ISSN 1973-5936 “Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009”
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MENSILE - ANNO XI - NUMERO 11 - NOvEMbRE 2011 - € 6
Intervistato da Barbara Romano pagg. 190 • euro 16,00
La mia vita con Giorgio
pagg. 110 • euro 12,00
Regime Corporativo (1935 - 1940)
a cura di Gian Franco Lami pagg. 114 • euro 15,00
L’Italia e la crisi, un Paese al bivio
pagg. 234 • euro 16,00
Francesco Amato Annali di piombo
(diario di un servitore dello Stato) prefazione di Giancarlo de Cataldo pagg. 472 • euro 22,00
NOVITÀ
(60 anni di politica e di malapolitica in Italia) prefazione di Sforza Ruspoli
traduzione di Vittorio Bonacci
pagg. 220 • euro 18,00
pagg. 198 • euro 18,00
Loris Facchinetti
Carlo Taormina
Il manifesto umano
“Uccidete il cane italiano”
La Destra invisibile
prefazione di Girolamo Melis prefazione di Stefano Amore postfazione di Salvatore Santangelo
pagg. 234 • euro 17,00
pagg. 200 • euro 16,00
NOVITÀ
NOVITÀ
Enea Franza Giampaolo Bassi
NOVITÀ
John O’Sullivan
Il Presidente, il Papa e il Primo Ministro
L’albero delle mele marce
NOVITÀ
pagg. 150 • euro 14,00
NOVITÀ
Julius Evola
NOVITÀ Donna Assunta Almirante
Tra Cremlino e Vaticano introduzione di Roberto De Mattei traduzione di Milena Riolo
NOVITÀ
pagg. 228 • euro 18,00
“L’accordo di Metz”
Filippo de Jorio
NOVITÀ
La mafia addosso
prefazione di Fabio Torriero traduzione di Anna Teodorani
Antonio De Pascali
Rachele Mussolini
Benito ed io
Una vita per l’Italia prefazione di Alessandra Mussolini traduzione di Fabio Torriero revisione a cura di Anna Teodorani pagg. 270 • euro 18,00
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Fabio Torriero
Federalismo tricolore
prefazione di Francesco Aracri, Adriana Poli-Bortone, Raffaele Volpi pagg. 154 • euro 15,00
NOVITÀ
Controcorrente
Jean Madiran
NOVITÀ
Saverio Romano
Marine Le Pen
NOVITÀ
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NOVITÀ
P COP. BORGHESE n11_2011:Layout 1 21/10/11 16:50 Pagina 2
Michele Giovanni Bontempo
Rick Boyd
Lo Stato sociale nel “Ventennio”
La verità sulla morte di Mussolini
pagg. 272 • euro 17,00
pagg. 234 • euro 17,00
(vista da un bambino) Nota critica di Giuseppe Giuliani Aramis
Antonio Pantano Ezra Pound
E LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
pagg. 274 • euro 17,00
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Novembre 2011
IL BORGHESE
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SOMMARIO DEL NUMERO 11 Mensile - Anno XI - Novembre 2011 - € 6,00 Piccola Posta, 2 Gli utili idioti, di Claudio Tedeschi, 3 Organizzare la rivoluzione, di CarloVivaldi-Forti, 6 La resa della politica, di Riccardo Scarpa, 7 «In hoc signo», ancora?, di Riccardo Paradisi, 9 La falsa destra al potere, di Filippo de Jorio, 10 Eutanasia anticipata, di Gennaro Malgieri, 11 Quale futuro?, di Adriano Tilgher, 13 Sesso potere e «rock’n’ roll», di G.d.F., 13 Se sarà conveniente, di Emmanuel Raffaele, 14 Più «Pil» per tutti, di Pietro del Tura, 15 Tutti a casa, di Adalberto Baldoni, 16 Alemanno e le lucciole, di A.B., 17 Il potere è donna, di Gigi Moncalvo, 19 Tribunali speciali, di Ruggiero Capone, 20 Un mistero chiamato Ustica, di Mary Pace, 22 Un’Italia fuori dal mondo, di Daniela Albanese, 23 La rivoluzione dei dispersi, di Riccardo Scarpa, 25 Autunno malinconico, di Mino Mini, 30 Il Ministro dell’Economia, di Hervé A. Cavallera, 32 Stranieri nell’aula propria, di Alessandro Cesareo, 33 Baciati dalla fortuna, di Vincenzo Pacifici, 35 