1947, dalle penalizzazioni relative alla condizione di Stato perdente, ratificate anche nello obbligato «trattato di pace» imposto a Parigi il 10 febbraio 1947, e per i vari «piani Marshall», inclusi i costi per la restituzione della «famosa» riserva aurea, definita, per volere dei vincitori, soltanto il 29 giugno 1998, con accredito e restituzione di ultima frazione da parte dell’internazionale «Pool dell’oro» organizzato e gestito dagli Stati dei Paesi vincitori la seconda guerra mondiale. (Da ABRUZZOpress - N. 359 del 29 ottobre 2011)

(Gianni Isidori, il Borghese 20 Ottobre 1974)

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DOPO IL CONGRESSO DI TORINO

A DESTRA per l’Europa di ADRIANO TILGHER SEMBRAVA scontato, al limite facile. Andavo al congresso del mio partito con idee precise la volontà di marcare la differenza tra noi e gli altri. L’entusiasmo non era molto perché i meccanismi costruiti ad arte per imbavagliare la capacità dirompente delle minoranze ci obbligano ad alleanze innaturali. Oggi tutto è cambiato. Il Congresso è diventato la grande occasione. C’è il rischio che la drammaticità del momento politico e la difficoltà, creata ad arte, della situazione economica portino ad un oscuramento di fatto della comunicazione del nostro evento; ma sta agli Italiani, al nostro popolo capire che bisogna unirsi attorno alle nostre idee di sempre per RESISTERE. Sì, RESISTERE al tentativo di saccheggiare i nostri risparmi, alla malaugurata idea di dare ad un uomo-banca la responsabilità del nostro governo, alla ignavia dei politici venduti che senza orgoglio e senza dignità si arrendono ai ricatti della finanza ed invece di approfittare della crisi dei sistemi finanziari si mettono proni nella speranza di ricevere qualche briciola. Auriti li chiamava «camerieri dei banchieri». Lui che aveva teorizzato la proprietà popolare della moneta , che aveva denunciato il signoraggio bancario ed aveva realizzato l’esperimento del Simeg, moneta di proprietà popolare in uso nel comune di Guardiagrele, aveva indicato la via. A noi il dovere politico di tornare a proporre leggi che restituiscano al popolo la proprietà della moneta, che nazionalizzino le banche cui va affidata soltanto la gestione del denaro e che obblighino le banche stesse a pagare l’interesse per il denaro che gli prestiamo loro per la gestione. In tal modo il debito pubblico calerà rapidamente e non saremo obbligati ai diktat di chi vuole speculare sulle nostre risorse . I vari Prodi, Monti, Ciampi, Dini ben remunerati servitori dei grandi trust economici e delle lobbies finanziarie non avranno più il potere di regalarci monete come l’euro o norme capestro come i prelievi forzati sui conti correnti privati, per poi rifinanziare le banche che tornerebbero a finanziare le nostre imprese, con i nostri soldi, a tassi di usura. Dobbiamo convincere le nazioni europee a creare una vera unità politica da allargare con patti economici alla Russia ed ad alcune nazioni del Mediterraneo per difenderci dalla bolla speculativa, per cui i tassi dei Bot dipendono dallo spread, che viene suggestionato dalle agenzie di rating che sono sempre delle società private gestite dal potere finanziario e che orientano le attività degli investitori secondo le convenienze degli speculatori internazionali. Un gioco sporco che va rintuzzato dalla forza dell’Europa politica, che potrà così finalmente battere una moneta europea espressione di popoli politicamente uniti e non di una banca privata, nata dalla volontà dei consigli di amministrazione di altre banche private. È una bella scommessa che merita di essere giocata tutta e fino in fondo. A Torino ne abbiamo parlato ma vorremmo che gli Italiani tutti ci sostenessero perché la battaglia sarà dura ma noi la faremo fino in fondo con il popolo per il popolo, con l’Italia per l’Europa.


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FUOCO NEMICO

Il patriottismo del Cazzullo di IL FRANCO TIRATORE «COMPRARE Buoni del Tesoro, come il signor Melani e si spera altri milioni di risparmiatori potranno fare in piena libertà nei prossimi giorni, non è un azzardo. Se lo fa e lo ha fatto la Banca centrale europea perché non dovremmo farlo noi? Non si tratta di chiedere slanci patriottici, come quelli sollecitati in altri tempi, che non hanno portato fortuna. Si tratta di essere consapevoli di noi stessi, degli interessi comuni che ci legano, del rapporto che ci unisce a una patria unificata proprio 150 anni fa e a uno Stato a volte sentito come distante e nemico (e che a volte si comporta in modo tale da confermare questo pregiudizio), ma in realtà non è “altro” rispetto a noi». Così Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di domenica 5 novembre. Chissà perché i grandi giornalisti del grande quotidiano italiano si sentono in dovere di mettere sempre le mani avanti su certi argomenti. Cazzullo ha forse la coda di paglia e pensa di poter essere accusato di «fascismo»? Oppure è così conformista da appiattirsi al più ridicolo politicamente corretto che lo obbliga a far intendere che lui per «patriottismo» non pensa affatto a quello del deprecato Ventennio? Ma patriottismo significa semplicemente «amor di Patria» ed è ben altra cosa da nazionalismo, che fu una ideologia, un atteggiamento politico. Tanto è vero che di patriottismo parla anche il presidente della repubblica, un ex

FINIMOLA Gianfranco Fini e i suoi sono ormai un caso non più politico ma umano. Ben descritto da Paolo Granzotto: «Nelle ripetute disfatte, mentre Fini trasuda bile, nello sguardo di Bocchino leggi l’ebbrezza del piromane che per godersi la vampa delle fiamme ha dato fuoco alla sua casa, e ci balla intorno» (Il Giornale, 30 ottobre 2011). Cioè, vocati alla distruzione della Destra. Con altro tono, lo ha freddato il suo predecessore alla Camera, Fausto Bertinotti, ormai politico pensionato ma sempre blasé, che, sempre il 30 ottobre, nella trasmissione In onda de La7, ha rimarcato le differenze del suo pristino comportamento rispetto a quello finesco: «Sono un conservatore. Ho un religioso rispetto delle istituzioni. Io non sono andato nemmeno a parlare al congresso di Rifondazione Comunista, se è per questo». Quindi altro che velenose esternazioni a Che tempo fa, Ballarò, Piazza pulita eccetera eccetera dove volutamente si confondevano le funzioni di presidente di FLI e presidente di Montecitorio, e dove - ovviamente - era

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comunista. Perché allora la journalistar del Corriere ci tiene tanto a certe precisazioni? Forse per ricordare che ha scritto un libro, W l’Italia, in cui fa l’esaltazione non soltanto del Risorgimento ma anche della Resistenza? Ma suvvia! Tutti sappiamo che Cazzullo è un «sincero democratico» ed un antifascista-doc pur non avendo mai fatto la suddetta Resistenza (è infatti nato ad Alba 45 anni fa), e quindi non ne ha proprio bisogno. Il fatto è che questo Paese, nonostante fra poco siano 90 anni dalla Marcia su Roma e quasi 70 dalla fine della guerra e dalla morte di Mussolini, ha ancora la sindrome del fascismo e non lo vuole consegnare alla Storia, quella con la esse maiuscola. E quindi ne è ancora ossessionato come se i nemici fossero alle porte, non dorme affatto sogni tranquilli, lo deve ripudiare ogni minuto secondo e prendere le distanze da tutto ciò che potrebbe forse, magari, chissà, riferirsi ad esso. E quindi cade in precisazioni grottesche come quella sopra riportata. Ma di patriottismo ce n’è di un solo tipo, l’amore per la propria Patria, e che quindi non furono patriottici soltanto i piemontesi o i partigiani, caro Cazzullo, altrimenti sarebbe da manichei affermarlo. E magari si potrebbe precisare che, con la scusa del fascismo, per decenni si è sputato sopra al concetto, all’idea (e di conseguenza sul tricolore, sulle forze armate, sul 4 novembre), e oggi si ritroviamo a doverlo inopinatamente invocare in un momento di difficoltà dell’Italia proprio quelli che non vi avevano mai creduto. Suvvia, Aldo Cazzullo non si spaventi e ammetta che dell’amor di Patria i politici, gli intellettuali e i giornalisti italiani se ne sono sempre impippati per poi tirarlo fuori dall’armadio dei ferrivecchi soltanto quando è sembrato far più comodo. Per i 150 della unità del Regno d’Italia e per la crisi economico-finanziaria che stiano attraversando. Altrimenti in precedenza a loro del patriottismo non gliene poteva fregare di meno. A meno che non si fosse trattato di quello per l’URSS e per la Terza Internazionale. stato invitato in quanto politico ormai ostile al governo e al centrodestra. Con tanto di consonanza, sorrisini e strette di mano a Nichi Vendola (quello che ha accusato Matteo Renzi, il «rottamatore» del PD, di avere «idee di destra»): lui che mica tanto tempo fa esternava la propria perplessità nei confronti dei maestri omosessuali ai quali affidare i ragazzini… Dobbiamo dire a malincuore che il vecchio comunista non pentito ha uno stile ed una coerenza superiori di molte e molte spanne rispetto a quelli del fascista tanto pentito da essere ormai diventato non soltanto una costola del Terzo Polo centrista, ma affine anche all’opposizione di sinistra. Un caso politico e umano che non si sa a chi far risolvere: se alle urne o al lettino dello psicanalista. Forse a tutte e due.


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FORMAZIONE, RICERCA E LIBERTÀ

IL SENSO della Scuola di HERVÉ A. CAVALLERA LE PRESSIONI in atto, e con successo, volte a trasformare la scuola e l’università in azienda ripropongono con forza un vecchio problema: il rapporto potere-cultura, un rapporto spesso conflittuale, anche perché il potere per sua natura intende normalizzare, omologare, stabilizzare, quando proprio non strumentalizzare. Da parte sua, la cultura conserva sempre una sua indipendenza, una sua autonomia. Impropriamente si dice libera, ma in realtà, essa ricerca o reputa di esprimere il bello, il vero, il giusto e questi non possono essere in alcun modo strumentalizzabili. Non è che la cultura non richieda la norma, ma essa deve corrispondere al vero e non al mero funzionale. Se questo è corretto, tale impostazione deve vivere nel processo educativo: da un lato occorre rispettare l’educando (Magna debetur puero reverentia) e sollecitare le sue potenzialità positive, dall’altro non bisogna dimenticare che si tratta delle potenzialità positive. Così accade (dovrebbe accadere) che in una iniziale fase della vita il fanciullo, il ragazzo, l’adolescente dovrebbero avere dei punti di riferimento costruttivi e propiziatori di sani costumi e interessi (sarebbe l’età della vita che arriva al conseguimento della maturità nella secondaria superiore), mentre nella giovinezza (che coinciderebbe con la frequenza universitaria), il soggetto correttamente educato dovrebbe sviluppare criticamente le proprie inclinazioni volgendole a risultati soddisfacenti per lui, per i suoi, per il sociale. È un po’ il percorso che Hegel, per fare un nome di un celebre filosofo, ha delineato nella Fenomenologia dello spirito. Da ciò segue la condanna di tre errori, i quali hanno attraversato la storia della civiltà e sono tuttora diffusi. Il primo è considerare l’educazione e, di conseguenza, l’istituzione scolastica (ma altresì la famiglia) come un mezzo per imporre delle regole e dei contenuti che il discente deve far propri passivamente. Si scivolerebbe in tal modo in un reale autoritarismo, pedagogicamente per nulla proficuo. Esso si basa sulla tesi che il più giovane non sa e che deve crescere accettando e facendo propri i precetti dei più adulti. Il che non esclude, in verità, che non si debba indirizzare i più giovani e indicare loro retti modi di vita, ma non si può in alcun modo rinchiuderli in gabbie pseudo-formative imposte dagli adulti o dal potere costituito, quale che sia. È, appunto, l’errore dell’autoritarismo, molto diffuso nel passato, anche non lontano, ed ancora presente in tanti regimi dispotici. Il secondo errore ha un’origine meno lontana nel tempo o meglio una diffusione più recente con i cosiddetti «immortali princìpi dell’89» e consiste nell’anteporre la libertà del soggetto alla sua maturazione, i diritti ai doveri. Si fonda, insomma, nel credere che il soggetto sia naturalmente libero e che tale libertà debba essere rispettata, sia pure con qualche limitazione. La sua degenerazione ha condotto, specialmente a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, all’affermazione di posizioni libertarie da una parte e permissiviste dall’altra, sicché la formazione non ha avuto più senso, il livello culturale è calato, con la conseguente diffusione di titoli di

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studio che non garantiscono una effettiva e seria professionalità. Come si constata, del resto, in tanti episodi negativi che rendono sempre più malcerte strutture una volta rispettabili. Sono chiaramente due eccessi per nulla infrequenti nella storia. Si direbbe, almeno per quanto riguarda l’Occidente, il primo più presente nel passato, il secondo più diffuso nel presente, dove nessuno parla più di doveri e molti sono pronti a credere che la propria volontà sia, per dirla alla Kant, una sorta di legislazione da far accettare. Se il primo errore ha condotto alla soppressione (o alla limitazione) della libertà del soggetto, il secondo l’ha arbitrariamente ipervalutata con conseguenti danni che tuttora pesano sul mondo. Ma vi è un terzo errore da prendere in esame, ed è proprio del nostro tempo, ossia della società del mercato globale, della globalizzazione. Questo errore consiste nel considerare il processo di crescita (nella famiglia, nella scuola, nella società, nelle istituzioni) non come un processo volto ad un obiettivo qual è la formazione dell’uomo in quanto uomo e in quanto membro di una civiltà, bensì come un veicolo per l’acquisizione di competenze mirate ad ambiti più particolari e spendibili in senso ristretto. In questo caso, non soltanto viene meno l’autonomia del soggetto, ma la ricerca è confusa con la capacità di rispondere alle richieste dell’industria culturale e la formazione è confusa con la rispondenza efficientistica e funzionale al mercato o a chi gestisce il potere. È evidente che il primo errore consiste nell’adeguare acriticamente il soggetto ad un potere precostituito; il secondo errore consiste nel sostenere che bisogna liberarsi di ogni norma, con conseguenti comportamenti anarcoidi ed eticamente condannabili, oltre che culturalmente fragili; il terzo errore consiste nel valorizzare sì il soggetto ma in funzione della sua funzionalità al sistema in cui è inserito. In altri termini, l’individuo non vale per se stesso, ma per ciò che produce. Tutte queste tre forme di errore sono ancora esistenti nel presente, e, soprattutto nell’Occidente, le ultime due sono molto diffuse, paradossalmente tra loro connesse da fili invisibili, ma non incomprensibili, poiché l’esigenza del primato della soggettività ha condotto inevitabilmente a confondere il successo con la verità e il guadagno con il bene. Insomma, il vero, il bene e il bello sono stati svenduti per l’arricchimento economico del particolare (inteso come un gruppo di potere o come un singolo) con la conseguente crisi che sta travolgendo l’Occidente.

LA NUOVA SCUOLA (Gianni Isidori, il Borghese 13 Ottobre 1974)


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PER L’ASSENZA DEGLI INTELLETTUALI

LA CULTURA fatta a pezzi di ALESSANDRO CESAREO FORSE, sarebbe il caso di affermare che la notizia riportata da Libero il 14 settembre è di una rilevanza inedita. Trattasi di un evento che desta evidenti, comprensibili preoccupazioni nel mondo della scuola, in quanto riguarda la diffusione, e l’eventuale adozione ed utilizzo, da parte dei docenti e licei, di un libro di testo di carattere pseudoletterario abbastanza stravagante. Non soltanto. Ideologicamente caratterizzato e palesemente schierato. Da quale parte lo si capisce con facilità. Trattasi, o almeno così sembra, di un testo di letteratura italiana edito dalla Casa Editrice Palumbo. Gli autori del testo vantano, tutti quanti, una rigorosa configurazione comunista, oltre ad un’effettiva militanza nel partito di riferimento. Ed è quanto basta per capire. Fin qui, niente di nuovo. Niente è cambiato, tranne la solita, stucchevole ed inossidabile invadenza dell’ideologia, a bella posta infilata per ogni dove. Prassi quotidiana del Belpaese, per carità. Ameno paradiso in cui è possibile devastare la capitale senza incontrare ostacoli e, soprattutto, senza che nessuno, causa un eterno prolungarsi dell’effetto scaricabarili, se ne assuma neppure in parte la responsabilità. Tanto, come si era soliti dire, paga Pantalone. Peccato, però, che anche per questo inesauribile, intramontabile ed assai celebre magnate, di sicuro più ricco dei politici italiani (e ce ne vuole) i soldi siano, praticamente, esauriti. Lo stesso dicasi anche per le risorse di vario genere, consunte e disperse a vario titolo. In più, ecco che, almeno di tanto in tanto, la scuola italiana avrebbe bisogno di una boccata d’ossigeno liberale, come dire. Necessiterebbe, cioè, di maggiore libertà dall’oppressione culturale dominante da sempre al suo interno, ovvero dal ‘68. Nonché di uno svecchiamento d’idee, visto il ristagno culturale di questi ultimi decenni; invece, torna la vecchia minestra sinistrorsa, fatta di pietanze dolciastre e scotte, anche se condita con salse forse diverse e, soprattutto, servita in una zuppiera che vorrebbe presentarsi come diversa, ma che così non è. Eppure, dopo tante parole spese in difesa di una riforma, diciamo che ci si aspettava, un po’ da tutte le parti, una svolta in senso culturale, che riducesse o arginasse lo strazio e l’agonia culturale di questi ultimi decenni. Una proposta culturale forte. Motivata. Dal sapore diverso. Ma non è arrivata. Né pare stia arrivando, o che possa arrivare. Ed è qualcosa che Davide Brullo evidenzia con inequivocabile chiarezza, quando parla di geni, di veri geni, che vengono umiliati e messi sullo stesso piano dei vari guitti di sinistra. Il processo di livellamento e di equiparazione al basso, ovvero uno dei cavalli trottanti della sinistra schierata e militante è, in questo caso, ottimamente configurato e perseguito. Poco conta che la grandezza di Dante e di altri, nostri poeti (che a questo punto diverrebbero ben poca cosa davanti ai nuovi geni emergenti) venga offuscata o, peggio, stravolta. Persino snaturata, ecco. L’obiettivo finale, la soluzione ultima sarà, con molta probabilità, la loro cancellazione.

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Stupisce e addolora, però, il tradimento degli intellettuali che, ben consci della gravità del male che tali scelte strategiche arrecano al processo di formazione degli studenti, non parlano o, peggio, si schierano attivamente ed alacremente a favore del processo di disgregazione e di cancellazione della nostra memoria storica prima e del nostro vissuto letterario ed artistico subito dopo. Insomma, non v’ha da esserci posto, ed in nessun modo, per chi sa e può emergere dalla massa scomposta in cui l’ideologia ha soffocato l’individuo. Rimossa l’idea centrale di persona, cancellato il principium individuationis, contro il quale il marxismo si è sempre sanguignamente schierato, nessun autore è più degno di nota o di attenzione, ed ecco che tra Dante e, poniamo, attorucoli dell’ultim’ora non v’è più differenza alcuna. Ne v’ha da essere. E tutto questo mentre il Belpaese langue sotto i colpi di un’economia mondiale dissestata ed i Soloni di turno si accorgono che qualcosa, ma soltanto qualcosa eh..., può non aver funzionato nell’introduzione del glorioso euro. O forse no, siamo noi, milioni di cittadini italiani, a sbagliarci profondamente. Va tutto bene. Come al solito, è tutto apposto... mi consentite questo neologismo da sms? Ma basta fare polemiche! C’è dell’altro, infatti, e di peggio; ovvero che la controproposta, se così si può chiamare, la quale sarebbe dovuta venire da quel gruppo, numericamente sparuto, di intellettuali che non si riconoscono nell’incubo marxista, non esiste ancora. Forse non è stata ancora messa a punto. Oppure, se c’è, non la si vede. Non la si sente, ed è semplicemente assordante il silenzio che l’accompagna. Questa vacatio preoccupa assai di più, in proporzione, dell’insistente dilagare (e del persistere) della pseudocultura sinistrorsa. A quest’ultima, purtroppo, siamo assuefatti, ma all’insipienza di chi dovrebbe rappresentare una vera e valida alternativa, invece, no. E che cosa dovremmo fare? Basterebbe così poco. Davvero poco. Come nel caso del Nodo di Gordio, anche in questo caso la soluzione potrebbe essere veloce ed efficace. Tutto starebbe, però, a volerla per davvero. E a desiderare che venisse concretamente applicata. Un tentativo potrebbe essere velocemente delineato e, forse, anche agevolmente realizzato. Tutto starebbe ad applicarsi sul serio ad un progetto di cambiamento. E non a giocare. Sarebbe infatti sufficiente assicurarsi che i libri di testo, soprattutto quelli che si riferiscono a materie come la letteratura italiana, la storia e la filosofia, fossero il frutto di una vera e dignitosa indagine culturale, possibilmente condotta senza preclusioni ideologiche di sorta. Allora sì che la differenza tra Benigni e ... Dante si noterebbe! Eccome, se si noterebbe. Invece, seguitando a mantenere pervicacemente in vita il vecchio sistema, c’è il rischio di consolidare una non del tutto comprensibile identificazione tra i due, ivi compreso un rispettabile grado di confusione e d’inganno. Conclusione: anziché fornire ai nostri studenti dei dignitosi libri di testo, permettiamo invece che tra le loro mani (e sotto i loro occhi) cadano testi stampati di varo genere, con contenuti non esaltanti e, soprattutto, concepiti in base ad un’ottica non didattica. Risultato? Lasciamo ai lettori la franchezza di una risposta. E, invece, puntare ad elaborare una buona letteratura italiana scritta da esperti di scuola, oltre che di letteratura, sarebbe davvero una scelta così infame? Non sembrerebbe, ma non si vede ancora emergere nessun impegno in tal senso. Forse, andrebbe adeguatamente, ripetutamente sollecitato. Ma da chi? La traccia di lavoro di questo manuale (o chiamiamolo come più può piacerci) ricalcherebbe semplicemente il profilo storico (in senso diacronico) del nostro sistema letterario, possibilmente evitando tematizzazioni percorsi moduli aggan-


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ci uscite entrate schede approfondimenti aggregazioni etc, ma puntando, una volta tanto, ad illustrare e a spiegare in cosa consiste la nostra letteratura e non a interpretare la stessa in base ad una lettura a senso unico, in aggiunta rigidamente e monotamente marxista. Forse, questa scelta aiuterebbe gli studenti a rimettere al giusto posto (almeno in senso storico) gli autori studiati, nel pieno rispetto della loro successione. In tal modo, si eviterebbe la curiosa, dolceamara mescolanza tra Ungaretti e Foscolo, così come tra Boccaccio e Verga e via dicendo. L’ansia del tematizzare, che sembra aver preso alla gola un po’ tutti i docenti, ha in realtà fatto a pezzi l’unità concettuale ed estetica della nostra letteratura e ne ha sparpagliato i cocci un po’ ovunque. E non sarà facile ritrovarli, incollarli secondo l’originaria posizione e, alla fine, ottenere qualcosa di valido o di spendibile. Torna, insomma, il reale desiderio di studiare davvero la letteratura italiana e non di bamboleggiarsi con le evanescenti sperimentazioni proposte da chi, non conoscendo alcunché della scuola, si diverte continuamente a sottoporla ad uno strazio infinito. Il manuale in oggetto potrebbe essere diviso in tre tomi, la suddivisione dei quali corrisponderebbe alle naturali e maggiormente significative scansioni della nostra storia (e civiltà) letteraria, senza bisogno alcuno di alchimie strane, come quelle imposte da una mano maldestra ai programmi di storia; cancellato il valore emblematico e storiografico di vere e proprie cesure storiche come quella, ad es., del 1492 e del 1789, il sig. Berlinguer ha ritenuto opportuno indicare il 1600 (tondo tondo...) come data emblematica di che?...d’inizio...cosa? Ah già, poi c’è lo studio del ‘900, anche questo con decorrenza primo gennaio, utile strumento per «orientare democraticamente» le coscienze degli studenti alla prima esperienza elettorale, e così via. Tre tomi di storia letteraria, a ciascuno dei quali allegare altrettanti tomi di antologia letteraria, basterebbero dunque a realizzare un progetto che avrebbe la chiarezza e la linearità dello sviluppo letterario come suo tratto essenziale. In barba a tanti, acerrimi detrattori, il disegno di Francesco De Sanctis tornerebbe incredibilmente ed inequivocabilmente ad essere attuale. La chiarezza del suo modo di procedere contribuirebbe poi, insieme all’energia indomita del pensiero gentiliano, a consigliare un po’ di ordine intellettuale e, forse, anche di rigore mentale a chi leggerà tali testi. Chissà che, studiando di più e, soprattutto, meglio, tanti ragazzi non finiscano per trovare un po’ meno gusto nell’andare ad incendiare gli automezzi delle forze dell’ordine, oppure nello strappare pezzi di pavimento dalle strade romane per distruggere abitazioni e negozi? Certo, il dubbio viene, e forte anche. Davanti ad una pratica dello studio un po’ più seria, un po’ più concreta, un po’ meno ridanciana, forse avanzerebbe meno tempo per dedicarsi alle famose attività alternative di cui sopra. Il titolo del manuale potrebbe essere: Storia ed antologia della letteratura italiana. Punto e basta. Niente sottotitoli esplicativi, chiarificatori, delucidatori, chiarificatori e, per forza di cose, semplicemente inutili! Utile, invece, potrebbe essere un cd annesso con i testi letterari disponibili in word, così che Dante Petrarca e Boccaccio (almeno loro...) possano essere letti anche al computer. Tecnologia e cultura non sono affatto in disaccordo. Libertà di pensiero e ideologia, invece, sì. E profondamente. Un’indagine velocemente condotta tra i vari libri di letteratura utilizzati come testi nei nostri licei conferma quanto detto finora. Non si tratta, pertanto, di fantasie passeggere, ma di un dato di fatto. Verrebbe dunque da proporre una sorta di

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Santa Alleanza, (ma santa davvero, stavolta), volta a realizzare in tempi possibilmente rapidi il progetto di cui sopra. A diffonderlo. A trasformarlo in un libro vero. Di carta. Tangibile. Da sfogliare. Da toccare. Da leggere! E da far usare nelle scuole. Certo, resterebbe da trovare un Editore disposto ad investire sul progetto, ma non sarebbe impossibile trovarlo. Si realizzerebbe così lo sforzo di supplire alla prolungata vacatio culturale di chi di sinistra non è e che si è stufato di essere imbonito da una pseudocultura datata. In sintesi, era quanto ci saremmo aspettati dal 2001 in poi, ma in questi dieci anni non è successo (quasi) niente di quanto ci si attendeva con la dovuta ansia. Ecco quanto l’Italia moderata, quella che crede nei valori della fede cristiana, avrebbe in mente di fare. Ecco quanto chi non si riconosce nel livellamento imperante e dominante vorrebbe osare. Ci si riuscirà? È questo il dilemma. Indubbiamente, il proposito presuppone una lotta impari e prevede una fatica che non ha uguali, ma che ha in gioco una posta altissima. Ed il trascorrere del tempo darà una risposta.

(Gianni Isidori, il Borghese 21 Aprile 1974)


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PILOTARE IL RISCATTO - 1

INCUBO di MINO MINI IL 31 OTTOBRE scorso, giornali e telegiornali hanno diffuso la notizia: nasce oggi il «settemiliardesimo» abitante del pianeta. Nessuna analisi, nessuna riflessione sul fenomeno demografico è stata prodotta, talché a tutti è sfuggita l’importanza di questo traguardo superato da un ignoto/a bambino/a. È vero, incombe la crisi economica e sono altri i problemi pressanti che ci affliggono nell’immediato, ma nessuno pare essersi reso conto di quest’altra crisi ben più grave che la nascita del nuovo abitante del pianeta denuncia. Se, come ha rilevato Marcello Veneziani, in presenza di una crisi economica planetaria come questa non si è registrato alcun pensiero sulla stessa, sarebbe troppo aspettarsi che l’arrivo di un settemiliardesimo essere umano smuova il mondo della filosofia contemporanea alla riflessione. In Oriente come in Occidente, al Sud come al Nord. È significativo questo silenzio del pensiero perché rivela che di fronte al fenomeno della crescita della popolazione, la cultura della modernità, diffusa ormai a livello mondiale, sia stata incapace di controllarne gli sviluppi con conseguenze imprevedibili. Proviamo, da urbanisti, ad affrontare il problema mettendo, a priori, le mani avanti. Quando parliamo di controllo del fenomeno non intendiamo che lo stesso debba essere esercitato sulla popolazione in crescita. Intendiamo il controllo o governo del rapporto uomo/natura. Il fenomeno sotto il profilo insediativo non si limita alla dimensione urbana, ma si estende alla dimensione universale del territorio. Come sosteniamo da tempo su queste colonne, il territorio alle diverse scale dimensionali (ecumene, nazioni, città etc) comprende tutto ciò che è connesso allo spazio fisico, cioè alla natura, e tutto ciò che è connesso alle istituzioni che caratterizzano la civiltà dell’uomo. Nel termine territorio, nell’accezione secondo la quale lo stiamo usando, è implicita ogni possibile relazione fra l’uomo e la natura. In tal senso come concetto esso esprime l’insieme della vita dell’uno e dell’altra in reciproca simbiosi: la natura come organismo ospitante e l’uomo come organismo ospitato. Essendo costituito da due simbionti viventi è anch’esso vitale e quindi soggetto ad un continuo processo di mutazione - che si manifesta come evoluzione o involuzione - finalizzato alla ricerca di un equilibrio nel rapporto uomo/natura. Il che implica un continuo mutare del territorio allorché l’uomo - l’organismo ospitato - per sopravvivere in equilibrio costante, ancorché metastabile, con l’ambiente ospitante muta al mutare di questo. Quando parliamo di equilibrio - sempre metastabile e quindi mutevole - non intendiamo riferirci a quello settoriale propugnato dagli ambientalisti che vede, come fine primo, la tutela di uno solo dei due simbionti: la natura. Un fine «squilibrante» nei fatti quanto quello che antepone l’interesse sociale ed economico all’altro simbionte: l’uomo. La tesi che sosteniamo è la seguente: oggi il rapporto uomo/ambiente non è più in equilibrio per l’incapacità

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della cultura moderna di mettere in atto dei sistemi di intervento nell’ambiente che lo rendano atto ad ospitare 7 miliardi (MLD) di abitanti. In breve: l’uomo contemporaneo non è più capace di costruire il mondo. A sostegno di ciò facciamo uso di un rapporto settoriale e meramente quantitativo atto, però, a rendere l’idea: la densità storica, ovvero il numero di persone che hanno occupato la superficie terrestre effettivamente conosciuta in determinati momenti storici. Da tale rapporto si può trarre un parametro che indica lo stato di equilibrio uomo/ suolo espresso dal numero di abitanti per chilometro quadrato (kmq). Facendo ricorso alla demografia storica e traducendo in grafico l’andamento stimato della popolazione nel periodo che va dal 520 d.C. ad oggi, si può constatare un fenomeno sorprendente: la popolazione del mondo conosciuto dal 520 al 1930 è andata raddoppiando per cicli successivi, ciascuno la metà del precedente. Interpolando tale grafico con quello relativo ad un’altra dimensione che esprime la superficie del territorio effettivamente occupato, abbiamo la possibilità di individuare lo stato di equilibrio uomo/ suolo di cui abbiamo detto con risultati davvero sorprendenti. Nell’anno 520 d.C. l’Impero Romano d’Occidente ha, da poco, cessato di esistere. Da vent’anni in Afghanistan l’arte del Gandhara, frutto dello scambio culturale tra arte indiana, ellenistica, romana, sassanide, ha realizzato il complesso monastico di Bamyan dove splendono le gigantesche statue di Buddha scavate nella roccia che i talebani, nel marzo 2001, si preoccuperanno di distruggere a cannonate. Il monaco indiano Bodhidharma introduce in Cina il buddismo zen ed a Bisanzio regna l’imperatore Giustino, zio di quel Giustiniano che gli succederà sette anni dopo. In Occidente è scesa la lunga notte del Medioevo e Mao-


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metto non è ancora nato. Si stima che la popolazione del mondo allora conosciuto sia di 62,5 milioni (Ml) abitanti. Dopo un primo ciclo di 730 anni, l’Occidente sta uscendo dal Medioevo e nel 1250 si ha il primo raddoppio. Il mondo conosciuto è piccolo, 10Ml di kmq, ed è abitato da 125 Ml di persone. L’indice dell’equilibrio, dato dal rapporto uomo/suolo o uomo/ambiente, è espresso dal parametro 12,5 abit./kmq. Nel 1615, dopo un secondo ciclo durato 365 anni - la metà di quello precedente - si ha il secondo raddoppio di popolazione. Con la scoperta delle Americhe il territorio occupato si è ampliato a 20 Ml di kmq ed è abitato da 250 Ml di abitanti. Il parametro rimane fisso a 12,5 abit./kmq. Nel 1795, dopo un terzo ciclo di 180 anni - la metà del precedente - si ha il nuovo raddoppio della popolazione che arriva a 500 Ml di abitanti. Si raggiunge la conoscenza del 49 per cento della Terra e si occupa il 32 per cento delle terre emerse: 40 Ml di kmq. Il parametro rimane fisso a 12,5 abit./kmq. Dopo un ulteriore ciclo di 90 anni - la metà del precedente - nel 1885 si ha il quarto raddoppio della popolazione e si raggiunge il primo miliardo. Si perviene alla conoscenza dell’83 per cento della Terra e si occupa il 60 per cento delle terre emerse: 80 Ml di kmq. Il parametro rimane fisso a 12,5 abit./kmq. Il quinto ciclo si conclude nel 1930 dopo 45 anni -la metà del precedente- con il raggiungimento del secondo miliardo. Ormai il territorio occupabile è occupato - 150 Ml di kmq - ma improvvisamente l’equilibrio che era stato mantenuto per oltre 1365 anni, si rompe. Il parametro sale a 13,3 abit./kmq. Da questo momento la velocità di raddoppio va diminuendo. Il sesto raddoppio, infatti, avviene nel 1975 dopo 45 anni, lo stesso ciclo del precedente, ma questa volta la superficie non può più crescere. La Terra è diventata un mondo chiuso, finito. Il parametro raddoppia a 26,6 abit./ kmq . Con i 7MLD raggiunti il 31 ottobre 2011 il parametro sale a 46,6 abit./kmq, ma non si è ancora concluso il settimo ciclo del raddoppio. Nel 2025, attendibilmente, si raggiungerà l’ottavo miliardo completando, dopo cinquant’anni, il settimo ciclo iniziato nel 1975. Nel nostro mondo, diventato piccolo, il parametro salirà a 53,3 abit./ kmq. Abbiamo visto il processo territoriale sotto l’aspetto settoriale dell’occupazione quantitativa e indifferenziata dell’uomo sul suolo. A questo punto si presentano spontanee alcune considerazioni. La prima riguarda l’equilibrio territoriale che alla fine del quinto ciclo si rompe. Da quel momento l’ambiente è diventato, come abbiamo detto, un spazio finito, un contenitore chiuso all’interno del quale l’altro simbionte, l’uomo, è cresciuto spropositatamente. Come ci insegna la fisica al di là di un punto critico i gradi di libertà delle molecole in un contenitore chiuso diminuiscono con l’aumento del numero delle stesse. Possiamo affermare con Frank Herbert, l’autore di Dune, che altrettanto avviene per l’uomo in un ecosistema finito. In tale condizione l’equilibrio viene alterato ed il problema diventa come ricostituirlo, ma lo stesso consiste nel consentire ai due simbionti di adattarsi e reciprocamente condizionarsi in piena libertà. Ciò implica che il reciproco adattarsi e condizionarsi avvenga alla stessa velocità per entrambi. Qui scaturisce la seconda considerazione: la velocità di propagazione del simbionte uomo, già riscontrata da Malthus (1766-1834) nel terzo ciclo - quando la popolazione

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era ancora di 500Ml di abitanti - sorprese la nuova cultura della modernità inadeguata ad affrontare un fenomeno che la poneva come l’apprendista stregone di fronte alle forze da lui scatenate senza la prospettiva dell’intervento risolutore del «principale». Malthus, che con il suo Saggio sul principio della popolazione (1798) è stato il primo a porsi il problema, era un economista frutto di quella «meccanizzazione della concezione del mondo» - come la chiamò Dijksterhuis - introdotta con la rottura dell’unità della coscienza da Cartesio. In conseguenza di ciò la sua visione del problema era, quindi, settoriale e la sua percezione della natura, ivi compresa quella umana, puramente meccanica e quantitativa. E tale si trasmise nelle elaborazioni dei successori per i quali l’economia era retta da «leggi» aventi lo stesso valore impositivo di quelle della natura ed alle quali, come a quelle della natura, era vano opporsi. In questa prospettiva distorta, la realtà venne ribaltata: l’uomo, come parte della natura concepita meccanicamente, doveva essere subordinato alle leggi economiche. Fu a questo punto che il fenomeno prese la mano all’apprendista stregone allorché, per l’efficienza della «legge», alla subordinazione si sostituì la esigenza dell’economia e della tecnica di uniformare, ai suoi fini, l’uomo in crescita. Il passo successivo, quindi, fu la formazione, tramite condizionamento inconsapevole, di un uomo nuovo la cui identità venisse annullata per renderlo indifferenziato ed essere poi rimodellato in funzione della produzione e del consumo. Un numero senz’altra dimensione che quella economica. Fu questa la risposta «naturale» della cultura della modernità al problema della crescita della popolazione: la realizzazione di un onnipotente meccanismo di riduzione dell’uomo a numero. La comunità degli uomini divenne società, ovvero un aggregato per contratto, riducendosi a massa. Nostra indistinta signora la massa, la sfotté il Bagaglino d’antan. Siamo così arrivati alla realizzazione di quella «perfezione della tecnica» preconizzata da Georg Friedrich Jünger: «Il progresso tecnico e la formazione delle masse vanno di pari passo e si condizionano l’un l’altra . il progresso tecnico è più forte dove la massificazione è più avanzata». Il lungo discorso condotto sin qui ha occupato tutto lo spazio a disposizione. Rinviamo allora ad una prossima puntata la descrizione del fallimento dell’uomo nella costruzione del mondo ovvero del processo che ha portato alla realizzazione delle periferie ed alla mutazione dell’uomo in cyborg, l’abitante protesizzato delle stesse. Per l’intanto auspichiamo che l’avvento del settemiliardesimo nato induca alla riflessione. Per parte nostra anticipiamo tre considerazioni che riprenderemo nella prossima puntata: 1. Il treno della crescita demografica è sempre in corsa e la nostra cultura ufficiale (e non) non è in grado di pilotarlo. Il fine che una nuova cultura dovrà porsi sarà quello di ripristinare l’equilibrio ormai spezzato per far svolgere ai due simbionti il mutamento necessario alla stessa velocità; 2. Per quanto riguarda l’abitare, la cultura della modernità non è in grado di progettare le città del terzo millennio in modo tale da ridare identità ai suoi abitanti e determinare un nuovo equilibrio tra l’uomo ed il suo ambiente; 3. Non esiste una soluzione univoca al problema della città altro che ogni cultura dovrà stabilire una propria condizione di equilibrio posto che la stessa, in epoca di nichilismo diffuso, abbia ancora una propria visione del mondo. (Continua-1)


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CRONACHE DELL’IMMIGRAZIONE

SANTE epopee di ALFONSO PISCITELLI SIAMO arrivati a dicembre: tempo di panettoni e di cinepanettoni, ma di tre film, anzi di tre capolavori del cinema impegnato italiano si sono perse le tracce. Ci riferiamo al film che ha come protagonista uno dei migliori attori italiani, Diego Abatantuono, intitolato Cose dell’altro Mondo. E ancora al film di Crialese, Terraferma, candidato all’oscar come miglior film straniero. E alla pellicola mistica del venerato maestro Olmi, Il Villaggio di Cartone. Eppure nell’estate 2011, mentre l’Italia affogava nel debito pubblico e mentre l’ultima guerra coloniale in Libia stravolgeva ancor di più se è possibile gli equilibri del Mediterraneo, la stampa e le giurie avevano decretato che queste tre opere cinematografiche impegnate rappresentavano le ultime espressioni di qualità della creatività italiana. Ma, si sa, qualità e quantità non vanno sempre sotto braccio: e questi nobilissimi film, pieni di coccarde, al cinema hanno fatto il vuoto. Gli Italiani, barbari e incivili, hanno disertato le sale cinematografiche, preferendo i filmacci di Ezio Greggio e di De Luigi. Ma perché poi queste tre pellicole erano considerate dei capolavori? La risposta è ovvia: perché parlavano di immigrazione. E ovviamente ne parlavano con quello stile manicheo che caratterizza i nostri intellettuali e registi più ideologizzati: il bene di qua, il male di là. Italiani ignoranti e bestiali, immigrati angelici e super-buoni. Agli indigeni della penisola toccava il ruolo predestinato di «cattivi», ma il bello è che ai «cattivi» italiani si chiedeva anche di pagare il biglietto e di applaudire alla loro umiliazione pubblica. Richieste un po’ eccessive e gli Italiani - che già con le loro tasse hanno pagato la realizzazione dei film a questi santoni cinematografici che mai fanno un incasso decente si sono almeno tolta la soddisfazione di abbandonare all’oblio le noiose epopee della santa immigrazione. Peccato per Abatantuono, che è un bravo attore italiano, sempre dotato di senso dell’umorismo. In Cose dell’altro mondo svolge un ruolo atipico di predicatore televisivo che aizza gli Italiani del Nord Est al razzismo contro gli immigrati. I Veneti lo ascoltano in televisione e lo seguono come un profeta. Gli Italiani tutti appaiono avidi, infidi e ottusamente chiusi ad ogni novità: in primis la novità degli immigrati, questa sorta di umanità nuova che senza alcuna colpa viene oppressa e bistrattata e che a un certo punto scompare, lasciando - secondo l’interpretazione degli autori del film - un vuoto incolmabile nella società che non li ha saputi valorizzare. A parte gli applausi di circostanza dei critici più ideologizzati il film ha lasciato perplessi non pochi recensori. Si è voluto vedere in esso un attacco frontale alla Lega Nord. A nostro avviso c’è di più, dal film emerge qualcosa di molto più grave che non la polemica contro un partito: emerge una visione di tipo razzista biologico che distingue una umanità superiore (gli immigrati) e gli untermenschen, quasi bestiali, ovvero gli indigeni del

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Veneto, che rifiutano le meraviglie della società multiculturale. Gli Italiani vengono descritti come nei film del III Reich venivano descritti gli Ebrei. Al botteghino la pellicola ha incassato qualcosa soltanto nei primi giorni: la gente è stata attratta dal nome di Abatantuono. Ma, passati pochi i giorni, il nome di Abatantuono è stato travolto dal fiasco solenne della pellicola. Tanto il film di Abatantuono, quanto il film di Crialese sono stati presentati alla mostra del Cinema di Venezia, il dispendioso carrozzone pubblico che ormai da decenni attribuisce corone d’alloro a film che neppure al cineforum di sezione del PDCI di Diliberto potrebbero ormai suscitare interesse. Il film di Crialese, Terraferma, addirittura è stato candidato all’Oscar. Quando verrà scartato senza appello dai giurati americani, i critici non potranno neppure inveire contro l’America imperialista che discrimina gli immigrati, perché oggi gli USA sono il fantastico Paese dell’afro-americano Obama… Tuttavia a noi preme denunciare una ingiustizia: nel corso del 2011 è uscito un bel film in Italia, Noi credevamo. Belle immagini, bei colori, una certa tensione nella trama, e l’argomento risorgimentale trattato senza dispendio di retorica. Oddio, neppure questo un gran capolavoro, ma senza dubbio un film godibile. Noi credevamo meritava la candidatura all’Oscar, ma i giurati hanno fatto come le commissioni esaminatrici che scartano il candidato preparato e promuovono il parente scemo del presidente di commissione: hanno scartato un film buono e hanno promosso il film più prossimo alle loro fisime ideologiche. Se Crialese è stato candidato all’Oscar, Olmi invece è stato proposto addirittura per il soglio pontificio. Il villaggio di cartone del venerato maestro Olmi è assurto a caso teologico e il vecchio regista in fregola mistica è arrivato a dichiarare: «I cristiani non devono inginocchiarsi più davanti al crocifisso, ma davanti agli immigrati». Testuale. La trama del film: una chiesa sta per essere sconsacrata e mentre il vecchio parroco, un po’ frastornato, cerca di reagire, i facchini spostano gli arredi sacri. Ma ecco che nei locali disadorni si insedia un gruppo di clandestini: miracolo, lo spazio sacro riprende vita. L’umanità nuova degli immigrati ridà fiducia al prete, che diventa cappellano al servizio dei nuovi venuti. La nascita di un bambino in questo contesto viene interpretata come un evento mistico e tutto intorno i devoti intonano uno stonato «Adeste Fideles». Se negli anni Ottanta Moretti inscenava un lugubre film anticattolico La Messa è finita, oggi Olmi va oltre con la sua frase a suo modo affascinante: «Cristiani, lasciate perdere il Crocifisso e inginocchiatevi davanti agli immigrati!»


