il Borghese - 2012 - n. 02 (Febbraio)

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ISSN 1973-5936 “Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”

Sc a a cc ll o ’it M a at li t a o

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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 2 - fEbbRAIO 2012 - € 6


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Rivista trimestrale di storia

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LA PORTA D’ORIENTE

Rivista Quadrimestrale di Geopolitica e Globalizzazione

Rivista di studi sugli orienti diretta da Franco Cardini

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Tra Cremlino e Vaticano introduzione di Roberto De Mattei traduzione di Milena Riolo

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Una vita per l’Italia prefazione di Alessandra Mussolini traduzione di Fabio Torriero revisione a cura di Anna Teodorani pagg. 270 • euro 18,00

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Filippo de Jorio

L’albero delle mele marce (60 anni di politica e di malapolitica in Italia) prefazione di Sforza Ruspoli pagg. 220 • euro 18,00

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“La mafia addosso”

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Lo Stato sociale nel “Ventennio”

La verità sulla morte di Mussolini

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E LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

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IL BORGHESE

Febbraio 2012

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SOMMARIO DEL NUMERO 2 Mensile - Anno XII - Febbraio 2012 - € 6,00 Piccola Posta, 2 Dai forconi alle baionette, di Claudio Tedeschi, 3 Alcune proposte per uscire dalla crisi, di Carlo Vivaldi-Forti, 6 Un Quisling di nome Mario, di Franco Jappelli, 8 I costi dello Stato, di Riccardo Paradisi, 10 Si è sciolta la «Lega», di Gennaro Malgieri, 11 La paura dell’orgoglio, di Adriano Segatori, 12 Giustizia malata, di Filippo de Jorio, 13 Quale Italia?, di Riccardo Scarpa, 14 Tutto cambia, di Adriano Tilgher, 15 La Regina di cuori, di Adalberto Baldoni, 16 «Onorate» Società, di Ruggiero Capone, 18 Via Almirante o «Via Almirante!», de Il Tiratore Scelto, 19 «Welfare» ritrovato, di Mimmo Della Corte, 20 L’ennesimo disastro, di Romano Franco Tagliati, 21 Alla Puglia non piace più, di Massimo Ciullo, 24 Inquisizione politica e culturale, di Giovanni Sessa, 25 Molti piangono pochi ridono, di Pietro Del Tura, 27 Il Gratta e Vinci della disperazione, di Alessandro P. Benini, 28 «Pubblicista good-bye», di Andrea Niccolò Strummiello, 29 È in crisi solo la cultura, di Hervé A. Cavallera, 30 Profumo di riforme, di Alessandro Cesareo, 31 Chi ha armato Casseri?, di Alfonso Piscitelli, 33 La truffa dei giocattoli, di Claudio Messora, 34 Il modello cinese, di Antonio Saccà, 37 Lo sportello dell’usurato-Dalla truffa all’usura bancaria, a cura di Antonella Morsello, 39 Addio vecchio libretto di risparmio, di Felice Borsato, 40 I tre porcellini, di Enea Franza, 41 Timori e sogni, di Andrea Marcigliano, 42 La cattiva d’Europa, di Alfonso Francia, 44 Giudizi insindacabili, di Emmanuel Raffaele, 45 Nel nome del Mussa Dagh, di Alberto Rosselli, 46 Una guerra infinita, di Mary Pace, 47 L’Europa è isolata, di Giuseppe de Santis, 50 Arriba Espana!, di Gianpiero Del Monte, 51 «Sub-prime» alla pechinese, di Daniela Binello, 52 Va in scena il delirio, di Francesco Rossi, 53 La macchina dei fondi perduti, di Daniela Albanese, 55 Guai a chi tocca le banche centrali!, di Laura Lodigiani, 56 L’angolo della poesia, 79

IL MEGLIO DE «IL BORGHESE» Le vecchie zie non ci salveranno, di Alberto Giovannini Lettera ad un ragazzo del «Msi», di Guglielmo Peirce Due decenni 1922/32-1946/56, di Raffaele Mastro

LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Alessandro Gnocchi-«Una destra culturalmente vivace, ma incapace di riformare il Paese, a cura di Michele de Feudis, 36 Arrigo Petacco-Quelli che dissero «no», a cura di Aldo Ligabò, 71

TERZA PAGINA L’hanno vinta i comunisti, di G. de Turris, 57-Cupio dissolvi, di M. Mini, 58-Sindacalismo «anarchico», di N. Mollicone, 60-La moneta e l’economia virtuale, di M. Simonetti, 61-Meno studenti, più artigiani, di F. Lucchetti, 63-E se smettessimo di «chiacchierare»?, di F. Togni, 64-Il Museo come argomento filosofico, di R. Rosati, 65-Editoria al capolinea, di A. Spaziano, 66

Direttore Editoriale

LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile

CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net HANNO COLLABORATO Daniela Albanese, Adalberto Baldoni, Alessandro P. Benini, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello, Felice Borsato, Ruggiero Capone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Massimo Ciullo, Michele De Feudis, Filippo de Jorio, Giuseppe de Santis, Gianfranco de Turris, Gianpiero Del Monte, Pietro Del Tura, Mimmo Della Corte, Alfonso Francia, Enea Franza, Franco Jappelli, Aldo Ligabò, Laura Lodigiani, Franco Lucchetti, Gennaro Malgieri, Andrea Marcigliano, Fabio Melelli, Claudio Messora, Mino Mini, Nazzareno Mollicone, Antonella Morsello, Mary Pace, Paolo Emilio Papò, Riccardo Paradisi, Alfonso Piscitelli, Federica Pizzuti, Emmanuel Raffaele, Riccardo Rosati, Alberto Rosselli, Francesco Rossi, Antonio Saccà, Anna Maria Santoro, Mauro Scacchi, Riccardo Scarpa, Adriano Segatori, Giovanni Sessa, Matteo Simonetti, Angelo Spaziano, Andrea N. Strummiello, Romano Franco Tagliati, Adriano Tilgher, Fernando Togni, Leo Valeriano, Carlo Vivaldi-Forti

Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma

tel 06/45468600 Fax 06/39738771 em@il luciano.lucarini@pagine.net PAGINE S.r.l. Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000

IL GIARDINO DEI SUPPLIZI Quando il cinema finisce nella rete, di F. Melelli, 67-Appunti tra le capanne di un villaggio, di A. M. Santoro, 68-Nostra Signora Televisione: Febbraio, corto ed amaro, di L. Valeriano, 69Benvenuti in un mondo fantastico!, di A. Saccà, 70

LIBRI NUOVI E VECCHI Cittadino del tempo, del Cosmo e dell’eterno, di R. Scarpa, 72-Il controverso rapporto EvolaEliade, di M. de Feudis, 73-L’alchimista dell’immaginario, di M. Scacchi, 74-I Libri del «Borghese», di F. Pizzuti, 75-Librido, di M. Bernardi Guardi, 76-Schede, di AA:VV., 77 Le foto che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio.

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Stampato presso Mondo Stampa S.r.l. Via della Pisana, 1448/a 00163 Roma (RM) Per gli abbonamenti scrivere a: IL BORGHESE Ufficio Abbonamenti Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma

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IL BORGHESE

Piccola Posta NAUFRAGANDO SOTTO LE STELLE Come si diventa capitano di nave? E poi lo sanno anche i bimbi che l’ultimo ad abbandonare la nave è il comandante. Ma oggi va tutto caposotto, i foderi combattono e le spade stanno appese ai muri. Gli invalidi salvano i naufraghi mentre gli ufficiali se la filano al Giglio. C’è tanto pressappochismo, e questo pare serva a fare televisione di massa. DOMENICO PANTELLA Torino TAGLI ALLA SANITÀ, POI ALLE PENSIONI? Sono una giovane donna che ieri si è trovata davanti al muro dell’attuale realtà dei tagli economici. Da quasi sette anni percepisco una pensione di invalidità a causa di un incidente in itinere. Il danno, come da prassi, non venne liquidato in toto, ma sotto forma di una parte del risarcimento ed il restante fra pensione di invalidità ed assistenza sanitaria in merito alla percentuale di invalidità riscontratami. Ieri mi reco presso il mio medico di famiglia e mi viene fatto notare che non ho più la copertura su esami e controlli, come finora, ma soltanto per ciò che concerne la mia patologia (i.e. organi interni). Ora, il ragionamento è giusto: per quale motivo dovrei usufruire di esami e controlli gratuiti per patologie per cui non ho subito danni? Però, e qui ci sta un bel però, per quale motivo devo essere privata di un esenzione che mi è stata attribuita in merito al grado di invalidità a seguito del mio incidente? A me, comunque, gli organi persi non li rende indietro nessuno.

Mi viene spontaneo, a questo punto, chiedermi, se verranno fatti anche tagli sulle pensioni di invalidità. Perché, su quello non hanno alcun diritto di manomissione essendo parte del mio risarcimento che non hanno voluto liquidare per intero: perché privarsi di tutto il capitale da liquidare, quando te lo posso dare un poco alla volta? FIAMMA BERTINI Roma L’ITALIA E IL «RATING» Il condizionamento delle agenzie di rating sull’economia italiana mi sta facendo perdere totalmente fiducia nella politica. Tra i clienti delle varie Standard & Poor’s, Goldman Sachs… vi sarebbero Fiat ed altre multinazionali. Mi sorge il dubbio che il declassamento serva come nodo scorsoio, e cioè per convincere Monti e Fornero a fare un colpo di mano sull’articolo 18, soprattutto a far ingurgitare anche all’Italia un piano licenziamenti stile Grecia. Anche gli incontri MarchionneFornero sanno tanto di tira e molla sul come licenziare tutti i dipendenti della multinazionale torinese che, non è certo un mistero, vorrebbe aprire stabilimenti ovunque tranne che nel Belpaese. Siamo ricattati economicamente, politicamente e lavorativamente. Era meglio il Cavaliere, almeno subiva soltanto dei ricattucci per storie di letto. FRANCO GIRARDI Gioia del Colle (Bari) IL CLASSISMO AL POTERE Da un mesetto mi chiedo che senso abbia aver diviso gli Italiani in guardie e ladri: lavoratori, pensionati, artigiani e commercianti sono diventati i ladri mentre banchieri, tecnici alla Monti, Equitalia, Finanza, Polizia, Vigili… sono le guardie. Da quando regna questo modello s’è tornati indietro di almeno 20 anni: la burocrazia ci maltratta, i

Febbraio 2012 vigili ci multano per motivi risibili, negli uffici pubblici per ogni rimostranza chiamano la Polizia. Le sembra che così si possa andare avanti? Non che si vogliano giustificare le bombe ad Equitalia, ma le sembra giusto che viga sempre più l’equiparazione dell’uomo di strada all’escluso, al quasi criminale, al rifiuto della società? Il classismo dell’Era Monti può generare rivolte, e mi sembra che questa sia gente poco rispettosa dei veri indignati. MAURO VANNUCCI Firenze A QUANDO IN GALERA I POLITICI? Rammento come suo padre usasse rispondere a tono a quelli di Lotta Continua. Oggi mi chiedo che senso abbia continuare a considerarli nemici. Non le nascondo di nutrire rispetto per Adriano Sofri e (non mi giudichi male) di considerare Toni Negri un camerata mancato. Ritengo che chi abbia commesso crimini politici per ideali meriti più rispetto dei tanti furboni che hanno rubato case d’enti ed emolumenti dirigenziali. Mi chiedo con quale faccia questo Parlamento neghi l’amnistia. Mi fa specie che gente adusa a rubare stipendioni chieda il massimo della pena per i tanti ladri di mele e polli. Ho sentito da un poliziotto un ragionamento strano: «Altro che amnistia, qui serve prevedere più galera, tra qualche mese dovremo arrestare i tanti disoccupati che si daranno ad atti delittuosi». La ricetta Monti non fa una grinza, tasse e galera. BIAGIO BOTTA Milano Le lettere (massimo 20 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net

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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 2 - FEBBRAIO 2012

DAI FORCONI alle baionette di CLAUDIO TEDESCHI Roma, 18 gennaio 2012 LE PAGINE dei giornali del 18 gennaio scrivono della «Costa Concordia», dell’Europa con la Merkel che se ne lava le mani, mentre Monti gira con il cappello in mano, alla ricerca di soldi. Soltanto La Stampa, il Secolo d’Italia e La Padania. riportano la notizia della rivolta in Sicilia. Per il resto dei media non esiste. Si dà spazio alla protesta dei tassisti, con descrizione dei tafferugli a Roma, sottolineando la spaccatura all’interno della categoria, come il risultato della capacità di risolvere il problema da parte del governo. La rivolta siciliana (ribattezzata «la rivolta dei forconi») in due giorni ha bloccato l’isola, fatto sparire la benzina, con il fermo dei trasportatori e dei treni bloccati sui binari. Non sono gli «indignati» multicolori cari alla sinistra ed alla politica romana, ma gli autotrasportatori dell’Aias, i produttori agricoli del «Movimento dei forconi» ed i pescatori. Il motivo non è politico, ma di sopravvivenza. Si parla di suicidi tra i piccoli imprenditori del Nord, ma anche in Sicilia i «morti per debito» sono tanti. «Stiamo protestando per legittima difesa», dice Franco Calderone, uno dei leader del «Movimento dei forconi». «Da sei anni le nostre imprese agricole non producono più reddito. Lo Stato ci ha fatto spendere un sacco di soldi … per adattarsi alle normative europee. ... crollati i mercati ... ci troviamo con le scoperture bancarie, gli assegni in protesto, le ingiunzioni, i pignoramenti. E con gli ortaggi che arrivano dal Nordafrica senza alcun controllo … a prezzi stracciati». Questo è contestato da Ivan Lo Bello, Presidente di Confindustria Sicilia che qualifica le manifestazioni come «strumentalizzazioni politiche di demagoghi in servizio permanente effettivo». Nel contempo loda l’operato del governo che sta lavorando per risollevare il Paese, anche con grandi sacrifici, mentre i soliti «cani sciolti», professionisti della protesta, mancano di «buon senso». Le notizie dalla Sicilia non sono uscite sui media per 48 ore. Soltanto la rete, attraverso testate locali e blog personali, ne ha parlato. I portali dei media nazionali hanno taciuto, mentre l’informazione internazionale riprendeva quanto stava avvenendo. Questo perché nello stesso momento in Grecia avveniva lo stesso. La rivolta dei trasportatori contro la liberalizzazione del settore portava centinaia di «bestioni» in piazza, con Atene chiusa dalla polizia, che ha impedito loro di marciare verso la capitale. Da Corinto a Salonicco si è bloccato tutto, mentre Giorgio Tzortzatos, presidente della categoria, dichiarava: «Non abbiamo più nulla da perdere». Non è diverso dalla Romania, dove da diversi giorni, migliaia di per-

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sone sono in piazza a protestare contro le misure di austerità economica varate dal governo, al grido di «libertà» e «fame e povertà hanno bloccato la Romania»; la rivolta, oltre che contro il governo, è anche contro la dilagante corruzione politica. Lo stesso in Ungheria dove il premier Orban sta resistendo all’assedio portato al Paese dalla Ue e dal FMI, che vogliono costringere il governo a ritirare leggi definite «fasciste ed antidemocratiche» e sottoscrivere prestiti miliardari, che consegnerebbero l’Ungheria nelle mani delle banche. Mentre le masse impugnano i forconi e si preparano a marciare su Versailles, a Roma, come se nulla fosse successo, il Quisling delle banche si porta a pranzo i «tre utili idioti» della politica italiana. Il «professore» ha dato loro i compiti da fare a casa, avvisandoli che non si comportavano bene, la bocciatura era assicurata, forte anche delle parole di Draghi («La situazione è molto grave»). Casini, eccitato, dichiarava: «Adesso questo governo ha una maggioranza politica»; Alfano, dubbioso, «non è una maggioranza politica»; Bersani, vistesi fregate le battute, si è limitato alle frasi di rito sulla coerenza del Pd. Il Palazzo è incartato. Non ha più il polso della situazione, interna ed esterna. Antonio Martino sul Tempo scrive «l’euro è fallito salviamo l’Europa». Riportando il pensiero dell’economista Robert Barro, Martino sostiene la fattibilità di un ritorno alla lira in parallelo con l’euro, per poi far scomparire l’euro. Martino conclude affermando che «Una volta curati gli enormi problemi creati dalla moneta unica, potremmo finalmente! - concentrarci sugli autentici obiettivi europei: politica estera e di difesa, spianando la strada per andare verso gli Stati Uniti d’Europa.» Claudio Gatti sul Sole-24Ore, parlando dei fondi internazionali e della Grecia scrive: «Ma quella di Marathon è forse la forma di finanza più pura che esiste. Con i capitali non costruisce niente, scommette soltanto. Il suo è capitalismo d’azzardo». Marathon è uno degli speculatori, che negli ultimi mesi si sono gettati sui titoli di Stato greci. «Per tutti costoro il possibile fallimento della Grecia costituisce adesso un’opportunità. Si badi bene: non per comprare a prezzi stracciati beni o aziende da ricostruire o rivalorizzare. No, qui si parla di puri e semplici ‘acquisti opportunistici’. E la “carneficina” che potrebbe seguire a un’eventuale bancarotta di Atene interessa soltanto in quanto potenziale fattore di moltiplicazione del guadagno.» Ecco la verità. Monti è stato messo al governo per la copertura politica alla «carneficina» italiana. La nostra civiltà iniziò 2600 anni fa in Grecia, quando la ragione e la filosofia presero il posto dei miti e della religione che avevano trascinato l’organizzazione sociale al collasso. Oggi, la nostra civiltà sembra terminare proprio in Grecia. Tutto per colpa del mito della «democrazia oligarchica» e della religione della finanza. A questo dobbiamo opporre il ritorno dell’Uomo, come «padrone e proprietario», condannando la politica dell’accumulo. Se per fare questo deve scorrere il sangue, che a bagnare le piazze sia quello dei tiranni e non del popolo, affamato ed ucciso «in nome dell’equità».

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liberi

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Crisi economica, corruzione, caste intoccabili, nessun ricambio della classe politica, perdita dei princìpi spirituali dell’uomo e della comunità nazionale:

VUOI REAGIRE? Aderisci pure tu ai Circoli de

Per tutti coloro che si assoceranno e che sono già abbonati del «Borghese», la quota 2012 sarà già compresa nell’abbonamento …………………...……..……………………………………………...………………………………........ SCHEDA DI ISCRIZIONE COGNOME ……………………………………………….. NOME …………..………………………………………… NATO A …………………………………………………. PROV …… IL ___/___/______ DOMICILIATO A ………………………………………… PROV …… CAP ……………... VIA ………………………………………………………… N. ….. INT ….. SC ………… TEL/AB ……………………….. TEL/UFF …………………….. CELL ………………… EM@IL ………………………………………………………………..@.......................................... DATI PERSONALI TITOLO DI STUDIO…………………………………………………. PROFESSIONE ……………………………… ATTIVITÀ …………………………………………………………… ABB. NUM. ………………………………….. Dichiaro di accettare le norme dello Statuto, i programmi e le direttive dell’Associazione dei Circoli del «Borghese» Ricevuta l’informativa sull’utilizzazione dei miei dati personali, ai sensi dell’Art. 10 Legge 675/9, consento al loro trattamento nella misura necessaria per il proseguimento degli scopi associativi. DATA ___/___/______

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(DA INVIARE PER FAX ALLO 06/39738771 oppure CIRCOLIBORGHESE@EMAIL.IT)


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Grazie a coloro che hanno aderito in gran numero ed invitiamo tutti a fare opera di proselitismo, costituendo sempre più nuovi «Circoli» (minimo 10 soci). Tutti coloro che hanno documenti visivi possono inviarli, noi provvederemo a metterli in rete sul sito www.il-borghese.it

SALVIAMO L’ITALIA 1) Dai professori che stanno portando alla rovina lo Stato per venderlo a saldo 2) Da una Lega che ha fallito il suo progetto, ma non se ne è accorta 3) Dai «mercenari» della politica, che fanno le «manovre» per non pagare le tasse 4) Dalla dittatura delle «lobbies» che guardano ai cittadini come pecore da tosare 5) Dalla presenza dell’euro, arma letale del potere finanziario internazionale 6) Dall’invasione straniera nel nome di una cooperazione a senso unico 7) Dall’assassinio della cultura commesso dai «reality» 8) Dalla vecchia politica che non ha capito di essere ormai preistoria 9) Dalla schiavitù economica delle banche che porta il Paese al suicidio per debiti 10) Dalla vita sociale «sepolta» sotto i «partiti-spazzatura» Estratto dallo Statuto costitutivo dei «Circoli del Borghese» Art. 3 - Scopo e finalità L’associazione è senza fini di lucro ed opera senza discriminazione di nazionalità, di carattere politico o religioso. Si propone di promuovere ogni iniziativa culturale e politica tesa a restituire al cittadino il senso del dovere e l’etica della responsabilità. Denunciare il malcostume nel contesto politico, economico e sociale. Avversare caste e privilegi in ogni comparto della società. Educare le nuove generazioni ad assumere l’impegno di essere futura classe dirigente, onesta, libera, professionale e responsabile A questo fine si predispone per svolgere qualsiasi attività si ritenga necessaria al perseguimento degli scopi istituzionali con particolare attenzione a: Organizzazione e promozione di incontri, dibattiti e pubblicazioni per incidere nel processo culturale e sviluppo della Nazione. Esercitare, in via meramente marginale e senza scopi di lucro, attività di natura commerciale per autofinanziamento: in tal caso dovrà osservare le normative amministrative e fiscali vigenti. L'Associazione ha facoltà di organizzare, anche in collaborazione con altri enti, società e associazioni, manifestazioni culturali connesse alle proprie attività, purché tali manifestazioni non siano in contrasto con l'oggetto sociale, con il presente Statuto Sociale e con l'Atto Costitutivo. Le attività di cui sopra sono svolte dall'Associazione prevalentemente tramite le prestazioni fornite dal propri aderenti. L'attività degli aderenti non può essere retribuita in alcun modo nemmeno da eventuali diretti beneficiari. Agli aderenti possono solo essere rimborsate dall'Associazione le spese effettivamente sostenute per l'attività prestata, previa documentazione ed entro limiti preventivamente stabiliti dall'Assemblea dei soci. Ogni forma di rapporto economico con l'Associazione derivante da lavoro dipendente o autonomo, è incompatibile con la qualità di socio.


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IL BORGHESE

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I PROFESSORI NON SALVERANNO L’ITALIA

ALCUNE PROPOSTE per uscire dalla crisi di CARLO VIVALDI-FORTI L’AVVENTO dei professori al governo, imposto delegittimando il Parlamento e riducendo al silenzio i rappresentanti del popolo italiano democraticamente eletti, si è voluto giustificare in molti modi: tra questi la maggiore competenza tecnica che grandi banchieri e celebri economisti avrebbero rivelato rispetto ai politici caciaroni e corrotti, nominati dalle segreterie dei partiti. Premesso che per questi ultimi nutro pochissima stima e ancor minore simpatia, non mi sembra che i primi meritino maggiore apprezzamento. I loro provvedimenti imitano infatti da vicino quelli di Aldo Moro, di Mariano Rumor e di Giulio Andreotti tra gli anni sessanta e settanta. Orribili precedenti, considerando che è stata proprio quella politica dissennata e demagogica ad inaugurare l’epoca dell’assistenzialismo, del debito pubblico, dell’inflazione, della disgregazione morale e civile della società italiana. I diversi esecutivi demo-socialisti e demo-comunisti, formati anche allora per fronteggiare più o meno improbabili emergenze, si sono resi responsabili di autentici delitti nei confronti del Paese che ne dovrà scontare a lungo i deleteri effetti. Adesso, dopo la parentesi del bipolarismo seguita da molte, obiettive delusioni, si propone, per tutto rimedio, di regredire alla Prima Repubblica, di formare una nuova Democrazia Cristiana perennemente in vendita al migliore offerente, (qualcuno la definì la più grande puttana della storia), di tornare alla politica dei due forni e della proporzionale. In questa logica si inseriscono alla perfezione le misure del governo Monti adottate, come quelle di Moro ai suoi tempi, per decantare i conflitti, prevenire lo scontro sociale, e via elencando, in un oceano di menzogne e di trite banalità. Occorre quindi rispondere con estrema chiarezza a questa valanga di stupidaggini, contrapponendovi una piattaforma programmatica alternativa e ben delineata, che possa servire di base alla lotta che dovremo intraprendere per il recupero dei nostri diritti civili e della nostra libertà. È quel che mi propongo di fare sia pubblicando articoli e tenendo conferenze, sia preparando un saggio che vedrà la luce nei prossimi mesi e che conterrà una visione completa della società e dello Stato, in assoluta controtendenza rispetto alle ideologie demo-comuniste che purtroppo sembrano oggi riprendere piede. Iniziamo quindi a sbugiardare le menzogne che si celano dietro le parole-chiave del regime vecchio e nuovo. La comprensione esatta dei termini, come asseriva Confucio, è alla base del buon governo e di corretti rapporti sociali. Innanzitutto cerchiamo di capire meglio il significato autentico della parola emergenza. Essa significa, nel vocabolario italiano, una situazione gravemente critica da cui è urgente venir fuori. Nel politichese, però, assume valenze e significati totalmente diversi. Emergenza diventa allora una circostanza storica capace di minacciare non solamen-

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te e non tanto gli interessi dei partiti e dei governi, quanto quelli inconfessati che vi si nascondono dietro. Quando Moro impose alla DC di stringere una pericolosissima e distruttiva alleanza con forze a quell’epoca identificate con l’ideologia marxista-leninista, si giustificò affermando che l’Italia sarebbe caduta nel baratro della guerra civile ove questi mutamenti non si fossero verificati. Assoluta menzogna: infatti, il miracolo economico che aveva prodigiosamente e fulmineamente decuplicato il reddito medio degli italiani non era stato opera della sinistra, bensì del centro-destra, rappresentato dal partito liberale nel periodo degasperiano, a cui si aggiunsero monarchici e missini tra il 1954 e il 1960. In quegli anni, a parte qualche sporadica protesta vòlta ad ottenere miglioramenti economici, la pace sociale regnava nel Paese. Fu invece proprio dopo il 1962, cioè dopo l’avvento delle sinistre al potere, che iniziarono gli autunni caldi, gli scontri di piazza, la rivendicazione del salario variabile indipendente e, un decennio dopo, il terrorismo. La spiegazione di questo apparente mistero è semplice: finché il popolo venne lasciato libero di risparmiare, investire e lavorare con profitto, esso appariva totalmente dedito a tale opera ; quando, a seguito di una serie di leggi vessatorie dell’iniziativa privata, punitive del risparmio e del merito, gli si tolse giorno dopo giorno tale possibilità insieme alla speranza di un avvenire migliore, iniziarono i disordini. Molti si chiedono ancora chi glielo avesse fatto fare, a Moro e compagni, di imboccare una strada così pericolosa e senza ritorno che, da ultimo, avrebbe finito per travolgere il suo stesso teorizzatore. Le ipotesi formulate sono molte, ma la più vicina al vero appare senza dubbio quella del complotto internazionale: l’Italia, trasformatasi nel breve volgere di un decennio da Paese povero, distrutto dalla guerra, in una delle massime potenze economiche europee e mondiali, faceva paura a molti, Americani in testa, ma non soltanto a loro. I poteri forti dell’epoca, (già abbondantemente globalizzati: sostenere che la globalizzazione sarebbe un portato esclusivo dell’ultimo periodo è un’altra menzogna), decisero di fare abbassare la cresta a quei presuntuosi degli Italiani, gettando nelle ruote del loro carro uno dei più micidiali ostacoli prodotti dalla storia: l’odio di classe, fomentato dalla folle ideologia marxista. Una società che fino ad allora aveva pensato unicamente a lavorare e creare ricchezza, fu di fatto obbligata a sviluppare sentimenti conflittuali che non provava, ponendo le premesse per la propria rovina, come puntualmente è avvenuto. I poteri forti trovarono nella classe dirigente democristiana una facile sponda alle loro inique pretese, per lo stesso motivo di sempre: l’ambizione di individui privi di scrupoli, ai quali venivano offerti posti di governo e sottogoverno super pagati, pronti ad anteporre l’interesse personale e di bottega al bene comune.

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Questa è la vera storia d’Italia nell’ultimo mezzo secolo, piaccia o no, e qui vanno ricercate le cause prime delle nostre attuali disgrazie, incluso quel debito pubblico che oggi viene esibito come penosa giustificazione per fare approvare tutte le porcate che passano per la testa di chi, ancora una volta nel nome dell’emergenza, difende soltanto il proprio particulare. La storia si ripete, dando ragione a Vico. I più si chiedono dove la dissennata politica del governo Monti ci potrà condurre. La risposta è semplice pur nella sua drammaticità: al disastro economico e all’implosione del sistema sociale. Quel che si sta verificando sotto i nostri occhi, infatti, è l’effetto Titanic. Il mitico transatlantico inglese affondò per il prodursi di una catena di conseguenze : poiché le paratìe stagne giungevano in altezza solamente a metà dello scafo, l’allagamento dei primi tre compartimenti di prua, dovuto alla collisione con l’iceberg, provocò una inclinazione sufficiente a far tracimare l’acqua nel quarto, causando uno sbandamento ancor più accentuato; ciò faceva riversare il liquido nel quinto e così di seguito, fino al disastro ultimo. Identica conseguenza hanno le manovre del governo. Ogni volta che si aumentano le tasse cresce parallelamente l’effetto recessione; questo produce un corrispondente calo del gettito fiscale con un ancor più grave disavanzo dei conti pubblici. Per tutto rimedio, i geni della finanza che guidano come pazzi ubriachi il nostro Paese s’inventano nuovi e più pesanti balzelli, la cui entrata in vigore deprime ulteriormente la già boccheggiante economia e quindi l’introito dello Stato. Di questo passo bastano tre o quattro manovre per provocare una perdita di posti di lavoro calcolabile in almeno due milioni di unità, oltretutto con aggravio mostruoso della spesa per ammortizzatori sociali. Il sistema non può ovviamente reggere a questo sconquasso, e gli scenari che si aprono oscillano tra la guerra civile e il colpo di Stato, che potrebbe rappresentare, a quel punto, la soluzione malgrado tutto più ragionevole per uscire da una situazione senza sbocco. Se il governo non si fermerà immediatamente nella sua

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corsa verso l’abisso, l’ipotesi più probabile per i prossimi mesi è la seguente: a febbraio non verranno piazzati, sul mercato, i duecento miliardi di Bot in scadenza, oppure verranno piazzati ma a un tasso d’interesse intorno al 20 per cento, con effetti ancor più drammatici, sull’economia reale, del mancato rinnovo. Con simili premesse, il vertice europeo di marzo fallirà indiscutibilmente, ovvero neppure si terrà, con lo sfascio della moneta unica. L’Italia, costretta a pagare il proprio debito estero in lire o in euro computati come lire, subirà una svalutazione tipo Repubblica di Weimar già nei due mesi successivi. Questa, unita alla disoccupazione di massa, al blocco delle pensioni e dei conti correnti bancari, provocherà l’immediato collasso del sistema con deflagrazione dell’ordine pubblico. Le violenze proseguiranno, prevedibilmente, per l’intera estate e soltanto in autunno potrà nascere un nuovo ordine politico, opera di una diversa classe dirigente di cui ancora non si vede traccia, ma che la saggezza della storia produrrà in extremis, come sempre accade nei momenti di vera emergenza. Esiste una possibile alternativa a questa ipotesi drammatica? Al punto in cui sono le cose e tenendo conto della irresponsabilità dell’equipaggio, no. Il solo dubbio riguarda l’esatta durata dell’agonia : le pompe del Titanic, attivate a pieno ritmo, riuscirono a ritardare il naufragio di circa un’ora sui tempi matematicamente previsti. Lo stesso potrebbe capitare in Italia, qualora l’esecutivo intervenisse con misure palliative di sostegno all’economia e lenitive del malcontento, ma l’esito finale è comunque sicuro. Anche perché il governo si guarderà bene dal promuovere un’autentica politica dello sviluppo, che confliggerebbe platealmente con gli ordini ricevuti dai poteri forti internazionali. Ciò di cui il Paese avrebbe necessità per riprendersi, infatti, sarebbe una strategia della rinascita in tutto simile, sia pure mutatis mutandis, a quella posta in essere dai grandi vecchi del secondo dopoguerra, quali Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, Carlo Sforza, Enrico De Nicola, Gaetano Martino, Giorgio Almirante, Palmiro Togliatti. Si trattava di giganti del pensiero, della morale e della politica. I loro attuali successori si chiamano invece Mario Monti, Corrado Passera, Giorgio Napolitano, Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Angelino Alfano, Luigi Bersani ed altri di pari o minor livello. Grandezze, come ognuno può vedere, del tutto incomparabili. Ma cosa dovrà fare un governo serio, appena ci saremo liberati di questi pigmei, per ricostruire il Paese? Innanzitutto è indispensabile formarsi un’idea precisa su quanto sta avvenendo. La crisi odierna, infatti, non è per nulla principalmente economica o finanziaria, ma segna il declino irreversibile di quel modello sociale da me definito consumistico-assistenziale in varie pubblicazioni, effetto della politica degli anni sessanta e settanta. Porsi come obiettivo la salvaguardia di quello significa, a priori, assumere un atteggiamento fuori dal tempo, che guarda al passato e non al futuro. Non fosse che per questo tale strategia è destinata al fallimento. Per avviare la ricostruzione di cui l’Italia ha bisogno servono invece alcuni provvedimenti d’urgenza e riforme radicali di medio-lungo periodo. Tra i primi si collocano sostanziali diminuzioni d’imposte, per almeno il 10 per cento della pressione fiscale. Esse dovrebbero privilegiare le categorie più deboli e il lavoro. Mano a mano che ciò producesse i suoi effetti, ossia l’aumento del Pil, si renderebbero possibili altre sforbiciate alle tasse, fino a raggiun-

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gere il livello fisiologico del 30, massimo 35 per cento del reddito nazionale. Contemporaneamente si dovrebbe ridurre la spesa pubblica rendendo molto più leggero l’attuale Welfare voluto da democristiani e comunisti; questo non significherebbe affatto abbandonare i veri bisognosi al loro destino, ai quali si dovrebbe anzi garantire una dignitosa sussistenza per l’intero periodo del loro stato di necessità, ma rinunciare ad assicurare a tutti, anche ai più facoltosi, un’assistenza non strettamente indispensabile. Quanto al debito pubblico, ereditato dal modello consumisticoassistenziale, si dovrebbe provvedere a consolidarlo per venti anni nella misura massima del 30 per cento ad un tasso stabilito per legge, che non superi comunque quello ufficiale di sconto. Ove tale consolidato non fosse collocabile all’estero, circostanza possibile anche se non certa, si dovrebbe trasformare in un prestito forzoso all’interno, obbligando ciascun contribuente italiano, persona fisica o giuridica che sia, a sottoscriverlo in misura proporzionale al proprio reddito, pur spalmandone l’acquisizione su un numero ragionevole di esercizi fiscali consecutivi. Tale manovra avrebbe effetti recessivi quasi nulli, a paragone dell’inarrestabile aumento delle tasse. Infatti, non soltanto il capitale rappresentato da Bot e Cct si collocherebbe nell’attivo di bilancio di famiglie e imprese, ma in caso di urgente bisogno potrebbe essere negoziato in Borsa come qualsiasi altro titolo. Per chi decidesse invece di tenerselo, esso costituirebbe un piccolo patrimonio da riscuotere alla scadenza naturale, eventualmente trasmissibile agli eredi. Fra le riforme di medio periodo, si collocano quelle relative alla partecipazione, sia a livello aziendale che istituzionale. Tra l’altro l’assetto partecipativo delle imprese e degli studi professionali rappresenterebbe il migliore antidoto, forse l’unico veramente serio, all’evasione fiscale. La trasformazione del Paese in un gulag di delatori e spie, invece, oltre ad essere del tutto incompatibile con i più fondamentali diritti dell’uomo, rappresenta poi un ulteriore elemento recessivo. Il cittadino che teme la scure del fisco rinuncia infatti a spendere, anche se se lo potesse permettere, per non attirare l’attenzione della polizia tributaria. Ciò non fa che affrettare l’implosione del sistema, evento ormai scontato a breve termine. Su queste basi dobbiamo presentarci agli Italiani e proporci come alternativa globale. Qualsiasi strumento per raggiungere l’opinione pubblica deve quindi essere ricercato e ben venuto.

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OCCUPAZIONE TEDESCA

UN QUISLING di nome Mario di FRANCO JAPPELLI MA, insomma, questi strani, segaligni, ossuti, dimessi, lividi e saccenti professori che hanno commissariato l’Italia ci sono o ci fanno? Al momento, in effetti, non si è ancora capito se sono soltanto degli incompetenti paracaduti al governo per ragioni misteriose ed inconfessate o dei «marioli» che si fanno scudo della cattedra e dei blasoni universitari per «incaprettare» il popolo italiano su ordine e mandato delle lobbies bancarie di cui sono gli interessati servitori. Sino ad ora, in effetti, non ne hanno azzeccata una. A fare una manovra finanziaria come la loro sarebbero stati buoni tutti. Oltre all’ormai mitico zio di Raffaele Bonanni, anche la sora Cesira, che vende zucchine e carciofi al mercato rionale di Valmelaina, a Roma, e Mustafà Al Kabir, egiziano naturalizzato italiano, che dispensa equivoci, ma sapidi Kebab all’Anagnina, avrebbero, tutto sommato, fatto di meglio. Per mettere tasse e gabelle e ridurre alla miseria una nazione non è affatto necessario insegnare alla Bocconi. Con un po’ (anzi molto) pelo sullo stomaco e l’aiuto di un pallottoliere ognuno di noi è in grado di trasformarsi nello Sceriffo di Notthingam, storico precursore di Equitalia. Del resto, ormai anche i più sprovveduti in campo economico sanno benissimo che le crisi non si risolvono drenando liquidità dal mercato e, di conseguenza, asfissiando i consumi, ma, al contrario, dando alla gente la possibilità di spendere. Se la mancanza di denaro fa calare il Pil, ovvero la ricchezza prodotta dal Paese, pagare gli interessi sul debito pubblico diventa impossibile. E se un debitore viene ridotto in miseria e gli viene impedito di guadagnare quello che, oltre a vivere, gli permetterebbe di rientrare dalle sue esposizioni, le sole opzioni disponibili sono due: o si rinegozia il debito o lo sventurato ricorre alla canna del gas. In quest’ultimo caso il debitore risolve, una volta per tutte, il suo problema, e, se non altro, muore con la consolazione di averne creato uno, enorme, anche suo creditore. Tutto questo, ovviamente, lo sanno anche il professor Monti e i suoi Bocconi’s boys. Allora perché insistono nel praticare una politica economica che definire demenziale è sicuramente benevolo e riduttivo? Posto che il premier, anche se non vende zucchine come la sora Cesira, ha anche lui una certa dimestichezza con il mondo dell’economia, a questo punto non possiamo che dedurne che il «prof» non c’è, ma ci fa. Insomma, qui qualcuno ciurla nel manico ed è palesemente in mala fede. Intanto andiamo a leggerci cosa scriveva, la scorsa estate l’illustre accademico all’allora ancora primo ministro Silvio Berlusconi in un lettera aperta pubblicata, ovviamente, dal Corriere della Sera. Monti, nella missiva, mostra di aver apprezzato la «conversione» del Cavaliere alla politica di sacrifici chiesta dalla Ue e patrocinata da Tremonti: «Il Presidente del Consiglio», scrive infatti Monti, «ha preso visibilmente la guida. Si è schierato, per

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amore o per forza, dalla parte del rigore. Almeno su questo, non dovrebbero più esserci contrapposizioni con il ministro dell’ Economia. Entrambi, dopo avere prestato scarsa attenzione alle raccomandazioni rivolte loro per anni dalla Banca d’Italia, si premurano di seguire ora le indicazioni - molto simili! - della Banca Centrale Europea. È una svolta positiva e importante, pur se avvenuta nella precipitazione e perciò con due conseguenze negative. Le misure adottate, che potrebbero ben chiamarsi “tassa per i ritardi italiani malgrado l’Europa” e non certo “tassa dell’Europa”, non hanno potuto essere studiate con il dovuto riguardo all’equità e gravano particolarmente sui ceti medi. Inoltre, la priorità crescita, pur sottolineata dalla Commissione europea e dalla Bce, rischia di essere vissuta come “meno prioritaria”, nella situazione di emergenza in cui l’Italia, soprattutto per sua responsabilità, è venuta a trovarsi». A leggere queste frasi c’è da rimaner sbalorditi. Il Monti professore accusava il Berlusconi premier di aver fatto le stesse cose che lui stesso ha poi fatto (in maniera più grossolana e crudele) una volta diventato premier. Sul fatto che la manovra dei tecnici gravi soprattutto sul ceto medio e che non preveda alcun incentivo alla crescita non vi è infatti alcun dubbio. Ma il governo a guida bocconiana, sotto certi aspetti, è infinitamente peggiore di quello, pacchianotto, ma ridanciano, del Berlusca. Nel decreto «Milleproroghe», approvato lo scorso dicembre, è stata infatti inserita una disposizione che autorizza la Banca d’Italia a «prestare» ben 23 miliardi e 480 milioni di euro al Fondo Monetario Internazionale. «In tal modo l’Italia», spiega in un suo articolo Il Sole 24 Ore, unico quotidiano ad aver dato notizia del «prestito», «dà un seguito concreto a quanto si è deciso con il vertice dei capi di Stato e di Governo del 9 dicembre nonché con la riunione dei ministri dell’Eurogruppo del 19 dicembre scorso, nella quale si è stabilito che dai Paesi di Eurolandia verranno conferite al Fmi risorse addizionali per 150 miliardi di euro nella forma di prestiti bilaterali che andranno ad aggiungersi alle risorse ordinarie del Fondo, per conferire all’organismo di Washington la capacità finanziaria per fronteggiare la crisi.» Dunque, se quanto abbiamo appena letto ha un significato, mentre il governo varava una manovra da 39,97 miliardi di euro la Banca d’Italia si apprestava a «prestarne» 23 miliardi e 480 milioni al Fmi, ovvero dilapidava, in un colpo solo, circa il 58 per cento di quanto ricavato dalla manovra stessa. Certo, il Fmi, ovvero gli strozzini neoliberisti agli ordini di Washington, debbono affrontare la crisi mondiale. Ma alla nostra di crisi chi ci pensa? A Palazzo Chigi, evidentemente, debbono essere convinti che non soltanto la mamma dei fessi è sempre incinta, ma anche che le tasche dei contribuenti sono inesauribili. Comunque niente paura. Grazie alla cosiddetta «Fase 2» presto conosceremo una crescita economica tumultuosa ed inarrestabile. Lo Stato darà dunque soldi alle famiglie e incentivi alle imprese? Ovviamente no. Per la premiata ditta «Monti & C.» la ricetta miracolosa, la panacea capace di guarire tutti i mali, si chiama «liberalizzazioni». Tra le prime «lobbies corporative» che verranno colpite, a quanto pare, vi sono quelle dei tassisti e degli edicolanti, categoria notoriamente composte da ricchi Epuloni che sgavazzano nel lusso più sfrenato. Un tassista guadagna mediamente 1.700-1.800 euro al mese ed ha speso svariate centinaia migliaia di euro per acquistare la licenza. Gli edicolanti, invece, si alzano alle quattro di mattina per ritirare i pacchi di giornali consegnati dai distributori e

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neanche loro guadagnano cifre elevate. Non si comprende poi quali potrebbero essere i vantaggi per i consumatori. Tutto però diventa più chiaro se si considera che a trarre consistenti benefici dalle liberalizzazioni saranno unicamente quei gruppi finanziari e commerciali, vere e proprie holding, che premono da anni per mettere le mani sulla torta. La liberalizzazione delle licenze dei tassì consentirà, per fare un esempio, ad alcuni investitori di comprarne a centinaia. E Roma diventerà come New York, dove i tassì li guidano gli immigrati dal Bangladesh sottopagati, mentre le companies che sono proprietarie delle licenze incassano utili da capogiro grazie alla pianificazione dello sfruttamento. Lo stesso discorso vale per le edicole e le farmacie che perderanno parte dei loro introiti a favore della grande distribuzione che, da sempre, sogna di vendere giornali e medicine nei propri supermercati. Lo sceriffo di Nottingham, insomma, non perde occasione per assecondare la sua scellerata vocazione: togliere ai poveri per donare ai ricchi. Ma dove l’ineffabile professore ha raggiunto il massimo della protervia e della spudoratezza è nel palese, osceno, disgustoso favoritismo di cui ha gratificato le banche. Del resto c’era da aspettarselo. Se Bruto, per dirla con Shakespeare, era uomo d’onore, Mario Monti, notoriamente, è uomo di banca. Non pago, dunque, di aver «regalato» agli istituti di credito centinaia di migliaia di nuovi clienti «forzati» grazie all’obbligo di aprire un conto corrente per tutti i pensionati, l’uomo ha fatto, alla chetichella, un altro sostanzioso dono ai banchieri: ha alzato, come niente fosse, la soglia del cosiddetto tasso d’usura. Per le aperture di credito in conto corrente il tasso soglia è stato così alzato al 17,75 per cento fino a 5mila euro e «cala» al 15,63 per cento oltre i cinquemila. Gli scoperti senza affidamento viaggiano al 22 per cento, mentre gli anticipi e gli sconti commerciali (fatture) girano sopra il 12 per cento. E ancora: la soglia per il factoring è all’11,1 per cento e quella per il leasing strumentale al 14,9 per cento. Va male pure alle famiglie: i mutui per la casa arrivano al 9,8 per cento e le carte di credito revolving (acquisti a rate) al 25,1 per cento. E la tragedia è che questo regalo alle banche italiane si aggiunge a quello già fatto dalla Bce che ha «prestato» ai nostri istituti ben 209 miliardi di euro al tasso simbolico dell’1 per cento. Intanto, sempre per «far cassa», si sta lavorando all’abolizione della «golden share», ovvero del meccanismo che ha consentito allo Stato di conservare il controllo di aziende strategiche nel campo dell’energia, delle comunicazioni e della difesa. E gli stranieri, ovviamente, non aspettano altro per impadronirsi di Eni, Snam, Enel, Telecom e Finmeccanica. Viene spontaneo domandarsi, a questo punto, perché Monti si ostini a praticare una politica economica depressiva che conduce sicuramente alla povertà. La spiegazione, a ben guardare, è molto semplice. Monti è stato paracadutato a Palazzo Chigi dalla Merkel e da Sarkozy esclusivamente per garantire il rimborso alle banche tedesche e francesi detentrici del debito italiano. Il professore, insomma, ci fa alla grande. Dice di voler salvare l’Italia, ma, in realtà, lavora - è il caso di dirlo - per il re, anzi la regina, di Prussia. Non a caso, in uno dei suoi tanti incontri in ginocchio con Frau Merkel, Mario Monti non ha avuto timore di derogare alla sua «sobrietà» per indirizzare sperticati elogi alla «Grande Germania». «Io amo la Germania», ha detto il professore. «Io ho sempre lavorato per un’Italia che assomigliasse il più possibile alla Germania.» Insomma: si scrive Monti, ma si pronuncia Quisling.

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DIVIDI RICCHEZZA, CREI POVERTÀ

I COSTI dello Stato di RICCARDO PARADISI C’È qualcosa di cupo oggi nell’aria. Un’atmosfera satura d’angoscia e di rabbia. Perché d’accordo la crisi, d’accordo anche i sacrifici per drenare un debito pubblico mostruoso che sapevamo prima o poi dover pagare, d’accordo anche il rigore… Ma se questa amara medicina somministrata agli Italiani con corollario di lezioni un po’ professorali sui compiti da fare a casa la dovranno prendere i soliti noti e soltanto loro, i destinatari privilegiati delle micidiali stangate che ciclicamente s’abbattono sul Paese, lavoratori e ceto medio produttivo per intendersi, allora il rischio di una nuova stagione di tensioni sociali di cui parlano non soltanto i sindacati, ma anche il presidente della Cei Angelo Bagnasco, sarà molto concreto. Anche perché questa non è una crisi che si limita a erodere il reddito, a incidere sui risparmi, a comprimere consumi e livelli occupazionali - secondo gli ultimi dati Istat il tasso di disoccupazione è salito all’8,6 per cento e la disoccupazione giovanile al 30 per cento - è una crisi che getta nella povertà le famiglie. Secondo i dati Caritas sono otto milioni e mezzo gli Italiani scivolati nella povertà mentre ancora secondo i dati Istat le famiglie in condizioni di semi-indigenza sono passate da 2,65 milioni a 2,7 milioni. Una crisi che induce disperazione, fino a picchi acuti e inauditi. Come il suicidio dell’imprenditore catanese Roberto Manganaro, la notte di Capodanno, costretto per la crisi a licenziare. O come il suicidio di un pensionato di 74 anni, anch’esso nella notte di capodanno, a Bari, dopo l’arrivo di una comunicazione natalizia dell’Inps che gli chiedeva di restituire parte della pensione, 5mila euro. Non si scherza insomma. Per questo occorre serietà dal punto di vista dell’analisi ed equità dal punto di vista della ripartizione dei sacrifici. Prima cosa da fare sgombrare il campo da equivoci e demagogie interessate. Campagne giornalistiche di vario livello, assieme alla sottocultura antipolitica che dilaga in rete - da Beppe Grillo a Antonio Di Pietro - sono il miglior alleato del combinato disposto burocratico-tecnocratico che stornando il risentimento sociale sulla politica nasconde il vero scandalo costituito dalla spesa mostruosa per il mantenimento di un apparato statale di tipo sovietico e del suo esercito di impiegati, burocrati, grandi e piccoli commis di Stato, sedicenti dirigenti pubblici. Uno Stato creditore verso imprese e cittadini ma spietato nel pretendere puntualità nel pagamento delle imposte, con una pressione fiscale che sfiora il 50 per cento. Una ragnatela d’acciaio che grava sui ceti produttivi alla cui rabbia si indica come soluzione alla crisi i fatidici costi della politica. In particolare quella italiana non ha scusanti. Viziato sin dalla sua nascita, il sistema italiano negli ultimi tre decenni è evoluto addirittura all’indecenza tanto che la sua un’immagine pubblica è ormai indifendibile. Di politica - attività che Platone riservava soltanto ai migliori e i liberali conservatori soltanto ai più meritevoli - oggi vive una vasta fauna umana di solito selezionata dai ranghi della risulta sociale.

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Un ceto parassitario con una non trascurabile presenza di autentici mentecatti che ha contribuito ad azzerare la credibilità della politica. Non a caso, dagli ultimi rilevamenti, la fiducia dei cittadini nei confronti dei partiti è sotto l’11 per cento, addirittura inferiore rispetto agli anni di Tangentopoli. Detto questo, della politica non è purtroppo possibile farne a meno. Anche perché qualcuno che farà politica, anche senza partiti, ci sarà sempre. Si fa soltanto demagogia dunque quando si afferma che la falla dei conti pubblici è costituita dagli stipendi dei parlamentari o dal gettone di presenza dei consiglieri comunali o magari dei componenti il parlamentino del Cnel. Stabilito che un politico italiano costa molto, che in Italia sono troppi a vivere di politica e che l’esempio deve essere dato da chi è il primo a chiedere sacrifici, non è il numero dei parlamentari e il loro stipendio il vero obiettivo da colpire per abbattere la parossistica spesa pubblica italiana quanto la spesa pubblica improduttiva perpetrata ogni anno dalle pubbliche amministrazioni. È questa la voragine a cui occorre guardare e rimediare come invita a fare Mario Baldassarri, economista, ex viceministro all’Economia e oggi esponente del Terzo polo. «Se impostassimo un taglio di metà degli stipendi e del numero di deputati e senatori risparmieremmo 450 milioni di euro invece ne buttiamo altrove 45 miliardi». Numeri, non parole, quelli che Baldassarri porta a sostegno della sua tesi secondo cui i costi della politica veri sono gli sprechi dolosi della pubblica amministrazione: «Partiamo dal totale della spesa pubblica. Sul 2011 la spesa pubblica ammonta a 820 miliardi di euro, più o meno il 52 per cento del Pil. Le voci più importanti sono anzitutto gli stipendi della pubblica amministrazione (181 miliardi), le pensioni (250 miliardi) e gli interessi sul debito (87 miliardi). Le prime due sono bloccate, sulla terza, ahimè non si può intervenire. Quindi bisogna incidere sulle voci che mancano. È su queste ultime, che riguardano gli acquisti dei beni e servizi della pubblica amministrazione, che si annida un 30 per cento di ruberie mostruose. Sono 137 miliardi di euro. Infine, una voce molto nascosta negli ultimi anni, è quella dei contributi alla produzione, 42 miliardi che nel 2011 scendono a 39. Il totale è un patrimonio da 180 miliardi che si può aggredire con enormi risultati». Perché nessuno indaga su queste pieghe e non si taglia in questo settore? Perché significherebbe «tagliare il brodo di coltura di 300 mila persone che si nasconde e prospera nella zona grigia che sta tra politica, economia e affari». Un secondo capitolo serio di costo mostruoso che incide sul bilancio pubblico sono le regioni a statuto speciale: «Le motivazioni su cui i padri costituenti fondarono queste aree privilegiate del Paese oggi non sussistono più», afferma il costituzionalista e presidente della Commissione per l’attuazione del federalismo, Luca Antonimi. Si tratta di realtà tutelate dalla Costituzione e dai loro statuti, a loro volta leggi costituzionali, ma, insiste Antonimi, «il contesto è cambiato e l’Europa pretende sacrifici». Un terza falla macroscopica del sistema è il costo cronico della corruzione. Sono 60 i miliardi di «buco» stimati dalla Corte dei Conti prodotti da questo fenomeno che incidono per mille euro su ogni cittadino. È comprensibile che sia più facile dare la caccia al «cinghialone» della politica piuttosto che aprire una guerra sistematica alla spesa pubblica improduttiva, alla burocrazia parassitaria e alla corruzione. Ma non è con la demagogia che si rimettono i conti in ordine e si esce dalla crisi, anche dalla crisi della politica. La storia di «Tangentopoli» e di «Mani pulite» dovrebbero insegnare qualcosa agli Italiani.

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BOSSI, MARONI E «O’ MALAMENTE»

SI È SCIOLTA la «Lega» di GENNARO MALGIERI CHE cosa ne è della Lega? Il men che si possa dire è che la rottura tra Bossi e Maroni, consumatasi nella brace rovente dell’autorizzazione all’arresto (negato) al deputato Nicola Cosentino, appare ormai insanabile. E la circostanza autorizza a ritenere non soltanto che, nel volgere di un ragionevolmente breve lasso di tempo, ci saranno almeno due Leghe, ma che una si esse tenterà di ricomporre i rapporti con il Pdl dando luogo, a livello sia pure embrionale, ad un nuovo centrodestra che potrebbe sperimentarsi in occasione delle prossime elezioni amministrative di primavera. È oggettivamente difficile immaginare mentre scriviamo, a poche ore cioè, dalla spaccatura di cui si è detto, quali saranno i percorsi che le diverse componenti leghiste imboccheranno. Ma è, al contrario, semplice ipotizzare che dopo quel che è accaduto, a suggello di una crisi dalle radici profonde, manifestatasi in più occasioni, sia pure non con la virulenza che è andata in scena dopo il voto a Montecitorio, niente sarà più come prima ed il destino del Carroccio è comunque segnato. O la separazione radicale tra le due «anime» oppure la più improbabile ricomposizione che però implicherebbe l’istituzionalizzazione di una guerra guerreggiata che il partito nordista certamente non può permettersi nella certezza di pagare un pesante scotto in termini elettorali, ma anche di immagine e di complessiva affidabilità dal momento che governa molte importanti amministrazioni locali. Insomma, quel che è chiaro, dopo tanto smentire da parte degli interessati, sta davanti agli occhi di tutti: la Lega si rende conto, tanto nella componente bossiana che in quella maroniana, che non può essere contemporaneamente un movimento di lotta e di governo, ma che se intende portare a capitale qualcosa, dopo tante illusioni disperse nelle valli padane, deve assumere una linea univoca ed individuare gli alleati giusti che le consentano di soddisfare il minimo di quanto il suo elettorato si attende. Dopo vent’anni di proclami secessionisti, di progetti federalisti, di gestione del potere anche in chiave clientelare non resta molto della «rivoluzione» leghista la quale, alla prova dell’abbandono di Berlusconi, con tutta evidenza non regge politicamente e strutturalmente a meno che non si voglia accontentare di recitare la parte del gruppo di raccolta di tutti i risentimenti che si sono da tempo immemorabile sedimentati nel Settentrione del Paese ed impastarli in un improbabile magma politico al fine di costituirsi come alternativa al sistema (da ricostruire) dei partiti. È probabile che la rottura tra Bossi e Maroni non sia più di tanto determinata da un’impostazione politico-culturale inconciliabile a fronte della crisi economico-sociale, ma da una vera e propria lotta di potere che è andata sviluppandosi negli ultimi anni e si è acuita poco prima della fine del governo Berlusconi dovuta alla pura e semplice gestione del partito a fronte del limitato raggio d’autonomia del fondatore e delle crescenti ambizioni del delfino (peraltro mai designato) i cui

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sostenitori mal sopportano il peso del cosiddetto «cerchio magico» bossiano ed in definitiva imputano a questa componente una deriva familistica della leadership leghista. Entrambi i gruppi, a ben vedere, hanno colto l’occasione della rottura con Berlusconi ed il passaggio all’opposizione al governo Monti per rilanciare unitariamente il Carroccio, ma hanno commesso l’errore di non accordarsi preventivamente su una strategia credibile e possibilmente vincente, né hanno definito una nuova classe dirigente in grado di guidare il movimento. Maroni, che ha compreso prima di altri la necessità del cambio di passo, si è reso conto che soltanto dalla discontinuità con Bossi e con la sua ristretta cerchia di fedelissimi può dipendere l’innovazione della Lega, ma non ha fatto i conti con i numeri che, almeno in Parlamento, sono dalla parte del capo. Infatti è bastato un flebile segnale del senatúr sul caso Cosentino, concretizzatisi nell’annuncio del «voto di coscienza» dopo che era stato dato per certo che il gruppo si sarebbe espresso in senso sfavorevole al deputato campano, che Maroni ha visto assottigliarsi le sue truppe alla Camera. Ciò non vuol dire che ingoierà il rospo tanto facilmente. I suoi uomini che contano sul territorio faranno di tutto per mettere in difficoltà Bossi, procedendo secondo le regole proprie della guerriglia. Il fine sarà quello di ottenere la resa degli antagonisti. Se però non dovessero riuscire nell’intento dovranno rassegnarsi alla sconfitta che per loro significherebbe la fuoriuscita dalla Lega e l’avvio della costruzione di un nuovo movimento dagli incerti confini ideologici e politici. Se Bossi sembra cercare il recupero di un rapporto con il Pdl, Maroni non ci pensa nemmeno. Il realismo politico dell’ex ministro dell’Interno si palesa sempre più fragile, indirettamente proporzionato alle capacità messe in mostra al Viminale. La singolare circostanza è probabilmente dovuta ad una certa fretta nell’impossessarsi della guida della Lega che lui - ma non soltanto lui, anche bossiani convinti a dire la verità - vedono avviata verso un processo di sclerotizzazione e, dunque, incapace di incidere più di tanto sulla realtà nordista che potrebbe essere «catturata» da un nuovo centrodestra a trazione pidiellina se soltanto questo la smettesse di rincorrere il leghismo peggiore per proporre un disegno di emancipazione socio-economico a quella parte considerevole della società padana delusa dal Carroccio ed animata da spirito innovatore. Anche al Nord, dunque, un altro centrodestra è possibile. Molto dipenderà dallo sviluppo che avranno i confronti nella Lega e da chi, in definitiva, vincerà la partita. Maroni, nonostante lo smacco di giovedì 12 gennaio, sembra meglio piazzato. Ma Bossi se legherà ancora i propri destini ad un Pdl rinnovato non è detto che non possa essere protagonista di una nuova stagione. Certo è che i «duellanti» difficilmente si ritroveranno. E questo è un problema non soltanto per il Carroccio, ma anche per i possibili futuri alleati.