Come sta cambiando, di Nazzareno Mollicone, 36 Declassati e tartassati, di Alessandro P. Benini, 37 La Cina si dà alle biomasse, di Franco Lucchetti, 38 L’Europa torna alla terra, di Alberto Rosselli, 39 Capitalismo «vampiro», di Antonio Saccà, 40 Meccanismo inceppato, di Mauro Scacchi, 41 Paese che vai, banche che trovi, di Antonella Morsello, 42 Una bella differenza, di Enea Franza, 43 Euro(pa) al capolinea?, di Massimo Ciullo, 44 Il sogno della mela rossa, di Alfonso Francia, 45 La Germania ci rimette, di Franco Jappelli, 48 Un pugno di sabbia, di Giuseppe de Santis, 49 Il girone senza pietà, di Daniela Binello, 50 La collera di Bibi, di Andrea Marcigliano, 52 Ma dove è l’anti Obama, di Francesco Rossi, 53 Oggi a te, domani a me, di Inna Khviler Aiello, 54 La resa dei conti, di Gianpiero Del Monte, 56 Diversità dei fini, di Alfonso Piscitelli, 57 L’Iran alle porte di Israele, di Ermanno Visintainer, 58 L’angolo della poesia, 79
IL MEGLIO DE «IL BORGHESE» La crisi c’è, chi la paga?, di Mario Tedeschi L’Italia dei pretori, di Maria R. Boensch Il Cardinale e la ballerina, di Giano
LE INTERVISTE DEL «BORGHESE» Marco Tarchi-Analisi sulle prospettive della Destra politica in Italia, a cura di Michele de Feudis, 27 Marco Falaguasta-La vita è commedia da vivere in allegria, a cura di Roberto Incanti, 68
Direttore Editoriale
LUCIANO LUCARINI Direttore Responsabile
CLAUDIO TEDESCHI c.tedeschi@ilborghese.net HANNO COLLABORATO Daniela Albanese, Adalberto Baldoni, Alessandro P. Benini, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello, Ruggiero Capone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Massimo Ciullo, Chiara Crisci, Michele De Feudis, Filippo de Jorio, Giuseppe de Santis, Gianfranco de Turris, Gianpiero Del Monte, Pietro Del Tura, Alfonso Francia, Enea Franza, Norma Hengstenberg, Roberto Incanti, Franco Jappelli, Inna Khviler Aiello, Aldo Ligabò, Michele Lo Foco, Franco Lucchetti, Flora Malaspina, Gennaro Malgieri, Andrea Marcigliano, Fabio Melelli, Delfina Metz, Mino Mini, Nazzareno Mollicone, Gigi Moncalvo, Antonella Morsello, Mary Pace, Vincenzo Pacifici, Riccardo Paradisi, Alfonso Piscitelli, Emmanuel Raffaele, Riccardo Rosati, Alberto Rosselli, Francesco Rossi, Antonio Saccà, Mauro Scacchi, Riccardo Scarpa, Adriano Segatori, Stefano Serra, Giovanni Sessa, Romano Franco Tagliati, Adriano Tilgher, Fernando Togni, Leo Valeriano, Ermanno Visintainer, Carlo Vivaldi-Forti
Disegnatori: GIANNI ISIDORI - GIULIANO NISTRI Redazione ed Amministrazione Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma
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TERZA PAGINA Da signora a puttana, per finire da badante, di A. Segatori, 59-Il Dio del mare apprezza gli eroi, di F. Togni, 60-Italiano, lingua ancillare dell’inglese, di G. de Turris, 61-La spazzatura sotto il tappeto, di R. F. Tagliati, 62-La vita è politica, di R. Paradisi, 63
IL GIARDINO DEI SUPPLIZI Il declino della «fiction», di M. Lo Foco, 65-Il «cabaret» è morto, viva il «cabaret»!, di L. Valeriano, 66-«I dialoghi» del «Canova», di D. Metz, 67-Lontano dalla … Terraferma, di F. Melelli, 69-Una legislazione a tutela, di R. Rosati, 70-Entrare nella morte ad occhi aperti, di N. Hengstenberg, 71
LIBRI NUOVI E VECCHI Librido, di M. Bernardi Guardi, 73-Riflessioni tra presente, passato e futuro, di G. Sessa, 75-I libri del «Borghese», a cura di S. Serra, 76-Schede, di AA.VV., 77 Le foto che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio.
