il Borghese - 2001 - n. 02 (Settembre)

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Uomini e fatti dell’Italia contemporanea VENT ’ANNI fa moriva Gianna Preda. Nessun giornale di destra o centrodestra ha trovato il tempo e la maniera per ricordare questa grande giornalista italiana: sicuramente perché troppo impegnati a “giubilare” Montanelli. A Lei ed al ricordo che ne fece Tedeschi è dedicato questo numero. * * * Da Seattle a Goteborg, da Genova a Durban: il crollo del vecchio sistema di equilibrio politico ed economico, nato all’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale, è ormai sotto gli occhi di tutti. I giornali cominciano a chiedersi se l’Onu non abbia ormai fatto il suo tempo (“L’ente inutile di nome Onu”, di Renzo Foa dal “Giornale” del 9/9/2001), mentre la FAO è

criticata per la gestione economica del personale (stipendi per gli impiegati dai 40 ai 70 milioni l’anno) e per il vuoto “istituzionale” della sua funzione. La Terra è un corpo malato, scosso da continui brividi di febbre, che i politici curano con i pannicelli caldi del compromesso e della resa politica, mentre il cavallo di legno del “no global” è alle porte: il crollo del muro di Berlino ha cambiato tutto per non cambiare nulla. * * * Berlusconi ha vinto perché la maggioranza degli italiani era stufa di governi “concertati” e chiedeva un cambio “radicale” delle “teste d’uovo” della Prima repubblica, all’interno dell’Amministrazione dello Stato. A quando il taglio netto?


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A vent’anni dalla scomparsa il ricordo di Mario Tedeschi

PER GIANNA PREDA L

A NOTTE fra il 6 e il 7 agosto, poco prima di mezzanotte, è morta Gianna Preda. S’è spenta tra le braccia dei suoi figli, Giacomo e Donatella, dopo aver lottato quattro mesi contro il cancro, dando prova tino all’ultimo di eccezionale coraggio e forza d’animo. Aveva sessant’anni, essendo nata a Coriano, in Romagna, l’11 febbraio del 1921. La vita non le aveva risparmiato niente, dai dolori morali agli oltraggi riservati nel 1945 a chi stava dalla parte sbagliata, alle fatiche del duro lavoro di chi si guadagna il pane scrivendo e non intrallazzando.

Il suo nome, per intero, era Maria Giovanna Pazzagli Predassi; ma tutti la conoscevano come Gianna Preda, lo pseudonimo che per Lei aveva coniato Leo Longanesi. Aveva esordito come giornalista nel dopoguerra al Giornale dell’Emilia (che poi si sarebbe di nuovo chiamato Il Resto del Carlino) e in seguito era passata al settimanale bolognese Cronache, diretto da Enzo Biagi. Chiamata da Aldo Borelli a Epoca, l’aveva poi seguito al Giornale d’Italia, dove era rimasta a lungo anche con la direzione di Santi Savatino. Al Borghese era giunta nel 1954, su invito di Leo Longanesi, e da allora non aveva più lasciato questo nostro giorna le, di cui era tuttora il Vicedirettore. La passione per il giornalismo si era innestata, in Gianna, sul fondo della sua origine contadina; per parte materna, infatti, la sua era una famiglia di piccoli proprietari. Questi due elementi, il desiderio prepotente di scrivere e il realismo assoluto di chi viene dalla terra, s’erano fusi, in Gianna Preda, con il calore, la passio nalità, l’irruenza e la schiettezza tipica dei romagnoli. E da tutto questo era venuto fuori un personaggio straordinario, sia sul piano umano, sia sul piano professionale. Per trent’anni abbiamo lavorato insieme e insieme abbiamo fatto del Borghese un documento-testimonianza della realtà italiana. Piaccia o non piaccia, questo giornale non potrà essere ignorato da chi, domani vorrà

capire cosa è accaduto in Italia dagli anni della ricostruzione a quelli attuali della dissoluzione: e Gianna Preda, con i suoi articoli 1e sue inchieste, le sue polemiche, ha fornito un contributo eccezionale. Tutti noi, a cominciare da me, siamo stati coinvolti nel suo modo appassionato e sincero di fare il giornalismo. Perché Gianna Preda era esattamente come appariva dai suoi scritti: irruenta, capace di imbarcarsi in liti furibonde e di passare subito dopo a straordinarie prove . d’affetto. Non esercitava la professione, la viveva. Per questo era sempre in buona fede, anche quando sbagliava. Ma la più alta testimonianza di coraggio civile e di professionalità, Gianna Preda l’ha data a me, a noi del Borghese, al pubblico, nel momento stesso in cui apprese di essere malata di cancro. Un radio logo, fatta la lastra,

La copertina del libro che fu pubblicato nel dicembre 1981, a cura delle «Edizioni del Borghese», contenente una «scelta essenziale» delle «Domande e Risposte di Gianna Preda», ed una serie di testi inediti, scritti poco prima della morte

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le disse la verità: Lei, del resto la pretendeva e non era donna cui fosse facile opporsi. Mi chiamò e corsi da Lei. Parlammo. «Incomincio la mia ultima avventura», disse. E aggiunse: «Il problema vero, a questo punto, non è morire, ma vivere. D’ora in poi so che, se pure riuscirò a dormire, ogni, mattina, aprendo gli occhi, dovrò ricominciare a vivere. E per far questo non può aiutarti nemmeno la religione, che va bene per chi s’abbandona; credo che tu avessi ragione, quando insistevi sulla necessità di fondare la esistenza su un coraggio civile tutto interiore, laico in definitiva». Affermazione che non era affatto in contrasto (ed io lo sapevo bene) con i sentimenti religiosi di Gianna, del resto noti anche ai lettori. Poi, il male proseguì, inesorabile, malvagio. Ho visto in lei come il dolore fisico possa annientare un cervello fra i più brillanti. Eppure questa donna, questa povera donna, appena il dolore le dava una pausa, subito si affannava a cercar ancora di lavorare, di dettare, di suggerire note. Quelle note che io poi trascrivevo e che ho pubblicato, settimana per settimana, fino all’ultimo. Credo che malattie devastanti come il cancro siano molto più tremende per le persone dotate di spiccata intelligenza e avvezze a vivere partecipando in modo intenso agli avvenimenti. Le sofferenze fisiche si possono, forse, immaginare, ma chi potrà mai immaginare le torture morali di chi si sente prigioniero d’un corpo ormai condannato, chiuso in una «scatola» di carne che va disfacendosi, mentre la testa vorrebbe ostinarsi a funzionare? Pochi giorni prima di morire, col filo di voce che le era rimasto mi disse: «Non ho dimenticato nulla, sai. Sono stata Gianna Preda del Borghese. Adesso, mi dispiace di non avere più la testa per poterti essere utile». Io credo, che la lotta per difendere. il proprio io pensante contro la morte che sta sopravvenendo sia la forma più alta di coraggio. Come diceva Gianna, quando scoprì di avere quello che chiamò subito «il malaccio», «il problema è vivere ». E adesso noi siamo rimasti soli a fare i conti con questo problema. Perché il giornalismo è come lo spettacolo, che deve continuare. [MARIO TEDESCHI] (Dal «Borghese» n. 33/34 del 23 agosto 1981)

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Dalle lettere di Leo Longanesi

«IL FASCISMO sembrava un sogno» di Gianna Preda IN QUESTI giorni è stata inaugurata, a Milano, la Mostra delle opere di Leo Longanesi. Non sarà certo il mio modesto giudizio o una mia cronaca ad aggiungere qualcosa al successo della Mostra. Essa, tuttavia, ha suscitato in me il desiderio di ricordarlo in qualche modo; un modo che gli sarebbe piaciuto e che lui stesso, un certo giorno, mi suggerì, senza sapere che sarebbe arrivato anche troppo presto il momento per seguire il suo consiglio. Quel giorno, Longanesi aveva letto alcuni articoli sulla morte di Malaparte. Mi disse: «Ha visto? Ha dovuto morire per trovarsi intorno tanti amici. Capiterà anche a me. Rievocheranno le mie battute, anche quelle che non ho mai pronunciato e magari mi chiameranno Maestro. Ma lei, in quel caso, pubblichi qualcosa delle mie lettere. Almeno quelle le ho scritte davvero e la sua rievocazione avrà il pregio di non essere fatta di ricordi sbagliati o pre-fabbricati». Rileggendo le numerose lettere di Leo Longanesi mi sono resa conto, tuttavia, che non sono tutte pubblicabili. O meglio, non ancora. Certi suoi giudizi su molti personaggi attuali e certe interpretazioni dei fatti, hanno bisogno di essere selezionati e soltanto il tempo servirà a questo scopo. Sono convinta, pertanto, che molte delle sue opinioni resisteranno; forse più a lungo degli stessi personaggi ed avvenimenti che le provocarono. Gli stralci delle lettere riveleranno alcuni aspetti dell'uomo, ma soprattutto il suo modo affettuoso e persino umile di insegnare agli altri a Pensare, a scrivere, ad esprimere le proprie idee. Forse i suoi «taccuini» più veri sono nelle innumerevoli lettere che, in tanti anni, egli ha scritto agli amici, ai collaboratori e persino ai nemici. IL BRODO D'OCA E LA TV Qualcuno, scrivendo in questi giorni di Longanesi Direttore, ha detto che per lui

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alcuni scrittori erano «tabù», nel senso che i loro pezzi li considerava intoccabili. In realtà, per Longanesi, non esistevano tabù e non vi era articolo, qualunque firma esso portasse, che non avesse bisogno delle sue «correzioni». Spesso egli suggeriva i temi e non soltanto ai collaboratori «minori». Il 20 aprile del '56, mi scriveva: «Le do un tema buono. Dove sono finiti i busti del Duce e chi li scolpì? Gli scultori del tempo ora sono tutti a sinistra. Altro argomento: i processi fatti dagli avvocati, con la Partecipazione dell'alta società, al Golden-Gate. Mai si sono dette tante baggianate e mai si sono visti tanti fessi assieme». Non tutti i suggerimenti di Longanesi erano cosi sintetici. «Adesso sono spuntati nuovi documentari tipo Incom», diceva nella stessa lettera. «Ora accade questo: che il tono, al Paese, si dà con due mezzi: la radio e le immagini. L'una e le altre sono in mano di cretini i quali rispecchiano il proprio basso livello di cultura e di tono; siamo nelle mani di quattro pescicani, delle loro preferenze, dei loro amori, della loro miserevole vanità. E lo Stato, questo Stato cattolico e democratico che fa? Va verso il popolo insegnandogli il fasto delle mezze calzette milionarie. Stiamo livellando tutto, non in nome dello Stato Sovietico che, bene o male, è qualcosa, ma in nome della cretineria. Educhiamo il prossimo a bere il brodo d'oca di Pallavicini. In fondo è la pubblicità che fa l'educazione in Italia.»