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CONTRO L’ATTACCO SPECULATIVO

POLITICA poco economica di EMMANUEL RAFFAELE L’USCITA di scena di Berlusconi lascia non pochi interrogativi. Per un uomo che per diciassette anni è stato la politica italiana non poteva essere altrimenti. Del resto, già la sua pre-uscita di scena virtuale è stato il segno di una personalità incapace di adeguarsi al luogo comune. Dopo le sue dimissioni, i giornali hanno ripercorso la sua storia politica come se fosse passato all’altro mondo. Eppure dopo di lui è il vuoto. Come previsto, del resto. E chissà che da questo vuoto non possa risorgere come una fenice. Non ci sorprenderebbe più di tanto, né scoppieremmo di gioia visto che sarebbe un vicolo cieco. Mario Monti, invece, è stato nominato senatore a vita, un gesto che non può essere casuale e che, se non altro, è il preludio ad un indirizzo forte del presidente nella speranza di un governo tecnico. Ma già oggi gli interessi dovuti dallo Stato italiano a chiunque investe nei titoli di Stato sono schizzati al 7 per cento, il tasso che ha mandato al collasso la Grecia. Lo spread non sembra scendere in seguito all’uscita di scena di Berlusconi, a cui tutti imputavano anche l’alto differenziale rispetto ai titoli tedeschi. Senza contare, soprattutto, che fare un ragionamento del genere è come guardare il dito anziché la luna. I mercati si sono dimostrati talmente volubili che pensare di basare la politica sul loro andamento è folle. Anche chi intendesse fare un ragionamento utilitarista, non potrebbe che constatare infine come l’irrazionalità della finanza non possa andare d’accordo con ciò che serve al governo di un Paese. Ma un ragionamento del genere, d’altronde, non tiene in considerazione il fattore principale: ciò che va combattuto è esattamente questo, il mercato che si impone sulle scelte politiche. Stiamo assistendo ad una dittatura e nessuno se ne accorge soltanto perché chi è oggi al comando non porta il fez o non soggiorna abitualmente in una tenda. L’Europa ha stilato al posto del nostro governo la lista delle misure da prendere, la Francia ci chiede di sottoporle i nostri conti trimestralmente, il Fondo Monetario Internazionale, che ancora non ci ha dato un soldo, ci tiene sotto controllo. Come se non fosse chiaro che il Fondo spera in un nostro tracollo per poterci sottoporre forzosamente alla sua cura fatta di tagli sociali, prestiti nuovi di zecca e l’apertura agli investitori esteri che farà a pezzi ciò che rimane della nostra sovranità. Se c’è uno sbaglio che ha commesso Berlusconi e, soprattutto, Tremonti è proprio quello di non aver risposto organicamente all’attacco speculativo. Se il mercato ti attacca e dimostra di danneggiare dell’economia, è chiaro che devi difenderti con misure eccezionali. E invece niente. Come la Grecia stiamo correndo dietro alla finanza per accontentarla, senza tener conto del fatto che quelli ci chiederanno interessi sempre più alti anche a costo di saperci insolventi.

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Perché il mercato, appunto, non ha visione sistemica. Il mercato sono tanti egoismi messi insieme. Il mercato è quel meccanismo per cui banalmente, se in molti vendono, tutti corrono a vendere e si auto-crea una crisi di liquidità delle banche. Il mercato è quel sistema infernale per cui nascono le bolle speculative. Il mercato, infine, è quella realtà in cui alcuni soggetti - altrimenti dette agenzie di rating - possono compiere insider trading liberamente senza essere condannati mandando all’aria interi Stati. Il mercato è quel mostro per cui se in oriente si sfruttano i lavoratori non è ritenuto giusto alzare le barriere commerciali, ma si sacrificano i posti di lavoro del proprio Paese in nome di una teoria che parla di vantaggi comparati. Vantaggi per la teoria e basta evidentemente, visto che il riequilibrio dei salari tradotto in lingua umana vuol dire costi sociali altissimi. Tutto questo è il mercato e non si capisce, dunque, per quale motivo lo si debba seguire ed assecondare anziché combattere. Se soltanto Berlusconi avesse tirato fuori gli attributi e avesse osato sfidare il mercato agendo strutturalmente, anziché fare l’antieuropeo soltanto a parole, anziché contestare i sorrisi ammiccanti ed il direttorio FranciaGermania senza proporre alternative geopolitiche valide, forse oggi sarebbe ancora lì. Forse in lui gli Italiani avrebbero rivisto lo stesso imprenditore, poco politico e molto concreto, che nel ‘94 li aveva conquistati e che soltanto qualche anno fa aveva riavuto la fiducia «nella speranza della sua resurrezione». E invece niente. Finanziaria dopo finanziaria, si sono avuti scudi fiscali, emendamenti salva banche e tasse. Esiste una sola via per uscire a testa alta dalla crisi: capire che la crisi è sistemica ed affrontarla come tale. Cambiando, cioè, il sistema. Ma Berlusconi non ne ha avuto la forza politica o, forse, non ne ha avuto la volontà. Questo è l’interrogativo con cui (ci) lascia, tutti noi che, senza magari averlo mai votato, sfiduciati dal mondo politico in generale, avevamo visto in lui il meno peggio di una casta che, a questo punto, pare impenetrabile. Berlusconi ha annunciato le sue dimissioni e, poco prima, si è lanciato in una critica accennata dell’Euro. Le conseguenze necessarie però non le ha tratte, né l’ha fatto il suo ministro dell’Economia, bravo a parole, poco coerente nei fatti, da buon vecchio socialista. Una demagogia (o forse mancanza di concretezza) che si è palesata quando Santoro ha invitato «mister conti in ordine» in tv e gli ha messo davanti una lavagna per fargli spiegare agli Italiani la crisi in corso. Ebbene, la lavagna è rimasta vuota e la lezione cui abbiamo assistito avrebbe potuto tenerla un qualsiasi studente di liceo dotato di coscienza critica. La speculazione ha creato la crisi, ha spiegato. Nessuno, però, che nel governo abbia provato a spiegare o cercare soluzioni per uscire da questa crisi magari non più ricchi, ma quanto meno con uno Stato diverso e meno asservito alla finanza internazionale ed alle clientele nostrane. Gli sprechi, che più di tutti hanno fatto perdere credibilità, sono rimasti lì e la burocrazia è tale e quale. Ci sarà il tempo dei bilanci e sarà giusto farli. Certamente Berlusconi ha fatto qualcosa di buono e gli si dovrà rendere merito. Ma di rivoluzioni non ne ha fatte ed ha dimostrato di non saperne fare. Né liberali, né sanamente autoritarie. Il rischio fallimento con un governo tecnico non si allontanerà. Ma in compenso avremo misure draconiane. E chissà, poi forse falliremo dicendo: forse era meglio tenerci la sovranità, anziché cederla per un piatto di lenticchie che oggi è già finito.


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IL «RATING» COME GRIMALDELLO

«GOLDMAN Brothers» di DANIELE LAZZERI ALLA fine ci sono riusciti. Dopo un lungo e tormentato periodo, durato alcuni mesi, il governo Berlusconi, o meglio il Presidente del Consiglio in prima persona, si è dovuto arrendere. La domanda è: arrendere a cosa? Ad una maggioranza sfilacciata? Alle richieste dell’Europa o alle pressioni delle forze sociali? Alla piazza del popolo viola o diversamente colorato, oppure al rischio di un fallimento economico e finanziario? Niente di tutto questo. Vi è un solo reale motivo per il quale il Capo del Governo ha gettato in questa fase la spugna: l’attacco senza precedenti da parte della speculazione internazionale. Una valanga di vendite sui titoli del debito sovrano italiano che ha fatto crollare il corso dei titoli in circolazione e costretto ad aumentare considerevolmente i tassi di interesse sulle nuove sottoscrizioni. Un costo insostenibile per le casse delle Stato che rischia di far vacillare i già precari equilibri dei conti pubblici. Un rischio di fallimento per il Belpaese che era stato paventato qualche mese fa dalle famigerate agenzie di rating internazionali e che, col senno di poi, si comprende aver rappresentato il primo segnale di una volontà di mettere in ginocchio l’Italia da parte della grande speculazione di stampo finanziario. Una massa monetaria di proporzioni gigantesche basata sul nulla. È l’economia di carta, quella generata dal processo noto come «finanziarizzazione» dell’economia che ha fatto deragliare il treno del turbocapitalismo, creando dissesto dapprima nel mondo creditizio e, successivamente, facendo esplodere il bubbone delle finanze pubbliche. Il maldestro e ancora irrealizzato tentativo di colmare il pericoloso vuoto verificatosi nei bilanci degli istituti bancari dopo il fallimento di Lehman Brothers, grazie a massicce iniezioni di denaro stampato dalle zecche delle banche centrali e con interventi diretti degli Stati, si è trasformato in un banale e deleterio passaggio dal debito privato a quello pubblico. Una crisi sistemica che sta portando al collasso Paesi come la Grecia e l’Italia e che sta dissestando l’intera Unione Europea, minandone le fondamenta stesse, quelle basate sulla moneta unica e sul mercato comune. Una morte lenta e dolorosa, causata da una malattia originaria, quella fondata sulla convinzione che una moneta unica fosse sufficiente a creare un’unione politica, e da una cura che ne sta accelerando gli effetti devastanti. Una politica scellerata portata avanti dal direttorio francotedesco allo scopo di tutelare i soli interessi di Parigi e Berlino, in barba agli effetti catastrofici su tutta la Eurozona. Una politica miope che non riesce a comprendere come le difficoltà attuali dell’Italia si ritorceranno inevitabilmente contro Francia e Germania, mettendo la parola fine ad ogni futuro sogno europeo. Un’Italia non intossicata dai titoli spazzatura, né particolarmente colpita, a differenza delle banche francesi e

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tedesche, dall’attuale situazione di instabilità finanziaria di Atene. E in mezzo a questo caos, nel più assordante dei silenzi, si è consumata la vittoria della tecnocrazia apolide che da mesi ha tramato nell’ombra, servendosi di politici e lobby di vario genere per costringere all’angolo l’Esecutivo italiano. Prima con la nomina di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea e ora con la definitiva cessione della sovranità popolare, esautorata dall’arroganza del potere finanziario e tecnocratico che indica i Presidenti del Consiglio e impone scelte di politica economica che avranno effetti devastanti per il futuro del Paese in totale assenza di un mandato popolare. Minimo comun denominatore è l’appartenenza di questi nuovi santoni della finanza al gigante di Goldman Sachs. Dalla «bottega» di Goldman vengono, infatti, sia Draghi che Monti, e i loro legami con gli entourage all’origine di questa colossale crisi finanziaria sono assodati e, addirittura, messi in bella mostra nei loro curricula. Anche il segretario al Tesoro americano, Henry Paulson proveniva dalle schiera della benemerita Goldman e, finito il «lavoro sporco» con la liquidazione del concorrente storico Lehman Brothers, ha ben pensato di ritornare all’ovile, su uno degli scranni più importanti della merchant bank più potente al mondo, tanto che il dubbio legittimo è quello di capire al servizio di chi abbia operato, se per il suo Paese o per il suo datore di lavoro precedente e successivo. * * * Per piegare la Grecia sono stati sufficienti i giudici delle agenzie di rating. Con l’Italia è stata, invece, più dura. Declassamenti e outlook negativi non hanno scalfito il Governo più di tanto. La lezione, dunque, non aveva sortito l’effetto sperato. E, quindi, si è reso necessario un supplemento di «ferocia» finanziaria. Nasce così l’incubo dello «spread», il differenziale tra i tassi di interesse dei titoli di Stato italiani nei confronti dei Bund tedeschi. Da qui sono cominciati i guai seri. La girandola dei mercati, rimbalzando sui media che hanno giocato con l’ignoranza e il panico dei piccoli risparmiatori, ha ridato fiato alle speranze dei cosiddetti poteri forti, creando un effetto domino sulla politica già indebolita da qualche mese di tensioni nella maggioranza, fino a costringere alle dimissioni Berlusconi. Mancanza di coraggio di una classe politica di basso profilo e incapace di trovare risposte concrete ai reali problemi del Paese, sono la vera causa di questo evidente commissariamento in atto. Di ben altra fatta è la Presidente argentina, Cristina Elisabet Fernández de Kirchner, la quale si è ben guardata dal recepire l’ennesima ricetta mortale del Fondo Monetario Internazionale, rispendo al mittente la classica letterina con la «lista della spesa» imposta da Washington. E grazie a questo sistema, oggi, l’economia argentina è ripartita e cresce a ritmi sostenuti. Siamo di fronte a una crisi e, soprattutto a una cura, che pagheranno i soliti noti. Le tanto vituperate agenzie di rating, invece, ferocemente criticate da Francia e Germania qualche mese fa e oggetto di profondi sospetti per il loro assetto proprietario concentrato nelle mani di pochi, grandi, società di investiment banking, continuano a fare indisturbate il loro lavoro. Quello di indicare il prossimo bersaglio da colpire. Il simpatico duetto Merkel-Sarkozy ha poco da sorridere. Sotto a chi tocca.


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L’ANTIUTILITARISMO DI EVOLA

ANALISI DI una crisi epocale di GIOVANNI SESSA PROBABILMENTE, il senso di questo nostro articolo, è ben riassunto dalla copertina, come al solito, volutamente ironica e graffiante, del numero di Novembre de il Borghese. In essa, faceva bella mostra di sé sotto la scritta «Cavalcare la tigre», un’Italia smarrita e impaurita, a cavallo di un euro che rimbalzava, incontrollato, nella sua folle corsa, da una parte all’altra del globo. L’immagine mostrava un’esemplarità simbolica assai significativa: da un lato, presentava la crisi economica (ma non soltanto) internazionale che stiamo vivendo, mentre la scritta di testa, forniva un’indicazione precisa all’area dell’alternativa politico-intellettuale: quella di guardare (finalmente!) al sapere tradizionale, quale strumento al medesimo tempo diagnostico e terapeutico, rispetto al presente stato delle cose. Che il momento storico mostri i segni di una svolta epocale è cosa che, da tempo, almeno gli osservatori più accorti, hanno rilevato. Peraltro, come l’esperienza insegna, nei momenti più difficili della convivenza civile è possibile cogliere delle possibilità politico-esistenziali insperate e inattese. La crisi, necessariamente induce a pensare a un suo auspicabile e, speriamo, prossimo superamento. Perché ciò avvenga, bisogna farsi trovare pronti di fronte agli eventi e alle novità che essi comportano. La domanda da cui è necessario muovere è la seguente: che cosa è entrato in crisi? Sicuramente il modo di gestire la produzione e la distribuzione dei beni da parte della Forma-Capitale, nell’età della globalizzazione. Per capire meglio la situazione, è necessario procedere ad ulteriori specificazioni. È certamente vero che la crisi ipotecaria che ha investito gli Stati Uniti qualche anno fa, è da considerarsi l’inizio dell’instabilità dei mercati internazionali. Essa, a sua volta, va però letta quale momento della più generale «crisi del dollaro». Questo il vero problema dei nostri giorni, la cui evoluzione presenta tratti politici di grande rilevanza e proietta incertezza sul futuro. Su di esso, in un saggio molto chiaro, si è soffermato il filosofo francese Alain de Benoist (Il dollaro al centro della crisi, in Diorama letterario, n. 297, 2010). Questi ha tracciato una breve storia della moneta americana, che è in grado di spiegare l’attuale contingenza. Nel 1922, con gli accordi di Genova, venne istituito il Gold Exchange standard che stabiliva la convertibilità del dollaro, quale valuta degli scambi internazionali, con l’oro. Tale sistema, che sostituiva la doppia convertibilità in argento e oro, gestita fino ad allora dalla Gran Bretagna, fu abrogato da Roosevelt nel 1933, e reintrodotto nel 1944, a Bretton Woods. La conferenza sancì i nuovi equilibri, non soltanto economici, ma anche geo-politici, determinati dai rapporti di forza emersi dal secondo conflitto mondiale. Quando il presidente Nixon, nel 1971, tornò alla non convertibilità del dollaro con l’oro, inaugurò un’èra instabile, che toccherà il suo apice nel 1976. In quell’anno, furono ratificati gli accordi di Giamaica, che introducendo i «cambi fluttuanti» della divisa statunitense, indussero il suo progressivo deprezzamento. Da

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allora, gli Usa hanno vissuto di «capitali» stranieri, di dollari acquistati dalle riserve delle Banche centrali di altri paesi. Nel 2007 il 64 per cento delle riserve monetarie delle banche mondiali erano in dollari, mentre l’economia reale degli Stati Uniti registrava un’evidente regressione. Ora, le nuove realtà emergenti in ambito economico-politico, in particolare la Cina, considerato anche il calo delle esportazioni dei Paesi dell’eurozona negli States, chiedono la sostituzione del dollaro con una moneta «sovra-sovrana», fondata su un paniere che comprenda lo yuan, l’euro, lo yen, il rublo. Ciò implica una redistribuzione dei ruoli dei singoli Stati nel Fondo monetario e nella Banca mondiale. La situazione è stata perfettamente e sinteticamente descritta da George Soros (lui si che se ne intende!) nella primavera del 2008: «Il mondo corre verso la fine dell’èra del dollaro». E ciò, naturalmente, determina delle conseguenze profonde, in ambiti diversi, che possono essere sintetizzate in questi termini: 1) Espropriazione dell’autonomia del momento politico. Nelle democrazie liberali d’Occidente, la prassi parlamentare vigente è «surrogata» dalla governance, che risponde localmente (attraverso le forme oramai larvali dei governi nazionali), al volere dei potentati finanziari e alla speculazione internazionale. Su ciò, nelle sue opere, è stato chiarissimo il politologo francese Guy Hermet; 2) Dal punto di vista esistenziale, l’affaticamento del politico, descritto da Maffesoli, si va trasformando, negli stessi Paesi, in rabbia e indignazione contro la politica, ma ciò non è in grado di produrre, paradossalmente, progetti alternativi all’esistente. Il mare magnum di internet, come ricordava Marco Tarchi, sul precedente numero di questa rivista, contribuisce a questo insuccesso, facendo balenare la possibilità di una comunicazione alternativa ma, in realtà rendendo invisibili e mute quelle voci dissenzienti, che non godono di protezione social-politica e di traino mediatico; 3) Sotto il profilo culturale, il collante della nuova realtà in fieri è fornito dagli ex-marxisti, che si sono arresi alle logiche della Forma-Capitale e si sono trasformati nei paladini della nuova religione vigente e non contestabile, quella dei «diritti dell’uomo», declinata secondo «logiche» disparate e le più varie; 4) Dal punto di vista geo-politico, assistiamo a una resa incondizionata, nelle presunte «guerre di civiltà», degli USA e dei loro alleati. E’ la fine della fase «balistica» e terminale della democrazia imperiale statunitense, che corrisponde al momento più acuto della «crisi del dollaro» e degli assetti scaturititi dal secondo conflitto mondiale. Ciò potrebbe aprire, sullo scenario internazionale, all’Europa, qualora decidesse di diventare soggetto politico autonomo dalle politiche USA, interessanti prospettive mediterranee, evitando che i cambia-

LA PAROLA AI RESPONSABILI (Gianni Isidori, il Borghese 16 Giugno 1974)


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peo da se stesso, il suo sottrarsi al reale, per accedere a una menti di regime avvenuti in quest’area, si risolvano ad esclusidimensione sub-reale, quella che oggi, anche nell’ambito ecovo vantaggio di chi, con grande probabilità, li ha eterodiretti; nomico-finanziario, sotto specie di transazioni immediate di 5) Infine, sul piano specificamente economico, il mondo occicapitali (a volte inesistenti), mostra il volto fantasmagorico dentale sta vivendo la progressiva proletarizzazione dei ceti della irrealtà che la costituisce dall’interno. In questo vuoto medi, in particolare di quelli a vocazione intellettuale. A ciò è, interiore, che si accompagna, ormai, almeno per date fasce inoltre, legato il carattere gerontocratico dell’esercizio del sociali, a un pauperismo di ritorno, quella che un tempo fu la potere in ambito politico e professionale. Si è fermato lo svisocietà opulenta, vede il riemergere delle domande di senso, luppo, non c’è ricambio generazionale. quel «eppur manca qualcosa», attorno al quale Evola pensava Di fronte a tale situazione, l’unica certezza è il diffuso di poter far riemergere i valori gerarchizzanti del mondo tradibisogno di discontinuità, addirittura l’attesa di un nuovo inizio, zionale. Già, perché ciò che distingue nettamente la proposta nella gestione della Città. Per questo, all’uomo calato nella evoliano-tradizionale, dalle critiche alla società mercantilista e realtà del nostro tempo, possono essere d’aiuto le indicazioni consumista, elaborate da ambienti più o meno «indignati», di principio che emergono dalle opere di autori controcorrente, antipolitici o addirittura no-global, è il problema della forma, che mai, nel loro percorso ideale, si fecero irretire dalle parole pars construens essenziale del suo discorso. di sogno dell’american way of life né, tanto meno, dalle proPer resistere alle negatività della situazione in atto, è neposte utopistiche. Tra essi, un posto di primo piano, anche in cessario richiamarsi, nel quotidiano confronto con il continquesto senso, spetta a Julius Evola. Fin dal 1929, non casualgente, a quelle qualità ordinanti e trascendentali che sono dei mente, nel bel mezzo della crisi dovuta al crollo di Wall Street, pochi, ma che consentono, nell’avanzare del deserto, di tenere nel saggio Americanismo e bolscevismo pubblicato sulla rivile posizioni interiori. La resistenza interiore, innanzitutto: non sta «Nuova antologia» (ora in Il ciclo si chiude. Americanismo per chiudersi al mondo, ma per trovare le energie spirituali e bolscevismo 1929-1969, Fondazione Evola, Roma 1991, a capaci di riattivare quel processo virtuoso, che conduce alla ri cura di G. de Turris), criticò aspramente tanto il sistema politi-costruzione della partecipazione politica attiva, in un moco americano quanto quello sovietico, entrambi espressioni di mento in cui, con un dispiegamento di forze impressionanti, una concezione della vita, materialista e livellatrice. La loro la governance, induce alla smobilitazione, al silenzio. Di essenza era di fatto convergente, in quanto entrambe civiltà fronte alla fine di un’epoca, o al suo annuncio, non si può che «dei materiali e della meccanica», indirizzate a realizzare la pensare a un nuovo orizzonte storico, che si sia lasciato alle perfetta inversione del carattere anagogico, di tensione verso spalle tanto le macerie del capitalismo globalizzante, quanto il l’alto, da sempre presente nelle civiltà tradizionali. Anzi, più in ricordo delle tragedie del comunismo e, con loro, la cultura di particolare, il sovietismo manifestava, per Evola, la volontà di riferimento sulla quale sono stati costruiti, quella economicirealizzare, con altri mezzi, nientemeno che 21-10-2011 14:09 Pagina 1 sta e materialistica. Lungo questo itinerario, la filosofia di l’«americanizzazione» della Madre Russia. Quindi, la lotta tra Evola, ancora oggi, è viatico profetico ed esemplare. americanismo e sovietismo, e la conseguente guerra fredda, erano conflitti totalmente interni alla modernità. Delle due forze in campo, Evola colse, da un lato la maggiore pervasività spirituale del modello americano, quello che dispiega, ai giorni nostri, la colonizzazione dell’immaginario più profonda e devastante che la storia dell’umanità ricordi, ma al medesimo tempo rilevò il rischio strategicomilitare, rappresentato per gli europei, Facchinetti Madiran dall’impero sovietico. Alla luce di ciò, 22 Loris 26 Jean Il manifesto umano “L’accordo di Metz” Tra Cremlino e Vaticano La Destra invisibile in momenti salienti della storia italiana e Saverio Romano introduzione e post-fazione introduzione di Girolamo Melis “La mafia addosso” continentale, più precisamente a partire prefazione di Stefano Amore di Roberto de Mattei postfazione di Salvatore Santangelo Intervistato dalla metà degli anni ‘30, avallò scelte da Barbara Romano pagg. 234 • euro 17,00 politiche come l’intervento italo-tedesco pagg. 112 • euro 12,00 in Spagna o, nel secondo dopoguerra, pagg. 190 • euro 16,00 Mussolini 23 Rachele - B. Romano l’adesione al Patto Atlantico, in funzioBenito ed io 27 S.La Romano mafia addosso Una vita per l’Italia ne pratico-strumentale anti-comunista e Intervista di Barbara Romano prefazione di Alessandra Mussolini al Ministro Saverio Romano, imputato… per forza! non sic et simpliciter ideologica. Queste traduzione di Fabio Torriero revisione a cura di Anna Teodorani scelte, non vanno pertanto lette nei terpagg. 188 • euro 16,00 pagg. 270 • euro 18,00 mini di un presunto ed inesistente liberalismo/occidentalismo di Evola. Le Pen Amato 28 Marine Controcorrente 24 Francesco Infatti, per tutta la vita, il filosofo Annali di piombo prefazione di Fabio Torriero (diario di un servitore dello Stato) traduzione di Anna Teodorani continuò a interpretare l’America, non prefazione di Giancarlo de Cataldo pagg. 228 • euro 18,00 come la nazione giovane, alla perpetua Marine Le Pen pagg. 472 • euro 22,00 Controcorrente ricerca della nuova frontiera da oltrepasprefazione di sare, ma come una fine. Come la conFranza Fabio Torriero 25 Enea Giampaolo Bassi traduzione di clusione primitivistica dell’organica L’Italia e la crisi, Anna Teodorani civiltà europea, quella che compiutaun Paese al bivio mente si esperisce nella fase attuale pagg. 234 • euro 16,00 pagg. 228 • euro 18,00 dello sviluppo storico. Nel modo di vivere delle società occidentalizzate si informazioni al 339 8449286 manifesta l’evasione dell’animus euro-

PUBBLICITÀ traduzione di Milena Riolo


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LO SPORTELLO DELL’USURATO

I professionisti dell’antiusura di ANTONELLA MORSELLO L’USURA è un male antico della società, che si verifica ovunque convivano disparità economiche e che si acutizza al crescere di situazioni di bisogno. Si può parlare di tassi usurari quando gli interessi superano notevolmente il tasso ufficiale corrente, valutazione, che prima della nuova, recente legge ove si stabilisce che il tasso è usurario quando supera del 50 per cento quello medio nazionale, era lasciata alla discrezionalità del giudice. Una catena di suicidi e di violenze, salita alla ribalta delle cronache negli ultimi anni, ha rivelato la necessità di una legislazione più accurata, scopo che, peraltro, non sembra sia stato pienamente raggiunto. La gravissima crisi economica che da alcuni anni flagella l’Italia ha fatto sì che moltissimi piccoli industriali, commercianti, artigiani, si rivolgessero agli usurai, trovando sbarrate le porte del normale credito bancario. Le banche, perseguendo come unico fine il profitto, non sono orientate a correre rischi eccessivi, sicché al modesto imprenditore in crisi non resta - per salvare le aziende - che ricorrere agli usurai, con l’ottimistica aspettativa di poter superare la crisi. Ma, essendo la crisi dell’economia italiana strutturata e profonda, anche l’immissione di liquidità nelle casse esauste, spesso non riesce a salvare le aziende appesantite, tra l’altro, dagli interessi astronomici richiesti dagli strozzini. E così migliaia di persone hanno visto sfumare i frutti di un’intera vita di lavoro, la casa, l’azienda senza, peraltro, riuscire a liberarsi del debito e dalla minaccia incombente. Minaccia scaturita dal fatto che, in genere, il mercato usurario è in mano alle organizzazioni criminali che, spesso, determinano esse stesse la crisi delle aziende, opprimendole e tagliandole con estorsioni, minacce ed esose pretese di «pizzo». Quella che vi racconterò è la storia di Giuseppe Martorana, vittima di estorsione e usura bancaria. Distrutto da banche e da una Giustizia che le assolve o archivia. Giuseppe vuole continuare ancora a credere nell’imparzialità del sistema giudiziario e pensa che se ci sono stati errori-leggerezze-dolonegligenza-imparzialità, questi prima o poi dovranno emergere. Crede nei principi fondamentali della Costituzione Italiana e nell’art.3 «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla Legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingue, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali». Nella Sentenza n. 187/2010 e nell’ordinanza di archiviazione n.127/08 i gip, secondo Martorana, non hanno applicato la legge. Dopo una Sentenza dei Gip di «non luogo a procedere poiché il fatto non sussiste», continua ad affermare che gli istituti di credito da lui denunciati hanno commesso nei suoi confronti reati gravi che vanno dall’usura all’estorsione. I vari PM che hanno esaminato le varie denuncie querele da lui presentate hanno archiviato il tutto come notizie che non costituiscono reato, in violazione dell’art.112 della Costituzione così come recepito dall’art.50 c.c.p., così scrive il direttore della filiale di Ribera della BPL all’ispettorato nucleo centrale sede di Lodi: «Dall’analisi dei tassi ap-

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plicati si evince che la lamentela del Martorana sembra essere giustificata» - «si ritiene plausibile valutare una possibile riliquidazione degli interessi pagati» per poi emettere una falsa dichiarazione in cui dichiara la certezza del credito e della sua esigibilità, dichiarazione obbligatoria per legge per l’iscrizione alla centrale rischi e per la sua cartolarizzazione. Il Martorana continua ad affermare che la BPL (assolta dalla Giustizia), cartolarizzando dei crediti inesistenti ha falsificato i bilanci, mettendo sul mercato dei titoli inesistenti, truffando altre persone, che hanno effettuato false consulenze incoerenti con le normative antiusura, con le disposizioni applicative della Banca d’Italia, ignorando completamente le spese collegate al credito e ignorando che il contratto dal 14-2-2005 è stato usuraio al momento della stipula e su tutto l’arco del rapporto, consulenza che ha portato alla definitiva archiviazione da parte del GIP. Una storia di Giustizia negata. La legge non è uguale per tutti? Si continua a credere fermamente nei valori di Legalità e Giustizia. Giudici e Pm hanno fatto il loro dovere di imparzialità? Lo Stato si accanisce ancora ai danni di una vittima, revocandogli la concessione di un mutuo in base all’art.14 comma 9 della Legge n. 108/96. Vittima due volte, dei criminali usurai ed estortori e dello Stato, che in una Sentenza ha occultato una serie di reati soltanto per lasciare impuniti il potere bancario. Nel dibattimento è emerso che la commissione massimo scoperto soglia sul conto ordinario, è stata superiore alla commissione soglia su tutti i trimestri. Che gli interessi (TAN) ai limiti del tasso soglia costituivano il costo minoritario del denaro, infatti gli interessi erano soltanto il 42 per cento del costo del credito mentre il 58 per cento erano di ulteriori costi (voci di costo inesistenti, a volte fantasiose), ma con il solo scopo di accrescere il costo del credito. È impensabile e moralmente non

PUGNO DI FERRO (Giuliano Nistri, il Borghese 16 Giugno 1974)


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Esce «on line»

«BIBLIODESTRE» di Mario Bozzi Sentieri Nella sezione del proprio sito dedicata all’Archivio delle Destre, la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha pubblicato il volume digitale di Mario Bozzi Sentieri Bibliodestre. Una storia attraverso i libri (1945-2010), un’ampia bibliografia (227 pagine) delle opere dedicate alle destre italiane. Il volume è consultabile al seguente link: http:// www.fondazionespirito.it/bibliodestreunastoria_attraverso_i_libri.pdf. Come scrive Bozzi Sentieri, in premessa dell’opera, Bibliodestre nasce dalla necessità di salvare una memoria, la memoria scritta delle diverse «Destre», che hanno segnato la Storia italiana dal 1945 in poi. Nel corso dei sessantacinque anni trascorsi, il mutare dei tempi, le diverse stagioni della politica, l’alternarsi dei modelli culturali hanno visto, seppure su posizioni minoritarie, la presenza di diverse «Destre», espressioni di visioni della politica, della cultura, della società, alterne, non omogenee, a tratti in contrasto tra loro. Senza volere dare un giudizio «di merito» su quelle esperienze, bisogna oggettivamente prendere atto di una realtà «di fatto», caratterizzata da un quadro complesso, seppure disarmonico, a cui va riconosciuto il diritto/dovere della memoria. Una memoria che, spesso, nelle ricostruzioni seguenti, ha perso di vista il valore, la complessità e la stessa contraddittorietà di quei percorsi. Al punto che essi sono stati, di volta in volta, ignorati, demonizzati, incompresi, molto spesso fraintesi, se non manipolati. L’invito che vogliamo lanciare con Bibliodestre è di ritrovare l’alterno percorso delle Destre italiane, andando - come ci insegna la ricerca storica - alle «fonti», ai documenti, agli atti, agli elaborati, contemporanei di quelle esperienze. La lettura cronologica e tematica delle fonti, comprese quelle manifestatamente avverse, sollecita, di per se stessa, una visione complessiva di quelle esperienze, offrendo, nel contempo, l’immagine della dinamicità, delle contraddizioni, delle ambizioni espresse da quel mondo, anche nei momenti di maggiore emarginazione politica e di minorità culturale. Proprio per il suo carattere in progress questa ricerca non pretende di essere esaustiva, invitando piuttosto il lettore alla doverosa integrazione/rettifica. Nostra ambizione quella di sollecitare il recupero dei tanti «giacimenti” politici e culturali, oggi dispersi, dei quali questa bibliografia vuole essere una prima sintesi». Chi fosse interessato ad integrare e correggere Bibliodestre può scrivere direttamente alla Fondazione Ugo Spirito - Renzo De Felice (Via Genova 24 - 00184 Roma) mail: info@fondazionespirito.it.

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giustificabile che per avere l’accesso al credito le spese per sostenerlo debbano essere di molto superiore agli interessi effettivi. Un conto anticipi con un contratto usuraio al momento della stipula e su tutto l’arco del rapporto. Un tentativo di appropriarsi dei suoi averi senza averne diritto, sia pur sapendo che il credito non era dovuto. Il direttore di filiale, infatti, scrive alla direzione generale facendo presente che le lamentele del Martorana erano giustificate e che quindi andavano ricalcolati gli interessi, ma poi lo stesso direttore dichiara (o forse lo costringono a dichiarare, per punire chi ha osato ribellarsi al sistema molto potente?) la certezza del credito e della sua esigibilità, con successiva iscrizione alla Centrale rischi e cartolarizzazione, che ha portato all’accanimento degli altri istituti di credito e alla chiusura dell’attività. Cartolarizzare un credito inesistente è un tentativo di estorsione per appropriarsi dei beni della vittima, oltre al fatto che il suo credito, e forse il credito di migliaia di vittime è stato immesso nel mercato, truffando altre persone. Perché il Giudice ha occultato tutto ciò? Allo Stato il DOVERE di accertarlo. Allo stesso Stato si chiede di annullare questo provvedimento di revoca, decreto n. 3110 del 14.12.06 del commissario straordinario del Governo. Le vittime non soltanto chiedono Giustizia che è stata negata, ma chiedono anche di non essere lasciate sole ed abbandonate. Trionferà mai la LEGALITÀ e tutta una serie di reati non saranno lasciati impuniti?! «Toglietemi tutto , ma non potrete mai togliermi la mia dignità e nemmeno la parola nell’affermare che la Giustizia non può essere al servizio dei potenti.» Ciò che si innesca è, quindi, una spirale perversa nella quale un singolo non può che uscire schiacciato. L’investimento di profitti illeciti nelle attività di strozzinaggio è, infatti, tra i più sicuri e redditizi. Un atto di coraggio ne trascina altri e , ultimamente, sono stati troncati numerosi tentacoli, anche se il corpo pulsante delle organizzazioni criminali è ancora vitale e attivo. Per debellare il mondo dell’usura bancaria bisogna agire sulle radici, eliminando la fitta rete di complicità, omertà e timorosi silenzi che ancora ammanta le attività illegali nelle loro multiformi estensioni. Per uscire da questa palude occorre uno sforzo immane dello Stato e delle Istituzioni, che restituisca ai cittadini la certezza del diritto, il ripristino della legalità e la fiducia nella tutela dell’incolumità personale. Ma questa è un’altra storia.