PAGINE S.r.l. Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000 Stampato presso Mondo Stampa S.r.l. Via della Pisana, 1448/a 00163 Roma (RM) Per gli abbonamenti scrivere a: IL BORGHESE Ufficio Abbonamenti Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma
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IL BORGHESE
Piccola Posta ROMA, 15 OTTOBRE 2011 Quando un governo è debole e in piena confusione come l’attuale, criminali e terroristi rialzano la testa. Le forze dell’ordine, baluardo all’anarchia e al crimine, devono mantenere l’ordine e, se attaccate, devono difendersi. Quando uno ti vuole spaccare il cranio con un pesante estintore, devi difendere la tua vita con la fuga, se lo puoi, oppure con le armi, se sei incastrato e terrorizzato. Come nel caso di Genova durante il «G8». Perché il ministro dell’Interno Maroni ha ordinato la passività delle forze dell’ordine di fronte a giovani violenti il cui volto era occultato da caschi e sciarpe? Maroni non capisce che non si può far sopravvivere questo tipo di cancro che potrebbe «convertire» alla violenza anche i nonviolenti? Occorre estirparlo subito, nella «piazza» e nei «santuari». Il ministro Maroni, il suo governo e l’intera Casta politica dovranno, invece, temere seriamente per la loro incolumità quando si solleveranno quei pacifici padri di famiglia disoccupati che non trovano lavoro e non sanno come mantenere i figli, perché le ditte sono saltate, o perché sono andate all’estero a fare guadagni facili, o perché ci andranno, come avverrà per la Poltrona Frau del Montezemolo che vorrebbe guidare l'Italia. GIORGIO RAPANELLI IL SABATO DEL «VILLAGGIO» Ieri, sabato, ho goduto nel vedere e sentire in diretta su Rai News il pomeriggio di «protesta contro le banche», organizzato da Chiesa Giulietto & c., ove una marea di popolo ha, in grande
compostezza, potuto ascoltare le idee atte a porre ordine nel rapporto fiducioso tra banche mondiali e cittadini italiani. Con l'apporto fondamentale della Banca vaticana che lo ha posto a disposizione, dal balcone del Palazzo del Laterano si sono avvicendati gli esperti indicati da Bankitalia delle scuole economiche e monetarie, capitanati da Ciampi, con la sovrintendenza di Mario Draghi che, mediante il servizio di sicurezza della Banca centrale nazionale, ha tenuto sotto controllo la situazione evitando l'ipotetico disturbo di dissenzienti «alla Giacinto Auriti». Tre ore di disquisizioni dottissime, interrotte soltanti dai messaggi teletrasmessi di Berlusconi, Bersani, Bocchino, Bossi, Brambilla (l'Italia ha predisposizione per la voce «B»!), Tremonti, Casini, Vendola, e dal saluto solidale del solerte sindaco Alemanno, scamiciato ma con zucchetto in testa. Draghi ed i politici tutti han magnificamente condotto la «giornata di dissenso contro le banche», ottenendo l’approvazione dei 500.000 presenti, che hanno goduto del tramonto della «ottobrata romana», ne son tornati alle proprie case «recando una carezza ai figlioli» inviata dai banchieri italiani ed internazionali, i quali, da oggi, provvederanno a mutare condotta. di concerto con il governo e l'opposizione. Ed anche il 15 ottobre 2011 passerà alla distratta storia mondiale per la soluzione romana, abilmente concertata dalla Banca centrale in armonia col governo nazionale (di «concerto con missa solemnis» con la Banca vaticana), per incarico della Banca centrale europea, e per desiderio dei banchieri di Wall Street e dei paradisi fiscali. ANTONIO PANTANO NON FACCIAMO CONFUSIONE Come tutti sento che sta finendo la c.d. Seconda repubblica, con il suo modo di considerare la politica solo
Novembre 2011 come un tedioso referendum pro/contro Silvio. È indispensabile evitare di commettere un errore storico, quello cioè di confondere Destra con Moderati e Sinistra con Progressisti: l’Italia non è mai stata l’Europa centro-settentrionale; da noi i Moderati erano il blocco democristiano, la Destra era una forza di protesta sociale e nazionale fuori dall’Arco Costituzionale, la Sinistra poi era il PCI, conservatore perché attaccato al potere che il compromesso storico gli garantiva e i Progressisti … praticamente non esistevano. Circa vent’anni fa un filone giudiziario spazzò via il pentapartito e un capitalista di area socialista ne ereditò l’elettorato sdoganando Lega e MSI che passarono dalla protesta al potere senza transitare per la proposta; invece la sinistra post comunista e socialdemocristiana diventò la nuova forza conservatrice, assistenzialista e, ove