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IL BENESSERE DELLA SERVITÙ

LA PAURA dell’orgoglio di ADRIANO SEGATORI DA PIÙ parti si sente un continuo lamento sullo stato attuale dell’Italia, in particolare contro l’oligarchia partitocratica che ha dissanguato il Paese, riducendolo all’attuale bancarotta. Per ultimo, come data e come importanza, contro il governo dei tecnocrati, un apparato burocratico-amministrativo al servizio del capitale transnazionale e della finanza mondialista. Quando il governo liberamente eletto avviò delle riforme strutturali con moderazione, attento a non suscitare troppo allarme e scompenso sociale, gruppuscoli inferociti e devastatori, troppo ben organizzati e mirati per poter crederli spontanei e autonomi, misero a fuoco Roma. Oggi, che rappresentanti dello straniero e non certo della Nazione hanno messo in atto precise manovre di strangolamento del popolo, disinibite tattiche di sopraffazione dello stato sociale, equivoche macchinazioni mirate alle definitiva liquidazione della sovranità nazionale, nessuno si muove. Anzi, la sinistra disfattista e cosmopolita, si pone in un ruolo di plaudente collaboratrice con gli attuali detentori del potere antipolitico. La scena della folla urlante all’addio di Berlusconi, e festante all’arrivo di Monti, ricorda la canea che accoglieva gli Americani, che giustificava i bombardamenti terroristici sulle nostre città, che offriva fiori e generi di conforto agli stupratori delle nostre donne. La sinistra, genericamente intesa, è sempre stata la quinta colonna dello straniero. Per sua natura perversa e servile, ha sempre giocato contro gli interessi nazionali, a supporto di quelli internazionalisti della propria ideologia. Essa, tuttora, mantenendo vivo il fuoco patetico e fuori tempo dell’antifascismo, custodisce sempre accesa la sua nostalgia per la guerra civile, il suo intramontabile rimpianto per la vendetta personale e per le ritorsioni di classe. A fare da speculare sinergia nei comportamenti di rassegnazione e di passività, c’è un centro-destra imbelle e calcolatore, che supportando questa organizzazione governativa di tipo ragionieristico, spera di poter scaricarsi l’onere di un lavoro sporco e penalizzante dal punto di vista elettorale, per poi risorgere come una nuova entità di salvazione dalle rovine procurate da altri. In termini simbolici, sovrastorici, minimalistici è la riedizione in sedicesimo di ciò che accadde cinquantanove anni fa. Gruppi di agitatori finanziati dallo straniero portavano a termine il loro lavoro catacombale di erosione di un regime politico; in contemporanea si attivavano per aprire le porte all’invasione rinunciando alla storia futura del proprio Paese; altri, ex fiancheggiatori del regime in caduta, erano pronti a sostituire la classe dirigente esautorata, ripresentandosi con una patina di verginità e di moralità di dubbia freschezza. Tra i comportamenti di questi due grossolani gruppi dirigenti c’è il popolo: manovrato con cinismo da entrambi le parti, e cieco di fronte ad una seria analisi delle motivazioni dei loro autoreferenziali capi. Un popolo sfibrato da decenni di benessere virtuale, da un accudimento infantile proteso alla soddisfazione immediata

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ed irresponsabile di ogni voglia; un popolo deprivato dell’orgoglio della propria storia e colpevolizzato per i fasti e le conquiste del passato. Si chiede Paolo Crepet, in un suo lavoro di educazione genitoriale: «Perché abbiamo permesso che il mestiere di educatore si sia trasformato fino a eludere l’idea di dover fare crescere una generazione più forte di giovani?» E noi: perché abbiamo permesso ad una classe politica bancarottiera e fallimentare di indebolire il popolo a popolazione e lo Stato a mercanzia societaria da manovrare per scopi addirittura lesivi della sua dignità e della sua potenza? Questa deriva è la causa principale della mancata reazione corale. Perché non siamo più comunità, perché non abbiamo più il sentimento di appartenenza, perché abbiamo soffocato la fierezza della nostra storia, perché ci hanno fatto rinunciare al prestigio dell’identità, perché ci hanno fatto credere che il diritto sia un obbligo e non un privilegio, e il dovere un peso e non il pegno della responsabilità. Nessuno scatto di dignità e di furore quando da qualche parte si minaccia di «commissariare l’Italia», o quando qualcuno si propone di venire da noi per farci funzionare il sistema. Muti e apatici, come se l’Italia fosse soltanto un’azienda in liquidazione, e gli Italiani aspettassero soltanto che venga riconosciuta loro la tredicesima e mantenuto il sussidio di disoccupazione. Del resto, a parte il tentativo fatto negli anni ‘20-’40 e naufragato con il tradimento allo straniero, cosa mai può essere diventata questa accozzaglia di interessi privati dopo decenni di corrotta democrazia e cosmopolitismo buonista? Non ci può essere reazione a nulla, se pensiamo che quel nulla non ci appartenga. L’appartenenza è legata ad un mito originario, ha un’origine epica, mentre «le appartenenze correnti in effetti, appaiono alquanto simulate e per di più superficiali, artefatte ed effimere, dirette da operazioni di mercato, dalla pubblicità, dalle clientele politiche [mentre diverso] è il sentimento di appartenenza cosciente ad un’entità collettiva dotata di proprie radici costumali e propri fondamenti culturali, dei quali non deve dare ragione ad altri» (Giulio Maria Chiodi, Identità e mito di appartenenza, Incursioni, Centro Studi Meridie, luglio 2006, n. 2). È qui il punto cruciale, quello che indirettamente si rifà a Carl Schmitt: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione». È al di là di ogni ragionevole dubbio che l’Italia non può considerarsi uno Stato sovrano, perché dipendente, soprattutto dal punto di vista (im)morale e psicologico, dall’unica potenza imperialista che rappresenta le multinazionali del mercato ed il pensiero unico. In più, ora, con l’Europa dei mercanti, dei biscazzieri e degli usurai, deve sottomettersi allo strapotere degli uffici e dei burocrati, che non le permettono la minima autonomia interna, immaginarsi quella estera. Ogni volta che il nostro Paese ha avuto un leader che rivendicasse una propria autocrazia ed un disegno di indipendenza (Mussolini, Mattei, Moro, Craxi, Berlusconi), i mestatori indigeni e i poteri stranieri hanno concorso a stroncare la più pallida velleità. Certi hanno pagato con la vita il loro scatto di orgoglio italico, e ora il popolo non ha più alcun sentimento di essere tale, con l’aggravante, come fa notare Massimo Fini, che «il benessere ci ha reso la vita talmente cara che non c’è umiliazione che non siamo disposti a sopportare per non dover metterla a rischio, [perché] in democrazia non c’è alcun valore che sia ritenuto degno del sacrificio della vita». Siamo schiavi delle opinioni, ma terrorizzati dalla libertà delle idee, perciò nessuno è disposto a morire per transitori punti di vista, mentre molti potrebbero essere favorevoli ad uccidere e morire per degli ideali. È per questo rischio che sono stati soppressi dall’anestesia del fatuo benessere della servitù.

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GRAZIE AI GOVERNI BERLUSCONI

GIUSTIZIA malata di FILIPPO DE JORIO* SE DOBBIAMO seriamente valutare la situazione attuale del servizio giudiziario in Italia è necessario prioritariamente riconoscere che tutte le riforme realizzate negli ultimi anni per diminuire i tempi dei processi, nonché il loro numero, sono fallite. Lo stesso Vietti, Vice Presidente del CSM e magistrato, lo ha recentemente riconosciuto! Ma, parallelamente, i tentativi di cui sopra hanno gravemente compromesso la conformità del processo agli artt. 3 e 24 della Costituzione perché hanno vulnerato sia il diritto di difesa di cui all’art. 24, sia il comma secondo dell’art. 3 che vuole la rimozione degli ostacoli che «limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». In questa situazione gli sforzi del governo e del legislatore dovrebbero essere tesi ad una valutazione oggettiva del fenomeno per studiarne le necessarie vie d’uscita. Invece (e ciò da almeno tre lustri) si sono rivolti ad ipotizzare e, purtroppo, ad introdurre misure, soprattutto economiche volte a scoraggiare la proposizione di azioni giudiziarie e conseguentemente i ricorsi per il ritardo di giustizia per il timore di doverne affrontare i costi crescenti e le penalità che, ad nutum, possono essere irrogate per «punire» quelli che non intendono questa logica per così dire maltusiana incongruamente destinata al controllo della nascita di nuovi processi per scoraggiarla prima che si verifichi (si vedano ad esempio le pesanti condanne alle spese di giudizio in caso di soccombenza, che nel caso dei cittadini privati raggiungono anche le decine di migliaia di euro, mentre, nella remota ipotesi in cui venga condannata la Pubblica amministrazione, si limitano a poche centinaia). La legge è uguale per tutti, ma ci sono quelli per i quali - possiamo dire, parafrasando il filosofo greco, è più uguale che per gli altri. Oggi soltanto i ceti più abbienti possono rivolgersi al servizio giustizia senza remore né riserve. Vediamo ad esempio l’ultimo «regalo» che il governo Berlusconi ha fatto ai cittadini italiani, la cosiddetta «legge di stabilità 2012» la quale, a parziale modifica dell’art. 283 del Codice di procedura civile penalizza la istanza di sospensiva. Se questa ha la disavventura di non piacere al Giudice, egli può condannare chi l’ha proposta ad una pena pecuniaria che va da 250 a 10.000 euro. E questa condanna non può - anche se errata - essere revocata subito perché occorre aspettare la sentenza che definisce il giudizio. Ma la legge di stabilità 2012 non si ferma qui (vedasi ad esempio l’art. 27 per l’accelerazione del contenzioso civile in appello). La stessa norma di «scoraggiamento» è contenuta nelle modifiche del Codice del processo amministrativo attuata con decreto legislativo 195/2011 («Il Giudice condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria quando la parte soccombente ha agito o resistiva temerariamente in giudizio»).

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Abbiamo rievocato le ultime vicende che possono registrarsi nell’alveo di una linea che riteniamo profondamente errata e sospettiamo di incostituzionalità per evidente pretermissione degli artt. 3 e 24 della Costituzione. Ma, in realtà, è da tempo che il governo che più ha condizionato la politica italiana dal 1994 in poi, cioè quello di Berlusconi, ha scelto questa strada! Come dimenticare l’aumento continuo delle tasse giudiziarie, del contributo unificato per le spese di giustizia, che vale anche per i giudizi di lavoro se non si prova con l’esibizione della dichiarazione fiscale di essere quasi in stato di indigenza? Che dire del fatto che anche i poveri pensionati ricorrenti davanti alla Corte dei Conti vengono da qualche tempo condannati alle spese nei confronti degli enti previdenziali e delle pubbliche amministrazioni?! Negli ultimi tempi ho notato un evidente «favore» verso gli enti previdenziali (ormai unificati nel catastrofico Inps) e verso la Pubblica amministrazione che così vede premiate e coperte le sue inefficienze (ci sono sentenze che il Ministero della Difesa impiega fino a dieci anni per eseguirle!). Ora questo è nettamente contrario anche all’art. 111 della Costituzione che vuole, in aderenza al principio del «giusto processo» contenuto nella Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, la «égalité des armes», cioè la totale parità tra la pubblica amministrazione ed i privati cittadini (la Corte europea dei Diritti dell’uomo a partire dal 1999 con la sentenza Bottazzi c/ Italia ha condannato il governo italiano per le carenze strutturali del ordinamento giudiziario in materia civile, penale ed amministrativa, affermando che queste croniche inadempienze non sono degne di uno Stato di diritto, chiedendo nel contempo al nostro legislatore di intervenire per dare una concreta attuazione ai diritti tutelati dalla Cedu). In questo quadro va inserito anche il vergognoso «balletto» per stabilire - con ritardi inverosimili ed inaccettabili - se la competenza dei ricorsi per il ritardo delle sentenze dei Giudici Amministrativi per dolersi della loro eccessiva durata ex L. 89/2001 cd. Legge Pinto, debba essere impugnata seguendo il criterio di cui all’art. 11 Codice procedura penale oppure no (come aveva già deciso nel 2007 la Corte Costituzionale). Tra tutte le misure gravi e dolenti per scoraggiare il ricorso alla giustizia spicca l’aumento del contributo unificato anche per i processi di lavoro o di pensioni davanti alla magistratura ordinaria ed amministrativa (oltre al suo raddoppio in tanti altri casi, come ad esempio, per quanto attiene all’impugnazione dei provvedimenti delle Autorità Garanti). È la prima volta che questo avviene e il governo che ha proposto queste misure ed il Parlamento che le ha approvate dovevano ben sapere che, adottandole, si colpivano decine di milioni di cittadini dei ceti meno abbienti! Nello stesso senso la regola recentemente imposta che vuole la presentazione di una nuova istanza per la fissazione dei ricorsi proposti prima del 2009 in appello o in cassazione. La sanzione è la «rottamazione» degli stessi processi! Si potrebbe continuare per stigmatizzare la demenziale antigiuridicità della linea «Maltusiana» che - mi spiace dirlo - sembra condivisa anche da una persona sensata come Vietti che si esprime a favore della eliminazione di un grado di giudizio. Tre gradi di giudizio. «È un lusso che non possiamo più permetterci», dice. (Continua a pagina 14)

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DOPO 150 ANNI DALL’UNITÀ

QUALE Italia? di RICCARDO SCARPA FARE il punto sulla politica italiana non è difficile: Nichi Vendola, Sinistra e libertà, continua nella sua politica delle emozioni, quella dei sessantottini attempati e dei «compagni» che scimmiottarono i «figli dei fiori», mandano su tutte le furie Giorgio Amendola, che intravide la carica libertaria e temette per la struttura di partito. L’Italia dei Valori di Tonino Di Pietro è più in crisi dei valori quotati in borsa. L’antiberlusconismo senza Silvio Berlusconi a capo del governo non ha una politica, prende le distanze da Mario Monti ma: «che c’azzecca?». L’unica area che rappresenta qualcosa, in quel versante, è quella radicale. Marco Pannella ha facile gioco, nell’acquiescenza di tutti gli altri, nel denunciare la deriva clericale in atto. Riacquista un ruolo persino Enzo Marzo con Critica liberale, la cui ultima inchiesta sulla secolarizzazione italiana rileva quanto prosegua la desacralizzazione degli stili

(Continua da pagina 13)

Rispondiamo che non è colpendo i diritti che si fa cosa utile alla giustizia. La strada è tutt’altra! È l’aumento del numero dei magistrati incrementando l’apporto dei magistrati onorari e destinando alla Corte d’Appello ed alla Corte di Cassazione 3mila avvocati che abbiano almeno trent’anni di professione, mediante una selezione rapida per titoli ed una sola prova orale. Questo tentativo andrebbe però accompagnato da investimenti seri nel servizio giudiziario per migliorarne la partecipazione degli ausiliari di giustizia e delle cancellerie. Si potrebbero anche recuperare i candidati che all’esame di magistratura abbiano superato 2 prove scritte su 3, anche qui con una prova orale rapida che ne valuti l’attitudine ed il merito. Comprendiamo fin troppo bene quanti ostacoli possono incontrare proposte del genere soprattutto per una certa (ingiusta) diffidenza verso gli avvocati; che non possiamo in alcun modo giustificare e quindi dobbiamo condannare sia gli atti legislativi che, per motivi misteriosi, il governo Berlusconi ha compiuto per escludere i legali dalle Commissioni Tributarie - dove erano presenti da sempre - sia i vaniloqui congressuali di alti magistrati che si esprimono contro i ricorsi per cassazione sostenendo che il 90 per cento di essi è carta straccia e quindi attribuendo agli avvocati i ritardi nella celebrazione dei giudizi relativi! In buona sostanza, molte iniziative possono essere intraprese per evitare il degrado del servizio giustizia. Ma una cosa è certa: continuare sulla strada della soppressione dei diritti e dell’aumento dei costi per accedere ad un qualsiasi tipo di processo e delle penalità contro chi «osa rivolgersi alla giustizia», è un errore che può costare la morte della giustizia stessa! *Presidente della Consulta dei Pensionati e dei Pensionati Uniti

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di vita, ma svela anche la crescita di potere, e di presenza sui media d’una chiesa romana senza significati spirituale. Al centro, Pierferdinando Casini è lucido nel ricomporre la diaspora democristiana, con la collaborazione della componente cattolica del governo, Riccardi in testa. Come la vecchia Dc, vuole dividere le responsabilità con partiti laici, Gianfranco Fini e la Margherita rutelliana, nel Partito della Nazione. S’è v’è un uomo che potrebbe dare senso non effimero a questa prospettiva è, nella Margherita, Valerio Zanone, col suo tutto sabaudo Senso dello Stato ed un laicismo che potrebbe controbilanciare le spinte clericali. Nel Centro Destra Silvio Berlusconi, se nell’ultimo periodo del suo governo sbagliò tutto il possibile, adesso che s’è liberato del ruolo istituzionale, invece, non ne sbaglia mezza. Appoggiò al suo sorgere il Ministero Monti, a cui è grato d’avergli tolto le castagne dal fuoco d’una crisi che, ora, si rileva, con evidenza, non frutto del suo governo in quanto è dell’Europa e dell’Occidente. La Lega Nord torna alla sua pericolosa deriva secessionista. Tuttavia non è soltanto il Trota, figlio scemo d’Umberto Bossi, ad essere sempre più coinvolto in inchieste sul malaffare. Un comportamento diffuso degli amministratori locali leghisti attesta come costoro, anche quando non coinvolti nelle tangenti, non sono secondi a nessuno nel «tenere famiglia» e soprattutto clientela. Ciò non è detto che, alla lunga, piaccia all’elettorato padano. La Destra di Francesco Storace fa l’opposizione al «governo del banchieri», cavalca non certo la tigre d’evoliana memoria, ma il malcontento di quella piccola e media borghesia impiegatizia, di produttori artigiani o dipendenti, di giovani che stentano ad assuefarsi ad una disoccupazione endemica, insomma di coloro che crisi ed usura delle banche stanno mandando a Patrasso. Poi, però, la ricetta alternativa sembra ispirata a quel peronismo «sfascista» che sta di nuovo portando alla catastrofe l’Argentina, e che in Italia s’attesta su un «Antieuropa» che non si vede quale alternativa indichi: la Gran Bretagna gioca su due tavoli, l’Europa ed il British Commonwealth of Nations, generato dalla decolonizzazione del maggiore Impero al mondo dalla caduta di quello romano, e che oggi, quando gli indipendentismi postcoloniali sono in crisi, e la guida nordamericana delle ex colonie non è più un modello, costituisce una prospettiva che può riprendere quota; l’Italia ha fuori dell’Europa il Mediterraneo, coll’integralismo islamista montante in Nord Africa e nel Medio Oriente. Si può mettere in competizione con la geopolitica neo-ottomana e neo-bizantina della Turchia, o accollarsi la crisi greca e balcanica? È vero che l’Italia ha consuetudine col Mediterraneo, l’Africa e l’Oriente: il retaggio d’Alfredo Oriani, adesso riproposto in un bellissimo libro di Rodolfo Sideri (Settimo Sigillo, €15,00), del liberalismo nazionale di Giovanni Borelli, del «Ministro della Vittoria» Vittorio Emanuele Orlando quando fondò l’Accademia del Mediterraneo, la Fiera del Levante, ma questo ruolo di Roma è comunicazione di civiltà, universalizzazione del modello comunitario della città, della cittadinanza, dello Status rei publicæ che divenne europeo, trasferimento sul piano romano del giure dell’intuito politica della filosofia greca sulla natura libera dell’essere umano in comunità. Vi fu consapevolezza di ciò quando le istituzioni supernazionali istituite in Europa, per disciplinare e governare un processo d’integrazione economico sociale in senso federale, furono definite «Comunità». Non è stato bene abbandonare questo termine per Unione. Occorre, per su-

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perare la crisi, proprio tornare all’obiettivo della Comunità politica. Ha ragione Arturo Diaconale, degnissimo direttore della testata politica più antica d’Italia, anche se di nicchia, quando scrive che l’Italia di Luigi Einaudi e Gaetano Martino seppe essere motore, negli anni cinquanta del millenovecento, d’un federalismo europeo attivo, ma che poi, quando altri Stati membri, passata la generazione degli Schumann, degli Adenauer, degli Spaak, ripiegarono in nazionalismi di ritorno fuori tempo massimo, l’Italia democristiana ripiegò anch’essa, ma in un europeismo vacuo e buonista, che mandò nelle Istituzioni comunitarie personale politico pensionato o trombato, oppure di quarta schiera, così favorendovi la presa del potere d’una burocrazia anche tecnicamente preparata ma senza carica ideale, che finì per servire il mondo degli affari e interessi nazionali di Stati pel resto impotenti. Egli ha ragione nel lamentare che il governo del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, presieduto da Mario Monti, è intervento di quell’eurocrazia nella crisi d’un personale politico nazionale in dissolvimento, ma che appunto per questo non può avere l’idealismo sufficiente per fare l’unica politica, la guida d’un vero disegno federalista in Europa, che farebbe dell’Italia, dopo un secolo e mazzo della sua risorta unità nazionale, il «Piemonte d’Europa». Se avesse ragione il Wall Street Journal del 30 Dicembre 2011, che ipotizzò addirittura un diktat della Cancelliera germanica Frau Angela Merkel, che avrebbe imposto le dimissioni di Silvio Berlusconi, sarebbe anche peggio. Vorrebbe dire che un Quarto Reich sarebbe in gestazione con la tecnica con cui fu costituito il primo, il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca: infondendo un animo germanico alle esanimi forme che fu possibile ricomporre dello smembrato Impero carolingio. La nostra situazione del debito pubblico è anche figlia d’una Europa che pretende d’avere una moneta senza un governo che possa usare la banca d’emissione come uno strumento d’una politica economica, inquadrata in una più generale politica interna ed estera. Nello schema originario, che non si chiamò comunitario per nulla, il potere di governo e d’iniziativa normativa spettò ad un Alta Autorità o Commissione che doveva godere della fiducia dell’Assemblea del Parlamento e coinvolgere nelle scelte le categorie sociali rappresentate nel Comitato economico sociale, anche se la deliberazione finale spettò al Consiglio di ministri degli Stati membri. Fu poi l’istituzionalizzazione dei vertici tra Capi di Stato e di governo col Consiglio europeo, frutto di quel ripiegamento nazionalistico dei principali Stati membri a cui il buonismo europeistico italiano non seppe reagire in modo adeguato, e l’istituzione d’una Banca centrale superiores non reconoscentes che fece deviare la costruzione formalmente in senso intergovernativo ma, per essere gli Stati membri ormai «polvere senza sostanza», nella sostanza in direzione d’usurocrazia bancaria sovrana. Il problema, però, non è il governo Monti, come prima non fu il governo Berlusconi: sta nella mancanza d’una forza politica che, partendo dagli Italiani, inizî la lotta degli Europei per la riappropriazione, in comune e tramite istituzioni comunitarie, cioè federali, della loro Sovranità. È questa che và costituita in fretta, nel segno d’una nuova oggettività politica. È un fatto civile poiché spirituale e cosmico in quanto, come c’insegnò Gian Franco Lami, Fœdus e Fides, patto e fiducia, hanno un’evidente assonanza, e sono la base etica dello Status Rei Romanæ: Fœdera Et Robur Tenetur. Occorre però un «cambiamento del cuore».

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PERCHÉ NULLA CAMBI

TUTTO cambia di ADRIANO TILGHER TUTTO cambia perché nulla cambi. Sembra un gioco di parole, ma è la realtà in cui viviamo. Ci hanno regalato un governo di sedicenti tecnici perché avrebbe risolto i guai finanziari dell’Italia, avrebbe fatto tornare la liquidità, avrebbe abbassato lo spread con i bond tedeschi, avrebbe rilanciato la borsa ed avrebbe fermato il declassamento da parte delle società di rating. A parte l’ormai popolare uso di questi termini stranieri, nella cui estraneità sta il segreto della truffa in atto, nonostante l’uso sproporzionato da parte dei media di espressioni elogiative nei confronti di questo governo, nulla è cambiato all’infuori del gravame e fiscale e di spese per la parte meno ricca del nostro popolo. Infatti l’Italia è sempre nei guai, la liquidità continua a mancare, e non poteva essere diversamente visto che l’obiettivo è sempre quello di rapinare il nostro patrimonio nobile, lo spread è sempre fermo a livelli stratosferici, la borsa è sempre deficitaria tranne qualche sussulto periodico, come era nei tempi precedenti questo governo, e le società di rating si preparano a nuovi declassamenti. In compenso ci apprestiamo a ricevere con tutti gli onori la Merkel e Sarkozy, che non soltanto sono stati una delle principali cause di questa crisi e che stanno risolvendo i problemi delle loro banche con i nostri titoli di Stato ad elevato rendimento, ma si sono anche permessi di irriderci senza scusarsi della loro scorrettezza. Se a questo aggiungiamo che la disoccupazione che doveva diminuire è aumentata, che il prodotto interno lordo rimane basso, le attività commerciali medio piccole chiudono in elevate percentuali e che la finanza straniera entra anche nei nostri gruppi pregiati che si sono ricavati spazi prestigiosi in settori di nicchia, ci rendiamo conto che non era di sedicenti tecnici che avevamo bisogno. Ma non basta: il caso Malinconico, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, costretto già a dimettersi per ragioni di «opportunità», il fatto che il ministro allo Sviluppo economico, Corrado Passera, non abbia escluso la possibilità di candidarsi alle prossime elezioni, la stessa tendenza a considerare Monti come un possibile candidato alla Presidenza del Consiglio futuro ci dimostrano la contiguità, o meglio la subordinazione, dell’attuale sedicente classe politica a questi professori che sicuramente non rappresentano né il nuovo né la speranza per un futuro migliore. Ci vuole altro, non ci stancheremo mai di dirlo. Ci vuole un’autentica classe politica che si smarchi dalle conventicole finanziarie, che non sia ricattabile dalle varie lobbies, che sappia trovare la forza, il coraggio e il modo per riprendersi la sovranità monetaria, che nazionalizzi la Banca d’Italia, che costruisca un’autentica unità politica e militare dell’Europa, che chieda sacrifici a breve termine al popolo italiano ma che al contempo sia disposta

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a rinunciare a tutti i privilegi che l’hanno fatta assurgere al rango di «casta». Una nuova classe politica che abbia l’autorità morale per contrastare tutte le caste, da quella dei giornalisti a quella dei magistrati, da quella degli imprenditori a quella dei sindacati, ecc., che abbia capacità di legiferare senza concedere nulla ai gruppi di pressione ma rispondendo esclusivamente alle esigenze ed agli interessi del popolo italiano. Chi può decidere tutto questo? Soltanto il popolo! Allora andiamo a votare in modo che domani si possano attribuire responsabilità oggettive: se gli Italiani sceglieranno come propri governanti i banchieri che governano ora, sarà un suicidio; se sceglieranno i soliti vecchi arnesi sarà autolesionismo; se rischierà sulle idee nuove avrà dimostrato coraggio ed avrà coltivato la speranza di uscire dal tunnel. Io il 4 febbraio scenderò in piazza con «La Destra» per chiedere le dimissioni di Monti, per spronare la classe politica a togliere la fiducia al governo prima che gli Italiani li rispediscano definitivamente a casa, per andare rapidamente al voto. Togliere gli alibi è fondamentale e, se il popolo italiano ha la vocazione all’autolesionismo, ben vengano i sedicenti tecnici, io credo invece che c’è un vento nuovo che potrà rapidamente rimettere in sesto questa barca. Accetto scommesse! … e andiamo al voto, il resto è perdita di tempo.

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TROPPI PRIVILEGI ALLA PISANA

LA REGINA di cuori di ADALBERTO BALDONI UNA cosa è certa: la gestione della Regione Lazio, da parte della ruspante, grintosa ed ambiziosa Renata Polverini, sarà senz’altro ricordata per avere consolidato i privilegi dei politici della Pisana. Nonostante la situazione catastrofica di bilancio e mentre il governo Monti varava provvedimenti che richiedono ai cittadini enormi sacrifici, con un colpo di mano, in pieno periodo natalizio, la governatrice ha esteso i vitalizi anche agli assessori che da «esterni» non ne avrebbero avuto diritto. Licenziata anche una norma che prevede per i consiglieri eletti ma non proclamati (per vari motivi, irregolarità, problemi amministrativi, ecc.) la possibilità, pagando 59 euro al mese per l’intera legislatura, di ottenere al termine della stessa legislatura, il vitalizio di oltre 3.500 euro al mese. Versando poco più di 700 euro all’anno, per 4 o 5 anni, possono ottenere una cospicua rendita a vita. La Polverini, in questo frangente, ha dimostrato una totale mancanza di sensibilità che deriva dall’arroganza con cui guida la regione dove l’opposizione - come succede del resto in Campidoglio - , invece di mordere sembra abbaiare alla luna. Arroganza che le deriva anche per la mancanza, in consiglio, dei rappresentanti del Pdl della provincia di Roma, la cui lista venne presentata in ritardo a seguito degli intrighi interni al partito. L’assenza del Pdl romano le consente di fare il buono e il cattivo tempo. Nel giugno scorso aveva persino minacciato di estromettere dalla giunta uno dei più capaci e stimati dirigenti del Pdl, Luca Malcotti. Motivo del contendere: l’approvazione in consiglio di una legge che proroga i tempi di accesso ai finanziamenti regionali per le opere pubbliche dei comuni del Lazio. Malcotti, assessore ai Lavori Pubblici, che aveva sostenuto il provvedimento, non aveva ricevuto il consenso da parte dello staff della Governatrice. A salvare Luca sono dovuti intervenire pesantemente i vertici del partito. Tutto dire. La Polverini è stata eletta il 29 marzo 2010 con il centrodestra, soltanto grazie ai voti delle quattro province (Frosinone, Viterbo, Rieti e Latina) dato che nella capitale aveva nettamente prevalso la sua rivale Emma Bonino con il 54 per cento dei suffragi. Nel corso della manifestazione di ringraziamento a piazza del Popolo aveva affermato di essersi candidata, dopo tanti anni di militanza sindacale, «per continuare a stare dalla parte della gente». Promesse non mantenute - Per amore della verità la sua candidatura era stata imposta da Gianfranco Fini che, in seguito l’aveva abbandonata per meschini calcoli politici (attribuire al Cavaliere il possibile esito negativo delle elezioni). Berlusconi, però, si era rimboccato le maniche ed era sceso in campo con tutte le sue forze per sostenerla. Sempre a piazza del Popolo, l’ex segretaria generale dell’Ugl, aveva preannunciato un ambizioso ed impegnativo programma: ben «sessanta azioni di governo», organizzate in

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alcuni punti chiave: la salute dei cittadini, la famiglia al centro delle politiche sociali, la difesa del lavoro, il rispetto dell’ambiente, la qualità della vita: città sicure e mobilità efficiente. «Non sono promesse elettorali», aveva conclamato, «sono impegni che prendiamo a ragion veduta, da questo momento la mia squadra di governo è pronta a entrare in azione per vivere insieme il sogno comune: costruire il Lazio del futuro». Ed ancora: «Darò ampio rilievo alle politiche sociali, contrasterò clientele, bla, bla, bla». Roma violenta e invivibile - Sono di questi giorni i dati forniti dall’università La Sapienza-Italia Oggi, sulla qualità della vita nelle città italiane. La parola alle cifre. Per quanto riguarda la capitale, vengono promossi tempo libero e cultura. Ma Roma scivola dal 71° all’80° posto quando si parla di qualità ambientale (alta la concentrazione di biossido di carbonio), decisamente male i settori degli affari e del lavoro (migliaia i disoccupati e i precari). Se si eccettua il centro storico, il resto della città è decisamente sporca (ancora non è stata individuata l’alternativa alla discarica di Malagrotta), inquinata (non è stato mai predisposto un piano di mobilità per alleggerire il traffico), pericolosa per ciò che concerne le strade (numerosi gli incidenti stradali con un eccessivo numero di vittime), peggiorata nella sicurezza (criminalità: si passa dall’83a alla 86a posizione). I delinquenti non esitano a sparare pure in mezzo alla gente. In aumento ugualmente i furti, le rapine, le violenze sessuali. Anche il nuovo anno, per la capitale, è iniziato sotto i peggiori auspici: una feroce rapina nel popoloso quartiere di Torpignattara ha provocato due morti, un commerciante cinese e la sua figlioletta di pochi mesi. Rieti, Frosinone, Viterbo, Latina: bassa la qualità della vita - A livello regionale, la situazione è assai critica. Rieti è 57a, Frosinone si colloca al 65° posto, Latina al 71° (lacerata dalle infiltrazioni mafiose) e Viterbo al 76°. Sono le quattro province che avevano permesso alla Polverini di vincere le elezioni… La Polverini, a tale riguardo, dovrebbe spiegare alle popolazioni locali quali sono state le iniziative intraprese per rendere vivibili queste città. La regione tocca il fondo in materia di salute dei cittadini. Per enumerare le disfunzioni, le carenze, le storture della sanità nel Lazio, occorrerebbe un libro. Ma lo spazio è tiranno. I mali della sanità sono endemici, le responsabilità risalgono al passato, ma ciò che colpisce è il pressapochismo con cui viene seguito questo delicatissimo settore.

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che il suo ufficio ha appena finito di analizzare i bilanci degli ultimi 7 anni e nella sanità «abbiamo verificato una spesa di 780 milioni in consulenze spesso di carattere non sanitario. Qui bisognerebbe tagliare con le forbici e investire i soldi risparmiati per assumere infermieri e medici che lavorano con contratti precari da anni». Inoltre «ci sono migliaia di persone che usufruiscono illegittimamente dell’esenzione dei ticket sanitari: basterebbe applicare il redditometro per smascherare i furbi». Ci sembrano proposte sagge. Non sarebbe più utile per i cittadini che lo staff della Polverini, oltre che studiare come rafforzare i privilegi dei consiglieri e degli assessori, si desse da fare per elaborare un progetto di rilancio della sanità, in cui inserire l’assunzione di personale medico e paramedico? Episodi vergognosi come quello di Tor Vergata non si ripeterebbero. PS - Il direttore, giustamente, dopo avere letto il pezzo mi ha chiesto - per completezza del servizio - quali sono gli stipendi e i vitalizi in Regione. Gli stipendi mensili - Presidente: lordo: 16.122, netto: 10.086; Vicepresidente: lordo 15.377, netto 9.538; Assessore: lordo 14.957, netto 9.241; Consigliere presidente di commissione e capogruppo: lordo 14.121, netto 8.646; Consigliere regionale: lordo 9.362, netto 4.252 più 3.503 euro di diaria. Al netto significa 7.755 euro. Ai quali bisogna aggiungere l’indennità di funzione che spetta a 70 consiglieri su 71 e varia a secondo della carica rivestita. Ogni anno - secondo un’indagine della Cisl Lazio - ciascuno dei consiglieri regionali costa 335mila euro a testa. Una curiosità: dopo il varo del provvedimento-vitalizi, il consiglio si è concesso una pausa (vacanza) di 25 giorni. La vergogna non ha limiti. Vi ricordate quando la Polverini, appena eletta, promise un radicale cambiamento alla Regione? I vitalizi mensili (che dovrebbero essere aboliti dal 2015) - Il totale mensile netto del vitalizio di un consigliere regionale presente per una legislatura alla Pisana è di 3.100 euro. Il vitalizio mensile di un consigliere per 3 legislature è di 6.100 euro (per 2 legislature è di 5.200). Sono 16 milioni di euro il costo annuale per la Regione dei 180 vitalizi ai consiglieri regionali più 40 di reversibilità.

Nella sanità manca il personale. Un caso emblematico illustra ampiamente la condizione in cui versa la sanità. Il 2 gennaio scorso, come è stato riportato dai giornali, un’anziana donna di 91 anni viene portata con urgenza al pronto soccorso del Policlinico di Tor Vergata (è uno dei più moderni ed attrezzati ospedali della capitale). L’anziana presenta i sintomi di una cistite emorragica di cui aveva sofferto in passato. Viene collocata su una sedia a rotelle dato che mancano le barelle. Passano le ore ma il medico non si fa vedere. I parenti della poveretta chiedono spiegazioni al personale. Ma la risposta è scoraggiante: al pronto soccorso tutte le visite sarebbero state effettuate sin dal giorno di capodanno da un solo medico. Dopo otto ore finalmente la nonnina viene visitata e, date le condizioni, ricoverata. Un solo medico al pronto soccorso di una importante struttura sanitaria della regione: senza parole. Di recente, il nuovo segretario generale della Cisl, Tommaso Ausili, in un’intervista al Corriere della Sera, ha detto

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DA MARRAZZO ALLA POLVERINI

«ONORATE» Società di RUGGIERO CAPONE IN QUESTE calde giornate di crisi, d’assalto alla baionetta su pensioni e salari di povera gente (su cui peserà anche l’Imu), in molti s’interrogano sull’utilità per l’uomo di strada delle tante società della Regione Lazio (pagate con i soldi del contribuente ed utili a fare ricchi stipendi ai dirigenti regionali). Girando per le strade di Roma, soprattutto dell’Eur, ci si può imbattere nei cartelloni pubblicitari di Aeroporti di Roma S.p.A., Agenzia Regionale per la Promozione Turistica del Lazio S.p.A, Alta Roma S.C.p.A., Arcea S.p.A., Asclepion (Gruppo Sviluppo Lazio), ASTRAL - Azienda Strade Lazio S.p.A., Autostrade del Lazio S.p.A., BIC LAZIO S.p.A. (Business Innovation Center, Gruppo Sviluppo Lazio), C.A.R. S.C.p.A., Centrale del Latte di Roma S.p.A., Cotral Patrimonio S.p.A., CoTraL S.p.A., Filas (Gruppo Sviluppo Lazio), I.M.O.F. S.p.A., Investimenti S.p.A., LAit S.p.A., Lazio Service S.p.A., Laziomar S.p.A., Litorale S.p.A., (Gruppo Sviluppo Lazio), M.O.F. S.p.A., Risorsa S.r.l. (Gruppo Sviluppo Lazio), SAN.IM. S.p.A., Sviluppo Lazio S.p.A., TECNOBORSA S.C.p.A., Tuscia Expò S.p.A., Unionfidi (Gruppo Sviluppo Lazio). Un elenco sterminato, e la Regione ben si guarda dal rendere pubblici tutti gli enti di formazione regionale che succhiano soldi senza sfornare nemmeno un panettiere (il 70 per cento dei ragazzi di panificio su Roma sono extracomunitari). L’innalzamento dei balzelli regionali, celermente deciso da Polverini e soci, serve soltanto a garantire i lauti stipendi di qualche migliaio tra dirigenti e funzionari regionali. Ecco qualche piccolo esempio di compensi annuali: Agostini Paolo è direttore regionale con € 155.294, Bellotti Rosanna € 155.294, Bianchini Alessandro € 130.409, Botta Mauro € 130.409, Carapellotti Isabella € 130.409, Carini Demetrio € 155.294, Carnelos Marco € 154.440, Catarci Leonardo € 140.069, Coletti Maria € 155.294, De Filippis Raniero Vincenzo € 155.294, Fabrizio Bernardo Maria € 155.294, Fegatelli Luca € 211.068, Felci Cinzia € 155.294, Galluzzo Arcangela € 43.310 a cui s’aggiungono € 155.294, Iaconis Paolo € 134.166, Lasagna Mauro € 108.705, Lauriola Michele € 108.705, Maffeo Ersilia € 108.705, Magrini Guido € 211.068, Manfredi Luciano € 155.294, Marafini Marco € 155.294, Marotta Mario € 155.294, Marra Raffaele € 155.294, Noccioli Marco € 155.294, Ottaviani Roberto € 155.294, Ronghi Salvatore € 189.960, Tanzi Giuseppe € 155.294, Voglino Alessandro € 155.294, Zoroddu Pietro Giovanni € 189.960. Pescando nel mazzo delle migliaia di dirigenti regionali difficilmente si scende sotto il compenso annuo dei 100 mila euro. Con l’aggravante che la Polverini ha gratificato i «trombati» del Pdl delle ultime amministrative con posti ultra remunerati nei Cda delle società regionali e, spesso, con le presidenze delle stesse. Il capitolo delle società partecipate dalla regione Lazio è, con la Polverini, sulla stessa falsa piega che fu dell’èra Marrazzo. Tutti i soldi vengono sprecati per la partitocrazia e a causa della partitocrazia. E la migliore sanità al mondo, le migliori infrastrutture, un economia d’eccellenza, un’istruzio-

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ne invidiata dai migliori college inglesi e americani, giovani promesse pronte a fare a pugni per entrare in Italia e non per fuggire? Tutte chiacchiere da campagna elettorale, con la gestione Polverini la fuga dei giovani del Lazio s’è raddoppiata. C’è ancora chi appella questi carrozzoni come un «inevitabile costo della politica». Le società regionali rappresentano un modo della politica per amministrare aziende «parapubbliche» alimentate con i soldi dei cittadini, ma che rispondono agli interessi dei partiti. Quante sono nel Lazio le società partecipate? Nel sito della Regione ne risultano 12, poi ci sono gli enti pubblici dipendenti, nel sito ne figurano ben 27: il non trascurabile resto viene accuratamente omesso dal sito istituzionale. Un’indagine sull’assenteismo all’Ufficio agricoltura della Regione Lazio da parte della Squadra mobile di Viterbo ha dimostrato che la solita «parentopoli» non insiste soltanto su Roma. Sarebbero più di 100 gli uffici-serbatoi dove sistemare amici e i parenti, dove è evidente una vera e propria forbice tra il tenore di vita e gli stipendi percepiti da alcuni impiegati: possiedono ville e Porsche, e si spera che il poliziotto fiscale Befera accerti anche questi costumi. Vale la pena rammentare che la giunta Marrazzo aveva «cantierizzato» la svendita di alcuni terreni a società, vicenda consumatasi in fretta e furia nella passata legislatura e perfezionata nell’attuale dall’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio: nessuno ha risposto all’interrogazione in materia presentata nel settembre 2010 dai Radicali . Senza parlare delle assunzioni a valanga fatte da Marrazzo e ratificate dalla Polverini: 61 assunti da assessori della «Margherita», 14 da assessori dei «Comunisti Italiani» e di «Rifondazione», 22 da un assessore della «Lista Marrazzo» e 4 da uno dell’Udeur: sono divisi così i 115 precari entrati attraverso Lazioservice e poi confermati dalla Polverini. Si sono aggiunti ai 700 precari reclutati dalla giunta Storace e confermati da Marrazzo. Senza parlare delle quasi 200 assunzioni annuali a Lazioservice, 140 stagisti a Cotral, concorsi all’Aremol. La grande abbuffata dell’epoca Marrazzo è stata saggiamente occultata dalla Polverini, che tiene famiglia e ama i salotti buoni. Lazioservice conta quasi 1.400 dipendenti assunti dai partiti, il cui posto non è per nulla in discussione. Una «Parentopoli» impossibile da spezzare: appena vinte le elezioni «Striscia la notizia» beccò Zaccheo (ex sindaco di Latina) in intima conversazione con la Polverini. Dice la Polve: «Ciao Vincé…mi raccomando, eh!», risponde lui: «Non ti dimenticare delle mie figlie!», e lei: «No…no, ma stai a scherzà? Poi domani mi faccio il calendario, mi faccio un giro», e lui: «E, soprattutto, ti prego, non appaltare più a Fazzone!» e lei ancora: «No…no…stai tranquillo…eh!» e ancora lui: «Ha perso 15.000 voti!». Uno scambio di battute e di voti. Non dimentichiamo che un grande elettore della Polverini, il «Consorzio 2050» di Erasmo Cinque, ha ancora in essere un appalto per le strade regionali per oltre 670 milioni di Euro. La Procura della Repubblica di Roma sembrerebbe sonnecchiare, e con tutta la crisi queste storie determinano ancora i tanti incontri nei salotti: veri e propri uffici di collocamento per la Roma bene, rigorosamente presieduti dalla Polverini. Intanto in Regione si parla di liberalizzazioni e privatizzazioni, chiusura di società ed enti inutili, porre fine alle assunzioni dirette del personale, niente più pubblicità, convegni, seminari, calendari, gadget. Tutto viene «esternalizzato», come la società anonima di diritto belga (denominata Regioni Centro Italia Servizi, RECIS) che gestisce la sede comune e i servizi di supporto agli Uffici di collegamento delle cinque Regioni del centro Italia a Bruxelles. Ma sì, spostiamo le sedi delle regionalizzate tra Liechtenstein e Lussemburgo.

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FUOCO AMICO

Via Almirante o «Via Almirante!» de IL TIRATORE SCELTO FRANCESCO Rutelli, quando era sindaco «di sinistra», non riuscì a intitolare un breve tratto di strada a Valle Giulia al nome di Giuseppe Bottai per l’opposizione virulenta dell’Anpi e della Comunità ebraica di Roma. Ma almeno non accampò scuse ridicole come quella dell’attuale sindaco «di destra», Gianni Alemanno, di fronte alla altrettanto virulente opposizione degli stessi alla sua intenzione di intitolare una strada a Giorgio Almirante. In una lunga dichiarazione piena di elogi per il suo antico capo nel Msi, ha però molto «democristianamente» concluso che il compito di un sindaco «dev’essere quello di rappresentare tutti i romani e di fare scelte che uniscano e che non lacerino la città sui valori fondamentali. Per questo, procederemo negli adempimenti politici e burocratici necessari a intitolare la via a Almirante solo quando l’approfondimento storico e il dibattito civile permetteranno a tutti di comprendere il reale significato del percorso di Almirante. Questa via deve essere motivo di unità e non di odio. Sono convinto che anche Almirante condividerebbe questo mio atteggiamento». Ma il sindaco è proprio certo di questa sua ultima affermazione? Infatti si può notare che: 1) a Roma esistono un Viale Togliatti, una Via e un Largo Lenin, un Viale Marx: in quei casi, specie il primo, «l’approfondimento storico e il dibattito civile» hanno raggiunto un’opinione condivisa in merito a queste antiche intitolazioni, o esse sono state semplicemente imposte dalle amministrazioni precedenti? Questi personaggi Togliatti, Lenin, Marx - sono forse da considerarsi rappresentativi dei famosi «valori fondamentali»? Sono tutti d’accordo, storici e cittadini, sulla opportunità dell’operazione? O qualcuno non lo è e magari si sente «lacerato»? 2) Secondo Donna Assunta Almirante in tutta Italia vi sono già circa duecento strade intitolate al marito, senza che si siano gravi problemi di coscienza per alcuno: perché Roma deve essere diversa e si tirano fuori tanti cavilli politicamente corretti? 3) Nessun problema pare si sia posto il sindaco a questo livello quando si sono intitolate giustamente vie e giardini a ragazzi di destra ammazzati selvaggiamente durante gli «anni d piombo», nonostante le pretestuose provocazioni giornalistiche o dei cosiddetti «centri sociali». In questo caso il sindaco, che è stato a capo del «Fronte della Gioventù», è andato avanti con il suo proposito. Perché per Almirante deve essere diverso?

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Oggi affermare che prima di «adempiere ai provvedimenti politici e burocratici» si deve aspettare «l’approfondimento storico e il dibattito civile» significa rinviare tutto all’anno del poi e al giorno del mai, dato che né gli ex partigiani e né la Comunità ebraica di Roma (che tra l’altro ha sponsorizzato Alemanno durante la sua campagna elettorale a sindaco) saranno disposti a retrocedere dalle loro demagogiche posizioni. Non ci saranno né approfondimenti politici, né dibattito civile che tengano. E quindi altro che Via Almirante. Piuttosto una invettiva: «Vada via Almirante!» Il problema è soltanto di principio, dato che Giorgio Almirante fu uomo e politico che, come tutti peraltro, ebbe molti pregi e altrettanti difetti, principale dei quali è stato di imporre, nel modo che ormai si sa, un personaggio come il Fini prima a capo del «Fronte della Gioventù» e poi come suo successore a capo del Msi, con i grotteschi risultati a tutti noti. Ma se il teorico del comunismo, una ideologia che ha provocato nella sua applicazione almeno cento milioni di morti (Marx), se il creatore del bolscevismo e dell’Urss che ha sulla coscienza decine di migliaia di assassinati e deportati (Lenin) e se il capo dei comunisti italiani le cui mani grondano sangue degli stessi suoi compagni di partito (Togliatti), hanno strade e piazze a loro none, perché non potrebbe avercele anche Almirante? È una par condicio, o no? O soltanto le personalità «di destra» devono essere soggette a interminabili e inconcludenti approfondimenti e dibattiti e quindi continuare a venire discriminate in questo Paese nel nome di una guerra civile che non si vuol mai far finire e si vuole eterna?

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CAMPANIA - «MANOVRA 2012»

«WELFARE» ritrovato di MIMMO DELLA CORTE VERISSIMO. Quando leggerete queste note la «finanziaria 2012» della Regione Campania avrà già celebrato il proprio trigesimo. E dal momento che, da qualche tempo a questa parte, affrontare questo argomento con gli Italiani, significa, fare esattamente l’opposto di ciò che consiglia l’antica saggezza, quando sottolinea che «in casa dell’impiccato» è meglio «non parlare di corda», approfittando del tempo trascorso, avrei potuto benissimo, senza che nessuno potesse accusarmi di strabismo, disinteressarmi della questione. Invece, poiché non ho mai avuto remore nel contestare la Giunta, quando ho ritenuto opportuno farlo, mi è sembrato giusto e doveroso riconoscerne, questa volta, il merito di aver messo a punto una manovra, tutto sommato, condivisibile. Al punto che, la stessa opposizione - che pur ha votato contro, dopo aver contribuito in buona misura alla sua stesura - non ha avuto granché da ridire sui suoi contenuti e per dare una motivazione plausibile al proprio «no» ha dovuto far ricorso al solito «nulla sotto vuoto spinto» cui ricorrono tutte le opposizioni, al di là del colore, per non apparire troppo appiattite sulle maggioranze, di qualunque colore esse siano, ma non hanno ragioni concrete su cui basare il proprio «niet». «Diciamo “no” perché è senza strategia», ha detto laconicamente il capogruppo del Pd, Giuseppe Russo. Peccato, si sia dimenticato di dire anche in quale ipermercato si può comprare questa sorta di araba fenice degli anni duemila, la cui esistenza ogni tanto viene evocata, per dire che c’è, ma senza che nessuno dica mai dov’è. La verità è che laddove la crisi globale che - in conseguenza delle allegre gestioni dei decenni precedenti - in questa regione, ancora più che altrove, si è abbattuta con la stessa potenza distruttiva di un terremoto del settimo grado della scala Mercalli; la montagna di debiti ereditati sui fronti caldi dell’economia: sanità (non è un caso che sul complessivo di 22 miliardi di euro della «finanziaria» quasi 10 è stato indispensabile finalizzarli a quest’ultima), per non parlare di trasporti, rifiuti e di tutto il resto e senza dimenticare che sul territorio aumentano le situazioni di crisi aziendali (al momento sono ben 23 le imprese in difficoltà ed oltre 10.000, i posti di lavoro a rischio) e cresce il nu-

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mero dei disoccupati, arrivati ormai, tra ufficiali, ovvero riconosciuti (15,3 per cento), ed «inattivi» ovvero quelli che negli ultimi mesi non hanno posto in essere alcun tentativo di ricerca del posto di lavoro, a quasi il 25 per cento; nonché un ulteriore taglio di ben 420 milioni di euro deciso dal Governo centrale per combattere la crisi finanziaria globale e che avrebbe prodotto disagi enormi alle politiche sociali e socio-sanitarie degli Enti locali sui quali questo peso sarebbe inesorabilmente ricaduto; per essere affrontate in maniera adeguata abbisognavano di una manovra non sbilanciata sul fronte delle uscite, ma neanche dell’appesantimento di una pressione fiscale già al momento insostenibile, in conseguenza della tassazione nazionale ed anche di quella regionale; in quel di Santa Lucia si è deciso giustamente di partire dal taglio delle spese. Da qui, una serie di riforme strutturali, in fatto di sanità; di riorganizzazione del personale; delle società partecipate e controllate; degli Enti strumentali; di fitti passivi; della lotta all’evasione fiscale regionale; allungamento dell’età pensionabile dei Consiglieri regionali e passaggio del vitalizio dal retributivo al contributo, che hanno consentito risparmi per oltre 60milioni; la decisione di cancellare tutte le concessioni del Demanio marittimo affidate ai privati a titolo gratuito e destinando il 50 per cento del ricavato ai comuni territorialmente interessati ed il rimanente alla gestione delle politiche sociali e socio-sanitarie e la costituzione del Fondo per la gestione delle occupa-

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zionali dotato inizialmente di fondi regionali per 1 miliardo di euro cui andranno ad aggiungersi i quasi 40 milioni di euro derivanti dall’aumento del bollo auto. Un gruzzoletto, insomma, che tra risparmi in materia di personale, tagli agli sprechi, concessioni demaniale a titolo oneroso ed aumento del bollo auto, di oltre 100 milioni che sarà interamente destinato alle politiche sociali ed al sostegno delle iniziative per l’uscita dalle crisi aziendali ed occupazionali. Ed è proprio questo aspetto: la salvaguardia di quello Stato sociale che, altrimenti, sarebbe stato completamente annullato dall’ennesimo taglio ai trasferimenti dello Stato, che rende sopportabile una finanziaria regionale che - contribuendo anch’essa ad appesantire la pressione fiscale sui cittadini - se rivolta unicamente all’incremento delle entrate ed al risparmio delle spese fine a se stesso, sarebbe stata inaccettabile, come quella montiana. Di più, è anche doveroso sottolineare che, agli oltre 100 milioni, liberati dalla manovra, la Regione, nel 2012, potrà - dal momento che una sentenza del Consiglio di Stato ha risolto favorevolmente alla Campania il contenzioso in atto con il Ministero dell’economia relativamente agli oneri per il trattamento economico del personale dal 1997 al 2011 - far conto su altro tesoretto di 260 milioni da riversare sulle politiche sociali ed occupazionali. E questi non sono illazioni, ma dati di fatto, che, mentre da un lato, dimostrano come la Giunta Caldoro, pur tra mille difficoltà e ristrettezze economiche, stia riuscendo nell’intento di trascinare la Campania, fuori dal pantano in cui i 10 anni d’amministrazione bassoliniana e di centrosinistra l’avevano affondata, dall’altro, danno credibilità alla sua proposta di concentrare in un unico Fondo Nazionale di Garanzia sotto il controllo dello Stato le risorse congelate che Regioni e Comuni non hanno potuto utilizzare per non sforare il patto di stabilità. Una proposta non assistenziale e finalizzata semplicemente ad alleggerire il patto stesso ed accelerare, quindi, la spesa dei fondi europei. Un’idea apprezzata da tutti, ad eccezione del presidente del Veneto, Luca Zaia, che ha immediatamente «elevato al cielo» il proprio «no», dimostrando così, che l’ubbia antimeridionale che muove lui ed i suoi amici della Lega, è tale d’annullare qualsiasi capacità di discernere «il grano dall’oglio», al punto da impedirgli di accorgersi che la proposta avanzata dal Governatore campano interessa tutte le regioni e non soltanto quelle dell’Italia del tacco e che se un rischio c’è, è quello che a trarne i maggiori profitti possano essere proprio le realtà al di sopra del Garigliano. Un antimeridionalismo, per altro, ingigantito anche dalla memoria corta dell’ex ministro che, nel tentativo di delegittimarla ed impedire che faccia proseliti, ha finto di dimenticare che per pagare le multe appioppate dalla Comunità europea agli allevatori del nord per la vicenda delle «quote latte» in eccesso, furono utilizzate le risorse ex Fas di pertinenza meridionale. È soltanto uno dei tanti esempi che, su questo argomento, potremmo fare. Purtroppo, Zaia, non ha ancora capito o, forse non vuole rendersene conto, che il Sud - continua a dare tanto e ricevere in cambio pochissimo - è stanco di questo doppiopesismo strabico. Caldoro fa bene ad alzare la voce. L’importante è continuare su questa strada, utilizzando al meglio i fondi a propria disposizione e dimostrando che «sobrietà, rigore e responsabilità» se ben miscelati possono essere «volani di sviluppo» ed aiutare davvero la Campania a tornare quella «Regio felix» che la storia ricorda. Purtroppo, soltanto quella, ormai!