Qualunque fenomeno dei tempi solleticava i suoi sarcasmi o i suoi sdegni. Persino quello scontato, se pur clamoroso, del «divismo». Ecco che cosa mi scriveva a proposito di un «idolo moderno»: «Cara Gianna, dovrebbe scrivere un articolo contro quel Mike Bongiorno ed il fracasso che si fa intorno al suo nome. L'Europeo, tempo fa, gli dedicò varie pagine pubblicando la sua fotografia in copertina, non soltanto, ma aggiungendovi anche quelle dell'infanzia come se si trattasse, che so, di Pascoli o di Pacinotti. Al cinema è stato presentato un documentario in cui questo tipo, seduto allo scrittoio (a far che?) urlava agli italiani ed agli americani. Ora costui prende papere, sbaglia gli accenti delle parole e non sa mai se le risposte che gli danno i concorrenti sono esatte o no. Di

questo passo dove andremo a finire? Se i nostri giornali presentano questi tipi come eroi, il pubblico finirà per credere che la sola cosa da fare, a questo mondo; sia quella di mostrarsi con un sorriso ebete sulle labbra. Nello stesso rotocalco di questa settimana, c'è una inserzione del prodotto X che offre la foto di Mike con dedica. Questa maniera di mescolare la gloria con la popolarità e le saponette con le foto, ci porterà a creare una società tanto imbecille, che non sapremo più con chi scambiare due frasi. Si dirà che questo è il mondo moderno, che ciò accade in America. Ma non è detto che si debba essere moderni in questo modo; non è nemmeno detto che l'America debba essere imitata. Ma a beneficio di chi va questa cretineria nazionale che andiamo propagando? Dello Stato? Ma cosa diverrà mai questo Stato, fra dieci anni, quando avremo ben nutrito gli italiani di TV? Questo Mike è semplicemente un presentatore, qualcosa come un commesso che offre merce dietro il banco. Non ha nemmeno la scusa dell'Arte: non è ballerino, non è cantante, non è nulla. La celebrità si deve raggiungere, bene o male, con qualche rischio, con qualche fatica…» Per Longanesi non esistevano argomenti importanti e argomenti futili. A proposito della cronaca mondana, il 30 ottobre del '56, mi suggeriva: «Mi faccia un pezzo mondano. Questo tipo di articolo deve stare in piedi da solo, come un racconto o una 'moralità'. I dati, i nomi delle persone e delle cose, contano fino a un certo punto. L'importante è che da quell’articolo se ne tragga una impressione di squallore, di miseria, di idiozia. Lo so, questa mondanità è difficile da rappresentarla; affrontare un ricevimento o una serata di gaia, da cronista mondana, è facile. Bisogna affrontarla, invece, da persone che voleva rimanere a casa, che ha altri pensieri, altri gusti, altre noie ». Nel periodo della insurrezione ungherese ricevetti molte lettere, una delle quali dimostra che anche un uomo come Longanesi poteva, ad un certo momento, alimentare una illusione. In quel tempo egli stava per lasciare la vecchia casa editrice, che portava e porta

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tuttora il suo nome. Alla fine di ottobre mi diceva in una lunga lettera: «Io, di spirito, con tutti i fastidi che ho, non riesco a cavarne fuori: sono diventato una rapa malinconica. Qui (nella casa editrice) le faccende si mettono male. Mi sembra di essere il Papa quando è in agonia, nell'interregno tutti lo lasciano morire solo nel suo letto. Forse con l'anno nuovo dovrò andarmene e ricominciare daccapo, a questa tenera età. Grazie a Dio ci sono gli ungheresi e qualcosa contano per la nostra causa: molte illusioni socialiste salteranno per aria e si ricomincerà a vedere le cose in altro modo». Dì li a poche settimane, deluso, mi scriveva: «Quel che è certo è che il contegno della nazione è penoso, ridicolo. La borghesia, soprattutto è più vile e farisea che mai. Tutta Milano ha paura della guerra ed è un tal vedere questi ricconi che adesso sperano in Ike, ma sono sempre disposti ad accodarsi a Togliatti purché sia difesa la pace, la loro pace beninteso. E non dubiti: fra due mesi tutti avranno calato le brache e in Russia tornerà uno che assomiglia a Stalin». Fu in quel periodo che Beltrametti, del Borghese, consegnò a Longanesi un articolo su certi fatti spiacevoli di cui erano stati protagonisti alcuni italiani a Budapest. È vero, come è stato scritto, che il pezzo (pur essendo corredato delle firme di tre testimoni oculari), non venne pubblicato perché fra gli ita liani vi era un amico di Longanesi. E quello fu certamente uno dei gesti più sinceri della sua amicizia verso un uomo che non lo seppe nemmeno. Comunque, a proposito di quell'articolo che avrebbe certamente mandato all'aria l'atmosfera «eroica» di certi «servizi speciali», Longanesi mi scriveva: «I fatti sono ancora più gravi di come Beltrametti li ha raccontati. Il Mangili ha rincorso la macchina che fuggiva (quella che trasportava alcuni giornalisti che avevano fraternizzato con un corrispondente dell'Unità) ma l'auto non si arrestò e fu lasciato a piedi. Lasciamo queste faccende a tempi peggiori, non lontani. Mi ha poi raccontato un giornalista del Lombardo che era a Buda, che M. (un uomo politico accorso in aiuto degli insorti) chiuso nella Ambasciata, quando sparavano lontano seicento metri, rigettava sotto il tavolo. Credo che convenga caricare la dose contro i comunisti ed i socialisti democratici e no. Senza lasciar fiato alla grossa borghesia che

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crede di non morire non leggendo i giornali». COSTRUTTIVO E DISTRUTTIVO Longanesi si infuriava ogni volta che qualcuno gli diceva che il suo giornale era soltanto distruttivo. Al riguardo scriveva a Tedeschi innumerevoli lettere. A me, in una lettera del 22 marzo del '57, diceva: «Parliamo un po' del Borghese. È un pregio quello di non mutare opinione, ma i lettori spesso si annoiano, soprattutto perché non diamo loro speranza e non gli indichiamo la via della ‘redenzione’. È difficile far loro capire che la via c'è e la mostriamo ogni settimana criticando quello che non va...» E più avanti: «Dobbiamo scrivere sulle tasse. Quel tipo che incontrammo in trattoria con S. è uno di quelli: vive con le tasse che paghiamo noi. Mangia le fettuccine di Otello attraverso il modulo Vanoni. Dobbiamo battere sulle tasse e difendere i poveri diavoli. Occorre fare liste di spese che non servono, fatte apposta per mangiare: chiese, turismo, stadi, carrozzoni, eccetera. Roma ne è piena. E lei trovi casi pietosi di cui nessuno parla, da contrapporre alle mangerie ». Rimpiango di non aver mai scritto un articolo che Longanesi mi consigliò in una lettera del '56: «Cerchi di fare qualcosa di costruttivo, come dicono i cretini. Oppure faccia l'elogio di qualche povero diavolo che si ostina a credere nella DC pur non credendoci. O faccia la storia di una donnetta qualunque che vota DC perché crede nella Madonna, ma ha in odio i sinistrismi. Questa donna non capisce più nulla; ne ha viste di tutti i colori, ha avuto un figlio morto in guerra, il marito epurato, vive con pochi soldi, ma vota per la Madonna. Essa si chiede: La Vergine è democristiana? Per chi potrebbe votare? L'intitoli: Una povera donna». A volte era colto da incertezze e dubbi. Il 23 marzo del '57, in una lettera di poche righe, mi confessava: «Credo che alcuni lettori che abbiamo perduto siano cattolici. Così penso, vagamente. Ma gli altri che abbiamo guadagnato chi sono?» Uno dei suoi temi preferiti, nelle discussioni, era il seguente: «Noi dobbiamo far capire che siamo cattolici pur essendo anticlericali. Bisogna far intendere ai lettori che, raccontando le male azioni di un cattivo