servisse, bacchettonmoralista. Ora i Moderati post-berlusconiani possono, sotto le bandiere del PPE, ricompattare primo, terzo polo, centristi PD e, orribile dictu, IDV; ha ragione l’ex leader del FN (Il Borghese n. 8/9 p.17): certo, meglio loro del trio Bersani-Vendola-Grillo, ma la DESTRA è un’altra cosa, essa va ricostruita sulle ceneri del MSI (non di AN) con una federazione che unisca tutte le sue componenti esaltandone i punti comuni e rispettandone le differenze. Così saremo alleati dei moderati, ma non una loro costola! Però dobbiamo sbrigarci: il funerale politico del Cavaliere è ormai prossimo! MARCO MINGARELLI Insegnante barese di scuola secondaria superiore Le lettere (massimo 20 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail piccolaposta@ilborghese.net
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IL BORGHESE
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MENSILE - ANNO XI - NUMERO 11 - NOVEMBRE 2011
GLI UTILI idioti di CLAUDIO TEDESCHI Roma, 16 ottobre 2011 MENTRE scriviamo queste note, i media stanno intossicando l’etere con uno tsunami di parole ed immagini. Sabato pomeriggio abbiamo assistito ad un remake di tanti anni fa: scontri di piazza tra autonomi e forze dell'ordine, con in mezzo la solita «manifestazione democratica, pacifista ed antifascista». Già allora si sapeva che a pagare il tutto erano il PCI e la CGIL. Oggi, chissà ... Dietro al PCI, allora, guidato e foraggiato da Mosca, esisteva il primo Direttorato Centrale del KGB (operazioni all'estero), composto da 10 dipartimenti. Di questi, il 3°, il 4° ed il 5° si occupavano dell'Europa (leggi NATO) e dei Paesi occidentali legati alla NATO ed agli USA. Loro compito organizzare manifestazioni di massa, all'interno delle democrazie occidentali, per incrinarne la stabilità e creare le basi per una vittoria elettorale delle sinistre «progressiste». Anche allora le masse giovanili avevano ragione a protestare e le vecchie classi politiche «fasciste, cattoliche e reazionarie» dovevano essere sostituite dalle giovani generazioni «democratiche, antifasciste e antiamericane». Oggi l’Unione Sovietica è scomparsa, il PCI (ufficialmente) non esiste più, quindi: chi paga? La risposta viene da una fonte insospettabile. Mario Draghi, attualmente Governatore di Bankitalia e prossimo Presidente della BCE ha detto: «I giovani hanno ragione a prendersela con la finanza come capro espiatorio». A queste parole rispondeva Franco Berardi, detto «Bifo», storico esponente di Potere Operaio e dell'Autonomia, sulla sua pagina di Facebook: «Ciò significa che non appena prenderà il suo posto di presidente della Banca, Mario Draghi tasserà le transazioni finanziarie nella stessa misura in cui tassa il mio stipendio? Che la BCE erogherà finalmente un reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati europei? Chiederà ai governi europei di investire nuovamente i soldi tagliati alla scuola, e di riassumere i dipendenti pubblici e privati licenziati per effetto delle misure deflazioniste e privatistiche della passata gestione della BCE? Ne dubito». Ha ragione a dubitare. Per capire i giorni nostri, con i fatti di Roma, occorre tornare al 2 Giugno 1992, panfilo Britannia, al largo delle coste siciliane. A bordo l'élite del potere anglo-americano, rappresentata da alcuni grandi banchieri (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). Quel giorno si decise come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente
manovrato dai nuovi padroni. Fra i partecipanti Mario Draghi, Beniamino Andreatta e Riccardo Galli. Mentre la stampa italiana gestiva «Mani Pulite», come la soluzione di tutti i problemi, nel giugno ’92 nasceva il governo Amato; in sintonia con le tre grandi banche di Wall Street (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers) iniziano le privatizzazioni. Il via lo diede il FMI, con la svalutazione della lira. Ci pensò George Soros, miliardario americano che, sfruttando informazioni avute dai Rothschild, complici alcune autorità nostrane, riuscì nell’intento. Ricordate l’estate del ’92, con il crollo della lira e la rapina sui conti del 6 per mille, e l’autunno dello stesso anno con la manovra «lacrime e sangue» da 93mila miliardi? Amato fu il braccio, ma la mente stava nei Consigli di Amministrazione delle grandi banche private. Il 5 novembre del ’93, la lira perse il 30 per cento del suo valore. Gli interessi finanziari alle spalle di Draghi costituiscono il vero pericolo. La Grecia è stato l’assaggio di