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SAN PATRIGNANO

L’ENNESIMO disastro di ROMANO FRANCO TAGLIATI GLI scrissi nel dicembre 1984, quando a Rimini ebbe inizio un processo nel quale, oltre al fondatore della Comunità, vedeva coinvolti 13 collaboratori con l’accusa di sequestro di persona, maltrattamenti, lesioni, abuso della professione medica... Avevo incontrato Muccioli pochi mesi prima a Rimini, lo avevo ascoltato parlare con la sua voce rauca e ora non riuscivo a capacitarmi al pensiero che l’uomo sensibile che aveva maturato per primo un’idea umanitaria tanto coraggiosa, affrontando un problema al quale nessuno in quegli anni aveva offerto risposte concrete, potesse essersi deliberatamente macchiato di simili reati. Mi rispose con una lettera breve, nella quale mi ringraziava per la vicinanza, e il «grande aiuto nel non farci sentire soli a combattere questa dura lotta per la vita». Il processo, conclusosi con la libertà provvisoria per sé e per i suoi collaboratori «a condizione che rinunciassero ad ogni intervento lesivo della libertà personale», si riaprì subito dopo con nuove incriminazioni, a partire da quella di un ragazzo che scalpitava per essere stato tenuto chiuso alcune ore in una stanza con la moglie e il figlioletto... Quale fondamento avessero di volta in volta quelle accuse, restava difficile chiarirlo, mi sembrava però di capire che difficilmente quella pioggia si sarebbe fermata. La maggior parte di quei ragazzi, ancora in parte tossici, dopo aver accettato in un momento di lucidità l’affidamento, ubbidendo all’inarrestabile richiamo di riconquistare la libertà perduta, difficilmente si sarebbero assoggettati in seguito alle limitazioni imposte da una terapia che consisteva innanzitutto dal tenersi lontani dalla droga e dall’affrontare periodi di dolorosa astinenza. Altrettanto chiaro era che non tutti avrebbero visto di buon occhio la crescita di una simile iniziativa, nelle mani di un laico che non era neppure medico, la cui palingenesi si fondava sulle ferree regole di una famiglia patriarcale e che, dopo aver convinto i suoi famigliari a rinunciare in parte alla loro proprietà e ai loro diritti ereditari, per statuto prevedeva che la comunità appartenesse a tutti coloro che vi lavoravano, vi vivevano o che a essa si rivolgevano in cerca di aiuto. Sono passati trent’anni durante i quali le persone che si sono inerpicate sulla strada per San Patrignano superano ormai le 20.000. Un lavoro difficile in sé, una missione resa ancor più difficoltosa dalle insinuazioni, dai sospetti, dall’idea assai diffusa nel nostro Paese - e non di rado amaramente mutuata dall’atteggiamento di molti politici e predicatori - secondo la quale chi fa il bene lo faccia soprattutto a sé stesso. Nessuno mi chiedeva di stampare certificati di benemerenza. Gli avevo scritto perché, nonostante le accuse e le dicerie sui metodi che gli venivano rimproverati, in quegli sforzi riconoscevo prima di tutto il fondamentale tenta-

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tivo di aiutare concretamente quei ragazzi ad uscire dall’oscuro tunnel alla fine del quale si aprisse di nuovo la speranza, e perché, in alcuni atteggiamenti più o meno condivisibili, riconoscevo il modo di ragionare di mio padre anche lui generoso, ma burbero e severo - e la filosofia di un tempo in cui, si arrivava a dire «non importa se i miei figli ora mi detestano, purché crescano sani, giusti e rispettosi delle leggi», convinti in una educazione rigida di cui sarebbero stati ringraziati in seguito. Erano i tempi in cui ancora si faceva fatica ad accettare i suggerimenti di Maria Montessori, secondo la quale, per crescere e sviluppare i propri talenti e le naturali tendenze, i figli - tutti - non si dovessero toccare nemmeno con un fiore, mentre non era affatto raro che genitori impazienti, e non di rado alle prese con le notevoli urgenze della vita quotidiana, per quanto mossi da sentimenti nobilissimi, le soluzioni più sbrigative le vedessero nel ricorrere, più che all’esempio e alla parola, al movimento precipitoso delle mani. Ne avevo parlato con un amico il cui figlio stava da alcuni anni nelle disperate condizioni dei ragazzi di San Patrignano. Mi disse: «Provaci tu, a filosofare con uno che non ti ascolta e crede che la sola sua salvezza sia la tua morte». Muccioli se n’è andato nel 1995, a soli 61 anni, dopo una lotta instancabile, un’esistenza difficile e due famosi processi parzialmente irrisolti che di sicuro avevano lasciato il segno. Da allora molte cose sono cambiate. Adesso esistono metodi educativi e rieducativi scientifici e criteri più evoluti, anche se non è raro che, alla filosofia dell’eccessivo rigore d’un tempo, sia talvolta subentrato nelle famiglie un più comodo laissez faire, che spesso affida i figli alla filosofia della televisione e del frigorifero e che pericolosamente confina con un altro tipo di solitudine.

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Vi sono momenti in cui conviene tornare all’origine, ricordando, magari con quattro parole, i difficili momenti di una Comunità che nasce con il solo contributo di una famiglia e con la ferrea volontà di un uomo che - al di là da tutte le polemiche - resta una figura centrale e straordinaria. Ciò che è oggi San Patrignano, nessuno a quel tempo poteva immaginarlo. Con 1.500 ragazzi in carico, il commercio di centinaia di prodotti eno-gastronomici, dozzine di cantine e di ristoranti e decine di attività inizialmente nate per avviare i ragazzi al lavoro e autofinanziarla almeno parzialmente, l’istituzione, più che a una Comunità per tossico dipendenti, somiglia ormai più a una grande azienda, attraverso la quale transitano ogni anno 300 milioni di euro, dei quali meno della metà vengono da ricavi interni. Sedici anni fa, nel 1995, alla morte di Vincenzo, la gestione della comunità sulle colline riminesi era passata ad Andrea Muccioli, figlio ed erede trentenne del fondatore di San Patrignano, lo stesso che, da qualche giorno, ha lasciato la direzione, dopo aver accumulato durante la sua gestione un disavanzo di circa 20 milioni di Euro. A chiederne le dimissioni, pare sia il maggior finanziatore, la famiglia Moratti che, a quel che si legge, sgancia ogni anno alla comunità una somma pari a 15 milioni di euro. Difficile dire - né questo è il nostro compito - se si tratti di pura incapacità gestionale o di altri vizi che, caso mai, emergeranno in seguito. Le voci che corrono oggi, parlano di un Muccioli junior incapace di comunicare, di un Sanpa rimasto talmente indietro nella letture delle dipendenze da non funzionare più, e della presenza di 1.500 ragazzi, molti dei quali accampati a San Patrignano per scelta o per disperazione. Resta innegabile il fatto che, qualche volta, alla morte di illustri padri, più che di dovute eredità, converrebbe parlare di reali competenze. Si volta pagina. Chi sarà messo al suo posto? Una scelta interna o qualcuno calato dall’alto della politica? È vero che la Famiglia Moratti, ex sindaco di Milano in testa, è passata dalla parte di Fini? La cosa più inspiegabile resta il fatto che, a questo signore dimissionario, quale riconoscimento per il suo discutibile operato, venga offerto un contratto di consulenza dalla Regione Lombardia che riguarda la verifica della gestione e delle qualità terapeutiche delle Comunità lombarde. Poco importa se (come da più parti si mormora) San Patrignano rappresenti ormai la comunità meno avanzata nella cura delle dipendenze. Muccioli Jr dopo l’evidente fallimento economico-gestionale - davvero è la persona più adatta per supervisionare l’attività di strutture spesso molto più avanzate della sua, le quali, in questi anni, si sono accreditate allineandosi a veri standard di legalità? Ma in che Paese viviamo? Come frenare l’avanzata di tanto demerito? Quale riconoscimento dare, allora, alla memoria di Don Verzé che, dopo aver creato al San Raffaele una clinica di eccellenza, ci ha lasciato un buco da 1,5 miliardi? E che farsene, dello statuto che prevedeva che San Patrignano fosse di proprietà di chi vi lavora e di chi vi chiede il suo soccorso? Non mi risulta che la comunità di San Patrignano sia una Società per azioni! Dove passa tanto denaro, arriva inevitabilmente la politica, e dove arriva la politica, nascono le frizioni, gli orientamenti, i punti di vista, i dissapori, le polemiche e, naturalmente, la consolidata ingiustizia che seppellisce ogni meritocrazia e ragiona con una filosofia che nessuno davvero sopporta più.

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VENDOLA HA PERSO FASCINO

ALLA PUGLIA non piace più di MASSIMO CIULLO GIUNTO quasi al giro di boa del suo secondo mandato, il Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, capo di «Sinistra Ecologia e Libertà», deve correre urgentemente ai ripari per cercare di arginare l’emorragia di consensi che da diversi mesi sta lentamente sgretolando la sua base elettorale. Che la situazione sia preoccupante lo certifica anche la classifica pubblicata all’inizio di quest’anno da Datamonitor, istituto di ricerca del gruppo Bse: Vendola non è più tra i primi dieci governatori più amati dai propri cittadini. «Monitoregione», il report pubblicato dall’istituto di ricerca, si basa su un sondaggio telefonico realizzato su un campione di 800 persone per ciascuna regione dal 18 ottobre al 16 dicembre 2011. La quarta edizione 2011 dell’indagine ha sancito l’ascesa di gradimento dei governatori di Veneto e Emilia appaiati in testa, con il 60 per cento delle preferenze. Il leghista Luca Baia si conferma ancora primo, nonostante un calo dello 0,2 percento, mentre Vasco Errani cresce dell’1,8 per cento. Il leader di Sel sarebbe stato punito dai pugliesi perché troppo impegnato a ritagliarsi un ruolo di primo piano nell’arena politica nazionale, trascurando gli affari regionali. Almeno così la pensa Natascia Turato, direttore di Datamonitor, che afferma: «Il governatore della Puglia nella scorsa edizione era nono con il 53,9 per cento mentre in questa rilevazione non entra neanche in classifica: una spiegazione potrebbe essere che Vendola sta pagando per la sua attività politica a livello nazionale».Un’interpretazione piuttosto riduttiva che non coglie tutte le sfaccettature della parabola discendente imboccata dal presidente pugliese. Negli ultimi mesi, la maggior parte dei dossier più scottanti della politica regionale o non hanno trovato soluzione, o sono andati in direzioni completamente diverse rispetto a quelle auspicate dagli ex simpatizzanti di Vendola.

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Partiamo con la questione sanità, vero e proprio cavallo di battaglia del governatore pugliese, che aveva promesso un intervento decisivo su liste d’attesa e nosocomi. Il piano di razionalizzazione delle strutture ospedaliere pugliesi però, ha lasciato dietro di sé una lunga scia di lamentele e recriminazioni. Alcuni reparti sono stati chiusi ed altri non saranno mai aperti, per rispettare l’urgenza degli impegni presi, senza programmare la sorte di operatori e utenti. Il caso più eclatante è certamente quello dell’ospedale di Conversano, la cui ristrutturazione insieme all’acquisto di macchinari di ultima generazione, è costata milioni di euro e probabilmente non aprirà mai i battenti. La Regione, per cercare di arginare le accuse di sperpero di denaro pubblico, ha proposto di riconvertire il nosocomio in un poliambulatorio che dovrebbe servire un bacino di utenza di 400.000 cittadini. A gettare ulteriore benzina sul fuoco sono arrivati i botti di fine anno lanciati da Lea Cosentino, soprannominata «Lady Asl». L’ex direttore generale della Asl di Bari, sentita dal Pubblico ministero Desirée Digeronimo che indaga sulle infiltrazioni politiche nel mondo della sanità pugliese, ha dichiarato di aver subìto pressioni sia da Vendola sia dall’attuale Assessore al ramo, Tommaso Fiore, per pilotare i concorsi per l’assunzione di alcuni primari. Il primo caso sarebbe quello del Professor Milella, uomo di fiducia di Fiore, al quale il politico aveva garantito il primariato del reparto di rianimazione di Altamura. La Cosentino ha riferito di non aver ceduto alle prime pressioni ricevute, ritenendo l’espletamento del concorso non urgente. Ma poi, alle insistenze di Fiore si sarebbero aggiunte quelle di Vendola, a cui la donna non avrebbe potuto resistere. Un altro importante esempio è quello inerente la nomina di primario di chirurgia toracica dell’ospedale San Paolo di Bari. L’ex dirigente ha dichiarato di aver riaperto il concorso con una scusa, per consentire ad un medico del Policlinico di Foggia, presunto protetto del leader di Sel di accedervi e, successivamente, di vincerlo. Fino ad ora, non ci sono state conseguenze alle accuse mosse da «lady sanità». Tuttavia, il pm titolare del fascicolo ha sostenuto l’attendibilità del teste, al punto che le sue dichiarazioni sono state utilizzate in altri procedimenti sulla sanità pugliese. Finora Vendola è riuscito miracolosamente a tenersi lontano dalle aule dei tribunali, ma non si può escludere che alla conclusione delle indagini sull’ennesimo filone della scandalo della sanità pugliese, anche il governatore pugliese venga chiamato a chiarire intrecci a dir poco torbidi, sempre che non invochi il tanto vituperato legittimo impedimento, come è avvenuto finora per la causa della Pet-tc promossa da un’associazione di consumatori proprio contro la regione. Chiamato in qualità di testimone per attestare l’inesistenza del macchinario diagnostico o di centri convenzionati, Vendola ha invocato per due volte «imprevedibili impegni istituzionali connessi alla sua carica», e non si è presentato davanti ai giudici. Alla fine però, è stato costretto ad ammettere che in provincia di Lecce, nel periodo denunciato dai ricorrenti, non vi erano strutture pubbliche o private in convenzione dotate di Pet-tc. Il direttore della Asl, Valdo Mellone, ha confermato la stessa cosa, precisando però che vi erano strutture private accreditate ma non contrattualizzate (le prestazioni quindi non venivano rimborsate ai pazienti dalla Asl). I malati oncologici che hanno intrapreso l’azione risarcitoria hanno fondato la loro pretesa sul regolamento re-

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gionale del 2009 che prevedeva l’installazione di una Pettc pubblica e di un’altra convenzionata per ogni bacino di utenza superiore a 750 mila abitanti. La piena attivazione dell’indispensabile strumento diagnostico per i cittadini salentini è avvenuta soltanto nelle ultime settimane, con lo stanziamento dei capitali necessari. Se dalla sanità si passa alle questioni ecologiche, che dovrebbero stare particolarmente a cuore a Vendola, considerato anche il nome che ha voluto dare alla sua formazione politica, si cade dalla padella alla brace. Il tema più caldo riguarda certamente lo stabilimento Ilva di Taranto, l’acciaieria del Gruppo Riva, accusata di disperdere inquinanti cancerogeni nell’aria e sul suolo della cittadina jonica. Gli ultimi dati dell’Arpa sulle emissioni di diossina certificano una decisa riduzione dell’inquinante in atmosfera, addirittura al di sotto della media prevista dalla legge regionale del 2008. La notizia è stata data in pompa magna da Vendola e dal suo assessore all’ambiente, Nicastro. Ma non tutti si sono uniti al coro dei festeggiamenti: gli ambientalisti tarantini hanno polemizzato con il governatore ritenendo discutibili le rilevazioni effettuate dall’Agenzia regionale per l’ambiente. Oltre alle diossine del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, i cittadini di Taranto devono sorbirsi il benzopirene, un idrocarburo altamente tossico per la salute dell’uomo. Come se non bastasse, sempre nell’atmosfera dell’antica capitale della Magna Grecia, aleggiano le polveri sottili della Cementir, una delle più grandi aziende che produce cementi e calcestruzzi e gli effluvi provenienti dal petrolchimico dell’Eni. C’è poco da meravigliarsi se poi anche nel latte materno delle puerpere vengono rilevate consistenti tracce di inquinanti. La ciliegina sulla torta però, il caro Vendola l’aggiunge con la dissennata politica regionale riguardante le energie rinnovabili, quelle che a parole dovrebbero salvaguardare l’ambiente, ma stanno in realtà causando scempi senza precedenti. Parliamo delle distese di specchi al silicio disseminati nelle campagne salentine, un tempo note per la coltivazione della vite e degli ulivi secolari. Gli impianti fotovoltaici spuntano come funghi ad un ritmo vertiginoso, alterando irrimediabilmente il paesaggio locale. Stesso dicasi per le torri eoliche e le famigerate centrali a biomasse. D’altro canto, il caro Nichi si è speso moltissimo per la campagna referendaria contro il nucleare e queste sono le conseguenze.

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AI TEMPI DELLA «GOVERNANCE»

INQUISIZIONE politica e culturale di GIOVANNI SESSA LO SCORSO mese di dicembre, è stato davvero ricco di spiacevoli sorprese per gli Italiani. Infatti, mentre i commentatori politici ci informavano in merito ai dettagli della presunta manovra «salva Italia» del governo Monti, che annovera, tra i suoi ministri, non soltanto autorevoli esponenti del potere finanziario-bancario, ma anche insigni rappresentanti del mondo cattolico e della sua cultura (dato significativo questo, come il lettore constaterà, dato il carattere del nostro articolo), improvvisamente è esplosa, a Firenze, il 13 dicembre, in un’oziosa giornata prenatalizia, di un altrettanto mesto scorcio di fine anno, la violenza vile e isolata di un folle, Gianluca Casseri. L’omicida, come ormai è ampiamente acclarato, ha aperto il fuoco, in un mercato del capoluogo toscano, su un gruppo di senegalesi, uccidendone purtroppo due, e ferendone gravemente altri tre. Dopo di che si è tolto la vita. Gli organi di informazione si sono immediatamente e giustamente occupati del caso, stigmatizzando l’accaduto. I toni della polemica si sono però elevati e fatti più accesi, quando si è saputo che l’autore del duplice assassinio, aveva avuto frequentazioni con ambienti vicini a «Casa Pound» e, più in generale, con la destra radicale. Per cui si è fatta rilevare la motivazione, razzista e xenofoba, che avrebbe armato la mano omicida del Casseri. Quest’ultimo, peraltro, era in possesso di regolare porto d’armi che, come è noto, può essere rilasciato dopo accertamenti psicologici comprovanti l’equilibrio psichico del richiedente. Eppure, nell’ultimo periodo, come si evince da dichiarazioni di conoscenti e vicini di casa, il tranquillo ragioniere con la passione per la letteratura fantastica e l’esoterismo, così lo descrive chi lo conosceva o l’aveva frequentato, era cambiato. Probabilmente la depressione, in precedenza latente, è emersa in lui, fino al punto da fargli commettere un gesto tragicamente folle. Analizzando i dati della sua biografia, ci si è poi accorti che il soggetto in questione aveva addirittura scritto dei libri e pubblicato saggi e articoli su varie riviste e, cosa ancor più incredibile, su due suoi volumi, comparivano una prefazione e una postfazione di Gianfranco de Turris, già giornalista Rai, considerato uno dei massimi esperti di fantasy nel nostro Paese e, come ben sanno i lettori de il Borghese, Segretario della «Fondazione Evola». De Turris, come in proposito ha ricordato in un’intervista concessa a Giuliano Rocca de Il Secolo d’Italia, pubblicata dallo stesso quotidiano in data 19 dicembre, in oltre vent’anni, ha avuto occasione di incontrare Casseri al massimo una decina di volte, durante lo svolgimento di convegni di studio relativi alla letteratura fantastica. Avendo riscontrato, peraltro, la competenza specifica in argomento del Casseri, ha accettato di buon grado di scrivere la postfazione e la prefazione in oggetto. Rispettivamente comparse in un volume intitolato I protocolli del Savio di Alessandria,

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edito da Solfanelli nel maggio 2011, che fa il verso all’ultimo romanzo di Umberto Eco Il Cimitero di Praga, pubblicato da Bompiani, e nel volume La chiave del caos, scritto da Casseri assieme ad Enrico Rulli, scrittore notoriamente di sinistra. Dopo una scoperta di tal rilevanza, la grancassa mediatica si è immediatamente animata. Così, la trasmissione di Gad Lerner, l’Infedele, andata in onda in prima serata il 19 dicembre, ha cercato, vanamente ci è parso, e non poteva essere diversamente, di far emergere, come ha scritto su l’Unità del 20 dicembre Roberto Arduini: «…i legami stretti che legavano Casseri a Gianfranco de Turris…» «De Turris è fondatore e Segretario della “Fondazione Julius Evola”, dedicata al pensatore di estrema destra, con trascorsi fascisti e nazisti, teorico della gerarchia tra le razze. Quel che ha compiuto Casseri non è in alcun modo un “atto di follia”, ma una coerente messa in pratica di queste idee». Quest’affermazione è davvero forte ed eccessiva: si tenta di legare, attraverso una falsa ed errata equazione logica, sia de Turris che, più in generale, la filosofia di Evola, al gesto assassino di Casseri, tragico, bestiale ed esecrabile. Tutto ciò sulla base dei due scritti precedentemente menzionati. Questo è troppo! Se si seguisse lo stesso criterio di diretta e improbabile «consequenzialità», quanti legami si sarebbero potuti cogliere tra scritti di intellettuali collocati a sinistra e gesti violenti e/o terroristici, compiuti negli ultimi decenni? Certamente molti. Ma questo modo di interpretare le relazioni che legano produzione culturale e azioni dissennate, non è certamente il nostro. Se qualcuno in passato, dopo aver commesso magari atti sconsiderati e barbari, si è richiamato ad Evola, ha, fuori di ogni dubbio, sbagliato riferimento culturale. Il filosofo della tradizione non ha mai spinto alcuno alla violenza. Non è stato un cattivo maestro, semmai altri si sono detti illegittimamente suoi discepoli, o sono stati cattivi discepoli. Cosa sulla quale, proprio de Turris, a più riprese, ha richiamato l’attenzione dei suoi lettori. Per di più, tutta la pubblicistica della «Fondazione Evola», tende da anni a distinguere in modo criticamente intelligente e documentato, la produzione del filosofo romano dalle posizioni xenofobe, violente e a sfondo razzistico-darwinista. L’intera operazione mediatica, esplosa in modo incontrollato anche sul web, mirava in realtà, oltre l’obiettivo strategico immediato rappresentato da de Turris, ad altro fine: a colpire un’intera area politica ed intellettuale, quella afferente al pensiero di tradizione, ritenuta, a giusto titolo, ingombrante rispetto al realizzarsi del progetto politico di governance. È interessante notare come in questa campagna diffamatoria, sia coinvolta anche certa cultura cattolica. Infatti, a proposito del caso Casseri, abbiamo letto, in data 16 dicembre 2011, sulla rivista web Riscossa cristiana, vicina ad ambienti che si dicono cattolico-tradizionalisti, un articolo di Pucci Cipriani «Non era un folle, ha scelto il male consapevolmente», già pubblicato sul Giornale della Toscana, in data 15 dicembre 2011, accompagnato da una premessa di Paolo Deotto. In esso, l’assassino viene presentato come un personaggio lucido, animato dalle stesse motivazioni ideali (?) del norvegese Behring Breivk, autore della orribile strage di luglio nel Paese scandinavo. La loro cultura viene riferita: «…al superomismo nietzschiano da cui prenderanno vigore i cascami razzisti e anticattolici di pseudo-filosofi all’amatriciana tipo D’Annunzio, Evola, e quelli della Nuova Destra francese (Grece) che negli anni Settanta ebbe il suo attimo di gloria anche in Italia, e

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a cui aderirono i militanti dell’estrema destra pagana e i cattivi maestri del Sessantotto». Ci pare che anche questa citazione metta compiutamente in luce, oltre a un’evidente confusione nei riferimenti culturali, la volontà denigratoria nei confronti di un’intera area: quella del pensiero di tradizione. È significativo che a sferrare l’attacco lungo la medesima direttrice, siano gli esponenti di certa intellettualità gauchiste e radical chic, in sintonia con rappresentanti di frange intellettuali, fortunatamente minoritarie, cattoliche e neoscolastiche. Ancor più rilevante, è il fatto che ciò avvenga subito dopo l’insediamento, come ricordato all’inizio del nostro pezzo, del governo Monti, esempio esplicito di governance realizzata attraverso l’espropriazione del momento politico, e nel quale importanti settori del mondo cattolico sono rappresentati (si badi bene: tutto ciò, dopo che gli stessi ambienti hanno lautamente profittato delle elargizioni legislative del precedente e costituzionalmente legittimo esecutivo, e non soltanto in tema di difesa della scuola privata!). Questa situazione non può stupirci più di tanto: nel contesto attuale soltanto l’autentico pensiero di tradizione, che in Evola ha un illustre rappresentante, è in grado di esercitare l’indispensabile funzione critica nei confronti del presente, sia sotto il profilo antropologico che politico. È intorno ad esso che sarà possibile, in un confronto attento e aperto ai bisogni esistenziali contemporanei, ricostruire l’ubi consistam di un’intera area intellettuale. Il pensiero di tradizione è oppositivo rispetto all’esistente, e potrà, in funzione di ciò, diventare aggregativo sul piano politico. Pertanto, nell’esprimere la nostra solidarietà, umana e intellettuale, a Gianfranco de Turris, che è stato accusato, tra le altre cose, di essere entrato in Rai, in quota An (in realtà è stato assunto nel 1983, qualche anno prima della nascita di An!), siamo coscienti che l’episodio ora ricordato, molto probabilmente, inaugura una nuova stagione nella battaglia delle idee nel nostro Paese. Forse difficile e complessa, sotto molti aspetti, per le insufficienze organizzative che ancora penalizzano la nostra area culturale di riferimento e per la pervasività del pensiero unico, utilitarista e mercantilista, che determina l’immaginario individuale e collettivo del nostro tempo. Al di là di queste considerazioni, credo che gli anticorpi attivati in noi dalla cultura di tradizione, ci possano consentire, comunque e nonostante tutto, di guardare al domani con ragionevole speranza.

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VIVERE CON LA CRISI

Molti piangono pochi ridono di PIETRO DEL TURA

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«dolce Sissi», ha le idee chiare. «Quando si paga con bonifici bancari», osserva, «con denaro guadagnato onestamente, non c’è nulla di scandaloso.» Insomma: è il privilegio che traccia il solco, ma è il bonifico che lo difende. Prendersela con la casta, comunque, è ormai come sparare sulla Croce Rossa. L’Italia è infatti piena di ben più ricchi Epuloni che percepiscono somme faraoniche per prestazioni non soltanto modeste, ma anche discutibili. Che dire, infatti, delle retribuzioni dei manager pubblici, di quelle dei dirigenti di banca e dei contratti milionari dei conduttori televisivi e dei calciatori? Anche gli allenatori, comunque, non se la passano male. Un articolo della Gazzetta dello Sport ci informa, infatti, che «La busta paga degli allenatori dei club di calcio mette in “fuori gioco” la crisi economica. Per la stagione calcistica 2011/12 gli stipendi delle formazioni di serie A risultano essere i seguenti: Mazzarri (Napoli) euro 2,5 milioni, Allegri (Milan) 2, Luis Enrique (Roma) 2, Conte (Juve) 1,8, Ranieri (Inter) 1,5, Rossi (Fiorentina) 1, Reja (Lazio) 08,, Pioli (Bologna), 0,7, Colomba (Parma) 0,65, Colantuono (Atalanta) 0,6, Ballardini (Cagliari) 0,5, Montella (Catania) 0,45, Di Carlo (Chievo) 0,4, Malesani (Genoa) 0,3, Sannino (Siena) 0,3, Mutti (Palermo) 0,28, Arrigoni (Cesena) 0,25, Tesser (Novara) 0,2, Cosmi (Lecce) 0,18». Viste le cifre, siamo ovviamente solidali con il «povero» Cosmi, ultimo in classifica, che per allenare il Lecce percepisce «soltanto» 180 mila euro l’anno. Non possiamo però trattenere un moto di autentica, ma giustificata, invidia nei confronti del signor Mazzarri, fortunato allenatore del Napoli, squadra di una città che notoriamente straripa ricchezza e benessere, il quale incassa ben due milioni e mezzo l’anno (quasi cinque miliardi del vecchio conio). 20-12-2011 15:19 Pagina 1

ORMAI è una vera e propria strage. Non passa giorno senza le cronache sulle morti di coloro che si tolgono la vita a causa della crisi. Il fenomeno è diventato epidemico. Si uccidono gli imprenditori che non riescono a pagare gli stipendi ai dipendenti; i pensionati al minimo che non ce la fanno ad arrivare a metà del mese; i disoccupati che hanno perso la speranza di trovare un lavoro qualsiasi. Vista dall’alto l’Italia deve sembrare un Paese in cui buona parte della popolazione vive sui tetti. Gli operai, quando le fabbriche chiudono (e sono già migliaia) salgono su tegole e cornicioni e vi si stabiliscono come il barone rampante di Calvino che aveva scelto di vivere sugli alberi - eleggendoli a propria dimora. Poi ci sono quelli regrediti di colpo nella scala sociale e, messa da parte la vergogna, si mettono in fila alla Caritas, assieme agli extracomunitari e ai poveri di lungo corso, per una scodella di minestra. In Italia, del resto, si può finire sulla strada dal mattino alla sera perché non si è in grado di pagare una cartella di Equitalia. La crisi, comunque, non è uguale per tutti. Se molti diventano più poveri e fanno la fame c’è anche chi, invece, diventa più ricco e sgavazza senza ritegno. La Fiat non riesce più a vendere le sue utilitarie, ma, in compenso, la Rolls Royce, che produce vetture per monarchi e Paperoni, ha annunciato di aver chiuso il 2011 con il primato storico delle vendite: 3.538 berline, con un incremento del 31 per cento rispetto all’anno precedente. Alla Bentley, altra marca automobilistica per magnati, è poi addirittura andata anche meglio. Le vendite sono aumentate del 37 per cento per Saverio Romano “La mafia addosso” un totale di 7.003 vetture consegnate. Intervistato I ricchi, insomma, non piangono. Ed da Barbara Romano anche quelli della casta politica, quando nessuno li vede, si scompisciano dalle pagg. 190 • euro 16,00 risate. Mentre gli operai senza lavoro trascorrevano le feste di fine anno sui tetti delle fabbriche Casini e Rutelli bisbocciavano infatti sulle spiagge dei Caraibi. Gianfranco Fini, invece, ha preferito le Maldive, dove è stato fotografato assieme all’immancabile Elisabetta Tulliani, mentre indossava un vistoso capAntonio Razzi pellino da coatto con la visiera all’inconLe mie mani pulite trario - alla moda dei rappers di Tor Belprefazione di la Monica - ed esibiva al sole le sue tripSilvio Berlusconi pe sessagenarie. Fini ha alloggiato in un resort che, che a quanto riferiscono le cronache, costa «appena» 8.250 euro a pagg. 162 • euro 18,00 settimana. Un po’ scandaloso in tempi di sobrietà come questi? Niente affatto. Al informazioni al riguardo Elisabetta Tulliani, detta la

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Per questi signori, insomma, la crisi non c’è. L’Italia, per loro, è il Paese di Bengodi. Per la stragrande maggioranza degli Italiani, invece, rischia di diventare una landa desolata dove regnano la disperazione, la fame e il dolore. Staremo a vedere cosa ci riserberà in futuro. Intanto c’è da dire che stiamo procedendo spediti sulla via della miseria. «In tempo di crisi», ci informa una nota dell’agenzia Adn Kronos, «si consuma meno e meno rifiuti si producono. Da Nord a Sud la raccolta è in calo con punte che arrivano quasi al 10 per cento. Quelli che mancano all’appello sono gli imballaggi, in calo soprattutto a Natale e una grossa quota di sprechi. Si fa più attenzione a quello che si compra, portando a casa solo quello che serve e, soprattutto, a quello che si getta, dagli alimentari agli oggetti d’uso comune che una volta venivano buttati via per i motivi più diversi e che oggi si tiene a riparare se guasti o a continuare a tenere anche se sono passati di moda.» «Le ristrettezze economiche», spiega il sito Ecoo, specializzato in tematiche ambientali, «hanno obbligato la classe popolare (alias tre quarti degli Italiani) a tagliare anche sulla spesa dei generi alimentari, una voce del budget familiare che solitamente non veniva mai messa in discussione. Nel cestino dell’immondizia ormai finisce poco o nulla, almeno secondo il 57 per cento degli intervistati: non si butta alcunché, e gli scarti di una ricetta fatta il giorno prima sono perfetti per essere riutilizzati in una nuova ricetta del giorno dopo. In questo vengono in soccorso i molti programmi tv di cucina, di cui è possibile trovare repliche e consigli anche on -line (risparmiando sul costo dell’acquisto di libri o dvd).» Per fronteggiare la crisi Beppe Grillo (che evidentemente non ha mai smesso di essere un comico) propone agli italiani di «farsi l’orto in casa». «Da un mese e mezzo», racconta, «ho un pezzettino nella fasce delle alture di Genova che coltivo in segreto, l’ortocoltura prenderà sempre più piede e le città dovranno adeguarsi.» Insomma, in futuro niente più gerani alle finestre, ma nei vasi soltanto pomodori e zucchine. E se il condominio chiude un occhio potremo allevare anche un po’ di galline e di conigli. Non tutto il male, comunque, viene per nuocere. Anche la crisi, tutto sommato, ha qualche effetto positivo. Pagare il «pizzo», di questi tempi, per esempio, costa meno. Cosa nostra, insomma, non è più cara come una volta. Infatti, come riportato dal Fai (Fondo antiracket) gli estorsori «oggi si accontentano anche di 50 euro al mese, purché paghino tutti». È quanto afferma Tano Grasso, presidente del Fai. Certo, la criminalità organizzata non rinuncia all’attività estorsiva che stà alla base della sua sopravvivenza, ma ha rivisto le cifre. Anche la mafia, a quanto pare, ha aperto la stagione dei saldi. Deleteria, dal punto di vista economico e sociale, la crisi sembra essere però un potente afrodisiaco. Lo sostiene la rivista on line DireDonna che, in un articolo, sostiene che «gli uomini sono delle creature a volte imperscrutabili. Si potrebbe pensare che la coppia ne risenta nei periodi di crisi economica, ma in molti casi non è così. Anzi, il sesso diventa sempre un’avventura, perché spesso gli uomini lo percepiscono come un efficace antistress. E non solo per chi è fidanzato o sposato. Anzi, una recente ricerca attesta come proprio in tempi di crisi economica, gli uomini si rivolgano maggiormente al sesso senza vincoli di coppia. Probabilmente, il tutto è legato nella psicologia a delle questioni ataviche, come il mantenimento della specie e l’istinto di sopravvivenza». Eh sì, Berlusconi aveva proprio ragione. La crisi si combatte con il bunga-bunga. Se il morbo infuria, il pan ci manca e sul ponte sventola bandiera bianca, l’unica consolazione, per dirla con Antonio Albanese, rimane u pilu.

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L’AZZARDO DI STATO VA ALLA GRANDE

Il Gratta e Vinci della disperazione di ALESSANDRO P. BENINI AL MATTINO il freddo si fa sentire; c’è gelo tra i banchi del grande mercato all’aperto. Sono infreddoliti gli esercenti e quei pochi clienti, che, tra le cassette di frutta e verdura, guardano con preoccupazione i prezzi delle zucchine, dei finocchi, dei broccoli e delle pere. Un piccolo brivido corre per la schiena e peggiora la percezione del freddo: la spesa quotidiana, infatti, rappresenta una difficile operazione di scelta per il contenimento dei costi. Ma, a poche decine di metri dal mercato rionale, in un caffè-tabacchi con annesso botteghino del lotto, una modesta folla si spinge contro lo sportello dei «giochi»: sono donne anziane, le stesse, che poco prima giravano, nei rigori del mattino, tra i banchi della verdura e, con attenzione, tentavano di spuntare il miglior prezzo. Adesso sono qui e si spingono per acquistare un «Gratta e vinci»; qualche euro, sottratto al costo della spesa, scivola via veloce, nella speranza di una vincita. Un rito giornalmente ripetuto, come bere un caffè. La passione per il gioco, malgrado la recentissima imposta del 6 per cento sulle vincite superiori ai cinquecento euro, non sembra subire la frenata della crisi economica; soltanto l’ultima edizione della «Lotteria Italia», con otto milioni di biglietti venduti, ha registrato un calo delle vendite, in particolare a Napoli, città tradizionalmente incline a tentare la fortuna. Comunque l’attrazione per il gioco e la scommessa, malgrado crisi e recessione, ha permesso di registrare incassi per 76 miliardi, quindici in più rispetto al 2010. L’incremento maggiore, secondo i dati forniti dall’Amministrazione dei Monopoli, è stato il lotto, che con il favore di alcuni numeri usciti in forte ritardo, ha potuto raggiungere un 30 per cento in più delle giocate. Una notevole entrata per le casse pubbliche si è, inoltre, registrata con le vendite delle cartelle del «Gratta e Vinci»; un successo che ogni anno si rinnova per la facilità di utilizzo delle cartelle e l’immediatezza del risultato, dove, peraltro si agisce, con la vicinanza dei numeri di serie con quella vincente, sull’emotività del giocatore pronto a ripetere la scommessa. Il 2011, nel campo degli «azzardi» offerti dai Monopoli di Stato, ha definitivamente segnato il successo delle scommesse online: «Poker» e «Casino games» hanno fruttato allo Stato oltre dieci miliardi di euro. Insomma, tra una lotteria ed un gioco elettronico, l’erario ha raccolto una somma pari a due manovre finanziarie di un Paese di media importanza. La cenerentola di questo grande mercato dei sogni è il gioco legato allo sport: quelle superseguite corse al trotto ed al galoppo e le folle di appassionati del cavallo e delle scommesse sono diventate una rarità. Le asettiche sale del gioco on line hanno sostituito le tribune vocianti delle Capannelle e di Agnano. L’aria pesante che sovrasta la nostra società, lo stallo della crescita economica prima, e la piena recessione poi, ha già messo a dura prova i consumi e c’è da chiedersi se

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proprio questi, spesso esagerati consumi non siano alla base dei miliardi volati via per l’ingenuità o il vizio dell’azzardo, così diffuso ed affermato da essere l’unica voce in crescita del bilancio nazionale. Un chiaro segnale, inoltre, della miseria incombente, questo sottrarre alla già ridotta spesa domestica, alle cure odontoiatriche ed alle riparazione dell’automobile, denaro da investire nell’illusione. La verità è, che nei ceti più deboli, la speranza ha lasciato il posto alla disperazione; per troppo tempo nel binomio «consumo uguale sviluppo» ci si è fideisticamente addormentati, certi di una ricchezza soltanto consumistica che, al redde rationem, si è mostrata effimera. È ormai un ventennio da quando la politica ha iniziato ad essere latitante di fronte alle grandi problematiche sociali, da quando, nei fatti, è stata, poco alla volta, sostituita dalla finanza internazionale. La vera ricchezza dell’Occidente, così come noi l’abbiamo conosciuta, era nella produzione di beni duraturi e nella loro stabile diffusione, ma un malinteso liberismo, completamente sciolto da ogni legame etico e, se vogliamo, da ogni parametro seriamente economico, ha dato credibilità al sistema finanziario virtuale, responsabile principale della attuale catastrofe finanziaria europea. Oggi, con i recenti provvedimenti «cresci miseria» giusti o sbagliati che siano tutto quello che per molti anni era sembrato assolutamente necessario all’esistenza, a cominciare dalla telefonia mobile ed a finire con tutte le nuove connessioni telematiche, è diventato un ulteriore aggravamento dell’improvvisa ed immeritata povertà. La spesa quotidiana per tutte queste apparecchiature è un peso insostenibile per famiglie non soltanto monoreddito. Le recenti, passate festività di Natale e di inizio anno hanno dimostrato, almeno nel campo alimentare, una discreta tenuta dei consumi; qualche attenzione in più nell’acquisto di generi di lusso, un po’ di caviale in meno e il cenone si è salvato. Ma il gelo del fine mese, le prospettive incertissime, malgrado gli attuali sacrifici, rendono questi primi mesi del 2012 cupi per i pessimi pronostici. Al Monte dei pegni sono tornati gli affari, certo non per coloro che al Monte portano le cose care, conservate magari da generazioni, ma per gli istituti di credito che gestiscono il doloroso mercato. Si deve ricorrere alla spilletta lasciata in eredità dalla nonna ed all’orologio in oro dello zio defunto semplicemente per onorare le bollette del gas e della luce, bollette sempre più salate per effetto dei continui rincari energetici. I più anziani ricordano periodi ancor più drammatici: il dopoguerra, la mancanza di cibo, la corrente elettrica soltanto per qualche ora, ma avevano la speranza, concreta, di poter comunque lavorare, ricostruire e vedere un futuro più sereno. Oggi no, scontiamo superficialità e silenzi, paghiamo con i sacrifici e con le preoccupazioni per i nostri giovani l’assenza della politica, in particolare di quella europea. Siamo disillusi, il nostro sincero fervore europeista si è spento nei calcoli da bottega di una cancelliera miope e timorosa di negativi risultati elettorali, si è infranto, il nostro entusiasmo, sulle scogliere delle isole britanniche, storicamente isolazioniste e tradizionalmente legate a calcoli commerciali. Lo spirito di quella che doveva essere la nostra Europa è stato soffocato nel caveau di banchieri pronti a tutto pur di non assistere la crescita economica di interi Paesi. Non è, dunque, questa la nostra Europa, non è il continente della civiltà e della storia comuni in cui da sempre ci eravamo riconosciuti. E non è questa moneta la nostra moneta, così strumentale per tutti e così abbandonata, proprio da coloro che da questa hanno tratto i maggiori benefici.

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UNA OCCASIONE PERSA PER LA DESTRA

«Pubblicista good-bye» di ANDREA NICCOLÒ STRUMMIELLO Due anni di articoli. Non pochi, ma addirittura quasi un centinaio. Poi le trafile burocratiche, le tante porte chiuse in faccia. Ma, anche la disponibilità di qualche direttore che capisce, comprende, e magari ti aiuta anche. Poi le spese, tante, soprattutto se sei un giovane che magari non lavora ma che studia. Marca da bollo di qua, salati bollettini postali di là, per non parlare delle varie tasse che su ogni centesimo guadagnato si deve comunque versare all’onnipresente fisco. Alla fine, l’incertezza di un esame, spesso svolto al di fuori di ogni criterio legale. Ma, alla fine, eccolo là, il tuo bel patentino da «giornalista pubblicista», culmine di un percorso burrascoso che abbiamo poc’anzi descritto. Tutto quello che abbiamo finora raccontato, però, potrebbe presto ridursi ad archeologia. Perché? Perché il «pubblicista», ovvero quella particolare figura di giornalista che svolge la professione in abbinamento ad altre occupazioni lavorative, cioè in modo saltuario, tra qualche mese non esisterà più. Per essere più esatti, dall’Agosto del 2012 non esisterà più questa figura all’interno dell’albo dei giornalisti. Ma è veramente così? La verità sta nel mezzo, nonostante alcuni appelli allarmistici di questi giorni inducano a ritenere che, invece, la situazione sia gravissima e irreversibile. Sta nel mezzo perché è ovvio che non sia possibile cancellare d’ufficio una qualifica che, ad oggi, in Italia caratterizza circa 80mila persona. Quindi, più realisticamente, l’albo dei pubblicisti diverrà una categoria chiusa, ove non sarà più possibile entrarvi, che con gli anni andrà naturalmente esaurendosi. Di conseguenza, l’unico modo per l’accesso alla professione giornalistica, da dopo l’Agosto 2012, diverrà la carriera che, ad oggi, potremmo definire da «professionista», ma che dopo questa data sarà di fatto l’unica che consenta di esercitare legalmente la professione. Siamo dunque di fronte ad una liberalizzazione, imposta dalla Ue, che paradossalmente opera restringendo l’accesso alla professione. Liberalizzazione all’italiana, verrebbe da dire. E allora appare evidente come, ancora una volta, «fatta la legge, trovato l’inganno», ovvero imposta dall’Europa una manovra di liberalizzazione il legislatore italiano abbia trovato il modo per salvaguardare gli enormi interessi - di casta ed economici - che stanno dietro la professione giornalistica in Italia. È successo dunque che, in ossequio al diktat europeo, si è proceduto ad inserire nella manovra «Salva Italia» di Monti - il cui nome assomiglia tanto agli ossimori orwelliani propri alla neo-lingua del celebre 1984 la cancellazione dell’elenco dei pubblicisti e la riduzione della professione giornalistica ai soli professionisti. Non entreremo qui nel merito dell’opportunità di una più restrittiva regolamentazione della professione giornalistica che, pure, ha i suoi oggettivi pro e che non può essere così facilmente liquidata soltanto come un attentato all’esercizio della libertà di stampa, sulla quale del resto molto altro

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sarebbe da dirvi in riferimento all’Italia. Non lo faremo non perché non lo meriterebbe, quanto perché è più un’altra riflessione che da queste colonne vogliamo stimolare. Cioè che con la fine della figura del «pubblicista» occorre riflettere - da Destra - di quanto poco si siano realmente sfruttati i mezzi a disposizione per la formazione professionale e culturale di giovani che volessero intraprendere - o anche soltanto meglio qualificarsi pel tramite di questa - la carriera giornalistica. Molti pochi, a nostro avviso. Perché come avemmo già modo di denunciare da queste colonne, più che l’assenza di una «vera cultura di Destra», per dirla con le parole che furono di Adriano Romualdi, oggi che di spazi pure ve ne sarebbero, manca anzitutto chi di questa potrebbe farsene portavoce. Perché ad eccezione delle firme «storiche» della Destra culturale italiana, ormai tutte over-40, si stenta a trovare giovani firme in grado di operare quel naturale ricambio che, prima o poi, dovrà naturalmente essere realizzato. Ma, se questo non avviene è anzitutto demerito di chi non ha investito sui propri giovani, allevandoli, facendoli quantomeno qualificare professionalmente, e magari selezionandoli per un futuro inserimento lavorativo. E non ci si venga a dire che possibilità e spazi non ve ne sono, o che si occupa questo o quell’altro incarico ma avendo «le mani legate». È una mancata assunzione di responsabilità decisamente puerile che da Destra si sente da tanto, troppo tempo. Non ci si può lamentare, dunque, se a vent’anni e più di distanza dalla fine del comunismo sovietico, la cultura in Italia resti ancora espressione dell’egemonia - in crisi, per la verità - di sinistra. Ciò è avvenuto perché da sinistra c’è stata la lungimiranza di creare quelli che, ironicamente, potremmo anche definire «nipotini di Stalin», ma che zitti zitti, quatti quatti, sono sopravvissuti alla fine di un mondo, il loro, ed hanno ripiantato stabili radici nel nuovo millennio: alla faccia del comunismo che è morto. E chissà per quanto dovremmo sorbirceli, perché a loro volta stanno pragmaticamente formando chi li sostituirà, come nella migliore tradizione togliattiana. Si può dire lo stesso a Destra? Decisamente no. Le poche firme che hanno trovato spazi e ruoli di primo piano, sono degli «straordinari solisti» che, anzi, hanno dovuto molto più spesso combattere contro la Destra, le sue invidie, il suo imbecille ostruzionismo, per avere degli spazi e che, paradossalmente, devono molto di più ad ambienti politici esterni a quello che dovrebbero essere il loro naturale punto di riferimento. E, intanto, sta passando quasi sotto silenzio un attentato alla libertà di stampa in Italia dalla quale, indovinate un po’, chi verrà favorito? Proprio le grandi testate, in mano ai poteri forti gestite, molto spesso, da comitati di redazione dall’anima sinistrorsa o ispirati da linee editoriali decisamente radical chic. Per non parlare poi del taglio indiscriminato dei fondi all’editoria rispetto alla quale, se pure una più restrittiva politica avrebbe sicuramente dovuto essere adottata, sarà questa l’ennesima bastonata alla possibilità di formare giovani penne non-conformi che si troveranno così improvvisamente sprovviste non soltanto delle «palestre» dove crescere, ma anche di quell’ambiente ove muovere i primi passi per l’ingresso nella professione senza essere sbranati o schiavizzati dal kapò di turno. Insomma, la situazione è tutt’altro che rosea. Ma, se è questa la situazione della cultura e del giornalismo alternativo ai cliché imposti in Italia, prima di puntare il dito contro un sistema che ancora oggi ostracizza chi osa dissentire, guardiamoci allo specchio. Perché, forse, scopriremmo che siamo i primi carnefici di noi stessi.

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ANNI DIFFICILI

È IN CRISI solo la cultura di HERVÉ A. CAVALLERA NONOSTANTE il nuovo anno si sia aperto, come da sempre avviene, con buoni propositi e «incrollabili» speranze, i problemi rimangono tutti, tra cui - principe - la disoccupazione giovanile, senza aver risolto il quale la crisi perdurerà con un ulteriore impoverimento delle famiglie già impoverite e allo sbando. D’altra parte, il Consiglio di Facoltà … Pardon! Il Consiglio dei Ministri, composto per di lo più da docenti di materie economiche, quindi da tempo necessariamente adusi a prendere in considerazione la problematica per garantire agli Italiani e all’Occidente le magnifiche sorti e progressive, non ha fatto altro che applicare la mannaia sulla solita classe media, compito «sporco» affidato dai politici, ai quali invece non sono stati richiesti come pregiudiziale sacrifici altrettali, ma un più dilatorio «si vedrà…». Poi, alla fine dell’anno vecchio si è parlato di un generico «CresciItalia», di cui dovremmo aspettarci qualcosa sul mercato del lavoro e sulle liberalizzazioni. Ci risiamo: liberalizzare non serve a molto. Aiuta qualcuno, confonde i più, abbassa i guadagni di molti. È una di quelle inutili parole magiche che occultano la verità, la quale è molto più semplice: non si sa cosa occorre fare! Basti ricordare il fascino della parola «flessibilità»: ha generato il precariato a vita, i lavori a termine, lo stato di perenne incertezza e solitudine esistenziale. Su questa base, i temi della scuola e dell’Università paiono quasi secondari. L’attuale ministro dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca e di quant’altro è un convinto assertore di ciò che è stato messo in moto dalla Gelmini, quindi consolidamento del processo di privatizzazione alla luce di una psuedo-internazionalizzazione, secondo la quale per spiegare ai nostri giovani Dante e il suo tempo sarebbe eccellente che venisse un docente di lingua inglese a spiegarlo in lingua inglese. A proposito, considerato che la Gran Bretagna ha preso le distanze dall’Unione Europea, perché dovremmo continuare a ritenere doveroso parlare in inglese? Considerato che l’italiano, con tutta la sua inutile plurisecolare tradizione, vale poco, perché non parlare nelle lingue «forti» come il tedesco o tutt’al più il francese… Povere cose davvero, che manifestano un’incertezza di fondo. D’altra parte, che dei ministri «tecnici», e per di più del Nord-Italia, non sappiano cosa fare la dice lunga. Certo, nessuno pretende che abbiano la bacchetta magica e dobbiamo continuare ancora a sperare, ma fino a quando? Soprattutto è da pensare che si sta cominciando a pagare in modo veramente grave la presenza di una classe politica - invero non soltanto italiana - che ha vissuto di slogans e di retorica. Ma una classe politica di tal fatta è anche il frutto di una debolezza culturale che trova la radice nel progressivo fallimento del sistema scolastico che dagli anni Sessanta in poi del secolo scorso si è trasformato in un semplice ingranaggio di promozioni facili e di ascen-

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sioni ad inutili e più alti gradi scolastici. Qualcuno ha scritto che la «convivialità» e non la «competizione» genera l’eccellenza. Ma come l’eccellenza non può essere causata dalla competizione intesa come processo affabulatorio, così non può nemmeno essere assicurata dalla convivialità che può ridursi ad un semplice stare insieme. L’«eccellenza» - altra parola magica ed equivoca - può essere garantita soltanto dalla serietà degli studi e dalla serietà della ricerca, serietà che non sempre ci sono. Così come non basta pensare ad una riforma ab imis dei programmi. Una scuola con programmi fatti su misura delle esperienze e dei gradimenti giovanili, sarebbe semplicemente una scuola che confermerebbe come culturale quello che i media e la rete propinano loro. Certo, è opportuno cambiare e innovare, ma se si hanno idee e una concezione profonda della vita e della realtà. Altrimenti si improvvisa e il male che si ricava è molto superiore al bene. Così è stato in questi anni e le conseguenze le vediamo tutti. La lunga teoria della disoccupazione intellettuale giovanile sgomenta e addolora. Sono giovani (non più tanto giovani, invero) con laurea, master, dottorati di ricerca e così via. Alcuni avviati al precariato del posto di ricercatore a tempo determinato. In questa moltitudine, come solitamente accade, vi sono bravi e meno bravi, ma si tratta sempre di persone che lo Stato ha illuso imponendo quasi una frequenza di massa a cui non ha corrisposto un sicuro ingresso nel mondo del lavoro. Il quale, invece, viene affidato alla privatizzazione e alla liberalizzazione, ossia alle fortune di qualche privato, alla faccia per il sociale! Oggi si parla - ecco un’altra parola magica - di «equità». È lecito chiedersi dove essa sia. Forse nel tassare la prima casa, che per tanti è costata i risparmi di tutta una vita e per la quale molti continuano a pagare il mutuo? Intanto nelle Università si diffonde sempre di più il numero programmato - non volendo dire numero chiuso sì da spingere i giovani verso la frequenza delle Università private, sì da alleggerire il peso (ossia i contributi) verso quelle statali. Così fan tutte! E certo, male non sta soltanto l’Italia; ci si domanda soltanto perché occorre seguire i malcostumi altrui. Ad esempio, si potrebbero utilizzare i giovani nella custodia dell’immenso «parco» culturale offerto dalla Penisola italiana, ma anche in questo caso è meglio privatizzare, vendere magari a qualche magnate d’Oltralpe, per poi, col ricavato, tirare a campare un po’. I giovani possono aspettare… Potranno sempre diventare vecchi!

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I PROFESSORI AL GOVERNO?

PROFUMO di riforme di ALESSANDRO CESAREO QUESTA, è una domanda che sorge spontanea alle labbra e che può anche indugiare a lungo sulle stesse, soprattutto se ci si sofferma sull’analisi del contenuto (e delle prospettive) alle quali fa riferimento Alessandra Ricciardi, autrice di un articolo comparso su Azienda Scuola. Il giornale dei professionisti dell’istruzione nel novembre scorso. La solerte Ricciardi, infatti, non esitando a dipingere il ministro Gelmini come «il più inviso a docenti, genitori, studenti», sembrerebbe davvero intenzionata a guardare all’èra Profumo, che va testé iniziando, come ad una specie di età dell’oro di ovidiana memoria. Magari fosse così! Magari fosse arrivato davvero il tempo delle vere riforme, delle quali l’agonizzante scuola italiana ha bisogno da decenni ed in attesa delle quali, purtroppo, essa seguita invece a contorcersi in uno spasmodico tormento. Viene da dire magari perché c’è un grosso dubbio cui la Ricciardi non fa nemmeno cenno e che, invece, è essenziale per sciogliere un nodo non da poco, ovvero dov’è la maggioranza politica, quella con una chiara visione di fondo del problema educativo che, legittimamente eletta dal popolo (destra o sinistra che sia, conterebbe davvero poco, visto che la scuola è fatta a brandelli da ambedue gli schieramenti), potrebbe pensare a cambiare davvero la scuola, magari migliorandola? Quanto, poi, che la Gelmini abbia rappresentato il ‘peggio’ nella gestione del Miur, una memoria un po’ più lunga, che ripercorra la storia del nostro sistema formativo per almeno qualche decennio, non può dimenticare quanto fatto, per cancellare l’idea di una scuola seria e rigorosa, da ministri come Sullo, Misasi e, in epoca più recente, da autorevolissimi esponenti come Jervolino, D’ Onofrio, Lombardi (il ministro boy-scout), nonché Luigi Berlinguer, che ha di fatto cancellato lo studio della storia antica e del Medioevo dalle nostre scuole, che ha cassato sic et simpliciter il voto di condotta, abituando gli studenti a fare il comodaccio proprio e che, dulcis in fundo, pretendeva di commemorare Gramsci all’interno delle nostre scuole! Un pesante drappo ideologico monocorde aveva reso piuttosto cupi gli anni della sua permanenza in Viale Trastevere. Riconosciamo invece a Mariastella Gelmini il coraggio di aver lottato in difesa del valore del crocifisso (siamo cattolici, ed orgogliosi di esserlo, non dimentichiamolo!) e di non essersi mai piegata davanti all’arroganza pilotata e manovrata delle manifestazioni sinistrorse, volte a contestare, a demolire e a provocare, sempre e comunque, disfattismo. L’articolo in oggetto, dunque, si pone, fin dall’inizio, non come un contributo alla risoluzione dei problemi che travagliano la scuola, quanto come l’ennesimo atto di propaganda volto ad individuare tutto il male possibile da una parte e, invece, tutto il bene dall’altra. Superfluo dire che,

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in questo caso come in altri, destra significa male e sinistra, invece, bene! In realtà, quest’altra parte è ancora tutta da scoprire, sperimentare, conoscere, capire, né la riflessione generica su tagli e riforme può fornire, al momento, concreti fattori di speranza. La scuola può essere amata e capita (e, quindi, eventualmente riformata) soltanto da chi la conosca davvero a fondo, senza mezzi termini di alcun genere. E tale conoscenza si può realizzare soltanto vivendo all’interno della scuola, amandola, individuandone pregi, difetti, punti di forza e di debolezza, aspetti positivi e non. Accadrà tutto questo? Gli occhi sono puntati sul programma educativo di questo bel governo tecnico, troppo perfetto e troppo asettico per poter parlare al cuore della gente e troppo attento, invece, alla volontà delle banche. Può davvero preoccuparsi (e seriamente!) d’istruzione e formazione un governo che, tra le numerose (ed «illuminate») strategie di riforma e di risanamento delle esauste casse dello Stato, individua la schedatura bancaria delle pensioni, realizzata tramite l’obbligo di riscossione delle stesse su conto corrente? Possibile che lo Stato stesso, che è, nella stragrande maggioranza dei casi, l’erogatore di questi emolumenti, debba poi procedere a schedare gli onesti e tranquilli pensionati che vanno a riscuotere i mille euro, frutto di una vita di fatiche? Davvero lo Stato non è in grado di sapere a chi paga le pensioni? Non sarà, invece, che gli oltre cento euro annui che ciascun pensionato dovrà spendere per accendere e mantenere in vita un c/c bancario finalizzato alla riscossione degli emolumenti pensionistici facciano bene, in primis, alle banche stesse? Questa è, appunto, democrazia. O no? Altro elemento chiamato in causa dall’articolo in oggetto è quello legato alla cosiddetta territorializzazione dell’autonomia scolastica, molto probabilmente da realizzarsi tramite un più intenso, vigoroso e capillare radicamento politico delle istituzioni scolastiche sul territorio. Ma che significa, in concreto, tutto questo? Che cosa vuol dire, se non riproporre, ancora un’altra volta, l’ennesimo polpettone dell’autonomia scolastica intesa come virtuale e indiscussa panacea? Nel non troppo lontano 1993, l’allora ministro Jervolino (che a giudizio dell’autrice dell’articolo sarà forse da ricordare come un buon...ministro? Mi verrebbe voglia di chiederglielo...) iniziò a blaterare di autonomia, e dello stesso, preoccupante tono si riempì anche la bocca del già citato Berlinguer; ecco che, a distanza di tempo, il tono ed il linguaggio ritornano, invariati nonostante il flusso del tempo, così come si fa assai evidente lo slancio illusionistico e prospettico che, indicando nel ministro uscente tutto il male possibile, attribuisce con leggerezza all’entrante ogni dono ed ogni qualità. Se anche fosse così, ma così non è...che fine fa l’obiettività? Dove va a risiedere l’imparzialità del giudizio? Misterium fidei... o, forse, le nostre scuole devono diventare ancor di più di quanto in realtà già non lo siano...officine di partito, all’interno delle quali formare, con i soldi pubblici, intellettuali generati secondo il temibile criterio dell’hominem unius libri? Se davvero così fosse, ed horresco referens, saremmo messi davvero male. Molto male. Vediamo dunque di passare dall’analisi alla sintesi, per delineare un piano operativo che sia compatibile con gli spazi ed i tempi (ma anche i fondi!) decisamente ristretti e risicati con i quali non può non fare i conti questo governo concepito in laboratorio. Nato da un’esigenza politica, ma presentato come tecnico e, dunque, tutt’altro che ricondu-

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cibile alla volontà popolare, unica forza di traino all’interno di una democrazia. Sempre che di democrazia davvero si tratti e che tale debba (e possa) restare. Ecco, dunque, un decalogo essenziale. Punto primo: come potrebbe mettere mano a riforme di un certo spessore (legislativo e non) un governo con una vita talmente breve, almeno in base alle premesse note, da non aver neppure il tempo per mettere in piedi dei decreti che risultino credibili e, soprattutto, applicabili? Punto secondo: quale la filosofia celata dietro questi presunti progetti di riforma? Saremmo infatti desiderosi di conoscere questo aspetto, in realtà tutt’altro che trascurabile, prima di sentir parlare di presunte novità. Punto terzo (e qui l’elenco potrebbe ulteriormente allungarsi): oggi come oggi, la scuola italiana ha effettivo bisogno, in primis, di essere sgravata da orpelli ed eccessi burocratici inutili, spazzati via i quali si potrà forse pensare al nuovo volto da conferire ad un’istituzione così importante. Punto quarto: davvero il Miur avrà il coraggio necessario per ammettere la necessità di fare macchina indietro rispetto alle insensatezze realizzate in questi decenni? Se la risposta sarà affermativa, allora sì che si potrà guardare con fiducia al futuro. diversamente, è meglio non aprire neppure il discorso. Punto quinto: è oggi più che mai necessario abbandonare qualunque strategia di propaganda e, invece, andare direttamente al cuore del problema. Punto sesto: rivedere, correggere e, se possibile, attenuare i rischi connessi all’applicazione della generale deregolarizzazione (o..sregolarizzazione?) prevista dall’autonomia, causa di un drammatico e pirandelliano sistema di maschere nude pirandelliane, all’interno del quale ognuno è costretto a recitare la tragicomica parte prevista dalla funzione rivestita. Punto settimo: aprire un dibattito serio (e non ideologicamente pre-orientato) circa la natura, le funzioni ed il ruolo della scuola media, colta nel suo delicato ruolo di fase d’unione e d’indirizzo tra due diversi segmenti formativi e tra due età importanti dello sviluppo fisico ed umano dei singoli studenti. Temi essenziali all’interno del confronto potrebbero essere, ad es., una maggiore severità nella valutazione e, quindi, un impegno più rigoroso e costante da richiedere agli studenti, nonché l’opportunità di avviare concretamente gli stessi allo studio del latino, inteso come preziosa risorsa formativa. Punto ottavo: avere il coraggio di affrontare l’annosa questione della deludente retribuzione economica con cui vengono puntualmente soffocate e frustrate tutte le varie velleità del corpo docente, il quale da troppo tempo attende che si configuri una reale possibilità di riscatto, ma senza vedere niente all’orizzonte. Punto nono: lavorare perché l’identità educativa e formativa del docente venga rafforzata, irrobustita, grazie anche ad un reale processo d’ispessimento delle attività culturali effettivamente connesse alla sua funzione. Punto decimo: operare perché concretamente venga concesso (e permesso) ai docenti più validi, ovvero quelli forniti di un curriculum che si distingua per ampiezza e profondità, di raggiungere anche i gradi più alti della funzione docente; verrebbe pertanto ad essere drasticamente ridimensionato quel pericoloso livellamento che, posto in essere già dagli anni ‘60, ha trascinato la scuola italiana nel buio abisso del populismo qualunquista, al cui interno tutte le pecore sono nere, e gli asini, cosa fanno? Ragliano,

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anche per far sentire che, effettivamente, anche loro ci sono, ed hanno (o almeno vogliono avere) voce in capitolo. Ecco perché, alla luce di tutte queste considerazioni, un vero profumo di riforme, ed in questo caso nomen ed omen andrebbero a coincidere, davvero non guasterebbe, ma è anche perché si è sentito troppo blaterare di riforme per decenni che non vien davvero più voglia di credere a nessuno, o quasi. Sarà, forse, questa la volta buona? Certo è che, quand’anche queste modifiche (posto, appunto, che le stesse vadano davvero nel senso della serietà e del rigore auspicati) venissero realizzate, come si accorderebbero con la totale assenza di una volontà popolare, causata dalla creazione di un governo deciso a tavolino, in mezzo alle carte e lontano dal Paese reale? Interrogativi, questi, che pesano come autentici macigni e che sono di sicuro più drammatici della necessità, a giudizio della Ricciardi inderogabile, di dare una pagella del tutto negativa al Ministro Gelmini, rea, almeno così sembra, di non essere stata, come molti altri, di sinistra. In tal caso, chissà perché, chissà come, ella sarebbe diventata improvvisamente brava, bella, buona, simpatica e persino capace. Capito quali miracoli produce, nel nostro bel Paese, schierarsi preventivamente a sinistra? Significa, in sostanza, essere sempre dalla parte giusta e, soprattutto, non avere mai da temere niente. Per nessun motivo. E questo, com’è ovvio che accada dalle nostre parti, è un lungimirante, fulgido esempio di democrazia. Omnia vincit Amor/ et nos cedamus Amori!