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cristiano, non intendiamo coinvolgere Dio. Che è un fusto molto più grosso». UNA BRUTTA FACCENDA Molto spesso, negli ultimi tempi, Longanesi affidava alle sue lettere i pensieri più segreti. «I malanni mi sono arrivati tutti in una volta», si lamentava nel novembre del '56: «Denti, schiena, sciatica, fegato. In più mi è venuta la malinconia della vecchietta. Tutto mi sembra inutile. Quel che mi attira non mi piace e quel che mi piace mi annoia. Ho ripreso a dipingere, ma con fatica. Il fatto è che tutti tendiamo al male, al Diavolo. Mi manca il Diavolo... Vorrei andare a Londra se potessi. Lei riderà, eppure è così. I sedentari sognano i viaggi, i timidi le avventure, i patetici le puttane. Certo tengo duro, ma sono stanco. Forse tengo duro su troppi punti». In quel periodo Longanesi aveva sempre come lui stesso confessava, «il chiodo fisso» della casa editrice. Lo spaventavano poi le responsabilità organizzative del nuovo ufficio di cui era proprietario e lo atterrivano i contatti con gli addetti alla distribuzione e alla pubblicità. Molte cose inesatte sono state scritte, inoltre, sul suo distacco dai vecchi soci. Ed è per precisare uno dei tanti punti, che registro la seguente frase: «M. M. è venuto a dire che suo padre desidera che non sia più redattore capo del Borghese perché ciò disturba i suoi affari. Gli ho detto che sta bene, ma mi scriva una lettera di dimissioni. Mi ha detto: Ma è stata una cosa in famiglia la mia nomina». Al che risposi: «Certo, ma vede, fra noi tutto comincia in famiglia per poi finire in tribunale. Una volta tanto facciamo a rovescio. La lettera di dimissioni non mi è ancora giunta». Il 10 dicembre dello scorso anno mi scriveva: «Le confesso la mia stanchezza. Qui c'è già aria di Natale: le vetrine con la neve di bambagia ed il vecchio anno barbuto. Odore di mandarini e soprascarpe di gomma umida e nebbia. Tristezza infinita. Brutta faccenda questo dover assistere ogni anno alla nostra vecchiaia. Poi ci sarà un discorso del Papa e così saremo a cavallo...» UN NEGRO VESTITO DI BIANCO Non erano poche, tuttavia, le cose che

liberavano dalla noia, se non dallo scetticismo, l'animo di Longanesi. Un avvenimento qualunque era capace di «tirarlo su». Infatti, il 12 giugno del '57, mi raccontava: «Questa mattina sono stato ad un matrimonio. Lo sposo sembrava un negro vestito di bianco. C'era anche X con la sua signora, vestita come una poltrona. C'era tutta l'Italia del mezzosoldo repubblicano, degli Enti, della Nazione disarmata. Il fascismo sembrava un sogno! Le giovani generazioni fanno paura: non hanno sospetti né curiosità. Io mi sentivo tredicenne. Sono uscito rinfrancato». E a proposito di un articolo sulle giovani generazioni mi consigliava: «Parli dei figli della borghesia. Di questi giovanottelli che non sanno cosa fare, che si annoiano con tanto poca grazia, che ridono di tutto e poi piangono se non hanno l'automobile... Qui c'è la nebbia, sono chiuso in una bambagia grigia e non si sa più cosa sperare. C'è l'odio però, che è sempre un grande ricostituente ». Longanesi, in realtà, non «reggeva» a lungo un simile ricostituente e spesso, i torti veri o presunti dei suoi amici, gli ispiravano più malinconia che odio. Ma invidiava quelli che non soggiacevano alla noia ed alle angosce. «Invidio X e Y», mi confidava in una lettera del marzo scorso, «perché non cadono mai e sono sempre padroni di se stessi, tanto felici delle loro piccole vanità.» E poche settimane prima di morire: «Mi sento solo come un chiodo piantato nel cemento. Ma in casi come questi, cara Gianna, ci si distrae anche con il cuore gonfio di amarezza. Ci si butta a corpo morto nel lavoro, ci si affida ad altri piaceri come l'ambizione o le risse e ci si difende dal patetico con lo scetticismo». La lettera concludeva con un consiglio gentile e affettuoso: «Lei come sta? Si curi, ma non ingurgiti troppe medicine. Alla lunga fanno male. Sia metodica in tutto. Glielo dico io, che non conosco metodi e sto malissimo». Eppure non mi sembrò mai tanto vivace e sereno come in quel periodo; e quando mi giunse una lettera in cui mi diceva: «In questi giorni mi sono messo a scrivere un libretto. Mi aiuta. Mi sento capace. Mi sento intelligente, cattivo, vitale. Posso persino digerire la noia», mi convinsi che Longanesi, nonostante tutto, era in «ripresa». Poi, una mattina mi scrisse: «Io sto molto meglio. Mi sento più leggero, se così si può

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RICORDI di Budapest

Vienna, 11 novembre 1956 Quanto segue è a memoria dei fatti occorsi durante gli ultimi giorni della permanenza di noi sottoscritti a Budapest e delle circostanze riferentisi alla partenza per Vienna effettuata questa mattina a bordo di un convoglio composto di vetture non italiane.

NEL N. 50 di Candido, uscito il 15 di dicembre, in una rievocazione di Leo Longanesi, si afferma che egli scartò l'articolo di un giornalista romano (cioè un pezzo mio) sul comportamento dei giornalisti italiani a Budapest, perché nessuno dei colleghi che si trovarono nella capitale ungherese volle con la propria firma avallare i fatti narrati. Per la verità è bene precisare quanto segue: 1) che Leo Longanesi era in possesso di una dichiarazione sui fatti di Budapest stilata a Vienna e firmata da me e da altri due giornalisti; 2) che i fatti di Budapest, come risulta da tale dichiarazione, si sono svolti in modo un po' diverso da come è stato riferito; 3) che Leo Longanesi non pubblicò il mio articolo per i motivi che Gianna Preda riferisce in altra parte di questo giornale.

Venerdì 9 novembre Ore 9. - Tutti i giornalisti stranieri presenti a Budapest si ritrovano davanti alla Legazione Americana in attesa di formare un convoglio diretto a Vienna. Nel frattempo l'onorevole Matteotti, il principe di Lowenstein ed il giornalista francese Michel Gordey (l'unico che parli la lingua russa) stanno cercando di ottenere un lasciapassare presso l'Ambasciata Sovietica. Ore 11. - I rappresentanti dei vari gruppi nazionali (per gli italiani viene incaricato l'onorevole Matteotti) non avendo ottenuto il permesso sovietico, decidono di tentare ugualmente l'uscita da Budapest. Ore 15. - Riuscito vano il tentativo, si va tutti al Ministero degli Esteri Magiaro dove viene promesso per il mattino seguente un nulla osta bilingue.

[EGGARDO BELTRAMETTI]

Sabato 10 novembre Ore 9. - Appuntamento al Ministero degli Esteri. Mentre si attende il nulla osta, il giornalista Gordey insieme all'onorevole Matteotti si reca al Comando Militare Sovietico per trattare la consegna di un lasciapassare comune al gruppo italo-francese Le trattative hanno esito favorevole, tanto che alle ore 11 veniamo invitati al Comando Sovietico e lasciamo al Ministero l'Addetto Stampa avvocato Sablic per il ritiro dei nulla osta magiari. Ore 11,30. - Presso il Comando sovietico apprendiamo che i permessi russi verranno rilasciati macchina per macchina, nominativamente agli occupanti. Michel Cordey offre la precedenza agli italiani per la compilazione degli elenchi da parte dell'ufficiale sovietico addetto. L'onorevole Matteotti presenta al maggiore sovietico gli elenchi degli occupanti delle tre vetture italiane nelle quali è stato fatto posto a 13 persone, tra le quali sono compresi i tre giornalisti comunisti Jacoviello (Unità ), Bontempi (Paese), Perucchi (Vie Nuove). Gli

dire. Le scriverò a lungo domani, per parlarle del Borghese al quale mi dedico, ora, con fanatismo». Alcuni giorni dopo, invece, Leo Longanesi moriva, solo, in una clinica di Milano. Negli ultimi tempi aveva detto che «sarebbe finito tutto in una volta e solo». Ma io non ci avevo creduto. Non ci credo nemmeno ora che sto scrivendo di lui, morto. Qualcuno, prima o poi, dovrà raccontare la storia di Leo Longanesi; quella vera, e non la favola costruita sui facili schemi del sentimentalismo e dei ricordi sbagliati o prefabbricati. Quel giorno sarà facile convincersi che Leo Longanesi, lungi dall'essere un «superato» come qualcuno che non lo conosceva ha scritto in questi giorni, sarà «attuale» anche domani, quando saranno passati molti anni dalla sua morte ed altri avranno continuato ad imitarlo, bene o male, come lui diceva. (Da «il Borghese» n. 51 del 19 dicembre 1957)

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altri sei italiani saranno ospiti di macchine straniere ed in particolare noi tre sottoscritti di macchine francesi. Ore 12,30. - Compilati gli elenchi di quelle tre prime vetture, il Comando Sovietico decide di soprassedere ai successivi rilasci. In tal modo soltanto il primo gruppo è in possesso del lasciapassare (ore 14) ed esce dal Comando senza comunicarlo agli altri. Affermano anzi i «13» che se ne sarebbe riparlato l'indomani e che gli altri, come noi sottoscritti ed il gruppo francese, non ancora passati al vaglio dell'autorità militare, avrebbero dovuto attendere nel Comando. Ore 14,45. - Gordey ci comunica che i russi riprenderanno la pratica alle ore 8,30 dell'indomani.

Ore 15,00. - Ritroviamo il gruppo dei «13» all'Hotel Duna; dopo un breve conciliabolo e dopo aver mangiato essi hanno deciso di partire. L'onorevole Matteotti dichiara che la partenza è dovuta al desiderio della maggioranza del gruppo dei «13», desiderio che egli ha invano tentato di contrastare. Gli altri sei italiani, fra cui noi sottoscritti, non sono stati consultati. Dome nica 11 novembre Ore 10,40. - I sottoscritti ed il gruppo francese ottengono dal Comando Sovietico i permessi e, dopo una sosta alla Legazione Francese, lasciano Budapest. Firmato: FILIPPO RAFFAELLI - EGGARDO BELTRAMETTI - VITTORIO MANGILI

Il 18 luglio 2001, all’età di 92 anni, moriva a Milano Indro Montanelli. Nel 1950 fu tra i giornalisti che accettarono di scrivere per Longanesi sulle pagine del Borghese. Alla morte di Longanesi, nel settembre del ‘57, Montanelli abbandonò il giornale. Ufficialmente perché non si riconosceva nella nuova gestione, ma la verità era che avrebbe voluto essere lui il direttore. Mario Tedeschi subentrò a Longanesi nella guida del giornale e Montanelli non perdonò mai lo sgarbo. A fronte della marea immane di ricordi positivi del ‘’più grande giornalista italiano del ‘900’’, noi vogliamo ricordare l’uomo riproponendo la lettera che scrisse a Tedeschi nel dicembre del ’57, con la risposta del Direttore del ’’Borghese’’, circa i fatti di Ungheria del 1956, nei quali fu coinvolto come corrispondente del Corriere della Sera da Varsavia.