(Gianni Isidori, il Borghese 21 Aprile 1974)


FOTOGRAFIE del BORGHESE

IL GOVERNO DEI «CUSTODI» (Nella fotografia, Giorgio Napolitano e Mario Draghi)


LUI GOVERNAVA BEATO FRA LE DONNE (Nella fotografia, Silvio Berlusconi)


A LUI GLI TOCCA L’«APPOGGIO ESTERNO» DI VENDOLA (Nella fotografia, Pierluigi Bersani)


LA LIBERTĂ€ HA LE ORE CONTATE - DOPO LA GRECIA . . . (Nella fotografia, Lucas Papademos, premier greco, dal sito www.consilium.europa.eu )


. . . LA «MANNAIA» CALERÀ SULL’ITALIA? (Nella fotografia, Mario Monti, premier italiano, dal sito www.ilsecoloxix.it)


IL CUORE DURO DELL’IMPERO MONDIALE (Nella fotografia, la «Goldman Sachs Tower» dal sito openbuildings.com)


IL VENTRE MOLLE DELL’EUROPA (Nella fotografia, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, dal sito ws.blancspot.com)


SALOTTI ROMANI - TORNA DI MODA IL SISTEMA SBARDELLA . . . (Nella fotografia, Flavia Perina)


. . .. BASTA NON FARLO SAPERE IN «GIRO» (Nella fotografia, Renata Polverini)


HANNO TASSATO LA «SPERANZA» . . .


. . . TORNERÀ ANCHE L’IMPOSTA SULL’«ENTRATA»? (Nella fotografia, prostitute intorno a Roma)


DIMISSIONI? QUANDO MAI! (Nella fotografia, Gianfranco Fini)


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La Repubblica degli inamovibili di MARIO TEDESCHI PARLANDO in questi giorni con i protagonisti della crisi, Ministri dimissionari, aspiranti Ministri. ciò che maggiormente impressiona è il constatate come nessuno di loro venga sfiorato, anche lontanamente, dall’idea che si possa fare a meno di lui. Circa le soluzioni della crisi, non esiste alcuna certezza; non ne ha il Presidente della Repubblica, stando almeno alle indiscrezioni che filtrano sui colloqui al Quirinale; non ne hanno i capi dei Partiti del centrosinistra; dubbiosi e preoccupati sono anche i comunisti, che fino a poche settimane or sono sembravano tanto sicuri nel chiedere l’immediata partecipazione al Governo. Però, non c’è nemmeno uno che pensi ad andarsene. Taviani confida ai suoi che vorrebbe restare all’interno e che, al massimo, potrebbe accontentarsi della Difesa o degli Esteri. Andreotti dichiara ad un giornale che «se fosse sicuro di applaudire» se ne starebbe volentieri «in platea» però ad un altro giornale confida che appoggia Fanfani benché attualmente sia «in declino», perché «gli altri, specie quelli della cosiddetta terza generazione dc, sono molto peggiori di lui»: avvisando così che non esiste ricambio. Togni è convinto di dover restare alle Poste per mettere ordine in un servizio ormai cronicamente ammalato. Fanfani, Rumor, Colombo progettano una «quadriglia delle poltrone» che sancisca in modo ufficiale l’alleanza tra il blocco fanfaniano e quello doroteo. Moro, ai riparo della sua malattia ufficiale. lascia correre le voci su un suo ritorno alla Presidenza, Né diversa è la situazione negli altri Partiti. tanto è vero che i La Malfa, i Nenni, i Saragat, non soltanto trovano naturalissimo che si parli di loro candidature per i più diversi incarichi, ma incoraggiano queste voci, queste manovre. Per lunghi anni, adattandosi a tutte le alleanze, alcuni passando dal centrismo degasperiano al «dialogo» col PCI, altri dall’opposizione frontista e neutralista al collaborazionismo atlantico, tutti gli «inamovibili d’Italia» hanno considerato l’esercizio del potere come una professione. Venti, ventidue, diciotto anni di Parlamento e di Governo, con rotazione di incarichi e rare pause, sono un fatto abituale per costoro. I quali han creduto di trovare la giustificazione della loro mancanza di idee e dì carattere nella massima gattopardiana «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» ignorando che i risultati di una tal politica erano già stati anticipati da Vilfredo Pareto nei seguenti termini: «Trasformarsi per non essere distrutti, è propriamente un darsi fa inerte per scansare di averla da altri». Da ciò deriva anche un progressivo allontanamento dalla realtà, non soltanto dei Partiti politici, ma anche dei giornali e della Televisione, che i Partiti influenzano, o controllano. Non è per un caso che l’Italia è l’unico Paese del mondo in cui la polemica politica è ferma ad oltre mezzo secolo fa. C’è una specie di involuzione nella vec-

chiezza, determinata dal fatto che la Nazione è nelle mani degli stessi uomini da oltre un quarto di secolo. Troppo, anche se fossero tutti geni; e sono, invece, tante mediocrità. Intanto. l’Italia cambia, e cambia il mondo. La crisi causata dal rialzo del prezzo del petrolio. sta provocando la reazione americana. Visto che gli Arabi, appoggiati dai Russi, colpiscono l’Occidente nel settore dell’energia, gli Stati Uniti mettono l’embargo sul grano destinato all’URSS e colpiscono i sovietici nel settore alimentare, Ognuno dei due Imperi aggredisce l’altro nel suo punto più debole. Sennonché mentre i Russi in questo momento non hanno altre armi da usare, gli Stati Uniti possono fare ancora una mossa: con la stessa brutalità con cui hanno annullato i contratti per le forniture del grano alla Russia, gli Stati Uniti possono bloccare i conti bancari esteri e rendere «sterili» i dollari dei Paesi arabi. È una misura che già fu adottata in Europa nel 1944, subito dopo lo sbarco delle truppe americane. I Paesi arabi tengono i loro dollari, o in Banche americane, o in Banche europee (che sono, però, quasi tutte collegate con quelle americane e che, comunque. debbono tener conto di quel che si decide a Washington). Gli Arabi non amano l’America, né l’Europa: però si guardano bene dal depositare i loro dollari nell’URSS o in qualche Paese comunista, o del «terzo mondo», perché sanno che ciò equivarrebbe a perderli. Ebbene: gli Stati Uniti possono «sterilizzare» i conti, rendendo così vana tutta la manovra legata al rialzo dei prezzi. Non diciamo che questo avverrà: diciamo soltanto che potrà accadere, e lo diciamo per far capire come le cose siano avviate a cambiare nel mondo. Soltanto noi siamo sempre fermi al solito punto: Andreotti, Fanfani, Rumor, Saragat, Tanassi e, al massimo, come grande novità, un Nenni, un De Martino, o magari un Pajetta, vecchio quanto loro. Montecitorio, Palazzo Madama, non sono le sedi di un Parlamento vivo, cosciente della realtà politica e umana della Nazione: bensì due negozi di rigattiere, dove si conserva tutto il kitsch di trent’anni fa, quando si credeva che il mondo sarebbe stato un’altra cosa. A non mutare, magari rischiando il peggio, può capitare che la folla, inferocita, irrompa nelle botteghe e butti le vecchie carabattole in mezzo alla strada. (il Borghese, 13 ottobre 1974)

(Gianni Isidori, il Borghese 13/10/1974)


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IL CIALTRONE politico di IVANOVICH KOBA SI SCHIUDONO altre luminose giornate per chi si appassiona alle gaglioffate dei comunisti italiani. I giornali hanno dato grande risalto a due avvenimenti. Il primo si riferisce a Giancarlo Pajetta che, con la sua fatuità più o meno contenta, si è fatto fotografare momentaneamente affetto da una crisi di amor patriottico. La foto l'ha colto mentre riceve una decorazione al valore militare assegnata a suo fratello, quello morto, non quello (Giuliano) che non vive. L'onorificenza era stata conferita nel '72, ma due anni or sono il cervello di Giancarlo era ingombro di banalità marxiste, come quella secondo la quale l'Esercito nei Paesi non comunisti è strumento del capitale, difende i privilegi ed è sempre pronto ad opprimere il popolo lavoratore. Il quattro novembre, anniversario della Vittoria, sino al '72 non è mai stato ricordato dal PCI come un avvenimento particolarmente significativo, perché i comunisti piangono soltanto, e molto volentieri, il sangue versato dall'Armata Rossa. Con la straordinaria sicurezza intorno alla loro dottrina, per essi la «Patria», al di quà del muro di Berlino, è definita in anticipo dai loro profeti e pontefici: parola pomposa per dire barbarie. Sull'Esercito, poi, era d'obbligo, sino a ieri, sputare, mentre, sui generali, il PCI è stato sempre pronto a rinnovare, ad ogni ricorrenza, l'omaggio del suo disprezzo. Una battuta rimbalzò per anni nei salotti: «Un pederasta in casa ci sta bene; mai un generale». I comunisti sono, spesso, così ciechi che non si accorgono che il fiume della storia è pieno di correnti contrarie e di gorghi e non avanza nel letto scavato dai loro ideologhi e politici. La traiettoria degli avvenimenti non segue l'insegnamento ufficiale. Così al PCI riesce sempre più difficile spiegare perché, in URSS, le spese militari superano del quaranta per cento le spese destinate a combattere le malattie, e come mai la scelta fra i cannoni o il burro è stata compiuta dal Cremlino optando per i cannoni, preferiti dal Cremlino che, d'altra parte, è incapace di soddisfare il bisogno di burro (oltre che di pane) dei propri sudditi. Dopo aver contrastato, per anni, tutti i progetti di rinnovamento dell'Esercito italiano, quest'anno, con uno stupefacente voltafaccia, il PCI ha deciso di utilizzare la potenza esplosiva dell'idea di «Patria» e di trarre profitto dall'anniversario della Vittoria. A metà novembre, le colonne de l'Unità grondano ancora venerazione per i veterani della Grande Guerra; sulle scale del Milite Ignoto (dove una volta scrissero «chi per la patria muor, se lo merita») hanno fatto la loro comparsa anche i drappi rossi. L'idea di «Patria», messa dai comunisti all'incanto, con i democristiani che se ne servono soltanto come un'etichetta, non puzza più, per le Botteghe Oscure, di eresia. I comunisti, che da tempo immemorabile ci hanno abituati a messe in scena buffonesche, ma delle quali bisogna sempre conoscere i «perché» e i «come», offrono ora lo spettacolo assai barocco di rivendicare l'idea di «Patria»

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dichiarandosi orgogliosi delle sue grandigie. I «perché» sono chiari da tempo e soltanto qualche storditello può cadere nella trappola. Il PCI si illude di essere un grande fascinatore; crede di sedurre gli italiani con quelle frasi ipocrite che gli amanti combinano insieme per prendere nella pania qualche sciocca. Ma, dopo il successo ottenuto nel campo religioso (dove il comunismo che, nell'Est sovietizzato, trionfa sul cristianesimo, è riuscito a mimetizzarsi così bene da apparire come un amico della Chiesa e non come un nemico deciso a distruggerla) è la volta delle Forze Armate. La pagliacciata di Giancarlo Pajetta, che ritira oggi una decorazione rifiutata due anni fa, rientra nella sprovvedutezza degli attuali capi del PCI, storditi dalla imprevedibilità e dai garbugli del momento attuale, una matassa che non riescono a sdipanare con l'ausilio dei sacri testi. Mentre, a Roma, con l'aria compunta di un santificetur, Pajetta faceva del pathos militare e patriottico, a Milano una combriccola di gradassi comunisti dimostrava lo stesso tipo di «attenzione» ai piccoli e medi imprenditori. Il comunismo ha sviluppato per anni una diffidenza verso il piccolo imprenditore che è andata sino al disprezzo, e il disprezzo è arrivato sino al disgusto. Il piccolo imprenditore è stato sempre considerato come un amalgama di sanfedismo, di gretto egoismo, di mediocrità, di «buon senso» piccoloborghese. Accettando l'escremento quale elemento di giudizio, il ceto dei piccoli e medi imprenditori è stato sempre considerato «merda», l'ormeggio delle «cricche» reazionarie. La passione ideologica è sempre stata più forte, nel PCI, degli interessi del Paese. Mentre da un lato ha favorito l'esodo dei contadini dalle campagne verso i centri industriali perché, una volta organizzati nei grandi sindacati, potessero diventare una massa d'urto, il PCI ha condotto contro la piccola impresa, in tutti questi anni, una lotta spietata; ben camuffandola, naturalmente. Il suo scopo prefisso era la proletarizzazione dei ceti medi, per poter ingrossare il corpo delle masse affinché diventasse marea travolgente contro il capitalismo. Ubriacato di marxismo-leninismo, il PCI si accorge soltanto ora che il capitalismo è stato abolito unicamente nei Paesi dove non esisteva. Nel suo piccolo, anche Giorgio Amendola pare si sia ormai persuaso di questa verità, che sembra rivestita di paradosso: «Tutte le strade conducono al socialismo, tranne una: la via socialista». Poiché soltanto le parole contano, il resto sono chiacchiere, Amendola, coadiuvato dai fidi Barca e Peggio, i grilli parlanti dell'economia comunista, ha organizzato un convegno all'«Istituto Gramsci» sui problemi della piccola e media industria. Abituati a parlare e a scrivere sempre «contro» qualcosa, mai «per» qualcosa, alle prese con questi problemi che essi, i comunisti, con la tortura sindacale hanno ingigantito, i cronisti de l'Unità questa volta hanno dato in ciampanelle. L'ideale, naturalmente inconfessato, del PCI sarebbe di risolvere i problemi delle imprese sopprimendole. In attesa di riuscirvi, si china amorevolmente su di esse per simulare un tentativo di salvataggio, dopo averle portate al fallimento. «Bisogna riconoscere in tempo utile», gridava Wilhelm Reich, «il cialtrone politico.» Gli imprenditori, nell'ideologia comunista, restano i nemici di classe; un partito comunista, nella misura in cui è un partito di classe (come il nostro ama definirsi) non può essere il partito degli imprenditori. Ma, poiché si picca di esserlo, dobbiamo concludere che è il partito dei cialtroni. (il Borghese, 17 novembre 1974)


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IL MEGLIO DEL BORGHESE

VIVERE con la crisi di FABRIZIO DONGO E ALLORA, che ne dice della situazione? Mi pare che tutto proceda normalmente… Crisi, esplorazione, sondaggio conclusivo, incarico ... No, no … io parlo dell'Italia … Be’, tutto normale, no? Che c'è, qualcosa di nuovo forse? Ah, per Lei tutto è normale? Il caos che il centrosinistra ha fatto, per Lei è roba d'ordinaria amministrazione? E dai col C.S.! Ma guardi che qualsiasi cosa dicano i suoi detrattori, abbiamo fatto molte cose! Sì, si … crisi, disoccupati, inflazione, sgoverno … Ma lasci perdere! Creato per togliere ai comunisti spazio politico e far continuare il miracolo economico (cosi dicevano), che risultati ha dato il Suo Ciesse? I comunisti sì son rafforzati e invece del miracolo abbiamo la crisi economica. Ma mi dica, piuttosto: dove va a finire, secondo Lei, l'Italia? Dove vuol che finisca? Ma bene, no?! Tutto va avanti. Il C.S. resta, quindi, e resterà, non soltanto per ciò che ha fatto, ma per quanto farà. Il Paese deve avere un governo e noi siam qui. Lo vedo. lo vedo! E inamovibili anche! Manco vi sfiora, a voi, l'idea di mollare la poltrona e che qualcun altro potrebbe fare meglio il lavoro di voi! Caro amico, noi siamo la realtà d'oggi dell'Italia! Lo si voglia o no, noi siam qui, al nostro posto e ci restiamo. Lei mi ha chiesto: cosa succederà? E io Le ho risposto: niente. Andrà tutto avanti e, lo vedrà, risaliremo la china. Non ci crede Lei? No, perché, come diceva Prezzolini, l'Italia è avviata a una inevitabile decadenza che, aggiungerei, non è nemmeno originale ma di tipo sudamericano. Qui da noi, direi, si sta ripetendo tutto quanto là è accaduto naturaliter da tempo. Cosa funziona oggi in Italia meglio che in Argentina o Uruguay? Qui. a me pare di esser nel Gran Chaco, Tutto eguale. Tram, treni, autobus che non funzionano, poste che non recapitano lettere, gente che non lavora tanto vien pagata lo stesso, enti che perdono cento milioni al giorno, gran boria dei politicos, malavita in Borsa, Carabinieri che entran sempre più spesso nel campo quanto mai minata dell'alta finanza, Ministri che rubano a man salva, reggicoda che si fan dare (come Rovelli) centinaia di miliardi alla faccia del contribuenti, alti responsabili economici che sbagliano e non si dimettono, assalti, tupamaros, partigiani rossi, maoisti, disobbedienza civile, Polizia impotente, pistoleros dappertutto … Come in Chaco, anche qui la stampa denuncia e prova furti e reati: e che accade? Niente. Il Borghese qualche settimana fa pubblicò le ricevute di alcuni pagamenti arbitrari effettuati dal noto pedofilo Cresci a giornalisti e giornali per conto della RAI-TV: e che è successo? Niente. Qui da noi la Giustizia è a senso unico! II Senso della Storia, amico! Lo storia va a sinistra, e non dove Lei vorrebbe che andasse! Va col diritto delle classi meno privilegiate, che finalmente fanno intender la loro voce ...

Ma che c'entra questo? La verità è che qui non si puniscono i colpevoli perché la élite dominante di centrosinistra ha soverchiato e fatto strazio dello Stato di Diritto. Cioè di quell'ordinamento in cui lo Stato autoregola la propria attività. L'antitesi dello Stato di Diritto è l'arbitrio. Quello, cioè, che domina da noi, dove il potere è adoperato da chi lo detiene per coprire con reti di complicità gli scandali e violare sistematicamente i regolamenti e le leggi che reggono gli organi dello Stato. In breve, in questo Chaco d'Italia, il Ciesse ha realizzato soltanto quello che Panfilo Gentile definì anni fa magistralmente su Libera Iniziativa: la «democrazia mafiosa». Cioè la nostra, o, meglio, quella di centrosinistra. Lei sbaglia. Il C.S. ha realizzato invece in Italia una grande rivoluzione sociale. mettendo milioni di persone sulla linea di partenza per la grande corsa verso un diverso futuro … … fatto di miseria e stenti ...! Le solite fosche previsioni! L'Italia sta soltanto attraversando un periodo di aggiustamento … Con seimila miliardi di lire di deficit in questo solo anno! Senza parlare dei sessantamila miliardi di lire di debito «made DC» fatti da enti locali, province, regioni! Altro che Sud America! Noi l'abbiamo battuto! Ma non esagera? Affatto. Anche perché in Sud America ogni tanto, o per un pronunciamiento o perché arriva l'esercito, chi ha sbagliato o rubato se ne va. Non dico in galera, ma almeno all'estero, in esilio. Qui, invece, manco a San Marino, vanno! Al massimo, chi ha sbagliato passa a un altro Ministero come quel gentiluomo di Mancini e quell'incompetente di Colombo. Stanno aiutando l'Italia a risalir la china. Che loro avevano aiutato a scendere. E l'aiutano con provvedimenti fasulli e mezze misure, degni del C.S. Insomma, Lei è proprio scettico allora! Certo, perché qui, oltre a non cambiar uomini e a non mandare in galera i colpevoli, non si ha nemmeno il coraggio di prendere i provvedimenti necessari. Conosce il proverbio che dice «medico pietoso fa piaga dolorosa»? Ecco, in Italia il Ciesse, dopo averci dato medico e piaga, ci regala anche la cancrena. Perché Lei non crede alla ripresa? Certo, ci vorrà tempo, ma … Non credo verrà, perché il Ciesse non vuole che l'Italia guarisca. E perché mai? Perché l'Italia gli fa comodo cosi. Con la cancrena. Cosi il compromesso storico, sempre tanto auspicato da Fanfani e Moro. diventerà inevitabile. E l'Italia sarà il Gran Chaco del Sud Europa. Un Chaco democratico, popolare e antifascista. (il Borghese, 20 ottobre 1974)

IN MEMORIA (Giuliano Nistri, il Borghese 2/6/1974)


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LA COSCA rossa di GIUSEPPE BONANNI UN PAESE ai piedi dell’Aspromonte: rampe a gradini di selce, case di pietra viva costruite una sull’altra per non rubare terra agli ulivi, insomma, la Calabria della fame, dove non si produce a sufficienza; eppure, Fiati si trova al centro di una catena di trasformazione valutaria. La moneta «sporca» che affluisce, un po’ dappertutto, nelle casse della delinquenza dal grande giro dei sequestri di persona, dal contrabbando, dalla droga, dal racket della manodopera e dalla prostituzione, viene «congelata» in questo buco del profondo Sud presso sicuri fiduciari. Successivamente, agili e ben coperti corrieri la trasferiscono in Australia, in Canada o addirittura nella City di Londra, da dove torna trasformata in denaro «vergine», più sicura di quanto sarebbe se avesse viaggiato nella valigia diplomatica, per entrare nel circolo delle attività legali e nei portafogli delle persone «superiori ad ogni sospetto». Sembra una favola malvagia di questi tempi tragici ed è, invece, realtà, accertata dall’infallibile «memoria» del cervello elettronico dell’Istituto di Polizia di Castro Pretorio, a Roma, dopo il riscatto del giovane dl Bergamo, Pierangelo Bolis. Ma Platì non è soltanto una base, o un rifugio occasionale: è anche uno dei punti di incontro tra la criminalità organizzata della nuova mafia e la delinquenza politica, quella «Anonima sequestri» nella quale operano, in fattiva collaborazione, alla pari, i gruppi di guerriglia comunisti ed i gangsters. Non per caso, infatti, gli inquirenti che hanno studiato la tecnica dei rapimenti, da Rossi di Montelera a Gadalla, da Panattoni al giudice Sossi, si sono convinti che tutti questi casi «presentano agganci e analogie interessanti». Ciò è emerso in particolare dopo l’arresto di due personaggi notissimi in tutta l Calabria: i fratelli Francesco e Domenico Barbaro. Quest’ultimo era rientrato di recente dall’Australia, dove, secondo le dichiarazioni rese ai Carabinieri, si sarebbe recato per motivi turistici. Tutto questo è cronaca, come è cronaca la lotta per il potere amministrativo a Platì con un aspetto singolare, però. Il erritorio in cui agisce una delle più attive strutture criminali dell’intera Repubblica (un Comune che ha una percentuale di circa il 3 per cento di cittadini inviati al soggiorno obbligato nel Settentrione), è stato particolarmente «curato» dal PCI. I comunisti, infatti, hanno mobilitato uno dei più abili sindacalisti della CGIL, l’onorevole Francesco Catanzariti, per farlo eleggere Sindaco. Altrettanto singolare è stato l’impegno politico dei fratelli Barbaro. Francesco era Assessore comunista, decadde dalla carica perché colpito da mandato di cattura per associazione a delinquere ed altri reati, ma ottenne poi la libertà provvisoria grazie alla legge Valpreda. Insieme a lui dovette lasciare il seggio comunale un altro Assessore, il socialista Giuseppe Sergi, parente di quell’altro Sergi

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che fu alle dipendenze del padre di Mirko Panattoni e che è stato arrestato, giorni fa, per aver spacciato banconote provenienti dal riscatto di Bolis. È ancora cronaca che il segretario della sezione del PCI di Platì sia il figlio di uno degli implicati nel rapimento Getty. Coincidenze, ovviamente, come il concentramento degli extraparlamentari calati dal Nord, mentre a Roma, alla fine di agosto, divampava la polemica sull’acciaieria di Gioia Tauro. I guerriglieri posero il loro «comando» a Platì e portarono i sistemi di persuasione politica in uso a Torino e a Milano, da Capo Vaticano a Palmi. In seguito, Platì divenne, per la RAI-TV, occasione per uno «spezzone» politico-mondano all’inizio di gennaio, quando giunse nel paese il Ministro australiano Gresby. Gli inviati del Telegiornale seppero, in quella circostanza, far vibrare le sopite corde deamicisiane delle loro anime gentili e composero un toccante brano sulla fratellanza italo-australiana e la santa emigrazione nei Paesi nuovi. Nessuno però aggiunse, qualche settimana dopo, che due esponenti della cosiddetta nuova mafia erano espatriati nel Paese dei canguri, nonostante i «carichi pendenti». Ma, soprattutto, nessuno notò un personaggio, che non si capiva bene se facesse parte del seguito di Gresby, o se si fosse «imbucato» con la troupe della TV. Un personaggio piuttosto importante nel settore della sovversione internazionale: un certo Roberto Saint-Vincent. Costui, dopo aver diffuso in Canada, con il Fronte di Liberazione del Québec, la tecnica della guerriglia, dovette trasferirsi in Australia quando i servizi di Sicurezza della Gendarmeria canadese lo convinsero della necessità di cambiare aria. Un anno dopo il suo espatrio, un alto funzionario della sicurezza canadese, Pat Walsh, avvertì il Governo australiano che il Saint-Vincent aveva «preso contatto con la peggiore risma gangsteristica degli emigrati italiani e che, mediante il linguaggio dell’odio e dei risentimento sociale verso chi lo ospitava, li stava conducendo al marxismo». Sembra che adesso i Carabinieri, o chi per loro, vogliano conoscere i successivi movimenti dell’ospite «australiano» e sapere se questi abbia preso contatto con due comunisti di Platì, inviati in provincia di Bergamo al domicilio coatto. Accerterebbero, così, se il misterioso personaggio sia tuttora in Italia o, come si sospetta, sia tornato a Sidney, dopo aver cambiato aspetto e passaporto, con l’aiuto di un extraparlamentare che lavora a Fiumicino nella compagnia ASA e dopo aver lasciato gli ordini per «una operazione in alto». Ma, quali che possano essere le risultanze delle indagini, non bisognerà meravigliarsene, anche se le coincidenze tra le storie parallele che nascono e si sviluppano a Plati sono troppo eccezionali. Per esempio, il viaggio in Australia del «compagno» Domenico Barbaro, arrestato adesso per il rapimento dello studente Bolis; viaggio che il comunista di Platì avrebbe fatto sullo stesso aereo che trasportava il suo Sindaco, onorevole Catanzariti, e il suo Vicesindaco, Francesco Prestia. In conclusione, diventa sempre più difficile capire a che serva una «cosca» mafiosa. Per la morale marxista, non contano i «buoni» o i «cattivi», le vittime o i colpevoli. Non conta neppure che un pezzo di Calabria affamata possa trasformarsi in una base di delinquenti più o meno politicizzati. Infatti, per i marxisti, i mafiosi ubbidienti, di Platì o di Milano, valgono più dei riformatori romantici. (il Borghese, 9 giugno 1974)


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I GIOVANI ED IL LAVORO

MECCANISMO inceppato di ANTONIO SACCÀ SEMBRA che Luigi Pirandello mimasse le sue opere, sì che i dirimpettai scorgevano il piccolo emaciato scrittore agitarsi di mani, saltare, muovere le labbra sperimentando gli attori. A me, quei gesti, vengono ogni volta che leggo i provvedimenti per medicare la crisi economica, ho dei torcimenti da spastico, e mi tocco la fronte come a segnare che c’è qualcosa di pazzoso in tutta la faccenda. E qualcosa di pazzo c’è. Addirittura così esplicitamente folle da meravigliarmi che non venga notata, la follia. Scopriremo la ragione di tale occultamente. Il capitalismo ha due pilastri: competizione e profitto. La competizione si giova dell’invenzione, dell’ammodernamento, delle nuove tecnologie, dei mercati, dell’organizzazione del lavoro. Il profitto risulta dalla confrontazione del capitale investito con l’utile netto ricavato. È nota la concezione dell’economia classica e, soprattutto, dell’economia critica, che il saggio del profitto sarebbe stato con il tempo decrescente, la tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto. Esattamente: il profitto può crescere ma rispetto al capitale investito è scemato. Per decenni questa convinzione risultò svillaneggiata, il capitalismo correva, i profitti maturavano, il profitto in assoluto e relativo al capitale danzava. Il Welfare connesso ai consumi parve sciogliere ogni contraddizione individuata nel capitalismo da parte dell’economia critica: Sismondi, Marx… Il Welfare sospingeva i consumi, preciso, in quanto lo Stato si addossava molti compiti onerosi lasciando il salario intatto o non sostanzialmente intaccato. Sono conosciute le risultanze di questo «modello»: enormi disavanzi, spesa pubblica dilatata. Iniziò la debilitazione del modello Welfare, e contemporaneamente si ebbe la fine o cominciò a finire il consumo detto consumistico. E tuttavia il declino del modello non sarebbe avvenuto o sarebbe avvenuto meno precipitosamente se non fosse entrato in competizione con un modello stupefacente il quale pare intagliato in un sistema economico da fine Settecento. È il modello cinese, indiano, asiatico: bassissimi salari, produttività efficiente con tecnologie ammodernate, scarsi consumi interni, cosmica esportazione, regimi di acciaio, talvolta, in ogni caso minimi diritti dei lavoratori. Questo modello, che l’Europa aveva vissuto secoli prima, riproposto oggi contro l’Europa e gli Stati Uniti, li schianta in quanto pugnala i due pilastri del capitalismo: profitto e competitività. Come ottenere un profitto simile al profitto asiatico se i nostri costi di produzione sono immani a paragone? E come competere se i costi nostri sono evidentemente più gravi? Da quando la sfera asiatica entrò nel gioco mondiale, l’Occidente è in delirio, un delirio reale, farneticazioni. Ne abbiamo escogitate d’ogni tipo: stabilire dazi, contenere l’importazione, chiedere la rivalutazione della moneta cinese, maggiori importazioni

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da pare della Cina... Niente. Siamo sommersi dalle merci cinesi, oltretutto suscitate anche dai nostri capitali. A tal punto, il capitalismo, che è il sistema economico più mobile della storia, a tutt’oggi, articola un nuovo modello per avere profitto: la speculazione finanziaria, visto che l’economia reale stenta. Ciò che ha generato il capitalismo speculativo è conosciutissimo. Come cerchiamo di impedire il crollo, non esagero, dell’economia occidentale? Risarcendo le banche delle speculazioni andate a male, restringendo la spesa, il disavanzo, eliminando impiegati superfluo e quanto è superfluo, impiegati, enti, prolungando l’età pensionabile, facilitando i licenziamenti, essiccando le pensioni e le tutele, detassando... Non concluderemo alcunché. Impoveriremo ceti medi e proletari senza riuscire a competere. Il capitalismo è ad un bivio: o diventa capitalismo dei ricchi, o diventa capitalismo sforbiciando di brutto i ricchi. Non sono congiungibili la ricchezza dei pochi e il benessere dei molti come nei decenni passati. Per tentare di competere o di sopravvivere i ricchi devono succhiare sangue nazionale, visto che non riescono a vincere la concorrenza esterna per i motivi detti. Allora colpi di ascia su giovani, pensionati, impiegati, le nuove fonti di sangue profittevole, senza vincere la concorrenza. Un disastro, anche perché le tecnologie impoveriscono la quantità di lavoro, fatto trascuratissimo. Allora? Bisognerebbe ragionare sul profitto. Ipotizzare se un diminuito profitto ci renderebbe competitivi. Vogliamo discuterne o fingiamo di credere che rimpolpare le banche, privatizzare ci avvantaggeranno? Nemmeno per sogno.

LA BERSAGLIERA (Gianni Isidori, il Borghese 16 Giugno 1974)


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TRA L’ «UNESCO», BARACK E BIBI

L’OMBRA di Hillary di ANDREA MARCIGLIANO CHE la politica estera dell’Amministrazione Obama fosse, sin dall’inizio del mandato, incerta, confusa ed ambigua, lo abbiamo sempre pensato (e scritto). Tuttavia mai come in questo momento è apparso palese e clamoroso il suo fallimentare bilancio. Bilancio inevitabile, ché a fine mandato ormai imminente - il 2012, anno delle Primarie e, a novembre, delle Presidenziali, possiamo già darlo per scontato - dopo tre anni di governo insomma, un Presidente, qualsiasi Presidente deve rispondere di ciò che ha fatto. Delle azioni reali, dei successi e dei fallimenti; così anche il sempre meno sorridente e sempre meno giovane Obama - se notate, sembra rapidamente incanutito ed il famoso, smagliante sorriso del 2008 trasformato in una sorta di ghigno da mascherone di Halloween - sa di non potersela più cavare con gli slogan accattivanti ed i bei discorsi preconfezionati da una delle migliori squadre di speechwriters della storia politica statunitense. Lontani, dunque, i giorni del «Yes, We Can!» trionfalistico e trionfante - anche un po’ troppo tronfio - lontani i giorni dei peana e degli osanna universali, del Nobel per la Pace immotivato ma in quel periodo c’è mancato poco che gli assegnassero anche lo «Zecchino d’Oro» sull’onda del generale (e servile) entusiasmo - ora il nostro deve rispondere, all’America ed al Mondo, di ciò che ha realmente saputo e non saputo fare. Ed il bilancio è decisamente negativo in pressoché tutti i campi, da quello economico - dove ha operato, alla faccia del suo conclamato radicalismo di sinistra, per arricchire i pirati delle Merchant Bank di Wall Street, impoverendo i cittadini americani e un po’ tutti i popoli del mon-

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do - a quello, appunto, della politica internazionale. Dove, rapidamente, uno dopo l’altro, i nodi stanno venendo a pettine, ed il velleitarismo della sua Amministrazione ricompensato con sempre più frequenti e sonori ceffoni in pieno viso. Fallimenti e ceffoni – Ultimo (per lo meno nel momento in cui vergo questo pezzo) eclatante ceffone quello inferto agli USA dall’UNESCO, che, in barba a veti e minacce dell’Amministrazione Obama, hanno ammesso come membro a pieno titolo lo «Stato» palestinese. Che poi «Stato» non è ancora, e tale gli USA si sono sempre impegnati ad evitare che diventasse, per lo meno sino alla soluzione del contenzioso fra l’Autorità Palestinese - questa, appunto, la definizione «ufficiale» - e Israele. Ma di recente Abu Mazen, stanco di aspettare e lasciarsi poco a poco dissanguare dai radicali di Hamas, ha lanciato quella che è stata appropriatamente definita una «Intifada diplomatica» nelle sedi e nei consessi internazionali. Ottenendo, con il pieno riconoscimento da parte dell’UNESCO, un primo, rilevante successo. Tanto più rilevante anche perché, al momento del voto, delegati di Paesi amici ed alleati di Washington - come l’Italia - si sono defilati astenendosi. Reazione, ovviamente, imbufalita da parte di Gerusalemme, dove Bibi Netanyahu - che mai ha particolarmente amato il giovane Obama - imputa apertamente alle ambiguità dell’attuale Presidente quello che potrebbe rivelarsi, per Israele, una sconfitta diplomatica su larga scala. Accusa, per altro, pienamente giustificata, ché non si può dimenticare le molte, gravissime topiche prese dall’attuale Amministrazione sulle, delicatissime, questioni medioorientali. A partire da un Obama neo-eletto che tutto sorridente, se ne andò all’Università cairota di Al-Azhar - la più prestigiosa istituzione culturale del mondo islamico, ma anche il covo degli ideologi del fondamentalismo - a promettere mari e monti, a farsi bello del dubbio passato islamico della sua famiglia ed altre amenità del genere. Credeva, probabilmente, di accattivarsi, con un po’ di facile retorica, le simpatie degli ulema e dei professori islamici, come se questi fossero gli elettori della California o del South Carolina. Ottenne soltanto di dare a questi - e per loro tramite a tutto l’orbe islamico - un segnale di debolezza, poi ampiamente confermato dal frettoloso annuncio del ritiro dall’Iraq - che gli ha definitivamente alienato anche le, residuali, simpatie di Ankara, dalla debolezza mostrata nei confronti di Teheran, dalle incertezze nella gestione del conflitto afgano e, infine, dalla suicida politica nel Maghreb, che ha portato al rovesciamento di due «dittatori», Ben Alì e Mubarak alleati storici di Washington, nonché da tempo garanzia di tranquillità per Israele. Con il rischio di consegnare Tunisia ed Egitto ai Fratelli Musulmani o a partiti da questi ispirati (l’ultimissima è l’apertura di credito da parte di Obama a Ennahada, il partito islamico, di dubbia patente democratica, vincitore delle elezioni tunisine.). Senza dimenticare, poi, l’essersi fatto dettare l’agenda libica da Sarkozy - un po’ come se il Gigante Golia prendesse ordini dal nano Brontolo - e aver scardinato, o lasciato scardinare impunemente il regime di Gheddafi, consegnando all’anarchia e a pericolose derive radicali, un Paese, la Libia, che aveva un ruolo chiave nel mantenere gli equilibri dell’instabile Africa sub-sahariana. Insomma, con le navi da guerra iraniane che, dopo decenni, transitano tranquille per Suez entrando nel Mediterraneo, il sanguigno Bibi delle buone ragioni per essere… irato nero ce le ha davvero.


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Rischi e pericoli - Due riflessi di questi fallimenti. Due riflessi pesanti, anzi pesantissimi. Il primo sugli scenari internazionali. La credibilità della politica estera di Washington appare, ormai, gravemente minata. La sua autorevolezza svanita. Per questo all’UNESCO tanti hanno abbandonato il delegato statunitense al momento del voto. D’altro canto, chi avrebbe ragione di fidarsi di un’Amministrazione che un giorno promette mari e monti agli arabi ed il giorno dopo cerca di recuperare sul fronte israeliano? Di un Presidente che vanta le proprie origini africane, ma ha pesantemente decurtato gli aiuti economici e financo alimentari ai Paesi africani? Di chi di fatto sta dando il controllo del nord Iraq ai gruppi armati curdi che agiscono in Turchia pur essendo alleato di Ankara? Una gestione degli esteri disastrosa. Ed estremamente preoccupante. Perché proprio l’attuale debolezza di Washington potrebbe essere causa scatenante di conflitti - come quello fra Israele e l’Iran - la cui portata è persino difficile prevedere. D’altro canto, questo è il portato di un’Amministrazione dove la strategia internazionale non viene disegnata dal Segretario di Stato, Hillary Clinton - che, stanca, appunto, di correre per il globo a rimediare alla bell’e meglio a disastri altrui, ha già annunciato che, nel caso di rielezione, non seguirà Obama, nel secondo mandato - bensì da un Presidente totalmente digiuno dell’argomento - pare incapace anche soltanto di leggere la carta geografica del globo - contornato da un vecchio tramaccione come Joe Biden e da rappresentanti di lobby ed interessi più o meno occulti e sempre più difficili da conciliare con quello nazionale degli States. Amletico dubbio: per chi voteranno gli ebrei d’America? - Secondo, pesante, riflesso sulle prospettive elettorali di Obama, che - nonostante disperati tentativi di recupero dell’ultimo momento - rischia di perdere buona parte del voto ebraico. Cosa preoccupante non soltanto perché l’elettorato ebraico-americano è determinante in realtà importanti degli States (in primis New York, ma anche perché rappresenta una potente lobby che, nel 2008, finanziò sontuosamente la campagna elettorale di Obama. Cosa che, oggi come oggi, appare ben difficile possa ripetersi. Ovvia euforia dei Repubblicani, che si stanno dando un gran daffare in tutte le sedi per intercettare il preziosissimo voto ebraico fino ad oggi tradizionalmente polarizzato sui Democratici. La cosa appare, per una volta, tutt’altro che impossibile. Certo, per lo più la Comunità ebraicaamericana è democratica, addirittura liberal, pur con alcune vistose eccezioni (i famosi neocon di George W. Bush, tanto per fare un esempio). E per la maggioranza dei suoi esponenti votare repubblicano sarebbe, quasi, contro natura. Però questo Obama proprio non piace… e i Dems forse devono rassegnarsi alla defezione di buona parte del voto ebraico… a meno che non cambino - cosa assai difficile cavallo. Tanto per fare un nome, Hillary Clinton a Gerusalemme e tra gli ebrei-americani è stimata e popolarissima. È vero che la signora Clinton ha annunciato di avere intenzione di ritirarsi per cucinare torte di mele ed altri manicaretti a quel vecchio satiro pentito di Bill… ma intanto, sotto traccia, continua a tessere le sue trame - tra cui la candidatura della figlia Chelsea ad un seggio sicuro del Congresso, inizio di una nuova Dinasty politica - e in molti pensano che ancora non abbia digerito la sconfitta subita tre anni fa alla Convention democratica di Chicago, che incoronò, non senza un bel po’ di maneggi, Barack Obama. Staremo a vedere.