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CRONACHE DELL’IMMIGRAZIONE

Chi ha armato Casseri? di ALFONSO PISCITELLI NEL giorno in cui lo sciagurato Casseri uccideva due senegalesi a Firenze e si toglieva la vita, a Liegi un maghrebino gettava una bomba sul mercatino di Natale facendo una strage. Sono entrambi drammi della follia che assumono dimensioni particolarmente preoccupanti in questi tempi di crisi. Del caso Casseri sappiamo tutto, i giornali hanno ampiamente sviscerato ideologia (di estrema destra) e malattia (depressiva) dell’uomo. Gad Lerner, il vecchio amico di Adriano Sofri, si è addirittura lanciato in una caccia ai conoscenti di Casseri per trascinarli nella gogna mediatica della sua trasmissione. La notizia belga è stata oscurata dalla vicenda Casseri, ma vale la pena ripescarla per fare un confronto tra i due casi. Il magrebino residente in Belgio era un pregiudicato e in realtà avrebbe dovuto essere in carcere per una condanna di quattro anni e otto mesi già passata in giudicato. Spacciatore di droga, in possesso di un impressionante arsenale di granate e kalashnikov, Nordine Amrani, lo stesso giorno in cui Casseri uccideva a Firenze, lanciava sul mercato di Liegi delle granate che uccidevano cinque persone, tra cui un bambino di pochi mesi, e facevano decine e decine di feriti. Il primo commento del quotidiano Repubblica in Italia era: non si tratta di terrorismo islamico, i modelli comportamentali non sono quelli del fondamentalismo mussulmano. La strage era frutto di problemi individuali o magari anche di disagio sociale (frutto della mancata integrazione…, dell’intolleranza…). Invece nel caso di Casseri il discorso era al contrario: qui evidentemente l’assassinio di due ambulanti era l’ovvia conclusione logica di una ideologia. Casseri frequentava centri sociali di destra! Casseri leggeva le favole di Tolkien! Dunque non poteva non uccidere. Ragionando a mente fredda sulla vicenda si può forse fare un discorso equilibrato e sfuggire ai tic ideologici immediati. Noi riteniamo che la battaglia contro gli eccessi dell’immigrazione debba esser compiuta con grande senso di equilibrio e di umanità. Sosteniamo tesi forti: che gli immigrati in Europa siano troppi, non integrabili dall’attuale mercato del lavoro; che le culture di provenienza di molti immigrati creino problemi di «dis-integrazione» sociale. Auspichiamo pertanto l’espulsioni dei soggetti legati alla delinquenza, un ferreo controllo dei confini e un a cernita degli ingressi in base a principi di assimilabilità. È ovvio che per comportamenti, per cultura di origine, l’ucraino e il romeno siano molto più assimilabili del nigeriano e del rom. Siccome non si possono accogliere tutti riteniamo che l’accoglienza debba essere fondata sul concetto di prossimità: i flussi intraeuropei da soli bastano a soddisfare quel presunto fabbisogno di manodopera immigrata invocata da chi in realtà vuole abbattere i costi della manodopera locale. Sono idee forti, ma hanno il pregio di essere idee non ipocrite, e presumiamo giuste. Chi afferma queste idee non

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è razzista, non «odia il diverso», pone semplicemente delle problematiche sociali. Ciò nonostante avvertiamo il dovere di non alzare i toni, di non fomentare gli odi contro persone deboli che arrivano in Europa sull’onda della fame. Vorremmo che tutti i gruppi politici impegnati nella lotta all’immigrazione avessero questa stessa sollecitudine. Una volta affermato un dovere, però rivendichiamo un diritto. Nessuno può permettersi di offendere una tesi politica riconducendola ai deliri estremisti. Ogni tesi può essere estremizzata o può sfociare in paranoia, ma questo vale per tutte le tesi. Un sindacalista medio ancora oggi ripete tesi che furono anche delle Brigate Rosse. Sarebbe onesto fare una equiparazione tra un placido burocrate appoltronato oggi in una sede della Cgil e le belve assassine del terrorismo comunista? No, non sarebbe onesto, allora allo stesso modo non si può criminalizzare una cultura politica sulla base del delirio depressivo e omicida di Casseri. * * * Quando Gad Lerner ha cercato di trascinare nel fango il nostro amico Gianfranco De Turris ha compiuto una operazione decisamente spregevole. Casseri e De Turris si sono formati entrambi sui testi di Tolkien ed Evola, dunque… Sulla base di questi «dunque» tante persone potrebbero essere richiamate a responsabilità ben più coerenti di correità. Prendiamo il caso di Breivik: il folle assassino che ha fatto strage di giovani svedesi era una scheggia impazzita non della subcultura nazista, ma della mentalità neo-cons. Protestante estremo odiava i cattolici, ammiratore fanatico di Churchill e dello Stato di Israele, disprezzava Hitler. Sulla base di queste traballanti coordinate ideologiche, chi sarebbero i complici intellettuali di Breivik? Oriana Fallaci, buonanima? Per i ricchi gestori della gogna mediatica non c’è dubbio che la cultura «razzista» diffusa ai nostri giorni abbia armato la mano a Casseri. Sta bene, non neghiamo questa implicazione: il razzismo è una brutta bestia e condividiamo l’auspicio che scompaia come atteggiamento mentale preconcetto. Però da tutti i mass media quella che viene inculcata non è certo l’ideologia razzista, è piuttosto la retorica dell’accoglienza a tutti i costi. Diciamo chiaramente che questa retorica crea insofferenze, perché molti ravvisano in essa la fonte di pratiche ingiustizie. Gli Italiani sono super tartassati, ma il governo fa passo indietro appena si prospetta la possibilità di una piccola tassa sugli immigrati. I pensionati italiani finiscono alle mense della Caritas e in molti casi, rimasti soli, perdono la casa, ma il ministro Riccardi propone di regalare case ai rom. Qui in effetti si ravvisa una odiosa discriminazione etnico-razziale: agli Italiani vengono negati diritti e privilegi che invece si regalano ad altri soltanto in virtù di una origine etnica gradita alla ideologia fanatica degli «immigrazionisti». Nelle strade delle nostre città, ogni giorno i commercianti italiani vivono nella paura di una sanguinosa multa per uno scontrino non fatto. Ma il commercio al minuto degli extracomunitari - che è poi il terminale di giochi mafiosi più grandi - si sviluppa in assoluta franchigia. Ogni tanto la polizia arriva, dispiega le sirene, avanza a passo di tartarughina; mentre gli extracomunitari raccolgono la loro roba e si prendono un quarto d’ora di pausa prima di ricominciare la loro attività. Sono queste odiose disparità che creano rabbia, , armano le mani ai depressi e agli psicopatici.

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NON ESISTE PIÙ LA QUALITÀ

LA TRUFFA dei giocattoli di CLAUDIO MESSORA 3 gennaio 2012 PER NATALE, mia mamma ha comprato un Mini Calcio Balilla ai suoi nipotini. Lo ha preso in cambio di 1.800 punti in una grande catena di supermercati. Si scrive «punti» ma si legge «soldi». A titolo di benvenuto, appena aperta la confezione, un’angoliera era rotta. Ma è il meno. I longaroni laterali si avvitano nel legno dell’intelaiatura. Peccato che le viti insistano su un quadratino di compensato di 2 centimetri di lato per mezzo di spessore, il quale a sua volta è fissato all’intelaiatura con due gocce di colla lungo i lati più sottili. Non ci vogliono cinque anni di ingegneria per capire che il tutto può durare da Natale a Santo Stefano. Ma non è finita. Le barre metalliche dove si infilano i giocatori non hanno un fermo adeguato all’estremità, se non un cappuccio di gomma assolutamente inutile. Al primo utilizzo normale escono dalle loro sedi, roteando in aria e creando un pericolo concreto per i bambini, oltreché un evidente disagio. Inoltre le maniglie per giocare si fissano alle barre metalliche con una piccola vite ma senza nessuna solidità strutturale: appena le tiri un po’ più forte te le ritrovi in mano. Così ho guardato sulla scatola chi avesse congegnato questa truffa ai danni di ingenue nonne e malcapitati nipotini. Volevo esprimere una vibrante lamentela. C’era scritto Made in China. Ho lasciato perdere. Un mese e mezzo fa mio figlio ha compiuto sei anni. Gli abbiamo fatto una festa. Sono venuti tantissimi suoi compagni di classe. Tutti con un regalo. Tra le altre cose ha ricevuto ben tre o quattro macchinine telecomandate. Quando ero piccolo io, una macchinina telecomandata era un sogno inarrivabile. Costava una fortuna. Ma forse c’era un motivo. Abbiamo aperto la prima. Ho dato fondo a tutta la mia scorta di pile per la videocamera e i radiomicrofoni, perché nella scatola non c’erano. Però era splendida: si accendevano anche le luci. «Era», perché è durata qualche ora. È stata forse distrutta, presa a calci, a martellate? Niente di tutto questo. Il motore funzionava bene. Soltanto, girava a vuoto, senza trasmettere il movimento alle ruote. Così, pensando ingenuamente a un filo staccato o a una cinghietta uscita di sede, ho provato ad aprirla. Dopo mezz’ora di equilibrismi sono arrivato alla scatoletta contenente la trasmissione. Gli ingranaggi erano immersi in una vasca di grasso e tenuti in posizione da sottili supporti di plastica. Rotti. Un millimetro di plastica rotta e un gioco da diverse decine di euro da buttare nel cesso. Sulla scatola, in piccolo tra i colori sgargianti e le foto spettacolari, c’era una scritta. Diceva Made in China. Ne abbiamo aperta una seconda. Altre pile di dimensioni diverse da trovare smontando due telecomandi. È durata ancor meno della prima. Tra i regali c’era anche un set di walkie-talkie di Spiderman. Servivano due pile da 9 volt, così ho sventrato un minipimer e una radiosveglia. Li abbiamo accesi. Erano

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completamente inutilizzabili. Se stavi a due o tre metri di distanza, vagamente percepibile in un rumore di fondo predominante, potevi a malapena distinguere la voce proveniente dal secondo trasmettitore. Che tuttavia udivi molto più distintamente dal vivo, ovviamente. Se ti allontanavi a 4 o 5 metri, o se addirittura osavi cambiare stanza, era come cercare di captare un segnale radiofonico proveniente da Alfa Centauri. Made in China. Ho recuperato le pile e ho cestinato il resto. Sono soltanto alcune storie di milioni di altre storie perfettamente identiche che ogni anno si consumano nella quasi totale indifferenza del mercato, dei genitori, degli zii, dei nonni e nella delusione dei bambini. Una volta i giocattoli erano prodotti da un’industria matura, che lavorava secondo criteri di qualità, basandosi su un’esperienza e una maturità tecnologica e ingegneristica frutto di una storia fatta di eccellenza. Era, tra l’altro, il Made in Italy. I giocattoli (forse) costavano un po’ di più e se ne compravano di meno. Ma per Dio! erano solidi, robusti, affidabili. E se si rompevano valeva la pena spendere il tempo e le energie necessarie a gestire il processo della loro riparazione. I bambini avevano un giocattolo vero con cui divertirsi e gli adulti non avevano buttato via i soldi. Oggi (forse) una macchinina radiocomandata costa un po’ meno di ieri. Ma la società dei consumi ha accelerato talmente il suo ciclo produci-consuma-crepa che non c’è più il tempo di stare dietro a tutte le cose di infima qualità che arrivano incartate e che non funzionano. Ammesso che davvero qualcuno sia disposto a sostituirle (perché nell’era della globalizzazione nessuno ripara più niente, questo è ovvio), sono talmente tante, c’è così poco tempo e il loro valore percepito è talmente scaduto che non ne vale più la pena. L’unica via possibile è il cestino. Oppure la trasformazione di un appartamento da 80 metri quadri in una discarica di cianfrusaglie. In tutto questo profluvio tumorale di spazzatura chi ci guadagna è il produttore, perché costruisce a prezzi infimi oggetti qualitativamente scadenti accompagnati da una garanzia di facciata sulla quale pochissimi avranno voglia e tempo di rivalersi. Del resto, le stesse industrie occidentali, quelle che rappresentavano l’eccellenza, inseguendo questa scellerata spirale di involuzione hanno iniziato a produrre i loro giocattoli sfruttando la manodopera a basso costo disponibile nei Paesi emergenti, dove i diritti umani e l’attenzione alla sicurezza sono un concetto molto sfumato. Ricorderete il caso dei 18 milioni di giocattoli Mattel prodotti in Cina e ritirati dagli scaffali perché erano state utilizzate vernici al piombo oppure avevano calamite troppo piccole che potevano essere ingerite. Ma c’è una domanda che mi tormenta. Quanto è costato quel Mini Calcio Balilla? Quanto quelle macchinine radiocomandate? Quanto quella coppia di walkie-talkie, comprati con un gesto forse distratto in un supermercato e gettati via ancor più distrattamente? Ad una festa di compleanno di un bimbo di sei anni arrivano mediamente regali per un valore complessivo che supera le centinaia di euro. È banale buonismo popolano chiedersi quante adozioni a distanza avremmo potuto sottoscrivere con tutti quei soldi? I nostri figli sono più felici, soltanto perché oggi hanno più cose da buttare e molte meno con cui giocare davvero?

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Quando ero piccolo abitavo a Genova. C’erano tante salite e andavano di moda i carretti. I carretti erano piccoli veicoli elementari, costituiti da grandi assi di legno cui si applicavano generalmente quattro rotelle di ferro, del tipo di quei cuscinetti a sfera che si usano in meccanica, non so bene per fare cosa. Molti bambini si costruivano un carretto, poi ci salivano sopra e si gettavano già dalla discesa, producendo un infernale sferragliamento delle ruote di acciaio sull’asfalto. Ma i decibel di puro casino erano direttamente proporzionali al divertimento. Così, mio nonno decise di costruirmene uno. Prese un’asse di legno solida e robusta. Avendo lavorato all’Ansaldo, nel cantiere navale, sapeva dove recuperare i cuscinetti a sfera. Ma poiché quando faceva qualcosa la faceva con amore, e non tanto per farla, realizzò un carretto unico, che nessun altro bambino aveva. Non soltanto progettò un sistema sterzante, per cui grazie ad un manubrio potevo orientare i due semiassi anteriori cambiando direzione, ma ricavò anche un’apertura nella parte anteriore dell’asse, dentro la quale inserì una tavoletta basculante che una molla riportava in posizione. La tavoletta era ricoperta di cuoio: bastava premerla perché il cuoio entrasse a contatto con l’asfalto e, grazie all’attrito prodotto, frenasse la corsa del carretto. Adesso avevo un carretto nuovo fiammante, esclusivo, super-tecnologico e anche bello esteticamente! Questo purtroppo non impedì all’invidia degli altri bambini di mettermi in testa a quella speciale carovana di cinque/sei carretti che ogni tanto veniva organizzata per la discesa, a mo’ di trenino, per poi lanciarmi a tutto spiano contro la scalinata della chiesa, espellendomi dal convoglio come un proiettile. L’impatto con i sacri gradini mi procurò una ferita al ginocchio che ci mise un mese e mezzo a guarire. Ma si tratta di un particolare secondario. Quello che ricordo è il momento della costruzione. Ricordo mio nonno al lavoro. Io che lo guardavo ammirato. Ricordo la dedizione e l’ingegno con la quale applicava le soluzioni che aveva pensato apposta per me. Credo di non avere mai avuto un giocattolo più bello. Neppure una macchinina radiocomandata, acquistata a prezzo pieno negli anni ‘70, mi avrebbe dato la stessa gioia. www.byoblu.com

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INTERVISTE SULLA DESTRA - ALESSANDRO GNOCCHI

«Una destra culturalmente vivace, ma incapace di riformare il Paese» a cura di MICHELE DE FEUDIS LE PAGINE culturali dei quotidiani di centrodestra sono un laboratorio delle idee e delle avanguardie che si muovono nell’area che raccoglie conservatori, cattolici postfascisti e liberali. Alessandro Gnocchi, curatore della «terza pagina» de Il Giornale, intellettuale liberale e filologo (è autore di pubblicazioni su Pietro Bembo, cardinale e insigne umanista vissuto tra il 1400 e il 1500), ritiene l’esperienza dell’ultimo esecutivo Berlusconi «una occasione mancata per rappresentare una svolta nel Paese, soprattutto perché gli esponenti della maggioranza non sono stati abbastanza incisivi nello spiegare all’opinione pubblica le ragioni che muovevano valide riforme». Nel futuro prossimo, per Gnocchi, le nuove classi dirigenti politiche si dovranno forgiare nei partiti in maniera non autoreferenziale, creando sinergie con fondazioni e istituti di ricerca attivi a destra nell’approfondire i più spinosi temi di attualità. Vent’anni fa c’era il proporzionale e le culture politiche novecentesche riconducibili a identità forti. Adesso c’è un sistema tendenzialmente bipolare che genera grandi aggregazioni. Riprendendo e parafrasando Giorgio Gaber dove è finita la destra? E se c’è ancora come è definibile culturalmente? «C’è ancora un’area di destra, che ho potuto conoscere ed apprezzare nella mia esperienza di giornalista prima a Libero e adesso a Il Giornale. Non è un monoblocco, si tratta di un pubblico estremamente composito. I nostri lettori hanno tra loro idee quasi inconciliabili. Su alcuni argomenti - mercato, ruolo dello stato e temi etici - c’è un forte dibattito.» Quale può essere ritenuto il filo «rosso» che tiene insieme questo universo pieno di differenze? «Il valore della libertà e la rilevanza che si dà all’individuo ed alla persona, che vengono prima dello Stato.» La progressiva aggregazione intorno ad un polo di centrodestra ha generato un processo fusionista tra identità cattolica, liberale, sociale. Che bilancio si può fare di questa esperienza? «L’arcipelago della destra delle idee in questo momento storico è particolarmente vivace, e le case editrici di riferimento sono quelle che hanno una proposta politica e culturale più definita ed affilata. Magari non posseggono la potenza di fuoco dei grandi editori, ma producono opere di grande valore: Lindau, Bietti, Cantagalli, Rubbettino sono dei laboratori pregevoli di pensiero politico. Hanno il pallino dell’iniziativa nel campo delle idee, mentre le case editrici storiche della sinistra sono ripiegate su se stesse. Lo stesso catalogo Einaudi, pur di alto livello, ha annacquato la sua proposta ideologica e sostanzialmente batte sempre sugli stessi tasti.»

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Che influenza è riscontrabile nella destra politica? «Non c’è un riflesso diretto sull’azione dei partiti. Il centrodestra ha sprecato l’occasione di fare tesoro delle esperienze promosse in questo settore. Mi riferisco alle riforme del governo Berlusconi, con la Gelmini nella scuola e con Bondi per il cinema e la lirica. La piazza e l’opinione pubblica, però, non hanno compreso in pieno la portata rivoluzionaria e positiva dell’azione di governo, anche e soprattutto perché è venuta meno la capacità di comunicare.» È mancata una cinghia di trasmissione tra cultura e politica? «Non c’è stata nessuna osmosi. L’attenzione per il lavoro culturale non manca, ma poi prevalgono altre dinamiche.» Leggere l’attualità obbliga a disporre di strumenti al passo con i tempi. Il governo Monti, sostenuto dal Quirinale, obbliga a ridefinire l’attuale panorama. «Pd» e «Pdl» sostengono l’esecutivo. L’opposizione, oltre a quella parlamentare della Lega, è animata dai quotidiani di destra come «Il Giornale», «Libero» e il «Secolo d’Italia», o di sinistra come «il manifesto». Quanto durerà questa fase anomala? «L’esecutivo guidato dall’ex rettore della Bocconi rimarrà in sella finché i conti non saranno in ordine. I giornali di destra, di contro, non possono appoggiare questo governo perché non condividono le procedure attraverso le quali si è arrivati alla sua costituzione.»

Sarà lo spirito del tempo, sarà la forzata convivenza nei contenitori partitici postmoderni, sarà il sistema politico tendenzialmente bipolare che tende a smussare diversità e omologare differenze. Il perimetro di un arcipelago culturale che si è riconosciuto - pur tra contraddizioni e ossimori - in una visione spirituale della vita e nell’umanesimo del lavoro, visione declinata a destra dal Msi e da una miriade di circoli, case editrici, associazioni, comitati civici e riviste, sembra adesso attraversare un momento di forte disorientamento. Oltre i rassicuranti confini del «nostalgismo» e dei paletti novecenteschi, però, persistono idee forti, autori di riferimento e nuove battaglie da combattere. Per questo Il Borghese pubblicherà un ciclo di interviste con scrittori, filosofi ed intellettuali per analizzare gli scenari presenti e futuri, offrendo ai nostri lettori le possibili coordinate delle nuove rotte nel mare della politica italiana. (m.d.f.)

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Dopo la parentesi dei «professori» da quali posizioni imprescindibili dovrebbe ripartire una proposta politica di destra? «Il punto fermo è la riduzione del ruolo dello Stato al minimo. Monti, per ora, sta riproponendo uno statalismo di vecchio conio.» Curando la «terza pagina» del più diffuso quotidiano di destra italiano, quanto è vitale la cultura non allineata nel Paese? «Ci sono alcune fondazioni e istituti che hanno giocato un ruolo importante. Altri enti si sono avvicinati troppo alla politica, perdendo la capacità di attrazione per gli intellettuali: è il caso di Magna Carta guidata da Gaetano Quagliariello. Conservando la vocazione autonoma originaria sarebbe stata ancora più efficace. Rilevante è il ruolo dell’Istituto “Bruno Leoni” nella diffusione di idee liberiste: ormai costituisce un punto di riferimento su molti temi attraverso documenti approfonditi e puntuali.» La presenza delle idee della destra nelle università resta ancora marginale come in passato? «Le accademie può darsi siano rimaste “collocabili” a sinistra. Nelle scuole superiori il corpo docente non è più schierato graniticamente. Sono cambiate molte cose. Di sicuro persiste una iper-sindacalizzazione che finisce per avere il sopravvento. Tanti docenti di destra sono riluttanti a schierarsi nello spazio pubblico, fermo restando che ci vorrebbe maggiore organizzazione.» Dove si formano le classi dirigente del futuro? In che luoghi e attraverso quali percorsi? «Bisogna ripartire dalla militanza nei partiti, luoghi deputati alla formazione dei giovani. Accanto a questo è necessario accrescere l’attenzione per la cultura: migliorare la capacità di maneggiare gli strumenti della politica deve essere una priorità. Alcune riforme, votate grazie ad una larghissima maggioranza, dovevano essere realizzate e portate fino in fondo, con maggiore cura per le procedure tecniche.» Destre e nuovi media. C’è un ritardo nell’uso dei nuovi strumenti «web»? Quali iniziative sono maggiormente al passo con i tempi? «No, nessun gap con la sinistra. Andrea Mancia con www.toque-ville.it e l’Istituto “Bruno Leoni” sono stati tra i primi a sfruttare questi mezzi di comunicazione, intuendone le potenzialità. La rete si adatta bene alle idee di certa destra, come quella conservatrice e liberale. Questa esperienza è stata però slegata da tutto il resto, dall’azione politica quotidiana degli esponenti dei partiti.» Nelle pagine del giornale sono frequenti le riletture di autori classici cari alla destra novecentesca. Quali sono i più «attuali»? «Dalla tragedia di Eschilo a Jünger, tutta la cultura può essere utile a decifrare le prossime sfide. Gli scrittori centrali per la linea del nostro quotidiano restano Indro Montanelli, Giuseppe Prezzolini e Leo Longanesi.» Per concludere tre indicazioni culturali per i lettori de «Il Borghese»: un libro, un film e un gruppo musicale? «Come ottenere il successo in arte di Tom Wolfe, Taxi driver di Martin Scorsese e le note dei Radiohead.»

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LA CRISI DEL CAPITALISMO

IL MODELLO cinese di ANTONIO SACCÀ AVREI scritto comunque quanto ora scrivo, ma la cortesia di Giuseppe Vecchio, animatore culturale del Network Teleambiente, e di Claudio Tedeschi, Direttore de Il Borghese, mi fornisce materia aggiuntiva e dimostrativa a quanto scrivo. Si tratta del capitalismo e della crisi odierna del capitalismo. Di quale crisi discutiamo, se vi è crisi? Molti anni fa l’amico Rocco Buttiglione scrisse un testo nel quale affermava che non essendo accaduta la crisi del capitalismo, il marxismo, che la riteneva intrinseca al capitalismo, era una profezia mancata o una ipotesi irrealistica. Consideravo che quanto non è accaduto potrebbe accadere. Ripeto oggi la medesima considerazione: è maturata l’epoca della crisi costitutiva del capitalismo? Qual è la crisi costitutiva del capitalismo? Che assorbe sempre meno lavoratori e accresce ulteriormente sottoccupati e disoccupati. Qualche spirito sostiene il contrario e fa l’esempio di Cina, India, molti Paesi dove la conversione al capitalismo ha creato benessere e ricchezza. Bisogna intendersi, il Mondo non è in ogni punto sullo stesso piano. In Cina un salario povero e lavoro schiavistico sono oro in confronto al passato, e la ricchezza di pochi ottenuta in quella maniera ci inorridisce. Pertanto se diciamo che il capitalismo ha favorito un certo benessere agli affamati e ricchezza agli imprenditori, oltre che a dei Paesi, diciamo il vero, ma diciamo anche il vero se aggiungiamo che la maggior parte di quei paesi è nella desolazione e chi sta meglio, sta meglio se paragonato alla fame assoluta. Allora la questione è: la ricchezza della Cina, ad esempio, è da coniugare a salari minimi e a caterve di derelitti? Messa così, la faccenda cambia radicalmente aspetto. Saremmo, anzi, proprio a quel tipo di capitalismo che, temo, invaderà anche l’Occidente: minimi salari e milioni di emarginati. Il modello cinese. In un articolo nella rivista Internazionale, n.929, segnalatomi da Giuseppe Vecchio, è ripreso un testo dal Die Zeit, scritto suppongo da un giornalista che si fa sociologo dell’economia, Wolfgang Uchatius, il quale, se capisco, crede che la situazione negativa sia dovuta alla saturazione del mercato: avremmo, noi occidentali, tutto o molto. La gente comprerebbe, ma avendo tutto o molto, non compra. Alla testa di Uchatius non sorge l’idea che se uno ha la casa di tre stanze ma potrebbe acquistarne una di cinque, lo farebbe volentieri, quindi la difficoltà non è nella saturazione ma nella mancanza di disponibilità ad accrescere il consumo. Il comico dell’insieme è nella titolazione dello scritto: «La fine del capitalismo», senza punto interrogativo, ma la chiusura dell’articolo, questa: «Il capitalismo ha alleviato la sofferenza delle persone: per questo una rivoluzione dal basso sembra impensabile,così come un nuovo sistema economico progettato dall’alto»! Esattamente il contrario del titolo, non la fine del capitalismo, anzi: non c’è alternativa al capitalismo! Uchatius, oltretutto, non coglie il pericolo di considerare

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un modello positivo quello cinese, rischiamo di volerlo importare! Da ridere. E da tremare. Perché è un modello tendenziale. La diagnosi sulla crisi del capitalismo è decisiva. Se non la si individua, posto che vi sia, vaniloquiamo. Ora, una crisi di saturazione sarebbe concepibile se tutti in tutta la società, a non dire tutti in tutte le società fossero consumatori gonfi. Non è dal lato dei consumi pieni che vi è la crisi, ma dal lato del non poter consumare, fermo restando che in specifici settori la saturazione è normale. Allora, perché le economie occidentali si impoveriscono? Per aver speso oltre i mezzi , in ogni campo, sia dai privati, sia dagli enti pubblici, e, soprattutto, per la tendenza produttiva ad ottenere profitto cercando di eliminare lavoratori e costi sociali. A tal fine il capitalista ha oggi enormi possibilità. Investe i capitali dove costa meno il ciclo produttivo, importa mano d’opera sottopagandola, innova tecnologicamente, se può, sminuisce i gravami sociali del lavoro con forme di contrattazione meno onerosa. Il risultato dell’insieme è meno occupati da noi, anche se altrove possono crescere, e meno salario e garanzie da noi, anche se altrove possono aumentare, ma in ogni caso dove crescono lavoro e salari ciò avviene perché minimizzati. È il punto topico, se il lavoro viene meno pagato, trova occupazione, relativamente. Ma chi poco guadagna, poco consuma. Un profitto ottenuto contro l’occupazione e contro il salario invalida anche il produttore. È «questa» domanda , a seguito di una riduzione di salari e occupazione per avere profitto, che cade. Si dirà, ma possibile che i capitalisti siano tanto ciechi da voler ottenere il profitto contro salario ed occupazione? Ma è appunto in ciò la ragione della crisi insanabile del capitalismo. Noi dobbiamo ipotizzare che le innovazioni tecnologiche restringono il campo degli occupati e che nessun capitalista, se può produrre con cinque operai quanto produceva, prima dell’innovazione tecnologica, in generale, con otto, mantiene otto operai. Questa ipotesi va fatta perché è nei fatti, avviene. Che quanti non hanno lavoro o lo perdono siano ripresi in quanto si allarga la sfera dell’occupazione in altri settori, o Paesi, non rassicura sulla possibilità di una tendenza disoccupativa nelle «nostre» società. Cresce l’occupazione nei Paesi in sviluppo recente, decresce da noi. Ma, come non mi stanco di dire, dove cresce, cresce con il modello cinese: minimi salari, lavoratore incatenato. Quindi: disoccupazione e sottoccupazione in Paesi avanzati, occupazione minimizzata in Paesi emergenti, con variazioni. Questa la realtà. Possono, i Paesi sviluppati, risvilupparsi e assorbire la disoccupazione, rinverdendo la domanda? Ipotizziamo. Il pianeta dei Paesi emergenti potenzia la diffusione del benessere, di ceti che possono acquistare le nostre merci qualitativamente superiori. Il che espanderebbe la nostra base produttiva, riassorbendo la disoccupazione. Al presente, non è avvenuto questo risultato assai sperato, piuttosto

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siamo inondati di merci di tali Paesi in quanto meno costose. Avverrà quel che non è avvenuto? Certo, oggi, indirettamente, gli Stati Uniti sono «salvati» dai Cinesi con l’acquisto di buoni del tesoro americani, non, però, dall’acquisto di merci americane. Impossibile la certezza che i mercati asiatici, diciamo, diventino sfogo della produzione occidentale. Una tale soluzione resta problematica. Allora, favorire la domanda interna. Ma, a parte la saturazione, se il capitalista cerca il profitto sminuendo salari, protezione sociale, garanzie di continua occupazione, potenziando l’immissione tecnologica la domanda svilisce, se la domanda svilisce il capitalista ancora di più esigerà misure a suo favore contro tutto il resto della società, pur di avere profitto o, persino, accrescerlo, e con il capitalista l’intera fascia superiore della società che accetta la logica dei sacrifici, se consentono, estraendo dalla società medio bassa, ai ricchi di rimanere ricchi. Ma perché? Sarebbe facilissimo, tali ceti superiori economicamente non sacrificano porzioni della loro opulenza in modo che salari e protezioni sociali siano meglio tutelati? Perché una classe sociale dominante porta all’estremo il suo carattere distintivo, e se il carattere distintivo del capitalista è il profitto, anche se spoglia la società, la spoglia. Ma, lo accennavo, non si accorge che uccide il compratore? Se ne accorga o meno, oggi il capitalista occidentale deve competere con Paesi a bassissimo costo di lavoro, quindi cerca anch’egli di abbassarlo. Del resto, se con nuove tecnologie gli occorrono meno operai non è che per bontà ne mantiene come prima dell’innovazione; tenta, anzi, con meno lavoratori più impegnati di produrre maggiormente.

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In questo pantano, esiste un’illusione di sinistra, che ancora sia valida la richiesta di interventi a favore di salariati, garanzie per i giovani saltuari, per i pensionati... Ma se è sulla contrizione di costoro che il capitalismo può succhiare ulteriore possibilità di profitto! Non ci fosse lo spostamento estorsivo dai ceti medio bassi, dai giovani, dai pensionati ai ceti ricchi, racchiudendovi imprenditori, grandi burocrazie, banche, non avremmo le ricorrenti «manovre», le quali sono prese d’aria del capitalismo, in tutti i suoi aspetti, per ossigenarsi nella crisi della domanda e nella insufficienza di competitività. Interrogativo: ma se si togliesse enormemente ai ricchi e ricchissimi di quanto scemerebbe il debito pubblico e diminuirebbe la domanda? Di sicuro, se si prende ai ceti medio bassi o li si precarizza in svariate modalità la domanda scema. In ogni caso, illudersi che attenuato il debito pubblico avremmo a disposizione chi sa quale cifra per lo sviluppo e l’occupazione è illudersi. Insisto: lo sviluppo non genera necessariamente occupazione. In breve, qual è la vera crisi forse, dico forse invalicabile: che i ricchi si sottraggono vastamente al costo dello Stato sociale e alla riduzione del profitto, anzi cercano di addossare ai ceti medio bassi il costo dello Stato sociale e cercano il profitto con mezzi che infettano salari e garanzie. Sta accadendo quello che accadde alla Aristocrazia, per non pagare le tasse, crollò. Obiezione: ma se le imprese falliscono per carenza di profitto! Certo. Un profitto ottenuto nel modo detto ne fa «anche» fallire parte, come ho chiarito, per carenza della domanda, ma chi resta, gongola. Immaginiamo dei lavoratori che gestiscono l’impresa, ne scrive Alessio Marri, Il Manifesto del 28/12/2011, da Buenos Aires, segnalatomi da Claudio Tedeschi. L’impresa capitalista fallisce, invece di piagnucolare salari, casse integrazioni, indennizzi, operai con tanto di palle si prendono l’impresa, i modi si trovano, si buttano a capofitto, fanno del lavoro il capitale, otto, dieci ore al giorno, vaffanculo, la mentalità sindacale, crepi, si tratta di farsi imprenditori non stitici operai col misurino, se l’innovazione tecnologica espellerebbe il lavoratore, non sia espulso, accresca la produzione riequilibrando gli orari e i salari, se i costi sono alti mi abbasso il salario-profitto, mi sviscero pur di competere e salvare l’occupazione e lo faccio volentieri, non si tratta di illardare un padrone che magari piange miseria da riccone o davvero chiude perché quel profitto non gli basta, no, a me operaio imprenditore basta il profitto che salva l’occupazione. Sogni, vero? Fatti, fatti, fatti. Lo predico da millenni, l’unica rigenerazione eticoeconomica del capitalismo è l’impresa di lavoratori imprenditori finalizzata al profitto per l’occupazione. Mi dicono, l’uomo è egoista, se io sono più bravo voglio guadagnare in proprio. Si dice, i lavoratori non sono imprenditori. Rispondo, se non sono imprenditori, li assumano. In quanto a chi vuol guadagnare in proprio, faccia, resterà chi coopera. Mano mano questa mentalità dell’impresa di lavoratori «deve» affermarsi. Dal capitalista il lavoratore e i ceti medio bassi riceveranno soltanto calci e spietatezza, e qualche elemosina di ossa scorticate. Se le geremiadi sindacali cessassero e i sindacati si mentalizzassero a che i lavoratori imprenditorializzino se stessi, un’elettricità entusiasmante ci ravviverebbe. Ma se per anni dovremo vivere di «manovre» e proteste sindacali mi stabilisco sul Monte Athos, e crepino i capitalisti scotennatori e i lavoratori servi. Tanto per dire.

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LO SPORTELLO DELL’USURATO

Dalla truffa all’usura bancaria di ANTONELLA MORSELLO NEL 1985 nasce la Elettronica e Sistemi, ditta individuale di Claudio Orsini, specializzata nella produzione, vendita ed assistenza di personal computer nel mercato informatico locale del Trentino Alto Adige. Nel gennaio 1995, per fronteggiare i mutamenti del mercato ed ottimizzare il carico fiscale, la ditta individuale viene trasformata in accomandita semplice. Iniziata l’attività con l’assemblaggio di computer, la ditta si impone subito per l’eccellente rapporto qualità/prezzo dei prodotti. A partire dalla metà degli anni ‘90, le mutazioni del mercato, tra cui le grandi catene di informatica e la drastica riduzione dei margini operativi, portano la società a considerare nuovi mercati tra cui internet. Rossini è un lavoratore autonomo, si occupa di informatica ed ha sempre lavorato come professionista presso altre aziende. Stanco di percorrere in macchina dai 70 ai 100 mila km l’anno, pensa di aprire un negozio per vendita e assistenza di prodotti informatici. Ha una base di clientela acquisita negli anni, si guarda in giro, fa i suoi calcoli e si informa, compresa l’ipotesi del franchising. Tutto inizia nel 2007 quando, per la prima volta, Rossini contatta un’azienda di Pontedera, proprietaria del marchio Computer Discount, in quanto interessato a subentrare nella gestione di un loro affiliato. Per far questo occorre un capitale che la sua banca non è disposta a finanziare. La banca del precedente gestore, che lo ha finanziato per 2 milioni di euro per la ristrutturazione del suo albergo, offre a Rossini di intervenire nell’operazione. Ben disposto, Rossini incontra il direttore, prospettando di chiedere le opportune garanzie al consorzio Confidi. In mancanza di questo finanziamento, infatti, l’operazione sarebbe stata pura follia, data la non disponibilità di mezzi finanziari propri. L’istituto conferma che l’operazione è fattibile, con le opportune garanzie del consorzio Confidi; inoltre, viene informato che per dare corso all’operazione occorreva la cessione del negozio a suo nome. Rassicurato dal funzionario della banca, il nostro acconsente a fare il passaggio di proprietà a suo nome. Apre un conto corrente, basandosi sulla parola sia del direttore della banca che del proprietario del negozio. Dopo qualche settimana di silenzio si recava in banca per sapere a che punto era la pratica, ricevendo dal funzionario soltanto rassicurazioni. Dopo circa due mesi, Rossini firma i moduli per la richiesta delle garanzie a Confidi, provvedendo al pagamento della quota associativa; il mese successivo, Confidi gli comunica che la richiesta di garanzia è stata bocciata. Contemporaneamente, l’ex proprietario del negozio, con modi minacciosi, lo pressa per il pagamento dell’importo pattuito per la cessione. Il mancato finanziamento e la necessità di pagare la vendita creano a Rossini gravissime difficoltà finanziarie, alle quali cerca di fare fronte con le sole risorse personali a disposizione. Passati alcuni mesi, si rivolge nuovamente alla Confidi per verificare la possibilità di un aiuto. Scoprirà che la provincia ha emanato una legge a sostegno delle piccole imprese («Mutuo riassetto finanziario») che prevede l’erogazione di

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Addio vecchio libretto di risparmio Non vuol essere un revival di inizio anno, ma una dura realtà che merita qualche considerazione. Un tempo non lontano era buona consuetudine, tipicamente italiana, aprire un libretto di piccolo risparmio, così lo pubblicizzavano le banche, a beneficio di un figlio o di un nipote, od in occasione dell’arrivo di un nuovo nato in famiglia; pensando all’avvenire del beneficiario. Era un po’ come il regalo dell’orologio al giovanetto che si avvicinava alla Comunione per la prima volta. Ricordate? Ed era di solito compito oneroso del compare. Ne ho sottomano uno emesso nel giugno di due anni fa da Ubi-Banca Popolare di Bergamo. Non è propriamente un libretto, ma un contenitore poco agevole nella manovra manuale di un foglio piegato che riproduce le relative operazioni. Esternamente è accattivante con un disegno infantile ed una scritta centrale - da titolo - che dice «clubino», evidenziando graficamente la sigla della banca Ubi al centro della denominazione che indica anche un piccolo club (Clubino); poi, sotto il disegno, la dicitura «libretto di risparmio». Nella seconda anta del pieghevole di cartoncino, aperta a sinistra, la filosofia del risparmio in massima sintesi: «conserva il tuo libretto in un luogo sicuro e portaro con te ogni volta che desideri effettuare un versamento»; a destra è ripetuto lo slogan «clubino, il mondo dei giovani risparmiatori». Tutto ciò - strumento materiale del piccolo risparmio e filosofia dello stesso, applicata ai giovanissimi, ancor prima di acquisire facoltà di intendere e volere, e materia di insegnamento morale, è stato gettato alle ortiche, travolto dallo tsunami del professor Mario Monti, bandito persino dalla nostra società che vanta tradizioni popolari non indifferenti e che al risparmio ha sempre fatto particolare attenzione, diffondendone i princìpi persino con i francobolli da lettera ed istituendo particolari «giornate» di celebrazione ad uso divulgativo scolastico. Pretesto del provvedimento la caccia alla strega più subdola dell’evasione fiscale, perché, a quanto sostengono i professori, gli incalliti evasori avrebbero fatto ricorso anche al modesto, vecchio libretto di piccolo risparmio per nascondere economie e profitti, a volte illeciti. Incenerito il micro-risparmio della saggia generosità di tanti padri e di tanti nonni della migliore tradizione borghese e contadina italiana, il governo degli esperti ha colpito con la mannaia ogni settore della vita pubblica (almeno 50 i provvedimenti che prevedono nuove gabelle, ma non è ancora finita ); è andato con mano leggera sui patrimoni «scudati»; ha ignorato i megarisparmi (chiamiamoli così) dei soliti noti; ha seminato il panico a Cortina durante le feste, ma non guarda agli sperperi del mondo degli spettacoli (non soltanto Rai) e dello sport; tergiversa sui compensi dei parlamentari e consente ancora i doppi e tripli incarichi; ha lasciato in vita le Province e tanti enti inutili dai tempi di Ugo La Malfa; ha fatto il solletico ai proprietari di barche e ha evitato il varo di provvedimenti, veri ed intransigenti, contro gli sperperi della pubblica amministrazione. Ma, in compenso, ha cancellato il piccolo risparmio. Complimenti professori! FELICE BORSATO

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un mutuo a condizioni molto agevolate da parte di alcune banche convenzionate, con garanzia della Confidi fino al 50 per cento ed una restituzione fino a 2,5 punti di interessi da parte della provincia fino ad un minimo di tasso pari a 0. Per cui, gli viene suggerito di usufruire delle possibilità offerte dalla legge. Nel corso dell’incontro in Confidi, ha modo di parlare con il funzionario che aveva seguito la sua pratica e chiede il perché non gli fu concessa la garanzia in occasione dell’acquisto del negozio. La risposta fu: «Sul negozio oggetto della cessione il proprietario aveva garanzie attive con noi. Per poter concedere le garanzie a lei signor Rossini si dovevano smobilizzare quelle del precedente proprietario. Cosa che non ha fatto. La Confidi non fornisce due garanzie per la stessa attività. Bancariamente non è corretto». A questo punto il Rossini si chiese come mai il direttore della banca non ne era a conoscenza e perché, pur avendo a disposizione tutti i documenti, aveva aspettato due mesi per presentare la domanda in Confidi. L’istituto, inoltre, è la banca ufficiale della Confidi, possibile che non abbiano discusso prima di questa situazione? Probabilmente il proprietario del negozio doveva liberarsi del negozio per alleggerire le sue difficoltà economiche. Intanto, l’apertura del conto corrente, come richiesto dal funzionario scorretto, e l’emissione di vari assegni, in seguito protestati, ha provocato il superamento dei tassi soglia per tutta la durata del finanziamento rilevati ai sensi della L. 108/1996, tenendo conto di commissioni, remunerazioni e spese, comprese imposte e tasse, collegate sin dall’apertura del conto corrente. Le difficoltà finanziarie e la non volontà della banca a seguire la sua posizione, portano a compromettere in forma grave sia l’immagine professionale del Rossini sia la sua dignità di persona. Qualcuno risponderà di questo? Forse il funzionario colluso? Forse l’ex proprietario già d’accordo con il funzionario colluso? No: le conseguenze morali, economiche e umane saranno solamente a carico di Claudio Rossini. Perché avvengono queste cose e perché dobbiamo continuare a scriverne? Perché non si riesce a porre un freno alla onnipotenza delle banche, del loro decidere della vita umana e professionale dei cittadini? La risposta sta nel fatto che il potere delle lobbies e della finanza, che controlla il Paese, è nelle mani delle banche. Quello stesso potere finanziario che ha portato alla nascita del governo Monti; che attraverso due «invenzioni» come Basilea 2 e 3, seleziona sulla base di criteri irreali quelle industrie che devono sopravvivere e porta alla liquidazione le altre, per poterle comprare a prezzi stracciati. Occorre che la politica, quella seria e gestita da quei pochi (uomini e donne) ancora in grado di farlo, contrastino il sistema bancario, con la legge e per la legge, cercando in tutte le maniere di farlo collassare. Provocatoriamente, Cantonà disse: «Togliamo tutti insieme in un solo giorno tutti i nostri risparmi e vedrete che il sistema bancario imploderà, e a quel punto sarà il popolo direttamente a porre le condizioni alle banche e non viceversa come succede adesso». La provocazione non ebbe successo, perché i mass media seppero pilotare una controinformazione. Se riuscissimo a spezzare questa spirale perversa, persone come Claudio Rossini riavrebbero la loro dignità umana e professionale, riavrebbero la loro vita. Potremmo evitare le decine di morti bianche, che ogni giorno avvengono in silenzio nella nostra Italia, da parte di tutti quegli imprenditori che si suicidano a causa delle banche, che decidono la loro vita e purtroppo anche la loro morte.

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FOTOGRAFIE del BORGHESE

PER LUI, MONTI È COME UN «FRATELLO» - RESTA DA STABILIRE CHI È LA MAMMA (Nella fotografia, Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, dal sito http://esoterismografico.blogspot.com)

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«EQUITALIA» SUCCHIA LIQUIDITÀ DALLE TASCHE DEI CITTADINI . . . (Nella fotografia, Attilio Befera, Direttore dell’Agenzia delle Entrate)

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. . . PER DARLA IN PASTO AL GOVERNO DELLE BANCHE (Nella fotografia, Mario Monti, Ministro «ad interim» delle Finanze)

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UNGHERIA - IL NEMICO DI IERI: IL COMUNISMO (Nella fotografia, la copertina della «Domenica del Corriere» dal sito www.clubdomenica.it)

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UNGHERIA - IL NEMICO DI OGGI: IL CAPITALISMO (Nella fotografia, Viktor Orban, «premier» ungherese, dal sito www.elpais.com)

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LA LEGA MILITANTE HA FINITO IL CONTANTE (Nella fotografia, una militante leghista al raduno di Pontida dell’anno scorso)

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PERCIÒ LA PADANIA SE NE È ANDATA IN TANZANIA (Nella fotografia, Francesco Belsito, tesoriere della Lega)

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MENTRE IL PAESE AFFONDA SUGLI SCOGLI DELLA CRISI . . . (Nella fotografia, in alto la «Costa Concordia» rovesciata, dal sito www.ilcentro.gelocal.it; in basso, i passeggeri stravolti vengono soccorsi, dal sito www.lrytas.lt)

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. . . .LORO SE LA SPASSANO SULLE SPIAGGE DEI RICCHI (Nelle fotografie, sopra, Francesco Rutelli e moglie, dal sito i-nurse.it; Gianfranco Fini, dal sito visnoviz.org; sotto, Renato Schifani e Ferdinando Casini, dal sito oggi.it)

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LA LEGA SI È ROTTA I «MARONI» . . . (Nella fotografia, Roberto Maroni)

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. . .PERCHÉ IL CAPO È SORDO AL RICHIAMO DELLA BASE (Nella fotografia, Umberto Bossi)

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IL MALINCONICO VIALE DEL TRAMONTO DEL GOVERNO MONTI (Nella fotografia, Carlo Malinconico)

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IL MEGLIO DEL BORGHESE

Le vecchie zie non ci salveranno di ALBERTO GIOVANNINI I NOSTRI vecchi, e soprattutto le vecchie zie ci giudicavano «a peso»: come il maiale da «mettere» in autunno e come i capponi natalizi. Io ebbi una zia che, operata di cataratta dopo dieci anni di quasi completa cecità, si meravigliò moltissimo di rivedermi «tanto cresciuto», ma, in segreto, espresse ai parenti le proprie preoccupazioni e i propri neri oroscopi sulla mia «spaventosa magrezza» a causa della quale ben difficilmente mi sarei potuto salvare dalla tubercolosi. E fu questo probabilmente che la indusse per anni ad elargire offerte sproporzionate alla «doppia croce»: essa era intimamente convinta che, in definitiva, quei soldi non sarebbero andati a fondo perduto, perché, prima o poi, si sarebbero in parte riversati sul più magro dei suoi familiari il quale, lungi dal seguire i consigli di quanti lo esortavano a cure ricostituenti per adornare le ossa di un po’ di grasso, si spompava sui campi di gioco nel duro compito di «mezz’ala metodista» (un mestiere che, già di per se stesso, «faceva sputare i polmoni»). Purtroppo la povera zia non ebbe il tempo di constatare il pratico fallimento della speculazione caritativa intrapresa per amor mio perché un colpo apoplettico la sollevò dalla sua terrena missione di Cassandra del bacillo di Koch, per avviarla al godimento delle meritate gioie celesti. Essa, però, è rimasta nella mia memoria viva come allora; ed ora rimpiango la sua dipartita e il fatto che essa visse in tempi non maturi, costretta a esercitare nei miei confronti influssi amorosamente jettatori, anziché procurarmi benefici e vantaggi d’ordine materiale e morale. Penso, infatti, che se la povera zia Carlotta fosse vissuto in questo periodo, per i suoi saldi rapporti con la chiesa parrocchiale e per i suoi sani concetti sull’ingrassamento, avrebbe potuto aspirare alle alte gerarchie nella democrazia cristiana, con tutte le positive conseguenze che tali situazioni possono avere per parenti e affini. Il massimo partito italiano, e non da oggi, mi sembra diretto da vecchie zie che godono intimamente nel vederlo ingrassare in modo sproporzionato, e traggono da questa crescente floridezza oroscopi positivi per l’avvenire. Nei giorni scorsi ebbi un lungo colloquio con un amico deputato democristiano che, gravitando nell’orbita del Quirinale non può essere che «di sinistra», il quale mi dimostrava come è attualmente il suo partito, attraverso la fagocitazione progressiva dei voti della destra, sta diventando esso stesso partito di destra. Un fenomeno del genere avrebbe dovuto indignare un uomo votato agli slanci sociali e alla realizzazione di un riformismo rivoluzionario, sia pure temperata dalla sociologia cattolica; tuttavia il mio interlocutore si mostrava soddisfatto. Dal suo ragionamento ho potuto comprendere che anche l’involuzione democristiana, che dovrebbe portare il partito di maggioranza da «centro che si muove verso sinistra», come diceva De Gasperi, a grosso partito di centro-destra rientra in un piano machiavellico inteso a sgomberare la vita politica italiana dal «vecchio», per restringere la lotta alle «forme

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nuove». Come i radicali, i libertari, i vecchi massoni e i liberi pensatori si vanno sempre più inserendo, in odio alla Chiesa, nell’orbita delle chiese e della dogmatica marxista; così nazionalisti, «fascisti», conservatori, liberali «salandrini» debbono inserirsi, in odio al marxismo, nell’orbita del partito cattolico. A ciascuno i suoi utili idioti. L’essenziale è fare piazza pulita non tanto dei vecchi partiti che, come tali, più non esistono, ma della vecchia morale risorgimentale: dallo Stato nazionale allo Stato laico. È in questo senso i partiti «di massa» chiedono di essere liberi «di lavorare». Nel prossimo mese si voterà in molti paesi e moltissime cittadine superiori ai 10.000 abitanti. Continueranno cioè le elezioni sperimentali, indette non tanto per dare ai comuni gli amministratori democratici (che, dopotutto, un regime commissariale «fa sempre bene») quanto per fissare, attraverso ricorrenti prove generali, quella che dovrà essere la tattica dei partiti nelle elezioni politiche dell’anno prossimo. Ma, in definitiva, si tratta di un eccesso di prudenza, poiché ormai la situazione si va delineando con chiarezza: ai vantaggi del Partito comunista si contrapporranno i vantaggi della Democrazia cristiana, e questa e quello continueranno ad essere protagonisti della lotta politica in Italia. Al periodo delle «vacche magre», nella scala delle «piaghe» d’Italia, corrisponde e più ancora corrisponderà un periodo di «partiti grassi», grassi e non forti, destinati a formare un’Italia a loro immagine e somiglianza: obesa, linfatica, adenoidea, senza slancio senza forza, senza ideali e senza volto. Un’Italia che per amor di pace, per pigrizia, per lo scetticismo proprio degli obesi, si avvia al più squallido dei listini. In questa lotta tra finti rivoluzionari affinché i conservatori, la «santa fede» sta rifacendo capolino, con i suoi eterni cardinali Ruffo, con i suoi «lazzari» equamente divisi tra laici radicali. Si dice che il progressivo aumento dei suffragi attorno alla Democrazia Cristiana sia una garanzia nei confronti del comunismo che, a sua volta, avanza. Quello, appunto, che tutti credevano il 18 aprile 1948, ma che, purtroppo, successivamente si dimostrò errato. Allora il partito cattolico ebbe la maggioranza assoluta, o quasi, e con questa l’occasione storica di annientare definitivamente il bolscevismo, di rinnovare lo Stato in senso interclassista come dottrinariamente va postulando. Però non fece niente di tutto ciò, e ci ritrovammo nel 1953 con i socialcomunisti in pericoloso aumento, con tutte le leggi «protettive», a cominciare da quella sindacale, insabbiate. L’unico atto di politica interna donatoci dalla Democrazia Cristiana in quei cinque anni fu la «legge Scelba» intesa a fronteggiare il «pericolo» rappresentato dai cinque deputati del Msi alla Camera. Oggi, in effetti, anche l’interclassismo è stato praticamente abbandonato il grosso corpo democristiano, come si va manifestando attraverso i risultati elettorali, è costretto a scegliere: o diventare un grosso partito conservatore di destra, come propugna ed afferma il deputato amico che gravita nell’orbita del Quirinale, lasciando ai «socialisti» che ipoteticamente dovrebbero affrancarsi dai comunisti la funzione sociale; oppure continuare ad essere un enorme polpettone socialistoide (sul tipo del governo Segni) destinata a realizzare, con i voti della destra, quello che le sinistre chiedono e impongono. Non vale nemmeno la pena chiedersi che cosa, questi due fenomeni potranno suscitare politicamente e socialmente, in quanto è sufficiente stabilire, lo si può fare con certezza, quello che determineranno moralmente. Una Democrazia