GLI ITALIANI in Ungheria Caro Tedeschi, sul numero del 19 dicembre del '57 comparve, a firma di Gianna Preda, un articolo, «Il fascismo sembrava un sogno», in cui, fra l'altro, si dice: «Fu in quel periodo che Beltrametti, del Borghese, consegnò a Longanesi un articolo su certi fatti spiacevoli di cui erano stati protagonisti alcuni italiani a Budapest. È vero, come è stato scritto, che il pezzo (pur essendo corredato delle firme di tre testimoni oculari) non venne pubblicato perché fra gli italiani vi era un amico di Longanesi. E quello fu certamente uno dei gesti più sinceri della sua amicizia verso un uomo che non lo seppe nemmeno. Comunque, a proposito di quell'articolo che avrebbe mandato all'aria l'atmosfera 'epica' di certi 'servizi speciali', Longanesi mi scriveva: ‘I fatti sono ancora più

gravi di come Beltrametti li ha raccontati, eccetera’». Sebbene l'allusione alla mia persona fosse chiara, non avevo dato peso all'insinuazione. Mi ero limitato a stupirmi un po’ della firma che portava. Gianna Preda ha continuato sino ad oggi a mostrarmi amicizia, simpatia e, bontà sua, perfino ammirazione. E non capisco come abbia potuto farlo, se nutriva su di me così terrib ili sospetti. Purtroppo, in questo Paese, a buttare su qualcuno un po' di sterco, fa subito macchia. E così son venuto a sapere che i «fatti ancora più gravi» hanno dato luogo a qualche romanzo. Ciò mi obbliga a un intervento (che mi ripugna) per impegnare la signora Gianna Preda: 1) A precisare questi «gravi fatti» se Longanesi glieli disse. 2) A indicare da che fonte li ebbe. E siccome immagino che la fonte siano stati i tre giornalisti (Filippo Raffaelli, Edgardo Beltrametti e Vittorio Mangili) che stilarono una protesta contro il gruppo dei «tredici» (fra cui io) partiti con qualche ora di anticipo su di

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LE FOTOGRAFIE

IL REALISMO SOCIALISTA, OGGI COME IERI Pietro Nenni, ovvero la ‘’base’’ come zerbino Settembre 2001

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DALL’ALBUM

TERRORISMO ROSSO ANNI ‘70 - ‘’Uccidere un fascista non è un reato…’’ (Nella fotografia, il corpo di Virgilio Mattei bruciato vivo da terroristi comunisti il 16/4/73) Settembre 2001


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DEI RICORDI

TERRORISMO ROSSO ANNI 2000 - Il volto nuovo dei cappellani militari (Nella fotografia, Don Vitaliano Della Sala, al raduno del Gay Pride svoltosi a Roma) Settembre 2001

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OGGI COME IERI - DUE STATI DUE POLITICHE IN IRLANDA: poliziotti schierati per difendere l’ordine IN ITALIA: poliziotti incolonnati per scortare il disordine

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loro, invito questi ultimi a precisare di quali «fatti gravi» io sarei stato il protagonista. Nella protesta è detto che l'onorevole Matteotti aveva cercato di contrastare il desiderio della maggioranza del gruppo di partire prima degli altri tre. L'onorevole Matteotti sa, e anche tutti gli altri undici sanno, che io lo appoggiai. Certo, non potevo restare, se gli altri partivano: sono al servizio di un giornale, e come tale non ho il diritto di arrivare in ritardo. Comunque, invito formalmente Beltrametti, Raffaelli e Mangili, nonché ogni altro italiano che si sia trovato in quei giorni presente a Budapest, a dire quali «fatti gravi» mi possono venire addebitati, all'infuori di quello di essere partito, per le categoriche ragioni professionali che ho detto. E ora, un piccolo commento. Delle due, l'una. O Longanesi non riprodusse pubblicamente le accuse contro di me perché nemmeno lui ci credeva; oppure non lo fece, per amicizia. In un caso e nell'altro, ti pare che la signora Preda abbia agito bene rivelando quella sua confidenza, e proprio sul giornale in cui per anni io ho fraternamente collaborato con Lui? Dell'eleganza di un simile gesto, lascio giudice il lettore… Comunque il tentativo di mettermi contro Longanesi lanciandomi addosso una vaga accusa firmata da lui post mortem, non è riuscito. Io rimango con Longanesi, nonostante i suoi difetti fra cui c'era anche quello di pensare sempre il peggio di tutti, compresi i suoi amici. Non invoco l'articolo 8. Spero che sarai abbastanza gentiluomo per pubblicare questa mia lettera. Tuo, cordialmente INDRO MONTANELLI Caro Montanelli, mi spiace che l'articolo di Gianna Preda ti abbia costretto a questo intervento che «ti ripugna». Purtroppo, dopo la morte di Longanesi, da molte parti si sono scritte cose inesatte sul conto di Lui: alla fine sembrava che quest'uomo non avesse idee precise, non credesse in nulla di quel che il Borghese ha difeso e difende, e così via. Il Candido, cui la mancanza di Guareschi conferisce ogni giorno di più un tono conformista, si è inserito alla fine pubblicando uno dopo l'altro la tua

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prefazione al «Taccuino», ed un articolo zeppo di cose inesatte su Longanesi. In questo articolo si diceva, fra l’altro, che un giornalista romano, trovatosi a Budapest, aveva scritto per il Borghese un articolo, affermando che un gruppo di colleghi italia ni aveva lasciato nella capitale ungherese, mentre ancora durava la rivolta, alcuni connazionali. L'estensore dell'articolo, secondo il Candido, però, «non trovò nessuno disposto a mettere la firma accanto alla sua». Tu capisci che non potevamo lasciar passare sotto silenzio questa panzana, perché Beltrametti, nostro redattore, in realtà, aveva ottenuto da Vittorio Mangili e Filippo Raffaelli la firma sotto la dichiarazione, che del resto abbiamo pubblicato nello stesso numero del 19 dicembre 1957. Noi dovevamo dimostrare che il nostro redattore non era bugiardo, o pazzo. Quanto ai «fatti gravi», nessuno indica te personalmente come «il protagonista». È certo però, (e i tre giornalisti citati lo hanno già scritto nella dichiarazione pubblicata sul Borghese) che il cosiddetto «gruppo dei tredici», dopo aver dichiarato ad italiani e francesi che da Budapest si doveva partire tutti insieme, appena ebbe i visti necessari prese la via del confine, lasciando a piedi tre italiani e tutto il gruppo parigino; è certo che i tre italiani rimasti a terra non erano comunisti, mentre il «gruppo dei tredici» distribuì molto saggiamente un comunista per ogni macchina; è certo altresì che, nella condizione di allora, con la possibilità di un fatto nuovo e imprevedibile ad ogni momento, restare a piedi poteva anche significare la fine per i giornalisti Beltrametti, Mangili e Raffaelli. Tu mi dici di avere appoggiato Matteotti quando egli propose al «gruppo dei tredici» di rispettare i patti, ed attendere gli altri per partire tutti insieme: lo credo, e ne sono lieto. Tutti però, saremmo stati più lieti se, oltre ad appoggiare Matteotti con le parole, tu fossi rimasto con i tre appiedati, lasciando da parte i comunisti. Tu risponderai ancora una volta che «essendo al servizio di un giornale, non avevi il diritto di arrivare in ritardo». Mi dispiace dover annotare, caro Montanelli, che tu eri al servizio di un giornale anche nei giorni della rivolta, quando sei rimasto con gli altri nella legazione, mentre Beltrametti, Mangili e Raffaelli giravano per le strade: Beltrametti,

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poi, continuò ad alloggiare tranquillamente all'albergo «Duna», come se nulla fosse; e Mangili, che invano rincorse le vostre macchine, fu l'unico a portarvi dentro le notizie di quanto accadeva fuori. Purtroppo, da quella forzata coabitazione con Matteo Matteotti, questo «Gastone» della politica, tu e gli altri tornaste convinti che la rivoluzione ungherese fosse stata un episodio socialdemocratico; accettaste ed avallaste per primi la tesi comunista, della insurrezione «dentro» il sistema, e non «contro» il sistema. Se fu per arrivare a questo risultato che abbandonaste i tre italiani in Ungheria, pur di arrivare per primi a scrivere certe cose, penso che il pubblico non ci abbia guadagnato nulla. Fu soprattutto questo fatto che dispiacque a Longanesi, dal cui ricordo nessuno ti vuole distaccare. E sarebbe impossibile, del resto, poiché già vi avevi provveduto da solo, facendo scomparire dalle colonne del Borghese quell'Antonio Siberia, che tutti noi amavamo, e che ci auguriamo, presto o tardi, di ritrovare. Tuo, cordialmente MARIO TEDESCHI