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«OCCUPA WALL STRETT»

GIÀ VISTO e peggio di prima di FRANCESCO ROSSI SPESSO ritornano. I movimenti di protesta giovanili fanno periodicamente irruzione sulla scena politica. Nel caso di quello intitolato «Occupa Wall Street», ci troviamo di fronte ad un esemplare di ribellione particolarmente fatuo, talmente condito di luoghi comuni e messaggi diversi da rendere evidente l’abissale mancanza di propositi. Un movimento di protesta degno di questo nome ha una sua ragion d’essere se si fonda su un messaggio, una proposta chiara. Il Tea party (letteralmente il partito dei «tassati già abbastanza») ha ed ha avuto fin dall’inizio tutti i requisiti che mancano all’attuale movimento poggiante sul vuoto. Il Tea Party è un movimento spontaneo, popolare nel senso di trasversale, cioè non proprio di una classe o gruppo politico e si basa su un messaggio chiaro e semplice: esprime la contrarietà all’invadenza dello stato nell’economia e il proprio favore ad una riduzione delle dimensioni dello stato. Gli attuali occupanti propongono invece un collage di richieste, dalla gratuità dell’Università ad un salario annuale di sussistenza per tutti, fino al «perdono del debito per l’intero pianeta». Uno dei protestatori ha suggerito che la soluzione di tutti i mali sarebbe l’eliminazione completa del denaro. Siccome una protesta da sinistra era piuttosto attesa, come contrasto rispetto a quella di destra del Tea Party, tutti gli attori (letteralmente!) di una protesta cosiddetta progressista hanno recitato la propria parte. In primo luogo, naturalmente, gli attori stessi, che si sono messi in bella mostra ai raduni. Tra questi si sono «distinti» il milionario Tim Robbins, Susan Sarandon e l’immancabile Michael Moore, il quale ultimo si è lasciato andare a dichiarazioni così ruffiane nei confronti dei giovani protestatori da superare il già basso livello di responsabilità che è richiesto a questa casta di privilegiati. Niente più di quest’associazione potrebbe dimostrare la falsa premessa su cui poggiano gli occupanti; che sostengono di rappresentare «il 99 per cento» della popolazione e di esprimere risentimento contro l’1 per cento dei ricchi. A parte il fatto che il 99 per cento della gente non sostiene l’estremismo dell’attuale movimento ed i suoi fini, quei giovani dimenticano volutamente che se anche fosse vera la loro premessa, in quell’1 per cento contro cui si scagliano, ci sarebbero a pieno titolo quegli attori, registi, cantanti e scrittori che cercano di farsi pubblicità e di conquistarsi un pubblico giovanile unendosi a loro. Torniamo ai requisiti delle proteste progressiste. Non possono mancare gli arresti. Anche qua, in marcato contrasto con le manifestazioni del Tea Party, nel caso degli occupanti di sinistra la folla ha ignorato le ordinanze cittadine sullo stare a bivacco sulla proprietà pubblica. All’incirca un centinaio sono stati arrestati a New York per aver bloccato il ponte di Brooklyn, provocando ingorghi nel traffico ai danni di coloro che devono lavorare per vivere. Altri ragazzi sono stati portati in custodia a Chicago, Boston ed in altre città. I Democratici, da Obama in giù, stanno facendo il possibile per inventarsi un terreno comune con gli occupanti


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IL BORGHESE

di Wall Street, sperando che questa protesta divenga l’equivalente a sinistra del Tea Party, dando così un po’ di ossigeno all’esangue movimento progressista. L’ipocrisia abbonda, visto che l’attuale Presidente ha raggranellato più donazioni dal mondo delle imprese private di qualsiasi politico nella storia americana. Il movimento di protesta considera gli USA, cioè la loro nazione, come il principale nemico. La bandiera viene gettata nell’immondizia, stracciata in vario modo. A Portland, nell’Oregon, uno dei «portavoce» ha urlato il solito «fottiti America». Questi giovani ribelli in cerca di una causa sembrano ritenere che in mancanza d’altro il declino o l’abbattimento del loro Paese rappresenti il miglior risultato ottenibile. Non è un raggiungimento da poco aver mietuto lodi da entrambi i minuscoli Partito Nazista Americano e Partito Comunista degli Stati Uniti d’America. Dagli hippies che cominciano a dimostrare gli anni ma che cercano lo stesso di resuscitare le «glorie» degli anni sessanta ai giovani anarchici che non hanno niente di meglio da fare, molti degli occupanti di Wall Strett sono estremisti che compaiono ad ogni dimostrazione tendenzialmente violenta. Un’ultima differenza. I dimostranti del Tea Party hanno sempre pulito da ogni sporcizia le strade dopo le loro proteste, lasciando i luoghi più puliti di come li avevano trovati. Gli anti-Wall Street invece, dopo le loro uscite, creano regolarmente pile di immondizia . Dell’inconsistenza di questo movimento di fine 2011 si sono accorti anche i progressisti della stampa, che dalle colonne del New York Times hanno spiegato, imbarazzati, che le proposte dovrebbero essere più concrete. «Dove il movimento perde i colpi», ha scritto Nicholas Kristof, «è nelle sue richieste: non ne ha davvero nessuna». Un progetto ci sarebbe nei programmi degli occupanti e questo sarebbe una nuova occupazione: l’occupazione delle sale dei consigli di amministrazione delle imprese o banche contro cui dirigono la loro indignazione. L’aspetto più terrificante di queste «idee» è il timore che qualche società finisca per essere condizionata da queste bizze condite da abbondante protagonismo; il rischio concreto è che l’economia possa risentire di tutto questo. Chi può trarre beneficio dal movimento del «99 per cento»? Il Presidente Obama, che senza sconfessare questi giovani può prenderne discretamente le distanze per tentare la mossa verso il centro, una mossa eseguita con successo da un suo predecessore democratico che vedeva compromesse le sue possibilità di rielezione: Bill Clinton. Se i Repubblicani dovessero permettergli di cavarsela in maniera così facile, non potrebbero biasimare nessuno se non loro stessi. Come già accennato, le grandi società, cioè Wall Street, sono stati i grandi finanziatori della campagna di Obama per le elezioni del 2008. Alcuni nomi? Goldam Sachs, JP Morgan Chase, Citigroup, Morgan Stanley, soltanto per citare quelli più conosciuti. Su un punto, comunque, gli occupanti possono essere nel giusto. Salvare con soldi pubblici le corporazioni di Wall Street è stato un errore. I responsabili però non sono altri che Obama ed i Democratici, che in quanto maggioranza al Congresso hanno votato la legge per poterlo fare. Gli occupanti quindi, se sono capaci di un minimo di discernimento, dovrebbero dirigere la loro allegra indignazione nei confronti del Congresso e del Presidente Obama, che hanno il potere di abrogare le leggi che hanno permesso il salvataggio pubblico delle grandi corporazioni. Accanirsi contro Wall Street, invece, dimostra quanto poco abbiano capito la situazione ed il perché non riescano a divinare una o più ragioni valide a sostegno della loro protesta.

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LONDRA ED I SUOI «INDIGNATI»

GUERRIGLIERI di papà di GIUSEPPE DE SANTIS QUANDO il 15 di Ottobre gli indignati di tutto il mondo hanno deciso di protestare contro il sistema finanziario mondiale, era inevitabile che la City di Londra fosse uno degli obiettivi principali della protesta: la piazza finanziaria Londinese è da sempre il simbolo di quel sistema finanziario e bancario globalizzato che negli ultimi mesi è diventato la bestia nera di tutti coloro che cercano qualcuno o qualcosa da usare come capro espiatorio per la recessione che sta impoverendo un sacco di gente e che non accenna a sparire. Quindi Sabato 15 Ottobre studenti, sindacalisti, anarchici, anticapitalisti e altri attivisti di diversa estrazione sociale si sono dati appuntamento davanti alla chiesa di San Paul, a pochi passi dalla sede della borsa di Londra. Il vero obiettivo era l’occupazione di Paternoster Square dove il London Stock Exchange ha la sua sede ma essendo la piazza proprietà privata la polizia ha recintato l’area impedendone l’accesso e cosi è stato deciso di occupare la piazza davanti alla cattedrale di San Paul. Alcuni erano li per protestare contro le banche, altri contro il capitalismo e altri per dimostrare il loro disagio verso un sistema economico per poco o nulla equo anche se nessuno dei manifestanti ha saputo offrire una soluzione credibile. La manifestazione è passata pacificamente e l’unico incidente quando la polizia ha intimato a Julian Assange, il fondatore di Wikileak, di togliersi la maschera. Una differenza sostanziale rispetto ad altre manifestazioni è che i manifestanti hanno deciso di piantare delle tende e rimanere lì per settimane o anche diversi mesi fino a quando le loro richieste non verranno accolte e ricordare ai banchieri della City che è giunta l’ora che si assumano le loro responsabilità. Questo gesto ha anche lo scopo di creare un movimento di massa che possa coinvolgere molte più persone e fare leva sulla rabbia crescente dell’opinione pubblica riguardo al ruolo delle banche in questa crisi economica e al fatto che centinaia di miliardi di soldi pubblici sono stati usati per coprire le perdite causate dai vari operatori finanziari con le loro speculazioni e i loro prestiti troppo disinvolti. Tra l’opinione pubblica la rabbia contro i banchieri è tanta ma quante possibilità’ ha questo movimento di creare una rivoluzione di massa? Per il momento non molte e non soltanto perché l’opinione pubblica è ampliamente divisa tra chi ritiene che questi contestatori hanno il sacrosanto diritto di protestare e chi pensa che sono dei fannulloni ipocriti. Il Daily Mail ha pubblicato fotografie che ritraggono questi anticapitalisti mentre fanno la coda per andare da Starbuck o Mc Donald, multinazionali che da sempre sono sotto il tiro dei movimenti no-global. Certo il Daily Mail è un giornale conservatore e quindi di parte, ma le foto da


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solo valgono più di migliaia di parole e non aiutano certo a ottenere più supporto da parte dell’opinione pubblica. Ma ci sono altri due elementi che hanno contribuito a danneggiare la credibilità di questi manifestanti. Il primo è che la loro presenza ha danneggiato fortemente i locali pubblici della zona. Per evitare disordini la polizia ha dovuto chiudere alcune vie d’accesso a Paternoster Square e di conseguenza gli esercizi publici all’interno di questa piazza hanno avuto un calo fortissimo degli affari. Questi esercenti hanno fatto pressione alla Corporation of London (l’organo che amministra la City) di fare qualcosa e in molti hanno visto la contraddizione di un movimento che vuole un futuro per i giovani ma, allo stesso tempo, con le loro azioni, forza gli esercenti a licenziare personale. Se questo non fosse abbastanza è anche emerso che la maggior parte di questi manifestanti la sera lascia le tende per tornare a casa o in albergo e ritornano il mattino successivo. Le foto fatte dalla polizia usando speciali telecamere termiche (che dà un colore diverso a seconda della temperatura) mostrano chiaramente che molte tende di notte sono vuote. Per ora l’unico risultato raggiunto da questi indignati è stato creare divisioni all’interno della chiesa Anglicana ed aver causato le dimissioni di alcuni suoi esponenti di profilo. Molti prelati hanno espresso simpatia per i contestatori ma altri temono che la loro presenza possa ridurre il numero dei turisti che visitano la cattedrale nonché impedire ai fedeli di usare questo luogo per funzioni religiose. Ad aggravare la situazione è stata la decisione di chiudere la cattedrale di San Paul per motivi di sicurezza (la numerosa presenza di tende e l’enorme numero di fornellini avrebbe aumentato il rischio di incendio), una decisione senza precedenti visto che neanche durante i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale la cattedrale è stata chiusa. A parte il danno di immagine c’è stato anche un danno economico visto che le visite dei turisti rendono alla chiesa Anglicana ventimila sterline al giorno. La chiusura è durata pochi giorni ma lungi dallo spegnere le polemiche, ha esasperato gli animi ancora di più. Il primo a dimettersi è stato il cancelliere reverendo Giles Fraser, il quale non ha digerito la decisione dei vertici della chiesa Anglicana di chiedere alle autorità di cacciare i contestatori anche con l’uso della violenza se necessario. A seguire, alcuni giorni dopo, il rettore di Saint Paul, Graeme Knowles, in polemica con i vertici della chiesa anglicana che, a suo dire, non hanno fatto abbastanza per sbloccare questa situazione. Per il momento sia i prelati che governano la cattedrale di Saint Paul che la Corporation of London hanno deciso di sospendere ogni azione legale contro i dimostranti; la chiesa anglicana, inoltre, si è mostrata disponibile ad aprire un dialogo con i contestatori e a lavorare con i banchieri della City per introdurre più etica nel mondo degli affari. Non è da escludere che un ordine di sgombero possa essere emesso da un momento all’altro, ma se i dimostranti decidono di restare, la polizia starà lì a guardare o userà la forza? Tutto questo preoccupa i membri della chiesa anglicana, ben consci che qualsiasi scontro con la polizia creerebbe loro danni incalcolabili. Per ora gli indignati sono ancora li con le loro tende e i lavoratori della City sono troppo impegnati con il loro lavoro per prestare un minimo di attenzione a queste proteste.

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MOSCA E LA PRIMAVERA ARABA

«GOOD BYE» Medio Oriente di INNA KHVILER AIELLO LA RUSSIA sta perdendo completamente la sua influenza nel Medio Oriente. Gli esperti russi e internazionali lo affermano sempre più spesso, riferendosi agli esiti della cosiddetta «primavera araba» e alla sostituzione e alla morte del leader libico Gheddafi, decisamente volute all’Occidente. Secondo il quotidiano britannico The Daily Telegraph, la Russia sulla questione libica «si è fatta fregare» ed è passata per una sprovveduta, non ha bloccato, infatti, la risoluzione 1973 dell’ONU e ha consentito all’Occidente di far eliminare Gheddafi. «La Russia ha perso i contratti plurimiliardarii con la Libia e ha tradito un suo alleato senza avere nulla in cambio», ha scritto il quotidiano inglese ed è per questi motivi che ora Mosca non vuole ripetere gli stessi errori con la Siria. Nel mondo arabo e musulmano, soltanto la Siria e la Libia di Gheddafi hanno sostenuto la Russia nell’operazione antiterroristica nel Caucaso, hanno preso una posizione filorussa sulla questione dell’Ossezia del Sud ed hanno messo a disposizione della Russia le proprie basi navali nel Mediterraneo negli ultimi trenta anni, eppure Mosca non ha difeso Gheddafi, perce-

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pito, sin dai tempi dell’URSS, come una persona troppo imprevedibile, diversamente dai leader siriani. I giornalisti inglesi hanno ricordato che, nell’Unione Sovietica, AlAsad, il padre di Bashar Assad, era molto stimato dai dirigenti del partito comunista e dai diplomatici sovietici, a differenza di Gheddafi. Per il giornale statunitense The National Interest, oggi, la Siria rimane l’ultima riserva strategica russa nel Medio Oriente e la perdita di Damasco significherebbe per Mosca la rinuncia assoluta alle ambizioni russe nella regione. La tesi è condivisa anche dall’autorevole politologo russo Serghei Shashkov, secondo il quale, oggi, in Russia manca una politica estera pragmatica mirata al sostegno del proprio interesse in Medio Oriente. Secondo l’esperto, Bashar Assad ricorda i tempi in cui Mosca svolgeva un ruolo primario nel Medio Oriente e il suo appoggio era esteso tanto da garantire alla Siria sovranità e sviluppo. In Siria, non va dimenticato che con l’aiuto finanziario e tecnico dell’URSS, furono costruiti circa ottanta impianti colossali compresi il complesso idrotecnico dell’Eufrate, la centrale idroelettrica Al-Baas e quella termoelettrica Tishreen e, inoltre, furono costruiti circa duemila chilometri di ferrovie e quattromila chilometri di linee elettriche. Nell’Unione Sovietica si sono laureati circa settantamila siriani, di cui tanti oggi hanno incarichi importanti negli apparati governativi. L’esercito siriano è stato dotato di armamenti sovietici, centinaia di ufficiali siriani sono stati addestrati nell’URSS e fino al 1991 erano presenti in Siria tremila consiglieri militari sovietici. Per tali motivi e interessi, la Siria per decenni è stata un alleato sicuro di Mosca e, quindi, non è stato per caso che il dodici settembre scorso, a margine dell’incontro con il premier britannico Cameron, Medvedev ha dichiarato di non vedere alcuna necessità per imporre sanzioni supplementari al regime di Bashar Assad. «Al momento di sanzioni ce ne sono già molte da parte dell’Unione Europea e degli Stati Uniti e non vi è assolutamente alcuna necessità di pressioni aggiuntive», ha ribadito il Capo del Cremlino che con il suo veto, congiunto a quello cinese, ha bloccato la risoluzione dell’ONU contro la Siria. Tanti giornalisti russi sostengono che l’Europa e gli USA sono convinti che il potere di Bashar Assad crollerà dall’interno. Bashar Assad è da tempo un politico sgradito a Washington per i rapporti di amicizia tra Siria e Iran e

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per l’appoggio al movimento libanese degli Hezbollah, tanto che, secondo il leader spirituale iraniano Ali Khamenei, gli eventi in Siria, a differenza delle proteste spontanee negli altri Paesi arabi, sono ispirati dai burattinai di Washington. L’autorevole settimanale russo Odnako ritiene che gli strateghi occidentali con le sanzioni economiche tentino di costringere gli imprenditori sunniti a rompere i rapporti con l’apparato governativo siriano che, come ben si sa, è composto di esponenti della minoranza alevita e di rafforzare gli umori antigovernativi degli ufficiali militari sunniti che potrebbero organizzare una rivolta militare e rimuovere Bashar Assad, esponente del partito Baas al potere. I politologi russi sottolineano la debolezza politica di Bashar Assad e paragonano il suo comportamento a quello di Gorbaciov prima del crollo dell’Unione Sovietica. Bashar Assad, infatti, appare incerto, si è pronunciato più volte di non considerare l’articolo otto della Costituzione siriana sul ruolo centrale del partito Baas come «la mucca santa», ha liberato un centinaio di prigionieri politici del movimento Fratelli Musulmani vietato in Siria e non sa se cedere ai ribelli che non sopportano più la minoranza alevita al potere. A parere di Alexandr Dzasohov, Presidente della società per l’amicizia russo-siriana, come nel caso di Gheddafi, contro Bashar Assad si sta svolgendo una vera e propria guerra da parte dei mezzi d’informazioni alla quale, oltre ai mass media occidentali, partecipano anche due colossi dell’informazione araba, le emittenti televisive Al Arabia e Al Jazzira chiamate a orientare l’opinione pubblica araba contro il regime siriano. «Quello cui stiamo assistendo è in realtà l’inizio della guerra arabo/iraniana», ha scritto The Foreign Policy, «l’instabilità in Siria e la rinuncia alla sua politica estera potrebbero favorire l’egemonia dell’Arabia Saudita nella regione e accrescere le forze arabe nella guerra conto i persiani». La Siria indebolita fa gola anche alla Turchia che vuole una posizione assoluta di leadership nel mondo islamico che le permetta di svolgere quel ruolo di garanzia per i palestinesi finora riservato a Damasco. «Il caso di Bashar Assad, chiamato dapprima fratello da Erdogan e poi tradito da questo, evidenzia che, per raggiungere i propri interessi, la Turchia è disposta a vendere chiunque», ha scritto il politologo russo Alkexandr Kuznetsov. Secondo Serghei Shashkov «la primavera araba» ha infiammato soltanto i Paesi dove l’Occidente ha riscontrato una minaccia ai propri interessi. «La Tunisia è servita a svolgere il ruolo della scintilla per le rivolte arabe, ma quando queste si sono affacciate in Paesi amici di Washington, come Bahrein, Kuwait, Arabia Saudita, Oman e Mauritania, dove non erano previste, i Governi hanno soppresso i ribelli con la solita crudeltà con il silenzio dell’Occidente e l’assenza totale di reazione da parte dell’ONU e delle altre organizzazioni di difesa dei diritti umani», ha affermato Shashkov che ha aggiunto, per quanto riguarda la Libia, «anche il momento scelto è stato quello giusto ed esattamente quello in cui la Libia ha iniziato la revisione degli accordi con le aziende petrolifere occidentali e ha dichiarato l’intenzione di acquistare grandi quantità di armamenti russi». In Russia si è convinti che la Siria è rimasta l’unico Paese nell’area medio orientale che tenta di svolgere una politica indipendente, ma il Governo di Bashar Assad volge al termine e Mosca è destinata a rimanere senza alleati nella regione, dopo aver tradito Iran, Libia e dimostrato debolezza nella difesa dell’amica Siria.


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LA SAGRA DELLA DABBENAGGINE

TRAMONTO europeo di RICCARDO SCARPA LA TIRANNIDE di Gheddafi ebbe dei caratteri, soprattutto negli ultimi anni, terribili, ed in questo quadro spaventoso si pose anche la gestione degli accordi sul flusso migratorio col governo italiano. Tutti, ma senza pari Roberto Maroni, che fece della politica dei respingimenti una bandiera, seppero come il «colonnello» internò i respinti in campi nel deserto, di cui ogni tanto aprì i cancelli buttando fuori i reclusi che, in quell’ambiente, morirono di sete e d’insolazioni, e finirono sepolti sotto la sabbia. Per questo chi scrive invocò in diverse sedi un intervento militare per far finire quelli ed altri orrori. Lo invocò, però, dall’Unione europea, il cui Alto Rappresentante ha, in base al Trattato di Lisbona, la responsabilità dell’indirizzo della politica estera e di difesa dell’Unione, che deve agire almeno per coordinare gli Stati membri. La baronessina britannica e laburista che ricopre l’incarico non se ne fece carico, e quella tirannide divenne l’occasione per un’impresa francese e britannica dal chiaro tenore neocoloniale, con una «cobelligeranza» dell’Italia coordinata dall’Alleanza Atlantica, che c’entrò come i cavoli a merenda. Infatti quel tirannello infierì sempre sui poveri disgraziati, come sanno i lavoratori italiani cacciati, con contestuale confisca dei beni e profanazione nei cimiteri dei loro cari estinti, quando il rais prese il potere; ma mai attaccò uno Stato aderente l’Alleanza, se non con dei missili puntati sull’acqua. Adesso i signori del «comitato nazionale transitorio» di Bengasi, molti dei quali avanzi nuovamente vergini dell’aborrito regime, non danno affatto prova di maggiore rispetto per i diritti dell’essere umano. Non soltanto l’accoppamento di chi, comunque, fu Capo di Stato riconosciuto dalla comunità internazionale, in modo sommario e senza uno straccio di processo, ma anche i cadaveri di suoi dignitarî scoperti dalle organizzazioni umanitarie in un albergo di Sirte assassinati alla bene e meglio, ed altri episodî, lasciano intendere di che razza di galantuomini si tratti. Quanto alle altre «primavere arabe» nordafricane, in Egitto un presidente eletto in modo forse non cristallino è stato soppiantato, finora, da una giunta militare che ha fatto proprio a meno di qualunque elezione, mentre in Tunisia le elezioni sembrano state fatte regolarmente, ma un partito islamista ha vinto contro il partito espressione del governo precedente che a quelle elezioni non è stato ammesso, ed un pulviscolo di partitelli messi su da capi improvvisati, con la mamma e la zia. Il tutto nell’inattività europea, supplita dall’Alleanza Atlantica, mentre le insurrezioni si mobilitarono grazie ad Internet. Che la cosa sia soltanto frutto di dabbenaggine è sospetto, se si pensa: che l’Africa dipende, per le telecomunicazioni, da satelliti nordamericani, con un giro d’affari che vale, per quelle imprese d’oltre Atlantico, circa cinquecento milioni d’Euro l’anno; che gli Stati africani hanno cercato di costruire una propria indipendenza nelle tele-

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comunicazioni lanciando dei proprî satelliti; che soprattutto gli Stati nordafricani sostennero il progetto; che il primo satellite messo in orbita fece cilecca ma il secondo funziona e che Gheddafi investì, nell’impresa, circa quattrocentocinquanta milioni d’Euro. Insomma, l’intervento militare francese e britannico, nell’assenza dell’Unione europea, è stato ed è un’impresa per gli europei messi assieme a somma zero, in quanto si risolverà nel fregare alcuni contratti da parte d’imprese, soprattutto petrolifere, d’alcuni Stati membri dell’Unione a danno di quelle d’altri, e probabilmente i danni maggiori li sopporterà l’Ente Nazionale Idrocarburi italiano, mentre attentissimi potentati globali extraeuropei ne hanno profittato per salvaguardare interessi reali, concreti e pesanti; il tutto ai danni degli africani. Gli interessi globali extraeuropei, siano essi nordamericani, cinesi od apatridi, hanno sempre il gioco facile: basta paventare agli europei l’esigenza di difendere delle sovranità nazionali ormai inconsistenti contro il tentativo di costruire una Sovranità reale dell’Unione europea. Allora le Nazioni del vecchio continente divengono i manzoniani capponi di Renzo, e l’Azzeccagarbugli globale è già pronto a farli lessi od arrosti. Così, tanto per fare un esempio, la nomenclatura usurocratica bancaria, nel timore che gli europei possano, prima o poi, battersi per ricondurre la Banca Centrale Europea sotto il controllo parlamentare, comunque articolato tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali, istigano le persone dabbene a riconiarsi gettoni nazionali del monopoli, per metterli tutti, una volta di nuovo sparsi e divisi, nel sacco. L’unica alternativa sarebbero gli Stati Uniti d’Europa, cioè la costituzione dell’Europa in Nazione con una riforma rappresentativa delle Istituzioni dell’Unione che le sottoponesse in modo più efficace, a cominciare dalla Banca Centrale Europea, ai rappresentanti della gente nel Parlamento Europeo e nei Parlamenti nazionali, e magari con un Comitato economico sociale più rappresentativo di produttori coinvolti nella gestione delle imprese su modello tedesco, ma per ottenerlo occorrerebbe un movimento paneuropeo della democrazia nazionale per mandare in sede comunitaria rappresentanze convinte ed agguerrite e non imbelli trombati in altra sede.

CATHERINE ASHTON


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L’INGERENZA DEL QATAR IN LIBIA

IL TERZO incomodo di ALFONSO FRANCIA QUALCUNO ricorda i servizi giornalistici dalla Libia all’inizio del conflitto contro Gheddafi? I ribelli descritti con toni eroici dalla stampa internazionale venivano raccontati come dei coraggiosi straccioni che andavano a combattere i missili del tiranno armati soltanto di vecchi fucili e di coltellacci da cucina. I corrispondenti stranieri commentavano sconsolati che mai e poi mai questi rivoluzionari improvvisati sarebbero riusciti ad avere la meglio, neanche con l’aiuto dei bombardamenti NATO. Dopo l’interessamento iniziale, però, la guerra è stata cancellata dai palinsesti. Durante l’estate i mass media mondiali sembravano aver «dimenticato» i rivoluzionari e il loro disgraziato destino. Invece, all’inizio dell’autunno, scopriamo che i ribelli hanno preso il controllo del Paese costringendo Gheddafi alla fuga. Come è possibile che quell’improbabile armata Brancaleone abbia avuto la meglio sul ben equipaggiato esercito del colonnello? Per sconfiggerlo servivano truppe di terra ben addestrate e meglio armate, mentre la NATO aveva deciso di limitarsi alle operazioni aeree. Il mistero è durato per parecchie settimane: soltanto dopo la morte di Gheddafi abbiamo saputo come erano andate le cose nei mesi in cui la grande stampa si era disinteressata alle ostilità. Il 26 ottobre scorso il comandante delle forze armate del Qatar, Hamid bin Ali al Atya, ha infatti ammesso che «centinaia di nostri soldati hanno partecipato alle operazioni in Libia». Il piccolo Paese del Golfo sembra aver risolto da solo un conflitto che aveva impegnato senza successo le maggiori potenze mondiali, le quali ovviamente fingono di non aver saputo nulla dell’invio dei militari qatariani. Insomma, un castello di bugie che cela parecchie interessanti verità. I rapporti tra il Comando Nazionale di Transizione libico e il Qatar, innanzitutto, hanno radici profonde. L’attuale comandante militare di Tripoli è Abdel Hakim Belhaj, un estremista fortemente devoto ad Ali Sallabi, imam affiliato ai Fratelli Musulmani e grande amico dell’emiro del Qatar, Hamid bin Khalifa. Belhaj era un nemico riconosciuto del regime: fino al 2010 si trovava nelle carceri libiche, ma venne incredibilmente liberato da Saif al Islam - il figlio di Gheddafi - assieme a 170 islamisti, in seguito a un’incauta trattativa condotta proprio con Ali Sallabi e finanziata dall’emiro del Qatar con parecchie decine di milioni di dollari. Guarda caso, pochi mesi dopo la liberazione di Khalifa e dei suoi accoliti, la «protesta popolare» nei confronti di Gheddafi ha avuto inizio. Non stupisce se oggi l’ala militare del governo provvisorio sia tanto vicina al Qatar. Purtroppo Belhaj e i suoi soldati non sembrano essere la scelta migliore per un Paese che sta uscendo da una guerra civile: nelle scorse settimane i militari del CNT si sono abbandonati a ogni sorta di violenza, infilandosi nelle case di Bengasi in cerca di lealisti che nel migliore dei casi venivano giustiziati di fronte a qualche muro e poi gettati in una fossa comune. Nella Libia di oggi manca anche la più elementare forma di diritto e di ha-

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beas corpus. Siamo nella fase di una bestiale resa dei conti; neanche ci si degna di organizzare qualche finto processo di fronte a un tribunale «rivoluzionario». Chiunque è anche soltanto sospettato di aver sostenuto il vecchio leader, va incontro alla morte. Questa realtà ci è tenuta nascosta perché le uniche telecamere autorizzate sono quelle di Al Jazeera, emittente che proprio nel Qatar ha la sua base e che è costantemente finanziata da bin Khalifa. Negli ultimi anni i media liberal occidentali hanno incensato l’emittente all-news araba, criticando a più riprese il governo degli Stati Uniti per aver finora impedito al canale di raggiungere i cittadini americani. Forse, se i giornalisti che applaudono al «modello Al Jazeera» avessero guardato i programmi in arabo e non quelli in inglese - ideati appositamente per un’audience occidentale - sarebbero arrivati a conclusioni diverse. L’emittente propone programmi dal titolo inequivocabile come «Sharia e vita» e propaganda un’interpretazione del Corano che poco si scosta da quella wahabita. Nella trattazione delle notizie, inoltre, utilizza un approccio che è tutto tranne che obiettivo, lanciandosi in veri e propri linciaggi mediatici contro personaggi sgraditi. A partire da febbraio scorso, ad esempio, ha condotto una violenta campagna anti-Gheddafi, consentendo a uno dei suoi più prestigiosi anchorman di emettere una fatwa nella quale veniva assicurato che «versare il sangue» del leader libico era del tutto lecito. Non che negli anni il Colonnello non abbia commesso le atrocità che gli venivano attribuite, ma va ricordato che il canale ha cominciato ad attaccarlo all’improvviso e con un preciso scopo politico. Tanto impegno da parte dell’emittente del Qatar doveva essere ripagato: il cadavere di Gheddafi era ancora caldo che bin Khalifa già firmava un ricco contratto grazie al quale potrà commerciare a condizioni vantaggiosissime il petrolio libico. Ma credere davvero che il Qatar sia riuscito con le sue sole forze a ottenere il protettorato sulla Libia sarebbe da sciocchi. Per quanto ricco e militarizzato (un quarto del bilancio viene stanziato a fini militari), il Paese è piccolo e nulla può fare senza l’appoggio del suo primo alleato, gli Stati Uniti. A Washington - che proprio a Doha ha aperto la sede del suo comando militare nel Golfo - premeva trovare un secondo fornitore di gas per l’Europa dopo che la Russia, grazie all’accordo con l’ENI, si era assicurata una posizione di semi-monopolio. L’idea è di formare un cartello del gas arabo per far concorrenza a quello di Mosca e Teheran con la protezione degli USA, che ha i suoi più importanti alleati mediorientali proprio nella Penisola arabica. Non è quindi un caso se il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad e il premier russo Vladimir Putin siano stati tra i pochissimi leader stranieri a criticare i ribelli, e se i leader del CNT si siano già affrettati a far sapere che non concluderanno «in nessun caso» accordi con la Russia. Questa è l’ennesima guerra per il controllo delle fonti di energia: il gas libico è facilmente trasportabile in Europa ed è disponibile in grandi quantità, ma per ottenerlo a condizioni favorevoli era necessario togliere di mezzo il bizzoso Gheddafi, che tra l’altro si ostinava a concludere affari quasi in esclusiva con il governo italiano. Non deve quindi stupire se nei diversi scenari di ricostruzione della Libia il nostro ruolo pare sempre limitato: durante la riunione degli Stati che hanno partecipato alla «liberazione» di Tripoli - tenuta ovviamente in Qatar - si è ipotizzata la formazione di una missione internazionale composta da 13 Paesi. Tra questi, la presenza dell’Italia è stata data come «possibile», in ogni caso con una rilevanza minima rispetto a Francia e Gran Bretagna. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha potuto solamente rivendicare il probabile invio di


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dieci istruttori militari. Nessuno ha voluto parlare di accordi economici, perché si sa che in questi grandi consessi democratici parlare di affari «non sta bene». Ma andrebbe ricordato che i vari Sarkozy e Obama fanno guerre per soldi, non per aiutare un popolo a ritrovare pace e libertà. Anche perché la Libia di oggi è tutto tranne che pacifica e libera. Anzi, col crollo del vecchio regime sono esplosi problemi che la dittatura di Gheddafi aveva nascosto, come il conflitto razziale. Tra le vittime preferite dei ribelli ora al potere c’è infatti la popolazione nera della Cirenaica, «colpevole» di essere considerata storicamente favorevole a Gheddafi. Nella città di Tawergha, piccolo centro nei pressi di Misurata abitato quasi esclusivamente da libici di pelle scura, si è verificata una vera e propria pulizia etnica. La popolazione civile è stata costretta ad abbandonare le case, e chi non lo ha fatto è stato torturato, violentato ed ucciso. Si è arrivati al punto di rastrellare i feriti negli ospedali per farli sparire nel deserto o in qualche caserma. Nel giro di pochi mesi quello che era un centro di 30mila abitanti è diventato una città fantasma, e tale rimarrà: per impedire ai fuggitivi di tornare tutte le abitazioni sono state date alle fiamme. I muri anneriti sono stati riempiti di scritte infami come «siamo la brigata che ha ripulito la Libia dagli schiavi neri» oltre a decine di insulti razzisti. Ecco perché i soldati di Tawergha sono stati sprezzantemente indicati come «mercenari». Si voleva far passare l’idea che si trattasse di stranieri, non di veri libici, perché secondo i rivoluzionari non può esistere un libico di pelle nera. A riportare queste notizie non sono oscuri blogger lealisti, ma un quotidiano prestigioso come il Wall Street Journal e organizzazioni non governative quali Human Rights Watch e Amnesty International. La maggior parte dei media, comunque, si è tenuta alla larga da queste notizie sconvenienti: la storiella del popolo buono che sconfigge il dittatore cattivo non sarebbe più vendibile. Ci sono ragioni a sufficienza perché gli entusiasti della rivolta «democratica» riflettano sulla condizione della nuova Libia: il Paese è oggi controllato da un piccolo, ricco e dispotico staterello dove domina la Sharia e il potere dell’emiro è assoluto. Il primo prezzo da pagare è apparso chiaro a tutti a metà ottobre, quando il presidente del CNT Abdel Jalil ha pubblicamente dichiarato di voler fare del Corano la base del diritto in Libia. Si può certo essere soddisfatti per la fine del regno del terrore di un despota tanto imprevedibile quanto sanguinario, ma sarà meglio evitare di raccontare la barzelletta del Paese liberato da una grande rivolta popolare. I libici hanno semplicemente cambiato padrone; soltanto che quello nuovo non abita a Tripoli, ma a Doha.