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IL MEGLIO DEL BORGHESE Cristiana ancorata a destra, su posizioni conservatrici, darebbe nuovamente adito allo scatenarsi di una campagna anticlericale di «tipo Scalarini» con prelati cicciuti e pescecaneschi che si nutrono a spese di un popolo sempre più magro. Una Democrazia Cristiana scatenata sinistre in combutta con i socialisti e pungolata dalle parti molli dei comunisti, vedrebbe i nostri bravi curati trasformarsi in «preti operai», e trasformerebbe la sagrestia in una specie di camera del lavoro, il pulpito in una tribuna comiziale e, quindi, la Chiesa in una fucina rivoluzionaria e classista. L’anticlericalismo che i «radicali» vorrebbero resuscitare nelle antiche forme della «legge delle Guarentigie», non è più di moda. È troppo razionale, cerebrale, filosofico per attecchire oggi. Ma alle porte della Democrazia Cristiana, che sono poi le porte delle sacrestie e delle mense vescovili, attende un altro tipo di anticlericalismo ben più pericoloso, immediato diffuso: quello delle «classi» che, per un verso o per l’altro, si vedrebbero condannate da una particolare politica democristiana. Ancora oggi gli «amici del mondo», quando sono sotto la guida di preti sprecati, organizzano «convegni culturali» su Chiesa e Stato per dare corpo, consistenza e giustificazione al neo-anticlericalismo, fanno ridere, si manifestano per quello che sono: fantasmi di un’epoca superata. Però, domani, non sarà così: l’anticlericalismo non è più legato alla intellighenzia laica, bensì alla politica della Democrazia Cristiana. Ed è inutile tentare di dissociare la Chiesa dal Partito cattolico, perché, fino a prova contraria, sono ormai i vescovi e parroci che al momento opportuno dal pulpito e dal confessionale, «fanno le elezioni» per la Democrazia Cristiana. Per questo il progressivo «ingrassamento» della Dc mediante voti spuri, raccogliticci, lungi dal rassicurarci ci spaventa, molto di più di quanto non ci spaventerebbe una avanzata comunista senza contropartita in campo cattolico. In questo caso, infatti, il Paese reagirebbe, sia pure in senso negativo, sotto la frusta della paura; mentre la relativa tranquillità che i vantaggi dello «scudo crociato» portano nella coscienza civica di questa tigre Italia rischia di trascinarci indifesi, moralmente e spiritualmente, sull’orlo della catastrofe. Rischia cioè di ricondurci al clima del 1945-’47, ma con la Chiesa non più in condizione di esercitare sulle coscienze dei cittadini, il polo di attrazione verso un partito d’ordine, d’equilibrio, di pacificazione interna. Quando non avremo più patria, non avremo più diari nazionali e la stessa religione sarà diventata il paravento di una classe sociale, non importa quale, come potremo superare una nuova crisi? Questo il problema angoscioso che si pone proprio nel momento in cui le cifre elettorali, abilmente presentatici, dovrebbero toglierci ogni preoccupazione. Quando vedo questa Democrazia Cristiana che si gonfia, che ingrassa e inflaccidisce penso con terrore che essa stia diventando, quello che zia Carlotta voleva diventassi io, prima che il Signore misericordioso la richiamasse a Se. E mi rendo purtroppo conto, caro Longanesi, che non soltanto le «vecchie zie non ci salveranno», ma che proprio esse, trasformatesi in classe dirigente, ingrassandosi e ingrassandoci spiritualmente con i milioni del totocalcio, i milioni della televisione, i milioni della lotteria di Legnano, e milioni e milioni di voti, ci stanno perdendo. Stiamo diventando ormai un popolo di zitelle e pinzochere, che ama essere rappresentato da un partito «grasso» e adenoideo: quello appunto che i comunisti vogliono perché dopo «toccherà a loro» il compito di farci «dimagrire». (il Borghese, 26 Aprile 1957)

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Lettera ad un ragazzo del Msi di GUGLIELMO PEIRCE CARO Fabrizio, tuo padre mi aveva detto che nei giorni scorsi, manifestando in piazza Venezia con gli altri studenti romani contro la Russia, avevi ricevuto una manganellata dalla «Celere». Una brutta manganellata alla milza. Quando ti ho visto domenica mattina ti ho guardato, credimi, con un po' d'apprensione. Mi attendevo di vederti per lo meno pallido. Avevi, invece, una buona cera e questo mi ha rassicurato. Mi sono accorto anche, domenica, per la prima volta, che portavi i pantaloni lunghi. Indossavi un bell'abito «principe di Galles». Biondo, alto, colorito in volto come sei, sembravi un ragazzo inglese. Un ragazzo inglese-napoletano. Tuo padre mi ha detto che tu portavi su quel bel «principe di Galles» (addirittura splendente nella luce di questo autunno romano inondato di sole) un distintivo del tuo partito sul cui retro c'è inciso una frase di Corridoni. Siamo entrati in un bar e tuo padre ha voluto che appuntassi quella frase su un taccuinetto che porto sempre con me. Eccola: «Noi siamo i venduti all'Italia». Ti debbo dire tante cose, Fabrizio, e non so se ci riuscirò. Tuo padre ed io ci conoscemmo tanti anni fa a Napoli in un caffè. Precisamente da Van Bol e Feste. In quel caffè nel '22, credo, un giovane squadrista napoletano, di nome Castellano, per scommessa, senza motivo alcuno, si sparò un colpo di pistola in bocca e morì. Volle mostrare (forse ad una cocotte presente in quel momento nel caffè) come un uomo può morire. Morire, così, per niente. Per fare solo un gesto. Un gesto di coraggio. Quella era l'epoca in cui la gioventù italiana diceva che «bisognava buttare il cuore oltre l'ostacolo». Dunque, tuo padre ed io ci conoscemmo in quel caffè. Ricordo tuo padre nella divisa di milite universitario. Il segretario federale di quell'epoca a Napoli era una specie di trombone con una enorme pancia. Quando se ne andò, ne venne un altro, più giovane, magro, senza pancia, che sposò una ricchissima signorina napoletana, figlia credo di un industriale. Tuo padre era contro quei segretari federali, quelle pance, quei milioni. Perciò andavamo d'accordo. La divisa di milite universitario che portava era di panno grezzo grigio-verde. Non la volle mai cambiare. Tuo padre era fascista. Sul mio conto invece alla Questura centrale esisteva un fascicolo alto così. Perché non ero fascista; anzi, ero comunista. Tuo padre apparteneva ad una buona famiglia, mentre io ero un povero morto di fame. La mia famiglia non esisteva più, si era sfasciata. Stavo mischiato in mezzo ad una combriccola di vecchi squadristi i quali, come me, odiavano Starace ed i segretari federali con le pance. Stampavano un giornalino che poi Starace fece sopprimere. Mi davano venti lire alla settimana. Poi tuo padre ed io ci perdemmo di vista. Un giorno tuo padre attraversò l'Europa intera per andare ad arruolarsi in Spagna nell'esercito italiano. Percorse tutta la Spagna a piedi, palmo a palmo, combattendo. Un'altra volta fece di corsa tutto il Rettifilo (sotto gli occhi di tua madre, allora ancora signorina, che affacciata ad un balcone piangeva e buttava fiori)

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vestito da bersagliere, dietro alla fanfara del suo reggimento che andava in guerra. Andò, infatti, a combattere in Albania. Dopo la Spagna, dopo l'Albania (tuo padre ebbe nelle due guerre delle medaglie al valore, ma non porta i nastrini sulla giacca) tu venisti al mondo. Quando l'Armata Rossa assediò Budapest tu eri già nato. Eri alto quanto un soldo di cacio. Eravate lì. Tuo padre uscì spesso sotto le cannonate e le bombe russe per le strade di Budapest per racimolare un po' di latte e un po' di farina per te e qualche fagiolo o qualche cece per tua madre e per lui. Viveste per mesi rintanati in una cantina senza luce, senza acqua, senza pane, al freddo, dormendo per terra. Quando l'Esercito Rosso entrò a Budapest, la porta di quella cantina fu sfondata con i calci dei fucili dei chirghisi, dei mongoli, dei russi (i quali russi, come sai -, sono pari sia ai chirghisi che ai mongoli). Una sera, si spalancò quella porta ed entrarono nella cantina due russi armati di fucili mitragliatori. Erano scesi da una macchina. Pioveva. Buttavano avanti a spintoni tre donne che piangevano. Le tre donne erano avvolte in povere pellicce infangate e strappate. (Una di loro zoppicava: non aveva una scarpa: forse nel tentativo di fuga l'aveva perduta.) Quelle donne appena videro tua madre e le altre donne rifugiate in quella cantina gridarono in francese: «Salvatevi almeno voi». Tu allora eri un bimbo e tuo padre ti teneva stretto fra le ginocchia. Con i vostri due corpi nascondeste tua madre che si fece piccola piccola dietro di voi e riuscì a non farsi vedere da quei russi, i quali, ubriachi, vedevano poco. Tu oggi sei quasi un uomo ed avrai certamente capito cosa erano entrati a fare quei russi in quella vostra cantina. Con delle lenzuola tuo padre ed un vecchio che era lì con lui stesero davanti ai letti una labile tenda. E voi tutti vi metteste ad attendere. Si udivano i gemiti, i singhiozzi di quelle donne, lo scricchiolio delle brande, il rumore dei gambali di cuoio dei russi che urtavano contro i ferri dei letti. Ma tu non capisti nulla. Eri un bambino che in quel momento stava avvinghiato alle ginocchia di suo padre. Forse ricorderai solo la stella rossa che quei soldati portavano sul berretto di panno. (A quell'epoca Stalin, alludendo all'Esercito Rosso che avanzava, disse cinicamente ai capi comunisti ungheresi: «Certo, non vi aspettate che vi mandi delle ballerine».) Quando i russi se ne andarono trascinandosi dietro quelle donne discinte, più in lagrime che mai, tuo padre ed un vecchio che stava con voi in quella cantina sistemarono, come poterono, i letti. Occultarono le macchie e stesero le coperte accartocciate. Non vollero far vedere alle donne, a tua madre, quello spettacolo. Giorni fa, mi ha detto tuo padre, tu hai girato, timido ed indeciso, intorno alle auto della Croce Rossa ferme in piazza dell'Esedra. Erano le auto che raccoglievano sangue per l'Ungheria. Hai girato un po' intorno ad esse come quel giorno nella cantina di Budapest girasti intorno a quei letti sporchi e disfatti. Poi sei entrato. Ma i medici non ti hanno voluto prelevare il sangue perché, hanno detto, sei ancora troppo giovane. Poi sei andato in piazza Venezia dove hai ricevuto la manganellata. Ecco: ti voglio dire questo, caro Fabrizio. È commovente, questo vostro slancio, questo vostro animo. Sono belle le bandiere che portate con voi. Ma sapete con quale scusa i russi hanno schiacciato nei giorni scorsi i rivoltosi ungheresi? Hanno massacrato quegli eroici ragazzi e ragazze combattenti per la libertà? Affermando che erano dei fascisti. Dicendo che quei ragazzi combattevano all'ombra delle bandiere delle vecchie formazioni di Horthy; dietro alle bandiere delle «croci frecciate»; dietro alle bandiere del Njlasz. Dicendo che

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quei ragazzi andavano all'assalto dei loro carri armati cantando le vecchie canzoni delle formazioni fasciste ungheresi. Non so se ciò sia vero. So però questo: nei giorni scorsi voi portaste in Piazza Venezia dei cartelloni con sopra scritto la vecchia frase di Mussolini. «O Roma o Mosca». So che avevate con voi dei gagliardetti neri fascisti; so che andaste a cantare Giovinezza sotto la sede de l'Unità in via IV Novembre. Credi che tutto ciò fosse necessario? Credi che tutto ciò fosse indispensabile? Lo sai tutto ciò che cosa ha fatto scrivere a Togliatti su l'Unità e che cosa ha fatto dire a Pajetta a Montecitorio? Che noi tutti, masse di milioni di uomini che avversiamo l'Urss, siamo dei poveri relitti fascisti; siamo dei «nostalgici». Ed invece non è vero. Ma ai comunisti fa comodo affermare e sostenere questo. E perché fa comodo dire questo? Perché essi rendono in tal modo impopolare la nostra azione. E perché la rendono impopolare? Perché, c'è poco da dire, molte persone si trovarono male sotto al fascismo; ci stettero a disagio. Ed i vostri gagliardetti neri, la vostra Giovinezza cantata a squarciagola sul marciapiede davanti alla sede del giornale comunista, rendono possibile a Togliatti di cambiare le carte in tavola. Questo è un brutto affare, Fabrizio. Già nel passato i comunisti hanno fatto una manovra del genere. E fruttò loro molto bene. Fruttò nientedimeno la vittoria della seconda guerra. mondiale. Questa manovra i comunisti la incominciarono a fare dal '36, quando riuscirono a creare contro il fascismo lo schieramento che andò dai liberali fino a loro. Naturalmente oggi non siamo nel '36; oggi non c'è Hitler; oggi non c'è Mussolini. Ma quando voi cantate Giovinezza per le strade e sbandierate gagliardetti neri la gente si spaventa maledettamente. Rialzare certe bandiere sconfitte, credimi, Fabrizio, non è stato mai un affare per nessuno. Intendiamoci bene, caro Fabrizio: contro i comunisti si può schierare chiunque. Hanno perciò valore e peso anche le vecchie bandiere del Njlasz; anche le «croci frecciate»; anche i vostri gagliardetti; anche il vostro canto Giovinezza. Tutto questo contro, i comunisti è perfettamente legittimo. Ma ad una condizione: a condizione che tutto ciò venga poi contenuto ed annullato nel grande movimento per la libertà. A condizione che tutto ciò non si veda perché coperto dalla bandiera tricolore. Solo a questa condizione. Altrimenti diventa un peso morto e diventa un motivo di sconfitta della libertà. Diventa pesante come il piombo. Come il piombo dei plotoni di esecuzione comunisti. Ti prego, Fabrizio, rifletti su questo poco che sono riuscito a dirti. Ti abbraccio con tenerezza. (il Borghese, 16 Novembre 1956)

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Due decenni 1922/32-1946/56 di RAFFAELE MASTRO SI DICE che i confronti siano sempre antipatici. Non è il caso di insistere troppo su questo vecchio adagio, a proposito dei due decenni, il primo del regime fascista e il primo di questo corrente, perché il confronto si può fare con molta difficoltà e solo in termini approssimativi e generici. Del resto, il primo «decennale» venne «celebrato» con estrema solennità, con sfoggio di orgoglio e sbandieramento di fierezza; il secondo, cioè il 1956, è passato generalmente inosservato, con commenti, tutt'altro che celebrativi, sussurrati in un clima di profonda tristezza. È vero che l'odio delle celebrazioni e il disprezzo delle date è un modo di essere antifascisti. Un modo del tutto particolare, che ha fatto trascorrere nel più cupo silenzio il 1948, che pure era il centenario del miglior sangue versato dagli Italiani; nella più gelida noncuranza il centesimo anniversario della Repubblica Romana, che pure è avvolta in stupendi colori romantici; nel più freddo disprezzo i cento anni della Guerra di. Crimea e della Seconda Guerra di Indipendenza, i cento anni dalla morte di Carlo Pisacane e i centocinquanta dalla nascita di Giuseppe Garibaldi. Silenzio, noncuranza, disprezzo? Forse è meglio dire ignoranza: più che della mente, ignoranza del cuore. Sì, certo! La noia delle celebrazioni, la ripugnanza per i brutti monumenti, l'orrore dei discorsi commemorativi, il fastidio dei cortei possono durare parecchie generazioni, ed è un gran fatto positivo. Nessun Ministro di questo regime, che diremo «democratico» in forma del tutto provvisoria, ha il cilindro nel suo guardaroba. Ma è forse detto che non vi siano altre celebrazioni, se non quelle di stile fascista? Come dei defunti si dice, con frase consumata e voltata in ridere, «non fiori, ma opere di bene», di certi fatti storici di un secolo fa, di certi uomini di cent'anni fa, si potrebbe dire con frase molto seria: «Non celebrazioni, ma studi». Nel 1899, correndo il centenario della rivoluzione napoletana e della Repubblica Partenopea, un gruppo di studiosi napoletani, tutti giovani, pubblicò un Albo Storico della Rivoluzione Napoletana del 1799, che era una storia iconografica fatta di documenti rigorosamente scelti e criticamente commentati. L'approssimarsi di quel centenario aveva determinato un grande rifiorire di ricerche particolari e di trattazioni generali. Del resto, i promotori di queste degnissime celebrazioni erano i titolari di storia delle Università, che assegnavano ai giovani migliori degli opportuni temi per le tesi di laurea. In definitiva, si tratta dei «nostri» morti. Morti non della mia o della tua particolare famiglia, ma di noi tutti Italiani, senza distinzione di parte, di corrente, di fazione, di fede. Se essere «italiano» significa ancora qualcosa, se significa, senza cadere nel patriottico o ricadere nel patriottardo, qualcosa che ci unisce e ci fa essere diversi dagli altri, dai Francesi, o dai Tedeschi, o dagli Spagnoli, certi morti appartengono a tutti. Dovrebbero, almeno, appartenere a tutti, quei personaggi che hanno creduto, since-

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ramente creduto nell'Italia e che hanno combattuto per farla libera, unita e possibilmente grande tra le altre Nazioni; quegli uomini che sono morti consapevolmente per l'Italia, che giocavano con un solo mazzo di carte, e sono morti per la Patria, non in un incidente del doppio gioco. Questo regime celebra poco, pochissimo, o non celebra affatto. Si direbbe che non abbia morti. Non aver morti è come dire di non aver padri. Un regime figlio di nessuno? Poveretto. La legge che, istituisce la paternità fittizia non è ancora entrata in vigore, per mancanza di regolamento. Soprattutto non appartengono a questo regime i morti del Risorgimento. Tutto il Risorgimento è estraneo a questo regime: non che lo respinga, non che verso di esso si levi in polemica astiosa. Lo ignora, gli è indifferente, non lo sente. Del resto, quale regime? Noi abbiamo detto, più sopra, «democratico» in modo del tutto provvisorio. Quello precedente si chiamava «fascista» : era un carattere, uno stile, qualcosa di concreto. Tralasciamo le lodi e i vituperi. Era quello che era, in senso negativo e in senso positivo, col suo bene e il suo male, col suo bello e il suo brutto, come tutte le cose viventi, tutte le cose che sono: perché nessuna cosa vivente è tutta buona o tutta cattiva; ce lo ha insegnato Croce. Poteva essere, il regime fascista, (e, probabilmente, ci avviciniamo al segno), la estrema conseguenza, l'ultima esasperazione di tutto quello che era stato prima, la reductio ad absurdum del Risorgimento. Forse l’androterio del Risorgimento. Ma questo, che dovrebbe contrapporsi a quello? Che cosa avrebbe dovuto celebrare, nel 1956? La Costituzione? Dio ce ne guardi! Meno se ne parla e meglio è. Sta chiusa in un armadio, la Costituzione. Basta avvicinarsi, per sentire il puzzo. Non si sa bene se sia un aborto, un nato morto o un fantolino strozzato nella culla. Insomma, ne parla solo chi vuoi dare deliberatamente scandalo. Si sarebbe, forse, potuto celebrare il decennale della Repubblica. Quale «Repubblica»?, si sarebbe levato a domandare con vindice voce il vecchio Giovanni Conti, additando lo Stato di diritto, che incede processionalmente, inquadrato dai porporati di fatto. O forse il decennale della «democrazia»? Ma le opposizioni di destra e di sinistra si sarebbero sganasciate dalle risa, si sarebbero date manate sulle cosce. Tutto cambia, tutto ruota in Italia, tutto è satellite! Solo la polizia è fissa, solo la polizia è immobile. Questo è il senso della «democrazia», nata in Italia nel 1861 da uno schema di regime di polizia importato dalla Francia dell'ultimo Napoleone III. I prefetti, i questori e la gendarmeria sono le mutande sporche che il figlio d'Ortensia indossava sotto la finanziera di taglio impeccabile profumata di violetta. Ma si sarebbe potuto, almeno, celebrare l'avvento del clericalismo, la vendetta del Settanta mangiata fredda. Ssss! Certe cose si fanno, ma non si dicono. Ut scandala eveniant! In fondo c'era da celebrare il decennale della vittoria «antifascista». Quale antifascismo? Quello dei «camerati» e dei «compagni» divenuti, come dire?, «amici», «collaboratori»? Ci dispiace. Non c'è altro termine disponibile, se non quello corrente: «commensali». Ecco, in conclusione, la differenza. Il primo decennale era del regime «fascista». Il secondo, 1946-1956, è solo il decennale di un regime, così, tout court, senza aggettivi. Un regime dietetico? Qualcosa, sì, lo unisce e lo cementa: la tavola. (il Borghese, 16 Agosto 1957)

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Febbraio 2012

E SE USCISSIMO DALL’EURO?

I TRE porcellini di ENEA FRANZA DI FRONTE alla catastrofe delle economie del vecchio continente che si profila ogni giorno con maggior chiarezza, un’idea comincia a circolare nelle menti della gente, prima ancora che in quella dei politici; perché non uscire subito dall’Euro, prima che inutili manovre improntate al principio del «lacrime e sangue», impoveriscano i nostri Paesi? I dubbi che si affacciano alla mente dei più sono, tuttavia, tanti. Che cosa potrebbe accadere? Bene un caso, storico di riferimento c’è, e forse potrebbe sollevare il morale dei catastrofisti per professione. Il caso, peraltro, è tutto europeo: l’uscita della sterlina non dall’euro (che non allora non c’era), ma dal «serpente monetario europeo», il sistema di cambi fissi precedenti. Quel precedente storico mostra che la sterlina si svalutò entro un mese del 10 per cento sul marco tedesco; la caduta fu accompagnata dal dimezzamento del tasso d’interesse: dal 12 per cento al 6 per cento. Allora, rileggendo tra i vari autorevoli commenti, si scopre che gli esperti predissero che la svalutazione avrebbe seriamente danneggiato l’economia britannica, producendo inflazione ed aumentato costo del debito (per il rincaro degli interessi sui Buoni del Tesoro in sterline). Ciò che accadde, tuttavia, fu esattamente altra cosa. Le esportazioni britanniche crebbero di un 5 per cento in più rispetto alle importazioni negli anni seguenti. Da qui una speranza. Se i Paesi latini (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) uscissero dall’euro magari tutti assieme, creando ad esempio un Euro Latino in contrapposizione all’Euro della Germania, ovvero, se ad essere espulsa fosse proprio la Germania, probabilmente la crescita a breve, stimolata dall’esportazioni, darebbe respiro per avviare le «riforme» tanto volute dal capitalismo mercantile egemone, ovvero, «flessibilità» del lavoro e varie deregolamentazioni per i Paesi del Sud dell’Europa. Bene smettiamo di sognare e torniamo con i piedi a terra e cerchiamo di verificare quello che a bocce ferme potrebbe succedere. A bocce ferme significa ipotizzare che, senza i Paesi latini, l’Euro continuerà a funzionare come prima e che la loro uscita dall’euro non modifichi il regime ed il peso dell’Euro stesso. Ed è questa una supposizione valida, ma fino a un certo punto. Più facile sarebbe sognare che anche la Germania e l’Olanda scelgano la strada di lasciare l’Euro. Ed in tal caso, come vedremo, i vantaggi per Paesi come l’Italia aumenterebbero di molto. Ma torniamo ad essere pessimisti. Prima di tutto, dalla lettura dei Trattati risulta che l’uscita dall’Unione Monetaria potrebbe verificarsi soltanto per due circostanze:1) uno Stato Membro o un gruppo di Stati decide di abbandonare l’Unione Monetaria; 2) uno Stato Membro o un gruppo di Stati viene espulso dall’area valutaria. Non è prevista una clausola che stabilisca la possibilità da parte di uno Stato di abbandonare o essere espulso dall’Unione Monetaria Europea.

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Il modo corretto è di negoziare un emendamento del trattato che crei una clausola di uscita. La negoziazione andrebbe, altresì, condotta non soltanto con i Paesi dell’area Euro ma con tutta l’Unione Europea. Insomma la questione si complica ed i tempi diventano tanto lunghi da divenire incompatibili con la rapidità che la situazione in corso richiede. Infatti, l’intero processo di conversione dell’Euro in valuta nazionale se non concordato comporterebbe una rottura unilaterale del Trattato di Maastricht, del Trattato di Lisbona e del Trattato di Roma e, l’introduzione di controlli al movimento di persone e capitale, renderebbero improbabile che un governo possa lasciare l’Euro e rimanere Stato membro dell’Unione Europea. Ciò posto, è evidente che l’uscita rapida dall’Euro può avvenire con un atto politico, ovvero, al di fuori della negoziazione. Adesso, se un Paese decide di abbandonare la valuta comune si troverebbe di fronte a due scelte per quanto riguarda il suo debito pubblico: convertire il debito nella valuta nazionale; lasciare il debito denominato in Euro. Nel caso in cui decida il governo decida di convertire il proprio debito in valuta nazionale (questione tra l’altro che molti studiosi di diritto ritengono impraticabile e foriera di un enorme contenzioso internazionale), questo potrebbe essere interpretato dagli investitori come un segno di difficoltà nel ripagare i propri debiti. Il verbo «potrebbe» è naturalmente da intendersi come un eufemismo … In tale situazione, infatti, il tasso d’interesse sui debiti tenderebbe ad aumentare. Atteso che, al momento, lo spread (differenziale tra gli interessi sulle obbligazioni tedesche ed italiane) tra i nostri bond decennali e quelli della Germania è intorno ai 500 punti, ciò vuol dire che in dieci anni il nostro debito vale la metà di quello tedesco. Infatti, pagare il 5 per cento in più su di un debito pari, ad esempio, a 100 significa in definitiva che in 10 anni per ripagare il nostro debito si deve spendere il 50 per cento in più rispetto ad un analogo prestito emesso dalla Germania. Nell’ipotesi, invece, che il debito estero fosse lasciato in Euro, e si attivasse una doppia circolazione, i debiti esteri risulterebbero rivalutati, mentre le attività finanziarie e reali delle imprese si svaluterebbero immediatamente per un importo almeno pari al differenziale di spread tra tassi di interesse attuale. Alle tensioni sul debito pubblico si aggiungerebbero quelle del settore corporate, con riferimento alle obbligazioni emesse dalle società. Le aziende avrebbero difficoltà a ripagare i propri debiti in valuta estera a causa del forte deprezzamento del cambio successivo all’uscita del Paese dall’Euro (se il cambio si deprezza significa che sono necessarie più unità di valuta nazionale per acquistare una unità di valuta estera). Accanto a tale scenario da incubo (un default sembrerebbe inevitabile) l’incertezza derivante dalla nuova valuta potrebbe innestare una corsa agli sportelli poiché coloro che hanno depositi in Euro ritirerebbero i loro soldi prima dell’avvenuta conversione. È palmare la convenienza a conservare la valuta in Euro, piuttosto, di essere obbligati a convertire il giorno seguente con una perdita secca. La misura di uscita dall’Euro, pertanto, dovrebbe essere accompagnata da norme di restrizione ai movimenti di capitale e persone imposti dal Governo, viceversa, si genererebbe un deflusso di capitali verso l’estero e collasso del sistema bancario. Vediamo ora i vantaggi. Di certo, l’uscita di un Paese debole dall’Euro determinerebbe nel breve periodo un vantaggio competitivo, in termini di svalutazione della propria valuta nazionale, proporzionale alla riduzione di

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valore della nuova moneta rispetto all’Euro. Tale vantaggio potrebbe essere potenzialmente capace di riequilibrare il gap. Tuttavia, non è da escludere che i Paesi membri dell’Eurozona adotterebbero misure protezionistiche per difendersi commercialmente da questo Paese. Se ci fosse anche l’uscita dall’UE si verificherebbe il danneggiamento, se non l’interruzione, dei rapporti commerciali tra questo Paese e l’Unione. Tralasciamo, per carità di patria, gli squilibri interni e gli eventuali disordini, guerre civili, ecc che sarebbero capaci di prodursi in tale situazione di obbiettiva difficoltà interna e le conseguenze degli attacchi speculativi a cui potrebbero essere condizionati le economie di tali Paesi fuori molto più deboli ed isolati. Alcune grandi banche hanno provato a stimare concretamente il costo monetario pro-capite per il primo anno derivante dall’uscita di un Paese debole dall’Euro; per UBS e HSBC (uno dei più grandi gruppi bancari del mondo), si tratta soltanto per l’Italia di una cifra compresa tra 9.500 e 11.500 Euro a persona. Ma per gli anni successivi nessuno si sbilancia a fare previsioni. Allora, mi domando, a che serve spendere tanto denaro pubblico per gli enti di ricerca e le università se poi non possiamo disporre di tali proiezioni ed occorre affidarsi alle ricerche delle grandi banche o di privati volenterosi ? Ritornando sui nostri binari lo scenario di un’eventuale uscita dall’Euro presenta, comunque la si veda, un costo non indifferente, come sono un costo gli sforzi che i Paesi latini sono tenuti a sopportare per rimanere legati alla nuova valuta. La soluzione al momento è tutta politica. Forse potrebbe aiutare la Germania e gli Stati membri più forti a seguire le politiche di espansione di quelli più deboli. Forse i Tedeschi in casa loro si sentono un po’ come il porcellino che ha costruito la casa di mattoni e considerano la Grecia e l’Italia come i porcellini che hanno fatto case, rispettivamente, con la paglia e con il legno. Ma la storia dei porcellini insegna che non è bastata la casa di mattoni per sconfiggere la speculazione. Il lupo cattivo, infatti, (la speculazione) ha tentato anche di penetrare dal camino. In altre parole, la strada è obbligata e si spera che la mancata sottoscrizione dei Bond tedeschi nell’offerta di inizio settimana di metà novembre sia stato un segnale capace di far comprendere che se la banca affonda affondano anche i passeggeri di prima classe!

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PRIMARIE REPUBBLICANE «USA»

TIMORI e sogni di ANDREA MARCIGLIANO C’È uno spettro che aleggia sopra (ed intorno) alle Primarie Repubblicane. Lo spettro della «Brockered Convention». Ovvero ad una Convention, a fine estate, cui il GOP arrivi senza che Primarie e Caucus abbiano portato ad un risultato chiaro e netto. Ad un vincitore che possa venire incoronato con la Nomination nella kermesse che si terrà a Tampa in Florida. Nella storia politica degli States è accaduto, certo, di rado, ma è comunque accaduto. In tale situazione, i delegati cercano un accordo su un nome (in genere) «altro» rispetto a quelli dei concorrenti alle Primarie, e, naturalmente, il gioco passa in mano ai grandi maggiorenti del Partito, all’establishment interno. L’ultima volta, per i Democratici, nel 1952, con la nomina di Adlai Stevenson, poi pesantemente sconfitto da Eisenhower; per i Repubblicani si deve, invece, risalire al 1948, con l’indicazione di Thomas E. Dewey, sbaragliato da Truman. Tuttavia non si deve credere che i candidati così prescelti siano sempre andati incontro a sconfitte annunciate: nel 1932 una «Brockered Convention» democratica nominò, con fatica, un tale Francklin Delano Roosevelt. Per altro è evidente che una tale situazione è pur sempre indicativa di una profonda frattura all’interno del Partito e del suo elettorato, e, conseguentemente, del tentativo di superarla attraverso un’indicazione proveniente dal vertice. Un rischio, comunque. Ma un rischio che potrebbe apparire pur sempre preferibile ad un disastro certo ed annunciato. Novembre 2012: un disastro annunciato? - Quel disastro che oggi sembra profilarsi per i Repubblicani. Un disastro che risulterebbe ancor più cocente se si pensa che la popolarità del Presidente Obama, la cui ricandidatura è indiscutibile, ha raggiunto, oggi, i minimi storici. Il «ragazzo meraviglia» venuto da Chicago, infatti, sembra ormai incapace di esercitare quel potere di fascinazione sull’elettorato che, poco più di tre anni fa, lo portò alla Casa Bianca sul carro trionfale. Schiacciato dalla crisi economica, dagli insuccessi della sua politica, con lo staff decimato dalle polemiche interne, Obama non fa più sognare nessuno, non convince, non persuade e persino la sua capacità retorica appare alquanto appannata. Eppure sembra destinato, a Novembre prossimo, ad una sicura elezione per il, sospirato, secondo mandato. E questo per la palese insufficienza degli attuali candidati repubblicani. Di tutti i candidati, anche di quel Mitt Romney che oggi come oggi - e ricordiamo che scriviamo, però, soltanto dopo il Caucus dello Iowa e le Primarie del New Hampshire - sembrerebbe destinato a conquistare la Nomination a Tampa. Lo dicono, impietosamente concordi, tutte le proiezioni, anche le più ottimistiche, che decretano per il povero Romney, in caso di confronto con Obama, una sconfitta sonora: 70 a 30. Comunque decisamente meglio degli altri concorrenti repubblicani. Il vecchio Newt Gingrich, l’altrettanto stagionato veterano Ron Paul, il «giovane Carneade» Rick Santorum e persino il Governatore del Texas Rick Perry sarebbero destinati a risultati

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quasi da prefisso telefonico. Insomma, tutti costoro hanno, nel complesso, le stesse possibilità di diventare Presidenti degli States di quelle che ha il nostro Walter Veltroni di essere insignito del Nobel per la Letteratura in quel di Stoccolma. E fors’anche qualcuna di meno. Molti candidati, poche «chance» - Il problema è che si tratta di candidature, tutte, troppo settoriali. Ovvero in grado di rappresentare soltanto settori molto limitati e troppo nettamente definiti del potenziale elettorato. Persino dello stesso elettorato tradizionalmente orientato verso i Repubblicani; non parliamo poi di quello incerto e fluttuante, a grande «zona grigia» che, quasi sempre, determina il risultato del duello finale. Ron Paul, che nel New Hampshire è arrivato secondo dopo Romney con un lusinghiero 25 per cento, è un «eccentrico» rispetto al GOP, un iper-liberista tutto Scuola di Chicago, von Hayek e Milton Friedman che fa apparire lo stesso Ronald Reagan come uno statalista con venature socialisteggianti. È l’idolo, certo, dei libertarians, che però sono pochi; l’establishment del Partito neppure lo considera. È già sceso in campo più volte, senza mai arrivare neppure a metà corsa delle Primarie, anche perché non gode di grandi finanziamenti. Anzi, sta davvero cercando di «fare le nozze con i fichi secchi». Non va meglio a Newt Gingrich, vecchio uomo d’apparato, ex speaker di minoranza della Camera nell’èra Clinton, conservatore duro e puro, ma notoriamente privo di qualsiasi fascino, persino nei confronti di quell’elettorato che potrebbe essere considerato più vicino alle sue idee. Idee, per intenderci, che fanno apparire Gengis Khan un progressista di sinistra. Ric Perry, il texano, era sceso in campo, ad Agosto scorso, con, sulla carta, ottime possibilità di essere il vincitore. Governatore di un grande Stato, il Texas, che già ha prodotto l’ultimo Presidente repubblicano George W., era considerato il pupillo di Dick Cheney e Donald Rumsfeld, quindi, potenzialmente sostenuto dal pur sempre potente ed influente clan dei Bush. In più aveva uno staff elettorale di tutto rispetto, innervato di strateghi ed intellettuali neo-conservatori. Ma nei dibattiti televisivi ha rimediato una serie di magre figure, nello Iowa è stato pesantemente sconfitto, nel New Hampshire neppure ha fatto campagna. E questo perché i finanziamenti si sono interrotti; a metà Gennaio - quando, appunto, stiamo vergando questo pezzo - gli restano «soltanto» tre milioni di dollari; difficile, salvo miracoli a fine mese, nel South Carolina che possa riprendersi. Facilmente diverrà l’ultima «vittima» delle Primarie che si stanno rivelando un vero e proprio gioco al massacro. Già perché subito dopo lo Iowa si è già ritirata dalla corsa Michelle Bachman, la pasionaria dei Tea Party, data, proprio per questo, fra i potenziali favoriti. Peggio ancora è andata ad Herman Cain, l’afro-americano «Imperatore della pizza» che doveva essere il vero outsider di queste Primarie e che aveva, ad ottobre, fatto «sognare» un confronto tutto fra «neri» con Obama. Travolto Cain - che neppure è arrivato alle Primarie, a una serie di rivelazioni su una vita sessuale non proprio morigerata, anzi, alquanto birichina. Insomma, il GOP sembra una sorta di Crono che divora uno dopo l’altro i suoi candidati.

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fare alcuni esempi, Santorum considera i gay dei malati da curare, vorrebbe proibire l’aborto, è ostile al divorzio, e favorevole a vietare l’insegnamento di Darwin nelle scuole; inoltre si è lasciato sfuggire che, se fosse alla Casa Bianca, avrebbe già provveduto a bombardare Teheran. Ciononostante rappresenta una minaccia per Romney. Non tanto perché in grado di contendergli veramente la Nomination, quanto perché, in una campagna lunga ed estenuante, potrebbe facilmente sfibrarlo, riducendo ulteriormente le sue già scarse possibilità di fronteggiare Obama a Novembre. E questo perché la polemica con Santorum sta sempre più alienando all’ex Governatore del Massachusetts l’elettorato più conservatore. Soprattutto i conservatori religiosi del profondo Sud, la Bible Belt, dominata dalle chiese fondamentaliste battiste e pentecostali. Oltre 20 milioni di voti, che però difficilmente potrebbero andare a Romney, considerato un Repubblicano di tendenze liberal, troppo permissivo sulle questioni etiche, e per di più favorevole a politiche sociali - in particolare su sanità ed istruzione - non dissimili da quelle di Obama. Per sovramercato Romney è mormone; per i fondamentalisti protestanti praticamente un pagano. E se Jeb si svegliasse? - Quindi delle due una. O a fine Agosto una Convention repubblicana rassegnata alla sconfitta nominerà Mitt Romney e lo manderà al massacro, oppure l’establishment del partito rischierà la carta della «Brockered Convention». Ed allora i giochi si riapriranno, anche perché i «grandi nomi» del fronte repubblicano e conservatore ancora non sono scesi in campo. Né Chris Christie, il governatore del New Jersey che molti considerano il Nuovo Reagan; né Sarah Palin, la Giovanna d’Arco dei Tea Party e dei conservatori più arrabbiati; né il senatore della Florida Marco Rubio, molto vicino ai Bush, candidato ideale della, forte, minoranza «latina», che per altro a Tampa giocherebbe in casa. Già, Tampa in Florida… Curioso che la Convention si debba tenere proprio lì, nel feudo elettorale di Jeb Bush, il Figlio di George H. W., il fratello minore di George W.; l’uomo che molti nel GOP considerano il (potenziale) candidato ideale. E che potrebbe decidere di non aspettare ancora quattro anni per tentare di riconquistare lo Studio Ovale al suo Partito. E, soprattutto, alla sua famiglia.

Romney e Santorum: un duo di perdenti? - Resta in corsa Rick Santorum, l’italo-americano della Pennsylvania forte dell’appoggio dei conservatori religiosi del profondo Sud e, dopo il ritiro della Bachman, anche dei populisti dei Tea Party. Tuttavia batterlo, per Obama, sarebbe una passeggiata. Troppo conservatore, troppo a «destra», tanto da far apparire George W. Bush un pericoloso sinistroide. Tanto per

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UNGHERIA

LA CATTIVA d’Europa di ALFONSO FRANCIA LA GRECIA si consoli: non ha risolto neanche uno dei suoi gravi problemi di bilancio e già sta sperimentando un impoverimento fulmineo, ma almeno non viene più considerata lo zimbello d’Europa. Il ruolo di paria del vecchio continente tocca ora all’Ungheria, che sembra finita ovunque sulla lista dei cattivi. L’agenzia Fitch ha fatto a pezzi il rating nazionale, declassandolo da BBB- a BB+. Tradotto in linguaggio corrente, i titoli magiari sono ora etichettabili come junk, spazzatura. Assieme al giudizio è arrivato con un comunicato stampa che suona severo come il commento di un professore che ha appena segnato un 4 sul registro: «Il declassamento dell’Ungheria riflette l’ulteriore peggioramento dei conti pubblici, delle prospettive di crescita e le crescenti difficoltà a finanziarsi sui mercati. Tutto questo è stato causato da politiche economiche non ortodosse che minano la fiducia degli investitori». Una bocciatura completa, che non si limita a censurare la politica economica di un Paese ma sembra mettere in discussione i meccanismi base del funzionamento dello Stato. Le conseguenze non si sono fatte attendere: i tassi per rifinanziare il debito sovrano veleggiano sopra il 10 per cento, la crescita è bloccata, mentre l’ultima asta di titoli di Stato, nonostante convenientissimi tassi annuali al 9,96 per cento, hanno fruttato 35 miliardi di euro contro i 45 previsti. Tanta severità non pare casuale: dà l’impressione di rispettare un piano ben preciso che viene portato avanti parallelamente da altre istituzioni, pubbliche e private. In ordine sparso, gli attacchi al governo sono arrivati dal Consiglio d’Europa, dall’Unione Europea per bocca della Commissaria europea ai diritti umani Viviane Reading, dal segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon, dal Segretario di Stato americano Hillary Clinton (nonostante l’attuale governo si sia lanciato in dichiarazioni di incondizionata fedeltà atlantista che neanche Berlusconi ai tempi del suo innamoramento per George Bush) e ovviamente dai vertici dell’Fmi. Ma cosa ha fatto di tanto grave il governo guidato dal leader di Fenesz Viktor Orban per meritarsi un trattamento così speciale? La risposta va cercata in una legge approvata a dicembre la quale, grazie alla Costituzione approvata la scorsa estate, potrà essere modificata soltanto con una maggioranza parlamentare di due terzi. La norma rinegozia il bilanciamento tra Banca centrale ungherese e governo a tutto vantaggio del secondo; l’istituto avrà tre vicegovernatori di nomina politica mentre il Consiglio monetario, l’organo deputato a decidere la politica sui tassi d’interesse - sarà in buona parte composto da esperti scelti dal Parlamento. Proprio mentre Bruxelles cerca di «accogliere» le banche nazionali europee sotto l’ombrello della Bce, come previsto dal Trattato di Lisbona, Budapest si riappropria con veemenza dei poteri necessari per imporre una politica monetaria del tutto autonoma.

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Prevedibilmente, gli attacchi piovuti su Orban non si sono basati su questa misura, che difficilmente avrebbe suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica. Si è preferito calcare la mano su alcuni aspetti controversi della nuova Carta Costituzionale entrata in vigore lo scorso 2 gennaio. I mass media hanno diffusamente criticato la citazione di Dio nel preambolo della Carta - paventando addirittura il rischio di instaurazione di una teocrazia -, la presenza di richiami agli Ungheresi che vivono nei territori passati ad altri Stati dopo lo smembramento dell’Impero austroungarico, la riduzione dei poteri della Corte Costituzionale, la limitazione della libertà di stampa e via dicendo. Quasi nessuno, ovviamente, ha fatto notare che la vecchia Costituzione, rimasta in vigore fino alla fine del 2011, fosse ancora quella imposta dai sovietici dopo la conquista del Paese. Le critiche hanno colpito nel segno, tanto che oggi l’Ungheria è considerata un Paese illiberale a un passo dall’autoritarismo, neanche fosse la Bielorussia. Orban è oggi etichettato come un leader reazionario e xenofobo, nonostante l’unico vero partito di estrema destra presente in Parlamento stia all’opposizione… Temendo che la campagna stampa potesse non bastare a ricondurre il capo dell’esecutivo a più miti consigli, l’Unione Europea ha pure tirato fuori una vecchia storia di aiuti di Stato alla compagnia aerea di bandiera, la Malév. L’azienda era stata privatizzata qualche anno fa ma la società russa che l’aveva acquisita era presto fallita, così il governo - guidato allora dai socialisti - decise di riacquistarla. Nessuno ebbe da ridire, e soltanto ora a Bruxelles sembrano essersi accorti che il salvataggio fu illegale. Il 9 gennaio l’Antitrust europeo ha diramato un comunicato nel quale si afferma che «il finanziamento concesso a Malév tra il 2007 e il 2010 nel contesto della sua privatizzazione e rinazionalizzazione costituisce un aiuto illegale di Stato, dal momento che la compagnia non sarebbe stata in grado di ottenere un simile importo alle condizioni di mercato». L’Ungheria è stata quindi caldamente invitata di recuperare le somme spese, ma questo significherebbe l’immediato fallimento dell’azienda, che dà lavoro a 2.600 persone e offre un collegamento con zone del Paese che nessuna compagnia aerea privata penserebbe di coprire. Ce n’è abbastanza perché Orban si convinca che, per il bene del Paese, sia meglio alzare bandiera bianca come prima di lui hanno fatto altri leader politici europei caduti in disgrazia agli occhi dell’Unione. Ma il premier sa di avere una notevole carta ancora a disposizione e non vuole abbandonare il tavolo prima di averla giocata. Si tratta, guarda un po’ di una questione di soldi. Perché l’Ungheria non può fallire - L’Ungheria non è un Paese finanziariamente isolato, anzi è stato negli ultimi anni una delle destinazioni preferite di capitali stranieri desiderosi di essere investiti. Unicredit, Banca Intesa, Bayer LB e altre banche europee vi hanno impegnato quantità di capitali da far tremare i polsi. I soli istituti di credito austriaci hanno fornito 42 miliardi di dollari, quelli italiani 23, i tedeschi circa 21. Ecco perché l’Ue, nonostante rimbrotti e minacce, non si è ancora sbarazzata di Orban. L’Ungheria è talmente legata agli interessi delle grandi banche dei maggiori Paesi europei da non poter essere lasciata al suo destino nonostante, a differenza della Grecia, non abbia aderito all’euro. Viktor ha finora sfruttato a fondo questo vantaggio,

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impegnando gli emissari di Bruxelles in una serie di sfibranti negoziati che alcuni intervenuti hanno paragonato a una partita a poker dove si continuava a puntare più in alto nella speranza di spaventare l’avversario e convincerlo alla resa. Il premier ha lasciato intendere che potrebbe rivolgersi alla Cina per ottenere il sostegno necessario a evitare il default, mentre gli sherpa inviati dall’Unione hanno ribadito che la modifica della legge sulla banca centrale è «prerequisito indispensabile» per portare avanti qualunque trattativa. Per ora il premier resiste, anche perché ha dalla sua parte la maggioranza di una popolazione che vive con irritazione la messa in stato di accusa della propria patria da parte delle cancellerie di mezzo mondo: questo sostegno potrebbe però venire meno in un baleno se il bilancio delle famiglie dovesse cominciare a soffrire della scarsa considerazione di cui il Paese gode presso i mercati internazionali. Già da qualche mese i cittadini fanno i conti con un fiorino che vale sempre meno rispetto alle monete di riferimento (negli ultimi sei mesi ha perso il 15 per cento del suo valore nei confronti dell’euro), e cominciano a credere alle cassandre che annunciano prossimi prelievi forzosi dai conti correnti dei risparmiatori. Non sono le accuse di clerico-fascismo che metteranno Orban contro l’opinione pubblica locale insomma, ma più banali problemi di portafogli. La stampa internazionale ha dato grande risalto alle manifestazioni organizzate dall’opposizione socialista in occasione della ratifica della discussa nuova Costituzione, ma ha del tutto ignorato le proteste, ben più agguerrite, esplose ovunque quando il governo ha deciso di innalzare l’Iva al 27 per cento. Ecco perché Orban sa di dover trovare una forma di compromesso con l’Unione; una rottura definitiva significherebbe dover fare a meno di quell’aiuto finanziario quantificabile in 20 miliardi - che Ue ed Fmi sbloccherebbero soltanto in caso di un ripensamento sulla governance della Banca d’Ungheria. Se Budapest accetterà questo compromesso, c’è da stare sicuri che le preoccupazioni europee per lo stato della democrazia ungherese spariranno all’istante.

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GIUDICI CONTRO GLI STATI

GIUDIZI insindacabili di EMMANUEL RAFFAELE PRIMA che a Berlusconi fosse impossibile politicamente difendersi dai giudici, pezzi come questi sarebbero suonati quasi filo-berlusconiani, tesi a dimostrare l’enorme influenza politica dei giudici. In realtà, il giudizio (e pregiudizio) del magistrato che inquisisce o che emette una sentenza, la sua interpretazione dei fatti, che si combina con l’interpretazione della norma (tanto ampia, quanto più la disposizione che ne viene fuori risulta sgradita al giudice di turno) e della volontà del Legislatore, è quanto di più scontato possa esistere. Ed oggi che Berlusconi è caduto e che al governo c’è Monti, un pezzo del genere può limitarsi ad indirizzare la sua morale nei confronti dell’Ue e del suo funzionamento. Berlusconi passa, mentre l’Europa resta, a dispetto di tutto e di tutti. Il progetto, storicamente imposto dagli Usa all’Europa in cambio del il Piano Marshall, è da sempre caro agli ambienti che hanno imposto al mondo ed al nostro continente il Libero Mercato Globale, e non hanno certo intenzione di mollare tutto ora. Chi vuole l’Europa del Mercato non ha fretta. Agisce con pazienza e costanza ed ha intelligentemente scavalcato ogni progetto immediatamente federalista, per abbracciare visioni furbescamente più funzionaliste, portando ad una federazione di fatto, senza che il popolo se ne accorgesse. Non prima di essere assuefatto alle due parole magiche: Europa unita. Anche a costo di perdere decenni, pur di mettere al sicuro il risultato, impedendo che la cosa diventasse un boccone politico troppo grande da digerire. Cessioni parziali della sovranità. Cessioni impercettibili, spesso imposte senza neanche coinvolgere i governi nazionali. Ed in questo, la Corte di Giustizia Europea ha fatto bene il suo lavoro, risultando decisiva nel fare dell’Europa un super-Stato senza che nessuno si rendesse pienamente conto del come. «Per descrivere e spiegare la costituzionalizzazione dei Trattati, e l’integrazione legale dell’Europa, è necessario partire dalla Cge [Corte di Giustizia Europea, ndr], l’attore che, inizialmente in solitudine, ha letteralmente inventato e dato vita ai processi che qui si intende analizzare». Un attore, insomma, che Giorgio Giraudi, docente di Analisi delle Politiche Pubbliche presso l’Università della Calabria, nel suo Ripensare l’Europa, supportato da autorevole dottrina, definisce a dir poco essenziale nella definizione della direzione del processo di integrazione legale europeo. Un ruolo che, a partire dal Trattato di Roma, acquista rilevanza in relazione all’art. 177 (poi divenuto 234) che definiva il potere della Corte di interpretare i trattati su richiesta delle corti nazionali. È a partire da lì, infatti, che la Corte riesce a creare la supremazia del diritto europeo su quello nazionale, mentre «i trattati non specificavano, volutamente, quale norma dovesse prevalere nel caso in cui il diritto comunitario venisse a trovarsi in conflitto con una norma nazionale».

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Il primo passo in tal senso avviene nel 1963, quando alla Corte tocca pronunciarsi sul caso Van Gend ed Loos: «l’articolo 12 del Trattato Cee», ci spiega ancora Giraudi, «proibiva agli Stati membri di aumentare le tasse di importazione oltre i limiti fissati per il commercio intracomunitario». Ebbene, un importatore olandese sosteneva che il suo Paese violasse gli obblighi Cee, avendo fissato all’8 per cento una tassa di importazione che all’entrata in vigore dei trattati era al 3 per cento. «In sostanza», prosegue Giraudi, «si trattava di esprimersi sulla questione se i trattati, per diventare vincolanti e operativi, dovessero essere recepiti ad un atto normativo nazionale, come è il caso di tutti gli accordi internazionali». La Corte esplicitò l’esistenza di un «nuovo ordine legale internazionale» e chiarì che le norme europee non avevano bisogno di essere recepite, essendo direttamente applicabili ai cittadini, soggetti dei trattati come gli Stati membri. La logica internazionalista era per sempre superata. Senza che i popoli ne sapessero nulla, l’Europa era diventata il nuovo padrone e la Corte di Giustizia la spada (ancora spuntata dall’impossibilità di infliggere sanzioni) usata per attaccare a morte la sovranità nazionale. Una decisione, fa notare il testo, che in effetti riecheggia la sentenza del 1803 della Corte Suprema Statunitense, che ugualmente decretava proprio l’esistenza di un «nuovo ordine legale» negli Usa. È con la sentenza relativa al caso 106/77 Simmenthal, però, che il passaggio è completato e la supremazia del diritto comunitario diventa dottrina a tutti gli effetti. Se finora ci si era limitati a stabilire la superiorità delle norme contenute nei trattati, la conclusione di questo caso portò infatti ad uno passaggio successivo e che chiarì definitivamente la supremazia di ogni fonte comunitaria rispetto alle norme nazionali, che diventavano inapplicabili se incompatibili con quelle europee. Una questione che, negli anni, ovviamente non è passata inosservata alla Corte costituzionale italiana e tedesca. Per riaffermare il principio della natura internazionalista del diritto comunitario, infatti, la Corte italiana ha per lungo tempo sostenuto una tesi che, seppur sostanzialmente poco incisiva, giuridicamente risultava fondamentale. In breve, la Corte sosteneva che la mancata applicazione di una norma contenuta nei trattati costituisse una violazione da parte dello Stato italiano, ma soltanto in quanto violazione dell’art. 11 della Costituzione: «Consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Mentre la Corte costituzionale tedesca ha sfidato la Corte di Giustizia europea in maniera ancor più dura, pretendendo di tenere per sé il compito di valutare la compatibilità delle norme comunitarie con i diritti fondamentali della costituzione tedesca e valutando eventuali eccessi di potere delle istituzioni comunitarie nell’applicazione dei trattati. Tutto ciò, provocando la pronta reazione della Corte europea. Dunque, se il deficit democratico dell’Europa è cosa nota, le vicende legate alla Corte europea chiariscono ancora di più quanto il processo di integrazione sia stato oltre ogni immaginazione antidemocratico, frutto dell’imposizione non soltanto dei governanti, ma di pochissimi tecnocrati e giudici (l’accostamento non è, non può essere casuale) senza (amor di) patria. Uno sdegno, dunque, che può soltanto esplodere in un rifiuto ancor più netto di quest’Europa che, ancora oggi, in virtù degli errori del passato, decide del nostro destino.

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CRISI TRA PARIGI ED ANKARA

NEL NOME del Mussa Dagh di ALBERTO ROSSELLI NON è ancora diventata legge, ma l’approvazione alla Camera bassa del Parlamento francese del testo che punisce la negazione del genocidio armeno ha già scatenato una crisi diplomatica con la Turchia. Mentre a Parigi migliaia di turchi hanno manifestato in segno di protesta, Ankara ha gridato all’oltraggio (rammentiamo che ancora oggi il governo turco continua a disconoscere la storicità della strage armena, attuata dagli ottomani tra il 1915 e il 1916, causando in tal modo tensioni continue tra l’Unione Europea e il Paese anatolico) e ha annullato visite bilaterali, cooperazione politica e militare, ma non economica (le sanzioni contro Parigi non riguardano infatti gli scambi commerciali o le attività delle aziende francesi presenti in Anatolia, anche se Erdogan non ha escluso ulteriori misure restrittive. Ed inoltre è passata subito al contrattacco, accusando la Francia di avere commesso in passato efferati delitti ai danni della popolazione algerina (mossa architettata ad arte per fare presa sugli oltre cinque milioni di musulmani residenti in Francia, N.d.R.). «Il presidente Sarkozy dovrebbe tacere», ha tuonato il premier turco Recep Tayyip Erdogan. «Oltre il 15 per cento della popolazione algerina venne massacrata dai francesi tra il 1945 e il 1962. Si trattò di un genocidio. Buffo che oggi i Francesi preferiscano occuparsi della questione armena». E ancora: «Se Sarkozy non sa che c’è stato un genocidio in Algeria, può chiederlo a suo padre, Pal Sarkozy, che in quel Paese militò da legionario negli anni Quaranta» (per inciso, interrogato in proposito dalla stampa transalpina, il padre del presedente francese ha dichiarato di non essere mai stato in Algeria, N.d.R.). Tornando all’oggi, va detto, comunque, che le speranze che il provvedimento (il testo, approvato lo scorso dicembre dalla maggioranza dei 41 rappresentanti dell’Assemblea Nazionale transalpina presenti in aula, prevede un anno di prigione e 45.000 euro di ammenda per chi neghi il genocidio armeno, che la Francia ha riconosciuto nel 2001) concluda il suo iter in Parlamento e diventi legge prima della fine della legislatura sono comunque poche. Anche per questo il premier turco Erdogan parla di mera mossa elettorale, sottintendendo il bisogno di Nicolas Sarkozy dei voti della nutrita comunità armena di Francia (circa mezzo milione di individui, concentrati in buona misura a Marsiglia, Lione e Parigi): «I tentativi di guadagnare voti facendo leva sulla turcofobia e sull’islamofobia solo per vincere le elezioni presidenziali in Francia per ambizioni personali suscitano preoccupazioni», ha detto Erdogan, «non solo nel nome della Francia, ma anche nel nome dell’Europa e dei suoi valori universali». Forte di un’economia in grande espansione e di un ruolo sempre più influente nel mondo arabo e in Medio Oriente, Ankara pensa di non avere molto da perdere in una battaglia politica con Parigi, battaglia che ha conquistato, ovviamente, il

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IL BORGHESE

plauso del governo armeno. «Quando i turchi sostengono che la legge contrasta con la libertà di espressione», ha detto Kiro Manoyan della Federazione Rivoluzionaria Armena, «non riconoscono che si tratta di una decisione presa in un quadro europeo, che riguarda tutti i genocidi; i Paesi europei dovrebbero adottare simili leggi». Secondo l’esecutivo di Yerevan, ma anche sulla base di stime internazionali, corroborate da tonnellate di documenti, furono circa 1.500.000 gli Armeni ortodossi e cattolici massacrati (assieme a 350.000 Greci ortodossi del Ponto e a migliaia di cristiani caldei e assiri) durante la Prima Guerra Mondiale, entro i confini dell’Impero Ottomano, attraverso una politica di genocidio (di qui il termine, Medz Yeghern o «Grande male»), deliberata, ragionata, programmata e scientificamente portata a compimento dal Partito «modernista», «panturchista» e «panturanista» dei Giovani Turchi, capitanato dal triumvirato composto da Mehmed Talat Pascià, Ismail Enver e Ahmed Jemal. Circa la scelta fatta dall’Assemblea, il presidente Sarkozy ha dichiarato di «non accettare lezioni da Paesi terzi», ma ha anche tentato, un po’ goffamente, di buttare acqua sul fuoco della polemica. «Rispettiamo le convinzioni dei nostri amici turchi. La Turchia è un grande Paese, una grande civiltà che, tuttavia, deve a sua volta rispettare le nostre scelte assembleari». E ha aggiunto, palesando non molta chiarezza: «Penso, tuttavia, che questa iniziativa non fosse opportuna, ma il parlamento ha votato. Comunque sia, ora cerchiamo di riprendere rapporti pacifici con Ankara: impresa difficile, ne sono consapevole, ma sono convinto che il tempo farà il suo lavoro»; concetto, quest’ultimo, ribadito, nella sostanza, anche dal ministro degli Esteri, Alain Juppé, da sempre favorevole a consolidare buoni rapporti con Ankara (ricordiamo a questo proposito che il volume bilaterale degli scambi ha raggiunto nel 2011 i 12 miliardi di euro), al punto da dissociarsi pure lui dal voto dell’Assemblea. Appena eletto, nel 2007, Sarkozy dichiarò che «la Turchia si trova in Asia Minore, non in Europa, e che l’Ue è aperta alle sole candidature di Paesi europei». La malcelata antipatia del presidente francese per la Turchia e il desiderio di alcuni deputati della regione di Marsiglia di aggiudicarsi il sostegno della locale numerosa comunità armena a quattro mesi dalle elezioni presidenziali e legislative, hanno forse contribuito a creare la querelle franco-anatolica.