LONGANESI e Montanelli DEL RESTO, furono proprio quei tratti del mio carattere, che Prezzolini sottolinea, a rendere saldo il mio incontro con Longanesi. Credo, infatti, che Longanesi mi abbia sempre consentito di «sbucciare» la sua pelle di Uomo Difficile, perché s’era presto reso conto di che pasta fossi fatta: una pasta che, buona o cattiva che fosse, gli piaceva e forse lo divertiva e, spesso, lo costringeva a non «truccare le carte». Eppoi sentiva che io non provavo per lui la soggezione che invece avevano anche molti suoi vecchi amici, per non parlar dei nuovi. E questo lo disarmava e lo spingeva ad essere, in tante occasioni, quel che in effetti era: anche un po’ banale, o emotivo. Tipico il suo rapporto con Montanelli, che era fatto d’amore e di odio. Sempre prigioniero di sfinimenti che spesso erano più psicologici che fisici, Longanesi una volta mi scriveva: «Io sono un po’ stanco, lo confesso. Poi, ho il chiodo della Longanesi & C. che mi è entrato nel cervello. Poi, chissà perché, sento a distanza l’ostilità di Montanelli. Non che me ne importi granché, ma quello è un uomo infido. Forse la miglior cosa sarebbe ch‘io venissi a Roma e lo prendessi per il colletto, tanto per metterlo in guardia. I toscani bisogna prenderli di petto, sono vili. Qui c’è già l’aria di Natale: le vetrine con la neve di bambagia e il vecchio anno barbuto. Odore di mandarini; soprascarpe di gomma lucida e nebbia. Tristezza infinita. Brutta faccenda, questa di dover assistere ogni anno alla nostra vecchiaia. Poi arriverà anche un discorso del Papi, così saremo a cavallo». Ma Longanesi non avrebbe avuto molto da aspettare la vecchiaia, perché di lì ad un anno, o poco meno, non avrebbe potuto aspettare più nulla. E ancora, in una lettera scritta un mercoledì di non so quale mese dell’anno 1956: «Montanelli continua a fare il cretino. Ma un giorno o l’altro lo sistemo io per le feste. Tanto, presto o tardi, la situazione sarà capovolta. Noi vinceremo! La prego, se vuol ridere, di leggere l’articolo di Barzini Jr. di

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ieri sul Corriere, intitolato Una Ambasciatrice. Quando ci vedremo?» Ma subito dopo, o quasi, il 30 ottobre 1956, tornava sull’argomento: «Non avere più Montanelli per noi è un guaio. I lettori lo trovavano spiritoso: forse lo era, non so. Io, di spirito, con tutti i fastidi che ho, non riesco a cavarne fuori: sono diventato una rapa melanconica». E ancora un’altra volta, un lunedì del 1956: «Certo che Montanelli è un fusto da Pinocchio. Ma li legge i suoi articoli? Dice che ha fatto ‘un esame di coscienza’. Va verso il socialismo, trascinandosi dietro Colette, in vestaglia». In questo duello, alla fine, avrebbe vinto Montanelli: ma soltanto perché Longanesi era morto. E tuttavia, anche da morto Leo non sarebbe stato mai sconfitto. * * * Quando Montanelli gli scrisse una lunga lettera per «riprendere il discorso dove era stato interrotto» e per chiedergli di «non tardare a fargli un cenno», Longanesi non rispose. La lettera, che cominciava così: «Caro Leo stanotte ho sognato che eri morto (te lo dic o perché pare che porti fortuna) e mi sono svegliato pieno di angoscia e di rimorsi», portava la data del 10 settembre del ‘57. Il 27 di quello stesso mese il «Caro Leo» sarebbe morto. Sulla sua scrivania c’era, sopra mille carte, la lettera di Montanelli. Il giorno prima Longanesi, che mi telefonava quasi quotidianamente, mi aveva detto: «Montanelli vorrebbe riappacificarsi, ma io non mi fido. Lei cosa ne pensa?» Mi disse anche altre cose, ma è inutile registrare un discorso che potrebbe sembrare non vero. Posso dire, però, che alla domanda di Longanesi risposi: «Faccia quel che si sente di fare, e se vuol essere sicuro di Montanelli gli chieda di riprendere la collaborazione al Borghese. Mi pare l’unica maniera per stabilire fino a che punto è disposto a riappacificarsi con Lei». «Già», ammise Longanesi, «è una buona idea.» Ma non ebbe il tempo di sapere sino a che punto Montanelli avrebbe «ripreso il discorso». (Da «Inseguendo la vita », di Gianna Preda Cap. Sesto: Pagine Inedite, pp.242/244)

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«il Borghese» per gli italiani all’estero

LA «VOCE» della Patria di Aldo De Quarto

SE NON erro, sono stato l’ultimo «marò della penna» ad approdare al lido del Borghese di Mario Tedeschi, ossia in quel giornale che, sin dalla sua creazione nel 1950, proprio quando l’Albo romano dei giornalisti mi riconosceva il mestiere, considerai subit o e istintivamente il «sacrario» di una stampa di netto «stampo italico» che «non mollava l’osso dell’onore». Ciò che era più che sufficiente per un ventenne italiano d’Africa. Sicché, pur diventando sfacciato inviato speciale e corrispondente di guerra nel Medio e lontano Oriente - con incursioni nel mondo navale ero rimasto timido di fronte alla porta del Borghese, che non osai bussare per oltre trent’anni di mestiere al Roma, al Giornale d’Italia , a Candido, al Conciliatore ed altri, diretti da Grandi firme, come Alberto Giovannini e Guareschi. Un bel giorno, gettando l’ancora nella capitale per «cambiare aria» lontano dal Cairo, preso quasi sottobraccio da Claudio Quarantotto e Luciano Cirri, mi trovai in quel «sacrario» di Largo Toniolo, come il piccolo Asterix di fronte ad un Obelix, dai baffi gaulois ma dallo sguardo romano, che aprì la bocca per dirmi: «Ma che so’ ‘ste maniere, non poteva farsi sentire prima, tanto la conoscevo già?» Ero accettato nella ridotta alla quale avrei potuto presentarmi volontario, o Dio, quant’anni prima! Ma quel che voglio ricordare non è soltanto l’istantaneo rapporto tra il «Capo» e me, o i nostri rapporti di fedele amicizia e reciproca stima (lasciando da parte la simpatia istintiva mia per le sue espressioni del piccolo e grande mondo antico de’ Roma), ma è come lo videro migliaia d’Italiani d’Africa, delle Americhe sino in Australia, attraverso i suoi scritti, e quelli delle altre «penne arrabbiate», come Gianna Preda, Luciano Cirri, Carlo De Biase,

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Adriano Bolzoni, Claudio Quarantotto, Pinetto Bonanni e tanti altri che riempirono il quadro di Guardiamoci in faccia . E quelle centinaia di migliaia di Italiani nel mondo, che dal 2 giugno 1946 in poi furono e sono considerati Italiani serie B e non più, come li chiamava un «nefasto regime», «Ambasciatori d’Italia », trovarono, dal 1950 al 1993, una loro «voce» in patria ed il Borghese andò a ruba diventando poi, a partire dal 1957, un giornale che dava loro coraggio di resistere, malgrado l’umiliazione della loro squalifica da parte dei classificatori della Prima repubblica. Uno dei più vistosi successi del Borghese di Tedeschi lo si registrò tra i connazionali d’Egitto, quando veniva preso d’assalto nella famosa Libreria Mengozzi del Cairo, in quella italiana di Alessandria e nelle Domus Italica di Porto Said, Ismailia e Suez. Erano tempi in cui il giurnal tuliani fasist era tradotto e letto da personaggi di nome Nasser, Sadat, Yussef Kamal, Kamal Bakr, poiché ispirava gli articolisti dei settimanali patriottici italiani, come Oriente di Aldo Fetonte al Cairo e il Giornale d’Italia di Athos Catraro, ad Alessandria. Tempi, in cui rinvigoriva gli spiriti del grande quotidiano italiano di Sidney, La Fiamma, mentre raggiungeva, ansiosamente atteso, gli estremi limiti del Sud Africa, transitando dall’Etiopia, dall’Eritrea e dalla Somalia, ancora terre di lavoro per le genti italiche. Il Borghese degli anni difficili, lo trovavi a Beirut, a Damasco, ad Istanbul, a Teheran. Trasvolando l’Atlantico, atterrava nella «nostra» Argentina e nelle altre cittadelle italiane dell’America Latina. Sbarcò persino a New York e a Little Italy , che era diventato una Big Town e poi, un bel giorno, sul tavolo del Governatore di California, un certo Ronald Reagan, che continuò a seguirlo sino alla Casa Bianca. Tempi, in cui gli Italo-Americans erano diventati Republicans e at the top degli States. Quando il destino sentimentale mi sbarcò dal Nilo alla Senna, il Borghese del mio «Capo», affiancato da La Destra di Quarantotto, doveva passare tra le mani delle prestigiose équipes redazionali di Rivarol, Minute, Crapouillot, L’Aurore, Écrits de Paris ecc, mentre veniva letto dagli accademici e scrittori Dutourd, Raspail, d’Ormesson, da

romanzieri e giornalisti come Jean Cau, d’Orciva1 ed altri, senza dimenticare Maurice Bardèche, scrittore, saggista e pensatore, cognato dell’indimenticabile Robert Brasillach. Lo conoscevano politici, tra cui Valéry Giscard d’Estaing, Charles Pasqua, Poniatowski, Simone Veil, Alain Peyrefitte in Francia; F.J.Strauss in Baviera; Margaret Thatcher a Londra; Otto d’Asburgo a Vienna; il generale Sharon in Israele e che gli Altri scusino il mio plausibile pardon per ... «quel nome ce l’avevo sulla punta della lingua» e mi manca il tempo per riandare indietro nel calendario della vita del Borghese oltre confine. Quell’Oltreconfine che aveva ingigantito la sagoma del suo timoniere che gli aficionados lettori avevano battezzato all’estero lo «Zorro anticomunista» oppure il «Columbo» di Tangentopoli, per le sue investigazioni quando era pericoloso esercitare il mestiere, nemmeno remunerato, di private detective nel mondo politico del «crimine organizzato» della Prima Repubblica. Quanti e quanti altri ricordi di aneddoti attorno al personaggio Mario Tedeschi!