quello che potrebbe capitare al Paese che si oppone alla politica della delinquenza internazionale, altrimenti detta grande finanza. La nomina alla BCE di un uomo della Goldmann Sachs è un ulteriore passo verso il completo controllo della politica da parte delle grandi Banche internazionali, a loro volta padrone della BCE. La Mafia capitalista ha lavorato talmente bene che una massa enorme di «indignati» ha saltato la scuola per una gita a Roma, a protestare contro una congiuntura grazie alla quale banche, sindacati e partiti si sono arricchiti. Questi «utili idioti» sono andati a «fare la rivoluzione», finendo la giornata tra automobili incendiate, «spese proletarie» specialmente di alcolici, cariche di polizia ed un bilancio di circa settanta feriti. Anche la primavera araba è iniziata con la distruzione di una società che a parole gli «utili idioti» dicono di voler proteggere. La massiccia presenza in strada di televisioni di mezzo mondo, per una manifestazione annunciata da settimane, fa capire quanto gli «utili idioti» siano stati strumentalizzati. Sul Corriere della Sera del 16 ottobre, Mario Monti, indicato per un probabile governo tecnico, ha dichiarato che «in Europa e negli Stati Uniti si identifica proprio nell'Italia il possibile fattore scatenante di una crisi nell'eurozona di dimensioni non ancora sperimentate e forse non fronteggiabili. … La permanenza in carica dell'attuale presidente del Consiglio viene vista da molti come una circostanza ormai incompatibile con un'attività di governo adeguata, per intensità e credibilità, a sventare il rischio di crisi finanziaria e a creare una prospettiva di crescita». Il culmine si è raggiunto a Todi, con il seminario di tutte le associazioni cattoliche, nel corso del quale è stato chiesto espressamente un nuovo governo con tutti i principali partiti. Bagnasco ha chiarito il punto affermando che i cristiani «sono diventati nella società civile massa critica, capace di visione e di reti virtuose, per contribuire al bene comune». Adesso capite a cosa servono gli «utili idioti»?
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Crisi economica, corruzione, caste intoccabili, nessun ricambio della classe politica, perdita di princìpi spirituali dell’uomo e della comunità nazionale:
VUOI REAGIRE? Aderisci pure tu ai Circoli de
Per tutti coloro che si assoceranno e che sono già abbonati del «Borghese», la quota 2010 sarà già compresa nell’abbonamento …………………...……..……………………………………………...………………………………........ SCHEDA DI ISCRIZIONE COGNOME ……………………………………………….. NOME …………..………………………………………… NATO A …………………………………………………. PROV …… IL ___/___/______ DOMICILIATO A ………………………………………… PROV …… CAP ……………... VIA ………………………………………………………… N. ….. INT ….. SC ………… TEL/AB ……………………….. TEL/UFF …………………….. CELL ………………… EM@IL ………………………………………………………………..@.......................................... DATI PERSONALI TITOLO DI STUDIO…………………………………………………. PROFESSIONE ……………………………… ATTIVITÀ …………………………………………………………… ABB. NUM. ………………………………….. Dichiaro di accettare le norme dello Statuto, i programmi e le direttive dell’Associazione dei Circoli del «Borghese» Ricevuta l’informativa sull’utilizzazione dei miei dati personali, ai sensi dell’Art. 10 Legge 675/9, consento al loro trattamento nella misura necessaria per il proseguimento degli scopi associativi. DATA ___/___/______
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Grazie a coloro che hanno aderito in gran numero ed invitiamo tutti a fare opera di proselitismo, costituendo sempre più nuovi «Circoli» (minimo 10 soci). Tutti coloro che hanno documenti visivi possono inviarli, noi provvederemo a metterli in rete sul sito www.il-borghese.it
SALVIAMO L’ITALIA 1) Dalla sinistra radicale che a Milano svende il Paese a drogati e talebani 2) Da una Lega che ha fallito il suo progetto, ma non se ne è accorta 3) Dai «mercenari» della politica, che fanno le «manovre» per non pagare le tasse 4) Dalla dittatura delle «lobbies» che guardano ai cittadini come pecore da tosare 5) Dall’Euro «franco-tedesco» che vuole farci sparire dalla scena economica 6) Dall’invasione straniera nel nome di un «islam» politicamente corretto 7) Dall’assassinio della cultura commesso dai «reality» 8) Dai «vecchi» della politica che non vogliono mollare la poltrona 9) Dalla schiavitù economica gestita dalla finanza internazionale 10) Dalla vita sociale del Paese «sepolta» sotto i «partiti-spazzatura» Estratto dallo Statuto costitutivo dei «Circoli del Borghese» Art. 3 - Scopo e finalità