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ASCESA E CADUTA DI UN DITTATORE

MORTE di un dittatore di GIANFRANCO DE TURRIS AVREBBE voluto morire con le armi in pugno insieme ai fedelissimi del regime, ma la sua colonna di auto e camion è stata intercettata dall’aviazione «alleata» e bombardata. Rifugiatosi con altri in un condotto di cemento sotto la strada, è stato scovato dai «ribelli», non ha usato le armi che aveva con sé ed è stato praticamente linciato: aggredito, ferito, massacrato a pugni e calci, addirittura (si è letto) sodomizzato con un bastone durante colluttazione e, insanguinato, colpito a morte con armi da fuoco. Sul suo cadavere si è accanita la folla inferocita dei «ribelli». Poi il suo corpo seminudo, insieme ad altri, è stato trasportato in una cella frigorifera di una città vicina: la gente, anche intere famiglie con i bambini, ha fatto la fila per vedere l’ex dittatore cosparso di ferite e si è divertita a fotografarlo con i cellulari, che a quanto pare da quelle parti abbondano. Infine, del cadavere non si è saputo più nulla: distrutto o sepolto nascostamente da qualche parte per non farne un luogo di culto per i «lealisti». Questi ultimi sono stati catturati, spesso torturati, uccisi con un colpo alla nuca e le mani legate dietro la schiena: già sono state trovate fosse comuni su cui nessuno ha trovato nulla da ridire. Ma di chi stiamo parlando? Forse qualcuno in un primo momento avrà pensato a Mussolini. Ma certi riferimenti non quadrano troppo, anche se ci sono molti particolari comuni alla fine del dittatore fascista. No, si tratta della morte di Muhammar Gheddafi, per 42 anni padrone assoluto della Libia dopo aver spodestato nel 1969 re Idris con un colpo di Stato. E in effetti quel che colpisce sono proprio i molti punti in comune con quanto avvenne tra il 25 e il 28 aprile 1945 fra Milano e Como. Scherzi macabri del Fato, ghigni beffardi del Destino… Gheddafi era ossessionato dal Duce, dal fascismo, dagli Italiani,e poi ha subìto una fine assai simile a quella dello spettro che inquietava le sue giornate e le sue notti,

(Gianni Isidori, il Borghese 17 Novembre 1974)


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tanto da aver istituito quel Giorno dell’Odio per non farci parlava il tedesco Wund, e invece di «democrazia» avremo mai dimenticare, noi i suoi nemici storici, ai propri sudditi. nuovi regimi islamisti ancorché «moderati» ispirati alla È morto nel modo peggiore possibile, non ucciso a viso Sharia. È certo anche che la figura peggiore l’abbiamo aperto scontrandosi con i «ribelli» come avrebbe voluto, fatta come sempre noi: pronti a incassare ogni oltraggio e ma massacrato quasi a mani nude da gente che ha sfogato ogni insulto e ogni sberleffo e ogni sputacchio dal dittatore su di lui un odio evidentemente tribale, proprio come avlibico in nome dell’«antifascismo» in silenzio, o crogiolanvenne per il Duce, Claretta e i gerarchi trucidati, i cadaveri doci sopra come è tipico della Sinistra. Per poi, dopo tutto vilipesi, offerti al ludibrio della stazione di benzina di questo subire, alla fine correre il rischio di perdere ogni Piazzale Loreto. Sputacchiati e fotografati. Certo, fosse lato positivo di quegli accordi che non prevedevano nemstato arrestato e consegnato agli «alleati» la sua fine non meno il famoso indennizzo ai nostri connazionali cacciati sarebbe stata diversa, proprio come quella di Saddam Husquaranta anni fa… sein: impiccato e magari, come il Rais iracheno, fotografaL’unica soddisfazione, aver sentito lo scorso 9 ottobre to col cappio al collo, sempre con l’onnipresente cellulare. quello che è adesso l’ex leader del Consiglio Nazionale È la morte mediatica all’epoca della Dittatura dell’ImmaTransitorio libico, Jalil, davanti ai ministri della difesa gine che non risparmia proprio nessuno. italiano La Russa e inglese Fox, affermare «con voce calC’è da compiangerlo e da rendergli l’onore delle armi? ma ma ferma» testualmente: «I libici sanno perfettamente No, dal mio punto di vista: pesa troppo su di lui quante ce che il periodo del colonialismo italiano procedeva in conne ha fatte, al di là delle «colpe» del nostro colonialismo: comitanza con un’èra di grandi costruzioni e sviluppo». dalla cacciata di 20mila italiani (mai indennizzati) alle Tanto è vero che «tutti sanno che le grandi costruzioni a indiscriminate distruzioni di quanto avevamo materialTripoli, Bengasi e altre città sono costruzioni italiane. mente realizzato in Libia che non si può negare ma che Pensiamo che in quel periodo la legge andasse nel corso tutti volutamente dimenticano (strade, case, moschee, intenaturale, cause giuste, processi giusti. E c’era sviluppo re città, piantagioni di alberi per arginare il deserto, l’Arco agricolo». Invece, il periodo di Gheddafi «è l’esatto oppodei Fileni lungo la Via Balbia, la devastazione del cimitero sto: tutti i valori e i princìpi sono stati demoliti, rovesciati. italiano di Tripoli ecc. ecc.); dal disprezzo beduino nei Le risorse libiche non sono mai state utilizzate per i libici. confronti di chi gli faceva la corte per il petrolio (il «dono» Nonostante tutti gli sbagli, il colonialismo italiano non di un moschetto italiano a Berlusconi in visita in Libia, la potrà mai essere paragonato a Gheddafi». Il che ha fatto mostra dei nostri «crimini» allestita per la delegazione andare su tutte le furie la Sinistra italiana che ha parlato di italiana, la provocazione della foto appiccicata sul petto «bestemmie». Vedremo ora che succederà, e se queste quando, travestito da Michael Jackson, giunse in Italia) parole erano soltanto strumentali per accattivarsi la nostra alla soddisfazione dei suoi capricci e delle sue stramberie simpatia e parlar male di Gheddafi. che sapeva sarebbero state accettate senza fiatare (la tenda, i cammelli, le «amazzoni» che lo dovevano difendere e con le quali invece si dilettava, come si è poi saputo). Lo si può compiangere, come si compiangono tutti gli uomiOgni lunedì, dal 3 ottobre ni che fanno una fine così terribile, massacrato alla mercé di bestie armate, ma certo non gli si può concedere l’onore delle armi. A oltre un mese dalla sua fine e dalla fine della cosiddetta «missione Ore 21-22 umanitaria» della NATO, o meglio di Francesi e Inglesi, in Libia, già tutto si sta dimenticando perché il compito è Seguici con stato assolto: dare l’assalto al petrolio libico e ai nuovi giacimenti che si dice siano stati scoperti (questo il vero motivo della guerra). Ha vinto l’ipocrisia internazionale con l’avallo del Premio e Nobel per la Pace, certo Barak Obama. Altri dittatori sanguinari, che hanno già sulle spalle varie migliaia di morti ammazzati durante le manifestazioni di protesta, come Assad in Siria, non pare che debbano temere molto l’ira pacifista della NATO o dell’ONU, magari soltanto quella della Turchia, sua confinante. Certo che la cosiddetta «primavera araba» con la fine dei regimi mediterraPuoi telefonare e fare le domande nei di Algeria, Egitto e Libia potrebbe agli ospiti presenti essere un classico esempio di quella terribile «eterogenesi dei fini» di cui

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DUBBI SULLA MORTE DI GHEDDAFY

LA PRIMULA della Sirte di MARY PACE OMERO narra che il sovrano di Troia si recò nella tenda di Achille per riavere il cadavere di suo figlio Ettore, ucciso dalla lancia del Pelide. Il Re si inginocchiò ai suoi piedi e baciò quella mano che si era armata per trafiggere il corpo dell’adorato figlio. Priamo desiderava dare una degna sepoltura al cadavere, e Achille restituì il corpo dell’ucciso al suo nemico. A questo punto è bene chiedersi, perché il corpo del Rais non è stato restituito alla famiglia o quantomeno ai lealisti, ma sepolto in un posto segreto nel deserto della Sirte? Il Ministro dell’informazione del CTN (Consiglio Nazionale Transitorio) Mahmud Shamam si è giustificato affermando che, se il colonnello veniva tumulato in un posto accessibile a tutti, la tomba di Gheddafi sarebbe diventata presto meta di pellegrinaggi. Queste parole sono una chiara ammissione che il partito di Gheddafi anche se piccolo potrebbe rivelarsi insidioso. Bisogna aggiungere che i fedelissimi del Rais non sono stati vinti dalle forze libiche, ma grazie all’improprio aiuto della NATO. Da Misurata fa sentire il suo dissenso il comandante militare Abdul Salam Eleiwa, il quale sostiene che, come prevedono i precetti islamici, il cadavere doveva essere sepolto in un cimitero musulmano entro 24 ore dal decesso. In realtà dietro questa contestazione, si intravedono i primi dissensi politici. La decisione di proclamare da Bengasi e non da Tripoli la liberazione della Libia è l’inizio di questo scontro politico, che non sembra di buon auspicio. Le divergenze non sono soltanto nel CNT, ma anche nella NATO stessa con in testa Sarkozy ed altri capi di Stato. Ora vediamo da un’attenta analisi ciò che è stato appena accennato dai media, e cioè che il morto sarebbe stato un sosia, ma questa ipotesi con il tempo sta prendendo sempre più piede. Il colonnello era alto 1 metro e 83 cm, il corpo che ci appare sanguinante sia nelle foto sia nei video, è molto più piccolo. Il colonnello aveva la pelle rugosa, ma nelle foto appare come se avesse molti anni in meno. Gheddafi che implora pietà ai suoi aguzzini? Non rientra nel suo stile di vita, si è sempre difeso come una belva sin dall’inizio della sua dittatura. Tante sono le differenze che ci appaiono se si guardano bene le foto della vittima con il vero Gheddafi, ma il fatto più emblematico è che lui aveva chiamato ratti i ribelli libici, ed egli stesso si nasconde in un tubo di cemento simile a quello usato per le fognature? Si può affermare che il Rais non era né codardo né stupido, con le possibilità che aveva, poteva trovare di meglio che nascondersi in tubo. Tra l’altro non dobbiamo dimenticare che proprio la figlia Aisha ha affermato che il padre è vivo, ma questa notizia è stata soffocata dai media. Gheddafi morto fa co-

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modo a tutti, vivo incute paura. La dinamica della morte del presunto leader non è chiara, Si dice che quando è stato fatto salire sull’ambulanza era ancora vivo. Altra versione che il responsabile della sua morte è un giovane di 20 anni, che avrebbe ucciso il Rais con la sua pistola d’oro. E tante altre versioni, ma quella che ci fa ridere, è una intervista di Gheddafi in fuga. A conferma di questa ipotesi, che sia un sosia, c’entra anche l’intelligence italiana che segnala la presenza del Rais al confine con il Niger, mentre i ribelli ne proclamavano la morte a Sirte. Che avesse il dono dell’ubiquità Gheddafi? Chi più ne ha più ne metta, in questa commedia americana. Per non parlare dei suoi figli: catturati? no uccisi senza pietà. Poi arrivano le smentite, che sono in Niger, mentre gli altri in Algeria. In questo tormentone non si capisce nulla, anche perché non hanno mai fatto vedere un figlio di Gheddafi cadavere, si aggiunga a questo che i libici si somigliano un po’ tutti. Certo il colonnello era una figura a noi conosciuta bene, ma con i capelli di due colori e il naso rifatto non l’avevamo mai visto. Nel frattempo la moglie Sofie e la figlia Aisha, tramite l’avvocato di Gheddafi, il francese Marcel Ceccaldi, hanno inoltrato denuncia alla Corte Penale Internazionale dell’Aja contro ignoti per crimini di guerra. Il figlio Saif AlIslam, considerato il delfino del padre, si è reso irreperibile, può darsi che stia preparando la sua vendetta sotto la regia di Gheddafi, e questa non è fantapolitica, ma potrebbe essere una realtà a breve. Il CTN (Consiglio nazionale Transitorio) ha proclamato la liberazione della Libia, ma teme i lealisti ancora a piede libero. Considerando che i fedeli al regime non erano in molti, e parecchi sono caduti sotto le bombe NATO, è possibile che tutte le nazioni che hanno partecipato all’aggressione temano un pugno di uomini? Allora dovrebbero essere in tanti i fedelissimi di Gheddafi; ma se erano maltrattati come è possibile che ancora gli siano fedeli dopo la presunta morte? Da fonti recenti si apprende che il Qatar si schiererà a fianco della nuova Libia e quindi sostituirà la NATO. Sempre il Qatar fa sapere che durante l’invasione molti dei loro soldati hanno affiancato le forze NATO. A Doha capitale del piccolo ma ricchissimo Stato, si è riunito il Comitato Amici della Libia, e durante l’incontro si è discusso di come aiutare il Paese. A questa riunione erano presenti 13 nazioni comprese Gran Bretagna, Francia e America, mentre l’Italia sta valutando un accordo con il CTN di Tripoli, per una sua partecipazione alla forza multinazionale che dovrà sostituire la NATO. Ora, cosa sarà del futuro della Libia? In questo immediato dopoguerra, abbiamo le tribù berbere, fedeli al colonnello che si stanno riorganizzando, mentre il Consiglio Nazionale Transitorio si pone come obiettivo una stabilità per il rilancio del Paese, il che sarà impossibile perché la tregua fra le tribù si regge su un fragilissimo equilibrio. L’America, conclusa l’avventura libica, nella quale peraltro non si è esposta più di tanto, punta già ad un altro obiettivo, l’Iran. Aiutata in questo dalla politica militare israeliana, che ha sempre visto in un attacco preventivo la migliore difesa delle frontiere nazionali. La parola d’ordine che viene dalla centrale TT di Parigi è destabilizzare le dittature esistenti, e per la loro prossima conquista hanno già affilato le armi. C’è da chiedersi: a chi toccherà poi?


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TRA ISLAM E TURCHIA

IN TUNISIA è già autunno? di MASSIMO CIULLO LO SCORSO 22 novembre si è riunita la prima sessione dell’Assemblea Costituente a Tunisi. Le elezioni del 23 ottobre, le prime dalla caduta dell’ex presidente Zine elAbidine Ben Ali, sono state vinte dal partito islamico alNahda che ha conquistato 90 dei 217 seggi del nuovo organismo, causando non poche preoccupazioni soprattutto tra i partner occidentali del Paese africano. L’assemblea è chiamata a redigere una nuova costituzione e indicare anche i nomi del primo ministro e del presidente. La transizione verso un modello multipartitico si annuncia piuttosto travagliata, a giudicare dalle tensioni che si sono scatenate, dopo la rotonda affermazione del partito islamista, fuorilegge durante il regime di Ben Ali. Mentre il suo leader Rached Ghannouchi celebrava il successo elettorale, la sede di al-Nahda nella città di Sidi Bouzid, luogo simbolo della «rivoluzione dei gelsomini», è stata attaccata da un gruppo di manifestanti che protestava contro la decisione della commissione elettorale di squalificare alcuni candidati di un partito rivale. La vittoria di al-Nahda era prevedibile, anche in termini di preferenze ottenute. È riuscita a presentarsi come una garanzia nella difesa dell’Islam, ed ha ottenuto il sostegno del popolo, stanco dei continui attacchi alla religione. In più, i Tunisini hanno voluto riabilitare un movimento stroncato dal vecchio regime, che in venti anni ha accumulato migliaia di condanne e quasi un centinaio di «martiri» morti in prigione o sotto tortura. I principali interlocutori di al-Nahda saranno certamente gli esponenti delle due formazioni di sinistra che hanno guadagnato il maggior numero di consensi: il Congresso per la Repubblica e Ettakatol, con rispettivamente 30 e 21 seggi, che potrebbero stringere una coalizione con gli islamisti. L’affermazione di Ettakatol ha destato una certa sorpresa. I partiti e le liste che non erano mai scesi a patti con il regime di Ben Ali hanno fatto incetta di voti, ma un partito come Ettakatol (riconosciuto sotto il regime di Ben Ali) è riuscito ad attirare il 9,6 per cento di consensi, piazzandosi al terzo posto tra i partiti più votati. Tra i grandi delusi si colloca il POCT (Partito comunista degli operai tunisini), che ha partecipato alle elezioni per la prima volta dopo più di 20 anni di clandestinità. Nonostante l’aspirazione a raggiungere il 10 per cento dei consensi, i comunisti hanno sfiorato un misero 5 per cento. Un risultato imputato da alcuni «puri e duri», contrari ad aperture nei confronti della sinistra moderata, all’ammorbidimento delle sue posizioni. Il portavoce ufficiale, Hamma Hammami, professore, intellettuale nonché fondatore del partito e più volte imprigionato dal regime di Ben Ali, è stato una delle personalità politiche più critiche nei confronti del governo provvisorio degli ultimi mesi ma non è riuscito ad allargare la base

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elettorale di un partito ancorato a posizioni veteromarxiste. L’ago della bilancia della nuova scena politica tunisina sarà certamente il Congrès pour la republique (CPR) di Moncef Marzouki. Il suo leader, presidente della Ligue tunisienne des droits humains dal 1989 al 1992 (anno della dissoluzione temporanea imposta da Ben Ali), ha fondato il CPR nel 2001. A suo avviso il PCOT, vittima della dura repressione del regime come il Congrès e al-Nahda, non ha visto riconosciuti i suoi sacrifici a causa dell’attaccamento ad una rigida ideologia marxista-leninista, che non suscita più entusiasmo nella popolazione. Il suo attivismo contro la dittatura è stato sincero e prezioso, ma il partito è rimasto chiuso in una dimensione elitista e le sue posizioni sono condivise da una piccola frangia di studenti universitari e di sindacalisti dissidenti all’interno dell’UGTT. Il CPR invece, non riconosciuto dalle autorità, ha accolto tra le sue fila storici oppositori alle dittature di Bourghiba e di Ben Ali di diverso orientamento politico e numerosi attivisti per i diritti umani. Marzouki, in esilio fino al 14 gennaio 2011, è convinto che la partecipazione attiva alla rivoluzione dei militanti del CPR sia stata ripagata con la netta affermazione nelle urne. Gli elettori hanno riconosciuto i sacrifici fatti e la persecuzione subita dagli attivisti del Congrès, e da quelli di al-Nahda, le due maggiori fonti di resistenza alla dittatura. Il Congrès è formato da attivisti credenti e non, oltre che da musulmani praticanti. Vi convivono assieme vecchi militanti nasseristi, nuovi nazionalisti e socialisti. Si tratta di una formazione poco ideologizzata che si pone l’obiettivo di fondare le basi di uno Stato democratico e pluralista, che si richiami ai modelli delle socialdemocrazie europee. La formazione di Marzouki rivendica l’identità arabomusulmana del Paese, ma non è disposta a sacrificare diritti civili e la laicità delle istituzioni nel caso in cui l’islam politico dovesse orientarsi verso una novella teocrazia in stile iraniano. Il leader del CRP è uno dei probabili candidati alla carica di primo ministro, ma gli islamisti vorrebbero confermare l’attuale premier ad interim Béji Caid Essebsi alla guida del consiglio dei Ministri, eventualità che da sola escluderebbe la partecipazione del Congrès alla maggioranza di governo. L’orientamento di Marzouki è di dare vita a un governo di coalizione nazionale che riesca a inglobare il maggior numero delle forze politiche presenti in Assemblea costituente, prima fra tutte al-Nahda che dispone della più ampia legittimità. I partiti che hanno fatto della difesa intransigente della laicità l’unico cavallo di battaglia sono stati sanzionati dagli elettori. Le due principali forze laiche, il PDP e il PDM (Pole démocratique moderniste) che hanno agitato lo spauracchio integralista, hanno fatto tornare alla mente dei tunisini le parole d’ordine utilizzate da Ben Ali nella sua battaglia contro l’oscurantismo e la guerra preventiva al fondamentalismo, sebbene la sharia, anche sotto il precedente regime, fosse già una delle fonti del diritto tunisino. Per il Congrès la nuova struttura istituzionale dello Stato dovrà avere come modello una repubblica semipresidenziale che abbia la separazione dei poteri come fondamento imprescindibile della Repubblica. Il presidente della Repubblica, eletto direttamente dai cittadini e in carica per quattro anni (con la possibilità di un solo rinnovo del mandato), avrà facoltà esecutive in


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condivisione con il consiglio dei Ministri, emanazione della maggioranza parlamentare. L’Assemblea legislativa, che potrà essere sciolta dall’esecutivo, avrà un potere di sanzione nei confronti del Capo dello Stato. Un sistema di pesi e contrappesi che offre la garanzia di un controllo reciproco e costante tra le istituzioni. Diverso il modello preferito da al-Nahda, almeno in questa fase, che è orientata verso un sistema parlamentare puro, che gli garantirebbe il monopolio delle istituzioni. Resta in bilico la partecipazione degli eletti nella lista «Petizione per la giustizia», guidata dal ricco imprenditore residente a Londra Hechmi Haamdi, accusato di aver usato una sua TV a scopi propagandistici durante l’infuocata campagna elettorale. In realtà, l’istrionico Haamdi ha cercato di tenere i piedi in più scarpe, tentando prima di presentarsi come alleato degli islamisti, poi come moderato ed infine accostato all’impronunciabile nome di Ben Ali. Per questo motivo il partito maggioritario ha usato toni molto duri nei confronti di chi ha votato Hachemi Hamdi, che i maggiori consensi li ha raccolti proprio a Sidi Bouzid dove i cittadini si sono sentiti offesi e non rappresentati e hanno inscenato le manifestazioni più violente dopo quelle avvenute all’inizio della rivolta, al punto tale da portare all’imposizione della misura del coprifuoco. I recenti avvenimenti tunisini hanno portato gli osservatori internazionali a chiedersi se la Primavera araba può dichiararsi un moto già concluso o se bisogna aspettarsi altre tensioni e rivolgimenti interni. L’unica certezza, in questo momento, è che al-Nhada sarà certamente la principale forza politica del Paese mediterraneo; che in Libia il CNT ha annunciato di voler instaurare la sharia e che in Egitto i Fratelli musulmani sono pronti a prendere le redini del governo appena i militari decideranno di rientrare nelle caserme.

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SPAGNA - IL DOPO ELEZIONI

AL CENTRO, economia e lavoro di GIANPIERO DEL MONTE PER l’81 per cento degli Spagnoli il primo problema è il lavoro, dicono le inchieste più probanti, e la campagna elettorale ha presentato l’esigenza di incentrarsi principalmente su questo tema. Rajoy ne ha parlato spesso facendone l’asse portante dei suoi discorsi ed incontrando gli esponenti delle piccole, medie e grandi imprese, con l’obiettivo di creare più lavoro. Rubalcaba non ha insistito più di tanto sul tema e quando l’ha fatto è intervenuto specialmente sulle proposte di Rajoy, evidenziando come il candidato popolare si sia dedicato a «seminare dubbi sull’economia e a creare incertezze sociali», affermando che sono più preoccupanti i suoi silenzi che «le poche cose che dice». In realtà Rubalcaba non riesce a scuotersi di dosso il peso dei cinque milioni di disoccupati spagnoli che hanno caratterizzato il suo periodo nel governo di Zapatero. Da quando è stato nominato primo vicepresidente dell’Esecutivo nell’ottobre 2010 a quando ha lasciato l’incarico per presentarsi come candidato socialista alle elezioni politiche nel luglio 2011 la disoccupazione è aumentata di 263.000 unità toccando il tasso dell’89 per cento, la percentuale più alta fra i Paesi dell’OCDE e niente ha fatto sperare in un recupero sensibile negli ultimi mesi. Dopo aver affermato che sapeva «quel che dobbiamo fare per creare lavoro», Rubalcaba non ha fatto più conoscere i suoi piani. Ha preferito strizzare l’occhio alle sinistre e al 15-M, parlare di tasse per chi possiede «grandi fortune» e di temi di uguaglianza. Si è concentrato sul terrorismo parlando della fine dell’ETA prima ancora che questa annunciasse il termine della lotta armata, alimentando seri dubbi su queste stesse affermazioni del gruppo terroristico durante la campagna elettorale e facendo trasparire legami fra il governo centrale e quello basco. Il nuovo governo dovrà porre all’ordine del giorno le misure d’intervento per affrontare la questione del lavoro. Nell’ambito di una profonda riforma generale del settore bisogna fornire incentivi fiscali a tutte le imprese ed affrontare i problemi finanziari di quelle piccole e medie. Occorre svecchiare un sistema di leggi obsolete che ostacolano la contrattazione e non aiutano gli impresari né i lavoratori né i disoccupati. Esistono moltissimi tipi di contratto ed è necessario semplificare e snellire le modalità di attuazione che li caratterizzano. I partiti politici dovrebbero fornire a questo riguardo delle prospettive di soluzione chiare ed esprimere la volontà di pervenire ad accordi stabili. La via dello stato del benessere passa per queste decisioni e dall’Europa giungono richiami per sviluppare ulteriori riforme in questo contesto. Se qualche passo in avanti è stato compiuto, non è sufficiente ed occorrono altri interventi. Si fa notare che la disoccupazione è a livelli inaccettabilmente alti e bisogna riformare il mercato del lavoro dotandolo di maggiore flessibilità e maggiore capacità di contrattazione. Se la Spagna vuole essere più competitiva deve ampliare le riforme nel settore dei servizi. Si riconosce che le misure adottate di recente hanno consentito di ridurre il deficit, di ristrutturare il sistema ban-


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cario, di riformare i mercati e di approvare una riforma costituzionale per rendere obbligatorio l’equilibrio delle spese preventive ma occorre proseguire. I leader europei hanno ricordato al governo Zapatero che è fondamentale affrontare le questioni del lavoro. Nel pieno di queste discussioni è arrivato l’annuncio dell’ETA di porre fine alla violenza. Rubalcaba ha rinfacciato a Rajoy e al PP un atteggiamento equivoco sul tema, criticando la «bicefalia» del partito di opposizione. Ha valutato positivamente il tono misurato con cui Rajoy ha parlato del fatto ma ha osservato che altri esponenti del PP hanno mantenuto posizioni radicalmente distinte. Ciò si deve, per lui, all’esigenza del partito di evitare una frattura nell’elettorato per guadagnare voti fra i più «duri» e i più «tolleranti». Ha sostenuto che, se sarà presidente del prossimo governo, consulterà tutti i partiti per esaminare insieme una politica alternativa dopo l’annuncio dell’ETA rilevando che al riguardo la cosa più importante è mantenere l’unità. Rajoy ha sottolineato la stretta relazione che mantengono i governi socialista e basco e dopo aver segnalato che il passo della banda è comunque «molto positivo» ha evitato di parlare del problema dei terroristi prigionieri che è affiorato nel discorso, concentrandosi sui problemi economici che sono quel che più gli interessa. Sulla frase polemica «Non c’è stata contropartita politica», Rajoy ha chiarito che il momento terminale dell’ETA sarebbe arrivato senza condizioni né il conseguimento delle tradizionali richieste dei terroristi, per quanto abbia ricordato che «non c’è niente da negoziare e bisogna solo applicare la legge e lo Stato di diritto». Ne è scaturito un avvertimento per non fare la campagna elettorale al nuovo simbolo della formazione basca di Bildu, Amaiur. Sarebbe triste che, dopo essersi visti obbligati a porre un termine definitivo alla violenza, aumentassero i voti. Quando gli hanno chiesto di approfondire il discorso ha espresso il desiderio di non metterlo in campagna elettorale. «Deve essere il nuovo governo e il nuovo parlamento a prendere le decisioni.» Si può d’altra parte evidenziare che l’ETA non ha chiesto perdono per i crimini commessi né ha consegnato le armi. Dopo la disoccupazione e la crisi economica, il terzo problema più sentito dagli Spagnoli è quello della classe politica, la cui immagine è caduta letteralmente a picco in questo periodo di crisi. Il problema interessa tutti i partiti, specie il PSOE ma anche il PP. È un tema che coinvolge le Casse di risparmio, dominate in via diretta o indiretta dagli stessi partiti politici. Hanno ricevuto l’assistenza dello Stato dopo aver espanso scriteriatamente il credito e i loro dirigenti, nominati dai politici di turno, non soltanto non hanno risposto alla giustizia per le loro azioni avventate ma sovente sono andati in pensione usufruendo del denaro dei contribuenti. Gli sprechi dei fondi pubblici sono continuati negli ultimi mesi ad onta di ogni richiamo all’austerità. Somme ingenti sono state spese per fornire cellulari e computer ad alta funzionalità a deputati e senatori, PSOE e PP si sono assicurati sovvenzioni notevoli per la campagna elettorale, aiuti finanziari cospicui sono stati forniti a cineasti spagnoli ed europei mentre sono proseguite le spese esagerate nelle comunità autonome. Bisogna cambiare questo gioco cambiando i rappresentanti degli spagnoli nelle istituzioni. La Spagna ha bisogno di riconquistare la fiducia anche di fronte all’opinione pubblica internazionale. C’è troppo pessimismo e non soltanto nell’economia ma anche in altri settori, come l’educazione e la sanità, al punto di non fare intravedere spiragli di uscita a breve scadenza che incoraggino prospettive di speranza.

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UN «VIRUS» PER ABBATTERE L’EURO?

DALLA CINA con la crisi di DANIELA BINELLO PECHINO non sgancia, a meno di avere anche il controllo. È questo il senso, in parole povere, della posizione di Hu Jintao al «G20» di Cannes. Il presidente cinese, di fronte ai capi di Stato e di governo più potenti del mondo, ha evitato di prendere impegni precisi rispetto alle sollecitazioni che gli venivano rivolte perché la Cina rimpinguasse il fondo per la stabilità finanziaria dell’esangue Unione europea. Silenzio, poi, anche sull’aumento valutario dello yuan, richiesto a gran voce da Obama. «E chi sono io, Babbo Natale?», deve aver pensato Hu Jintao in mandarino. Un apprezzamento dello yuan produrrebbe un aumento dei consumi interni in Cina e darebbe respiro all’occupazione negli USA e nel resto del mondo, visto che merci e prodotti d’importazione sono ormai in cima ai sogni della popolazione cinese. Quanto meno a quelli di decine di milioni di cinesi che, soprattutto se lo yuan valesse di più, correrebbero a fare shopping di prodotti occidentali. Il presidente cinese, che oltre al passaggio dal «G20» di Cannes, ai primi di novembre, aveva compiuto alcune altre visite ufficiali in Europa, non ha nascosto la soddisfazione per il ruolo centrale ormai tributato alla Cina, blandita e corteggiata da tutti, ma allo stesso tempo ha fatto capire ad Americani ed europei che se i Cinesi, oggi come oggi, hanno molti soldi rinchiusi nei forzieri non è detto che vogliano continuare a investirli in operazioni di salvataggio e d’emergenza come quelle invocate al «G20». In altre parole, non si deve credere che la Cina ci venga in aiuto per pura solidarietà. La Cina vuole contare, ma controllare. Vuole uscire dal ghetto della diffidenza (reciproca) e intende continuare a investire nei Paesi sviluppati in quei fondi e obbligazioni, mirando però ad acquisire un ruolo sempre più direttivo. Più che dirlo con parole sue, nel formalismo dei politici cinesi, il concetto è stato chiarito meglio da altri. Li Daokui, docente di economia all’Università Tsingua di Pechino, nonché consulente della Banca centrale cinese, ha infatti dichiarato: «Non intendiamo darvi dei soldi che voi userete come vi pare. Voi siete ricchi, vivete nel lusso e siete abituati a prendere denaro in prestito dai poveri. A noi non va giù. Per cui, se dobbiamo di nuovo allargare i cordoni della borsa, vogliamo avere un certo controllo». A buon intenditor poche parole. Allo stesso tempo, però, la Cina è pure preoccupata per noi. Se per ipotesi l’euro facesse il botto, anche gli investimenti cinesi nell’eurozone andrebbero a pallino. Che pasticcio. «Nel corso di questi ultimi anni», ha precisato in un suo editoriale Du Baiyu dell’Agenzia di stampa nazionale cinese Xinhua, «per fermare la crisi sono state prese tutta una serie di misure in occasione di numerosi summit dell’UE, che si sono rivelate dei buchi nell’acqua perché non hanno attaccato per nulla le cause fondamentali. Uti-


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lizzando la medicina cinese come metafora, noi crediamo che la malattia provenga da uno squilibrio del corpo. Da una malattia non si può guarire se non si va ad attaccare la causa profonda che l’ha provocata». È chiaro che secondo i Cinesi i nostri leader non valgono una cicca. E chi riuscirebbe a convincerli del contrario? Comunque, a volte si resta un po’ perplessi di fronte a tanta freddezza e pragmatismo. E sì, perché se per svilupparsi, sfamarsi e crescere così gigantescamente, la Cina ha dovuto affrontare sacrifici enormi, far morire di stenti milioni di esseri umani, eliminare con la violenza tutte le voci che si opponevano al suo disegno, ridistribuirsi capillarmente con le sue comunità sparse per il pianeta, e poi, una volta fatto questo, comprare di tutto, approvvigionarsi di risorse energetiche dappertutto, entrare nel capitalismo occidentale con la forza d’urto di uno tsunami, chi lo dice che la crisi globale non potrebbe essere stata inventata proprio in Cina a mo’ di virus? Un virus che non lascerebbe immune la Cina completamente, è ovvio. Si tratta di una visione del tutto immaginaria, s’intende, però a volte pensare male non è un peccato. Semmai è avere una fervida fantasia. Il recente rallentamento dell’economia cinese, ad esempio, per quanto minimo, potrebbe essere un segnale della fine della magica estraneità di Pechino alla crisi iniziata in Occidente nel 2008. Banche e imprese di Stato cinesi sono in difficoltà, per problemi e storture del sistema finanziario interno. Per questo, nel 2009, la Cina ha varato un piano di stimolo (600 miliardi di dollari). Questo piano per un paio d’anni ha tenuto fuori i Cinesi dal pantano caotico in cui si trovavano i Paesi avanzati. Tuttavia, avendo le banche cinesi finanziato soprattutto imprese pubbliche, le quali molto spesso - per definizione - non sono campioni d’incassi, la «cura» è servita soltanto a metterci una pezza sopra.

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Sull’inefficienza delle compagnie pubbliche cinesi si può citare il terribile incidente ferroviario di Wenzhou (con decine di morti) e quello occorso nella metropolitana di Shanghai (con almeno duecento feriti gravi) per giungere alla considerazione che, troppo spesso, nelle società di Stato non si lavora molto bene, non si adottano buone risoluzioni e magari, per colpa della corruzione, i soldi vanno a finire chissà dove, invece di essere impiegati per realizzare opere pubbliche sicure. Un altro problema delle banche cinesi è che gli sono rimasti sul groppone un sacco d’immobili invenduti. I cinesi ricchi, con il boom dell’edilizia residenziale, hanno investito moltissimo negli immobili come bene-rifugio. A un certo punto, però, la bolla immobiliare si è gonfiata a dismisura e così anche i ricchi si sono stufati di buttare via i loro soldi, per non parlare della classe media che, con i prezzi raddoppiati, ha dovuto rinunciare a comprarsi un nuovo appartamento. Ora, le banche, perciò, si trovano a dover gestire investimenti nell’edilizia sotto un eccesso di offerta del mercato immobiliare. Che dire, poi, delle tantissime imprese private cinesi che non navigano in buone acque a causa dell’inflazione e che non riescono a ripagare gli interessi sui prestiti contratti con le banche? Uno studio diffuso dagli analisti del Credit Suisse di Hong Kong informa, infatti, che le perdite sul capitale di rischio delle banche cinesi saliranno fino al 60 per cento nei prossimi anni, visto che società edili e governi locali non riusciranno a pagare i debiti. Forse, perciò, le banche cinesi dovranno essere ristrutturate, se no il virus della crisi le indebolirà ancora di più. Il PIL della Cina, infine, è cresciuto del 9 per cento nel 2011, in calo sul 10,4 per cento dello scorso anno. Il contagio continua.


TERZA PAGINA IL RITORNO DEL RE

La forza degli archetipi di RICCARDO SCARPA Il ritorno del Re, di Davide Bigalli, ordinario di Storia della Filosofia all’Università degli Studî di Milano, edito pei tipi di Bevivino in Milano e Roma (€ 20,00), mi ha fatto venire alla mente un episodio degli anni Ottanta del XX secolo dell’êra volgare. Allora, giovane avvocato del foro di Roma, frequentavo ancora lo studio del mio Maestro, l’Avvocato Nicola Catalano, in Lungotevere Flaminio. Un giorno stavo percorrendo a piedi quella via, quando i portoni di quei bei palazzi, in parte abitati ad uso privato in parte adibiti a studî professionali, iniziarono a vomitare frotte di gente d’ogni età e condizione, dai bimbi ai vegliardi, dai domestici a professionisti rampanti, che s’ammassavano sui marciapiedi, senza che avessi sentito nessuna scossa di terremoto e, del resto, con un’aria gioiosa che escludeva qualunque timore di sciagura. Il motivo si vide poco dopo, quando sfilò una fila di vetture scure, a scorta d’una scoperta nella quale erano seduti Sua Maestà Britannica Elisabetta II, la quale rispondeva alle ovazioni col saluto d’una manina guantata, ed il Principe consorte che, in visita ufficiale, si recavano ad un ricevimento alla villa della Farnesina. Quella gente in visibilio erano cittadini d’uno Stato che aveva esiliato il Re e la consorte ed in allora, ancora, i discendenti maschi del Sovrano, la maggioranza quasi totalitaria dei quali si proclamava repubblicana, mentre la Nazione era percossa da violente tensioni contestatrici e terroristiche, che turbavano ogni visita d’altri Capi di Stato esteri, come il Presidente pro tempore degli Stati Uniti, il quale fu costretto anche a raggiungere il Quirinale in elicottero. Eppure Sua Maestà Britannica la Regina faceva evidentemente eccezione, suscitava l’entusiastico concorso di pubblico di coloro che forse, presi ad uno ad uno, non avrebbero espresso né sentimenti mo-

narchici né simpatie per Albione. È evidente che la figura della Regina, lì ed allora, stava suscitando una reazione emotiva legata alla riproposizione inconscia l’un archetipo di Regalità, che riemergeva in un attimo di silenzio dei filosofemi, mentali e razionalizzanti, delle ideologie. Davide Bigalli, che fa uso esperto anche della strumentazione concettuale della storia delle idee, secondo la lezione di Arthur O. Lovejoy introdotta in Italia da Paolo Rossi, che gli fu maestro, ma non soltanto di questa, ha lavorato proprio su tale archetipo, l’ideale del Re, e ce ne presenta diversi aspetti, che vanno: dai sovrani fasulli, sin dalla narrazione persiana d’Erodoto sul falso Smerdi, il fratello fatto assassinare da Cambise dopo aver profanato il Dio Api; all’intreccio politico e religioso delle diverse concezioni del Califfato, del ruolo regio e sacrale incarnato dalla discendenza, di sangue od ideale, dal Profeta, la Pace sia con Lui, nell’Islām, che divisero e dividono in confessioni e sette quell’espressione religiosa; al mito di Re Artù, inglobante le memorie della resistenza celtico druidica, la figura di Merlino, il ciclo cristico del Graal, ed infine il Re dormiente ad Avalon, pronto a risvegliarsi qualora il Regno fosse in pericolo; all’altra versione di quest’ultimo elemento nel sebastianismo portoghese, il mito dell’Encoberto, di Sebastiano I Aviz, scomparso nella battaglia dei tre Re ad al-Ksar al-Qebir, il 4 d’Agosto del 1578, combattendo col Principe Moulay Muhammad al-Mutawwakil, erede spodestato al trono sa’adiano, contro lo zio di questi, usurpatore del trono marocchino, Moulay Ahmad, Abdelmalek. Sebastiano, educato agli ideali cavallereschi che impersonò sino a divenirne l’icona, scomparve nella mischia ed il suo corpo non fu più ritrovato con certezza, alimentando una leggenda di sottrazione alla morte

che fece di ogni Sovrano lusitano idealizzato, anche Capo di Stato non dinastico, una sorta d’avatar di Sebastiano, fino ad Augusto Ferreira Gomes ed a Fernando Pessoa ed al loro Quinto Império. Davide Bigalli conclude questo ciclo con Ras Tafari Makonnen, salito al Trono d’Etiopia col nome di Hailé Selassié il 2 di Novembre del 1930, che incontrò con la sua figura il mito generatosi dall’epica di Marcus Garvey in Giamaica, tra i negri importativi come schiavi. Mito del ritorno dell’età aurea in cui l’Egitto e l’Etiopia primeggiarono sull’Asia e su d’un Europa, che sarebbe stata popolata da una razza di cannibali, selvaggi nudi e pagani. Mito ispiratore delle canzoni di Bob Marley. L’Imperatore dello Stato costituito dalla Regina di Saba e dal figlio ch’ebbe da Re Salomone celebrò il suo trionfo nel 1966, durante la visita di Stato che fece in Giamaica; ed i fedeli del culto resogli non credettero alla sua morte, il 27 Agosto del 1975, allorché fu assassinato dal colonnello Menghistu dopo il suo colpo di Stato marxista-leninista. Gli afroamericani costruirono, su questa negazione della morte, una religiosità rasda, certamente eterodossa dal punto prospettico della tradizione copta etiope, che fa del


58 ritorno del Negus un suo punto di fede, e commuove anche quegli studenti bianchi delle nostre università degli studî che si presentano a lezione ed agli esami coi capelli a treccine, secondo un costume dei guerrieri etiopi divulgato da Bob Marley, assieme ai colori della bandiera forse del più antico Impero al mondo, che figurano sui loro maglioni o copricapi. Del resto, a me piace ricordare come i nazionalisti greci panellenistici celebrino ancora la nobile ed eroica figura di Costantino XI Paleologo, ultimo Imperatore dei Romani, scomparso alla caduta di Costantinopoli nel 1453, combattendo alla porta di San Romano, fino all’estremo sacrificio, contro i Turchi di Maometto II, ed i cui resti non furono ritrovati, se non forse i calzari a brandelli, generando la leggenda dell’Aθάνατος, il non mortale, l’immortale, Eterno, appellativo che Omero applicò agli Dèi e l’ortodossia cristiana al Cristo; qui l’Imperatore immortale che, asceso al cielo del resto come Romolo, tornerà alla fine dei tempi a scacciare i barbari infedeli ed a ristabilire l’Impero in Eterno. In appendice al volume è pubblicato, a compimento, un bel saggio di Igor Comunale sul Re vittima e salvatore in J. R. R. Tolkien e Frank Herbert. Gli archetipi hanno una forza intrinseca sulla psicologia degli individui e delle masse. Del resto, quando Emanuele Filiberto di Savoia balla sotto le stelle o scrive un attualissimo romanzo dei sentimenti dei giovani d’oggi, firmandosi solo per nome, tanto basta, qualche aristocratico incartapecorito storce il naso, ma per giovanissimi ammiratori resta «il Principe»: sotto Granpasso intuiscono Aragon?

IL BORGHESE

Dicembre 2011

IL PAGANESIMO E LA NOSTRA STESSA CIVILTÀ

Sono morti gli antichi Dèi? di ERMANNO VISINTAINER SONO morti gli antichi Dèi? Quesito questo di un’attualità maggiore di quanto si possa genericamente immaginare, essendo l’antico paganesimo euro-mediterraneo prima del cristianesimo, il patrimonio spirituale su cui si fonda la nostra stessa civiltà. Una questione ricorrente nella storia occidentale e che, affiorata sotto forma di varie correnti filosofiche, ha certamente avuto un ruolo determinante nel compimento di quell’Europa quale oggi la conosciamo. Pensiamo soltanto a certe speculazioni rinascimentali che recuperarono il sapere della classicità grecoromana. Del resto non si potrà certo misconoscere il debito che la filosofia occidentale ha nei confronti di questo retaggio antico. Il fondamento culturale dell’Occidente, oltre che quello religioso, è altresì pagano. L’eredità classica del mondo greco e latino, cui potremmo allegarne altri di omologhi, scaturisce da un comune substrato indoeuropeo, mutuatosi successivamente - per utilizzare un’espressione dello storico Franco Cardini - nei «due polmoni dell’Europa», ovvero nelle due componenti europee rispettivamente esponenti della cultura «romanocelto-germanica occidentale» - la prima - e «greco-balcano-slavoortodossa orientale», la seconda. Tuttavia in tal merito una menzione speciale, avendolo sovente postulato nelle sue opere, ma altresì per onorarne la memoria essendo scomparso l’11 febbraio scorso, spetta di diritto ad uno dei sommi rappresentanti dell’orientalismo italiano, uomo d’azione e al contempo myste, il prof. Pio Filippani Ronconi. Indologo di formazione, erudito e poliglotta, esperto di buddhismo, la cui versatilità spaziava in ambiti di ricerca veramente lontani fra loro - dall’islam al pensiero cinese, dal mondo nordico allo zoroastrismo - Filippani Ronconi ravvisava una convergenza spirituale fra l’antico paganesimo

euro-mediterraneo e il variegato polimorfismo religioso induista. Egli era solito affermare che gli Dèi dell’antica Roma si erano rifugiati in India. «La vita indiana, quindi ci appare - come quella dell’antica Roma - un succedersi ininterrotto di feste, cerimonie, liturgie e celebrazioni, attraverso le quali ogni indiano evoca e rinsalda il suo intimo e misterioso rapporto con la divinità o, meglio detto, con il divino». Una concezione, dunque, quella induista, non eteroreferenziale del divino, come avviene nelle religioni abramitiche. Non il culto di una divinità concepita come «fuori di sé», bensì una religione che è «cosmicizzazione» dell’uomo, realizzazione dell’Ente spirituale che è in lui assopito e da cui egli medesimo è derivato, prima ancora che scorresse il tempo mortale, (Pio Filippini Ronconi, L’Induismo, Milano). Ritornando all’Europa gli ultimi che pregarono gli antichi Dèi furono certamente quei popoli che vivevano in aree situate alla periferia dell’ecumene cristiana, come gli Islandesi oppure i baltici. Tuttavia ne rimane ancora uno nell’estremo Nord della penisola scandinava: i lapponi o sa-

Chi pregò loro per ultimo? Di fronte ad un mondo moderno nel quale le religioni sono sempre di più fondate sull’odio, perché non tornare alla dea primigenia ed ai suoi fratelli e sorelle che per secoli accompagnarono l’umanità nel viaggio della storia?