«Il mio nome è Roberto ma tutti i miei parrocchiani mi chiamano Roby...» (Fremura, il Borghese n. 30 del 25 luglio 1971)

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In una pizzeria italiana di Parigi, un cameriere sardo aveva letto un numero del Borghese e sbraitava: «Ha ragione Baffone! Quello si ch’è un uomo!» Rispondeva uno dei pizzaioli con le mani in pasta: «Ma che, sei ammattito? mo’ diventi comunista?» E il sardo: «Te sto parlando del Baffone de noiartri, de Tedeschi, a scemoooo!» Erano tempi in cui trovavi il Borghese a bordo dell’Alitalia, di una nave dell’Adriatica o di Costa, nei treni transalpini e negli alberghi, ma erano sempre copie «ufficiose», appartenenti al comandante, ad una hostess, ad un macchinista, barista, passeggero o capotreno dei vagoni letto. Era il giornale out of bound delle Ambasciate, anche se regolarmente letto di nascosto da molti diplomatici che «tengono famiglia», dagli Istituti di Cultura, dalle scuole. * * * Insomma, tempi dello Scalfari sì, Tedeschi no! E, così, in quel di Parigi, di Stoccarda, di Monaco di Baviera, di Madrid, di Lisbona, del Cairo, di Sidney, di Buenos Aires, di Caracas, di Rio de Janeiro, di New York, di Londra e di Johannesburg, la risposta della stragrande maggioranza dei nostri connazionali, «vietati di parola politica», doveva essere quella di Borghese sì, Repubblica no! E proprio quando stava sorgendo l’alba per il pensiero futurista politico italia no del giornale della grande Destra, l’eclisse improvvisa cadde come una mazzata su di noi, sulla sua cara famiglia romana, ma, soprattutto sulla foltissima famiglia del Borghese nel mondo. Da allora, quel precipitoso Vuoto nel Buio ha lasciato orfani quanti ebbero a condividere con Mario Tedeschi una vita non facile, ma colma di furor patrio e di coraggio politico e giornalistico. E quanti sono tesi oggi verso la conferma ed il miglioramento della vittoria elettorale della Destra nazionale, dovrebbero ricordare e riconoscere che nella cordata verso la cima il «Senatùr di Trastevere» fu una delle guide. Chiudo qui per non scivolare nella mestizia e anche perché, giunto alla cartella cinque, mi sembra di sentirlo al telefono: «A De Qua’, il pezzo è lungo. Lo accorci! Io non tocco mai i suoi servizi!» Obbedisco tacendo, anche adesso!

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FUNZIONE delle ideologie di Maurice Bardèche UNO spirito nazionale nasce soprattutto dal sentimento. La generosità, il senso della giustizia, l'amore del bene, l'entusiasmo, e perfino la dedizione, sono moti istintivi, almeno fra i popoli d'Europa, e il fondamento della loro personalità collettiva. Si stenterà ad ammettere questa verità, ma la si può constatare ogni giorno, anche attraverso l'uso disonesto che ne fanno i politicanti. Nella scoperta degli ingredienti destinati a «disciplinare» questi «buoni sentimenti» istintivi nel popolo, e a dar loro un tono costante, un'efficacia permanente, bisogna salutare come notevolmente importante l'apparizione delle ideologie. * * * Il sentimento è generoso, violento, instabile, ma conforme a natura. È cuore e sangue; è l'uomo stesso. A un popolo ansioso di giustizia, di generosità e desiderio di grandezza, un regime nazionale può dare sempre il suo alimento. Ma, e questo è il cambiamento fondamentale, si può sempre alterare il temperamento di un popolo con l'ideologia. L'ideologia si appoggia sul sentimento, però lo snatura. Lo fa passare per una specie di alambicco che gli toglie quanto porta seco di carnale, quanto ha di colorito, di impuro, di meraviglioso. Lo dissecca, lo sterilisce ma, nel medesimo tempo, lo rende stabile, inodoro, a temperatura costante, in una parola, adatto all'uso industriale. Fra il sentimento e l'ideologia passa la stessa differenza che c'è tra il vino e l'alcool. L'uno è un prodotto della terra, l'altro è fabbricato. Il meccanismo intellettuale dell'ideologia consiste nell'isolare un sentimento tra gli altri e nello svilupparlo mostruosamente... Essa organizza il sistema di ciò che potrebbe essere, che dovrebbe essere, se si soddisfacesse questo sentimento privilegiato. Con la creazione di questa idea fissa atrofizza tutti gli altri sentimenti.

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Questa cultura di alcuni gruppi umani esige cure e ostinazione, ma è efficace. I gruppi così trattati, così sradicati dal loro terreno, così snaturati, producono esseri docili. L'amputazione esercitata su loro li rende sensibili a quelli che la psicologia chiama «riflessi condizionati». Essi hanno una loro parola d'ordine, i loro colpi di fischietto, sbavano a comando, si drizzano, brontolano, mordono, si slanciano al richiamo delle modulazioni che furono loro insegnate. Gruppi interi sono così staccati, separati dalla vita nazionale; infatti, in questo addestramento contro natura v'è qualcosa del ratto. Da centocinquant'anni, i popoli d'Europa hanno trangugiato dosi sempre più forti di ideologia. Durante la prima parte del diciannovesimo secolo, la lotta fra il potere e l'opposizione fece egualmente appello al sentimento e ignorò la dottrina: gli uni dicevano «Dio e il re»; gli altri: «Libertà». La stampa politica aveva allora per armi l'indignazione, la collera, l'epigramma. Essa insegnò agli uomini a dividersi in due campi, ma non si appellò mai a un sistema. Fourier, Saint-Simon, Cabet furono allora isolati e passarono per pazzi; guardati come i successori di quegli «ideologhi» che Napoleone detestava e che in realtà non avevano avuto influenza. * * * L'ideologia apparve alla metà del diciannovesimo secolo con le dottrine socialiste e si sviluppò improvvisa, come un fenomeno morboso, in un popolo già saturo di politica e che trascinava seco, da cinquanta anni, passioni e rimproveri i quali già minacciavano il suo equilibrio morale. Nelle sue forme e nei suoi risultati essa si manifestò subito come un fenomeno secondario grave; il suo sintomo era l'apparizione di una sistematica dichiarata indifferenza verso la nazione. Un'ideologia presuppone sempre un principio assoluto, indiscusso, superiore a ogni preoccupazione nazionale. Questa nuova forma di infiltrazione fu lenta a stabilirsi definitivamente, ma fece progressi più estesi di quanto si pensi sotto il Secondo Impero. Raggiunse, anche per contagio, altre forme del pensiero politico. «Un'ideologia» repubblicana si sostituì al sentimento repubblicano, e fu abbastanza intera e logica

da desiderare appassionatamente la disfatta della Francia nella guerra del 1870. I suoi voti furono esauditi. Un nuovo regime fu stabilito, che nasceva dalla sconfitta. Aveva per promotori gli uomini che avevano desiderato questa sconfitta; per loro, infatti, una certa idea politica pareva più importante dell'idea di patria. Ebbe come fondamento il principio che sopra alla nazione esiste un'idea più importante della nazione stessa e alla quale la nazione può essere sacrificata. Da allora, l'ideologia si installò nel regime stesso e, attraverso di esso, passò nelle vene della nazione. In nome della libertà d'opinione, le ideologie si moltiplicarono come le Chiese. Il sentimento nazionale minato, corroso, non fu più che una di esse; divenne un'ideologia che fa della nazione il principio stesso della vita nazionale. Il suffragio universale fu ridotto alla funzione di censimento delle varie Chiese. Non si domandò al popolo quel che sentiva, o quel che voleva, ma a quale Chiesa apparteneva. Il riconoscimento ufficiale del paese in blocchi ideologici ebbe immense conseguenze. Spezzò l'unità nazionale, divise le nazioni in blocchi ostili, che vedevano la giustizia, l'avvenire, l'essenziale, con sguardi diversi; creò pontefici di ogni Chiesa incaricati di trattare con lo Stato in nome della propria Chiesa. Introdusse un principio d'odio, di disprezzo e di disgregazione nella vita nazionale. Questo prodotto chimico intellettuale penetrò con l'istruzione politica nei più piccoli villaggi. Il senso della comunità scomparve, il senso della nazione sbiadì, ciascuno non ebbe più che il sentimento di appartenere a una famiglia spirit uale la quale gli proponeva un ideale, uno stile di vita e anche una bettola locale, un quotidiano di sottoprefettura, un consigliere municipale, gli assicurava la sua protezione, favoriva il suo avanzamento offrendogli tutti i benefici dell'affiliazione. La politica invase la vita quotidiana. L'invasione parve offrire una remissione. Gli uomini che si accatastavano nei vagoni alla stazione dell'Est o di Charlottenburg, ebbero, per alcuni giorni, il senso che tutta la nazione fosse con loro. Avevano sentito che il loro paese, i loro focolari erano minacciati. Le ideologie dimostravano come erano fragili. Tutte tacquero. Bruscamente il sentimento

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della nazione aveva tutto coperto con la sua marea e aveva diluito i veleni. Ma la guerra durava e i gran sacerdoti si preoccuparono vedendo le loro Chiese sommerse. Fu cercato d'urgenza un qualche nuovo Essere Supremo in cui tutte le Chiese potessero comunicare e furono inventati il Diritto e la Civiltà. Si seppe che battendosi per il Diritto e per la Civiltà ci si batteva tutt'insieme per il radicalismo, il laicismo, il socialismo, la repubblica, il nazionalismo e i preti eccetera. Nessuno pensò che v'era qualcosa di strano e anche di pericoloso nel sostituire così alla semplice difesa del villaggio e del podere (per la quale milioni d'uomini erano andati al fuoco) un'ecatombe universale in nome di due divinità disincarnate e sconosciute. L'ideologia paralizzava gli Stati, ma apriva le frontiere, come vedremo. Infatti, l'ideologia è anche un'espropriazione. L'uomo, preso da un'ideologia, non appartiene più alla sua comunità, alla sua nazione. Appartiene prima di tutto alla religione che si è scelto. È prima di tutto un membro della sua Chiesa; la quale è universale e internazionale, come tutte le Chiese. Obbedisce dunque a questa Chiesa. Dio prima servito è la legge di tutte le sètte. Egli non obbedisce alla sua comunità e alla sua patria che quando sono d'accordo con la sua Chiesa. In caso di conflitto fra le due, la sua ideologia possiede una priorità imprescrittibile. In caso di guerra, il tradimento diviene un dovere, diviene anzi il dovere. Lo stato di guerra civile che si creò fra il 1940 e il 1944 non è un fenomeno eccezionale, ma, al contrario, rientra nella logica delle democrazie moderne. L'uomo dei regimi moderni giudica ogni guerra, come ogni politica, in nome della sua ideologia. Ne fa la sua guerra o rifiuta di farne la sua guerra. La Chiesa ideologica non è un regno fuori del tempo. L'ideologia fa della storia un quadro vivente e ogni ideologia possiede un'arca santa. Gli sguardi dei credenti si volgono a questa Mecca ogni mattina, la salutano e le chiedono come interpretare gli avvenimenti del mondo. In questo momento, nel sistema delle ideologie, non è più la coscienza di uno che sceglie, ma il paese straniero sceglie, in nome delle coscienze che dipendono da lui, ed egli decide ciò che penseranno o vorranno una parte degli uomini del nostro paese.