L’associazione è senza fini di lucro ed opera senza discriminazione di nazionalità, di carattere politico o religioso. Si propone di promuovere ogni iniziativa culturale e politica tesa a restituire al cittadino il senso del dovere e l’etica della responsabilità. Denunciare il malcostume nel contesto politico, economico e sociale. Avversare caste e privilegi in ogni comparto della società. Educare le nuove generazioni ad assumere l’impegno di essere futura classe dirigente, onesta, libera, professionale e responsabile A questo fine si predispone per svolgere qualsiasi attività si ritenga necessaria al perseguimento degli scopi istituzionali con particolare attenzione a: Organizzazione e promozione di incontri, dibattiti e pubblicazioni per incidere nel processo culturale e sviluppo della Nazione. Esercitare, in via meramente marginale e senza scopi di lucro, attività di natura commerciale per autofinanziamento: in tal caso dovrà osservare le normative amministrative e fiscali vigenti. L'Associazione ha facoltà di organizzare, anche in collaborazione con altri enti, società e associazioni, manifestazioni culturali connesse alle proprie attività, purché tali manifestazioni non siano in contrasto con l'oggetto sociale, con il presente Statuto Sociale e con l'Atto Costitutivo. Le attività di cui sopra sono svolte dall'Associazione prevalentemente tramite le prestazioni fornite dal propri aderenti. L'attività degli aderenti non può essere retribuita in alcun modo nemmeno da eventuali diretti beneficiari. Agli aderenti possono solo essere rimborsate dall'Associazione le spese effettivamente sostenute per l'attività prestata, previa documentazione ed entro limiti preventivamente stabiliti dall'Assemblea dei soci. Ogni forma di rapporto economico con l'Associazione derivante da lavoro dipendente o autonomo, è incompatibile con la qualità di socio.
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IL BORGHESE
CONTRO LA SPECULAZIONE
ORGANIZZARE la Rivoluzione di CARLO VIVALDI-FORTI LA DELEGITTIMAZIONE delle istituzioni rappresentative è ormai un fatto acquisito in quanto i parlamenti legiferano per compiacere le Borse, dominate da una esigua oligarchia di speculatori privi di scrupoli, anziché per adempiere al mandato ricevuto dagli elettori: i loro provvedimenti non corrispondono né allo spirito né alla lettera delle Costituzioni. Questo è il primo motivo per cui la rivoluzione appare oggi il solo strumento disponibile per restituire ai popoli la perduta sovranità. Ciò premesso occorre tuttavia porsi altre domande: a cosa deve mirare una rivoluzione del ventunesimo secolo e come realizzarla? Precisiamo subito che questo termine non implica necessariamente una soluzione violenta, ma integrale dei conflitti sociali. Essa, pertanto, non si contrappone ai concetti di moderazione e rispetto delle opinioni altrui, bensì a quello di riformismo. Quest'ultimo, di sicuro, sarebbe in teoria largamente preferibile, e io stesso mi consideravo un riformista fino a qualche tempo fa. Oggi non è più possibile. Le riforme che servirebbero in un periodo come l'attuale dovrebbero essere varate dalle classi dirigenti in carica, siano esse di destra, di centro o di sinistra. Ciò è semplicemente fuori dalla realtà, non essendosi mai visto un tacchino che invochi il Natale. L'esperienza dell'ultimo decennio dimostra l'assoluta incapacità della politica a fronteggiare l'attacco speculativo della finanza globalizzata ai danni dell'economia produttiva. Questi sono dati di fatto, poco importa che la causa risieda in una intrinseca debolezza dei parlamenti o nella loro collusione col mondo degli affari. Tale stato di cose non cesserà finché non saranno rimossi questi politici ormai privi di legittimazione. Per giungere a tanto, però, occorre un processo rivoluzionario. Ma come realizzarlo, muovendo dalla situazione esistente? Premessa indispensabile è l'elaborazione di un progetto alternativo di società e di Stato. Le due grandi rivoluzioni moderne, francese e russa, ci insegnano che un radicale cambiamento si ottiene soltanto quando gli oppositori del sistema dispongono di un corpus dottrinario alternativo: l'illuminismo nel primo caso, il marxismo-leninismo nel secondo. In assenza di questo la protesta, per quanto dura, rimane sterile, non producendo innovazione ma confusione e anarchia. Un esempio concreto di ciò è il movimento Vaffa di Beppe Grillo: per quanto il comico genovese proclami spesso molte verità, in mezzo a tante fesserie, il suo partito non rappresenta una vera opposizione proprio perché manca di una proposta seria e organica, di una visione sociale da sostituire al sistema morente. Questo è perciò il primo strumento di cui una élite rivoluzionaria deve dotarsi. Intendiamoci, sappiamo bene che oggi la storia corre più veloce della luce, e che nessuno dispone del tempo per scrivere Enciclopedie o per comporre trattati simili al Capitale di Marx. La risposta teoretica alla crisi deve invece possedere i requisiti della tempestività e della snellezza, ma non possiamo comunque farne a meno, pena l'inconsistenza della proposta e lo scivolamento nello sterile filone