Dicembre 2011 mi, una stirpe ugro-finnica in parte rimasta ancora fedele alle antiche credenze sciamaniche e pagane. Tant’è che nel 2006, un’iniziativa facente parte di un progetto internazionale di sensibilizzazione verso la sacralità della natura e verso le religioni animistiche, li ha visti protagonisti della realizzazione di un tamburo sciamanico, cui è stato attribuito l’appellativo di «Tamburo del Mondo», che sta veicolando questo messaggio facendo staffetta in molti Paesi in cui vi siano comunità religiose ispirate a questi princìpi. Pertanto, mentre le cosiddette religioni istituzionalizzate, arroccate attorno all’intransigenza dei loro rispettivi dogmatismi sono sempre più caratterizzate dallo scontro e dalla contrapposizione reciproca, la via d’uscita da questa sorta d’impasse soteriologica sembra ancora una volta essere ravvisabile nell’opzione fra la religione del «conoscere» e quella del «credere». Una dicotomia sempre esistita, di natura epistemologia oltre che religiosa, che affiora in particolar modo da un raffronto fra mondo arcaico e quello moderno. Il primo legato ad una forma di autoconoscenza che si potrebbe schematizzare nell’apoftegma ellenico: Γνῶθι σεαυτόν (gnôthi seautón) latinizzato in Nosce te ipsum. Un orientamento, che denota una via attiva, secca, improntata sull’esperienza individuale con il sacro e con il divino. Ovvero, utilizzando le parole di Filippani Ronconi, di natura non astratta e non discorsiva e tanto meno, limitata all’ambito etico-confessionale. Mentre il secondo, scaturito dalla conoscenza del mondo esterno, dal pensiero riflesso, dal dogma e dalla devozione. Una sapienza che, sebbene in pericolo d’estinzione, è tuttora vivente fra rade popolazioni disperse, lontane non più dai confini della civiltà cristiana come un tempo, bensì dagli stessi percorsi di quella moderna, non importa se occidentale o altro. Gli antichi Dèi, ovverosia il loro archetipo non è pertanto scomparso. Come già detto, lo ritroviamo in India ad esempio, così come presso alcune culture soprattutto centrasiatico-siberiane ove siano rimasti presenti degli elementi ascrivibili a tradizioni sciamaniche, sebbene qui si debba operare qualche distinzione nei confronti delle recenti rivisitazioni se non metamorfosi in chiave new age, neo-folkloristica o etnocentrica.

IL BORGHESE Ben venga anche il ritorno ad una dea primigenia, a quella divinità ctonia o tellurica a condizione che faccia da paredra all’altra uranica. E purché, questo tipo di rapporto con il sacro non assuma, sulla falsariga del noto quanto discusso bestseller di Dan Brown, il Codice da Vinci, una tale connotazione di centralità assoluta dell’elemento femminino, che come direbbe René Guénon - è frutto di un rovesciamento dei simboli, un pregiudizio tipicamente moderno. In altri termini un servizio reso alla sinistra sovvertitrice e intrisa di quella misandria, propria di una società mi si conceda il neologismo - sempre più ginecocratumenizzata, ovvero succube della ginecocrazia imperante. Dove il ruolo tradizionale dei sessi è sconvolto se non invertito e dove trovano un terreno fertile i gay pride ed i transgender di turno. Comunque in ambito europeo, oltre che in Lapponia pare che anche in Islanda, terra dove l’ultimo dei berserkir - i guerrieri-belva consacrati ad Odino - fu ucciso per disposizione del primo vescovo verso l’anno mille, si assista ad un recupero dell’antico paganesimo attraverso la fede Ásatrú, il culto degli Asi, gli Dèi dell’antico pantheon germanico. Un fenomeno simile si registra nei Paesi baltici. È auspicabile però che si tratti di un recupero in chiave tradizionale e non la rivisitazione moderna di un archetipo perduto. (Dal sito www.nododigordio.or)

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EDITORIA IN TRINCEA

«Area» di rigore di ANGELO SPAZIANO BASE per altezza uguale Area. Un’Area ideale, però, fatta di analisi, di sintesi, di progetti, suggerimenti e proposte politiche. L’Area di cui stiamo per occuparci, infatti, non ha nulla a che vedere con le vacue formule stampate sui ponderosi manuali di geometria. Qui siamo alle prese con un’importante rivista politicoculturale di destra a cadenza mensile apparsa nel panorama editoriale italiano nel lontano 1996 grazie alla fattiva collaborazione tra varie energie imprenditoriali e di pensiero. Durante i primi sei mesi di vita, direttore provvisorio della neonata creatura in carta patinata fu Vincenzo Centorame, intellettuale e attuale direttore editoriale del giornale on line «laDestra.News.it». Centorame era stato anche l’immaginifico ideatore del logo Area. Il periodico, ad essere precisi, nacque in concomitanza dell’intesa strategico-politica intessuta tra Gianni Alemanno e Francesco Storace, un sodalizio poi concretizzatosi nello schieramento correntizio interno ad AN denominato «Destra sociale». Una costellazione politica minoritaria facente parte della galassia di Alleanza Nazionale, insomma. Essa trasse nome e ispirazione dal celebre libro di Giano Accame La destra sociale, edito proprio nel 1996 per i tipi del Settimo Sigillo. Non a caso il noto giornalista e scrittore ligure fu uno degli animatori della rivista fin dal primo numero, e sempre non a caso l’ultimo articolo scritto da Accame prima di morire apparve proprio su queste pagine. Nel 1996 si era ancora al culmine della frenetica effervescenza politica seguita al trauma di Tangentopoli, allorquando un’intera classe dirigente era stata appena spazzata via nel giro di pochi mesi dai giudici del pool di Milano. Un periodo durante il quale sembrava quasi che il tempo avesse subìto un’improvvisa accelerazione.


60 Movimenti d’opinione, comitati estemporanei, scissioni di vecchi protagonisti dell’agone partitico e ricomposizioni di nuovi soggetti si accavallavano uno dietro l’altro, mandando in fibrillazione la ribalta istituzionale nazionale. Morta e seppellita la Prima repubblica, una nuova alba di speranza e di promesse stava per nascere, e Area fu un’importante componente culturale di tale esaltante «grande gioco» che aveva per posta l’accesso alla futura stanza dei bottoni. In origine il marchio stava a indicare una società per azioni che poi, con Giampiero Arci, docente universitario e consigliere regionale di AN, ormai scomparso, si trasformò in società a responsabilità limitata, con Arci amministratore delegato. Dopo anni d’impegno e di progressi la rivista riuscì anche ad accedere all’esclusivo gruppo di testate di ampio spessore culturale che godono del contributo editoriale concesso dallo Stato. Un ambìto riconoscimento dovutogli pure in quanto organo di movimento politico regolarmente rappresentato in Parlamento. La certificazione di tale status fu sottoscritta da Alemanno e da Roberta Angelilli, all’epoca presidente provinciale di Azione Giovani, organizzazione giovanile di AN. In seguito i redattori del periodico si costituirono in cooperativa editoriale con Cristiano Carocci come presidente e Marcello De Angelis direttore. Si trattava di un nuovo assetto societario che andava a rilevare automaticamente testata, prestigio e finanziamento statale di quello vecchio. Un prezioso contributo che Area attualmente continua a ricevere nelle vesti di cooperativa editoriale e non più come stampa di partito. Nel primo anno di lancio, grazie anche all’attivismo dell’associazione nata attorno alla rivista e presieduta da Paolo Cossu, Area raggiunse il record di 12.000 copie vendute in edicola. Il politologo Piero Ignazi, in un celebre articolo apparso sul Sole 24 Ore, la definì «la più prestigiosa e diffusa rivista culturale della destra». In seguito, nonostante la rottura del sodalizio politico tra Alemanno e Storace e la scomparsa di Giampiero Arci, il mensile ha continuato a prosperare senza un preciso punto di riferimento politico istituzionale ma rimanendo comunque ben radicato nei lidi della destra. Nel 2006, Marcello De Angelis fu eletto

IL BORGHESE in Senato in quota AN, per poi - nella primavera 2011 - assumere le redini del Secolo d’Italia, l’ex organo del fu Movimento Sociale Italiano prima e della fu Alleanza Nazionale poi. La direzione di Area è passata quindi a Gabriele Marconi, saggista, romanziere e musicista, già vice direttore responsabile della testata, mentre alla direzione editoriale è rimasta la «storica» Francesca Di Suni. Il periodico è sopravvissuto alla grande fino ad oggi grazie a una veste grafica assai attraente (curata, fino al marzo 2010, dal rimpianto Giorgio De Angelis), a un formato agile e moderno, stile magazine, a una fotografia eccellente, a un discreto zoccolo duro d’abbonati, a una piccola ma importante raccolta pubblicitaria e ad un qualificato gruppo di articolisti di vaglia. Gente del calibro di Nello Gatta, Marco Cimmino, Valerio Zecchini, Andrea Perrone e Antonio Albanese. Certo, non sono tutte rose e fiori. La stagnazione economica ha allungato i suoi artigli anche dalle parti di via Trebbia e la testata di recente ha subìto una lieve contrazione nelle vendite e nella pubblicità, malgrado i 500 nuovi abbonamenti sottoscritti soltanto nello scorso mese di luglio. Del resto, quello della picchiata delle vendite è un fenomeno che ha interessato - e sta tuttora interessando - pressoché tutta la carta stampata d’Italia e d’Occidente. E neppure si nutrono troppe illusioni. La crisi è irreversibile, e difficilmente si riuscirà a vedere una via d’uscita dal tunnel in tempi brevi. La carta, patinata o meno, con le nuove tecnologie messe a disposizione di tutti dal progresso, sta diventando roba da museo. A questa deprimente congiuntura vanno ad aggiungersi i prezzi elevati delle materie prime e del personale, il diradamento della pubblicità, i tagli al fondo editoriale, di per sé già tanto decurtato, e l’inevitabile irrigidimento dei criteri di assegnazione dei contributi. Per risparmiare sui costi e mantenere intatta la qualità del prodotto, l’editore ha preferito quindi sacrificare la logistica. La redazione del mensile è stata perciò spostata da via Trebbia, situata nel quartiere romano Trieste-Salario, alla più decentrata piazza Gondar, quartiere Africano. Più lontani dalla casta, più vicini al cuore dei lettori. E l’avventura continua…

Dicembre 2011

IVAN ILLICH

Società e consumo di EMMANUEL RAFFAELE «LA DISASSUEFAZIONE dallo sviluppo sarà dolorosa. Lo sarà per la generazione di passaggio, e soprattutto per i più intossicati dei suoi membri. Possa il ricordo di tali sofferenze preservare dai nostri errori le generazioni future.» Così, apocalitticamente, Ivan Illich. Corrono gli anni settanta quando scrive La Convivialità, testo non conforme, critico ed un po’ estremista, nel senso più positivo possibile del termine. Conviviale è una società libera per andare dritto al cuore del suo discorso - dal monopolio radicale. «Il mondo moderno è talmente artificiale, alienato, arcano, che trascende le capacità dell’uomo comune […]. Sostituire la sveglia meccanica dell’educazione al risveglio del sapere significa soffocare nell’uomo il poeta, gelare il suo potere di dare senso al mondo. Non appena separato dalla natura, privato di lavoro creativo, mutilato nella curiosità, l’uomo perde le sue radici, è paralizzato, appassisce. Sovradeterminare l’ambiente fisico significa renderlo fisiologicamente ostile. Annegare l’uomo nel benessere significa incatenarlo al monopolio radicale […]. Invischiato nella sua felicità climatizzata, l’uomo è castrato: gli resta solo la rabbia, che lo porta ad uccidere oppure a uccidersi.» Animo anarchico, tra i primi assertori dell’ecologismo, idealmente non senza macchia (egualitarista e, contro il boom demografico, per il controllo delle nascite), Illich porta avanti un ragionamento economico contestando alla radice il modo di produzione industriale - ma con approccio multidimensionale, poiché multidimensionale è l’equilibrio che è obiettivo della sua ricerca. Catene. Nessuna parola rende meglio l’idea del monopolio radicale su cui si concentra l’analisi dello scrittore austriaco: «La società, una volta raggiunto lo stadio avanzato


Dicembre 2011

IVAN ILLICH (Dal sito thefrailestthing.com) della produzione di massa, produce la propria distruzione». Non si tratta soltanto di ragioni ecologiche: «L’uomo che trova la propria gioia nell’impiego dello strumento conviviale lo chiamo austero […]. Per Aristotele come per Tommaso d’Aquino, è il fondamento dell’amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l’austerità come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali». Ecco disegnato l’uomo postindustriale nel discorso per nulla deterministico di Illich. Ma torniamo al cuore del discorso: «la produzione sovrefficiente dà luogo a monopolio radicale […]. Con questo termine io intendo non il dominio di una marca ma la necessità industrialmente creata di servirsi di un tipo di prodotto. Si ha monopolio radicale quando un processo di produzione industriale esercita un controllo esclusivo sul soddisfacimento di un bisogno pressante, escludendo ogni possibilità di ricorrere, a tal fine, ad attività non industriali». Un discorso che trova la sua declinazione in tutte le branche dell’industrializzazione, e principalmente in quella dei servizi: il consumo non è una scelta ma un’imposizione. Si può rinunciare al Mc Donald, non si può rinunciare al cibo industriale, che ha messo fuori mercato l’autoproduzione; si può rinunciare all’auto costosa, non si può rinuncia-

IL BORGHESE re ad un veicolo a motore; si può rinunciare all’iPhone, non si può rinunciare ad essere reperibili. Tutto ciò, a patto di voler vivere in società. Del resto, «quando il monopolio radicale viene scoperto, in genere è troppo tardi per liberarsene in modo economico». La sensazione di benessere muta, perché si ampia il divario tra ciò che si potrebbe avere e ciò che invece ha la maggioranza. «La povertà si modernizza: la sua soglia monetaria si eleva perché nuovi prodotti industriali si presentano come beni di prima necessità, restando tuttavia inaccessibili ai più. Nel terzo mondo, grazie alla ‘rivoluzione verde’, il contadino povero è espulso dalla sua terra. Come salariato agricolo guadagna di più, ma i suoi bambini non mangiano più come una volta. Il cittadino americano che guadagna dieci volte di più del salariato agricolo è anche lui disperatamente povero. Entrambi pagano sempre più caro un crescente ‘essermeno’». Un crescendo di illusioni, che creano bisogni crescenti ed alimentano un consumo forzoso, che annienta la dignità dell’uomo rendendolo dipendente perfino dal consumo di servizi: «La popolazione dell’occidente ha imparato a sentirsi malata e a farsi curare conformemente alle categorie di moda nell’ambiente medico [..]. La salute è divenuta così una merce in un’economia di sviluppo». E con ragioni forse non troppo fondate: «La riduzione a volte spettacolare della morbilità e della mortalità all’inizio del processo di industrializzazione di un Paese è dovuta soprattutto alle modificazioni dell’habitat e del regime alimentare e all’adozione di elementari misure d’igiene» in maniera «assai maggiore dei complessi ‘metodi’ di cure specialistiche». Tant’è che, spiega Illich: «Nel 1972 il sottosegretario alla Sanità degli Stati Uniti d’America poteva affermare che quattro quinti della spesa federale servivano o ad accrescere la sofferenza o a curare malattie che non sarebbero insorte senza un precedente intervento medico […]. Giunti a questa seconda soglia, è la vita che appare malata, in un ambiente deleterio». Per non parlare dei trasporti. «L’americano tipo dedica più di 1.500 ore l’anno alla sua automobile […]. A questo americano occorrono dunque 1.500 ore per percorrere 10.000 chilometri di strada: 6 chilo-

61 metri gli prendono più di un’ora.» «L’industria dei trasporti genera scarsità di tempo.» Eppure non se ne può fare a meno. «Che la gente sia obbligata a farsi trasportare e divenga incapace di circolare senza motore, questo è monopolio radicale.» Ed infine il caso principe: la formazione ed il sapere, monopolizzati da un insegnamento centralistico che comporta «segregazione dei non scolarizzati, accentramento degli strumenti del sapere sotto il controllo degli insegnanti». Marca le differenze Illich: «Lo strumento conviviale favorisce la scoperta personale, quello industriale alimenta l’insegnamento». E poi evidenzia: «Ovunque il tasso di aumento del costo della formazione è superiore a quello del prodotto globale». Per sottolineare infine l’impatto reazionario ed omologante della scuola moderna: «Che cosa si impara a scuola? Si impara che più ore vi si passano, più aumenta il proprio prezzo sul mercato. Si impara a valorizzare il consumo scaglionato di programmi. Si impara che tutto ciò che è prodotto da un’istituzione dominante vale e costa caro […]. Si impara a valorizzare l’avanzamento gerarchico, la sottomissione e la passività, e persino la devianza tipo che il maestro ama interpretare come sintomo di creatività. Si impara a brigare senza indisciplina i favori del burocrate che presiede alle sedute quotidiane, il professore a scuola, il capo in fabbrica […]. Si impara ad accettare senza mugugni il proprio posto nella società». Si impara, insomma, ad abbassare la testa, ammettendo la propria ineluttabile condizione di schiavitù verso il sistema.


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IL BORGHESE

ALBERTO BERGAMINI ED «IL GIORNALE D’ITALIA»

Il ruolo fondamentale della Terza pagina di FELICE BORSATO VI SIETE mai chiesti, leggendo queste pagine, cosa si debba intendere per terza pagina? Correva l’anno 1901 e cominciava l’epoca giolittiana. Sidney Sonnino, con alcuni amici liberali, decise di dar vita ad un giornale che sostenesse l’opposizione; fu individuato in Alberto Bergamini il direttore del nuovo giornale, appunto Il Giornale d’Italia, primo quotidiano del pomeriggio a Roma. Ma chi era Alberto Bergamini? Nato a San Giovanni Persiceto, in provincia di Bologna, nel 1871, (morirà a Roma nel 1962), cominciò ben presto a dedicarsi al giornalismo e giovanissimo diresse il Corriere del Polesine. Luigi Albertini, che dirigeva Il Corriere della Sera, lo scoprì e lo volle a Milano, affidandogli la responsabilità della segreteria di redazione. In seguito Albertini lo promosse, spostandolo a Roma per dirigere l’ufficio di corrispondenza. E nella Capitale conobbe i politici che, poche settimane dopo, gli avrebbero offerto la direzione del giornale non ancora nato. Accadde tutto nel 1901. Alberto Bergamini accettò e dovendo fondare un giornale, dovette occuparsi anche di problemi organizzativi e amministrativi, prima di poter fare il giornalista come lo intendeva un giovane al primo incarico importante della sua vita professionale. Dovette scegliere la sede tra il palazzo di largo Chigi dove sarebbe sorta la Rinascente e Palazzo Sciarra nel tratto del Corso dove la strada si restringe verso piazza Venezia. Durante gli oltre sessant’anni di presenza del giornale, Palazzo Sciarra ebbe due ingressi: il centrale sul Corso e uno secondario in via Marco Minghetti. Dopo aver ricevuto l’incarico, Bergamini andò in Baviera per acquistare una modernissima macchina di stampa, una fiammante Koenig & Bauer che avrebbe garantito subito una maggiore foliazione. Quella macchina, con modesti aggiornamen-

ti, fece a pieno il suo dovere, sfornando copie del quotidiano a tutte le ore per decenni. Il debutto avvenne nel novembre del 1901, con uno sguardo privilegiato ai problemi del Mezzogiorno; in questo modo lo stesso problema locale trattato da un foglio nazionale come Il Giornale d’Italia, si poneva all’attenzione generale con maggior probabilità di essere affrontato e risolto. Come altri giornali, nacque verso la fine dell’anno, per sfruttare la possibilità di scrivere sotto la testata «anno secondo»: l’anzianità nel mondo dei giornali ha sempre dato fiducia! Bergamini non fu soddisfatto del primo numero del giornale: mancava qualcosa in più che distinguesse il nuovo dagli altri. L’impressione generale fu quella di un altro giornale in edicola, con determinate idee politiche, ben fatto, ma niente di più e soprattutto niente di nuovo. La grande novità, dirompente nel mondo dei giornali, non si fece attendere. Accadde tutto nel numero 25. Quelle ore di attesa furono raccontate nel 1956 dallo stesso Bergamini, così: «Si doveva rappresentare a Roma la Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio: non si parlava d’altro in tutta la penisola. Io avevo avviata l’abitudine di adunare la redazione per ogni fatto notevole, per ogni nuova iniziativa che mi venisse in mente: chiedevo il parere, i lumi dei miei colleghi e discutevamo e si concordava insieme il modus agendi. Nella riunione che tenemmo, dissi che la tragedia dannunziana, fragorosamente annunciata, aveva non minore importanza di un discorso dell’on. Giolitti ai suoi elettori di Dronero, o di una crisi ministeriale, o di un concitato Congresso socialista: dunque volevo che la Francesca da Rimini, che veniva alla ribalta del Teatro Costanzi, un servizio da ‘fare colpo’…

Dicembre 2011 «Diego Angeli descrisse la scena, l’ambiente, una corte romagnola allo scorcio del secolo XIII, ampie sale con le volte affrescate, gli stemmi, le armi… «Seguiva una breve nota di Nicola d’Atri sulla musica del maestro Scontrino. Poi l’analisi critica della tragedia: acuta analisi di Domenico Oliva ricca di dottrina, di illuminato senso drammatico, di indagine psicologica sull’eterna passione che “in ogni tempo al cor gentil ratto s’apprende e che a nulla amato, amor perdona”. Infine una arguta cronaca “in platea e fuori” di Eugenio Checchi (Tom) sui biasimi e le laudi, sui motti di spirito, le ironie, gli improperi del vasto pubblico houleux ché la serata fu tempestosa: la Duse - mi disse Oliva - (io non ero andato al teatro, aspettavo, come al solito, i redattori al Palazzo Sciarra) recitò divinamente: l’incanto della sua voce, il fascino della sua arte vinsero in parte la bufera. «L’ampia relazione della agitata serata occupò una pagina che aveva un grosso titolo disteso su tutte le colonne: una intera pagina allora inconsueta, che mi parve signorile, armoniosa e mi suggerì l’idea di unire sempre, da quel giorno, la materia letteraria, artistica e affine in una sola pagina, distinta, se non proprio avulsa dalle altre, come un’oasi tra l’arida politica e la cronaca nera. E fu la ‘terza pagina’: dapprima incerta, indi migliorata e raffermata, finché pervenne ad essere la doviziosa terza pagina odierna». Alberto Bergamini aveva visto giusto. Ben presto la terza de Il Giornale d’Italia diventò il motivo per acquistare ogni giorno il quotidiano, addirittura aspettando i venditori davanti alla sede del giornale nell’orario di uscita, i famosi «strilloni». Al progetto aderì il meglio del giornalismo dotto in circolazione: Francesco D’Ovidio, Isidoro Del Grande, Bonaventura Zambini, Francesco Torraca, Giuseppe Chiarini, Felice Tocco, Michele Scherillo, Guido Mazzoni, Alessandro Chiappelli, Domenico Gnoli, Gaetano Negri, Alessandro Luzio, Raffaele De Cesare, Ferdinando Martini, Antonio Fogazzaro, Giacomo Barzellotti, Giovanni Marradi, Pompeo Molmenti, Luigi Capuana, Federico de Roberto, Luigi Pirandello, Cesare de Lollis, Attilio Momigliano, Salvatore di Giacomo, Giuseppe e Pietro Giacosa, Roberto Bracco, Guido Biagi, Luigi Siciliani,


Dicembre 2011 Giannino e Camillo Antona-Traversi, Alfredo Panzini, Vittorio Turri. «E furono assidui e fedeli Enrico Panzacchi e Pasquale Villari che avevano tenuto a battesimo il primo numero del giornale»: una sottolineatura cui Bergamini rinunciava difficilmente. Bergamini nel fare la storia della sua invenzione, si lasciò andare alla seconda parte di quella che definì la «monotona rassegna» nella quale facevano, però, bella mostra anche i nomi di Corrado Ricci, Vilfredo Pareto, Giacomo Boni, Rodolfo Lanciani e poi Sonnino e Salandra. Ma su quella terza scrissero anche Benedetto Croce (1908) e Alfredo Oriani finalmente «sdoganato» dallo stesso Croce per la sua «robusta mente creatrice e la continuazione ideale». Forte della sua terza, Bergamini cercò in ogni maniera di mettere a segno un’iniziativa che avrebbe dato al giornale una ulteriore spinta pubblicitaria e, nello stesso tempo, di enorme prestigio: impegnare lettori e Italiani tutti in una sottoscrizione per edificare nella Capitale un monumento a Dante Alighieri. Bergamini aveva ben chiara la storia di questo riconoscimento: nel 1897 c’era stata una proposta del Ministro della Pubblica Istruzione Coppino, per una cattedra universitaria a Roma; meno arguto di altri, il politico, ma «con alacre spirito, una sottile intuizione e alta conoscenza del suo ufficio e dei problemi ad esso congiunti». E poi, nel 1902, un arenato disegno di legge per un monumento con Zanardelli Presidente del Consiglio e Nasi ministro della Pubblica Istruzione. Verso la fine dell’anno 1955, Bergamini ruppe il silenzio e scrisse un «elzeviro» di pregevole valore storico che aprì la terza a quattro colonne: «La sua ombra torna dopo cinquant’anni a Roma», il titolo. Era il 4 novembre. E Bergamini spiegò con estrema chiarezza che l’idea del monumento seguiva il dono da parte della Germania di una statua di Wolfang Goethe dopo la visita dell’Imperatore Guglielmo per «ravvivare e ristringere il legame della Triplice». Poi arrivò a Roma il Presidente della Repubblica Francese Loubet e seguì da Parigi una bella lettera di Victor Hugo: la cultura italiana sembrò destarsi, perché sia Goethe che Hugo erano presenti in mezzo busto, con altri poeti e uomini illustri, a Villa Borghese.

IL BORGHESE Bergamini non dimenticò di ricordare la nascita della «Casa di Dante», creata da Sidney Sonnino l’editore del giornale - per il continuo impulso della Regina Margherita e non perse opportunità di raccontare per filo e per segno, nei minimi particolari, proposta e naufragio dell’idea di creare, per onorare il padre della nostra lingua, una cattedra alla «Sapienza» città università romana, con un solo candidato - largamente condiviso - del Ministro Coppino, Giosuè Carducci. Leggiamo Bergamini. «Il Carducci rifiutò la cattedra in maniera cortese e ferma, allegando motivi di famiglia, di salute, di età: anche motivi sentimentali che lo stringevano al suo nido di Bologna, alla città da cui era stato accolto con fiducia e benevolenza, giovanissimo, a 25 anni, quando il Mamiani (novembre 1860) presagò quel fiorente genio, lo lanciò docente di lettere italiane nell’illustre ateneo della “Alma Mater Studiorum”, lo lanciò dal modesto liceo di Pistoia: che fu da parte del Mamiani, un felice ardimento, forse la pagina migliore, più meritevole del buon filosofo pesarese che faceva versi anche lui, onde la sua molta ammirazione per Giosuè Carducci. Il quale aveva nel cuore gratitudine e affetto per Bologna che, di ricambio, fortemente l’amava e lo desiderava: in due giorni si raccolsero 6.000 firme di cittadini petroniani che lo pregavano rimanere fra loro, ed egli non volle abbandonarli.» Secondo Bergamini c’era dell’altro nel «no» di Carducci. In quei tempi era polemica dura tra il liberalismo e il partito clericale, una «polemica acre» che coinvolgeva il Vaticano dal giorno di Porta Pia. «La scelta del Carducci per leggere e commentare alla ‘Sapienza’ la Divina Commedia poteva destare, nei cattolici e nelle loro gerarchie, apprensione e contrarietà.» Questo era il pensiero di Bergamini sul «no» di Carducci. Ci fu quasi una gara a scrivere al poeta delle Odi Barbare per convincerlo; ma fu inutile insistere: sopraggiunse una lunga e complicata crisi governativa e l’idea della cattedra lentamente tramontò. Una curiosità. L’articolo di Bergamini del novembre 1955 aveva insolitamente una postilla, dopo la firma, in un carattere superiore a quello usato normalmente per le firme, e c’era scritto: «Continuano a pervenirci, da ogni parte d’Italia,

63 adesioni di illustri personalità desiderose di contribuire con la loro parola alla realizzazione dell’opera auspicata dal Giornale d’Italia. Per mancanza di spazio siamo costretti a rinviare a domani la pubblicazione di parte delle numerosissime lettere giunteci, tra le quali quella del Sindaco di Firenze prof. La Pira, del Sindaco di Sala Consilina dottor Michele Marrone, del direttore del Corriere della Sera Mario Missiroli, del prof. Ferulli fondatore della ’Dante’ in America e già presidente del direttivo della ‘Giovane Italia’ di Foggia e dell’avv. G. Borrelli-de Andreis, consulente dell’Eur». Dieci anni fa ho messo insieme la storia delle terza di Bergamini in un libro edito da Pagine e concludevo così il capitolo della rievocazione dantesca. «I monumenti dedicati ai grandi della storia sembrano far parte della storia stessa del Giornale d’Italia. Anche nell’autunno del 1943 (7 ottobre) il quotidiano si impegnò e prese posizione per un obelisco, o un monumento, a Giuseppe Mazzini, specificando che, in attesa della realizzazione dell’opera affidata all’architetto Ettore Ferrari, i mattoni erano conservati in un convento dell’Aventino e all’Aventino, poi, in tempo di pace, effettivamente, fu realizzato il monumento a Mazzini. La caduta della monarchia, evidentemente, e la nascita della Repubblica Sociale, avevano riacceso ardori e sentimenti mazziniani e repubblicani.»

Alberto Bergamini in una foto del secondo dopoguerra


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IL BORGHESE

CASSIBILE 1943 - A 70 ANNI DALLA RESA

Festa per un tradimento di ENZO SCHIUMA

FESTEGGIARE la Sicilia definendola «La Normandia d’Italia», come anticipato dal Corriere il 2 settembre scorso, è un insulto ai tanti nostri soldati caduti combattendo dal ‘40 al ‘43. Dallo stesso Corriere, è riportato che il 25 aprile verrà inserite nel quadro celebrativo del 150° dell’Unità d’Italia. Se vero, con il ricordo ancora vivo delle migliaia di fascisti, civili e militari, massacrati dai partigiani a guerra finita , è un’offesa alla storia italiana che non può essere tollerato. Soltanto un dignitoso silenzio può onorarne il ricordo. Silenzio, reso doveroso anche dal fatto che, nell'ambito dei festeggiamenti unitari, promossi dalla Regione si è dato corso a celebrazioni laudative dell’armistizio di Cassibile. Siamo matti? Quello che avvenne è un’infamia di cui dovremmo soltanto vergognarci, non festeggiare. È mai possibile che tutta la Sicilia creda che il Fascismo sia stato una malattia da cui liberarci e che un intero popolo di imbecilli non si sia accorto di nulla? Il governo non si è accorto di come si rinnega il nostro passato? Quale difesa hanno adottato contro l’antiitalianità, chiamata antifascismo? Nessuno s’è mai chiesto quanti danni ciò provoca ai nostri ragazzi che nelle scuole non conoscono alcun esempio di italiano di cui andar fieri, perché magari è fascista ed è vietato? È possibile che vi sia tanta ignoranza, nei media, da non capire che le disgrazie subite dal popolo italiano in tante città, siano state determinate dalle iniziative dei «liberatori» per farci desiderare la resa? Nessun politico, oggi, ha il coraggio di ricordarlo. Per capir meglio quello che realmente successe scorriamo alcuni articoli significativi. Il primo, dal titolo «La Normandia d’Italia», dove l’articolista, compiaciuto della similitudine con l’altro sbarco del 1944, dimentica che l’Italia non era come la Francia, alleata dell’America, ma della Germania, così inizia: «Nell’estate del 1943 si svolse il primo sbarco alleato in Europa. La più grande operazione anfibia della storia con 180 mila uomini trasportati da cinquemila navi.

«Lo sbarco avvenne alle 2.45 della notte del 10 luglio 1943 a partire dalla punta estrema della Sicilia, cioè Portopalo di Capo Passero. Ottanta chilometri fino a Siracusa, lungo i quali si contarono sessantamila tra morti e dispersi italiani, tedeschi, americani e inglesi». Questi ultimi costituivano la gran parte del corpo di invasione sulla costa orientale della Sicilia: 125 mila uomini della 8° armata britannica al comando di Montgomery; 55 mila gli americani della 5°, al comando del Capo della spedizione, Patton. A metà percorso, quando ormai l’isola era conquistata, a Cassibile, il 3 settembre del ‘43, «venne firmato dal generale italiano Giuseppe Castellano, inviato da Pietro Badoglio, l‘armistizio segreto alla presenza del comandante in capo, generale Dwight Eisenhower, che precedette di cinque giorni l’annuncio ufficiale dell’8 settembre» comprensivo «del cambio di fronte dell’esercito italiano». Cioè contro l’alleato tedesco. Nel pomeriggio dell’8, a Cassibile, si è svolta la rievocazione storica dello sbarco con figuranti in divisa d’epoca e mezzi militari per le vie del paese nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Prove generali in vista delle solenni celebrazioni del 70° anniversario dello sbarco del 2013, presente il Capo dello Stato. Per quella data sarà in funzione il Museo etnostorico dell’armistizio che il 12 aprile il comune di Siracusa (di cui Cassibile è una frazione), guidato dal sindaco, ha creato per integrare la storia nella variegata offerta turistica che il territorio offre. E farne così un luogo di memoria degli eventi che hanno portato il nome di Cassibile alla ribalta della storia moderna. Certamente sì, se «Cassibile» non significasse, alla lettera, l’insaccamento in cassa da morto di quanti nell’armistizio, per quel che significa, vi hanno perso la vita. Vogliamo onorarli? Se sì, cominciamo a dire allora che fino ad oggi è stata del tutto taciuta la strategia del generale d’aeronautica inglese Arthur Harris, il pianificatore dei bombardamenti alleati, a cui fonti di intelligence avevano riferito che

Dicembre 2011 contrariamente a quanto avveniva in Germania e in Giappone, il massacro di civili in Italia non si traduceva in odio contro il nemico, ma in «avversione al fascismo che aveva voluto la guerra», per cui non era inteso dagli USA come un mancato bersaglio, ma come un bersaglio centrato. La stessa cosa, con variante molto significativa, l’ha scritta Aurelio Lepre, in un articolo sul Corriere della Sera del 28 settembre 2007, dal titolo «Guerra ai civili, bombe alleate e stragi naziste», dove, a proposito della strategia del generale Harris, precisa che «i bombardamenti erano rivolti a “distruggere i nervi e a far crollare il morale del popolo italiano”, come fu scritto in un rapporto redatto dopo che Mussolini era già caduto, nell’agosto del 1943». Il che ristabilisce in modo netto e inequivocabile l’intera verità storica: gli Americani non liberarono nessuno e non fecero la guerra al fascismo, ma all’Italia e al popolo italiano. Altra cosa deliberatamente taciuta, la strategia del generale Patton, il quale dispose, finché non si fossero consolidate le teste di sbarco, di fucilare tutti i soldati italiani e tedeschi catturati con le armi in pugno. L’ordine - riferisce Gianluca de Feo, nei suoi articoli sul Corriere del 23 e 24 giugno 2004 - fu perentorio e diceva testualmente: «Uccidete tutti quelli che troverete con le armi in pugno, gli altri quando lo sapranno, si arrenderanno senza combattere». Che la cosa sia vera lo conferma il deferimento alla Corte Marziale dell’agosto 1943, promosso dal cappellano americano King nei confronti dei responsabili. Inspiegabile che il generale Patton non fu mai incriminato. I principali accusati furono il Capitano Compton e il sergente West, suoi vicini collaboratori, che, processati il 23 ottobre di quello stesso anno, saranno assolti perché riusciranno a dimostrare di aver eseguito, in zona d’operazioni, gli ordini loro impartiti dai diretti superiori. I delitti loro ascritti raggiunsero il numero di 220, ma si calcolano in molte migliaia quelli che, non sottoposti a denuncia, non ebbero annotazione di morte, poiché «ritenuta accidentale» e avvenuta in zone d’operazioni. Fu un fatto di estrema gravità di cui si macchiò l’esercito degli Stati Uniti, mitigato in parte dall’intervento della Corte Marziale, ma a risultato militare già avvenuto. Di vergognoso c’è invece il silenzio consapevole dei politici italiani che nascosero deliberatamente i fatti, rimasti ignoti fino a pochi anni fa.