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Una interessante novità Italiana a Parigi Il

CENTRO STUDI DELLA DOCUMENTAZIONE STORICA EUROPEA diretto da Silvio Pistone ha realizzato

«I QUADERNI DELLA STORIA PERDUTA» a cura di Antonio Falcone. Sono saggi relativi ad episodi della Storia d’Italia e d’Europa che la disinformazione ha falsificato, alterato o fatto cadere nell’oblio, per ragioni ideologiche, politiche o di altra convenienza. I Quaderni-Saggi attualmente editati, sono i seguenti:

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La Sicilia nella unificazione italiana La fine del regno borbonico di Napoli La marcia su Roma La politica economica del fascismo Fascismo e politica sociale La cultura nel Ventennio La conquista dell’Etiopia L‘Italia nella Seconda Guerra mondiale La Resistenza

In preparazione, a cura di Aldo De Quarto

L ‘epopea dei sottomarini atlantici italiani Mussolini e gli Arabi Cento anni di futurismo italiano Il CENTRO STUDI STORICI diffonde i suoi fascicoli agli italiani all’estero, ai connazionali in Patria e alle associazioni culturali e storiche quali AREA, SENIORES, ASSOCIAZIONE «MARIO TEDESCHI», nonché ai vari e più interessanti dicasteri d’Italia.

Centro Studi Storici 48 bis, Rue Bobillot - 75013 Paris Tel 0033 1 45884653 Fax 0033 1 45888815 em@il silvio.pistone@noos.fr

Tali uomini non sono più che limatura di ferro orientata in questo o in quel senso dalla corrente che uno stato maggiore straniero decide di far passare su loro. L'ideologia ne fa un immenso apparecchio ricevente installato nel nostro paese. Ognuno dei nostri paesi subisce un'invasione permanente, invisibile. Con operazione inversa che si sovrappone all'annichilimento della volontà popolare e la

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fondamentale, è molto più grave di tutte le pretese contraddizioni economiche, sotto la quale soccombono le democrazie moderne. Non esiste più una comunità nazionale, non vi sono più nazioni perché il cuore e la volontà degli uomini delle nostre nazioni non ci appartengono più. I nostri regimi moderni tollerano e subiscono un'invasione permanente, non del territorio, ma delle anime. Non possono comandare perché non c'è più volontà della nazione. Si sbaglierebbe pensando che una tale analisi si applichi al solo Partito comunista. In realtà, tutte le ideologie celano in sé lo stesso principio di tradimento. I nostri partiti, i nostri giornali, non consultano più l'interesse IMPARZIALITA’ (Nistri, ‘’il Borghese’’ n. 8 del 20 febbraio 1972)

contraria, un'altra officina esiste i cui ingegneri sono al servizio dello straniero, con la missione di captare l'energia nazio nale. Non è soltanto un semplice furto. Questa energia è volta contro i nostri paesi. Nulla ci appartiene più, qui da noi. Le nostre frontiere sono aperte, le nostre anime sono all'incanto. I nostri Stati moderni che non si lasciano portar via una ruota di camion senza fare un'inchiesta, si lasciano rubare milioni d'uomini, senza dire parola. Sembra che questo furto per loro non conti. Infatti, ciò che non è materiale, ciò che appartiene alle forze spirituali, per loro non esiste. Essi non vedono, aspettano la morte con gli occhi fissi, attendono senza dir parola; perché sono tutti solidali e sanno che senza trascinare la caduta di tutte le altre non si potrebbe attentare a un'ideologia con la proclamazione della bestemmia che esiste una salute pubblica superiore alle ideologie. Allora, aspettano che la casa crolli su loro, soddisfatti di morire coronati. T a l e la contraddizio ne interna

nazionale, l'avvenire nazionale, ma si richiamano sempre ad alleanze che definiscono ipocritamente realiste, e sono invece alleanze ideologiche. Le ideologie si sono arrogate un potere di giustizia. Hanno la loro inquisizione e i loro roghi. Le nostre coscienze non ci appartengono più. Tanto meno appartengono alle nostre patrie. Il furto delle nostre coscienze e delle nostre volontà è stato consumato. Esse appartengono a papati ideologici che hanno sede a Mosca, a Washington, al Cairo. Il regno degli imperi ideologici si è iscritto non nella nostra storia, come crediamo, ma nelle nostre istituzioni. Nelle quali si è contemporaneamente installato il principio di tradimento. Non siamo più cittadini, servi della nostra patria, siamo servi della democrazia. È scritto nelle nostre leggi che se la democrazia ci mobilita, dobbiamo rispondere al suo appello e prendere le armi contro le nostre medesime patrie. Dal 1945, le patrie non sono più che una parola. (Dal «Borghese» n. 17 del 26 aprile 1957)

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L’EUROPA e la Destra di Enzo Marino LA DESTRA europea del 2000, per rendersi interprete delle reali esigenze di una società sempre più in rapida evoluzione, deve deporre negli archivi della memoria le suggestioni, le filosofie e le prassi legislative che hanno caratterizzato le sue diverse anime, nell'ottocento ed in larga parte del novecento. Destra, una definizione che, se continuerà ad essere interpretata secondo la vulgata politicante e gli schematismi accademici classici, è inadeguata al futuro che le prospettive logiche evidenziano. Il nemico non è più un fronte composto dalle varie anime della sinistra ma una sola sinistra egemonica che, con il crollo del potere e delle prospettive mitologiche del marxismo-leninismo, si è trasformata in un pensiero ed in una prassi implicitamente tiranniche, con la nascita di un nuovo giacobinismo che, difficilmente, per sopravvivere, può nascondersi dietro le tradizionali insufficienze d'apporto del liberalismo giuridico ed il conculcamento di quello naturale dell'uomo europeo. Appare logico e prevedibile che, nella sintesi delle culture originarie che caratterizzano il suo animus, il nuovo giacobinismo deve rafforzare il suo determinismo egemonico con la perpetuazione e l'accentuazione di normative costituzionali e di prassi d’azione legislativa che vedano i cittadini sempre più costretti a delegare alle aristocrazie dei partiti, giuridicamente «irresponsabili» ed eticamente relativisti, il concretizzarsi delle aspirazioni inserite nelle proposte politiche. Dopo il voto, il potere supremo del popolo, tanto esaltato dalle democrazie multipartitiche, muore. Nell'Europa occidentale, la prassi di delegare il potere popolare al pluripartitismo «irresponsabile» annulla sostanzialmente il ruolo del Parlamento, come esecutore, nell'attività legislativa, della volontà dei

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cittadini. La Destra europea del 2000 se è, com'è nei suoi presupposti, caratterizzata dalla volontà d’affermazione dell'eticità della giustizia e delle libertà naturali, deve puntare al consenso delle comunità, e poi farne tesoro per l'inevitabile scontro con la sinistra conglobata che reagirà con la violenza prevaricante, insita nel suo DNA, allorché si tratterà di adeguare le istituzioni dei Paesi europei, e dell’Unione europea. L’adeguamento delle strutture istituzionali appare indispensabile, se non si vuole ignorare l’attuale condizione della società europea, rispettando le aspirazioni di quella realtà sociale che è la media borghesia maggioritaria, e favorendo l'evoluzione delle minoranze che naturalmente aspirano a raggiungerla. La tendenza in atto, in quasi tutti i Paesi, è quella di condizionare e contenere la media borghesia, punendola con la tassazione ed aggrovigliandola in un sistema che la ignora al fine di perpetuare il potere della sinistra social-democratica falsamente progressista, sostenuta e dominata dall'opportunismo dell'alta finanza. Sotto il dominio politico neo-

L’INDIPENDENTE DI SINISTRA (Fremura, «il Borghese» n. 20 del 16 maggio 1971)

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giacobino, si va sempre più rafforzando il lobbysmo egoistico, socialmente cinico, che minaccia di inaridire le condizioni, già problematiche per il successivo sviluppo sociale generale e l'armonia sociale minima indispensabile per la concretizzazione della colossale impresa: l'unificazione politica europea. Il disordine sociale, applicato in ogni settore della società civile, è stato sempre il punto di forza della sinistra. Su questo, nell’immediato futuro, deve puntare di nuovo se vuole sopravvivere. La preponderanza dell'armonia sociale e del benessere generale la emarginano nei consensi. Proprio al consenso e al suo influsso diretto nell'azione politico-legislativa, senza deleghe a forze extra statali, che la destra europea deve puntare, facendo tesoro del concetto di sintesi, emerso e soffocato nella cultura europea per l'equilibrio delle controspinte sociali, e per la sempre più emergente richiesta di rispetto del cittadino singolo e della comunità da parte del potere politico. Le masse, orrido termine usato dai progressisti «aristocratici», in Europa stanno scomparendo e al loro posto nasce la classe sociale del futuro, formata dalla media borghesia e dal piccolo proletariato urbano che aspira al miglioramento della propria vita. Tutto questo deve essere sottratto all’attacco sfrenato dell’elitarismo del nuovo comunismo globale, cioè al globalismo giacobino. Per assecondare, nel rispetto delle libertà fondamentali, le aspirazioni dei popoli europei che vanno emergendo nelle realtà sociali, la destra europea deve battersi per il superamento dei sistemi di «democrazia per il popolo» in favore di quelli di «democrazia di popolo». Il ruolo delle forze politiche deve finalmente essere quello di proporre, ottenere il consenso, e obbedire. Non potranno più puntare sull'inganno della delega per costringere la società ad obbedire a decisioni di parte. La filosofia della sinistra è stata sempre il «contro», che è e sarà il suo limite. Ne deriva la costante di disapporto per l'armonia sociale. La destra europea non deve limitare la sua azione alla contrapposizione con la sinistra sui temi e le prassi derivate dalle filosofie ottocentesche. Deve andare oltre esse, verso il futuro.