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dell'antipolitica. La prima fase rivoluzionaria, da condurre a termine a spron battuto, è quindi studiare e riflettere. La seconda, che in certa misura può essere coeva alla prima, è intercettare la protesta, ossia dare voce al malcontento popolare. In altre epoche ciò si sarebbe ottenuto organizzando conferenze, dibattiti, comizi e pubblicando articoli. Oggi, pur senza escludere l'uso accessorio di tali mezzi, sembra assai più produttivo far circolare messaggi in rete, gestire blog, ecc. Sarebbe anche molto importante l'uso del mezzo televisivo, ma dato l'asservimento delle principali emittenti al sistema non c'è da farsi illusioni. Per quanto riguarda la circolazione di idee nelle élite non si deve invece trascurare il samizdat, ossia la distribuzione, brevi manu o tramite presentazioni mirate in circoli privati e librerie, di dattiloscritti e pubblicazioni di case editrici minori, escluse dai grandi circuiti giornalistici. Appena radunato un numero minimo di adesioni al progetto, sarebbe indispensabile la formazione di un Forum civico sotto forma di associazione culturale registrata al Tribunale. L'esempio ci viene offerto dall'esperienza positiva realizzata in merito nei Paesi dell'Est europeo durante la lotta al comunismo, basti pensare alle iniziative di Havel a Praga, di Walesa a Varsavia, delle chiese protestanti in Germania orientale. Queste organizzazioni si distinguevano nettamente dai partiti, in quanto espressioni della volontà popolare che però si guardavano bene dal proporre propri candidati al Parlamento o dal concludere alleanze, a qualsiasi livello, con le forze di regime. Ciò non impediva, beninteso, al singolo parlamentare o esponente politico di farne parte a titolo personale, purché ne accettasse integralmente gli scopi e lo Statuto. La forza travolgente di tali organismi, che ha permesso loro di assestare un colpo decisivo al sistema, è stata la totale trasparenza. I dissidenti degli anni ottanta, a differenza dei predecessori, avevano infatti ben compreso che in Paesi ove lo spionaggio la faceva da padrone ed era capillarmente diffuso in ogni ambiente, il tentativo di agire nell'ombra, come carbonari, sarebbe fallito in partenza. L'alternativa vincente consisteva nel proclamarsi difensori dei diritti umani e delle prerogative popolari, a norma dei trattati internazionali sottoscritti dai singoli Stati, (per esempio Helsinki 1975), oltre che delle Costituzioni in vigore. La vittoria fu il risultato dell'incrociarsi di questa strategia con la crescente indignazione popolare, spinta dal collasso della situazione socio-economica. Altro elemento di successo deve ritenersi l'approccio non violento alla protesta, che in Cecoslovacchia meritò l'appellativo di Rivoluzione di velluto. Non soltanto, infatti, l'ostruzionismo pacifico e la disobbedienza civile si dimostrarono la strategia più efficace per dare scacco matto al sistema, ma i loro leader, ingiustamente perseguitati dall'apparato repressivo, acquistarono l'aureola dei martiri. Infine, il crollo dell'impero sovietico fu causato dalla internazionalizzazione del dissenso e dal conseguente effetto domino. Le rivolte di Budapest del 1956 e di Praga del 1968 vennero schiacciate perché fatti isolati; nel 1989 ciò non fu possibile in quanto tutte le province, inclusa la Russia stessa, si sollevarono all'unisono. Da tali considerazioni dobbiamo trarre preziosi insegnamenti. In tutti i Paesi occidentali, nessuno escluso, siamo in presenza di autentici colpi di mano da parte delle bande criminali della speculazione globale, che hanno scatenato l'ultima battaglia per la conquista delle proprietà e delle ricchezze da noi accumulate grazie al lavoro onesto e intelligente di varie generazioni. Col pretesto del debito pubblico, e usando le Borse come arma di ricatto, intendono imporre ai parlamenti decisioni in aperto contrasto con la volontà e l'interesse dei popoli, ossia una serie d'imposte confiscatorie dei beni