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AFGHANISTAN

UNA GUERRA infinita di MARY PACE Il conflitto in Afghanistan iniziava il 17 ottobre 2000, quando gli Usa e il Regno Unito dichiaravano guerra al Paese ritenuto la culla del terrorismo islamico. Un mese prima l’America aveva subìto l’attacco gravissimo al World Trade Center, al Pentagono e in Pennsylvania, causando la morte di oltre 3mila persone. L’attacco fu rivendicato da Osama Bin Laden capo di Al Qaeda. Sempre nel 2000 l’Onu concedeva la copertura giuridica all’intervento militare, rappresentato sul campo dalle forze dell’Isaf (International Security Assistance Force). Nel 2003, il comando della missione passava sotto il diretto controllo della Nato. Oltre ai militanti afgani, aggregati nell’Alleanza del Nord, altre dieci nazioni schierarono le loro forze armate in quel teatro di guerra. Ma, ci chiediamo, quando finirà questa eterna lotta tra l’alleanza militare occidentale a guida americana e le forze della guerriglia afgana, ormai tutta sotto il comando dei Talebani? Lo stesso presidente americano Obama non sa rispondere a questa domanda, avendoci ormai abituati al suo procrastinare il rientro delle truppe. Lo scorso anno annunciò che le truppe sarebbero rientrate nel 2012; ora, invece, in piena campagna presidenziale,afferma che i soldati resteranno a combattere per almeno altri 2 anni. Una sconfitta dei talebani, alla luce attuale degli avvenimenti è altamente improbabile, avendo essi adottato la stessa tattica della guerriglia, che tanto successo ebbe contro le truppe sovietiche, tanto da far affermare al mondo che l’Afganistan, allora, fu il Vietnam dell’Urss. La stessa propaganda alleata, sfruttata come un’arma nel conflitto, non è giudicata credibile. Ormai la gente non crede più alle vittorie contro i Talebani, ottenute grazie all’impiego dei droni. Oggi i militari, nonostante il precedente intervento del generale Petraeus, forte della strategia vittoriosa in Irak, non riescono ad uscire fuori della trappola afgana; al fine di risparmiare inutili morti fra le truppe, hanno favorito largamente l’uso dei droni per bombardamenti mirati. Tutto questo al solo scopo di arrivare al tavolo delle trattative in una posizione di stallo, accettabile per uscirne senza infamia. Forti di questa debolezza americana, la paura di veder morire i giovani soldati, i Talebani escono dai loro rifugi, adesso anche di giorno, impegnando le forze della coalizione in agguati e scontri, in alcuni casi vittoriosi per le forze della guerriglia. Il nostro Ministero della Difesa, non potendo nascondere i morti che tornano in Italia, oppone un vero e proprio muro di silenzio sul numero dei feriti ed invalidi che, pur se decorati, tornano in Patria in forma quasi clandestina. Giovani soldati, graduati ed ufficiali che non avranno più una vita normale e sui quali il Ministero tace. Il conflitto afgano si svolge su due fronti, quello militare e quello mediatico. Nonostante tutto quello che afferma la propaganda dei vari uffici stampa dei comandi alleati e dei ministeri, nonostante il continuo far risaltare le azioni posi-

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tive portate a termine con l’uso dei droni, la guerra in AfgaIl sostegno economico è garantito dalla Banca per lo Svinistan è persa. Gli Usa, che avevano la possibilità con Peluppo Asiatico, della quale Usa e Giappone sono i maggiori traeus di arrivare ad una situazione di normalizzazione coazionisti. Pur se la realizzazione risulta sempre difficile, il me in Irak, oggi sono consapevoli del costo immenso della progetto viene portato avanti anche per l’interesse crescente guerra e della impossibilità di vederne la fine in maniera manifestato dagli Americani, gli Inglesi ed i Canadesi. positiva per loro. A tal fine, essi stanno spingendo i TalebaConcretamente, possiamo tranquillamente affermare che ni a sedersi ad un tavolo di pace. Recenti i contatti con l’Ufil vero interesse dietro questa guerra è legato al commercio ficio politico di rappresentanza dei Talebani, recentemente internazionale della droga. Anche in questo il Vietnam è la inaugurato in Qatar. Quello stesso Qatar vero vincitore della chiave di lettura. guerra libica contro Gheddafi ed ora impegnato contro la Secondo persone informate bene sui fatti, la Cia avrebbe Siria di Assad; poco tempo fa, l’emiro del Qatar si è dichiapreso in appalto la produzione e lavorazione dell’oppio, con rato pronto a far intervenire in Siria gli stessi combattenti la benedizione di Karzai, progettando le rotte di smercio. Anche hanno sconfitto Gheddafi. che ai tempi del Nam, la Cia organizzò la stessa cosa, grazie I Talebani reagiscono a questa guerra mediatica rifiutanalla creazione della compagnia aerea Air America, che perdo un plateale incontro: perché dovrebbero, ormai la guerra metteva di spostare dal Laos e dalla Tailandia la droga, sfrutl’hanno vinta. Nel mese di novembre dello scorso anno, si è tando le missioni operative dietro le linee vietcong. riunita la Loya Jirga, la grande assemblea delle tribù afgane Secondo un’inchiesta televisiva condotta dal canale convocata dal presidente Hamid Karzai. L’assemblea, che russo Vesti, l’eroina viene portata fuori dall’Afghanistan conta oltre 2.000 delegati, ha autorizzato Karzai a trattare con i cargo militari addetti al rimpatrio delle salme dei cacon i Talebani, e con il loro leader supremo il Mullar Omar, duti. La giornalista afgana, infatti, ha scritto, sul The Guarsottolineando che la pace è un bisogno urgente. Nell’ultima dian, che le bare dei militari sono piene di eroina al posto giornata dei lavori ha partecipato anche il ministro degli dei cadaveri. esteri tedesco Guido Westervelle. L’assemblea, inoltre, al Il traffico di droga risulta l’unica industria in espansione. fine di garantire una migliore sicurezza del Paese, ha sottoNella seconda metà del 2008, la liquidità era il principale lineato la necessità del mantenimento, per almeno dieci problema per il sistema bancario, per cui ottenerne diventava anni, delle basi americane già presenti. Tutti, oggi, hanno un fattore importantissimo. I crediti interbancari sono stati presente l’attuale situazione irakena, con il caos scoppiato finanziati da denaro proveniente dal traffico della droga. Non dopo la partenza delle truppe americane da Bagdad. è facile poterlo dimostrare, ma ci sono indicazioni che molte Karzai, in contropartita, si adopererà per ottenere dai banche si siano salvate con questi mezzi. Talebani la fine degli scontri. A questo scopo, l’unica strada In pratica la guerra in Afghanistan non costa un dollaro percorribile è quella del negoziato, che dovrebbe garantire agli Americani che hanno trovato il sistema per ripagarsela. concessioni territoriali ad Islamabad e, nello tempo, concreE come si dice «il fine giustifica i mezzi». tizzare una forma di rquilibrio politico e militare fra le diverse etnie che combattono nei vari distretti del Paese. Dal 2000 ad oggi, il costo militare per gli Usa è stato immenso, ed il torOgni lunedì, dal 3 ottobre narsene a casa mani vuote significherebbe un ridimensionamento globale del sistema difensivo e strutturale delle Forze armate americane, tale da pregiudicare, per la prima volta nella storia, la stessa capacità di intervento nei Ore 21-22 vari teatri di guerra mondiali. Ma, a parte la causa scatenante dovuta agli attentati di settembre, quali Seguici con sono i veri motivi che hanno portato all’invasione afgana? Le risorse energetiche? In effetti, in Afghanistan, ci sono riserve petrolifere nella zona di Herat, ma sono molto esie gue, tanto da non giustificare gli oltre 300 mila miliardi di dollari spesi dagli Usa. La pipeline Trans-Afgana? Da molti è considerato il vero obiettivo, tale da scatenare il conflitto, ma la cui realizzazione risulterebbe troppo complicata. Si dovrebbe, infatti, allestire una condotta di 1.680 km per convogliare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Afghanistan occidentale. Per questo il progetto venne accantonato. Puoi telefonare e fare le domande Nel 2008, grazie anche all’interagli ospiti presenti vento dell’India che ne auspica l’apertura nel 2018, il progetto viene ripreso.

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NIENTE SALDI, SIAMO INGLESI

L’EUROPA è isolata di GIUSEPPE DE SANTIS IL GIORNO di Santo Stefano nel Regno Unito da anni ha assunto una certa importanza per il fatto che in questa data ha inizio la stagione dei saldi. Quest’anno com’era prevedibile gli osservatori hanno guardato con attenzione ai dati delle vendite avvenute durante il Boxing Day’s sale discount (saldi di vendita di Santo Stefano) perché questi dati danno un’indicazione della forza o della debolezza dell’economia d’oltremanica. Quest’anno molti consumatori impoveriti dalla crisi economica hanno rinviato gli acquisti fino alla vigilia di Natale nella speranza di ottenere qualche prodotto a prezzi scontati e questa decisione ha causato un calo nelle vendite. Molti grandi magazzini, nella speranza di salvare la stagione, il giorno di Santo Stefano hanno ridotto i prezzi enormemente, in alcuni casi fino al 70 per cento e in molti si sono recati molto prima dell’orario di apertura (in alcuni casi alle tre di notte) per essere i primi a mettere le mani su prodotti di marca a prezzi stracciati. Questa tattica ha avuto qualche successo visto che durante il 26 e il 27 Dicembre i consumatori Britannici hanno speso qualcosa come 4 miliardi e trecento milioni di Sterline, una cifra record, ma molti analisti dubitano che questo possa risolvere tutti i problemi degli operatori commerciali. A raffreddare gli entusiasmi è stato l’ultimo rapporto del British Retail Consortium (la Confcommercio britannica) il quale ha annunciato che il volume delle vendite al dettaglio è uno dei peggiori degli ultimi anni: questi dati tengono conto di tutte le vendite effettuate negli ultimi mesi e quindi del fatto che il record di vendite dopo Santo Stefano avviene dopo una stagione in cui le vendite prenatalizie sono crollate rispetto agli scorsi anni e di conseguenza il bilancio totale non è affatto positivo. Nessuno sa se e quando questa crisi di consumi sarà superata ma quello che è certo è che sono in molti a sentirsi impoveriti e di conseguenza esiste un certo malessere causato dalla sensazione che questa generazione avrà un tenore di vita ben più basso di quella precedente. Certo la recessione causata dalla crisi bancaria ha fatto aumentare la disoccupazione e coloro che hanno ancora un lavoro spesso devono accettare un congelamento delle retribuzioni. Il fatto che le banche non concedano più credito danneggia non soltanto le aziende ma anche le famiglie visto che ottenere un mutuo è pressoché impossibile e per molti comprare una casa è diventato un miraggio. Come se questo non fosse già abbastanza, il costo della luce, del gas, dell’acqua e dei trasporti pubblici è aumentato in maniera notevole, portando come conseguenza un ulteriore impoverimento delle famiglie, che si traduce in un crollo dei consumi. Per questo motivo è facile sentire la gente lamentarsi dell’avidità’ dei cosiddetti fat cat, un termine usato per

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descrivere i dirigenti di banche e aziende che si arricchiscono spudoratamente a danno dei consumatori e dei lavoratori. Storie riguardo a manager che ottengono stipendi e bonus milionari e aziende del gas che fanno profitti record, mentre aumentano le bollette, non fanno che aumentare la rabbia di tanti che, a torto o a ragione, si sentono derubati e sono in molti a dire che non è giusto che la gente debba stringere la cinghia mentre i manager continuano ad arricchirsi alle loro spalle. Questo senso di ingiustizia è accompagnato da una forte delusione verso una classe politica incapace di cambiare questa situazione. Certo è prevedibile che la coalizione di governo subisca le conseguenze per le scelte impopolari che è costretta a fare, dopotutto la stampa locale è piena di storie di autorità locali che sono costrette a licenziare lavoratori, tagliare servizi essenziali e chiudere biblioteche e vari centri comunali però le conseguenze non sono così scontate. Il partito laburista che adesso è all’opposizione non ha beneficiato in pieno da questa crisi e anzi sono in molti a credere che sono loro i veri responsabili di questa crisi. Quanto alla coalizione i liberal-democratici hanno avuto un crollo enorme provocato principalmente dal fatto che in campagna elettorale avevano promesso che non avrebbero aumentato le tasse universitarie ma appena entrati in coalizione hanno fatto il contrario. Quanto ai Conservatori per il momento sono in testa ai sondaggi grazie alla decisione di David Cameron di non appoggiare il nuovo trattato europeo per salvare l’Euro. Questa decisione ha toccato un nervo tra tutti coloro che pensano che l’Unione europea abbia soltanto creato danni e che rimanere fuori dalla moneta unica sia stata la decisione migliore presa dal governo britannico. Certo poter decidere i tassi di interesse e il tasso di cambio è un grosso vantaggio ma è chiaro che quello che accade all’Euro non può non influenzare l’economia britannica. Nessuno sa quando questa recessione finirà e forse per questo c’è chi teme che ci possano essere tensioni sociali dalle conseguenze imprevedibili.

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AL VIA IL NUOVO GOVERNO

ARRIBA Espana! di GIANPIERO DEL MONTE IL GOVERNO è varato. Lo formano tredici ministeri guidati da nove uomini e quattro donne. Mariano Rajoy si è circondato di persone di fiducia ed ha affidato la vicepresidenza a Soraya Saènz de Santamarìa, suo braccio destro da alcuni anni, che sarà anche portavoce del governo. Svolgerà un lavoro di coordinamento e sostituirà Rajoy durante le sue assenze. È la più giovane vicepresidente che ci sia mai stata, dotata di grande capacità di lavoro e di raggiungere accordi con altri gruppi politici. All’Economia và Luis de Guindes, un tecnico che ha già ricoperto incarichi con Aznar ed è stato assessore di Lehman Brothers per la Spagna e il Portogallo ed ha ricoperto altri incarichi in imprese private. Avrà un compito difficile. Dovrà condurre il Paese fuori dalla recessione stabilendo le basi del recupero economico. È abituato a queste sfide e chi lo conosce sa che non gli mancano le capacità per assolvere il suo compito. Rajoy ha diviso Economia e Finanze, a cui andrà invece il ministro Montoro, anche lui già con Aznar e fedele a Rajoy negli ultimi otto anni. Il suo obiettivo è portare il deficit al 4 per cento entro il 2012 e dovrà tagliare nell’Amministrazione dello Stato. Agli Interni và Jorge Fernàndez Dìaz, catalano, e dovrà svolgere un ruolo importante nel processo finale dell’Eta. L’ex sindaco di Madrid, Alberto Ruiz-Gallardòn, è stato nominato alla Giustizia e poi Ana Pastor alle Infrastrutture e Ana Mato alla Sanità. Ci sono due ministeri in meno rispetto al governo precedente. Educazione e Cultura, affidati al sociologo Wert, sono stati fusi. Nel discorso di investitura Rajoy ha messo in chiaro che occorre stringere la cinta ma non c’è quasi ambito in cui non abbia pianificato riforme: economia, lavoro, educazione, organizzazione amministrativa, ecc. La sfida principale riguarda il deficit pubblico. Il governo socialista ha lasciato un vuoto superiore all’8 per cento e Rajoy è obbligato ad un aggiustamento di 16.500 milioni di euro. L’impegno è durissimo. Il nuovo capo del governo ha detto che non vuole aumentare le tasse ed ha insistito sul fatto che la futura riforma del lavoro e lo snellimento dell’Amministrazione e del sistema finanziario daranno un contributo rilevante. Avrebbe forse dovuto chiarire con maggiori dettagli dove occorrerà tagliare per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Ha detto che intende eliminare i «ponti» di vacanza, i prepensionamenti e congelare l’offerta di impiego pubblico. Non intende cambiare il pensionamento a 67 anni riportandolo a 65 come in un primo momento era sembrato. Rajoy si è detto disponibile al dialogo con l’opposizione, cambiando il tono duro che lui stesso aveva tenuto prima di andare al governo e si è richiamato ad uno sforzo collettivo accentuando il riferimento alla lotta contro la disoccupazione. Ha detto che ci sarà una rivalutazione delle pensioni congelate da Zapatero l’anno scorso e que-

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sta sarà «l’unica spesa» in un programma di riduzioni in cui sarà riformato il calendario del lavoro. Ha aggiunto che non si possono scartare «necessità di adottare in futuro nuove misure» nell’ambito di questi discorsi ma le decisioni al riguardo saranno prese soltanto dopo avere conosciuto più accuratamente i conti definitivi e i dati precisi del deficit. Nel settore delle amministrazioni ci sarà lo stop al turnover per gli statali eccetto che nel settore della Sicurezza. Le imposte non saranno alzate ma nemmeno abbassate, nonostante Rajoy si sia opposto all’aumento dell’Iva e saranno assegnati 3.000 euro alle piccole imprese che creino un primo impiego. Nel settore finanziario si cercherà di promuovere nuove fusioni e di sanare i bilanci con la vendita di immobili. Nel primo trimestre del 2012 si cercherà di sviluppare una riforma del lavoro e si rafforzerà il controllo sull’assenteismo. Si procederà inoltre ad un criterio di ribassi nelle imposte alle società. È necessario poi sopprimere organismi pubblici e riformare il Tribunale Costituzionale. Nel settore dell’Educazione si intende procedere ad un intervento rilevante, l’aumento di un anno dell’età scolare negli studi superiori che dovrebbero passare da due a tre anni nella fase più alta prima di accedere all’università. Si pensa anche di estendere il bilinguismo spagnoloinglese in tutto il sistema educativo. Nella Sanità si cercherà di dare impulso ad un patto con tutte le parti implicate per sviluppare le riforme necessarie al sistema. Rubalcaba e il Psoe sembrano aver mantenuto inizialmente un tono pacato. Hanno ottenuto che Rajoy non ritorni ai 65 anni per la pensione e che non tocchi l’Iva ma Rubalcaba ha sottolineato che Rajoy è stato poco concreto nell’esporre il suo programma, specie sui tagli. «Dice una cosa o un’altra a seconda delle circostanze, cambiando opinione rispetto a quanto aveva detto prima». Tuttavia ha offerto un’opposizione leale e aperta al dialogo. «Se prende misure per spendere meno e meglio lo approveremo, se vuole smantellare lo Stato del benessere saremo decisamente contrari». Rubalcaba ha offerto a Rajoy accordi sulla politica europea, l’impiego e le amministrazioni ma non si è mostrato soddisfatto sulla proposta di riforma della scuola superiore. Ha fatto capire che occorre sviluppare un’analisi più meticolosa prima di prendere decisioni al riguardo. Dopo le prime misure adottate dal governo, Rubalcaba ha cominciato a cambiare atteggiamento. Ha convocato d’urgenza la sua squadra economica definendo «gravi ed ingiuste» le misure di Rajoy. Il governo ha aumentato l’Irpf fino al 2014 e la giornata degli impiegati pubblici è stata elevata a 37,5 ore mantenendo congelato il salario. È stato limitato l’aiuto economico a coloro che hanno un appartamento in affitto e dilazionata l’inclusione di altri beneficiari. I giovani fra i 22 e i 30 anni che si trovino in questa condizione riceveranno un aiuto di 210 euro mensili soltanto se già li percepiscono e saranno esclusi nuovi richiedenti. Intanto sarà elargito meno denaro a partiti e sindacati, che vedranno ridotte del 20 per cento le loro sovvenzioni. Nel Psoe ci si prepara al Congresso di febbraio per esaminare la situazione dopo il tracollo elettorale. L’iniziativa di Rubalcaba è la prima dopo aver annunciato la sua candidatura alla guida del partito. Ciò è avvenuto dopo che una trentina di dirigenti socialisti avevano firmato il manifesto «Mucho Psoe por hacer» in cui si sviluppa un’autocritica degli ultimi anni di Zapatero e della gestione del partito. I firmatari dicono di voler incidere in un dibattito

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sereno, tranquillo e serio all’interno del Psoe e trovare risposte che il partito deve offrire alla società dinanzi alle nuove sfide. Hanno atteso fino all’investitura di Rajoy per rendere pubbliche le divergenze interne che erano state sottaciute prima nonostante la sconfitta elettorale. Uno dei firmatari è Carme Chacòn, ministro della Difesa di Zapatero che per quanto non avesse ufficialmente presentato la sua candidatura, si era proposta di candidarsi alle scorse elezioni e fu costretta a rinunciare in favore di Rubalcaba. Il manifesto potrebbe essere ora il primo passo per ascendere alla direzione del Psoe. Lei ha negato di guidare qualunque alternativa alla direzione del partito ed ha affermato di essere soltanto un membro in più tra i firmatari per aprire un dibattito costruttivo ma alcuni esponenti socialisti che prima avevano sostenuto Rubalcaba si sono schierati esplicitamente con lei. «Il Psoe ha bisogno urgente di un leader», affermano, «ed il dibattito non si chiuderà con il Congresso di febbraio.» Tra i primi provvedimenti del governo Rajoy c’è la conferma di non aumentare l’Iva, che pesa su tutte le classi sociali. Per ottemperare agli impegni con l’Europa l’esecutivo si è visto costretto ad adottare una serie di misure urgenti in via, è stato detto, «eccezionale, straordinaria e temporanea» per tagliare il deficit. Rubalcaba ha dichiarato che queste misure ricadono sui ceti medi e bassi, giovani e pensionati e porteranno «ad una grave depressione economica». Le pensioni, però, salgono dell’1 per cento dal 1° gennaio con aumenti del 2,9 per cento nelle minime. Lo scorso anno si approvarono soltanto gli aumenti delle minime e non contributive. Le altre si congelarono. Il nuovo esecutivo ha anche prorogato di sei mesi l’aiuto di 400 euro ai disoccupati, che scadeva a febbraio. Ne beneficeranno 125.000 persone che hanno esaurito le loro prestazioni, non hanno più redditi e partecipano a programmi di formazione. Riduzioni sono state decise fra sottosegretari e direzioni generali dello Stato per il 18,9 per cento. È ricominciata la battaglia a parti politiche invertite.

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I CALCOLI SBAGLIATI DELLA CINA

«SUB-PRIME» alla pechinese di DANIELA BINELLO IL GIGANTE cinese è stato smascherato. La sua bella cera, quella che ostenta all’esterno, è tutta una finta. Come in un organismo vivente, il gigantismo degenera in malattia quando la crescita dell’individuo è avvenuta troppo rapidamente, tanto da provocare l’alterazione della colonna vertebrale in altezza o spezzando le anche. Allo stesso modo la Cina si è ammalata. Cresciuta a dismisura nei decenni scorsi, si ritrova oggi con il suo sistema fisiologico interno minato, tanto da essere costretta a correre ai ripari ponendo un freno all’aumento del Pil (del 9,2 per cento nel 2011 e che le previsioni danno all’8,3 per cento quest’anno). La diagnosi preoccupa Pechino che, però, fino al 2014 avrà le mani legate. Il Paese, infatti, sta andando verso una transizione politica di quelle che avvengono soltanto ogni dieci anni, con l’attuale leadership al governo che si avvia alla scadenza del mandato. Nel 2013 verranno scelti il nuovo segretario del Pcc e il primo ministro, il cui gravoso banco di prova sarà costituito dalle riforme economiche interne, che non potranno essere attuate prima del 2014. Quindi, visto che l’attuale esecutivo è a fine corsa non adotterà manovre, per così dire, rivoluzionarie, così questo sarà un biennio perso. Qual è la malattia del gigante cinese è presto detto: i consumi interni non crescono come ci si sarebbe aspettati (sebbene sempre alti in valore assoluto, l’incremento non supera il valore del Pil) e visto che con la crisi economica mondiale le esportazioni hanno subìto una frenata, il grande mercato interno cinese, se i calcoli non fossero stati sbagliati, avrebbe rappresentato l’isola del formaggio. Ma, evidentemente, anche la precisione algebrica della Cina questa volta ha toppato (segno dei tempi) e così le previsioni sono risultate ingannevoli. Bisogna tener conto, inoltre, che la Cina continua a essere molto esposta nei finanziamenti verso l’estero, perché è con quel flusso di denaro che si appropria di materie prime e di un ruolo di prestigio sempre più crescenti. Il crack economico che ha travolto gli Stati Uniti e l’Europa ora si sta dirigendo in Estremo Oriente e molti analisti finanziari credono che le misure aggressive prese da Pechino per scongiurare la recessione interna non riusciranno ad ammorbidire il colpo. Quest’anno, infatti, la contrazione del rapporto tra consumi privati e crescita per i Cinesi sarà ancora più pesante del previsto e i suoi effetti sono già largamente visibili soprattutto nel settore immobiliare. Il real estate (il patrimonio immobiliare privato) si è rivelato un vero tallone d’Achille. In Cina, dove le banche hanno spinto gli investitori cinesi a investire nel mattone, acquistando edifici, appartamenti, centri direzionali, ma anche hedge fund speculativi a sostegno del settore, la bolla immobiliare è già scoppiata, generando un effetto inflattivo. Oltre a un calo nel valore delle singole proprietà private, sono rimasti invenduti o sfitti interi complessi abitativi o grattacieli costruiti per ospitare uffici di dimensioni

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megagalattiche e sono rimaste inabitate addirittura alcune nuove città tirate su ex novo, come Kangbashi (nel deserto mongolo) e Lingang (alle porte di Shanghai, ma distante dalla costa). Gli acquisti speculativi erano sembrati un grosso affare per i Cinesi ricchi e per le società in grado d’investire in questo settore, ma ben presto, man mano che i consumi sul mercato interno cinese diminuivano, i nuovi insediamenti urbani sono rimasti privi sia di compratori sia di nuovi inquilini. In pratica, quello che si prospetta anche in Cina, è l’incubo che ha afflitto noi occidentali, laddove con la recessione si sono verificati numerosi casi d’insolvenza del mutuo (con la conseguente perdita dell’immobile) e con il fallimento delle imprese che avevano puntato su quel tipo d’investimento, usufruendo di crediti bancari piuttosto largheggianti (e che ora non sono più disponibili, ma è troppo tardi). Per costruire Lingang, ad esempio, la città satellite sorta attorno alle rive di un lago artificiale, sono stati spesi 16 miliardi di euro. Ci sono ventiquattro ponti e quaranta chilometri di arterie. I condomini sono circondati da giardini e canali e sono stati predisposti persino centri commerciali e palazzi uffici. Insomma, c’è tutto, perché il progetto era di farne una città per un milione di abitanti, di cui per ora non se ne vede l’ombra. Fiaschi di questo tipo hanno messo in evidenza la fragilità delle banche cinesi, che adesso si trovano a corto di liquidità e con un patrimonio immobiliare in calo di valore in pancia. Ma i vecchi interessi speculativi sono duri a morire e oppongono resistenza verso qualsiasi cambiamento. Lo Stato, perciò, attraverso il Fondo governativo di sicurezza ha cominciato a comprare le azioni delle quattro maggiori banche nazionali per proteggerle dal rischio di un ulteriore indebolimento, ma alle nostre orecchie tutto questo sembra la cronaca di ieri. Possibile che sia accaduto anche in Cina quello che soltanto pochi anni or sono ha travolto l’America? Eppure è accaduto, anche se Pechino per tutta risposta, all’opposto di quello che vorrebbe Washington, ha deciso di svalutare lo yuan. Nel 2012, inoltre, la Cina dovrà digerire l’ingerenza americana su Taiwan, dov’è appena stato riconfermato Ma, il presidente taiwanese che ha ottenuto il secondo mandato. E poi c’è il «bambino viziato» di Pyongyang. La Corea del Nord, un museo del passato sempre più decadente e triste nelle sue strutture, è una mina vagante per tutta la regione. Paradossalmente è perfino auspicabile che gli Stati uniti continuino a tollerare la dittatura dei «Kim» (dal dicembre 2011 è subentrato al potere il 29enne Kim Jong-un), perché se disgraziatamente mettessero un embargo sulla Corea del Nord le conseguenze potrebbero essere inimmaginabili, dalla guerra (nucleare) all’esodo di 23 milioni di nordcoreani verso la Corea del Sud, un altro Paese che nel corso dell’anno eleggerà la sua nuova Assemblea nazionale e poi anche il suo nuovo presidente. La Cina, dal canto suo, si è a dir poco stufata del suo «bambino viziato» (la Corea del Nord) e conta più che altro sul fatto che nel giro di due o tre anni al massimo Pyongyang imploderà su se stessa. Dietro la facciata aggressiva e protettiva che la Cina ha sempre mostrato al mondo quando sembra vengano toccati i propri interessi nella regione coreana, la verità è che Pechino intrattiene un fitto scambio d’opinioni sui potenziali scenari nordcoreani con la controparte americana, dimostrando una maturità e una flessibilità geopolitica che solo ad occhi ingenui potrebbe risultare sorprendente. Cina, un Paese, due sistemi, ma noi aggiungeremmo anche molte più misure.

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KOREA DEL NORD

VA IN SCENA il delirio di FRANCESCO ROSSI NON È cinismo quello che porta a sorridere di fronte a tante persone in pianto disperato. Non lo è quando le persone in preda ad una crisi di pianto sono i cittadini della dittatura comunista della Corea del Nord, gravemente affranti dalla morte della loro «cara guida» Kim Jong Il. Quello che fa sorridere è l’incredulità di noi occidentali di fronte ad un popolo che come una sola persona versa delle lacrime per la scomparsa del loro capo di stato, un tiranno che li ha ridotti alla fame ed il cui regime ha superato le vicende descritte dal celebre romanzo di George Orwell, Il grande fratello, perché l’immaginazione espressa in questo lavoro letterario è nettamente superata dalla realtà della Corea del Nord. L’esemplificazione della repressione della dinastia dei Kim è il kwan-li-so. È il sistema dei campi di lavoro forzato che il Paese ha istituito (in maniera automatica, essendo uno Stato comunista) per più di cinquant’anni e che è divenuto - se possibile - ancora più brutale proprio durante il regime del compianto Kim Jong Il. Secondo alcune stime, ci sarebbero all’incirca 200.000 persone in queste «comunità», uomini, donne, bambini, tutti imprigionati senza processo, molti dei quali non tanto per presunti reati - quando si tratta di reati, questi consistono nel furto di cibo per evitare di morire di inedia - quanto per il crimine del «pensiero sbagliato». Non che la vita all’esterno dei campi sia molto migliore. Durante gli anni ottanta, la politica della «grande guida» Kim Il Sung, dell’affidamento su sé stessi, consisté nell’interrompere la maggior parte dei legami commerciali, compresi quelli con i tradizionali alleati della Cina e dell’Unione Sovietica. Al tempo stesso, l’economia rigorosamente controllata dallo Stato bloccò la produzione agricola. Il poco denaro delle casse statali fu destinato all’esercito. Le conseguenze di questa suicida politica economica non furono difficili da prevedere, anche perché veniva ripetuto quanto accaduto con la prima, (e particolarmente disastrosa, nel senso di maggiormente disastrosa di quelle che seguirono) riforma agraria di Mao-Tze-Tung. La carestia ha ucciso dal 1995 al 1997 dai due ai tre milioni di Coreani del Nord. I pochi visitatori che sono riusciti tra mille difficoltà ad inoltrarsi in questo inferno che ancora persiste e ad esserne testimoni, insieme ai rifugiati che hanno beneficiato del miracolo della fuga riuscita, hanno raccontato della devastazione subita dal Paese. Corpi senza vita che giacciono nelle strade, bambini che si nutrono d’erba per sopravvivere, episodi di cannibalismo, con le famiglie che proteggono i cadaveri dei propri parenti per evitare che vengano divorati dai vicini accecati dalla fame. Eppure i poveri coreani che hanno vissuto e tuttora vivono questa esistenza non soltanto hanno pianto alla notizia della morte di Kim Jong Il il 19 di dicembre scorso, ma hanno pianto di nuovo per il giorno del funerale, il 28.

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Come è possibile questa isteria collettiva? Da un lato, la popolazione, isolata dal mondo, è stata allevata al culto della personalità del capo, alla credenza che tutto quello che ha (si fa per dire) è merito di Kim Il Sung o del figlio Kim Jong Il; e non avendo altra possibile fonte di conoscenza della realtà, i cittadini possono essere capiti se piangono. C’è comunque anche un’altra ragione molto più pragmatica: ciascuno degli abitanti sa che non soltanto chi è in cerca di promozione (nell’esercito, tra i funzionari pubblici) potrebbe vedersi negata la promozione se catturato dalle telecamere non particolarmente turbato dalla morte della cara guida, ma anche quei comuni cittadini «non devastati emotivamente» dalla tremenda notizia potrebbero finire in guai seri. Meglio versare lacrime in abbondanza e se uno pensa in che cosa consistono quei guai seri per lui e per i propri parenti (la parentela con qualcuno che ha offeso il regime diviene anch’essa automaticamente fatto di reato) le lacrime scorrono con più facilità. Secondo il racconto ufficiale - l’unico naturalmente ammesso - la nascita di Kim Jong Il avvenne a seguito di un miracolo. Era il 1942 quando un doppio arcobaleno ed una nuova stella nei cieli segnarono il suo arrivo sul Monte Paektu, nella Corea del Nord. Anche i dettagli non miracolosi sono falsi. Secondo gli archivi sovietici, Kim Jong Il nacque nel 1941 in un villaggio vicino alla città russa di Khabarovsk, sul confine cinese, dove il padre era alla guida di un battaglione dell’Armata Rossa composto da esuli cinesi e coreani. La parte mitologica è stata alimentata dallo stesso tiranno comunista , che si è sempre promosso come un Dio tra gli uomini e che molto modestamente ha accettato la carica onorifica di «Guardiano e divinità del pianeta». Uno dei pochi titoli che Kim Jong Il non ha reclamato per sé è quello di Presidente. È difficile da credere anche per gli standard della Corea del Nord, eppure il padre Kim Il Sung mantiene tuttora quella carica, anche dopo la morte nel 1994. Il suo ritratto che rigorosamente appare in ogni edificio serve a ricordare al popolo che Kim Il Sung continua ad osservare i suoi sudditi. L’intento non è certo quello di terrorizzare gli abitanti, perché a quello ci pensava il figlio. Kim Jong Il ha raggiunto il dubbio merito di essere più repressivo del padre, che almeno, si racconta, in alcuni casi si consultava con i suoi consiglieri per gli affari di Stato. Lui, il figlio, ha sempre richiesto il controllo assoluto e non ha usato mezze misure con quelli sospettati di dissenso, cioè, sfortunatamente per i Coreani del Nord, praticamente con tutti. Niente meglio di una mappa satellitare della penisola coreana descrive la bruttura della dittatura comunista del nord. Un mare di luci illumina la Corea del Sud. Dopo il confine, appare un nero uniforme, interrotto soltanto da una luce solitaria, quella della capitale della Corea del Nord, Pyongyang. Il resto del Paese è spento. Il suo popolo moriva di fame, ma Kim Jong Il aveva in uggia le rinunce. La sua cantina era rifornita con 10.000 vini francesi. Gli abitanti sopravvivono con un reddito equivalente a 900 dollari all’anno, mentre la «cara guida» spendeva 700.000 dollari soltanto per il suo amato cognac Hennessy. Il suo Paese si appellava ai fondi dell’Onu per combattere la fame, ma Kim Jong Il aveva il cuoco personale per il sushi e si godeva delle prelibatezze come la minestra di pinne di squalo. Durante le fermate a bordo del suo treno personale, gli abitanti «spontaneamente» gli do-

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navano delle aragoste e lui faceva i suoi pasti con le bacchette d’argento. Le difficoltà del popolo, quando vengono riconosciute, sono ascritte alle influenze esterne come gli Stati Uniti e la Corea del Sud. Numerosi musei sono dedicati esclusivamente alla propaganda anti-americana. Quali sono gli scenari per il futuro? Il successore è già stato designato, è il figlio minore di Kim Jong Il, Kim Jong Un, guida suprema dello Stato e dell’esercito. In realtà, sembra che al posto del tiranno scomparso verrà costituita una sorta di «direzione collettiva», concepita dallo stesso Kim Jong Il per guidare il figlio ancora non all’altezza. Ne faranno parte oltre il figlio, lo zio e i maggiori comandanti militari. È vero che i militari hanno tutto l’interesse a sostenere il regime, però, al tempo stesso ci sono i presupposti per una lotta di potere tra alcune fazioni militari e i membri del partito comunista. Non si possono neppure escludere episodi di follia pura, compiuti con lo scopo di consolidare il potere interno e scongiurare lotte intestine. Il regime potrebbe attaccare senza motivo, come già ha fatto più volte, la Corea del Sud , o trovare un pretesto per usare le sue armi allo shrapnel. In questo caso - che è bene sottolineare non è così al di fuori della realtà - la Cina potrebbe agire in maniera opposta rispetto alla guerra di Corea del 1950-’53 ed intervenire militarmente per finire il regime dei Kim, invece che per sostenerlo. Seoul è la vittima più probabile perché posta a nord della zona demilitarizzata che divide le due Coree e si trova facilmente nel raggio d’azione degli 11.000 pezzi d’artiglieria della Corea del Nord. Nel caso peggiore, cioè se dovesse lottare per la sopravvivenza, non soltanto la Corea del Sud, ma anche gli Stati Uniti ed il Giappone si possono aspettare di tutto: missili a lunga gittata truccati, attacchi terroristici, armi chimiche e perfino armi nucleari. Alla luce di questi scenari, la migliore soluzione sarebbe la lenta fine per consunzione del regime dei Kim Gli Stati Uniti dovrebbero comunque premunirsi per il peggio, proteggere gli alleati nella regione e, di nuovo all’opposto di quanto avvenne nella guerra di Corea, allearsi con la Cina per controllare questa bomba ad orologeria che si chiama Corea del Nord.

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LA MACCHINA DEI FONDI PERDUTI

La macchina dei fondi perduti di DANIELA ALBANESE FEBBRAIO 2012: il bilancio delle feste post natalizie, come tutti gli anni, è in nome dello spreco. Vittime di un sistema che non diventerà mai virtuoso, nemmeno sotto i colpi della crisi, siamo tutti obbligati a comprare ed a consumare. È proprio lo spreco di fronte alla fame la vera anomalia dei nostri tempi. Eppure la Fao, con la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, ci chiama ogni anno a riflettere su ciò. Così purtroppo, soltanto per un attimo, torniamo a prendere atto che fame e malnutrizione non spariscono dalla faccia della terra neanche per sbaglio. Tra i tanti, è questo forse il vero, il più serio e potente motivo per sentirsi indignati oggi. Le notizie che l’anno appena trascorso ci ha portato dal Corno d’Africa, colpito da una carestia che ha coinvolto 13 milioni di persone soprattutto in Somalia, Kenya ed Etiopia, non sono di nuovo state sufficienti a smuovere le coscienze. La cosa sconvolgente è che il problema del miliardo circa di persone che soffrono di malnutrizione e fame è, tra tutti i problemi che ha oggi la comunità mondiale, uno di quelli di più facile soluzione: sarebbe sufficiente averne la volontà.

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L’Africa ha sempre rappresentato una priorità negli aiuti pubblici allo sviluppo per la maggior parte dei Paesi industrializzati, infatti i fondi stanziati ogni anno, potrebbero risolvere in buona parte le carenze in molti di questi Paesi. Ricordiamo che nel solo «G8» vennero stanziati 20 miliardi di dollari in tre anni per l’Africa. Ma non essendo l’Africa uno Stato con il suo bel bilancio, la sua Banca Centrale, verrebbe da chiedersi: quanti soldi vanno al Congo? Quanti allo Swaziland? Quanti al Ghana, alla Repubblica Centrafricana, all’Eritrea, all’Egitto, al Burkina Faso? E alla piccola Guinea Equatoriale? E cosa si fa con questi soldi? Chi controlla che «si faccia sul serio»? Si diceva che durante tutti i «G8», «G14», «G20» i Paesi ricchi stanziano i soldi per l’Africa. Ma quanti? Come? Dove? Per fare che? C’è stato chi ha insinuato che almeno parte di quei 20 miliardi fossero fondi già stanziati in precedenti «G8» e mai erogati. Concentrando la nostra attenzione su come l’Italia in particolare gestisce la politica di cooperazione internazionale, saltano fuori delle conclusioni realisticamente negative. Fra l’altro, a conferma del fatto che siamo il Paese dell’immobilismo, abbiamo ancora una legge sulla cooperazione datata 1987. Sarà cambiato un po’ il mondo dall’87 ad oggi, o no? Partiamo dai primi decenni in cui la cooperazione si basava per lo più su interventi centralistici, fatti attraverso i governi nazionali il cui fine era l’industrializzazione accelerata, la meccanizzazione agricola e la diffusione di opere pubbliche come strade, dighe, ponti. A seguire negli anni Sessanta si fa strada una forma diversa di cooperare, su base volontaria. Associazioni, gruppi, movimenti laici o religiosi, occupano uno spazio fino ad allora di esclusiva competenza di governi e organismi sovranazionali. Nascono così le Ong (Organizzazioni Non Governative).

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Guai a chi tocca le banche centrali! La stranezza degli Italiani è che sono convinti che Bankitalia sia dello Stato mentre in realtà è privata. È un ente di diritto pubblico con partecipanti al capitale privati per poco più del 94 per cento. Che gli Italiani siano convinti del contrario dimostra che la Banca d’Italia dovrebbe essere dello Stato, se non altro per il suo compito principale di stampare le banconote prima che, con l’avvento dell’euro, esso fosse delegato alla Banca Centrale Europea, a sua volta di proprietà delle banche centrali degli Stati dell’Unione Europea, anch’esse private: la Deutsche Bank è la maggior «azionista» col 18,94 per cento; c’è poi la Bank of England col 14,15 per cento, la Banque de France col 14,22 per cento, la Banca d’Italia con il 12,50 per cento e poi tutte le altre con quote minori. Per la gente comune è una stranezza che i loro soldi siano stampati a pagamento da privati e non in proprio dallo Stato. Tanti sono convinti che sia la Zecca a stampare il denaro. In parte è vero , in quanto essa conia le monete metalliche, ovvero il denaro che costa di più ad essere prodotto e vale di meno come valore nominale. È infatti logico che coniare una moneta di lega metallica sia un’operazione molto più costosa che stampare della carta filigranata, alla quale viene dato un valore nominale di gran lunga superiore a quello degli spiccioli. Ma, guarda caso, l’operazione più costosa è riservata allo Stato, mentre quella altamente remunerativa al privato. Ragioni storiche hanno portato a questa anomalia, causa efficiente del debito pubblico. Pochi ricorderanno che nel 2005 il governo Berlusconi, con la Legge n.262 «A tutela del risparmio», art.19, punto 10 aveva stabilito che entro il gennaio 2009 le quote dei privati partecipanti al capitale della Banca d’Italia passassero a enti dello Stato. Era un segno abbastanza chiaro il Governo Berlusconi era convinto della necessità di riportare sotto il controllo dello Stato, e quindi del popolo sovrano, la Banca centrale. Non se n’è fatto nulla, perché una legge, che andava a far coincidere la realtà con ciò che la gente comune è convinta che sia e non è, e quindi esercitava la volontà popolare, è rimasta lettera morta. E la Banca d’Italia è rimasta ai privati. Chissà se quando il Cavaliere diceva che anche se era il capo del governo non riusciva a fare quello che voleva si riferiva anche a questo. Sta di fatto che da quel dì sono iniziate le sue sventure, culminate con le dimissioni nel 2011. Qualcun altro, prima di lui, ben più importante, aveva pensato di toccare gli interessi di una banca centrale: la Federal Reserve. Il primo, Abramo Lincoln, nel 1864 inserì nel suo programma per la rielezione alla presidenza il punto che lo Stato, e non la Federal Reserve, avrebbe provveduto a stampare i dollari. Il 14 aprile del 1865 fu assassinato. Il secondo, J. F. Kennedy, il 4 giugno 1963 firmò l’ordine di stampare dollari di Stato per 4 miliardi e mezzo in tagli da 5 e 2 dollari, fece la stessa fine il 22 novembre 1963. LAURA LODIGIANI

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Lo stile di lavoro iniziale ha un’impronta caritatevole: raccogliere quanti più beni o soldi possibili e inviarli a chi ne ha bisogno. Ben presto si passa ad azioni più definite e strutturate, attraverso l’uso del progetto che le stesse istituzioni assumeranno come proprio strumento operativo e inizieranno pure a finanziare direttamente le Ong, riconoscendo la loro capacità di stare a maggiore contatto con le comunità locali. Pare altrettanto certo che incaricare dell’assistenza umanitaria le Ong, sia il modo migliore per ottenere degli ottimi risultati: le risorse loro affidate, almeno sembra, sono in buone mani e non vengono sprecate come invece succede quando ad operare sono le grandi agenzie delle Nazioni Unite che finiscono per spendere, in stipendi dei funzionari e in grandi eventi promozionali, gran parte del loro bilancio. Ma c’è chi al contrario ritiene che il mondo delle Ong non sia poi così lusinghiero: sprechi, operatori improvvisati e irresponsabili, cifre gonfiate sull’entità di un’emergenza per ottenere più finanziamenti, concorrenza per aggiudicarsi l’attenzione dei mass media e quindi i fondi dei governi e degli organismi internazionali. Fatto ancora più grave è che una quantità immensa di denaro e di beni destinati alle popolazioni finiscono, sotto forma di dazi per il transito dei convogli, di estorsioni, di percentuali concordate con le autorità politiche e militari, nelle mani dei combattenti, dotandoli delle risorse necessarie a combattere e quindi ad infierire sui civili inermi. «Grazie ai proventi delle trattative con le organizzazioni internazionali», sostiene la giornalista olandese Linda Polman, «i gruppi in lotta mangiano e si armano, oltre a pagare i loro seguaci» e questo influisce in maniera decisiva sull’intensità e sulla durata delle guerre. I programmi molto spesso seguono logiche autoreferenziali che non tengono conto delle reali esigenze della popolazione a causa anche del lassismo delle istituzioni che si rapportano a chi realizza i progetti in maniera ambigua e corrotta. Padre Efrem Tresoldi, direttore della rivista missionaria Nigrizia, ricorda «un impianto di fertilizzanti costruito a pochi chilometri da Mogadiscio: non ha mai prodotto un chilo di concime perché sarebbe stato necessario il petrolio, che in Somalia non c’è». Opere inutili, sbagliate, a volte persino dannose e portatrici di ulteriori conflitti in loco, imbrogli e ruberie di molti regimi locali, corrotti dalle imprese occidentali beneficiarie degli appalti. Inoltre, l’esempio di una strada in Somalia realizzata col nostro contributo: ci si chiedeva il perché di una strada che era totalmente inutile, e la risposta la diede il coraggio di chi cercava la verità: quella strada era stata realizzata perché sotto erano nascosti rifiuti tossici. Pensiamo all’Afghanistan, la seconda nazione più corrotta al mondo, i vertici del potere possono essere esenti dal vizio? Certo che no. Molte situazioni mostrano come l’80 per cento dei finanziamenti, e anche più, è utilizzato per sostenere viaggi, alloggi, auto di servizio delle stesse organizzazioni locali, dove i bravi tecnici, pagati profumatamente, mancano di sensibilità culturale e conoscenza dei principi umanitari. Tutto ciò significa stravolgimento del senso stesso di cooperare dove gli interventi servono più a chi li fa che a chi li riceve. «Gli aiuti stanno uccidendo l’Africa», così Dambisa Moyo, economista originaria dello Zambia, sostiene che il diritto degli esseri umani al nutrimento, all’acqua potabile, all’educazione e persino ai sogni non lo si può alimentare con le sovvenzioni o la carità. Gli aiuti innescano da anni un circolo vizioso: il più delle volte finiscono nelle mani dei dittatori che li utilizzano per le proprie necessità, con sfoggi di opulenza, mentre la gente muore di fame.

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TERZA PAGINA LA GUERRA DELLE PAROLE

L’hanno vinta i comunisti di GIANFRANCO DE TURRIS IL FATO ha deciso che morissero contemporaneamente due personaggi diametralmente opposti: Kim Jong-Il, dittatore di uno dei più duri e repressivi Paesi comunisti del mondo, la Corea del Nord (17 dicembre, ma la notizia è stata data il 19) e Vaclav Havel, l’intellettuale campione dell’anticomunismo cecoslovacco e per due volte presidente del suo Paese (il 18 dicembre). Sicché stampa e televisione ne hanno parlato praticamente insieme e questo particolare ha sollevato un caso lessicale. Infatti, come ha giustamente notato Paolo Guzzanti su Il Giornale (22 dicembre) ad alcuni i termini «comunismo» ed «anticomunismo» sono rimasti nella penna o nel computer e in gola. Parlando di queste due figure non sono stati mai pronunciati dal Tg3 diretto dalla signora Berlinguer e stampati da la Repubblica diretta da Ezio Mauro. E nemmeno l’austero nostro capo dello Stato, l’ex Pci Giorgio Napolitano, tessendo l’elogio di Havel ha pronunciato la fatidica parolina. Nessuno si è scandalizzato o preoccupato o ci ha disquisito sopra traendone la morale. Questa è l’Italia commissariata non dal professor Monti ma da un che ben più potente di lui: il Politicamente Corretto. Certe parole non si dicono o scrivono più: come «negro» anche «comunista» è un termine ormai verboten. Se lo adotti qualcuno si potrebbe offendere e, alzando il sopracciglio, Ti guarderebbe in tralice. Si capisce allora il motivo per cui quando Berlusconi tirava in ballo i «comunisti» per qualcosa tutti si mettevano a ridere: ma non esistono più! Ma con chi se la prende quel buffone del Cav? Il Pci è defunto, l’Urss non c’è da vent’anni, ma che vuole? Ma che scuse cerca? Ma con chi ce l’ha? Il comunismo è come se mai fosse esistito, nonostante abbia domina-

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to in Europa per 70 anni, che domini ancora atrocemente in alcune nazioni asiatiche, che abbia fatto in questo periodo e in tutto il mondo, come hanno calcolato storici europei, oltre 100 milioni di morti, che in Italia vi sia stato un partito, il Pci di Togliatti, Longo, Natta, Berlinguer, Occhetto, che ha avuto milioni di voti, che è stato alla soglia del potere e che se lo è comunque indirettamente spartito con la Dc per decenni grazie al «consociativismo» piazzando i suoi uomini dappertutto e traendone vantaggi sino ad oggi. Il comunismo e i comunisti (a parte Ferrero & C. che però non contano nulla) non esistono nel linguaggio che va per la maggiore. L’abilità somma del comunismo, anzi dei comunisti, è stata quella di farsi rimuovere dalle radici, di non far considerare il suo nome come qualcosa di negativo associato a crimini efferati, ai milioni di morti, a tragedie epocali, di non far ritenere la definizione «comunista» come una accusa, come un’offesa. Non esiste, non è esistito, non se ne parla più, basta. Come si è ottenuto questo strabiliante risultato? Grazie agli intellettuali in genere, ma soprattutto grazie ai giornalisti che impongono quel che si deve dire e quel che non si deve dire, e così pian piano instaurano una moda, una tendenza, una assuefazione generalizzata. Tutta gente «di sinistra» ovviamente, anzi radical chic per dirla all’americana (Tom Wolf) o gauche caviar per dirla alla francese. Nei «salotti buoni» guai a pronunciare quelle parole: è volgare, fuori luogo, inopportuno, discriminante. Ti guardano male i ricconi «impegnati», gli eredi di coloro che coccolavano i contestatori del Sessantotto. Nonostante le tragedie che sono alle spalle di «comunismo» e «comunista». Un

trionfo, ancora un altro, l’ennesimo, della guerra delle parole giocata giornalmente sulla carta stampata e sul video da persone che sanno benissimo come ci si deve comportare per ingannare lettori e telespettatori, anche se il comunismo è appena alle nostre spalle, è ancora dietro l’angolo, vessa tutt’oggi oltre un miliardo di persone in tutto il mondo. Mentre, sempre per restare in ambito lessicale a dimostrazione del predominio assoluto di questa élite prevaricatrice, tutt’altra sorte riguarda «fascismo» e «fascista», termini di larghissimo consumo riferiti ad un regime sconfitto quasi 70 anni fa e di cui non si ha notizia che governi qualche nazione nel globo terraqueo. Bei tempi, quelli tra le due grandi guerre del Novecento, in cui si poteva gridare «Morte al fascismo, libertà ai popoli!» e l’intellighenzia filocomunista cominciava ad egemonizzare la cultura specie di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, ponendo le basi della situazione attuale… Eppure, nonostante le cose nel XXI secolo siano radicalmente mutate, in Italia esiste sempre una «emergenza antifascista», le «trame fasciste» non sono mai state sgominate, dai «rigurgiti fascisti» bisogna stare sempre in guardia, i «killer fascisti» spuntano ogni tanto, e «agguati fascisti», «violenze fasciste» non mancano mai. Il termine è inflazionato (lo diceva già molto tempo fa Renzo De Felice) e serve a indicare tutto e il contrario di tutto, ma essendo una parola a connotazione negativa a priori e per definizione vale per ogni occasione, per ogni insulto, per ogni offesa, per bollare in qualsiasi ambito chi si vuole mettere fuori gioco (in specie nella cultura, informazione, giornalismo). In molti lo sanno benissimo. Ma anche per «fascismo» e «fascista» ci sono le dovute eccezioni e in qualche caso lo si dimentica senza porsi tanti problemi: anche qui come se non fosse esistito, ma soltanto quando fa comodo. Si veda l’esempio del defunto Giorgio Bocca, morto a 91 anni il giorno di Natale. Praticamente nessun politico, intellettuale, collega su giornali e TV, eccetto rare e lodevoli eccezioni, hanno ricordato il suo passato fascista, ed il suo esser diventato antifascista sol-

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58 tanto dopo il 25 luglio. Eh, ma da giovani lo furono (quasi) tutti! Certo, la generazione di Bocca, di Scalfari, di Spadolini e di tantissimi altri si formò a quell’epoca e scrisse a quell’epoca: ma certo nessuno era costretto per fare il giornalista o lo scrittore a firmare certi testi oltranzisti, ferocemente antiebraici, esaltatori dei Protocolli: potevano scrivere di ben altro, o no? Bocca lo fece in maniera virulenta (i suoi articoli sono stati più volte ripubblicati). Lo si poteva ricordare, e magari non condannare dicendo che poi alla fine si era «redento» (per usare il termine di Mariella Serri per indicare gli ex fascisti passati al Pci o ad altre formazioni di sinistra e quindi salvati dal loro passato che non è stato loro più rinfacciato). Non è stato fatto nemmeno questo, si è sorvolato e addirittura ancora il nostro presidente della Repubblica, ex pci, ne ha esaltato la«coerenza»! Potenza delle parole e potenza di chi le impone o le rimuove a secondo di quanto fa comodo. Ma è semplice: il «comunismo» ha vinto la guerra, il «fascismo» l’ha persa. Il primo è il Bene Assoluto per definizione giacché è dalla parte dei «più deboli», della «povera gente» e mira all’abolizione delle classi sociali, nonostante i milioni di morti e le speranze di tanti sempre deluse e tradite. Il secondo è il Male Assoluto per principio giacché voleva la discriminazione e la dittatura e non potrà mai essere «redento». Punto e basta.

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COSTITUZIONE TRADITA

Cupio dissolvi di MINO MINI AVEVA ragione Václav Havel quando, nella sua commedia del ‘65 «Circolare ad uso interno» a proposito dell’uso del ptydepe, la lingua degli iniziati, dei potenti, dei burocrati, affermava: «chi possiede la parola magica, “la frase che da il potere”, possiede il potere». Un potere esercitabile in forza dell’alienazione della turba anonima dei non iniziati, degli oppressi. Quello stesso potere oppressivo che si manifesta con l’uso del particolare ptydepe infarcito di inglesismi tecnicisti del nostro attuale presidente del Consiglio. Circolano sul web, a questo proposito, battute di pesante spirito goliardico. La più icastica, ancorché volgare, mascherata da comunicato d’agenzia recita: «Agli oscar del porno a Miami premiati due italiani ….il 2° posto a Rocco Siffredi per essersi “fatto” oltre 4.000 donne; l’Oscar a Mario Monti per essersi inc… to 60 milioni di italiani». Altro che «bunga bunga»! Riso amaro il nostro, per di più condito di sconforto per chi scrive libero professionista e per tre decenni sindacalista della professione - nel leggere il box di Claudio Noschese su Il Borghese di gennaio 2012 in reazione all’obiettivo di potere, chiaramente dichiarato da Monti e Passera, di porre mano alla riforma delle professioni. È pur vero che oggi il variegato mondo delle professioni è inquinato da mestieri che con l’etica della professio nulla hanno a che fare, ma per quelle che un tempo ne erano vincolate declassarsi a precaria categoria tecnico-economica è stato aver messo nelle mani del loro carnefice la corda per farsi impiccare. La professione sembra pervasa, nella sua maggioranza, da un desiderio di morte, dal desiderio di rinuncia di quello che fu il proprio ruolo civile per annullarsi, in una sorta di cupio dissolvi, nel magma del totalitarismo economicista che caratterizza l’attuale condizione dell’esistenza. Ed è con fastidio ed irrisione che reagisce allorché gli si ricorda qual era questo ruolo. Spieghiamoci. Nell’epoca della modernità degenerescente viviamo, come tutti sperimentiamo ogni giorno,

in una fase civile piuttosto problematica dove assistiamo al progressivo ridursi delle libertà individuali in omaggio al principio della convivenza democratica. In una situazione del genere i rapporti fra un individuo e l’altro e fra gli stessi e la collettività vengono affidati di continuo ad un insieme di conoscenze tecniche, di regole, di norme, di leggi espresse sempre in un linguaggio di difficile, se non impossibile, comprensione per i non addetti ai lavori. Il dialogo fra individuo e società diventa, in tal modo, impedito con il rischio conseguente del disfacimento civile. Occorrono, allora, delle persone in grado di comprendere questo linguaggio ostico, astruso - il ptydepe - e di interpretarlo per gli altri acciocché il dialogo fra individuo e società possa aver luogo ed essere civilmente fruttifero. Erano i professionisti ed i tecnici ad essere deputati a questo compito ed ogni società che aspirava ad essere libera e civile li aveva creati a propria misura. Nel mondo della riforma protestante, dove lo Stato sociale era nato ordinato in classi contrapposte dalla loro valutazione economica, la professione si estrinsecò - e si estrinseca tutt’ora - come una delle strutture della produzione. In un mondo come il nostro, invece, vocato all’organicità per tradizione protrattasi per millenni ad opera della visione universale romana divenuta, poi, cristiano-cattolica (da katholikòs = universale), persino nella nostra anomala forma di Stato borghese il ruolo della professione aveva mantenuto il carattere di organicità dei valori del vivere civile svolgendo il ruolo di interprete cosciente fra le esigenze vitali del singolo e quelle della collettività. Tanto da riproporlo, nel 1948, nella costituzione e nella legge costitutiva come istituto di pubblica necessità. Ruolo organico - appunto alla società ed alla sua civiltà giuridica in attuazione di un principio fondamentale di tutela del cittadino assunto dallo Stato. La professione veniva, a questo fine, sottratta alle «regole» dell’economia basate sulla concorrenza in regime di mercato affinché potesse esercitare il ruolo politico intermedio di garante.