GLOBALISMO anti-occidentale I RESIDUATI del marxismo e delle varie sottospecie del verbo leninista vedono nel fenomeno antiglobalista una via di scampo, non importa se confusa e violenta, per contrastare il ruolo storico euro-occidentale nel mondo senza tenere alcun conto che il danno maggiore ricade proprio sulle popolazioni più povere. Strillando, vogliono superare il loro nullismo ideale e prospettico. La violenza mistica e organizzata, da Seattle a Genova, non è altro, infatti, che lo strumento secolare della nuova filosofia politico-economica il cui fine terreno è eliminare dal mondo fame e ingiustizie. Con parole diverse rinasce l’alleanza tra comunismo (lotta politica) e cristianesimo di base (teologia della liberazione). I giovani occidentali, figli dell’opulenza, che scendono in piazza affiancando i balordi ed i delinquenti in cerca d’emozioni violente, per protestare in favore di quell’umanità che in Africa, America Latina e Asia ha realmente la pancia vuota, ignorano di farsi strumento operativo di un nuovo ordine mondiale, come avvenne per il maxismo-leninismo di stampo sovietico, di gran lunga più dannoso e feroce del globalismo che confusamente vogliono combattere. I giovani cristiani, non cattolici, facenti parte delle organizzazioni sociali, non si rendono conto che essi, figli dell’Occidente, sono i primi a doversi tenere lontani dalle frange estremiste di coloro che, da Seattle a Goteborg, da Amburgo a Genova, rinnegano l’umanità. I giovani occidentali «ingenui» che protestano nelle piazze ignorano che, sulla scia degli antiglobalizzatori, si dà vita ad un comunismo non più scientifico ma ammantato d’etica laica e religiosa, unito ad un cristianesimo laico sottilmente anticattolico. Gli strateghi del nuovo comunismo globale sfruttano il cattolicesimo nella qualità di colonna portante della civiltà europea ed occidentale, il cavallo di Troia che porterà le

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masse del Terzo mondo alla rivolta mondiale verso l’Occidente. La posta in gioco degli orfani del comunismo scientifico e dei suoi epigoni è quella di diffamare, snaturare, ed un giorno cancellare, la civiltà europea ed occidentale. La velleità dei propositi non li spaventa, come non li ha spaventati la follia del leninismo, di Mao e di Pol Pot. Creeranno ad arte inquietudini, disordini e reazioni, sempre in nome della democrazia, della giustizia sociale e del paradiso terrestre che «i biechi globalizzatori occidentali» negano ai derelitti del mondo, sempre più emarginati e sacrificati sull’altare dell’astrattismo antiglobalizzante e del neocomunismo eticizzante. Oggi è la cultura occidentale europea che s’intende mettere in discussione. Tutto ciò che esiste come fondamento dinamico nel mondo e di costruttivo per l’evoluzione dell’umanità, infatti, proviene dall’Europa. Tanti anni fa, in un convegno a Torino, il grande poeta urugayano Ricardo Paseyro, affermò, tra l’indifferenza generale dei colti convegnisti che dibattevano il ruolo della cultura, che tutto ciò che c’era di dinamico in America Latina proveniva dall’Europa, e che l’indigenismo, la nostalgia dell’autoctono, il paganesimo rurale, l’esaltazione del precolombiano, erano atteggiamenti regressivi. La sua lucida difesa della civiltà occidentale cadde nel vuoto.

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Lo stesso vuoto, verso il quale la civiltà europea è spinta da larga parte dei sacerdoti della cultura occidentale positivista. Gli epigoni del leninismo conservano una propensione inalienabile verso la tirannia comunista, crollata materialmente col muro di Berlino, un muro che per loro, a partire dai vari capataz italiani dell’antiglobalismo resta tutt’ora politicamente in piedi, con i suoi vopos in tuta nera e bianca a montare la guardia contro i minacciosi globalizzatori dell’Occidente. Il «nuovo comunismo», non più scientifico e materialista ma opportunamente ammantato di eticità, non ha ancora ufficialmente un «piccolo padre» che li guidi (Bertinotti e Castro sono personaggi fuori gioco per motivi anagrafici) ma soltanto «uomini di paglia» come Agnoletto, Canarini e Don Vitaliano da usare come bersaglio. I «commissari politici» sono fra i commando addestrati alla guerriglia che, a Genova, hanno attuato la prima provocazione sociale e politica, con il fine di far crollare il governo Berlusconi e riportare al potere quella compagine catto-comunista che ha guidato il Paese fino ad ieri. La Nato, fin dalla sua creazione, vide nell’Italia «il ventre molle dell’Europa». Il terrorismo anti-globalista lo sa, eccome se lo sa … [ALBERTO SPAGNA ]

DALL’ALBUM DI UN «NEMICO DEL POPOLO » 1) La cospirazione; 2) Reclutamento di un terrorista; 3) Campeggio paramilitare; 4) I complici del «golpe nero»; 5) Prova generale della marcia su Roma (Isidori, «il Borghese» n. 32 dell’11 agosto 1974)

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Iniziativa dell’Associazione Mario Tedeschi per diffondere la storia più recente

«il Borghese» rivive sulla rete DI ROXY TOMASICCHIO

Far conoscere la storia dell’Italia repubblicana attraverso le pagine del settimanale il Borghese, dal 1956 al 1993, data della scomparsa di Mario Tedeschi, suo editore e direttore per 36 anni. È con questo spirito che l’Associazione Mario Tedeschi, nata a marzo dello scorso anno per mano di suo figlio Claudio, ha iniziato una lunga opera di inserimento in rete di tutta la collezione della rivista. A raccontare l’iniziativa a Italia Oggi è lo stesso Claudio Tedeschi: «Nel ‘95-96 è nato un sito dedic ato a mio padre (www.

Anno I - Numero 2 - Settembre 2001 www.mariotedeschi.it

————————– Direttore Responsabile: Claudio Tedeschi. Aut. Trib. di Roma n. 387/2000 del 26/9/2000. Stampato in proprio Spedizione in A.P. 45% art.2 comma 20 lett. B legge 662/92 - Roma

————————– La redazione è presso la Sede Sociale, in Via della Penitenza 10 - 00165 Roma, tel/fax 06/6868128 ————————– Per ricevere “il Borghese”, notiziario periodico semestrale dell’Associazione Culturale “Mario Tedeschi” è sufficiente iscriversi all’Associazione, compilando la scheda allegata al presente numero.

mariotedeschi.it, ndr), su cui ho cominciato a inserire i testi dei suoi libri. Da allora, ho ricevuto e-mail e testimonianze di interesse da tutto il mondo. Per questo ho pensato alla creazione di una associazione, con lo scopo principale di far rivivere la colle zione de il Borghese in rete. Credo che il settimanale», aggiunge Tedeschi, «sia morto con mio padre. Dopo il ‘93 il periodico ha cambia to tre proprietari e quattro direttori: è un giornale con lo stesso nome, ma che ha tradito la filosofia originaria». Domanda. Da quali principi era sorretto il settimanale fondato da Leo Longanesi nel ‘50 e diretto da suo padre dal ‘57? Risposta. Dalla massima indipendenza e dalla libertà di dire il giusto. Le notizie pubblicate erano accompagnate da prove e, pur essendo un giornale ispirato a principi della destra pura, e non politica, ha sempre dato spazio a tutto e tutti, senza pregiudizi. D. E oggi questa filosofia riprende vita in rete... R. Sì, finora, ho immesso in rete, scannerizzando immagin i e testi, i numeri de il Borghese del 1956, ‘57 e quasi tutto il ‘58. Ci vorranno ancora dieci anni per completare l’opera, ma stiamo riscuotendo molti apprezzamenti. Inoltre saranno on-line anche i 200 libri che, dal ‘60 alla fine degli anni 70, il Borghese ha pubblicato. Basta sottoscrivere una quota associativa per consultare la collezione o scaricare i testi dei libri. D. Si potrà accedere a un vero e proprio patrimonio storico? R. A tal proposito basta citare Giuseppe Prezzolini: «… Quando si vorrà scrivere la storia d’Italia di questi anni, si dovrà andare in biblioteca a consultare la collezione de il Borghese per conoscere la verità». Quanto è accaduto in quarant’anni era stato previsto e anticipato sulle pagine del settima nale. D. A chi va il merito? R. Alla profonda conoscenza che mio padre aveva del mestiere di giornalista e alla sua conoscenza dei politici. Ma era senza padroni. Per questo era odiato dai alcuni colleghi: poteva scrivere ciò che anche loro avrebbero voluto ma non potevano dire. (Da ‘’Italia Oggi’’ di sabato 25 agosto 2001)

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