IL GIARDINO DEI SUPPLIZI IN QUESTO MONDO DI IPOCRITI

Meglio «frocio» che «ciccione» di PIETRO DEL TURA ALL’INFERNO i ciccioni! La loro è, infatti, l’unica categoria antropologica e sociale che non ha diritto di cittadinanza nell’universo del «politicamente corretto», tollerante ed ecumenico per definizione. Da anni, ormai, tutte le minoranze in odore di discriminazione hanno trovato ampie tutele legislative e perfino lessicali. In Italia, per esempio, si può dire pane al pane, ma non frocio al frocio, che è diventato, molto leggiadramente e con sua presumibile soddisfazione, un «gay», ovvero un «gaio». Per la vulgata popolare, notoriamente refrattaria al «politically correct», è rimasto un «ricchione», ma l’importante, come si sa, in certi casi è salvare la forma. L’handicappato è stato poi tramutato in un «diversamente abile» mentre lo zoppo è diventato un claudicante e il nano un «verticalmente svantaggiato». Il negro (dal latino niger=nero) non si sa per quale motivo non possa essere chiamato negro, ma deve essere definito esclusivamente «nero», altrimenti si offende. «Bongo Bongo», per dirla alla Borghezio, evidentemente non ama il latino. Soltanto per l’obeso, che tutti possono impietosamente e impunemente definire, «ciccione», «palla di lardo» e «rotolo di coppa» non esiste alcuna tutela giuridica e neanche una qualche forma di dissuasione morale che eviti la possibilità che venga offeso. Esiste infatti, da sempre, la radicata convinzione che l’obeso sia tale esclusivamente perché mangia troppo. Di fronte ad una pancia badiale, a dei fianchi lardellosi e ad un paio di chiappe extralarge, l’immaginario collettivo evoca immediatamente abbuffate trimalcionesche e crapule faraoniche. In realtà ben pochi, tra i «ciccioni», si abbuffano di cibo. La verità è che l’obesità è una malattia dalle cause molteplici e spesso ignote ed è, di conseguenza, difficilmente curabile. Ma il pregiudizio, a quanto pare, è duro a morire. Lo testimonia la

vicenda, accaduta in Scozia qualche tempo fa. Nella cittadina di Dundee quattro bambini tra gli 11 e i 15 anni sono stati portati via dagli assistenti sociali e dati in affidamento in via definitiva perché obesi. E potrebbero non rivedere più mamma e papà. «Forse non siamo dei genitori perfetti», ha detto in lacrime la mamma, 42 anni, al Mail On Sunday, «ma amiamo i nostri figli con tutto il cuore. È insostenibile pensare a un futuro senza di loro. Ci hanno preso di mira per via della nostra stazza e non ci hanno più lasciato andare. Vi giuro che abbiamo fatto di tutto per perdere peso. Sembra quasi che persino i criminali abbiamo più diritti umani di noi». Il caso ha creato scalpore e una bufera di polemiche in Gran Bretagna. I due genitori, col dolore nel cuore, ricorreranno se è necessario anche alla Corte Europea dei diritti dell'uomo. La coppia ha sette figli, tutti obesi. Nel 2008, era arrivato il primo ultimatum dei servizi sociali per sei bambini: il dodicenne pesava cento chili mentre sua sorella, 11 anni, raggiungeva i 76 e la piccolina di tre anni i 25. A madre e padre era stata data un'ultima possibilità: far dimagrire i figli con un'alimentazione sana e mandandoli a lezione di calcio e danza. Tutto inutile. I bambini erano stati dati in affidamento. Ma in seguito alle proteste dei genitori, il Comune aveva deciso di dar loro una nuova possibilità, l'ultima, per non perdere i propri figli: la famiglia intera era stata sottoposta a un controllo in pieno stile «Grande Fratello», con gli assistenti sociali pronti ad analizzare quotidianamente gli errori dei genitori, con un coprifuoco alle 11 di sera. «Li hanno fatti vivere sotto un microscopio, accusandoli in continuazione di non essere all’altezza», ha detto l’avvocato difensore Joe Myles. «Mangiare con qualcuno che ti guarda è intollerabile», ha detto il capofami-

glia che pesa più di cento chili e ha 56 anni. «Ci hanno trattato come bambini e tagliato fuori dal mondo. Noi abbiamo fatto di tutto: mia moglie ha cucinato cibo sano, abbiamo abolito gli snack e dato ai bimbi dolci solo il sabato. Ma nulla è bastato.» L'esperimento è fallito. i quattro bambini più piccoli, tre femmine e un maschio, sono stati dati di nuovo in affidamento, in via definitiva. I tre fratelli rimasti a casa sono disperati. «Si dovrebbero vergognare», ha dichiarato una delle sorelle. «Il peso è una questione personale e non riguarda gli assistenti sociali. I miei genitori sono della brava gente. Cosa succederà ora ai miei fratelli più piccoli?» La «linea», insomma, vale più dell’affetto di due genitori che, a parte qualche chilo in più, non sembrano avere altre «colpe». Per il giornalista e deputato del PDL Renato Farina quello che si è verificato in Scozia è «un grave caso di “obesofobia”». «Ormai», sostiene Farina, «siamo alla persecuzione contro le persone considerate troppo grasse sulla base di parametri infallibili non più salutistici ma morali. Perché la salute, l’immagine e l’igiene si sono trasformate in divinità bisognose di sacrifici umani. E i grassi vengono trattati come esseri umani deficienti, incapaci di controllare pulsioni elementari. Può essere. Non si capisce perché non resistere alle tentazioni sia un problema sociale solo se c’è in ballo una pastasciutta. Se una donna desidera una ragazza e se la prende, si grida: viva i sentimenti. Se poi adottano un bimbo, ecco il giurista: è un diritto. La sfortuna della coppia di ciccioni è che non sono dello stesso sesso, altrimenti sarebbero stati difesi da Canale 5 e dal Comitato diritti umani. Se fossi il loro avvocato consiglierei alla madre di definirsi transgender, e di prendersi il nome d’arte di Goduxia». In questa invettiva, per la verità, c’è un leggero conflitto d’interesse. Il buon Farina, in effetti, oltre ad essere un cattolicone blindato è anche, come dire?, un po’ «rotondetto». Bisogna però riconoscere che la sua acredine non è immotivata. La discriminazione nei confronti degli obesi sta infatti raggiungendo livelli parossistici in tutto il mondo. Negli USA, patria delle mode sociali più assurde e cretine, la compagnia aerea Southwest - per fare degli


66 esempi - si riserva il diritto di far pagare due biglietti a ogni passeggero obeso. E l'università Lincoln in Pennsylvania avendo il numero chiuso seleziona gli studenti anche in base al peso. Lo Stato del North Carolina fa pagare una sovrattassa per l'assicurazione sanitaria ai dipendenti pubblici troppo grassi. E certe agenzie per le adozioni rifiutano candidature di genitori sovrappeso. Anche in Italia, comunque l’obesofobia fa le sue vittime. Qualche tempo fa il giornalista Mario Adinolfi che, in quanto egli stesso persona in sovrappeso, aveva difeso in televisione gli obesi perché discriminati per la loro diversità, è stato brutalmente aggredito a Roma. Gli aggressori erano quattro giovani teppisti che lo hanno assalito al grido di «Menamo ar ciccione della tv». La palma dell’imbecillità in materia di luoghi comuni sull’obesità rimane comunque saldamente nelle mani degli Americani. Dagli USA arriva infatti la notizia che tutti coloro che stanno attenti alla linea hanno un nemico insospettabile, la religione. Secondo i risultati di uno studio della Northwestern university i giovani più legati alla Chiesa sono anche quelli che con più probabilità saranno obesi da adulti. La ricerca, presentata ad uno dei meeting della American Heart Association, ha studiato i dati di più di 2400 persone, scelte tra i partecipanti allo studio Coronary Artery Risk Development in Young Adults, per 18 anni. Evidentemente è impossibile resistere al «boccone del prete». La lotta all'obesità ha comunque assunto negli States i toni di una isterica crociata. Secondo alcuni «talebani» del «peso forma» il problema non riguarda soltanto adulti e bambini, ma anche i cani. Oltre la metà dei cani americani, ovvero 35 milioni, è sovrappeso. La mancanza di attività fisica o il mangiare eccessivamente grasso - secondo questi integralisti della dieta - fa sì che anche i migliori amici dell'uomo negli USA siano obesi. E per correre ai ripari si studiano soluzioni tipo quelle adottate dagli umani. A lanciare una nuova iniziativa per una più corretta alimentazione canina è Alison Sweeney, la conduttrice del popolare reality show per favorire la perdita di peso The Biggest Loser. Sweeney ha dichiarato che intende utilizzare la propria esperienza con gli umani per far dimagrire anche i cani. Anche i nostri amici a quattro zampe dovranno insomma stringere… il collare. Ah, politicamente corretto, quanti delitti si commettono in tuo nome!

IL BORGHESE

Dicembre 2011

NOSTRA SIGNORA TELEVISIONE

Quante «comparse» strappate alla politica! di LEO VALERIANO È INIZIATO il mese delle feste di Natale e fine d’anno, che coincide con quello dei regali. Non c’è molto da festeggiare, di questi tempi, e come regalo ci si contenterebbe di comprendere come stanno veramente le cose, intorno a noi. Evitando di essere presi in giro, cosa che avviene ogni giorno. Dovrebbe essere un compito affidato soprattutto ai media e innanzitutto della televisione, se non fosse che sono proprio i «padroni» della televisione a desiderare che si capisca poco. Spiegare la verità completa sui motivi che causano gli sconquassi economici a cui stiamo assistendo non è soltanto difficile, ma molto impopolare. E allora, la gente tenta di trovare risposte come e dove può. Insomma, le persone sentono la necessità di comprendere, per decidere come indirizzare la propria vita e quella della proprie famiglie. Questo evidente bisogno, però, non spinge chi ne avrebbe la capacità a soddisfarlo. Al contrario, anche questa è diventata una fonte di «affare» enorme. Lo è per i giornali, per l’editoria in genere e, soprattutto, per le reti televisive. Di conseguenza, i vari programmi di confronto politico sono aumentati a dismisura. Addirittura su La7, questo genere di trasmissioni occupa più del 50 per cento delle programmazioni. Per fortuna, a parlare di politica, restano ancora personaggi come Crozza e Grillo che sono dichiaratamente dei «comici». Anche se la differenza, poi, non è così marcata. Evidentemente, i dirigenti delle reti, hanno capito benissimo il senso di questo nuovo giochino, e quindi hanno completamente infarcito le proprie reti con programmi di «approfondimento» che non approfondiscono nulla ma danno il senso di una grande democrazia. Ciò che rende ancora più appetibili programmi del genere, almeno per i programmatori televisivi, è il fatto che per crearli basta una manciata di donne e uomini prestati alla TV, dalla politica, dal sindacato e dall’economia. E che queste signore e questi signori pagherebbero, addirittura, per apparire in

televisione. Perché, come dice un certo slogan «esisti solo se visto in TV!». Per questa gente, quella di proporsi come mezzo busto televisivo, è diventata la principale attività: fare conferenze, scrivere libri, ottenere voti, vendere prodotti, tutto insomma. Il risultato di tutto questo è che, logicamente, i telespettatori continuano ad essere confusi e soltanto pochi comprendono che, anche queste trasmissioni, fanno parte di quel teatrino di marionette i cui fili sono tirati altrove. Nel corso di questi programmi, per farsi notare un po’ di più, gli insulti si sprecano. Come quando Barbacetto, giornalista d’assalto, ha definito l’allora Capo del governo, Silvio Berlusconi, come «un ridicolo ometto». L’attrazione della televisione sulla politica, è diventata tale da coinvolgere persino i grillini del movimento cinque stelle, nuovo exploit politico del calderone mediatico, i quali hanno serenamente dichiarato di «non volere apparire in TV». E lo hanno fatto proprio in televisione. A rendere ancora più confusa la situazione, ci pensano alcuni esponenti politici che, forse per rendersi ancora più interessanti agli occhi (e alle orecchie) dei telespettatori, assumono posizioni che sono in contrasto con quelle ufficiali dei propri partiti. Fanno dichiarazioni «a titolo personale», avvicinandosi sempre più a quanto sostenuto dall’altra parte politica e affermando che proprio in questo, è il succo della democrazia. Gli esempi non mancano. Il risultato è che, se ci guadagna la democrazia (come dicono), non ci guadagna certamente la chiarezza. Figuriamoci se, con l’aria che tira, quel volpone chiamato Santoro non sarebbe di nuovo uscito dal suo letargo. Per iniziare si è appoggiato alla concessionaria Publishare per la raccolta pubblicitaria del suo programma partito in novembre su un network di tv che coprono tutto il territorio italiano, con un segnale digitale terrestre, analogico e, in alcuni casi, anche satellitare. E non si è limitato alla televisione. Anche


Dicembre 2011 Radio Capital si collega con Servizio Pubblico, per trasmettere il Verbo santoriano. L’aspetto comico di tutto questo è che una buona quantità di persone, ha versato l’obolo richiesto dal conduttore, per varare la sua nuova avventura. Sono cifre da capogiro quelle che Santoro e il suo gruppo sono riusciti a raccogliere nel giro di pochi giorni. Ben 400 mila euro, somma che la stessa Giulia Innocenzi, presidente di Servizio Pubblico (quella che cura la trasmissione di Santoro), ammette di non aver mai pensato di racimolare neanche mentre «sognavano ad occhi aperti». Non sono fantasie, ma numeri reali. Reali come i numeri che in poco tempo il sito di Servizio Pubblico ha registrato, con circa 300 mila ingressi unici e oltre mezzo milione di pagine visualizzate, senza considerare il contatore dei fan su Facebook che viene incrementato di ora in ora. C’è molta curiosità, senza dubbio, ma anche molta voglia di avere delle risposte ai grandi quesiti. Peccato che non possa essere proprio Santoro a darle! Intanto, anche se fatto in assoluto silenzio, la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione per Berlusconi nell'inchiesta sulle presunte pressioni esercitate nel 2009 per evitare la messa in onda di Annozero. Analoga richiesta è stata fatta per Mauro Masi, ex Direttore generale della RAI, e Giancarlo Innocenzi, ex commissario Agcom. A chiedere l'archiviazione sono stati il procuratore Giovanni Ferrara e l'aggiunto, Alberto Caperna. Che si stia vivendo un periodo di follia collettiva, lo si nota da diverse cose: l’assalto ai supermagazzini che annuncino prezzi scontatissimi. La presenza di gruppi di guerriglieri nei normali cortei di protesta, senza che i normali partecipanti facciano qualche cosa per isolarli o identificarli, annullando, così, il significato delle stesse proteste. Il fatto che ci sia un’unica multinazionale, produttrice di yogurt, che vende lo stesso yogurt con diversi nomi ed etichette, ognuna delle quali dovrebbe curare malattie e malformazioni completamente diverse: Vita snella, Actimel, Danaos, Danacol, Danette, Danito, Activia e così via. Ma anche che la gente non si accorga di niente. Poi ci sono i saldi fasulli e i continui aumenti del carburante alla pompa, senza giustificazione e senza che nessuno si lamenti seriamente. Insomma, l’anno vecchio se ne va e noi ci prepariamo ad iniziare quello nuovo. Senza evidenti novità ma, soprattutto, con maggiore confusione.

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NUOVO CINEMA NAZIONALE

La Rivoluzione Valsecchiana di MICHELE LO FOCO IL SUCCESSO dei Soliti idioti decreta e se vogliamo ufficializza il passaggio al nuovo cinema nazionale. Taglia questo traguardo un produttore non nato per il cinema, estraneo al ristretto cerchio magico dei produttori che contano, ma incredibilmente bravo a superare tutti, e di molto, negli incassi. Non che Valsecchi sia uno che non conosca il prodotto, avendo dimostrato quanto può valere in euro una società televisiva come la sua ricca di format e di avviamento. Ma nessuno poteva sospettare che sotto la cenere covasse un rivoluzionario. Avendo fatto molti soldi con la vendita della Tao2 si è trovato nella condizione ideale per lanciare la sfida: casse piene e Medusa alle spalle, anche se, all’interno, non tutti vedevano di buon occhio i suoi tentativi. In realtà, in qualche misura, era uno che rompeva le uova nel paniere. Ma il tentativo gli è riuscito, con una formula segreta che segreta non è più al secondo colpo. Invece di inventarsi storie, soggetti, alla ricerca di incrociare il gusto e le tendenze del pubblico, Valsecchi ha fatto il contrario: cosa piace ai giovani? Ecco, produco quello che ha già successo, ché è già su internet, che non ha bisogno di verifica, che è già. Nessun attore, nessuna sceneggiatura pomposa, ma molto di quello che piace ai ragazzi, a costo di far rabbrividire i critici o di far svenire i cinefili. Così Checco Zalone e gli Idioti fanno impallidire Verdone o Pieraccioni, schiantano Salemme e Boldi, umiliano la Comencini, il Faust e Sorrentino. Nasce il nuovo cinema del 2011, quello che rivoluziona i giochi. La Gerini fa 15.000,00 euro in tutta Italia e i Soliti Idioti 10.000,00 euro a copia, saltano gli schemi, i ragazzi sono al centro del gioco. Non c’è più noleggio, ci sono quelli nuovi, non ci sono attori da fiction, ci sono personaggi che smitizzano, facce che dicono parole diverse, insulti diversi, concetti diversi. È la realtà internet che stronca il vecchio giro polveroso di quegli atto-

ri di cui non interessa più nulla a nessuno. Avevo detto qualche articolo fa che il pubblico si è stufato di vedere le stesse facce che indossano panni diversi: un giorno un ispettore, il giorno dopo un santo, il terzo un carabiniere. Quando la credibilità cade, si crea il vuoto ed è lì che la fiction crolla con le sue storie esasperate, con quella scontatezza che ormai annoia anche gli anziani. Valsecchi lo ha capito, lui che di fiction se ne intende, e nel cinema ha scelto la brutalità dei dialoghi non convenzionali, della comicità offensiva che i giovani sentono più vera, meno paludata, in una parola meno vecchia di quella di De Sica. Il cinema si paga, non è gratis, non è invasivo: il 70 per cento degli spettatori sono giovani, il 50 per cento dei cittadini non va mai in sala, il 38 per cento di quelli che ci vanno coprono l’80 per cento dei biglietti. Il mercato è in recessione: quest’anno, in questo momento, siamo forse a meno venticinque per cento. Si sente nell’aria che quel cambiamento di stile, di tecnica, di contenuti non è più soltanto una novità ma una necessità per ridare fiato ad un’arte ormai invecchiata sull’orlo di una trasformazione tecnologica di grandi proporzioni. Valsecchi rimarrà isolato o trascinerà il mercato? Credo in questa seconda ipotesi, se non altro perché è sinonimo di incassi.


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AL «FESTIVAL DI ROMA»

Sorrisi di circostanza di FRANCO LUCCHETTI LA POLITICA stia pure tranquilla. Il «Festival del Cinema» di Roma non è in competizione con quello di Venezia. Semplicemente perché non è paragonabile alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica della città lagunare; la sola, in Italia, in grado di competere con Cannes e le più grandi manifestazioni del mondo. Se vedessimo in dettaglio com’è andata la sesta edizione di questo Festival e se prendessimo in considerazione i numeri per farne argomento di discussione di asettiche considerazioni finali, vedremmo che c’è un’indubbia crescita rispetto agli anni passati. 123.000 spettatori contro i 118.000 dell’anno passato, 472.000 euro d’incasso con la vendita dei biglietti, il 95 per cento dell’occupazione delle sale, 8.510 accreditati, 192 scuole di Roma e Provincia coinvolte, 15.717 alunni, 110 film proiettati nelle selezioni ufficiali, 42 nazionalità dei film, 510 proiezioni totali, 12 incontri, etc. Inoltre, un buon numero di personale addetto alle varie mansioni che hanno fatto del Festival di Roma una buona occasione per aumentare l’occupazione temporanea. È evidente che il Festival, aumentando gli utili attraverso i numeri rispetto agli anni passati, è stato un successo. Ma la manifestazione si presenta per lo più come un «mercato del cinema», una «festa» del cinema di città per il pubblico cittadino che per circa una settimana ha vissuto il Parco della Musica probabilmente più per una curiosità propria dei romani che per l’interesse verso un cinema di qualità sempre meno considerato dalla stampa estera e sempre più ricca di pellicole che potevano essere tranquillamente evitate o comunque non adatte ad un Festival Internazionale del cinema che era nato per competere con quelli di Cannes o Toronto. Considerati i numeri, vediamo che la manifestazione di Roma ha delle potenzialità enormi ma in buona parte non sfruttate. C’è lo stanziamento,

anche se ridotto; c’è la struttura organizzativa, che comunque è riuscita a portare gente nelle sale e ad avvicinare le persone di tutte le età al cinema, gli ingranaggi e la benzina di questa macchina ci sono anche, ma è la politica che è sbagliata. Troppe sezioni, troppi film e un programma che alle volte risultava non perfettamente gestibile, quasi lento. Soprattutto, troppe pellicole di medio livello; che mal si sposano con un Festival Internazionale che aveva grandi pretese. (e possiamo dire che, nelle primissime edizioni, queste pretese le avevano quasi raggiunte. Forse meno biglietti, meno numeri, ma il respiro era comunque più ampio e più alto, e sicuramente più di qualità.) Fin dall’inizio, era chiaro che l’impostazione voluta dall’Amministrazione Alemanno era diversa. Ma anche se i numeri sono cresciuti, la qualità media dei film rimane scadente, e per riprendere un articolo di Cinzia Romani apparso su Il Giornale, «Il pubblico applaude per non rovinare la festa». In alcune giornate, è stato un festival povero e con un red carpet mai così povero di divi. Fin dall’inizio era stato detto che i divi non interessavano più come le precedenti edizioni, ma di pari passo anche la qualità della manifestazione ne ha risentito. Il Festival di Roma è un grande appuntamento culturale e mondano, che la città ha ormai fatto suo, e a cui la cittadinanza romana è ormai affezionata; l’ha inserito nella propria agenda degli appuntamenti, l’ha promosso, e anche pubblicizzato. La manifestazione, però, deve tornare alle sue antiche origini. «Festa», nel vero senso della parola, semplificando magari il programma con un’unica sezione che abbia al suo interno «In Concorso» e «fuori Concorso» e soprattutto raccogliendo il meglio del cinema mondiale, anche se già apparso in altri Festival in giro per il mondo. Dimenticando la regola di cercare soltanto le anteprime mondiali e i film in esclusiva, perché questa politica sba-

Dicembre 2011 gliata della manifestazione di Roma, il voler essere «diversi», rivela una provincialità basata soltanto sul voler essere «diverso». Essendo un Festival di città, dovrebbe preoccuparsi di portare i migliori film che ci sono in giro per il mondo a prescindere se siano stati presentati in altre città e in altre manifestazioni; portare film che la gente non vedrebbe nei cinema durante l’anno e quindi aggregare ancora più pubblico, avvicinando ancora più persone al cinema, non soltanto i romani ormai abituati all’appuntamento autunnale, ma anche gente da altre città di Italia e d’Europa attratti da film eccezionali, come a Venezia e Cannes. Impostare in questo modo un Festival dalle potenzialità enormi con milioni di euro di budget (anche se ridotto) e con una struttura molto ampia (più di 4mila posti, la metà di quelli di Venezia) è un’autolimitazione che non ha molto senso e rischia, durante la fase di ricerca di pellicole che non sono state presentate altrove, o che non sono state selezionate in altri Festival (per ovvi motivi), di fare una programmazione mediocre, creando attenzione su film certamente non tra i migliori in quel momento sul mercato. Le pellicole buone di questa edizione 2011 del Festival si contano sulle dita di una mano, e su tutti spicca come buon film (non ottimo, in ogni caso) Tyrannosaur, opera prima di Paddy Considine; unico, vero film che alzava un po’ la qualità a questo Festival. Altre pellicole discrete riguardavano commedie che altri Festival importanti non selezionavano, o selezionavano meno. Le anteprime mondiali di qualità e i film in esclusiva andranno per ora a Venezia e Cannes. State tranquilli, Venezia è un altro pianeta.


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«ALL’ARMI, SIAM FASCISTI»

Alla ricerca del consenso goduto di FABIO MELELLI CI SONO film che a cinquant’anni dalla loro realizzazione sono ancora capaci di indurre interessanti riflessioni nell’opinione pubblica, travalicando gli stretti confini dello specifico cinematografico. È il caso di All’armi siam fascisti!, un documentario di lungometraggio diretto nel 1961 da Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè, oggi riproposto in una lussuosa edizione dvd ricca di extra e materiali aggiuntivi curata dal critico Bruno Di Marino. Qual è il motivo dello scandalo, che allora portò i tre cineasti sul banco degli imputati? In quel 1961, in un’Italia governata da un monocolore dc, guidato da Fanfani, il film venne rifiutato alla Mostra di Venezia e proiettato nella lagunare «Sala Volpi» presa in affitto dalla produzione al costo simbolico di una lira. Pur essendo un documentario apertamente «schierato» a sinistra (Miccichè è stato per anni il critico de l’Avanti, giornale con il quale collaborava anche l’autore del testo di commento, Franco Fortini), con una tesi precostituita da dimostrare, l’opera restituiva la dimensione istituzionale del fascismo, mettendo in rilievo gli elementi di continuità tra Ventennio e dopoguerra, cercando di essere un’opera più storiografica che propagandistica. Agli autori interessava un’analisi politica delle ragioni dell’ampio consenso che il regime aveva goduto, in tutti i settori della vita civile; in particolare, con taglio scopertamente anticlericale, puntando il dito sull’acquiescenza della Chiesa al regime. Il film fu bloccato per due anni dalla censura; le richieste dei tagli riguardavano soprattutto i rapporti tra Chiesa e Fascismo, «i vescovi con il braccio alzato nel saluto romano». Evidente l’intento didattico, esplicitato da Miccichè, che ricordava come il PSI volesse parlare del passato fascista per intervenire sulla politica del presente, mettendo in guardia le «coscienze democratiche» dalla crescita del MSI. Del Frà, già critico cinematografico di Cinema Nuovo (rivista diretta dal

comunista Guido Aristarco) e regista dell’ottimo Antonio Gramsci-I giorni del carcere (1977) con Riccardo Cucciolla nel ruolo del leader comunista, ribadiva nel 1966: «Tutto il cinema è, in ultima istanza, politico, da Ordet al musical, anche i western di Corbucci, anche i film di Ingrassia e del suo partner che non mi ricordo mai». Il cinema insomma, come strumento per veicolare un’ideologia, nel caso di All’armi siam fascisti! l’ideologia marxista. Non sorprende perciò che l’Istituto Luce si fosse rifiutato di mettere a disposizione i propri archivi e che i tre cineasti avessero dovuto andare nell’amica Jugoslavia e in Unione Sovietica per recuperare del materiale originale. Basta ascoltare il commento che accompagna le immagini di montaggio per farsi un’idea di quanto il documentario utilizzi ogni espediente retorico per contestare ogni singola iniziativa del regime fascista, imponendo di fatto allo spettatore un unico punto di vista. Oggi questi materiali di archivio, nei passaggi televisivi, sono improntati a un rigore «scientifico» completamente diverso. Le immagini di repertorio con la loro forza iconica non necessitano di verbosi commenti fuori campo, e l’approccio è quasi sempre lodevolmente disancorato da pregiudizi ideologici. All’armi siam fascisti! ci ricorda un periodo in cui la militanza dei cineasti «manipolava» (spesso con esiti anche molto interessanti, come nel caso del pienamente riuscito All’armi siam fascisti!) il documento rivestendolo con l’abito della partigianeria politica. Ciò naturalmente non significa mettere in dubbio l’abilità e la bravura di cineasti come Del Frà, Mangini e Miccichè (i primi due con Franco Fortini nel 1963 realizzarono un documentario su Stalin, dal quale tolsero la firma in seguito al rimaneggiamento effettuato dal produttore) ma collocarli anche nel contesto politico e ideologico, nonché storico, in cui si trovarono ad operare.

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MUSEO BARRACCO A ROMA

Comparando la scultura antica di NORMA HENGSTENBERG ACCINGIAMOCI a visitare uno scrigno di scultura antica: il Museo Barracco. Anche alla Mole Adriana è stato trovato un capolavoro di scultura antica - si tratta del «Fauno Barberini» che era venuta alla luce durante i scavi per fortificare il fossato del castello. Urbano VIII aveva fatto restaurare questo satiro dormiente dal Bernini ma nel 1815 un erede della famiglia Barberini lo ha ceduto al principe di Baviera e così oggi può essere ammirato nella «Gliptoteca» di Monaco. Ed è proprio qui che venne pubblicata la prima edizione del catalogo della Collezione Barracco, una collaborazione di Wolfgang Helbig, direttore dell’Istituto Archeologico Germanico e Giovanni Barracco, politico, alpinista ed appassionato di archeologia. Il Barracco, nato il 28 aprile 1829 a Isola Capo Rizzuto, a Napoli aveva conosciuto Giuseppe Fiorelli. Fiorelli era direttore degli scavi di Cuma e del Museo di Napoli e aveva dato inizio agli scavi di Pompei. Con lui il Barracco aveva modo di coltivare la sua passione per i studi archeologici. Ma soltanto con il suo arrivo a Roma nel 1870 il barone di discendenza normanna era diventato collezionista. Acquistò opere d’arte sul mercato antiquario e dai grandi scavi archeologici che coinvolgevano la nascente Capitale. Helbig aveva acquistato la «Fibula Prenestina» che è tra gli oggetti con le iscrizioni più antiche in lingua latina. Il primo museo, un edificio di gusto neoclassico progettato da Gaetano Koch, fu demolito col piano regolatore del 1938. Il più prezioso consigliere del collezionista, Ludwig Pollak, divenne direttore onorario del Museo. Pollak era nato nel ghetto di Praga e nel 1905 scoprì il braccio mancante del gruppo del Laocoonte in un piccolo deposito di frammenti antichi presso la bottega di uno scalpellino. Ma la sua sensazionale scoperta conobbe un lieto fine soltanto nel 1957 con la sostituzione del braccio. Il Pollak fu il primo Israelita a ricevere un’onorificenza da un pontefi-

ce, Pio X, che gli conferì la croce di commendatore. Ma Pollak morì nella deportazione dell’ottobre 1943. La biblioteca del museo, che dopo la demolizione dell’edificio di Koch trovò una nuova casa nella cosiddetta «Farnesina del Baullari», comprende 2.500 volumi. Nel suo archivio fu ritrovato un’opera del Pollak, Memorie Romane, una preziosa testimonianza dei collezionisti, mercanti d’arte e studiosi dell’epoca. Il palazzo di Antonio da Sangallo il Giovane poggia su un edificio di epoca tardo-imperiale, visitabile su richiesta. La Collezione Barracco offre un completo panorama del Mediterraneo antico. Conta 380 sculture di arte sumera, assira, egizia, etrusca, cipriota, greca, romana e medioevale. Al primo piano troviamo le opere dell’arte egizia, molte provenienti dall’Iseo Campense a Roma. Nella prima sala spicca la testa di un uomo in diorite che il Barracco riteneva un ritratto di Giulio Cesare. Dato che non è noto un ritratto di Cesare con la barba potrebbe anche raffigurare un sacerdote. Nella seconda sala si trova una clessidra di basalto a forma di vaso del terzo secolo a.C., con all’interno le tacche per la misura del tempo proveniente dall’Iseo Campense. È comune convinzione che la clessidra sia stata inventata dagli Egizi più di 3.000 anni fa; questo esemplare di primo strumento di misura del tempo, che si poteva effettuare indipendentemente dalle osservazioni astronomiche, è tra i meglio conservati e belli al mondo. Nella sezione sumera si trovano due statuette di bronzo (3000 a.C.). Una di esse raffigura il dio Ningirsu con una lunga barba e una corona in testa. Sul chiodo che la divinità tiene tra le mani è incisa la dedica per la costruzione del tempio di Lagash. Questi «chiodi di fondazione» venivano posti nelle fondamenta dei templi. Anche nella collezione assira si trova un’insolita opera. In merito alla cultura assira, siamo soliti di vedere

Dicembre 2011 quasi esclusivamente rappresentazioni di guerrieri e scene di guerra. Qui, invece, ci troviamo davanti ad un bassorilievo con cinque donne e un bambino nudo in un palmeto proveniente da Ninive - apparentemente un’inconsueta scena di pace. Soltanto di recente si è venuto a conoscenza che la lastra faceva parte di una scena più ampia che raffigura una deportazione da una città vinta. Nella terza sala del museo troviamo alcuni reperti dell’Etruria. Da Chiusi viene il cippo con base e tracce dei colori originali del 5° sec. a.C., con le scene di un rito funebre: l’esposizione della salma, il lamento, la danza, l’omaggio alla defunta da parte di amici e parenti, il dialogo della figlia con gli ospiti. Nella stessa sala troviamo anche alcune raffigurazioni del dio Bes, il dio apotropaico per antonomasia del pantheon egiziano che veniva adottato anche da altri popoli del Mediterraneo. La statua della divinità rinvenuta in una villa romana a Colonna, sui Colli Albani, probabilmente è stata lavorata in Egitto in epoca romana. Il nano mostruoso con la pelle di ghepardo sulle spalle ci mostra la lingua provocando l’effetto voluto e quindi andiamo avanti. Nella collezione è presente anche una piccola raccolta di statuette cipriote del 6° sec. a.C. Una di esse, un suonatore di doppio flauto, è raffigurato con la fascia di cuoio portata intorno alle labbra e sulle guance per evitare la dispersione dell’aria. Vicino si trova una quadriga con resti di vivaci colori rossi e verdi. L’equipaggio sembra essere costituito da madre e figlio ed era legato al mondo funerario o serviva come dono votivo per un santuario. Anche nella testa barbata cinta con una corona di alloro restano tracce di policromia. Questo ritratto con una particolare acconciatura di boccioli raffigura probabilmente un sacerdote. Al secondo piano incontriamo l’Arte Greca. Se il Hermes Kriophoros portatore di ariete - di Kalamis non avesse i lineamenti tipici dell’arte severa potremmo ritenerlo una raffigurazione del «Buon Pastore» ante litteram. Dello stesso stile severo troviamo un’altra statua, anch’essa legato al mondo animale. Secondo la leggenda istoriata Apollo Parnopios aveva salvata la città di Atene da un’invasione di cavallette. Questa copia di età flavia si riferisce ad un modello di Fidia, uno dei più grandi artisti dell’età classica. Dalla Collezione Castellani proviene


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uno dei primi tentativi di caratterizzazione fisionomica che ritrae il grande statista Pericle. Il ritratto forse apparteneva ad una statua eroica dell’Acropoli e mostra la nota lunghezza del cranio che egli aveva. Attraverso gli occhi dell’elmo corinzio si intravedono i capelli del politico ateniese. Nella 6° Sala possiamo ammirare originali dell’arte Attica del 4° secolo a.C.. Spiccano due lekythoi mirabilmente conservati che rappresentano il commiato tra due coniugi con la donna in piedi e l’uomo seduto, tendendogli la mano. Questo commiato tra un guerriero e sua moglie sembra voler suggellare con sobria enfasi il legame tra il mondo dei vivi con quello dei morti. Nelle Sale 7 e 8 troviamo l’arte dell’età ellenistica contrassegnato dal naturalismo realistico. Una replica della cagna ferita di Lisippo ci è nota attraverso la menzione di Plinio che la vide nel Tempio di Giove Capitolino. La torsione dell’animale in atto di leccarsi una ferita con grande veridicità esemplifica bene il linguaggio formale tipico dello stile del grande scultore. Nella 9° Sala, l’ultima del nostro percorso, troviamo un mosaico della decorazione absidale della primitiva S. Pietro che raffigura l’«Ecclesia Romana». Il Barracco lo aveva acquistato dalla famiglia Barberini. La sontuosità e lo sguardo ieratico di questa «Ecclesia Romana» la avvicinano alle raffigurazioni funebri dei tre personaggi della corte di Palmira del 3° sec. d.C.; soltanto i mille anni del Medioevo sembrano scostare questi personaggi che ci congedano. Salutiamo dunque questa straordinaria adunata di personaggi antichi col detto arguto del fondatore di questo museo, tra i più pregevoli della capitale: «PARVA SED APTA MIHI» («Piccola ma sufficiente per me»).

MUSEI

Gestione articolata di RICCARDO ROSATI CON Devolution, si intende principalmente «delegazione del potere». È curioso notare come un altro significato sia «degenerazione». La ricchezza del Tesoro italiano risiede proprio nella sua unità, dunque in una politica condivisa e coordinata nella gestione dei Beni Culturali. L’Italia si attesta come una armoniosa evoluzione, dai Popoli Italici ai Romani, passando per i Greci, e la sua specificità consiste nell’aver assimilato culture diverse. Da questo melting pot di civiltà nacquero gli Italiani, e successivamente l’Italia, la quale è la culla dell’arte, per quanto riguarda l'Occidente, sia per la quantità, che per la qualità del suo patrimonio. La riforma nel 2001 del Titolo V della Costituzione può aver snellito le procedure amministrative, ma ha anche creato non pochi problemi, dal punto di vista di una visione nazionale della cultura. Per quanto concerne i musei, rammentiamo come ognuno di essi sia una realtà specifica, con una propria storia e contenuti che lo rendono diverso da altri. Ciò comporta che la gestione della rete museale debba essere articolata sulla base delle affinità e delle parentele che esistono tra i vari musei, la cui molteplicità concorre a una unità sistematica, articolata di funzioni istituzionali e scientifiche. Con la riforma del 2001, si è andati gradualmente verso una frammentazione della rete espositiva italiana, la quale è cresciuta senza un progetto di insieme. Parcellizzare la gestione di un patrimonio che sin dall’Unità d’Italia è stato concepito come uno e indivisibile potrebbe corrompere una armonia che da secoli spinge i turisti a considerare il nostro territorio come una nazione museo. Differentemente da quanto avviene in altri Paesi, ove la semplice visita della capitale può in buona parte equivalere a quella di tutto il resto della nazione, il soggiorno a Roma, per quanto indimenticabile, non riassume la ricchezza delle altre città del Bel Paese. Se è pur vero che il mondo globalizzato ci impone in modo pressante l’obbligo

71 di amministrare ogni attività con efficienza, verso traguardi quasi esclusivamente redditizi, riteniamo che cambiamento non sia sempre sinonimo di evoluzione. In altre parole la involuzione, frutto di politiche avventate e scarsamente meditate, è dietro l’angolo. Rammentiamo che la Costituzione obbliga la Repubblica alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico (Titolo 9), ragion per cui, lo Stato non può venire meno a un proprio dovere. Nel nostro patrimonio culturale è scritta l’identità stessa della nazione, la cui unità non può tollerare lacerazioni. Va bene snellire le procedure, ma non si dovrebbe concepire una gestione dell'arte come un qualcosa di locale: gli Uffizi sono un bene di tutto il popolo italiano e non solo della Toscana. In una epoca dove alcune correnti politiche spingono verso la separazione, la devolution ha rappresentato un pericoloso incoraggiamento di un localismo egoista e spesso anche non pronto a sobbarcarsi il peso della gestione della cosa pubblica, basta pensare ai disastri avvenuti nella Sanità. Un’altra problematica è legata all'aspetto economico. Che dire, infatti, di quelle regioni che non dispongono di ingenti risorse, ma che per converso presentano sul loro territorio un patrimonio ricchissimo? Con la devoluzione queste sono state costrette a gestire in modo precario le proprie ricchezze culturali, costantemente sotto la minaccia di dover chiudere musei o persino lasciare preziose collezioni ad ammuffire; il caso del Museo Civico «Gaetano Filangieri» di Napoli, chiuso ormai dal 1999, ne è un esempio eclatante. Per non parlare poi del dramma della manutenzione di Pompei, la cui salvaguardia dovrebbe essere una priorità nazionale e invece si invoca l'aiuto dell'Europa. Da tutto questo nasce l’annosa questione delle pari opportunità nella gestione del Patrimonio, poiché le regole dovrebbero essere le stesse e nello stesso modo osservate su tutto il territorio nazionale, ma così non è. È più che giusto cambiare per ricercare la modernità, ma talvolta le scelte prese possono rivelarsi sbagliate, dunque sarebbe saggio tornare almeno parzialmente sui propri passi. Le parole sono importanti e la lingua è parte integrante del patrimonio immateriale di una nazione. In certi casi però è sufficiente una parola, dal significato ambivalente, per cambiare i concetti base che tengono insieme una cultura. Basta un singolo lemma per mettere a repentaglio la coesione di un intero popolo.


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Dicembre 2011

NUOVE AVANGUARDIE LETTERARIE

Alla scoperta del connettivismo di ERRICO PASSARO IN UN panorama culturale italiano che si contraddistingue per piattezza e conformismo, si segnala l’«anomalia» rappresentata dal Connettivismo, dove «connettivismo» sta per «connessione» di esperienze artistiche e «connettività» fra sistemi di informazioni. Si tratta di un movimento letterario seminale e graffiante, che nasce in ambito fantascientifico, ma fuoriesce dai recinti del genere per abbracciare esperienze umanistiche (il futurismo russo, per esempio) e scientifiche (ingegneria genetica e nanotecnologia) le più diverse. Ne fanno fede le numerose e fantasiose definizioni che sono state coniate a proposito dei loro testi e delle loro performance, non a caso frutto di incroci ossimorici fra concetti normalmente non apparentati: ciber-gotico, tecno-mistica; matematica esoterica, post-umanesimo. La vocazione del connettivista è eminentemente sovradisciplinare: come novelli uomini rinascimentali, i vari Di Matteo, Battisti, Milani, Verso, Cremoncini (e ci perdonino tutti coloro che non c’è spazio per citare) mettono insieme una base scientifica ineccepibile con una sorprendente attenzione alle discipline tradizionali. Il connettivismo è un «meme» che gira vorticosamente sfruttando tutte le potenzialità della Rete, un virus che infetta le intelligenze risvegliandone le potenzialità latenti. Supernova express, Frammenti di rosa quantica, Avanguardie futuro oscuro…i titoli delle antologie-manifesto del movimento già raccontano la vocazione sperimentale degli appartenenti. I connettivisti amano manipolare un materiale magmatico, poligenere, nel cui sostrato bizzarro, surreale e onirico si insinuano problemi sociali come il potere delle lobbies, la sperequazione fra Nord e Sud del mondo, gli attentati alla informazione libera, la manipolazione genetica, i rischi delle bio- e delle nano- tecnologie. Il risultato è una rimappatura della conoscenza, con annotazioni e rimandi che corrono su una piattaforma open source.