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Febbraio 2012 Riconosciuto ed istituzionalizzato, se fosse stato debitamente coltivato avrebbe permesso alla libera professione di esercitare funzioni di controllo e di propulsione in difesa della collettività. Proprio quel ruolo che né il potere economico né quello politico erano disposti a riconoscergli nonostante il dettato costituzionale. Il primo per totalitarismo economicista, il secondo perché da quello infeudato. Nonostante la voglia di organicità, però, quello che i padri della costituzione non potevano prevedere era il letto di Procuste sul quale sarebbe stata costretta l’Italia a causa del conflitto interno al capitale riaccesosi dopo la fine del conflitto mondiale. Da un lato stirata, per sudditanza sancita ad Yalta, verso l’ideologia capitalistico-borghese che riduceva l’uomo alla sola dimensione economica, dall’altro accorciata dalla contrapposta ideologia capitalistico-comunista perseguente un identico obiettivo, ma di segno opposto. Entrambe, nei fatti, protese alla gestione del denaro pubblico - specialmente quello destinato alle opere pubbliche al di fuori di qualsiasi controllo che non fosse quello manovrato dal potere partitico in collusione con quello economico. Dalla VI legislatura fino al 1989 fu perseguito il disegno, sviluppato per anni e con costante determinazione, di eliminare i garanti, i professionisti liberi o al servizio esclusivo dello Stato, minando la loro credibilità presso i cittadini e rendendo loro la vita impossibile fino all’estinzione e sostituendoli abusivamente. Poi … cadde il muro ed il comunismo implose dopo aver spianato la strada al capitalismo borghese mediante la proletarizzazione della società democratica. I «poteri forti» - quelli che votano ogni giorno nelle borse di tutto il mondo - non si fecero scappare l’occasione: Con un partito comunista avviato a divenire una «cosa» liberal, pronta a tramutarsi in killer spietato pur di legarsi al carro della legittimazione guidato da un capitalismo vincitore per abbandono dell’avversario, tentarono di distruggere quanto non rispondeva alla degenerata visione totalitaria della finanza. L’occasione si presentò con la UE e le sue direttive comunitarie ispirate da società eredi della riforma protestante. Nonostante vi fosse ampio margine per conservare l’organicità delle nostre istituzioni libero-professionali, ci si volle deliberatamente appiattire sulle stesse. Fu una silenziosa rivolu-

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IL BORGHESE zione politica tradotta in termini tecnico-amministrativi che, con la complicità della tecnoburocrazia, distrusse l’antico rapporto tra Stato e cittadino, tra quest’ultimo e la libera professione. Ormai separata eticamente dalla tecnoburocrazia, dapprima interlocutrice per conto della collettività con la libera professione, quest’ultima fu ridotta ai margini della vita economica nazionale e internazionale mentre la prima ne occupava abusivamente gli spazi avvantaggiandosi della sua funzione di controllore pubblico per operare come «controllato». È di pochi giorni la «scoperta» di 3.300 casi, negli ultimi tre anni, di malatecnoburocrazia (ci si perdoni l’orribile neologismo) da parte di una Guardia di Finanza che fino a tre anni fa, evidentemente, «dormiva da piedi». La conseguenza, sul piano di civiltà, è stata devastante. Oggi abbiamo raggiunto la condizione in cui i giudici si «giudicano» e si «aggiudicano» incarichi e prebende distruggendo la fiducia del cittadino nei confronti dello Stato mentre gli esponenti tecnicamente più preparati di ogni professione si sono arresi alla logica di subordinazione al cosiddetto «mercato del lavoro» senza la minima possibilità di poter influire sullo stesso se non al ribasso. Degli altri, i più attivi mendicano una possibilità di lavoro presso quelli che sono divenuti i loro nemici, realizzano con gli stessi degli innominabili connubi o trafficano, attraverso gli Ordini ed il sottogoverno, la nomina a «gabelliere» in qualche commissione. I più si rinchiudono nel proprio «particolare» sopravvivendo in attesa della fine. Questo descritto è il processo di distruzione del ruolo che la libera professione aveva sulla carta costituzionale e che ha perduto, come già detto, per l’insipienza e il miope egotismo dei suoi componenti. Un processo distruttivo, perseguito come obiettivo strategico dai poteri forti e dai loro servitori politici, che investe soprattutto il principio di tutela del cittadino, ma che si configura come tradimento nei confronti della compagine civile cui viene tolta ogni libertà per opera del potere oppressivo dei detentori ufficiali del ptydepe. Tradimento la cui colpa va addossata - duole dirlo - anche alla libera professione che, in questo perverso gioco delle parti ha subìto passivamente trascinando nella propria caduta anche chi doveva tutelare. Ha agito come il selvaggio di cui diceva, nel 1963, Saverio Muratori: «Qui, in

59 politica, la nostra età è ridotta al livello del selvaggio che svende l’idolo dei suoi padri per una radio e che poi pretende di suonarla come un tam tam» (Architettura e civiltà in crisi pag. 195). Tradotto ed applicato al nostro caso: la libera professione ha svenduto l’idolo dei padri, il suo ruolo, per ridursi a struttura della produzione [la radio] ed ora batte i piedi rivendicando il diritto ad essere ascoltata mentre se la suona come un tam tam. Come se ne esce? In primo luogo acquisendo coscienza che il mondo di cui la vecchia professione era «istituto di pubblica necessità» va scomparendo. La crisi, e non ci si riferisce soltanto a quella economica, ci ha mostrato che «tutti i limiti dell’esperienza sociale sono stati superati ed ogni giorno di più constatiamo che i vecchi rapporti di valore comunemente impiegati perdono senso» (S. Muratori. Op cit.). Dobbiamo seppellire il vecchio mondo meccanicista per riconquistare, ad una scala più elevata, una più matura e organica visione della realtà. Dobbiamo compiere una grande svolta culturale che guidi la ricostituzione, su altre basi, di una compagine civile in grado di non disperdere ciò che l’umanità ha conquistato ed, al tempo stesso, elabori nuovi rapporti di valore in grado di misurare, in senso organico, la mutata dimensione del mondo. In altre parole: un’altra Italia ed un’altra Europa.

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CONTRO LE «LOBBIES» E LE PRIVATIZZAZIONI

Sindacalismo «anarchico» di NAZZARENO MOLLICONE NELLE ultime settimane, si è nuovamente acceso il dibattito politico e culturale sulle «lobby» che impedirebbero l’approvazione di norme cosiddette «liberalizzatrici» dell’economia nazionale per difendere «privilegi» ed interessi di categoria, facendo riferimento a categorie come le farmacie, gli avvocati (ed in genere i professionisti, compresi i giornalisti), i tassisti, i benzinai, i giornalai, i piccoli commercianti, e quant’altre operano in Italia: tutte genericamente definite «corporazioni». Al di là delle proposte specifiche delle «liberalizzazioni», che meritano un’analisi a parte, la questione relativa alle cosiddette «lobby» merita un approfondimento, partendo però dalla constatazione che tutti questi dibattiti sono da un lato estremizzati e dall’altro fuorvianti. Estremizzati perché servono a mettere sotto accusa categorie le quali, oltre ad avere una loro storia pluridecennale, hanno il «difetto» di essere piuttosto vicini al centro-destra e di voler essere «autonomi» rispetto a irreggimentazioni in cooperative od organismi similari. Fuorvianti perché tendono a dirottare sui lavoratori autonomi (in taluni casi, come quello dei tassisti, scarsamente incidenti sull’economia nazionale) l’ostilità di un’opinione pubblica - gravata dal peso fiscale, dalle limitazioni nella libertà economica individuale e familiare, dall’incertezza sul lavoro e sul tenore di vita - che altrimenti si dirigerebbe contro i veri padroni del momento che sono le banche, gli speculatori finanziari internazionali, la tecnocrazia europea. I quali, per poter agire indisturbati, non tollerano che ci siano gruppi organizzati: partiti, sindacati, e magari anche giornali che esprimano opinioni politiche e sociali indipendenti ed anticonformiste (chiaro riferimento ai tagli all’editoria!). È più facile dominare una massa informe d’individui lasciati soli dinanzi al «moloch» di uno Stato e di una Fi-

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nanza onnipotente che gruppi organizzati, competenti e solidali. Però nell’economia reale le «lobby» - intese come gruppi d’interessi comuni - esistono e sono sempre esistite e continueranno ad esistere, perché anche la sociologia c’insegna che i simili tendono ad unirsi in «comunità» aventi stessi interessi e stesso destino. In Italia esse si chiamano anche, in termini dispregiativi, «corporazioni»: errando, perché quella definizione ha una lunghissima storia risalente addirittura all’epoca imperiale romana, al medioevo (Dante era iscritto nella corporazione degli «speziali», gli odierni farmacisti ma all’epoca anche in qualche misura alchimisti), al periodo fascista che le istituzionalizzò. Qual è allora il problema? Che in Italia, le «corporazioni» di categorie produttive - che di fatto esistono perché rispondono ad esigenze reali - lasciate prive di qualsiasi regolamentazione, agiscono nei confronti dei governi, degli enti locali e delle altre associazioni in modo egoistico ed esclusivamente difensivo. In altri termini, anziché costituire un «corporativismo democratico» come da qualche parte è stato indicato (per differenziarsi da quello «fascista» basato su un partito unico nazionale), abbiamo un «corporativismo anarchico» ed individualista di ciascuna categoria, senza una visione unitaria dell’economia nazionale. A questo proposito è opportuna una considerazione. Negli anni scorsi era stata approvata dal Parlamento ma non convalidata dal referendum popolare la riforma costituzionale del bicameralismo prevedendo l’istituzione di un «Senato delle Regioni». Questo però sarebbe stato soltanto un’impalcatura elettorale che avrebbe avuto poco da deliberare e che di fatto avrebbe soltanto rialzato a rango costituzionale l’esistente «Conferenza Permanente Stato Regioni» per dirimere o deliberare le

Febbraio 2012 questioni attinenti agli ambiti delle materie «concorrenti» tra i due poteri, quello centrale e quello periferico. Noi invece pensiamo che sarebbe allora più opportuna la costituzione di un «Senato delle categorie», dove le legittime rappresentanze degli interessi economici e sociali potessero esprimere apertamente le loro proposte ed i loro giudizi sull’operato del Parlamento «politico», estendendo e rafforzando così l’intuizione costituzionale del «Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro» il quale è stato sempre volutamente ignorato dai partiti proprio allo scopo di respingere le categorie sociali fuori dell’ambito costituzionale e lasciarle, come abbiamo indicato, in uno stato «anarchico»: esistono, ma non hanno valenza giuridica. Basti dire che a tutt’oggi organizzazioni come la Confindustria e le altre associazioni di categoria (Abi, Federfarma, ecc.) sono, giuridicamente parlando, soltanto delle «associazioni di fatto» come una «bocciofila» od un «circolo del bridge». Eppure, incidono notevolmente sull’economia nazionale e sulla politica! Evidentemente, lo stesso discorso si può applicare alle Confederazioni Sindacali, per le quali è acceso il dibattito sulla concertazione o consultazione, di cui si è occupato un recente editoriale di Sergio Romano sul Corriere della Sera. Si dice che non è giusto che i sindacati vogliano concordare direttamente con il governo, prima di sottometterle al Parlamento, le normative riguardanti i loro rappresentati quali il sistema pensionistico, il diritto del lavoro, gli ammortizzatori sociali, le crisi aziendali di rilevanza nazionale, e via dicendo. Il discorso sarebbe valido se il Parlamento innanzitutto avesse al suo interno rappresentanze qualificate e competenti sulle questioni del lavoro (cosa che non sempre avviene e comunque non è prevista istituzionalmente) e, ancor di più, se fosse libero di discutere apertamente e punto per punto le questioni sottoposte. In realtà, con tutti i governi - ed a maggior ragione con questo che si avvale dell’investitura europea e quirinalizia, e dell’altisonante titolo di «tecnico» - è difficile che ciò avvenga: ragioni di tempo, ragioni politiche, questioni più urgenti strozzano qualsiasi discussione approfondita su aspetti che magari altri considerano marginali. I maxiemendamenti, i voti di fiducia, il contingentamento dei tempi chiudono la bocca ad una discussione approfondita e meditata sul merito.

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Febbraio 2012 Quindi, anche in questo caso le categorie dei lavoratori e dei pensionati (o corporazioni se vogliamo chiamarle così) sono costrette ad agire in modo «anarchico», cercando incontri e confronti con il Governo ed altre autorità, attuando iniziative di protesta e magari anche scioperi - per quanto del tutto inutile sia oggi questo strumento - perché sono prive di una presenza ufficiale in qualche organo costituzionalmente valido dove poter esprimere le loro proposte e richieste in modo da poter farle prendere in considerazione. Da quanto sopra esposto ne deriva che le pressioni di qualsiasi tipo di «lobby» (brutto termine americano che nasconde interessi poco chiari e condizionamenti finanziari per l’approvazione di leggine ad hoc ed elezioni presidenziali!) in Italia continueranno ad esistere perché le categorie sono ineliminabili in quanto rispondono ad interessi reali ed ad una secolare tradizione. Ed allora, anziché lasciarle strillare, creare ostruzionismi e premere fuori della porta della «cittadella dello Stato», non è forse meglio trovare un sistema armonico di confronto permanente e concreto sulle varie problematiche che si presentano? Altrimenti, continueremo ad avere un perpetuo stato di «anarchia» economica e sociale, particolarmente dannosa in un momento come questo dove occorre la massima coesione nell’interesse nazionale e non decisioni calate dall’alto: un «alto» peraltro molto lontano, che non è soltanto Palazzo Chigi ma anche Bruxelles e magari a Lower Manhattan, New York, sede della Goldman Sachs …

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RENÉ GUENON - LA CULTURA DELLA TRADIZIONE

La moneta e l’economia virtuale di MATTEO SIMONETTI LA NOSTRA è un’economia fatta di niente. Soltanto scommesse, sotterfugi e stratagemmi, orditi da pochi a danno di molti. Lo scollamento della finanza dalla produzione reale dei beni ha raggiunto livelli parossistici: per ogni chicco di grano prodotto se ne vendono almeno dieci virtuali. Siamo nel regno del numero, della quantità, della misura, dove non soltanto la qualità non ha più alcuna importanza, ma dove anche il corpo, manifestazione più «sana» della materia, soccombe di fronte alla ragione utilitaristica e ai suoi mezzi. Questa tendenza ad allontanarsi dall’ordine naturale delle cose, che l’uomo ha intrapreso dal principio dell’epoca moderna e che ha visto la sua massima accelerazione con l’idea di progresso, ha il suo culmine nella natura dell’attuale moneta. Di questo fenomeno dà una lettura chiarissima René Guenon, nel suo Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, testo del 1945 (qui citeremo passi tratti dall’edizione Adelphi del 2009). Il maggior esponente della Cultura della Tradizione ci soccorre, spiegando quali sono le radici di questa decadente manifestazione del Kali Yuga. Un assaggio: «[le teorie] pur cambiando con rapidità via via crescente […] non fanno che assumere un carattere sempre più esclusivamente quantitativo, essendo giunte ormai al punto di rivestire completamente l’apparenza di teorie puramente matematiche, ciò che del resto le allontana sempre più dalla realtà sensibile». Tenendo a mente questo passo, facciamo il punto della nostra attuale situazione: la nostra moneta è una moneta-debito basata sulla frode operata dalle banche centrali, private, ai danni degli Stati. Il denaro viene stampato a costo zero e senza copertura di alcun tipo (non che l’oro di per sé cambierebbe la natura contrattuale quindi giuridica della moneta) e poi prestato ad interesse come se davvero fosse proprietà

della «tipografia centrale». Ne consegue il debito pubblico di tutte le nazioni nei confronti dei banchieri privati e da questo, a cascata, le tasse, le manovre finanziarie, la privatizzazione dei residui beni pubblici, la dismissione di sanità, previdenza e servizi sociali e infine il controllo politico e sociale sulle masse, dal punto di vista anche culturale. Il governo «tecnico» italiano (frutto di un golpe come un qualsiasi governo militare) è l’esempio più prossimo dei risultati di questa strategia di dominio la quale, per mantenersi in vita, sfrutta politici compiacenti, i celebri «camerieri dei banchieri» poundiani. Quando i politici di turno stentano a svolgere diligentemente il proprio compito vengono temporaneamente accantonati, come è successo al parvenu Silvio Berlusconi. Per un breve periodo allora la finzione si manifesta per quello che è, rendendo visibili, anche se a pochi informati, i veri attori dietro le quinte. A questo stato di cose va aggiunta la costante pressione tendente ad eliminare anche i simulacri di una vera moneta, le banconote. Oggi si sta tentando di metterle fuorilegge sostituendovi il più controllabile e redditizio (per le banche) denaro virtuale dei conti correnti e delle carte di credito. Dopo l’obbligatorietà dei pagamenti degli stipendi tramite conto corrente bancario, mentre scrivo si vocifera di un tetto massimo per le operazioni in contante di mille euro, oltre i quali vi sarà l’obbligatorietà della «intercessione» bancaria. È questione di tempo, poco purtroppo, e il denaro fisico scomparirà, per dar vita finalmente ad un mondo orwelliano nel quale saremo atomi del tutto controllabili. Ora, questa operazione, oltre ad avere il consueto volto speculativo, ha un forte carattere simbolico e culturale. Se n’è accorto Marcello Veneziani che dalle pagine de Il Giornale se n’è lamentato, definendola un accanimen-

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62 to contro i più anziani i quali, psicologicamente, nutrono ancora il bisogno, più che legittimo, di rassicurarsi con quel che di corporeità rimane nel denaro frusciante. Perché la banconota, pur nella sua attuale forma illegittima, è da preferire rispetto al denaro virtuale, anche per chi non è alla prese con problemi «culturali» come gli anziani? Perché, come dice Guenon, «il solido del resto, anche nel suo stato di massima densità e impenetrabilità concepibile, non corrisponde assolutamente alla quantità pura e possiede sempre almeno un minimo di elementi quantitativi». Questo legame con la realtà, che sia essa il sangue o il suolo, è ciò contro cui combattono le élités odierne, siano essa di matrice gnostica, cabalistica o genericamente socratica. René Guenon ci spiega, al di là dei giudizi morali che tendono a definire questo stadio come vittoria del maligno, che anche questo comportamento ha un suo posto «razionale» nel mondo e nella ciclicità della storia. Si tratta dell’ultima fase della decadenza, quella che dopo il solidificamento materialista, si spingerà ancora più a fondo, nella dissoluzione che precede il nuovo ciclo. Nel capitolo «La degenerazione della moneta», Guenon spiega come, dopo che fu venuta meno l’autorità temporale e spirituale che ne era garanzia di valore, la moneta appartenne interamente al «regno della quantità». Il valore, cioè la qualità, scomparve del tutto da essa, in una sorta di relativismo numerico, quello che vediamo all’opera ogni qualvolta oggi sentiamo parlare di migliaia di miliardi di euro di debito pubblico, cifre tanto lontane dalla nostra comprensione quanto dalla realtà. Si tratta infatti di puri segni di luce su uno schermo, che però pesano come macigni sulla vita dei popoli, costretti dall’usura a fare del lavoro (quando c’è e qualsiasi esso sia) l’attività primaria nella loro vita. Guenon usa anche un termine che oggi suona sinistramente profetico: volatilizzazione, ovvero ciò che osserviamo verificarsi in maniera costante e rispetto a cifre paurose, secondo certi schemi prefissati che l’élité speculativa controlla, nei cosiddetti mercati finanziari. Lo stesso Guenon ci informa che questa riduzione al numero, questa negazione di ciò che va oltre la ragione utilitaristica, ha sua matrice «diabolica» e fa parte di un piano

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IL BORGHESE «secondo cui si attua la deviazione progressiva del mondo moderno; certamente il materialismo ha avuto la sua parte ma a questo punto la negazione pura e semplice che esso rappresenta è divenuta insufficiente; essa è servita efficacemente ad impedire all’uomo l’accesso alle possibilità d’ordine superiore, ma non sarebbe in grado di scatenare le forze inferiori che sole possono portare al suo acme l’opera di disordine e dissoluzione». Come si potrebbe delineare, oggi, lo scenario di disordine e dissoluzione che secondo Guenon sta per giungere? Quando il totale disconoscimento del valore, di cui quello monetario è soltanto un esempio, sarà cosa fatta, il caos sarà reale e i residui di Kultur, direbbe Spengler, si vaporizzeranno. Oggi che un uomo vale, per i più, soltanto quanto denaro possiede, o meglio, fa girare, basta azzerare anche quest’ultimo fittizio principio per vedere il nichilismo realizzato! Lo stesso Guenon ammonisce: «La derisoria sicurezza della vita ordinaria, che era l’inseparabile sequela del materialismo, è a cominciare da ora fortemente minacciata». Si tratta del troppo ascoltato ritornello che recita oggi: «non si arriva alla fine del mese». In altre parole la modernità, fenomeno prettamente «occidentale», modificando l’idea del bene, ha realizzato il seguente percorso. Primo: sostituzione dell’essere in un certo modo con l’avere certi beni; secondo: sostituzione della qualità dei beni con la quantità degli stessi; terzo: sostituzione dei beni con il denaro; quarto: sostituzione del denaro vero con il denaro fittizio della moneta-debito; quinto: sostituzione della moneta-debito fisica con quella virtuale; sesto: volatilizzazione della moneta virtuale e raggiungimento della dissoluzione. Una volta vuotate le nostre tasche e poi i nostri conti in banca, dopo aver trasformato ogni possesso del bene in affitto del bene, non avremo nessun punto fermo e gli aspetti infrapsichici dell’uomo, le «orde di Gog e Magog», saranno liberati. Oggi siamo all’inizio della sesta ed ultima fase. Quanto durerà? La risposta è difficile a darsi, poiché le varie fasi cambiano con la geografia, nel senso che ciò che succede in una certa parte del mondo occidentale può verificarsi in un’altra qualche tempo dopo. Inoltre le fasi si intersecano tra loro, più o meno profondamente, nei periodi di passaggio. Tenendo però conto dell’accelerazione (Guenon dice che le

Febbraio 2012 durate delle varie fasi della decadenza seguono il rapporto 4,3,2,1) possiamo azzardare una previsione. Certamente la creazione della moneta-debito è cominciata negli ultimissimi anni del ‘600, con la concessione alla Banca d’Inghilterra di emettere moneta per il debito della corona, ma fu un episodio che non contagiò l’Europa intera né l’America. Fu invece il 1913, anno del Federal Reserve Act, il momento chiave. Questo perché una delle più importanti motivazioni della seconda guerra mondiale può considerarsi la contrapposizione dei totalitarismi di diverso segno alla logica finanziaria del materialismo liberista di stampo angloamericano. Ripetiamolo, fino al termine della stessa guerra e alla vittoria delle plutocrazie non possiamo considerare il sistema del tutto dispiegato nell’intero «occidente», ma è proprio con l’istituzione della Fed che si pongono le basi del conflitto bellico. Possiamo allora considerare, come date ufficiali di inizio e termine del quarto periodo, il 1913 e il 1971, anno dell’abolizione della convertibilità del dollaro, quindi di tutte le banconote, in oro. Sono, quindi, circa 60 anni. La quinta fase si sta concludendo oggi, quindi dopo circa 40 anni. È sempre oggi, inoltre, che ha inizio la sesta fase, la volatilizzazione. Quanto durerà? Tenendo conto della progressione indicata dovrebbe terminare dopo 20 anni, cioè intorno al 2030, quando i famigerati chip sottocutanei finalmente determineranno il nostro accesso ai beni e ai servizi. A meno che la situazione non sfugga di mano ai registi occulti e ci sia una ulteriore accelerazione della decadenza che sfoci in una rivolta improvvisa. Tanto peggio tanto meglio.

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IL PROBLEMA DI TROVARE LAVORO

Meno studenti, più artigiani di FRANCO LUCCHETTI SONO forse due decenni che sui giornali di ogni tipo si leggono articoli più o meno approfonditi, correlati anche di statistiche e inphographics, riguardo ai giovani e la difficoltà di trovare un’occupazione. Questo rapporto, giovanilavoro, è spesso definito un problema, «il problema di trovare un lavoro». Premesso che il momento storico non è dei migliori dal punto di vista della floridità economica, con difficoltà reali di trovare un’occupazione che possa offrire una tranquillità (non sicurezza, perché il termine sicurezza è una contraddizione in termini quando si parla della vita) alla persona, per poter sviluppare dei piani a medio-lungo termine con una maggiore serenità, possiamo affermare a ragion di logica, che il lavoro è per le persone tenaci. In tempi difficili come quelli attuali, questa affermazione vale ancora di più. Se qualche decennio fa trovare lavoro dopo la laurea non era un’impresa facile, ma ci si riusciva in un tempo relativamente breve, oggi trovare un’occupazione è indubbiamente più difficile; sia per la crisi economica che stiamo vivendo, sia perché una maggiore apertura agli studi universitari attraverso vari incentivi, ha permesso a molte più persone di raggiungere il traguardo della laurea che a sua volta ha introdotto una quantità numericamente maggiore di ragazzi nel mondo del lavoro, forse molti di più di quanto se ne possano assumere. In questo caso, i più bravi (forse non sempre) e i più preparati; ma preferiamo dire i più testardi e volenterosi, riescono a trovare un’occupazione. Molti giornalisti possono ragionare anche tutto il giorno su statistiche e numeri, il fatto è che, quando si parla di giovani e lavoro, il discorso è più profondo. È generazionale. I giovani di oggi (parlando dei più e tralasciando i casi rari) sono stati abituati troppo bene dalle loro famiglie, in una condizione adagiata facile da abbandonare. È questa una situazione-condizione, che si protrae poi fino a

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un’età adulta, in cui diventa difficile, e in molti casi impossibile, trovare poi un lavoro. Perché il tempo è passato, e si è ormai ultra-trentenni, e quindi vecchi, per essere competitivi nel mercato del lavoro. Bisogna riconoscere che alcuni giovani non accettano questa rassegnazione alla difficoltà nel trovare un lavoro (i casi rari di cui parlavo) e quindi esprimono la loro volontà di lottare cercando un’occupazione all’estero. Oppure allo stesso modo, altri giovani esprimono la loro non-rassegnazione, accettando anche altri lavori, ovvero il lavoro che non avevano sognato o non avevano pensato di fare, ma che per ragioni di forza maggiore hanno acconsentito a svolgere, dimostrando maturità e facendo di necessità virtù. Non si vuole affermare che si debba smettere di cercare e trovare il lavoro che si desidera di svolgere nella vita, ma solamente che bisogna, a volte, accettare gli eventi e svolgere anche un altro tipo di lavoro che non si è pensato di fare, continuando a cercare e a lottare per quello che invece si desidera. L’immobilismo è il primo elemento da cui i giovani devono stare alla larga, perché è un sintomo di precoce invecchiamento. I giovani fanno rima con dinamismo. Non esiste un problema riguardo i giovani e il lavoro se si è nella giusta ottica delle cose e se gli stessi giovani hanno la stessa mentalità. Se i Paesi europei e altri continenti offrono maggiori opportunità lavorative, i giovani devono avere il coraggio di prenderle, di andare a cercarle, ovunque esse siano. C’è sempre tempo per tornare nel Paese in cui si è nati. Il tempo invece non aspetta, gli anni della gioventù vanno vissuti con la maggiore energia fisica e mentale, e le scelte più importanti vanno fatte nel tempo di un respiro. Un recente articolo apparso su La Stampa indicava che sempre meno giovani puntano sull’invio dei curricula, preferendo invece i rapporti personali e informali nella ricerca del lavoro.

63 I giovani che percorrono questa strada sono già vecchi. Concentrare le energie sui rapporti personali per la ricerca di un lavoro è un metodo che non è adatto al tempo in cui viviamo. L’èra di Internet e dell’accesso globale alle informazioni in tempo reale offre infinite possibilità e strade innumerevoli anche in questo campo, anche nella ricerca di un lavoro. L’invio dei curricula rimane il canale privilegiato e allo stesso tempo il più efficace, al contrario di quanto si possa pensare. Percepito spesso come una perdita di tempo, inviare il curriculum è un metodo invece efficace di far conoscere le proprie competenze. Si potrebbe non ricevere una risposta immediata, potrebbe non essere letto, ma rimane il mezzo più efficace. È una mentalità tipicamente italiana concentrare gli sforzi sui rapporti personali e sulle scorciatoie per raggiungere gli scopi, ma per i giovani che realmente vogliono un lavoro, inviare il curriculum è esso stesso un lavoro, e deve essere percepito come tale. Cercare lavoro è un lavoro. Soltanto la tenacia e la perseveranza nel perseguirlo, come in quasi tutte le cose della vita, arriverà a dare i suoi frutti. Le crisi finanziarie e la difficoltà economiche impongono una società basata sui volenterosi, sui tenaci e sui giovani che si adattano, che non mollano. Anche se la stessa crisi economica e il livello di tassazione (soprattutto in Italia) mettono in difficoltà le aziende nell’offrire un futuro sereno alle persone, i giovani non devono demordere nella loro ricerca, e hanno tutto il diritto di trovare le condizioni a loro più favorevoli, che comunque esistono, anche se in un primo momento bisogna adattarsi a compromessi. Non possiamo qui non accennare anche a tutti gli studenti che indecisi sul loro futuro (e anche sulle loro passioni) fanno dell’Università che hanno scelto di frequentare una questione annosa, rimanendo studenti per sette, otto o anche dieci anni; perché se ci fosse più consapevolezza delle proprie attitudini, si potrebbero fare scelte diverse e quindi frequentare corsi professionali per mestieri artigiani nobilissimi, a tutto vantaggio dei numeri sull’occupazione che alcuni giornalisti si divertono a interpretare e a vantaggio dell’economia nazionale in generale. Nei momenti d’indecisione, le strade più lunghe, e a volte più difficili, sono spesso le più giuste da intraprendere. Ci vuole soltanto il coraggio del primo passo.

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E se smettessimo di «chiacchierare»? di FERNANDO TOGNI CON un titolo del genere, tutta l’artiglieria starà già caricando per spararci addosso (in nome della libertà e della democrazia). Però essendo la realtà quotidiana quella che è, può avere qualche fondamento il dubbio che forse non sappiamo ancora cosa siano né l’una né l’altra, e abbiamo anche sprecato sessant’anni in cui dovevano insegnarcelo (con l’esempio) o coltivarne la conoscenza da autodidatti. La libertà richiede franchezza, reciprocità, senso del limite; pur sapendo che è un diritto assoluto (mentre il mezzo razionale è relativo) tutti lo esercitiamo in prevalenza soltanto dal lato attivo personale, dimenticando l’altra faccia della medaglia. Dato che la domanda del titolo sembra proprio ben poco democratica, onestà vuole che da parte nostra vi si chieda di non innescare l’automatico contrasto. Perché si dovrebbe smettere di chiacchierare? Perché non se ne può più: noi di raccontarla a voi, voi di farci ascoltare le vostre diatribe; perché il solo chiacchierare non serve, diventa alluvione proprio quando occorrerebbe saper agire ma nessuno sa da che parte cominciare. Democrazia infatti non è parlare: è discutere di problemi, con consapevolezza, per risolverli. Questa forma di governo non è perfetta, ma per ora non abbiamo di meglio. Il tempo dei poteri assoluti è finito (finalmente) ma bisogna essersi formati liberamente nella e per la democrazia, altrimenti sono indispensabili regole e un tempo tecnico (lungo) per arrivarci. Un’epoca di questo pianeta e della sua umanità è alla frutta, e il primo passo verso l’anticamera di un futuro è non aver paura d’aver coraggio e mostrarlo. Non significa voler fare la rivoluzione, ma evitare di farla a chiacchiere, che è un modo INUTILE ben coltivato, affinché non cambi mai nulla. Anche senza la (eccessiva) suscettibilità italiana dovremmo trovare offensivo questo fatto perché equivale ad essere considerati imbecilli, e perché la realtà richiede ormai

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proprio un agire rapido e consapevole. Si potrebbe cominciare con una tale filza di casi, episodi, incoerenze, deficienze da riempire un’enciclopedia. Ci limiteremo ai primi rimandi che vengono in mente, già abbondantemente indicativi. Le stangate non si contano più e sono necessarie perché da mezzo secolo ci hanno lasciato vivere al di sopra delle nostre possibilità, mentre sarebbe stato sano ed educativo ci spiegassero che un Paese povero per natura, povero rimane. A questo punto bisogna avere il coraggio di chiedere chiunque sia il Primo ministro - perché l’Italia meravigliosa povera e dissestata debba avere troppi organismi pubblici (Senato, Camera, Regioni, eccetera) con troppi membri, con remunerazioni troppo alte; e soprattutto perché le uscite non si possano diminuire subito. Proseguendo: il Ragioniere generale dello Stato ha calcolato quanti miliardi (miliardi) si risparmierebbero p.es. riducendo TUTTE le auto blu (e il relativo personale) a un terzo? Si sentono gli applausi oceanici della trimurti sindacale, alla quale vorremmo chiedere perché non si possono rivedere le regole di quella emorragia economica che è la cassa integrazione. Troviamo logico che controllori vadano a Cortina per accertare certe modalità di sofferenza. Non condividiamo invece che dai pulpiti della informazione conformista ci siano guru che predichino di risparmiare sui nuovi aeroplani da combattimento, non per amore di guerra, ma per necessità di difesa d’uno Stato di sessanta milioni di persone. Plaudiamo che l’esecutivo negli ultimi anni abbia speso soldi per fronteggiare con successo la delinquenza; ma ci vergogniamo che le carceri siano insufficienti e il problema venga risolto con amnistie: per risparmiare !? Si potrebbe continuare sul binario dei risparmi, dei ricuperi di capitali e di imposte dovute, più che di pressione generale aumentata; sulla sperequazione tra i minori soldi disponibili e gli

Febbraio 2012 aumenti dei prezzi; sulla distribuzione più equa e illuminata dei sostegni per il lavoro dei giovani e la ripresa del produrre per esportare. Il lasciar perdere qui il capitolo delle banche, delle assicurazioni, dei carburanti, dei disastri naturali, non significa ignorarli. Dato che di tutto ciò se ne parla, ma non si smuove niente, oltre al convincersi dell’inutilità di farlo, persone normali deciderebbero di trovare il coraggio di darsi una mossa. Non senza avere intuito che se questa è la realtà negativa, ognuno deve pur avere la sua piccola responsabilità personale, che non scompare per il comodo arbitrio di ritenere sempre maggiori quelle altrui. Qualcuno potrebbe pensare: «Questo è comunismo della prima ora». Si tratta invece di Dottrina dello Stato. Da una vita viviamo di prediche, di bloccature, di ipocrisie e, così stando le cose, abbiamo creduto difenderci con falsità corruzione e associazione (non si è scritto a delinquere). Avendo per contro pure grandi qualità attive, oltre alla pazienza, riconosciuto che abbiamo sbagliato, forse dobbiamo soltanto trovare il coraggio di non aver paura, in modo che ciascuno voglia ritrovare fiducia in se stesso e possa dare il suo apporto alla comunità e alla casa di tutti. Gli attuali calamitosi tempi mondiali necessitano di uomini e donne onesti e determinati, più e prima che di soldi. Abbiamo sincera convinzione che gli Italiani possano farcela: ma soltanto in questo modo e subito. Ora è più importante uscire da tale stato di cose, che vedere condannati i colpevoli o la loro memoria: la condanna degli assassini purtroppo non ha mai risuscitato il morto. Pensiamo alle priorità, dunque. Oggi non si possono aspettare 400 anni per riconoscere che Galileo aveva ragione. Anzi, già 800 anni fa l’Italiano Francesco d’Assisi aveva intuito indicato e testimoniato il modo per uscire «a riveder le stelle». Anche allora non si era voluto intendere. Il futuro, che ancora non dà segni per capire come sarà, di sicuro dovrà ricominciare in modo differente. Non abbiamo nominato l’etica per non offendere una moltitudine di grandi persone che ci hanno creduto, a cominciare da Socrate. Siamo seduti su un mondo precario. Forse è appunto di quello che si può pensare di smettere di chiacchierare. Nemmeno le piante regalano frutti: alla stagione, nel modo giusto li producono.

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DUE CASI EMBLEMATICI

Il Museo come argomento filosofico di RICCARDO ROSATI ANALIZZARE il museo come idea e luogo di astrazione è altrettanto utile quanto studiare le problematiche pratiche che riguardano la sua gestione. Riteniamo che sale contenenti opere di pregio, nonché di valore storico, possano suscitare in noi ragionamenti che oltrepassano il confine della storia dell’arte. Nasce così la sfida del Bello, che è anche sfida del pensiero, che vede oltre le cose, poiché, come dirà Michelangelo: «L’arte si fa col cervello più che col pennello». Vedere è perciò ancora e sempre filosofia; filosofia che è stata anzitutto mito e poesia. Questo nostro breve excursus si avvarrà dell’aiuto di due importanti uomini di cultura: il francese André Malraux e l’argentino Jorge Luis Borges. In Finzioni (1935-1944), una raccolta di scritti narrativi e filosofici, Borges ci catapulta in capitoli onirici, ove presente e passato interagiscono sincronicamente, in virtù di una complice sospensione della incredulità da parte del lettore. Nel testo in questione incontriamo un racconto che fa particolarmente al caso nostro: «La biblioteca di Babele». Questo scritto tocca da vicino l’idea di una visione nel Museo, giacché tratta di una antica e fantomatica biblioteca dove un sovrano troppo ambizioso decise di mirare a una conoscenza pari a quella del Creatore. È bene ricordare che la biblioteca è parte integrante del museo, essendone costola imprescindibile. Attraverso sconfinati corridoi circondati da scaffalature colme di libri senza tempo, Borges ci sospinge a compiere un percorso nella mente e nella memoria, lungo quanto la storia raccolta in un museo. Egli, sebbene ci intimidisca col suo labirinto di libri e pergamene, coglie pienamente il valore morale insito nel rendere di pubblica utilità una collezione artistica o libraria. La Biblioteca di Babele è una idea che diventa coscienza collettiva nel momento in cui tutti ne

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possono usufruire, ricavandone gioia - risultato ultimo della conoscenza affinché ciascuno sia padrone di un tesoro comune: questa altro non è che una metafora del Bene Culturale, il quale connota spesso un intero popolo. Ancora più esaltante è il saggio che André Malraux - Ministro della Cultura in Francia negli anni ‘60 dedica al museo: Le Musée imaginaire (1965). Sarebbe troppo ambizioso pretendere di parlare in modo esaustivo di questa opera in così poco spazio. Ciò malgrado, intendiamo soffermarci su alcuni punti cruciali enucleati dall’autore che rappresentano momenti mirabili della riflessione filosofica sul museo. Per primo quello che vede l’opera d’arte, nel momento in cui entra a far parte di un museo, divenire oggetto divino in un tempio, tanto che per ammirarla dobbiamo andare in «pellegrinaggio». Difatti, se ci limitiamo alla visione di una semplice replica, fotografica o digitalizzata su schermo, rischiamo di perdere quella spinta verso l’astrazione propria della bellezza incarnata su tela o nel marmo. Da qui nasce la necessità di visitare il museo. Tuttavia, esso può anche essere un luogo dell’oblio per l’arte se

65 questa resta isolata, non vista. Inoltre, tolta dal proprio originario luogo di appartenenza, l’opera esposta perde ogni significato quando cessa di essere fonte di riflessione per l’uomo. Malraux spiega come il nostro rapporto con l’arte dovrebbe andare ben oltre la semplice «sensorialità», così da permettere a ogni opera di essere idea e al museo stesso, che incorpora perciò una moltitudine di pensieri, di divenire ragionamento filosofico; un quesito sulla storia che esso custodisce. Riteniamo che il grande merito di questo autore sia quello di aver affrontato, come forse pochi hanno fatto sinora, con competenza e originalità una visione completamente astratta del museo. Così facendo, egli ne ha mostrato la importanza come luogo del pensiero, poiché ogni opera ivi esposta, sebbene «scippata» dal luogo per il quale è stata pensata, trascende il proprio confine fisico, tramutandosi in messaggio. Il silenzio del museo è un momento di astrazione e riflessione alla pari del romitaggio in una foresta. L’arte soggetta a metamorfosi altro non è che quella che diventa pensiero, idea. La crisi del mondo contemporaneo e, va da sé, dell’arte è così grave proprio perché si è voluto privare di complessità il Bello, rendendolo per tutti, senza necessità di una qualsivoglia preparazione o almeno disposizione a capirlo e amarlo. In modo differente, Borges e Malraux ci hanno mostrato con i loro scritti che il Museo, quello vero, non è certamente lo spazio profano che è oggi, intossicato da caffetterie e bookshop, bensì prima di tutto un luogo di riflessione, la quale nasce proprio grazie alla memoria custodita nelle sue sale.

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Editoria al capolinea di ANGELO SPAZIANO FARE editoria in Italia è sempre stata impresa ardua per chiunque, ma oggi sfiora la temerarietà. Sarà perché tra l’italiano medio e i libri - e i giornali non è mai corso buon sangue, fatto sta che ultimamente il settore della carta stampata soffre. Tagli di personale e ridimensionamenti di servizi e di organici ormai sono la norma sia nelle redazioni che nelle tipografie. A rimetterci di più, anche in questo comparto, sono i «piccoli» imprenditori. Per avere un quadro completo della situazione siamo andati a parlare con Enzo Cipriano. Cipriano è fondatore e proprietario della casa editrice «Settimo Sigillo» e della «Libreria Europa Editrice». Le edizioni «Settimo Sigillo», ci ha rivelato Enzo, videro la luce a Brescia nel 1982 per iniziativa di un gruppo di amici che si tassò per 500.000 lire a testa. Nel 1983, durante una trasferta a Roma, il giovane bibliofilo venne per caso a conoscenza della messa in vendita della «Libreria Europa». A quel punto non ebbe esitazioni: abbandonata l’università e fatti i bagagli, si trasferì subito nella capitale, lanciandosi a capofitto nella nuova avventura. Le edizioni crebbero parallelamente all’organizzazione della libreria, sita in via Pietro Cavallini, punto di riferimento della componente rautiana del Msi e dell’area che faceva capo alla Nuova Destra. I testi pubblicati si moltiplicarono fino ad arrivare agli attuali 500, con una media di 30 all’anno. Nel 1992 Enzo si accorse che rinnovare il contratto d’affitto in scadenza gli sarebbe costato il doppio. Fu allora che decise di fare il grande salto e dalla vecchia sede di soli 30 metri quadri si trasferì nella nuova, di oltre 200, allocata in via Sebastiano Veniero. A distanza di un anno dall’inaugurazione, e precisamente la notte tra il 17 e il 18 marzo del 1993, il punto vendita subì un attentato incendiario da parte dei «soliti ignoti». Nel 2004, in occasione dell’ennesima scadenza del contratto d’affitto e alla reiterata richiesta di raddoppio del canone, il coraggioso imprenditore optò per un’altra rivoluzione. Fu così che per non cambiare quartiere decise di

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scindere fisicamente la libreria dall’editrice. Siamo arrivati pertanto all’attuale struttura organizzativa, col punto vendita a via Tunisi e gli uffici in via Santamaura 15. Tra Cipriano e i libri è stato amore a prima vista. Per Enzo, la profonda crisi che affligge l’editoria, oltre ai fattori economici, è dovuta soprattutto alla scadente qualità degli «articoli» che oggi appesantiscono gli scaffali delle biblioteche. Il governo ha contribuito di suo a peggiorare il già drammatico quadro, tagliando senza riguardi i contributi spettanti all’editoria d’eccellenza ed eliminando la tariffa agevolata di spedizione. Il tutto per fare cassa e in ossequio a una logica punitiva nei confronti soprattutto dei piccoli imprenditori. Inoltre, è venuta a mancare la cinghia di trasmissione che un tempo fungeva da tramite tra il lettore e l’«articolo» da acquistare. Stiamo parlando della figura, quasi del tutto scomparsa, del libraio professionista, presenza assai importante per l’intera «filiera». Costui era in grado di tracciare un percorso formativo anche per chi non aveva mai letto nulla in vita sua e che al libro si avvicinava da esordiente. In altre parole, il libraio di vocazione ricopriva la basilare funzione di guida anche per il curioso che, desideroso d’intraprendere un qualunque sentiero di conoscenza, iniziava a inoltrarsi da profano nel mare magnum dei titoli in rassegna. Oggi questo deus ex machina non esiste più, spazzato via da internet. Uno che per la prima volta intende approcciarsi al libro senza fare molta fatica, basta che clicchi sul mouse e può comodamente acquistare in tempo reale ciò che vuole, quando e dove vuole e nella lingua che preferisce. Sono le stesse grandi case editrici a favorire la pratica, prefigurando una quantità sempre crescente di libri destinata ad essere smerciata attraverso il web. Per fare ciò sono stati creati appositi siti assemblati dalle case stesse. Il problema a questo punto è: cosa comprare? Facile cadere in trappola e vedersi recapitare un bidone. Se invece non ama navigare, il lettore in erba si

Febbraio 2012 decide a fare un salto da Mel o da Mondadori. Una volta arrivato a destinazione, però, s’imbatte anche qui in un’offerta pressoché sterminata, nella quale fa fatica anche a discernere un genere da un altro. In queste condizioni sbagliare è facile. In tal caso, il poveraccio avrà comprato qualcosa che a lui risulterà indigesto e da quel momento in poi non s’accosterà mai più a un testo manco morto. Tutto questo senza contare la cronica mancanza di coordinamento esistente tra i vari operatori presenti sulla piazza. Per quanto riguarda la cultura non conforme, poi, secondo Cipriano, con la destra al potere la situazione è peggiorata, essendo venuti a mancare pure quegli asset trainanti che negli anni 7080 era ancora possibile rintracciare. Inoltre va anche calcolata la pressoché totale mancanza di supporto politico. In altre parole, mentre a sinistra, per quanto riguarda l’attività culturale, esiste un palese appoggio da parte degli schieramenti di riferimento, a destra la cultura è sempre stata avvertita come un superfluo e costoso ammennicolo. Non si è mai pensato, cioè, al settore culturale come a uno strumento di conquista delle opinioni. Tanto per parlare chiaro, i politici della destra badano solo alle scadenze elettorali e congressuali. La sinistra, al contrario, ha una concezione «strategica» del consenso. Quest’ultimo va ottenuto conquistando in un primo tempo il potere giuridico e in seguito quello intellettuale. Soltanto in un terzo tempo si acquisisce anche la società civile. Questo concetto non è mai entrato in testa ai nostri amministratori. Alla domanda su quando avrà termine la crisi, Cipriano si è mostrato alquanto pessimista, dichiarandosi convinto che la sfavorevole congiuntura si risolverà soltanto in combinata col miglioramento della situazione economica mondiale. Ma a quel punto soltanto le grandi catene commerciali o le edizioni di nicchia risulteranno ancora sugli scudi. Unica nota positiva, secondo Cipriano, è costituita dalla recente approvazione della legge Levi sul libro. La norma consente di ridurre le «offerte» fino a un massimo del 15 per cento. Prima del provvedimento, il sito Amazon arrivava ad offrire alla clientela sino al 30 per cento di sconto, laddove l’editore poteva concedere al massimo il 20. Si trattava, come ognuno può vedere, di una chiara situazione di distorsione del mercato, cui finalmente si è posto rimedio. Null’altro che una luce nel tunnel. La cui uscita, però, è ancora di là da venire.

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IL GIARDINO DEI SUPPLIZI IN QUESTO MONDO DI IPOCRITI

Quando il cinema finisce nella rete di FABIO MELELLI COME ogni anno, è stata pubblicata la classifica dei film più scaricati dalla rete, quelli per intenderci più amati dai «pirati» informatici. Sì perché parliamo di una pratica illegale, raramente sanzionata, che porta apparentemente non pochi danni all’industria del’intrattenimento, sottraendo introiti a grande schermo e home-video. Ma siamo poi proprio sicuri che accada tutto quello che le grandi majors paventano, ovvero una progressiva disaffezione dello spettatore dalla fruizione a pagamento di contenuti mediali? Su questo punto è lecito nutrire qualche dubbio, in quanto scorrendo l’elenco dei film oggetto di download illegale ci accorgiamo che ai primi posti ci sono alcuni dei film di maggiore successo al botteghino, da Fast & Furious V (al primo posto) a Harry Potter e i doni della morte- Parte II (al decimo). Parliamo quindi dei nuovi episodi di serie cinematografiche di enorme successo, che col tempo non sembrano segnare il passo, o perdere fans; serie per le quali la pratica del download rischia di essere addirittura benefica allargando ulteriormente la base dei potenziali futuri spettatori a pagamento. Sì perché è evidente che un film visto sul computer, o sullo schermo televisivo, o peggio ancora su un cellulare, non è lo stesso film che si può vedere su un grande schermo in una sala buia con il suono surround. Il fatto quindi che i film più scaricati siano anche i più visti al cinema dovrebbe convincere perfino gli scettici della necessità di una regolarizzazione di un mercato potenzialmente enorme, e piuttosto che trincerarsi dietro pregiudizi anacronistici e fuori luogo, sarebbe forse opportuno «regalare» contenuti o abbassarne il prezzo unitario.

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Sempre più giovani e giovanissimi, che rappresentano la gran parte del pubblico cinematografico, acquisiscono competenze informatiche e dimestichezza con le opportunità della rete, sempre più allargano il loro bacino di conoscenze anche cinematografiche potendo pescare su una «library» quasi infinita. Perché quindi non andargli incontro, rimodulando l’offerta mediale, rilanciando la centralità del cinema nella costruzione dell’immaginario audiovisivo? Non è un caso infatti che il grande schermo inizi a perdere colpi rispetto alla televisione sul terreno della fiction: serie televisive sempre più simili ai film tradizionali si impongono in termini di ascolto e sbancano il mercato delle vendite homevideo per la loro maggiore capacità di ri-mediazione (ovvero di occupare media diversi con modalità diverse). Una serie televisiva nel volgere di poche settimane si può fruire a pagamento su una pay-tv, gratuitamente su una rete generalista, e dopo pochi mesi acquisire in un elegante packaging in videoteca; inoltre la sua frammentazione narrativa, ne permette anche una fruizione rapsodica e discontinua, modulandosi sugli approcci linguistici specifici dello streaming. Quello che si vuol dire, in sostanza, è che il cinema per fronteggiare la concorrenza degli altri media, vecchi e nuovi, deve reinventarsi, ricalibrarsi su un pubblico e un mercato in continuo divenire, non abdicando alla sua forma tradizionale di dispensatore di immaginario, ma non chiudendosi a riccio di fronte a un mondo che non è più quello ottocentesco dei fratelli Lumiere. Registi come Scorsese e Spielberg sempre più trovano in televisione il coraggio di produrre serie che

aspirano ad un vasto pubblico, potendo oltretutto «sperimentare» forme nuove di racconto e di messa in scena, allontanandosi da un cinema che sembra ripiegarsi su se stesso, e perdere il contatto con un pubblico che cambia. Da questo punto di vista, paradigmatico è il caso di una serie tv come Boardwalk Empire, prodotta da Martin Scorsese (che ha personalmente diretto l’episodio pilota), ambientata negli anni del proibizionismo, che da un lato riprende la lezione del gangster-movie che ha fatto grande Hollywood soprattutto negli anni trenta e dall’altro l’aggiorna ai moduli espressivi propri di una semiosfera digitale, prediligendo una fotografia fredda e una narrazione aperta e segmentata che non si chiude su singoli snodi. Ma lo stesso discorso si può fare per Il trono di spade, serie prodotta da HBO e tratta dalla saga dello scrittore americano George R.R. Martin, in cui a essere adattato per il piccolo schermo è il filone fantasy di tolkeniana primogenitura: in questo caso è stato lo stesso scrittore a preferire il piccolo al grande schermo, in quanto il flusso continuo della televisione gli sembrava soluzione migliore alla «finitezza» dell’espressione cinematografica, a dire che non bastavano due ore per esaurire una materia narrativa così vasta!

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STEVE MCCURRY E LA RAGAZZA AFGANA

Appunti tra le capanne di un villaggio di ANNA MARIA SANTORO SEDICI Dicembre 2011. Un pomeriggio piovoso, raro a Roma. A sud-ovest del centro cittadino, costeggiando il lato destro della Piramide di Caio Cestio, procedendo in via Galvani con i platani che scorrono lungo i fianchi, nella piazza che si allunga a gomito, verso via Franklin, tra il verde delle foglie appare, inatteso, l’ex mattatoio. Il volume rettangolare dell’ingresso, con la facciata a bugnato interrotta da tre arcate, reca la scritta «MACRO TESTACCIO», e ancora, «Steve McCurry, mostra fotografica curata da Fabio Novembre». L’edificio ospitava, un tempo, gli antichi ambienti di un macello, le stalle, gli stabilimenti per la lavorazione del sangue. Era stato progettato da Gioacchino Ersoch nel 1888. Quando nel 1975 viene dismesso, quei padiglioni industriali si fanno luoghi per l’arte; poco più tardi aule per la Facoltà di Architettura fino all’unione ideale con il MACRO nel 2002, il Museo che accoglieva gli antichi stabilimenti della birreria Peroni di via Nizza. Superata la biglietteria, i passi si fanno incerti sui sampietrini scivolosi. Sulla navata esterna con la ciminiera troncoconica, un tempo usata per la pelanda dei suini e i serbatoi dell’acqua, campeggia l’enorme fotografia di Steve McCurry a Sharbat Gula, l’adolescente afgana che dalla copertina del Na-

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tional Geographic di giugno del 1985 fissava il mondo intero con i suoi grandi occhi. Verdi. Sgranati. Aveva 13 anni. Quell’immagine, la più conosciuta nella storia della fotografia degli ultimi trent’anni, svetta, ora, oltrepassando idealmente i confini degli elementi architettonici in ferro della volta e il tetto a doppia falda; timida verso il cielo, con l’ansietà dello sguardo profugo verso la terra. Entrando nell’oscurità del corri-

Febbraio 2012 doio, spiccano cavità orbitali su volti colorati; sono le forme di design delle sedute di Fabio Novembre; in un abbraccio accolgono quanti, tra i visitatori, si soffermano sui video di presentazione. Dal documentario di David Royle del 2002: «La vicenda ebbe inizio 17 anni fa ...», poi la voce di McCurry: «Dovevo realizzare un servizio alla frontiera tra l’Afghanistan e il Pakistan». Era il 1984. «Un giorno mi trovai in un campo profughi dove c’era questa ragazza ...» Di etnia Pashtun, aveva perso i suoi cari in un bombardamento sovietico; era fuggita con la nonna e i fratelli. A piedi, faceva molto freddo, nascondendosi tra rade siepi aveva oltrepassato le montagne fino al campo di Nasi Bagh. È là che McCurry le scatta la famosa fotografia. Ed è là che torna a cercarla. Più volte, fino a quando, nel 2002, si fa accompagnare da studiosi dell’iride ed esperti della scientifica che indagano sui possibili cambiamenti di quel volto; al computer cercano di invecchiarla. Quel campo profughi lo stanno per demolire; il tempo sembra essersi fermato, «gli autobus colorati circolano ancora». Quando la trovano a Tora Bora, una delle roccaforti di Bin Laden dove si combatte ancora, e il marito Rahamat Gula acconsente a farla incontrare con McCurry, Sharbat non sa di essere famosa in tutto il mondo, non ha mai visto quel ritratto e quando le viene mostrato, ricorda tutto su quella foto scattata a scuola. Accetta di farsi fotografare per la seconda volta. Ma il suo sguardo, ora, è mutato e con la mano che porta il velo sul volto: «Con la volontà di Dio riuscirò a sopravvivere. Nessuno può dire». Da un altro video: «Nel 2009 la Kodak annuncia la fine della produzione Kodachrome. L’evento sembra passare inosservato ma c’è qualcuno che chiede l’ultimo rullino …» Poi, l’affievolirsi di

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Febbraio 2012 quelle voci, «il bello della fotografia è camminare, sognare, scoprire ...», cede il passo alla mostra. Come un villaggio nomade. Capanne esili dove le foto diventano suoi abitanti; realtà tra male e bene. Dove la perfezione non è necessaria. Lo sguardo di Sharbat tredicenne s’incrocia nella terza capanna, al n 27 con la didascalia «Peshawar, Pakistan, 1984». Più in basso, a sinistra la foto numero 28 «Shigatse, Tibet, 2001»; a destra la 29 «Herat, Afghanistan, 1992». E di nuovo quello sguardo, della Monnalisa afgana rifotografata dopo diciassette anni, indurito dal tempo ma ancora selvaggio, si ritrova nella settima capanna al numero 56 «Peshawar, Pakistan, 2002», tra la 55 «Tagong, Tibet, 1999» e la 57 «Tahona, Niger, 1986». Duecento finestre sul mondo. La Storia dell’umanità. La nascita. La morte. Senza sequenze di tempo né di spazio. Un sorriso involontario; un gomitolo di case in mezzo ai campi. E processioni. E acque; l’acqua del Gange; l’acqua a Venezia coi riflessi sui canali che paiono murales e il gesto, del gondoliere veneto, che pare ripetuto sul lago Inle della Birmania; e le sponde del Jhelum. Poi la distruzione; delle torri gemelle, «New York City USA, 2001»; in Kuwait, «Al Almadi Oil Fields, Kuwait, 1991»; e luoghi degradati, lontani ma quasi sovrapponibili. I cani. La coca cola di un monaco tibetano. Un ristorante polveroso sulla strada. Menomazioni delle guerre e malattie inconsapevolmente vissute; e un uomo verde in mezzo a teste rosse, «Rajasthan, India, 1996». E Cuba. Lourdes. E piccioni a Kandahar, «Kandahar, 1992», del tutto simili alla moltitudine degli uomini di «Mazar i Sharif Afghanistan, 1991». È questo il viaggio con Steve McCurry al Macro Testaccio. E come i dipinti dei grandi Maestri possono travolgere le emozioni, così, «quando le immagini ti mandano fuori di testa; e rimangono dentro; e ti cambiano a qualche livello» è allora che, quelle, sono fotografie di successo. Macro Testaccio-La Pelanda Piazza Orazio Giustiniani 4 Roma 3 Dicembre 2011 – 29 Aprile 2012 Informazioni 060608 (tutti i giorni ore 9.00-21.00)

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NOSTRA SIGNORA TELEVISIONE

Febbraio, corto ed amaro di LEO VALERIANO E SIAMO arrivati a Febbraio! Febbraio ci porta il carnevale e, poi, la quaresima. Niente di nuovo: di carnevalate ne stiamo vedendo anche troppe e la quaresima dobbiamo riconoscere che è giunta da un pezzo, con la cosiddetta crisi. Anche le varie reti televisive la stanno vivendo, ma ognuna a modo proprio. Naturalmente, La7 sta godendo un periodo particolarmente felice dovuto alle sue nuove programmazioni intelligenti e, quindi, vive la crisi in maniera inversa. Le reti Mediaset accusano un momento di incertezza abbastanza diffuso, ma l’argomento sembra essere quasi accantonato, in quelle sedi. Nella Rai, invece, si respira un clima mefitico di estrema incertezza. Non tanto per l’austerità, che comunque c’è e che, in buona parte del settore televisivo viene affrontata malissimo; ma per una forma di paura diffusa che sembra essersi infiltrata anche nelle alte gerarchie. L’estromissione di Masi, prima, e di Minzolini, dopo, ha lasciato qualche patema d’animo. Se è possibile cacciare via un direttore di testata per i futili motivi che sono stati usati per Minzolini, chiunque ha ragione di temere per la propria poltrona. E, detto tra noi, non sono pochi (specialmente tra i vicedirettori) coloro che sarebbe bene occupare in altre funzioni maggiormente adatte alle loro capacità effettive. Chi vuol capire, capisca. Tra non molto tempo, tra l’altro, per quanto riguarda il caso Minzolini potremo conoscere la sentenza della magistratura. E, in proposito, ci aspettiamo qualche notevole sorpresa. Ma se questo è ciò che si percepisce chiaramente sui nostri teleschermi nazionali, in campo internazionale (e sempre televisivamente parlando) la televisione italiana riesce a dare una visione del nostro Paese, per lo meno irreale. Se l’immagine dell’Italia che viene diffusa all’estero è quella che si riesce a prendere in ogni parte del mondo su Rai Italia, siamo

in un bel guaio! L’improvvido straniero che attraverso la nostra rete televisiva avrebbe piacere di comprendere che cosa e questo meraviglioso Paese che noi chiamiamo Italia, per esempio, imparerà tutto su Gibuti e sui suoi dintorni. Non ho niente contro Gibuti, ma che c’entra con il nostro Paese? A meno che non si vogliano ricordare le guerre coloniali. Cosa che non farebbe affatto piacere ai due conduttori di un altra trasmissione di Rai International, Vaime e Maurizio Costanzo, che si ingegnano di mostrare la loro Italia in bianco e nero. Anche questo è un assurdo programma, affidato al duo appena citato, che racconta quanto eravamo bravi ... prima che arrivasse il Berlusconismo. Altra trasmissione assurda è Italia chiama Italia, appuntamento quotidiano con l’informazione della Rai Internazionale. Va in onda tutte le sere, tranne il sabato, prima del telegiornale, e dovrebbe dare voce alla politica dei parlamentari eletti nelle Circoscrizioni estere, del Cgie, dei Comites, degli Istituti di Cultura, le Associazioni e le Regioni più attente ai temi dell’emigrazione e a progetti di confronto e collaborazione con i propri conterranei che vivono all’estero. Un bollettino ad uso e consumo degli italiani all’estero. Ma basta questo? Il massimo dell’italianità lo abbiamo potuto trovare nel ... festival della canzone italiana di New York. Una trasmissione mandata in onda, appare chiarissimo, per contentare gli italiani di America. Massimo rispetto per loro, sia chiaro, ma, noi Italiani d’Italia, ci possiamo sentire rappresentati da un programma del genere, e da una televisione del genere? Dovendo dare qualche bella sforbiciata agli sprechi che vengono effettuati in maniera disinvolta, perché non cominciare con questa Rete e, magari, mandare in onda il «meglio» di quanto viene effettivamente diffuso in Italia dalle tre reti Rai? Si risparmierebbero di-

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versi denari e l’immagine dell’Italia all’estero ne risulterebbe sicuramente migliorata. Un altro esempio: mi trovavo di passaggio a Singapore, non moltissimi giorni fa. Accesa la televisione, ho visto la Tv locale che parlava della fine del dittatore nord corano Kim Jong-Il, e della problematica preparazione all’ascesa del suo successore, Kim Jong Un. Quella neozelandese raccontava delle inon-

dazioni nell’isola del sud e quella australiana, invece, del notevole successo delle polizie locali contro il traffico di droga. Sequestrate e bruciate tonnellate di oppio, eroina e cocaina. La televisione giapponese, a sua volta, raccontava dell’arrivo in Giappone di una rappresentanza della dissidenza birmana con Aung San Suu Kyi, da poco liberata, e Al Jazeera affrontava il problema della

BENVENUTI IN UN MONDO FANTASTICO! Ormai Enrico Benaglia ha una sua riconoscibilità apprezzata dal pubblico e dalla critica. Per esprimere esattamente quel che ha conquistato: egli ha un suo modo di figurare persone, oggetti, spazi, temporalità in una sorta di confusione sognante. Non vi è realtà comune nello sguardo di Benaglia, ma piuttosto un realismo surreale. Non voglio accostare termini definitori per voglia di originalità, ma in effetti Benaglia rende reale il surreale, la sua realtà è del tutto fantasticata, e non si cura di rispecchiare la realtà, ben sapendo che è più realista, spesso, il surreale che il rispecchiamento della realtà corrente. La congerie, l’accostamento inconsueto, la compresenza del mai associato, Benaglia ricostruisce un mondo suo, nel quale, come in questa mostra recente a Palazzo Valentini, dedicata alla «Natività», Giuseppe e Maria siedono su panchine in Piazza, con Gesù in mezzo, una bambina gioca con una stella volante, un agnellino, minuscolo e docile, si accosta all’acqua di una fontanella, animali da Paradiso Terrestre strisciano o camminano, il bue e l’asinello sono legati da fili alla bambina con la stella, e angeli dalle fluenti ali trombettano in cielo, il tutto circondato da palazzi con le finestre illuminate. Il quadro è vasto, e offre una Natività buona, amorosa, conciliativa, niente affatto dolciastra, piuttosto un bisogno di sognare, e vivere nel sogno, la felicità. Eccellenti i disegni in bianco e nero e in pastello, sempre nella mostra. Al dunque, un poeta dell’immaginazione, libera di crearsi il mondo svincolato dal mondo reale ma che suscita la realtà del «suo» mondo. Del reato, è noto, l’artista crea nel mondo, un mondo. ANTONIO SACCÀ

Enrico Benaglia - Natività (2011) - olio su tela cm. 195x260

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Febbraio 2012 giunta militare al potere in Egitto, che applica alle prigioniere politiche il Verginity test. Potete immaginare di che cosa si tratta. La televisione internazionale italiana, nello stesso momento, mostrava Marzullo che presentava ... una giovane attrice semisconosciuta. Non una parola sulle notizie sopra citate. Resta il fatto, comunque, che il sistema televisivo, anche in Italia, continua ad espandersi. Sto parlando, naturalmente delle trasmissioni telematiche e del Ddt. In un certo senso, possiamo dire che il digitale terrestre è ormai diventato una tendenza, abbastanza utilizzata dagli Italiani. Indubbiamente, il fatto che costi praticamente nulla al telespettatore (il canone Rai va pagato comunque), c’entra qualcosa con questo fatto. Ma non sono pochi i teleutenti che intendono conservare anche un abbonamento diverso e a pagamento, oltre alle reti classiche. Per due motivi. Il primo, certamente, riguarda il fatto che i vecchi abbonamenti non sono ancora scaduti e il secondo (forse più importante) è legato alla considerazione che, in un momento di recessione come questo in cui le persone sentono di doversi privare di molti diversivi, vogliano almeno concedersi aperta la possibilità di una finestra connessa con sport, informazione e intrattenimento. Del resto, col digitale terrestre l’offerta si è chiaramente ampliata. Le reti più seguite tra quelle di recente comparsa, secondo un’indagine effettuata da Omnicom Media Group, sono Real Time (particolarmente apprezzata), Italia due, Mediaset Premium Crime a cui è doveroso aggiungere Rai 4 e, per i più giovani, Cartoonito. Come era prevedibile e come accennato prima, le sette reti «classiche» non subiscono flessioni rimarchevoli e perdono solamente pochi affezionati. In un certo senso, si può pensare che la stretta economica stia quasi diventando promotrice del piccolo schermo. E parliamo di come la radio sembra legarsi al web. La vecchia radio ormai non è più la sorella maggiore della Tv. Da un po’ di tempo a questa parte preferisce disconoscere l’antica parentela per strizzare l’occhio al terzogenito della comunicazione, il web appunto. Partendo da questa idea, il direttore di Radiodue, Flavio Mucciante, sta mettendo in opera una sua particolare idea di cui si dovrebbero vedere i frutti tra non molto. Attendiamo fiduciosi.

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LIBRI NUOVI E VECCHI INTERVISTA A ARRIGO PETACCO

Quelli che dissero «no» A cura di ALDO LIGABÒ

L’ultimo libro di Arrigo Petacco, Quelli che dissero no edito da Mondadori, è dedicato ai prigionieri italiani che, dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, si rifiutarono di collaborare con gli angloamericani. Lo scrittore ligure è uno degli storici più coraggiosi nel riannodare, nell’opinione pubblica nazionale, i fili di una memoria plurale che la storiografia ideologizzata ha reso particolarmente faziosa: il suo lavoro ha consentito di riscrivere pagine strappate per partigianeria nel novecento italiano. La resa incondizionata, firmata dal generale Badoglio e seguita dalla vergognosa fuga del Re Vittorio Emanuele III a Brindisi e dalla successiva costituzione del Regno del Sud, da un lato pose fine alla guerra, dall’altro lasciò nel caos e nell’anarchia le forze armate italiane, provocando tragedie come l’eccidio di Cefalonia. Nell’isola greca la Divisione Acqui dell’Esercito, rifiutando di arrendersi alle truppe tedesche fino a quel momento leali al patto RomaBerlino, fu massacrata. L’armistizio divise il nostro Paese in due parti, una controllata dagli alleati e l’altra dai tedeschi. La successiva dichiarazione di guerra del governo Badoglio alla Germania generò un profondo sentimento di vergogna e disonore in molti militari e civili italiani che, in larga parte, aderirono alla Repubblica Sociale Italiana. Per approfondire questa pagina dolorosa della nostra storia, le opere come Avevamo

Arrigo Petacco Quelli che dissero «No» Mondadori ed., 2011, ill. pag. 172 - € 19,00

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vent’anni-anche meno (1991) e Orfani di Patria (2009) di Fernando Togni (Greco&Greco Ed.), l’introvabile Fascist’s Criminal Camp di Roberto Mieville, ed ora l’opera di Petacco, sono una lettura obbligata. Dai racconti, dai diari e dalle testimonianza sui prigionieri italiani non collaborazionisti con gli occupanti angloamericani dopo l’8 settembre emergono le ragioni di una scelta controcorrente. «You are true soldiers», dicevano ammirati gli statunitensi ai loro reclusi. Quei poveri «Pow», «Prisoners of law», ambivano a riscattare l’onore della patria dopo l’armistizio? «Direi di sì. Certamente riscattarono la propria dignità. Anche se l’onore in quel periodo era inteso in maniera particolare. Cercare l’onore era molto difficile. Si usava dare del “traditore” molto facilmente. Anche il termine “tradimento” era molto vago e impreciso. A questi uomini, come Mieville che è stato uno dei fondatori del Movimento Sociale Italiano, se ne aggiunsero altri che, anche se non aderirono alla Fiamma, furono molto tenaci nel difendere l’onore dei soldati italiani. Nel mio libro cito la frase del comandante del campo di prigionia di Hereford in Texas, che disse: ”Voi siete dei veri soldati”. Gli angloamericani stimavano gli ufficiali che scelsero di rimanere fedeli al fascismo, mentre consideravano gli altri dei semplici attendenti degli ex nemici.» Quando Le è venuta l’idea e perché di scrivere questo libro? «L’idea me l’ha suggerita il senatore bolognese Filippo Berselli, una volta parlamentare di Alleanza Nazionale, ora del Pdl. Mi ha provocato: “Perché non scrivi un libro su questi prigionieri dimenticati?” E subito, dopo averlo

ringraziato per l’incoraggiamento, mi sono messo al lavoro.» Quali sono state le fonti più importanti che ha consultato per ricostruire gli avvenimenti del tempo? «Mi sono basato sulla memoria dei vecchi combattenti, perché gli storici ufficiali a questi testimoni non hanno dedicato nemmeno una riga. Il mio libro li fa rivivere, tratteggiandone le gesta.» Dove li ha incontrati? «Sono tutti sulla novantina, non ho avuto modo di intervistarne molti. Alcuni li ho incontrati in Emilia, altri nella mia città (La Spezia N.d.R.) in Liguria. Ho trovato soprattutto molti diari, un po’ ingenui, molto patriottici, retorici.» Perché questi prigionieri furono dimenticati dalla storia patria? «Perché era politicamente corretto cancellarli dalla vulgata ufficiale. Noi abbiamo dimenticato persino di aver perso la guerra. Il 25 aprile sembra che l’abbiamo vinta. E vorrebbero che fosse una grande festa.» Come mai il trattamento dei prigionieri italiani detenuti in America, dopo la fine del conflitto, peggiorò? «Le condizioni furono atroci soprattutto nei Fascist criminal camps. Il motivo resta ignoto. Pare che ci fosse stata una grande campagna giornalistica antifascista e antinazista. I media narravano che i prigionieri statunitensi, rientrati dalla Germania, avessero sofferto la fame nei campi nemici. Fu,quindi, una specie di vendetta. In ogni caso non per motivi politici.» Tra i detenuti c’erano anche alcuni grandi scrittori? «C’era Giuseppe Berto insieme a Dante Troisi, che fu magistrato ma anche scrittore di rango. Qualcuno diventò anche deputato del Pci. Gaetano Tumiati, ad esempio, era socialista. Con questo vorrei precisare che chi disse no non era soltanto nella fila dei fascisti ma erano persone con la spina dorsale dritta, convinti di questa tesi: “Sono un soldato e mi devi trattare come un prigioniero di guerra. Di certo non ti aiuto a caricare le bombe sugli aerei che poi sgancerai sulla mia casa”. È un sentimento umano, no?»

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72 Leggendo il libro «Fascist’s Criminal Camp» di Roberto Mieville, viene alla memoria l’episodio di un prigioniero italiano, un pugile, che picchiò delle guardie «comanches» e che fu, poi, assassinato. Come trattavano gli americani i prigionieri? «Ricordo bene questo crimine. In linea di massima gli Americani furono molto più tolleranti degli Inglesi, che, invece, torturavano scientificamente i fascisti, facendoli picchiare dai badogliani. Aizzavano Italiani contro Italiani. Menavano gli italiani con delle lenzuola arrotolate e bagnate perché, pare, non lasciassero segni.» Nella sua ricerca ha reperito anche qualche documento inedito su Ezra Pound? «Il poeta americano, di fede fascista, era prigioniero in Italia. Quando fu rimpatriato in America, i vincitori lo rinchiusero in manicomio perché, secondo gli Americani, chi non era democratico non poteva che essere pazzo.» Ne «L’Armata nel deserto», rivela l’importanza dell’uso da parte degli americani di «Ultra», un decodificatore in grado di decrittare i messaggi cifrati tedeschi, potendo così conoscerne in anticipo le mosse. Eppure c’è una leggenda che vuole gli ufficiali tedeschi irati con i pari grado italiani perché considerati incapaci o traditori. «Si tratta di una balla. Anche perché nessuno si spiegava questi comportamenti. I Tedeschi ignoravano che gli Inglesi fossero in grado di decodificare i loro codici, grazie appunto ad Ultra. Mentre i nostri codici per gli Alleati erano inviolabili. Ultra fu decisiva. Il fatto che i nostri convogli fossero puntualmente intercettati, aveva convinto Supermarina che qualcuno a Napoli informasse gli alleati. In realtà erano i Tedeschi a rivelare, senza volerlo, la rotta.»

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IL BORGHESE

Febbraio 2012

L’ULTIMA OPERA DI GIAN FRANCO LAMI

Cittadino del tempo, del Cosmo e dell’eterno di RICCARDO SCARPA L’ANNO 2012 iniziò con la proiezione, nelle sale cinematografiche, d’una pellicola nordamericana con una storia surrealista ambientata a Parigi: Midnight in Paris, di Woody Allen. In essa s’illustrò l’idea che gli esseri umani scontenti di vivere nel loro tempo, od in difficoltà nel farlo, identifichino in un tempo andato la vita perfetta, e sognino di vivere in un momento storico che non è il loro. Il personaggio principale si convince infine trattarsi d’una nevrosi, che definisce sindrome dell’età dell’oro. Uscì poco prima e postuma l’ultima fatica di Gian Franco Lami, l’iniziatore della Scuola romana di filosofia politica, completata da Giuseppe Casale in luogo di una conclusione. Il Casale è filosofo allievo schietto del Lami, assieme a Giovanni Sessa, all’archeologo Davide Bisogno ed al geopolitico Matteo Marconi. L’opera titola: Qui ed ora, per una filosofia dell’eterno presente (il Cerchio editore, € 28,00). Essa non affronta soltanto il tema del Kairos, il presente come attimo sfuggente tra passato e futuro, che è il tempo sacro perché se colto e vissuto è la porta dell’Eterno, ma è quasi impossibile da «acciuffare» in quanto ogni istante, nel momento in cui si pensa è già passato, almeno che non lo si pensi come futuro ed anche così, poiché proiettato in avanti, per altro verso non è il presente. Infatti gl’antichi lo simboleggiarono come un giovinetto alato, alati anche i calzari, nella mano la lama che taglia il tempo passato dal futuro, con un ciuffo sulla fronte e la nuca rasa, poiché per fermarlo occorre l’improbabile destrezza di «afferrarlo per quel ciuffo». Ed è problema squisitamente politico e spirituale: politico in quanto per compiere opere che restino nella storia civile necessita cogliere «l’attimo fuggente», come disse Luigi Einaudi, con riferimento specifico alla necessità civile d’una federazione europea; spirituale in quanto soltanto con la fermezza d’animo necessaria per coglier-

lo ci si può liberare, per quell’istante, dalle passioni dell’anima e dai bisogni fisici ed interrompere, così, la prigionia nei cicli circolari della storia spazio-temporale e render lo spirito libero nella dimensione dell’Eterno. I saggi di Gian Franco Lami sono stati riordinati da Giuseppe Casale in una successione di capitoli che riguardano il mondo, la coscienza ed il tempo. Essi son tesi a tramandare e riproporre, in una fase d’indubbia crisi della modernità, la tradizione filosofica e politica antica, in cui il pensiero greca ed il giure romano vedono la città, nel senso di Status rei publicæ, lo Stato sia cittadino che imperiale, comunque come una cosmopoli, in cui la vita dell’essere umano in comunità e società risuona dell’armonia delle sfere, della situazione del Cosmo, e la giustizia è quell’armonia interiore del soggetto, e collettiva della comunità e della società, in definitiva del Cosmo, colta dall’essere umano realmente libero. Questa riproposizione, a ben vedere, è l’esatto opposto rispetto la sindrome dell’età dell’oro nella pellicola di Woody Allen. Infatti l’antichità qui non è nostalgia, sentimento naturale ma sempre superato da Gian Franco Lami, alla ricerca d’una nuova oggettività (per questo rispose all’iniziativa del libro manifesto lanciata da Sandro Giovannini); è invece la riproposizione d’un precedente autorevole rileva-

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Febbraio 2012 tore d’un ideale, dell’archetipo divino, colto in quell’attimo fuggitivo che ci apre l’intuizione dell’eterno, della virtù, della forza di saper trarre l’essenza permanente sotto il mutare delle forme che avvolge i sensi fisici. È questa la virtù civile, cioè del cittadino che ricerca la vera gloria, non la vanagloria, è a dire la memoria eterna della cittadinanza per l’opera imperitura compiuta pro Patria. Patria che è la terra dei Padri ma ha un significato cosmico, in quanto, lo si ripete, l’armonia delle essere umano, della propria famiglia e della propria gente, della propria Nazione è specchio dell’armonia del Cosmo. Quando tutto è in asse, si coglie l’oggettività dell’attimo presente e, qui ed ora, si vive in Eterno. Così il «pagano» Gian Franco Lami si riconferma il più «cattolico» degli allievi d’Augusto del Noce, nel vero senso greco dell’espressione, d’integrato nell’universalità cosmica e, quindi, meta-cosmica, e perciò coglie il vero senso di quel richiamo del Paolo di Tarso delle Lettere all’urgenza di vivere l’Eterno in vita, altrimenti è tardi. Del resto, nell’ultimo dei saggi raccolti nel volume Gian Franco Lami coglie il senso dell’eredità d’Abramo nei monoteismi (o forse, nel loro senso onesto, enoteismi) mediterranei, il patto-in-coscienza col Dio nascosto che si stabilisce nel deserto e ne trae queste parole definitive, lucida consapevolezza del conchiudere: «Ormai si sa: la natura, non solo umana, spinge alla vita, per condurre alla morte. E nel breve arco di un βιος θεωρητικος (vita ipotetica), urge vedersela anche con l’animalità di una ζωη πολιτικη (vita politica). Tutto il gioco si svolge nella possibilità - capacità di adattare la giustezza delle proprie vedute esistenziali, alla giustizia dell’orizzonte comune - mai venendo meno al sano proposito di renderlo migliore. Per questo, mi sento di unirmi a chi pronunciò quella frase, suggerita da chissà quale sceneggiatore, a conclusione di uno stupido film di guerra americano: noi siamo ancora nel deserto!».

G.F. Lami - G. Casale Qui ed ora-Per una filosofia dell’eterno presente Il Cerchio ed., 2011 pag. 292 - € 28,00

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Il controverso rapporto Evola - Eliade di MICHELE DE FEUDIS UNA AMICIZIA controversa, fondata su stima profonda, dissimulata per non vedere ripiombare sulla propria carriera universitaria strascichi indesiderati della propria militanza nella «Guardia di Ferro» guidata da Corneliu Zelea Codreanu: tra lo storico delle religioni Mircea Eliade e il filosofo Julius Evola ci fu un sodalizio intellettuale con alti e bassi. Lo scrittore rumeno, secondo lo studioso Ion Marii, fece parte del club di Bucarest «Axa» e potrebbe esser stato presente all’incontro tra Evola e il «Capitano» avvenuto nel marzo 1938. Il saggio di Marcello De Martino, Le ultime lettere di Julius Evola a M. Mircea Eliade (Settimo Sigillo), fornisce una ricostruzione scientificamente minuziosa dei rapporti intercorsi tra i due pensatori, facendo luce sui veri rapporti che legavano l’esoterista italiano ad un autore che dalla milizia nel movimento fascista in gioventù arrivò ad essere un prestigioso cattedratico all’Università di Chicago. In Memorie 2 (Adelphi), Eliade rivela la portata del legame con l’autore di Rivolta contro il mondo moderno: «Ammiravo la sua intelligenza e soprattutto la densità e la chiarezza della sua prosa. Come René Guénon, Evola presupponeva una “tradizione primordiale” alla cui esistenza non riuscivo a credere, poiché diffidavo del suo carattere artificioso, non storico». I due si conobbero grazie al tramite del professore di logica, teoria della conoscenza e metafisica all’Università di Bucarest Nae Ionescu, ed Eliade nel tratteggiare la figura di Tuliu nel romanzo Viata noua (1940), utilizzò come modello proprio Evola. In un suo diario privato Eliade scrisse il 27 luglio del 1941: «Devo assolutamente ritornare su Tuliu, in uno speciale capitolo in cui spiego la sua filosofia (…). Tuliu dirà ciò che - per varie ragioni su cui non è luogo di insistere qui - io non ho mai avuto il coraggio di confessare pubblicamente. Solo talvolta, raramente, ho confessato le mie credenze “tradizionaliste” (per usare un termine di René Guénon)».

De Martino riporta le lettere che Evola scrisse al docente rumeno nel 1954 e nel 1962: nella prima il filosofo inoltrava a Eliade le recensioni del Trattato pubblicate sul Roma e su Patria, mentre nella seconda evidenziava qualche dissapore nei suoi confronti. L’autore di Cavalcare la tigre con pungente arguzia rivolgeva un quesito all’autore de Un’altra giovinezza: «Mi domando se lei abbia resistito alle tentazioni della sirena (a dire il vero, vorrei impiegare un’espressione un po’ più forte) dell’America statunitense». L’influenza di Evola sugli scritti di Eliade è indiscutibile - come dimostrato dagli scritti di Gianfranco de Turris e Claudio Mutti - ma resta inspiegabile la ritrosia dello studioso rumeno a darne pubblica rilevanza. Ad una lettera piccata del 1951 inviata da Evola deluso dalle sistematiche mancate citazioni delle sue opere da parte dell’accademico, Eliade replicò così nel 1974: «Gli risposi nel modo migliore, ma bisognerà pure un giorno esporre le ragioni e le spiegazioni che richiede quella risposta. La mia argomentazione è fra le più semplici: i libri che scrivo sono destinati al pubblico d’oggi e non agli iniziati. Contrariamente a Guénon e ai suoi emuli, ritengo di non aver nulla da scrivere che sia particolarmente destinato a loro». La spiegazione di Eliade non arrivò mai, ma tra le possibili giustificazioni di queste ricorrenti omissioni c’è il peso che avrebbe potuto avere nella sua carriera la giovanile contiguità con la Guardia di Ferro e l’osmosi con pensatori tradizionalisti e controcorrente come Evola.

Marcello De Martino Le ultime lettere di Julius Evola à M. Mircea Eliade Settimo Sigillo, pag. 47 - € 6,00

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I RACCONTI FANTASTICI DI GUSTAV MEYRINK

L’alchimista dell’immaginario di MAURO SCACCHI «UNO dei motivi che mi spinse a scrivere fu sempre il desiderio, anzi il bisogno di stimolare la gente a un’osservazione consapevole e visionaria, dato che noi tutti possediamo capacità visionarie, soltanto che esse non vengono mai risvegliate e rimangono pertanto nascoste e inutilizzate». Sono le parole di Gustav Meyrink, pronunciate lungo il lago di Starnberg a un anno dal suicidio, rivolte a un giornalista dell’Hannoverischer Anzeiger il 18 ottobre 1931. L’ultima intervista al, forse, più grande scrittore esoterico del XX secolo ci restituisce l’immagine di un uomo circondato da un «alone di mistero», il «Mago di Starnberg» detentore di «un folle sapere segreto e occulto», e contemporaneamente ci presenta una persona «amica dell’umanità», gentile. «Il suo aspetto è più quello di un uomo di mondo che dell’uomo di lettere, o addirittura di mistico», valuterà il giornalista. Lo stesso Meyrink dirà, a proposito dello yoga da lui praticato e, per usare un titolo evoliano, dalla dottrina del risveglio che ne consegue: «Ciò che sto dicendo non sono vuoti giochi di parole, poiché non si può certamente supporre che io abbia dedicato quarant’anni della mia vita a cose insensate e astruse». Ma chi era e cosa fece nella sua vita questo straordinario uomo? Il suo vero nome era Gustav Meyer, nato a Vienna nel 1868, fu dapprima stimato banchiere per tredici anni a Praga, poi, come lui stesso affermò, divenne scrittore «per così dire, nel corso d’una notte»; gli capitò infatti di scrivere Il soldato bollente nel 1902 per il settimanale satirico Simplicissimus di Monaco, molto popolare nella Germania di Guglielmo II, e da quel momento la sua vita cambiò. Proseguì con lo scrivere numerosi racconti e nel contempo seguitò a praticare lo yoga. Da sempre aveva nutrito interesse per l’esoterismo, e più precisamente dall’età di 23 anni si dedicò all’occultismo. Già prima di cessare l’attività di banchiere (1902) fondò la «Loggia

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della Stella Blu» (1891), due anni dopo divenne membro della Societas Rosicruciana in Anglia e successivamente dell’«Ordine degli Illuminati» (1897). Ancor prima iniziò a studiare lo yoga all’interno della società teosofica sotto Annie Besant (allieva «spirituale» di Madame Blavatsky). Durante la sua vita approfondì la conoscenza dell’alchimia e della Kabbala. Fu, insomma, in contatto con alcune delle organizzazioni più importanti che all’epoca si occupavano di esoterismo, e praticava discipline finalizzate al raggiungimento di stati superiori dell’essere. Interruppe poi la produzione di racconti, e dopo una parentesi in cui scrisse soltanto articoli e commedie si cimentò con il romanzo esoterico, il genere di narrativa che lo rese immortale. I suoi romanzi (sulla scia di Zanoni, d’impianto squisitamente rosacrociano, scritto nel 1842 da Edward Bulwer Lytton) testimoniano l’animo dello studioso e del ricercatore, comunicando al lettore il messaggio che esiste altro oltre la vita materiale, che l’umanità potrebbe ancora risvegliarsi a una maggiore consapevolezza riguardo altre dimensioni della coscienza. Gustav Meyrink scrisse Il Golem (1915, trasposto più volte su pellicola), Il volto verde (1917), La notte di Valpurga (1917), Il domenicano bianco (1922), L’angelo della finestra d’Occidente (1927) e La casa dell’alchimista, lasciato incompiuto alla sua morte, una sorta di autobiografia trasfigurata in senso fantastico. Lo scrittore austriaco fu conosciuto in Italia grazie all’opera di traduzione e divulgazione di Julius Evola. Meno nota la sua produzione di racconti, che pure furono l’inizio di

Gustav Meyrink La morte viola Coniglio ed., 2011 pag. 248 - € 13,50

Febbraio 2012 tutta la sua opera. Essi furono raccolti in varie antologie, di cui solo Das Wachsfigurenkabinett (1907, quattordici racconti) fu tradotta in italiano con il titolo Il baraccone delle figure di cera (Carabba, Lanciano 1920), poi ristampata due volte col titolo Racconti di cera prima dalle Edizioni del Gattopardo, Roma 1972, con introduzione e note di Gianfranco de Turris, e successivamente da La Bussola, Roma 1978. Per la prima volta in Italia è uscita di recente l’antologia più corposa ed organica dei racconti di Meyrink, La morte viola (Coniglio Editore, Roma 2011), per la collana «Ai confini dell’immaginario» curata da Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco. Il volume presenta in appendice un approfondito saggio del de Turris, Meyrink tra macabro e grottesco, con sottotitolo «Temi e simboli dei racconti 1901-1908». Il termine «grottesco» bene designa la narrativa breve di questo autore. In poche pagine, dopo un climax ascendente denso di mistero, di orrore o comunque di atmosfere «serie», d’improvviso c’è come un arresto, una virata immediata che coglie di sorpresa: il tema trattato nel racconto viene deriso, capovolto, assumendo i contorni di una catarsi, di una satira furbesca. L’anticlimax a volte pare più morbido, e in questi casi la conclusione sfuma nell’ironico e nel tragico. Per Meyrink, ciò che scriveva lo doveva alle visioni che aveva durante la pratica yoga: «Quasi tutto ciò che ho scritto lo devo a queste immagini. E dato che le mie novelle e i miei romanzi scaturirono da tali visioni, essi non hanno niente a che fare con la cosiddetta costruzione letteraria e con la suspense artistica», precisando poi che «d’origine meno misteriosa sono i passi satirici dei miei libri». Un autore visionario, che all’occorrenza sapeva inserire elementi di satira all’interno del suo personale mondo immaginifico, senza che andassero ad intaccare la valenza ermetico-alchemica dei suoi lavori. La morte viola è anche un racconto, oltre che il titolo dell’antologia: la conoscenza occidentale impatta contro quella orientale senza comprenderla, e l’utilizzo goffo e ignorante di una parola magica porterà rapidamente alla quasi estinzione dell’umanità, a eccezione dei sordomuti che, soli, popoleranno la Terra. Ne La sfera nera, un curioso marchingegno rende possibile visualizzare dentro un’ampolla i propri pensieri, ma quando a provare l’esperimento è un militare occidentale si crea l’immagine di una sfera nera, un vuoto

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Febbraio 2012 oscuro che risucchierà tutto l’universo. Altri racconti mettono in guardia dai falsi guru e dal praticare cerimonie occulte, come in Decadenza e in Coagulo. Fondamentalmente si tratta sempre di satira, ma l’originalità sta tutta nei temi che Meyrink sceglie di trattare per dir la sua contro la borghesia, contro i militari e la politica. Temi tutti fantastici, tangenziali all’esoterismo che tanto in seguito occuperà i suoi studi e le sue fatiche letterarie. Chi vedesse nella sua satira bizzarra e abnorme un attacco reale al sovrannaturale sbaglierebbe. Anzi, Meyrink più si mostra ostile alla faciloneria occidentale rispetto a ciò che davvero è spirituale e sovramondano, più conferma le proprie credenze filosofiche: in Febbre sono chiari i riferimenti all’ermetismo alchemico, in Sibili alle orecchie emerge netta la convinzione che la psiche possa influenzare ciò che ci circonda, fino a nutrire il Male stesso con la propria cupidigia. Grotteschi sì, macabri anche, ma tutti portatori di qualche messaggio (etico, spirituale, sociale), i racconti meyrinkiani meritano di essere letti e pensati per ciò che sono: opere che nascondono, ma soltanto allo sguardo meno attento, l’eredità di uno dei maestri della narrativa esoterica contemporanea, e che puntano il dito sulla cecità della cultura dominante verso tutto ciò che la scienza ignora. Ne Il soldato bollente, il primo racconto che s’incontra nell’antologia, il trombettiere Wenzel Zavadil soffre di una febbre che la scienza non sa spiegare: la temperatura del suo corpo sale fino alla temperatura di ebollizione dell’acqua, Zavadil infuoca tutto ciò che tocca eppure non muore vaporizzato né bollito, e decide di vivere all’interno di una tuta di amianto per evitare d’incendiare ogni cosa intorno a lui. Di Meyrink è d’obbligo leggere i romanzi ma i racconti, più semplici e più brevi, sono piacevoli da scoprire e gustare velocemente. Se i romanzi sono come un pranzo ricercato e dal sapore raffinato, i racconti sono vere e proprie «pillole di Meyrink» pronte all’uso. Lo scrittore morì nel dicembre del 1932 a Starnberg, presso quel lago dove fu pure campione di canottaggio e vela. Si spense come un mistico d’altri tempi, innanzi a una finestra spalancata, a torso nudo, come aveva detto che sarebbe successo. Non poteva più vivere paralizzato com’era a seguito di un incidente in montagna. La sua esistenza mortale terminò su una poltrona, fissando il sole levarsi all’alba. Morì l’uomo e nacque il mito.

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IL BORGHESE

I LIBRI del «BORGHESE» VERAMENTE pulito, trasparente come il suo autore e allo stesso tempo pregno, denso come la vicenda umana e politica che ci racconta, questo libro dell’on. Antonio Razzi: una «favola moderna», improbabile e romantica che dimostra, contro la meschinità di un universo politico fatto di padronati ed élite, proprio come un uomo del popolo, l’operaio Razzi, emigrato in Svizzera ancora minorenne, «senza cappotto», con «una valigia di cartone» del padre, «di cartone veramente non a chiacchiere e chiusa con lo spago perché le chiusure quando non mancanti del tutto, erano arrugginite ed inutili», sia riuscito, grazie al suo impegno politico, al suo lavoro onesto, alla sua umanità, a farsi eleggere per ben due volte dai suoi connazionali all’estero, nelle liste dell’«Italia dei Valori», superando perfino il candidato sostenuto dai vertici del partito e, proprio per questo, essersene addossato prima l’indifferenza e poi le ire. Queste pagine avvincenti aiutano a capire, infatti, con un linguaggio diretto, con la sincerità, con la concretezza dei fatti e dei documenti, come e perché l’on. Razzi abbia deciso di abbandonare le fila del partito di Di Pietro, di cui è stato fedele (ai valori, non all’uomo) collaboratore per più di 15 anni. Ne emerge un’analisi coraggiosa, una ribellione morale ed intellettuale, un gesto di responsabilità nei confronti degli Italiani e della carica istituzionale ricoperta, per rivendicare l’esigenza di una politica sana, mirata a salvaguardare gli interessi dei cittadini, contro una politica, invece, totalmente aliena e lontana da quest’ultimi, incarnata da un leader, Antonio Di Pietro, che gestirebbe il suo potere, all’interno e all’esterno del partito, in maniera differente. Il tutto corredato da esempi concreti e da analisi politicofilosofiche importanti, passando dal concetto di «autodisciplina di bilancio» della Merkel e del quale l’on Razzi è stato precursore inascoltato, alle diverse proposte di legge riportate in calce e, purtroppo, ignorate, supportate dall’idea fondamentale e

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Antonio Razzi Le mie mani pulite Pagine 2011 pag. 160, € 18,00 (Prefazione di Silvio Berlusconi - Introduzione di Vittorio Sgarbi)

dalla profonda convinzione dell’inalienabile importanza di essere e sentirsi uomini liberi. Una separazione, ovviamente, dolorosa e travagliata, maturata attraverso gli anni, proprio come altrettanto lunga e dolorosa, per usare la metafora che attraversa le pagine del libro, era stata la presa di coscienza del perché avesse ricevuto le bastonate dal papà Pantaleone, quando, ancora bambino, per costruirsi un gioco, in un periodo in cui giochi e divertimenti non esistevano, avesse tagliato quella pianta di fico che cresceva davanti alla sua umile casa di Giuliano Teatino e dava spontaneamente tanti frutti; perché, ed è questo forse il messaggio più intimo e importante per i lettori di questo libro peculiare e bellissimo, nella Politica così come nella Vita, «il fine non giustifica i mezzi». FEDERICA PIZZUTI

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Librido a cura di MARIO BERNARDI GUARDI UNA GIOVANE donna, Eva, è costretta a sposare un uomo molto più vecchio di lei, Emil, ricco, volgare e impotente. Eva, ovviamente, non ci sta, lo lascia e torna alla fattoria paterna, all’insegna della riconquistata libertà. Urge tonificante bagno nella natura. Complice un laghetto, dove la Bella si immerge, nuda, sotto le stelle. Peccato che l’impaziente cavallo si imbizzarrisca e corra via, portandosi dietro i vestiti della nuotatrice. Che esce sgomenta dall’acqua come mamma l’ha fatta (viva la Mamma!). A placarne l’angoscia interviene, provvido e speranzoso, un ingegnere, Adam, che lavora nei dintorni. La festa dei sensi è d’obbligo. Seguono il suicidio del povero marito e la irremovibile decisione della nostra Eva, tardivamente amareggiata dalla piega che gli eventi hanno preso: ebbene sì, rinuncio ad Adamo, ho bisogno di restare sola, a trarre bilanci, senza interessate consulenze «tecniche» di ingegneri e via dicendo. Questa la trama di Estasi, il primo film a luci (quasi) rosse della storia del cinema. Lo girò, nel 1932, il regista ebreo-boemo Gustav Machatý, che quattro anni prima si era segnalato per Erotikon, un’altra storia ad alto tasso di sensualità. Ad interpretare il personaggio di Eva fu una diciottenne viennese, anche lei di famiglia ebraica, altoborghese, colta e con amicizie importanti: Hedwig Kiesler. Destinata, qualche anno dopo, a diventare una diva di Hollywood col nome di Hedy Lamarr. A tracciarne un compiuto ritratto biografico è ora Ruth Barton, docente di cinema al Trinity College di Dublino ed attenta esploratrice del «vissuto» di Hedy, «immaginario» compreso.

Ruth Barton Hedy Lamarr. La vita e le invenzioni della donna più bella della storia del cinema Castelvecchi, 2011 pag. 376 - € 18,50

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Certo, tutto comincia da Estasi e del resto la Lamarr ne era talmente consapevole che, nel 1966, ormai da anni lontana dalla luce della ribalta, intitolò Ectasy and Me la sua autobiografia. Il film, uscito nel 1933, come è noto, suscitò un grande scandalo. Era un inno alla sessualità di Eva e compagne, compresse e represse nei loro ruoli di mogli e madri esemplari. Anche le donne hanno diritto al piacere!, gridavano libertari e libertini, e, oddìo, la cosa si sapeva, però c’era tutta l’eredità moralistica dell’Ottocento ben pensante a gravare sul genere femminile, nonché un bel po’ di diffuse ipocrisie che si facevano sentire anche dalle parti della Decima Musa. Ma il fronte di liberazione della donna continuava la sua battaglia sull’onda emozionale del processo per oscenità, intentato tre anni prima a L’Amante di Lady Chatterly del trasgressivo D.H.Lawrence, uno scrittore assai poco british, ma pagano, anticonformista e vitalista (nonché fascisteggiante) che raccontava le imprese amatorie di una Lady e di un baldo boscaiolo. Aggiungiamo che i manifesti della sessualità coincidevano con quelli delle avanguardie: le donne del Futurismo «doc» erano delle belle guerrigliere che non esitavano a definirsi «lussuriose». Il tutto si inseriva nel clima di effervescenza godereccia che caratterizzava la Germania e la Mitteleuropa dei primi anni Trenta (andatevi a rivedere il mitico Cabaret con Liza Mannelli). Ovvio che borghesi e benpensanti «indignados» gridassero alla pornografia, anche perché, oltre al nudo lacustre, in un suggestivo primo piano il volto di Hedy simulava un orgasmo. Le conseguenze? Un sacco di spettatori alla première viennese del film, applausi e fischi di fronte alle scene più «osé», al fine di fronteggiare eccitazione e imbarazzo, la critica divisa tra «laudatore» e «detractores». Proibito in diversi Paesi, Estasi fu sottoposto a censura in Germania e negli Stati Uniti. Nell’Italia fascista non comparve nelle sale cinematografiche, ma andò al Festival di Venezia e fu premiato. Il Duce se lo fece proiettare a Villa Torlonia. Gli piacque: e non poteva essere diversamente trattandosi di Lui (maiuscolo). Intanto, nella testa di Eva-Hedy tutto era chiaro: Estasi aveva, al tempo stesso, creato e rovinato la sua reputazione. Tanto è vero che il suo primo marito (ne ebbe sei), Fritz Mandl, ricchissimo fabbricante d’armi ungherese di origine ebraica, amico di Mussolini e del leader fascista austriaco Ernst

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Rüdiger von Starhemberg, si affannò a cercare tutte le copie in circolazione del film per distruggerle in un rogo purificatore. Inutilmente: anzi, il «frutto proibito» accrebbe il desiderio di chi non lo aveva ancora gustato. Intanto, per gli ebrei variamente occupati, dunque anche per quelli impegnati nel cinema, i tempi stavano cambiando. Con Hitler al potere e il sempre più diffuso antisemitismo, tirava una brutta aria. Ed ecco dunque che Peter Lorre, Ernst Lubitsch, Otto Preminger, Fritz Lang, Josef von Sternberg, Billy Wilder, tutti di origine ebraica, insieme alla superariana ma antinazi Marlène Dietrich, emigrano alla volta di Hollywood. È anche il destino di Hedy, ed indipendentemente dall’«appartenenza»: infatti l’attrice non rivendicava le sue «radici», non faceva politica, non era «di sinistra». Andava dove la portava l’ambizione, col suo «nudo di donna» come contrassegno. Ma che vita fece ad Hollywood? Ruth Barton la racconta film dopo film, marito dopo marito, tra curiosità, pettegolezzi, trionfi e tonfi. A gravare su tutto il «moralismo» tartufesco di Hollywood: la Mecca del cinema «voleva» Hedy perché aveva fatto Estasi, ma voleva anche che lei se ne dimenticasse. Agisse come credeva nella vita privata, ma i suoi film non dovevano far nascere «brutti pensieri» negli spettatori wasp. La bellezza senza sensualità/ sessualità? Mica facile se giri film come Un’americana nella casbah, La signora dei Tropici, La sirena del Congo, Venere peccatrice, Disonorata, Sansone e Dalila… Mentre abbracci Charles Boyer, Clark Gable, Spencer

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Febbraio 2012 Tracy, James Stewart, Victor Mature ecc., come fai a mostrarti «donna», con tanto di sentimenti e sensi, e, al tempo stesso, irrigidirti, assumere un’aria impassibile, controllare le emozioni? Oltretutto, se blocchi gli slanci e fai la bambolina asessuata, ecco che dicono che non sai recitare, che te ne stai allo specchio, che sei soltanto «bella». Bella «senz’anima»? Proprio no: Hedy è «troppo» donna. Anzi, è una «femmina». «Quando entrava in una stanza», ricorda il suo collega di lavoro George Sanders, «tutti smettevano di parlare (…). Quando parlava, uno non la stava ad ascoltare, si limitava a guardare la sua bocca che si muoveva e si stupiva delle squisite forme che assumevano le sue labbra. Veniva, di conseguenza, piuttosto frequentemente fraintesa». In ogni caso, lei - che, mariti a parte, di storie d’amore ne ebbe tante, dallo scrittore «sciupafemmine» Erich-Maria Remarque all’attore, «sciupafemmine» anche lui, Jean-Pierre Aumont - non è che si preoccupasse molto di essere «fraintesa». Dotata di robusti appetiti sessuali, non lo nascondeva. Era spregiudicata, ambiziosa, le piacevano i soldi, i gioielli. E gli uomini generosi. Confidò a Zsa Zsa Gabor: «Se un uomo mi manda dei fiori, vado sempre a guardare se tra i boccioli è nascosto un bracciale di diamanti. Se non c’è, non vedo l’utilità dei fiori». Una «donnaccia»? Certo, negli anni ‘60 fu anche arrestata per furto in un negozio, e di lei si è detto di tutto. Che sia stata l’amante di Hitler. Che dietro il suo lancio hollywoodiano da parte del produttore Beldin ci fosse una foto ricattatoria, scattata da Hedy durante un brutto incidente che lo aveva visto protagonista : il soffocamento di un’aspirante attrice, seguito alla richiesta, prontamente accolta, di una fellatio. Vero, falso? Può darsi che Hedy avesse il dna dell’avventuriera senza scrupoli, ma di sicuro non era un’oca. E la Burton fa bene a dare ampio spazio all’«inventrice». Perché Hedy - negli anni Quaranta - insieme al compositore americano d’avanguardia George Antheil, elaborò il progetto di un sistema telecomandato a lungo raggio che oggi è alla base del funzionamento della telefonia mobile e della tecnologia wireless. Alla memoria di Eva-Hedy, da parte nostra, un «estatico» esercizio di ammirazione, memori di quando, bambini innocenti, la contemplamo discinta in Sansone e Dalila e perdemmo l’innocenza.

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SCHEDE Gianni Pasquarelli C’è il capitalismo in Italia? Compagnia Libraria Milanese, 1979 Una situazione di crisi economica ma anche morale, etica, sociale caratterizza purtroppo l’epoca in cui viviamo. Ma da dove nasce questo stato di cose? Quale evoluzione ha avuto? Nel passato si potevano forse correggere, eliminare o mitigare i meccanismi che ci hanno portato oggi in questo stato di degrado? Sicuramente qualche risposta alle difficili domande poste si può trovare dai «testimoni del tempo», ovvero da quelle persone che hanno amato l’Italia e che, in qualche modo, hanno cercato di modificare un sistema che ci ha condotti nella situazione attuale, magari attraverso un libro. Gianni Pasquarelli, già direttore de Il Popolo, già direttore generale della RAI, attualmente editorialista in importanti quotidiani e amministratore delegato in importanti società che trattano di pubblicità, di autostrade, di assicurazioni, ha scritto nel 1979 il saggio C’è il capitalismo in Italia?, con la presentazione addirittura di Guido Carli. È interessante leggere questo volume, anche perché traccia un profilo economico-sociale della nostra nazione, visto da una persona ben addentro al «sistema». Iniziamo subito con un profilo sociale del tempo: «Le classi sociali sono mutate nel loro interno e nei loro rapporti. Le categorie si sono fatte più numerose e più rissose, il passaggio da uno stato sociale all’altro più svelto e convulso, il reticolo della retribuzione è ormai una giungla, la rincorsa a chi guadagna di più è il più frequentato degli sport nazionali. L’insediamento e la convivenza collettiva sono irriconoscibili rispetto a quelli di pochi anni addietro: le campagne sono svuotate, l’esodo imponente verso nord, le città si allargano disordinatamente e ininterrottamente, …ieri la politica e i partiti erano tutto perché il problema della sopravvivenza, talvolta della stessa sopravvivenza fisica, era il più incombente e pressante. Oggi lo sono di meno perché la gente economicamente sta meglio, e sente attenuarsi il desiderio del partito quale stru-

77 mento per risolvere i suoi problemi quotidiani… il conflitto sociale lo interessa fino a quando c’è un interesse corporativo da difendere, lo impegna assai meno se c’è un interesse collettivo». Ma ancora rincara la dose: «L’uomo-massa di oggi è quasi sempre un Tizio solitario che sente l’amaro della sua solitudine, nemmeno scalfita da una solidarietà che il più delle volte è attivismo di facciata o di bottega. La stessa libertà svuotata di valori e di princìpi morali, la libertà illiberale del permissivismo senza limiti, si rivela una mezza buggeratura, quando non sia anarchia sfascia-tutto o nichilismo suicida». Una descrizione calzante, non c’è che dire, considerando anche che è stata fatta in pieni anni di piombo, ad appena dieci anni dal ‘68…. Ma vediamo cosa Pasquarelli pensa della borghesia italiana, sottolineando che tra quelle europee fu l’unica a non avere un partito proprio: «…La borghesia italiana si destreggiò fra un partito e l’altro, sempre alla ricerca di una forza che la tutelasse… fu il segno di una sconfitta di una classe che mentre respingeva le suggestioni o i miti dello statalismo finì per vivere, o sopravvivere, grazie allo Stato….trivellando denaro pubblico e mungendo con i prezzi alti il povero consumatore». Ma ancora, dopo aver sottolineato l’«emotività» del nostro Paese, evidenzia ancora la sottomissione della grande industria nei confronti dei sindacati, sempre più esosi per ottenere «salari e retribuzioni sempre più alti» per i lavoratori, e l’indebitamento «pericoloso» delle industrie con il sistema bancario. In pratica, secondo Pasquarelli: «Il tramonto della borghesia industriale proprietaria si spiega anche con la contrapposizione tra il manager e l’azionista… il manager ha un patrimonio di idee che lo porta spesso a sentire l’economia al servizio dell’uomo, e non viceversa. L’azionista è un Tizio che pensa soprattutto al conto economico… si tratta di due personaggi con mentalità distanti, quanto due epoche…». In pratica Pasquarelli avverte un momento di trasformazione, una «rivoluzione silenziosa» con il passaggio di potere all’alta finanza a scapito della borghesia. Anche sulla classe politica e sul potere l’autore è molto critico, sia sul potere «sparpagliato» che magari si trova dentro una banca o in un consiglio comunale, sia sul potere

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78 «condiviso», con quelli che «formalmente stanno al potere e quelli che pare non ci siano invece ci stanno, con una mappa di potere che varia giorno dopo giorno», e non a caso cita Lama e Berlinguer. E ancora insiste, parlando di una «… saldatura tra impresa, sindacato, e politica fatta col mastice del primato della politica e in uno schema di società collettivistica che pare non abbia nulla in comune né con il mercato né con le regole di una gestione imprenditoriale pronta, tempestiva, autonoma ed anche creativa». Qual è la «terza via» che propone Pasquarelli? È una via «che abbia come punti cardinali i valori, i princìpi ideali, alcune robuste certezze. È l’unica via che possa vincere nell’uomo lo scetticismo e l’angoscia sul significato globale della sua esistenza, e l’amara delusione per la mole di problemi non risolti...la terza via è dunque quella dei VALORI (in grassetto nel testo) calati nei problemi reali». Interessante questo libro di Pasquarelli, che, oltre le numerose e convincenti considerazioni, testimonia che trenta anni fa, nei momenti di cambiamento e di trasformazione della società, c’era chi, con lungimiranza, ha avvertito di errori e di cambiamenti che ci hanno portato alla crisi attuale. PAOLO EMILIO PAPÒ Nello Gatta Il campo dell’onore Castelvecchi, pp. 256 € 16,00

IL BORGHESE me. Non è dunque un’opera prima, perché sarebbe più corretto dire che questa è l’epilogo di un’attività di serio approfondimento che Nello Gatta porta avanti da anni, con articoli, conferenze, saggi e canzoni. L’Autore, ci fa così dono di un romanzo storico ma non asfitticamente archeologico, curato nei dettagli ma mai bizantino. Bello e buono, per riprendere due archetipi del mondo antico, come il carattere dei protagonisti di questa fantastica epopea. «Sono Tiberio Claudio Massimo, figlio di Quinto, veterano»: inizia così il libro di Nello Gatta. E anche se la mente, forse inconsciamente, ci riporta indietro fino a Il gladiatore, tranquillizziamo subito il lettore che così non è. Non siamo di fronte all’ennesimo agiografico tentativo di fare soldi con Roma e la romanità di cartapesta. Siamo di fronte a Roma, quella autentica, ed ai suoi figli, quelli legittimi. Non quelli nati negli Stati Uniti d’America o nella mente fantastica di qualche pseudo storicoscrittore, ma quelli nati lì, ove Roma è vissuta come idea, più che come patria nel senso romantico e nazionalistico del termine. Non è, dunque, l’ennesimo libro in stile heroic fantasy che avremo la possibilità di acquistare a 9,90€ all’edicola sotto casa, che tenterà così di piazzare alla bene e meglio, fresche letture disimpegnate. Il caro Manfredi potrà perciò dormire sonni tranquilli nel sapere che questo libro non

Febbraio 2012 intaccherà la sua fetta di mercato, perché - per sua natura - questo non si rivolge a quelli che cercano di svagare con la fantasia, scadendo nel surreale di ricostruzioni storiche inverosimili. Si rivolge, invece, a chi è in grado di cogliere le vibrazioni sottili che l’epopea narrata è veramente in grado di evocare, come un tuono che rimbomba in lontananza. Perché le suggestioni evocate, sono tanto antiche ed originarie quanto attualissime per il cuore di chi ancora crede. Credere a cosa? Che Roma è impronta d’amore: Roma Orma Amor dicevano i maiores. E non importa che quella Roma sia oggi sepolta sotto i piedi dell’attuale Capitale d’Italia, perché se ai valori diamo il peso dell’eterna immutabilità, eterni riecheggiano nella mente e nel cuore di chi, magari sparuta e indomita minoranza, ne colgono, preservano e alimentano l’eco interiore. Questo libro si rivolge perciò a tutti coloro i quali ancora si riconoscono nella concezione espressa da Seneca nella formula vita militia est super terram: quelli cioè che credono che vivere non è conservarsi, ma lottare. Poco importa se appassionati, o meno, del genere romanzato. Perché non è tanto la forma, pure sopraffina, che qui tocca le corde del cuore, ma una sostanza veramente eccezionale, rispetto alla quale non resta che tributar merito all’autore correndo in libreria ad accaparrarsene una copia. ANDREA NICCOLÒ STRUMMIELLO

Se questa fosse, veramente, un’opera prima, in tutto e per tutto, allora dovremmo pensare ad un caso di emulazione o, peggio, di libro vergato da uno, ma scritto e pensato da altri: come avviene nel mondo dell’editoria molto più spesso di quel che si crede. Perché a leggere Il campo dell’onore, effettivamente primo romanzo di Nello Gatta, il dubbio potrebbe legittimamente venire: tanto è appassionante e ben fatto. Non è, invece, un’opera prima, nonostante questo sia il suo primo romanzo. Diciamo questo perché Gatta non è un parvenu della cultura - quella vera, nella sua dimensione integrale ma, è invece uno dei rari esempi di intellettuale militante, che ha saputo fondere la seria ricerca storica con l’intima aderenza ad una visione del mondo metastorica: ed è forse proprio questo il segreto di questo volu-

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In silenzio accettasti, cuore grande di madre le regole assurde di chi avevi adottato. Insegnasti l’amore ad un cuore malato che non seppe seguire la tua magica strada. Incredula e triste mi guardavi cadere impavida e fiera mi intimavi a seguire. Sussurravi ogni giorno al mio sguardo distratto l’esistenza di un mondo che valga la pena. Paziente aspettasti che il mio cuore capisse, che uscisse per sempre da un passato in frantumi. a cura di Carla Piccioni

Francolando Marano Dodici novembre la porta del nord allunga la sua ombra sul vallo sacro che segna il confine tra la Torre arsa e la terra degli avi. In lontananza un ultimo Sole tramonta sulle nostre eterne attese, la parentesi da poco riaperta viene richiusa e la Storia riprende il suo corso, ineluttabilmente. Un’altra lunga notte ci attende! Ma, nell’attesa paziente dell’ora che segnerà l’alba del nuovo giorno, mille volte beati noi che comunque vivemmo per un istante il ritorno. TIzIana MarInI La mia piccola felicità a volte capita. Si fa sentire piano con voce di bambina la mia piccola felicità, quella che assurdamente sento dentro di me così improvvisa come un lampo di notte, così piccola e lontana come una lampara nel mare buio. la sento e dimentico e vorrei tenerla viva in me ma dura il tempo di un sorriso. MIchela MarIoTTI Alla mia bambina per sempre entrasti in silenzio. due occhi impauriti in un mondo non tuo. Viaggiasti le pene, il dolore impazzito Mio unico scudo, mia isola persa a mio fianco affrontasti le schegge, i lamenti cammini perversi di strade illusorie.

Sei uscita in silenzio da un mondo non tuo. Senza addii laceranti per non darmi dolore il tuo cuore sapeva da saggia compagna che oramai io potevo viaggiare da sola. Franca MoraglIo gIUgUrTa Civiltà smarrita Falsità, luoghi comuni all’arsenico viaggiano comodamente urlando, vociando o in chiacchericci velenosi, in corsa, sulla giostra della menzogna, in un vortice inarrestabile seminano ogni sorta di crudeltà, invitano tutti a salire sulla giostra ridanciana e contagiosa, ad attingere alla morte dei valori e della libertà, per far proprio lo slogan “che l’unione fa la forza” anche nel putrido e nel male. Ma noi credenti liberi, che siamo moltitudini con occhi e menti sempre aperti, anche se stanchi, crediamo nel futuro, nella freschezza, nella purezza, nell’intelligenza della giovinezza libera e incontaminabile. Per queste certezze ci basta osservare il miracolo della creazione, che dio a tutti noi ha donato. Perciò smentendo e combattendo gli umani scesi nel vortice della malignità potremmo con l’amore fare il possibile per riportarli tutti sulla retta via ad ammirare il sole e le stagioni, a celebrare la vita, a ritornare... recuperando civiltà smarrita. MaUro PaPagnI Vento di febbraio Vento di febbraio soffia gagliardo, trasportando nubi tra me ed il sole. tumultuoso ed imponente nella libertà della natura nell’aperta campagna… il suo fragore è un richiamo per chi dal vento si lascia trasportare. come un viandante che procede con passo deciso così questo vento di febbraio rende evidente, irreale e conclusiva la mia permanenza in questa solitaria dimora. e nel vento,


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tra il turbinio delle foglie e dei rami, nel vento, che incessante soffia, mai domo nel vento ripongo i miei tristi ricordi, le mie antiche fortune e tutti i miei sogni… nel vento ritorno perché Vento io sono. da “Restando al vento” Sandro PIolI Lei Tutto è sogno e passa e resta passa per sempre e resta. Sei qui accanto passando restando passi con la tua mano nella mia. I nostri desideri si guardano hanno tendini tesi trattenendo nel tempo una carezza al nostro amore. Mi scopro dondolante chiuso in casa a pensarti come se io fossi un sogno nei tuoi occhi visto nel mio desiderio che abbracciato sta al tuo domani. VIncenzo angelo rUSSo Tra le insidie della bufera “dai confini della terra a Te grido mentre languisce il mio cuore” (Bibbia - Salmo 61/3)

T’invoco, ma nel buio ti nascondi. In un pozzo di miseria, si sprofonda lo squallore dell’anima mia. M’opprime, la calca delle colpe, la turba dei mali scuote le fondamenta della mia dimora. ai tuoi silenzi m’inonda l’angoscia incontenibile dell’abbandono ed il cuore è una fiammella tra le insidie della bufera. Soccorri il mio piede che vacilla; allontana dalla perdizione

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l’anima che trema per la sorte sua. nella notte, ho innalzato a Te il mio tormento assieme ai fratelli della mia sventura. anna rUggIero Scarcella I dimenticati Fotografie e sbiaditi sorrisi su marmi impolverati nessuno si ferma nessuno prega solo il cielo vestito a lutto……piange. claUdIo ScaraMella I So d’aver bisogno del tuo canto per la pace, perché dalle tue labbra sgorgano sia la luce che l’ombra per questo mio libro mentale. oggi l’Italia è un’onda d’ombra viola che m’attraversa per trascinarmi sulla riva bruciata dalla mia infanzia mediterranea. candida luna, la tua posa puerile si abbassa sul mondo come rami d’ulivo tra ciliegie. Un cefalo di squame bianche trema nel cesto di quest’acqua d’oro bruno. enza TIrendI Madre! Stasera la luna appare a me grigia un aereo s’illude di sfiorarla e lascia nel cielo un’immagine per me: Il volto chiaro coperto di veli eterei… la guardo! cerco intrepida la sua mano il mio cuore sussulta alla vista del suo manto.. Madre! Quante volte l’ho cercata.. e congiunte le mani in preghiera ho teso lo sguardo verso il cielo nell’attesa di lei, finché vedendo apparir le sue vesti ho sfidato il mondo…

Per proporre poesie per questa rubrica (max 20 versi), spedire una email con nome, indirizzo e numero di telefono a: luciano.lucarini@pagine.net con la dicitura «per il Borghese»


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ISSN 1973-5936 “Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”

Sc a a cc ll o ’it M a at li t a o

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MENSILE - ANNO XII - NUMERO 2 - fEbbRAIO 2012 - € 6


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