Il Connettivismo è un’ipercasa dove convivono esperienze tradizionali, come testi scritti lineari, ed esperimenti di frontiera, quali operazioni multiautoriali, jam session di scrittura collettiva, performance attoriali e musicali, flussi musicali da web-radio. Versi, report di sessioni di scrittura multimediale, cortometraggi cinematografici, illustrazioni, elaborazioni grafiche, «reading musicali» concretizzano in forma creativa le fertili discussioni teoriche sviluppate nell’ambito dei forum ospitati dai siti di riferimento e nei panel d’autore che infittiscono il programma dei convegni specializzati. I vari «X», «Kremo», «Zoon» (i nickname in cui le individualità dei singoli si dissolvono nell’identi-

tà collettiva del gruppo) gettano ponti tibetani fra la dimensione spirituale (Plotino, Eraclito) e la sfera scientifica (la fisica quantistica). I Connettivisti si dipingono e si comportano come un commando di guastatori intellettuali, dediti a lanciare sassi nello stagno della cultura italiana. Ma per quanto tempo si possono lanciare provocazioni senza ripetersi? Per quanto tempo si può rimanere avanguardia senza ritrovarsi, quasi inavvertitamente, retroguardia? Per quanto tempo si può misurare il proprio talento e la propria creatività in reinvenzioni sovversive senza apparire velleitari? È questa la nuova sfida che attende il Connettivismo negli anni a venire.

Rivista Bimestrale

Per nuove sintesi culturali diretta da Fabio Torriero

PUBBLICITÀ

Rivista Quadrimestrale

di Geopolitica e Globalizzazione

diretta da Eugenio Balsamo Via G. Serafino, 8 • 00136 Roma • Tel. 06 45468600 • e-mail: luciano.lucarini@pagine.net


LIBRI NUOVI E VECCHI Librido a cura di MARIO BERNARDI GUARDI

Giovanni Tarantino Da Giovane Europa ai Campi Hobbit 1966-1986 Vent’anni di esperienze movimentiste al di là della destra e della sinistra Prefazione di Franco Cardini Controcorrente, pp. 204, € 10,00. I topi di fogna - neri e grossi, irsuti e famelici, con denti che assomigliano a zanne, e una certa aria fetida che spandono all’intorno - fanno schifo, e quando, negli anni Settanta, i «compagni» battezzarono in questo modo i «camerati», ammonendoli a non farsi vedere troppo in giro, sapevano di aver raggiunto un primo obbiettivo: suscitare una diffusa ripugnanza nei confronti dei «fasci», figli delle maleodoranti tenebre e indegni di mostrarsi alla luce del sole. Se si azzardavano a farlo, quei brutti animali, era a loro rischio e pericolo. Spranghe ed Hazel 36 («fascista, dove sei?») erano pronte a ricacciare i fasci nei loro naturali abituri: i tombini. Se poi gli toccava la tomba, in un pezzo di terra sconsacrata, meglio ancora. Fu dunque un bel colpo di genio sfida, azzardo e sfottò in salsa toscana quello dello studente fiorentino Marco Tarchi, attuale politologo di rango alla Cesare Alfieri, che ribaltò l’immaginario e costrinse a guardare in altro modo i «fascio-topi». Emarginati? Sì, ma soltanto perché più belli, simpatici e «dannati» degli altri, più degli altri in possesso di una identità robusta e variegata, e vincolati da uno spirito amicale e comunitario che gli altri neppure si sognavano. Topacci arditi, ardenti, irriverenti, lottatori e gagliardi scopatori. Anche molte compagne «cozze» (ma in Toscana si preferisce l’espressione «cèssi»), erano costrette a riconoscerlo. Insomma, il topo, diffamato, faceva ribrezzo soltanto a chi diffidava della presenza «forte» di un manipolo di guerrieri intellettuali e generosamente trasversali.

Viva le fogne, dunque, e il suo popolo abituato a sbatterti la verità sul muso, senza paure e censure. Grazie ad un giornalino underground straripante di rubriche vivaci (cinema, radio, tv, pop, rock, libri, rotocalchi, fumetti…) e di strisce graffianti disegnate dal «fascio» transalpino Jack Marchal e dal nostrano Gamotta (ovvero Gilberto Oneto, futuro «padano» duro e puro, nonché «firma» di Libero). Era il 1974 ed era nata La Voce della Fogna, «giornale differente» che sbeffeggiava tutto e tutti, dai katanga della Statale di Milano (nelle «strisce» compariva, spesso e volentieri, Mario Capanna: oggi è lui un «differente», non nel senso di «diverso», «frocio», «gay» ecc., perché il Mario è sempre stato un maschilista sciupafemmine, ma in quello di uno che dice cose «a Dio spiacenti e a li nimici sui», al punto che non sai più in quale «sinistra» abiti, ammesso e non tanto concesso che sia ancora «di sinistra») alla fauna «radical-chic», ai democristiani pavidi e ruffiani, ai giornalisti conformisti e prezzolati, ai politicanti straparlanti di tutte le parrocchie. Compresa quella missina, sorda ai nuovi fermenti in nome del binomio «law and order», che forse procacciava qualche fortuna elettorale tra qualunquisti, anticomunisti viscerali e «casalinghe di Voghera», rinnegando, però, un lascito ideale che non poteva esaurirsi nei ritratti del Duce, ancora appesi nelle sezioni del MSI «profondo», ma doveva trasformarsi in testimonianza militante, ipercritica, polemica, eretica, eccentrica, in

linea con tutto il «movimentismo» novecentesco. Ragion per cui i topacci della disciplina di Partito se ne fregavano e sbandieravano allegramente il loro patriottismo «europeo», la loro strafottente vocazione «antiborghese» (che, poi, caro Tedeschi, era, ed è, paradossalmente, il vero spirito del Borghese), il loro libertarismo nero, ma scanzonato, non trinariciuto. Perché i topacci non erano chiusi né ottusi, ma anzi «aperti» a 360 gradi ed attratti dalle più suggestive «contaminazioni» culturali. Ad evocare questa stagione fatta non soltanto di spranghe e «P38», ma anche di ansia di cambiamento e di voglia di discutere, sperare, sognare, superare vecchi steccati ecc., ci ha pensato un giovane storico siciliano Giovanni Tarantino, con un saggio che non può essere un «come eravamo» dal momento che il nostro è nato nel 1983, ma è sicuramente un «come erano» quei ragazzi che, passando attraverso la più svariate esperienze, «inventarono» la Nuova Destra. Raccontando vent’anni di movimentismo, Tarantino si avvale della testimonianza di due che «c’erano» (e, ci sia consentito dirlo con ammirato affetto, «non si sono mossi da lì»): Franco Cardini (poi docente di Storia medioevale all’Università di Firenze) e Luigi De Anna («emigrato» a Turku, in Finlandia, ad insegnare Letteratura italiana). Testimonianza preziosa, non soltanto perché i due - che sulla Voce della Fogna si firmavano rispettivamente «l’amiko ke sai» e «Il Re di Thule», mentre il baffo di Stenio Solinas trapelava dietro «Il serpente a sonagli» e l’irsuto Umberto Croppi si era trasformato in «Boscimane» - ne hanno di cose da raccontare, ma perché rappresentano, per dir così, l’anello tra più generazioni di giovani militanti «eretici», «terzaforzisti» e decisamente ostici alla Destra ben pensante, borghese, forcaiola e occidentalista. In nome della vivacità intellettuale, della giustizia sociale e di una «Giovane Europa» antiyankee da Brest a Bucarest. Già, la «Giovane Europa». Tutto ha inizio da questo movimento fondato dal belga Jean Thiriat e che negli anni Sessanta attrae non pochi ragazzi tra cui, appunto, Cardini e De Anna, da tempo a disagio negli ambienti del MSI.


74 «Giovane Europa» sventola un sogno: superare il vecchio nazionalismo all’insegna di una «patria europea». Molto antiamericana e molto filoaraba. Ispirata dalle vetuste icone di leader carismatici del fascismo «storico» come José Antonio e Codreanu, ma anche da quelle nuovissime di «nazionalcomunisti» come Castro, «Che» Guevara, Ho-Chi-Minh. «Giovane Europa» sventola una bandiera rossa con al centro la croce celtica: segno augurale e solare di fecondità, che non piacerà mai all’ufficialità missina, sostenitrice di fiammeggianti catafalchi. «Giovane Europa» sventola programmi di superamento delle egemonie USA-URSS e non teme scandalose contaminazioni: se lo jugoslavo Tito, il rumeno Ceasescu e tutti i rivoluzionari del Terzo Mondo afro-asiatico ci stanno, si può spezzare la tenaglia imperialista e costruire l’Europa-Nazione. Sogni, illusioni, velleitarismi? Sia come sia, i giovani che ci credono sono tanti. Tanti che vagheggiano la rivolta generazionale ma che intanto si impegnano nel sociale e danno ben più di una mano - tra gli «angeli del fango» nella Firenze alluvionata del 1966, non sono in pochi ad avere al collo la «celtica» - di fronte alle catastrofi naturali. Occhi aperti, intanto, sul proliferante ribellismo della «meglio gioventù» rossa e nera. Mentre si va verso il ’68, a destra come a sinistra, si scoprono i beat. Spiritualità più trasgressione «on the road» è la ricetta salvifica? I movimentisti e gli alternativi sono tanti e le canzoni dei Beatles «commentano» le più svariate esperienze: dai provos ai «situazionisti» agli hippies. Poi, esplode il ’68. Per il MSI che non capisce o non vuol capire la contestazione, e non crede alla «rivolta generazionale», una grande «occasione perduta», come dirà Tarchi. I «movimentisti», da parte loro, non ci stanno a fare le «guardie bianche» e cercano spazi (Tarantino li evoca tutti: gruppi, riviste, iniziative…) nella «lotta al sistema». Qualche anno ancora e i topacci della Voce della fogna, protagonisti dei «Campi Hobbit» e della «Nuova Destra», spopoleranno con «effetti speciali» anche sui mass-media «sinistresi». E alla fine? Mille storie contrapposte e un «fascio» di delusioni? Può essere, ma per qualcuno anche la «tignosa» soddisfazione di dire: come eravamo, così siamo.

IL BORGHESE

I LIBRI del «BORGHESE» Jean Madiran «L’accordo di Metz». Tra Cremlino e Vaticano Pagine, Roma 2011, pp. 112, € 13,00 Osservando la storia dei rapporti tra la Chiesa Cattolica e il comunismo, rimane evidente il contrasto tra l’atteggiamento che la prima dimostrava inizialmente, con aperte parole di condanna e la scomunica comminata a chiunque collaborasse con il secondo, e la mancanza di una critica di qualsivoglia natura proprio durante i lavori del Concilio Vaticano II, che già dal momento del suo annuncio era destinato a divenire uno degli avvenimenti più importanti del XX secolo. In altre parole, come si chiede Roberto de Mattei nell’introduzione al libro di Jean Madiran, «perché la solenne assise dei Padri conciliari convenuti a Roma per trattare dei

Dicembre 2011 rapporti tra la Chiesa e il mondo moderno, ignorarono il fenomeno più macroscopico della loro epoca, l’imperialismo comunista, che aveva appena inferto, con il Muro di Berlino, una profonda ferita nel cuore dell’Europa, e che andava estendendo la sua ombra minacciosa sui cinque continenti?». La risposta a una tale domanda che in tempi come questi, in cui sembra farsi ogni giorno più intenso lo «scontro» tra la Chiesa e le idee dell’ateismo, di cui in fondo il comunismo fu uno dei primi campioni e certamente quello che maggiormente riuscì ad affermarsi, diventa anche più necessaria - ce la fornisce, appunto, Jean Madiran, autore degli articoli pubblicati per la prima volta in italiano e riuniti nel volume intitolato L’accordo di Metz. Tra Cremlino e Vaticano, in cui palesa, e dimostra al di là di ogni possibile dubbio, come la Chiesa Cattolica cadde in una vera e propria trappola, tesagli da Nicodemo, «portavoce» della Chiesa Ortodossa e, a causa del periodo storico, agente del regime comunista, che chiede per assistere al Concilio che non vi siano «dichiarazioni ostili al Paese che amiamo», ovvero l’URSS. Da questa richiesta nasce l’accordo che, come è intuibile dal titolo del libro, viene stabilito a Metz, in Francia. Non bisogna però pensare che Madiran indichi i rappresentanti della Chiesa Cattolica come le povere e semplici vittime di un raggiro voluto dall’URSS, si sono infatti prestati volentieri a questo raggiro pur di ottenere ciò che volevano (la presenza degli ortodossi al Concilio), anche se forse non valutandone bene le conseguenze. D’altra parte, come fa notare ancora de Mattei, Madiran non è mai stato tenero con le gerarchie ecclesiastiche, almeno non quando tradiscono il ruolo della Chiesa, e la cessazione della condanna del comunismo è uno dei modi in cui questo tradimento ha luogo. Agli articoli di Madiran, come si è più volte nota-


Dicembre 2011 to, aggiungono valore l’introduzione e la postfazione di Roberto de Mattei - storico e direttore di riviste come Nova Historica e Radici Cristiane che fornisce al lettore le coordinate in cui inserire le notizie rivelate dall’autore del libro e le introduce in una cornice più ampia, che aiuta a comprendere la portata fondamentale di una rivelazione come quella dell’«accordo», anche all’interno dei «sommovimenti» e degli scontri interni alla Chiesa Cattolica in generale e al Vaticano II in particolare, anche e soprattutto a proposito della visione del comunismo. Un libro come quello dell’autore francese è forse necessario, oggi, per comprendere come una dottrina quale il comunismo non abbia in fondo trovato una vera resistenza nella società occidentale, d’altra parte è evidente il peso che ebbero le parole pronunciate (o in questo caso non pronunciate) dai partecipanti al Concilio Vaticano II, ancora oggi visto come una «rivoluzione» della Chiesa Cattolica, un suo «adattarsi» alla società moderna, l’accettazione del comunismo, dunque, per quanto tacita, non può non aver influito sulla visione che di questo aveva la popolazione. Madiran narra dunque - nel linguaggio semplice e diretto del giornalista, ma con la conoscenza dei dati, delle circostanze e dei temi sottesi ai comportamenti degli «attori» che si muovono sulla scena tipica dello storico e del filosofo - uno dei segreti della storia contemporanea, mette in luce una tessera del puzzle, una di quelle più nascoste e meno conosciute, che aiuta a meglio comprendere l’immagine e le scelte della Chiesa e della società di oggi. STEFANO SERRA

IL BORGHESE

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«Antares»: moderno e antimoderno di ANDREA SCARABELLI

È USCITO il secondo fascicolo di Antarès - prospettive antimoderne, rivista di filosofia, letteratura, estetica ed esoterismo nata l'autunno scorso presso la facoltà di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano, per iniziativa di Andrea Scarabelli, Emanuele Guarnieri e Rita Catania Marrone, e ora distribuita dall’editore milanese Bietti, a scansione trimestrale e in forma interamente gratuita. Il progetto editoriale, che si avvale della collaborazione di Gianfranco de Turris, in veste di direttore responsabile, ha come fulcro ideale il pensiero dei cosiddetti antimoderni intellettuali del novero di Jünger, Evola, Spengler, Simmel, Pessoa, Lovecraft, Guénon, de Giorgio e Tolkien. Autori sottoposti a censure parziali o integrali e a letture spesso faziose ed imprecise, il cui pensiero viene scandagliato in numerosi versanti al fine di operare una diagnosi puntuale del presente che ci ospita. E ciò, innanzitutto, in relazione ad una certa dogmatica moderna - il nostro presente, che ha in odio tutto ciò che è dogmatico, dispone di assiomi peculiari non passibili di essere messi in discussione. Antarès si muove, dunque, indagando la genesi di quelle parole d’ordine che scatenano, secondo schemi di pavloviana memoria, ondate di sdegno incondizionato o di assensi acritici. L’égalitarismo selvaggio imperante, la democrazia come unico paradigma politico, il mito del progresso e i vangeli della scienza e della tecnica: detti dogmi non sono assoluti ma nostri e soltanto nostri. Riconoscere ciò equivale a dare scacco alla loro pretesa universalità. Ciò misero a fuoco alcuni degli autori appena ricordati. Ma non soltanto: se oggi è divenuto di moda criticare il proprio presente - spesso in maniera semplicistica e disordinata - Antarès si muove nella persuasione che soltanto una critica in grado di prendere le mosse da istanze archetipiche e mitografiche possa dirsi effi-

cace. Nessun cambiamento potrà compiersi se non accompagnato da un rinnovamento spirituale. Il primo fascicolo viene consacrato ad H.P.Lovecraft, incarnazione di una solida «immagine del mondo» antiprogressista, antidemocratica e antiégualitaria. Il secondo numero, «Il pensiero in cammino», ora in fase di distribuzione, è invece teso ad evidenziare quelle possibilità trascendenti che il cammino - laddove affrontato in maniera autentica e non secondo quelle deviazioni esotiche, neospiritualiste e new age odierne - è in grado di ridestare. Contemporaneamente a questa iniziativa, è in fase di preparazione una collana di testi «antimoderni» intitolata «L'Archeometro», diretta da Andrea Scarabelli. Detta collezione, che inizierà la sua attività al principio del 2012, ospiterà volumi di e/o su Cristina Campo, Guido Morselli, Giuseppe Rensi, Mircea Eliade, Andrea Emo, Ezra Pound, Giuseppe Prezzolini e Fernando Pessoa. La redazione di Antarès auspica che le colonne della rivista possano ospitare un mosaico di nomi sempre più complesso; pertanto, per collaborazioni o delucidazioni, è possibile contattare la direzione all'indirizzo email antares@edizionibietti.com oppure il sito www.antaresrivista.it .


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SCHEDE Antonio Saccà L’indimenticabile Artescrittura Ed., 2011, pag. 183,€ 20,00 Drusilla o Lesbia? Moglie o amante? Essere fedele alla consorte con cui si condivide casa, figli e noie, o inabissarsi in una passione torbida e tentacolare tra le braccia di un’avvenente amante? Il rassicurante focolare domestico o le spire ignee di una relazione esaltante? È l’eterno dilemma in cui da sempre si dibatte il popolo maschile. Saccà si addentra nei meandri della passione, la viviseziona col bisturi dell’anatomopatologo e ce la restituisce assolta e purificata dalla retorica in cui l’ha avvolta il moralismo cattolico e l’attuale sistema sociale. Si sovrappone a Catullo, ne assume la personalità e l’indole, lo immagina sposato a tal Drusilla e combattuto tra la bisbetica consorte e la bella Lesbia che ispirò i suoi più intensi carmi. Da qui, ne L’indimenticabile, parte una imperdibile silloge poetica che regala versi di pathos, fatti di carne e sangue, tanto sono palpabili, fatti di respiro e silenzio, quello che segue per un attimo alle impetuose considerazioni di CatulloSaccà. Chi ha amato tra i banchi del liceo Catullo si immergerà nella lettura de L’indimenticabile con emotiva partecipazione, apprezzando il verso che s’infrange ruvido e irruento come la passione da cui l’Autore è posseduto. Le tre parti del libro scandiscono il pensiero di Saccà: Catullinaria, Io sono il divenire del Nulla e La coda della fine. Torna il tema della morte, ricorrente nell’Autore, che soltanto l’Amore può riscattare, ed è l’unico senso della vita. GABRIELLA DI LUZIO Pietrangelo Buttafuoco Il lupo e la luna Bompiani, 2011 - Pp. 199 - € 18,00 «Non devi avere paura del lupo, perché il lupo sei tu»: un verso che può diventare mantra di una «grande guerra» da combattere contro se stessi, per riscoprirsi uomini nuovi e migliori. Questo percorso di scoperta passa anche attraverso i sentieri di stupore sfavilleggiante della migliore

IL BORGHESE letteratura europea. Un «cuntu» per onorare l’epopea popolare di Scipione il Cicalazadè e comprendere fino in fondo, attraverso il potere alchemico della narrazione, la magia di un Mediterraneo culla e custode dei destini della civiltà. Viatico per sentieri tradizionali può essere Il lupo e la Luna, l’ultimo romanzo di Pietrangelo Buttafuoco che, dopo il successo straordinario de Le uova del drago, torna nelle librerie con un’opera dalle raffinate sfumature rinascimentali, un intreccio nel quale amore, radici, sangue e guerra sono fili di seta preziosa che compongono una trama avvincente. La genesi di questo scritto dell’autore siciliano, inviato di Panorama e firma de Il Foglio, è avvenuta assemblando una miriade di eterogenei tasselli che costituiscono un mosaico di luoghi e di personaggi, tra le note di De André - che a Cicala dedicò la canzone Sinàn Capudàn Pascià - e le atmosfere incantate dei palazzi dedicati al condottiero, il profumo inebriante di cultura e contaminazione, tra i vicoli di Istanbul con il vapore di antichi hammam e una moderna locanda di Genova. Chi è Scipione Cicala? Figlio del Visconte Vincenzo Cicala e di donna Lucrezia, bellezza montenegrina, fu rapito in seguito ad una incursione ottomana, ridotto in schiavitù. Giunse in Oriente dove si trasfigurò: «Il ragazzo fu incatenato», scrive Buttafuoco. «Affrontò il mare legato all’albero maestro. E così la trappola fu serrata intorno al lupo. Conobbe il vento, il sole e il sale». Il viaggio diventa allora una rigenerazione e il giovane Scipione si fa riconoscere dal sultano, illumina il suo percorso

Dicembre 2011 con la parola di Maometto dopo aver rinnegato la croce, conquista le grazie della corte di Solimano e costruisce una fama di guerriero invincibile lottando dalla Persia fino alla Sicilia. Per Il Lupo e la Luna di Buttafuoco che prosegue sulla rotta dell’affermazione del sacro nel mondo attuale già percorsa in Cabaret Voltaire, vale l’auspicio del cantautore siciliano Franco Battiato che così si espresse in merito al potere delle sue canzoni: «Se si usa il metro della quantità e non della qualità, questo ragionamento non ha senso: quando fai un concerto non puoi pretendere che tutti siano d’accordo e in sintonia con te. Ma se in una sala anche solo dieci - venti persone riescono a essere toccate, è fatta. Con una canzone non ribalti la politica, però puoi far passare dall’altra parte gli indecisi». MICHELE DE FEUDIS Paolo Emilio Papò Mezzi corazzati italiani: i primi quarant’anni IBN editore Roma L’autore, cultore da molti anni di storia militare e nostro collaboratore, nel suo lavoro Mezzi corazzati italiani: i primi quarant’anni ha preferito far «parlare» i mezzi corazzati illustrati. Dalle prime «autoblindate» usate nella guerra in Libia nel 1911 (cento anni dopo siamo ancora con una guerra in Libia!) al famoso carro armato M13, che ha affrontato tante battaglie spesso in condizioni di inferiorità, ai mezzi usati dalla Polizia nel dopoguerra in molte occasioni, anche per sedare i disordini scaturiti nel 1948 dopo l’attentato a Togliatti. L’autore è riuscito a non realizzare un volume prettamente tecnico, con liste di nomi o elenchi di dati. Ha cercato di «animare» questi veicoli, raccontando una loro storia, che poi è la storia degli uomini che li hanno utilizzati, ma anche progettati e costruiti, o che hanno ideato le operazioni a cui hanno partecipato. Leggere questo volume (centosettanta pagine, più di centosessanta immagini e foto, la maggior parte inedite) è come entrare nei mezzi corazzati, e non a caso molte foto sono relative agli interni, è come respirarne l’aria, sentirne le vibrazioni ed il rumore. L’autore infatti ha aggiunto molte relazioni storiche ed accenna a molti episodi di guerra. Ma soprattutto si è sforzato di cogliere quei collegamenti sui fatti storici che hanno avuto protagoniste


Dicembre 2011 le forze corazzate italiane. Cita, per esempio, Galeazzo Ciano, riportando brani dai famosi Diari, cita Niccolò Giani, il fondatore della scuola di mistica fascista, proprio perché le sue critiche al sistema militare italiano della seconda guerra mondiale possono essere ritenute al di sopra delle parti. Cita inoltre autorevoli autori di saggi, testimoni dell’epoca, affermazioni di militari, coglie affermazioni con l’intento di svelare il «perché», le cause di errori, di condotte errate, di sconfitte. Proprio per questo motivo il volume non si può definire «tecnico-storico» o di nicchia, ma ci sentiamo di consigliarlo anche a chi non conosce affatto le forze corazzate italiane, o magari all’appassionato di storia che voglia conoscere una «sfaccettatura» particolare delle guerre che hanno coinvolto l’Italia. Molto interessante poi la relazione del tenente Fabrizi, dello Stato Maggiore dei Granatieri di Sardegna. Questa relazione, scritta «a caldo» il 13 settembre 1943, appena dopo i combattimenti tra le forze italiane ed i paracadutisti tedeschi che investivano Roma, è rimasta «sepolta» per oltre sessanta anni in una cantina e fortunosamente ritrovata. Ebbene il tenente Fabrizi non si fa scrupolo di definire l’arresto di Mussolini come un «colpo di Stato di Badoglio», ed elenca per esempio l’irrazionale (militarmente parlando) disposizione delle forze intorno a Roma in quell’estate del 1943. Roma «città aperta» soltanto per difendere i regnanti ed i loro accoliti da una prevedibile reazione tedesca? Il dubbio viene spontaneo nel lettore. Fabrizi poi sottolinea ancora la falsa notizia della tregua che porterà alla caduta

IL BORGHESE dei caposaldi attorno alla capitale. Può essere che questa falsa notizia, recapitata con un fonogramma ufficiale ai combattenti italiani, sia solamente frutto di un errore, di disorganizzazione? Possibile invece che nello Stato Maggiore vi sia stato un traditore di tale portata? Purtroppo questa testimonianza viva, palpitante racconta anche l’amaro epilogo con l’esercito che si sbanda lasciando la nostra terra a dominazioni straniere. L’autore non tralascia di analizzare le cause della sconfitta, considerando le responsabilità dell’industria, dei vertici politici e militari, del sistema gerarchico militare italiano che «si riassume verticisticamente a Roma». Tornando agli aspetti più tecnici, non mancano i confronti con i veicoli stranieri che hanno combattuto la seconda guerra mondiale, tedeschi ed inglesi in particolare, il tutto con doverose ed interessanti fotografie, reperite, come afferma l’autore, in anni di ricerche in mercatini reali e virtuali. Degno coronamento finale è la parte relativa al modellismo, un modo particolare di amare la storia. La stessa bibliografia riporta un impressionante elenco di libri e riviste, molte straniere, che trattano di mezzi corazzati italiani, anche questa parte può essere una vera miniera per l’appassionato che voglia approfondire queste interessanti tematiche. VALERIO DE LILLO T. Della Longa - L. Bastianetto Lampedusa, l’isola che non c’è Edizioni Ensemble - pp. 140 - € 14,00 Nonostante in questi ultimi giorni e settimane non se ne parli più, Lampedusa è ancora lì, e siamo certi del fatto che ce ne dimenticheremo ancora per molto tempo. Tanto tempo quanto ne occorrerà per accorgersi, traumaticamente, che c’è ancora una volta un dramma in corso, solo temporaneamente messo in sordina dall’acuirsi della crisi economica o dall’ennesimo omicidio ad effetto. Perché è esattamente questa Lampedusa: un’isola che non c’è o che, per meglio dire, esiste soltanto quando i riflettori dei media decidono che questa debba esistere per esigenze di palinsesto, e che perciò di questa se ne debba parlare. Del resto, un’isola esiste già, di per sé, soltanto i mesi estivi, quindi perché stupirsi se questa non rimane

77 costantemente sotto la lente d’ingrandimento del grande pubblico? Più che stupirsi, sarebbe forse il caso di indignarsi - parafrasando un leitmotiv tanto caro, oggi, alla piazza - perché a Lampedusa sta consumandosi un dramma, che non è soltanto quello dei disperati che arrivano, ma anche di chi tali arrivi li subisce, e di un intero continente che è sostanzialmente costretto a emigrare per non morire. Per questo, è importante che si racconti Lampedusa: con le immagini, con la cronaca dei giorni drammatici dell’emergenza e con i riflettori che illuminano, giusto il tempo di un servizio, i visi stravolti dei migranti. Ma, limitarsi a questo, significa limitarsi al sensazionalismo emotivo della notizia da tg serale, buono soltanto ad addormentarsi con la coscienza a posto. Si può, invece, scegliere di dare spazio al racconto intimo dei protagonisti, al flusso dei loro pensieri, che scavano molto più in profondità dei ritagli di giornale o dei servizi fotografici, e ci restituiscono il ritratto vero e sofferto dell’Isola che non c’è, come fa questo libro. Gli autori non sono, per mansione e vissuto personale, gli ennesimi buonisti alla ricerca del successo facile con l’ennesima storia strappalacrime. Laura Bastianetto, giornalista e volontaria, e Tommaso Della Longa, portavoce del Commissario straordinario della Croce Rossa Italiana, sono due persone che, travolte da una tragedia su cui il mondo ha deciso di spegnere i riflettori del circo mediatico, hanno sentito la supre-


78 ma esigenza di raccontare, di raccontarsi e di denunciare. Il risultato è un vero e proprio diario di bordo, di due giovanissimi naufraghi trovatisi in balia di un mare in tempesta. I «naufraghi» sono due giovani italiani che, come tanti, apprendono sul campo dell’esistenza di una realtà che non è quella dipinta dai media; il «mare in tempesta» è quanto ogni giorno subisce l’isola, di rimando da un intero continente in subbuglio che bussa prepotentemente alle porte dell’Europa. Abbiamo così una raccolta di quindici storie che si sfiorano in una normale notte di emergenza lampedusana. Sullo sfondo, sta l’emergenza che ha investito l’ultimo avamposto d’Europa nel Mediterraneo, che diventa il filo conduttore di un racconto frammentato, ma reso organico e scorrevole dalla (soltanto) apparente contraddittorietà di un’isola che è meta del divertimento estivo, e allo stesso tempo «terra promessa» per molti, troppi. Ecco stagliarsi una Lampedusa inedita, ricca di volti, storie ed emozioni: tutte diverse, tutte uguali. Una Lampedusa diversa, che aiuta il lettore a capire - oltre le semplificazioni, oltre l'emergenza, oltre il buonismo radical chic - perché Lampedusa è un’isola che non c’è, e perché il mondo non deve chiudere gli occhi. ANDREA NICCOLÒ STRUMMIELLO Arrigo Petacco Il regno del Nord. 1859: il sogno di Cavour infranto da Garibaldi Mondadori (Le scie) 2009 Cartaceo € 19,00 - ebook € 9,99 Il libro di Arrigo Petacco è un bellissimo affresco sulla seconda guerra d’indipendenza del 1859. In poco più di centosessanta pagine il giornalista di Castelnuovo Magra (La Spezia) riesce a descrivere esaurientemente la genesi del conflitto del 1859 tra i Franco-piemontesi e gli Austriaci, i piani di Cavour, i desiderata di Vittorio Emanuele II, nonché l’eroica impresa dei Mille di Giuseppe Garibaldi. Dopo la sconfitta piemontese nella prima guerra d’indipendenza, culminata con la disfatta di Novara, Carlo Alberto, passato alla storia per la concessione dello Statuto Albertino, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II che, nel 1861, diverrà il primo Re d’Italia. Gli artefici della creazione del regno d’Italia furono soprattutto due: il diabolico Camillo

IL BORGHESE Benso Conte di Cavour e il formidabile condottiero nizzardo Giuseppe Garibaldi. Il primo era interessato all’estensione del Regno di Sardegna alle regioni padane dello stivale, il secondo mirava invece all’unità d’Italia nella sua interezza, compresa del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio. Cavour sapeva di non poter affrontare Francesco Giuseppe I da solo, per cui studiò una strategia per giungere ad una alleanza con la Francia di Napoleone III. L’occasione fu la guerra di Crimea. Il contingente piemontese, formato da 15.000 bersaglieri al comando del generale La Marmora, si comportò valorosamente contro i Russi dello zar Nicola I nella battaglia della Cernaia. Grazie al sacrificio dei bersaglieri il Piemonte si accattivò le simpatie della Francia e dell’Inghilterra sulla «questione italiana». Il capolavoro diplomatico di Cavour fu l’accordo segreto con Napoleone III, sancito a Plombieres. L’accordo tra Napoleone III e Cavour prevedeva il soccorso della Francia al piccolo regno sabaudo qualora questi fosse stato aggredito dall’Austria. La contropartita sarebbe stata la cessione alla Francia della Savoia e di Nizza e, soprattutto il matrimonio tra Napoleone Giuseppe Carlo, detto il principe Girolamo, e la principessa Ludovica Teresa Maria Clotilde di Savoia. Cavour per convincere Napoleone III non esitò ad utilizzare come spia e come seduttrice la contessa di Castiglione, Virginia Oldoini, che, grazie alle sue doti «personali», riuscì a compiere la missione di indurre l’imperatore transalpino all’alleanza con il regno di Sardegna. Cavour, grazie alle provocazioni dei volontari raggruppati

Dicembre 2011 in Piemonte in prossimità del confine con il Lombardo-Veneto, riuscì a farsi dichiarare guerra dall’Austria. I franco-piemontesi nelle battaglie di Solferino e Monzambano sbaragliarono le truppe austriache. Il sopraggiunto accordo di Villafranca, siglato all’insaputa di Cavour, tra il sovrano francese e il suo omologo austroungarico, prevedeva la cessione della Lombardia alla Francia che successivamente, a discrezione di Napoleone III, sarebbe potuta essere ceduta al Piemonte. Napoleone III all’atto della cessione ritenne sciolto il vincolo d’alleanza col Piemonte e la guerra con l’impero austroungarico ebbe termine. Cavour aveva raggiunto soltanto parzialmente il suo obiettivo. Oltre alla Lombardia e all’annessione degli staterelli dell’Italia centrale lo statista piemontese anelava all’annessione del Veneto. Fu l’impresa dei mille volontari garibaldini, partiti da Quarto in Liguria per sbarcare a Marsala, che rovinò i piani del primo ministro piemontese che come sopra anticipato, voleva esclusivamente un regno del Nord. Grazie alla compiacenza della marina inglese, interessata a contrastare l’influenza francese nella penisola, Garibaldi riuscì a sbarcare sia in Sicilia che in Calabria, travolgendo le truppe borboniche. La spedizione dei Mille fu certamente fortunosa ma il coraggio, la determinazione e soprattutto la motivazione dei garibaldini riuscì miracolosamente nell’impresa di regalare un regno a Vittorio Emanuele II. Il condottiero di Nizza avrebbe voluto proseguire la lotta per la conquista dello Stato pontificio. Per il completamento dell’Unità d’Italia sarebbero state necessarie altre due guerre. La terza guerra d’indipendenza del 1866 contro l’Austria grazie all’alleanza italoprussiana che permise l’acquisizione del Veneto. Successivamente ci fu l’assalto di Porta Pia nel 1870, reso possibile grazie alla sconfitta dei Francesi, protettori dello Stato pontificio, a Sedan ad opera dei Prussiani. Grazie al valore di Garibaldi, all’astuzia senza pari di Cavour, alle strategie seduttive e spionistiche di Virginia Oldoini si giunse nel 1861 all’Unità d’Italia. Per Cavour l’annessione del regno delle Due Sicilie fu una iattura, per lui che voleva un regno limitato alle zone più ricche della penisola. Ma per tutti coloro che credevano nell’Unità d’Italia da Mazzini a Gioberti a Garibaldi fu la realizzazione di un sogno. ALDO LIGABÒ


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Dicembre 2011

il BorgheSe

offuscano il pensiero. Persisto alla vita perché sul mio libro è tarda la notte. FAuSto mArChi Fall’s spleen ecco l’Autunno greve nelle foglie dolenti e avvizzite sotto il mantello di ermellino; ecco le guglie sontuose Screziate di vaio su tetti fumosi a cura di Carla Piccioni

di aromi…le chiome ramate e spoglie dei platani sonnolenti dal vello rado e chino al piombo unto di nebbiose Albe funeree. nulla dei sontuosi

ArmAndo Bettozzi La Borza ha ffatt’er bòtto

Verzieri mi attedia dentro i contorni del ferro battuto di quei cancelli Austeri di glorie passate e smorte.

Sto giorno de settembre in tutt’er monno la Borza ha ffatt’er bòtto, e addirittura ndo cianno un presidente da paura – ch’è er mejo che ce sta sur mappamonno.

ma già mi angoscia lungo i disadorni Viali quel canto nuovo di fringuelli: Bardo acerbo dell’estate alle porte!

nun so quanti mjardi sò iti a ffonno sta giornataccia de la jettatura, bruciati co na tàr disinvoltura…! e chi cià perzo è tutto furibbonno.

domeniCo melillo

(19 settembre 2011)

Sta proprio a diventacce un gran penziero sta Borza der malanno…e a daje fòco sarebbe un gran rimedio pe davero. ma chi cià corpa de sto gran macello? Pe mme...nun vorei dillo, ma a ddì poco, dev’èsse corpa sua…ma sì…de "quello"! Che ad Arcore, me sa che ce s’è messo a ffà n antro bordello… e tutta sta traggedia viè da llà! donAtellA Corridore Palermo Quando penso a lei Vedo l’azzurro del mare il bianco dei gabbiani il verde delle palme. Quando penso a lei Sento l’odore della violenza il rumore della povertà il sapore dell’abbandono. mASSimo de SAntiS Non nuoce tanto il rimorso non nuoce tanto il rimorso quanto il perché. A nulla sono valse le idee, a nulla i pensieri, a nulla le esperienze. Come un abisso ingoia le idee peccaminose così il rimorso percuote la mia anima. Affogo in un mare di odio e di rancore, tremiti mi dilaniano la pelle, ossessioni

Ci deve essere un clic, un segnale d’allarme sconosciuto se la notte presenta, all’improvviso, un suo tributo di facce, e di parole, questuanti affetto, vecchie bancarottiere d’amore. Vorrei trascorrere il mio sonno in una parentesi d’assenza senza calcoli algebrici di dare e avere, non sentire mia l’insonnia come un credito del giorno. mASSimiliAno noCCelli Se per amore dato Se per amore dato amor ricevi e desiderio non conosce pianto, se per un bacio le fatiche lievi e di due fiati un alito soltanto, se per amore avuto nulla devi e chi ti cerca se ne torna affranto, se per un sogno le giornate brevi, le notti lunghe, come per incanto, un buon affare è amare e assai conviene, ma se per disprezzato amore spina il cuore punge e stringono catene, se è per malattia e non trovi medicina, se troppo male frutta il troppo bene, cattivo acquisto è amore e tua rovina. mAuro PAPAgni L’Unicità ma l’unicità rende soli, differenti e contemporaneamente veri e falsi agli occhi di chi, appartiene, si collude crede… e si resta in un alone di mistero di indecifrabile essere

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80 che vive ed attraversa il tempo lui concesso per dimorare il mondo. ma il piacere di osservare solitari con il volto sereno e splendente ricolmo di malinconico senso dell’essere, il piacere di dire e non-dire, di rimanere quieti e vigili, questo piacere solo chi è libero conosce. gABriellA PiSon Alianti Abbiamo rubato il volo agli aironi la derapata al falco Costruiamo alianti Perché non sappiamo volare. giAnluigi Attilio SAPoriti Il tempo il primo uomo, mirando poeticamente il firmamento, immaginò le costellazioni; freddamente inventò il tempo. Amore mio il tempo umano, non esiste, per noi che ci adoriamo, quando ti vedo, ti ascolto e con te amabilmente parlo, si contrae. nella attesa del successivo incontro si dilata, spasmodicamente, eppure l’aurora sempre insegue il tramonto con sempiterna periodicità. SeCondo BuFACChi A Fasma il tuo nome è nel mondo magico orientale,

il BorgheSe

Dicembre 2011

che mi fa sognare. tu sei la perla perfetta che avvolge in una tenera carezza. mAriA PiA Sozzi Bianchi silenzi Sentieri ombrosi, costoni innevati, fin su la vetta a sfiorare il cielo, m’adagio nel tuo grembo sognando quel che non vidi mai cercando la pace che m’è preclusa. Fra bianchi silenzi m’aggrappo alla roccia con mani ferite dal freddo e dal vento a trovare la Vita che scivola via come sabbia racchiusa nell’ampolla distrutta d’una vecchia clessidra. giuSePPe trAino Libertà da vivo parlo ad amorfa gente da morto rinnego ogni commento solo domando silenzio, fatemi una tomba dove volete, ma fatela lontana da terra schiava l’ombra di gente sparuta e pavida non mi darebbe riposo e pace

Per proporre poesie per questa rubrica (max 20 versi), spedire una email con nome, indirizzo e numero di telefono a: luciano.lucarini@pagine.net con la dicitura «per il Borghese»


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n ita n l o ia z er o

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