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privati. La strategia delinquenziale di questi signori è talmente scoperta e ingenua che la capirebbe pure un bambino: appena entrate in vigore le nuove tasse, i prezzi degli immobili e delle aziende subirebbero un tracollo. In quel momento uscirebbero allo scoperto i detentori della liquidità, acquistando a valori di realizzo beni che in un mercato libero varrebbero almeno cinque volte di più. I legittimi proprietari sarebbero ridotti al rango di dipendenti mal pagati. Il processo, che adesso sta accelerando, è già in corso da anni. Cos'altro nasconde la proletarizzazione del ceto medio di cui tanto si parla? No, i farabutti dei mercati e i loro tirapiedi delle agenzie di rating non possono prenderci per fessi! Al loro sporco gioco, che le istituzioni pubbliche non sono minimamente in grado di fronteggiare, deve contrapporsi la ferrea volontà del popolo, opportunamente mobilitata e organizzata. Attraverso i media a nostra disposizione, pochi o molti che siano, dobbiamo diffondere un messaggio alternativo, una rinnovata speranza in particolare per i giovani. Dobbiamo far comprendere loro che non è affatto il caso di rassegnarsi al pessimismo e alla mancanza di futuro. Le terrificanti prospettive di cui cianciano i vari istituti di statistica asserviti al sistema, che annunciano entro pochi anni la disoccupazione perpetua per oltre metà della popolazione giovanile e la sua impossibilità di ottenere una qualsiasi pensione in vecchiaia, possono essere annullate e capovolte soltanto che lo si voglia, che qualcuno prenda davvero in mano il destino dei popoli e li conduca verso più sereni orizzonti. Una volta si sarebbe invocato l'uomo forte, il Bonaparte della situazione, che dopo aver fatto silenzio si sarebbe assiso arbitro in mezzo a due secoli, per dirla col Manzoni. Oggi, è palese, non esiste tale eventualità: nessun leader, per quanto carismatico, potrebbe aspirare a una funzione del genere, in un mondo complesso come il nostro. Qualcosa di analogo, però, potrebbe emergere, e di sicuro emergerà, dal mondo delle idee. Scriveva tempo addietro l'imprenditore olandese Gerard Endenburg, fondatore e primo sperimentatore della Sociocrazia, una delle più avanzate applicazioni delle dottrine partecipative, che nella storia vi sono momenti critici in cui si evidenzia il superamento di un sistema istituzionale, politico e sociale. Nel nostro tempo questo destino è toccato alla democrazia. Di fronte al suo fallimento, o almeno alla sua palese inadeguatezza a governare una società come l'attuale, si scorgono in teoria due sole alternative: tornar al passato regredendo verso gli assetti precedenti, oppure spiccare il volo verso il futuro, inventandosi soluzioni nuove e inesplorate. La prima ipotesi ci ricondurrebbe all'assolutismo, non importa in quale forma, ossia al sistema travolto dalla rivoluzione francese. La seconda ci proietterebbe invece verso una comunità partecipativa e autogovernata, ove la democrazia economica e sociale si affiancherebbe a quella politica fondata sui partiti. Questa, fra l'altro, sembra pure l'unica soluzione per metterci al riparo dal rischio della guerra totale e della distruzione ecologica. Solamente sottraendo il governo del pianeta all'internazionale del crimine che adesso lo detiene, per attribuirlo ai popoli oggi sudditi, sarebbe ipotizzabile una diversa allocazione delle risorse globali, evitando sia il riarmo incontrollato che l'abuso irresponsabile della natura. Questa è la rivoluzione di cui dobbiamo farci promotori! I tempi sono più che maturi; si tratta di tirar fuori quella grinta che nessuno, purtroppo, ha finora mostrato e di ricercare i necessari collegamenti in Italia, in Europa e nel mondo. Tutti coloro che sono convinti della percorribilità di un simile cammino si uniscano dunque per raggiungere lo scopo comune, ponendosi fin da oggi generosamente al lavoro. Gli altri, per favore, si tirino da parte. Il nostro motto sia, da ora in poi: ORGANIZZARE LA RIVOLUZIONE!
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PONTEFICE IMPERANTE
LA RESA della politica di RICCARDO SCARPA DALLA fine di Settembre, quando il Cardinal Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha fatto il suo predicozzo al personale politico intimandogli di «purificare l’aria», è stata una processione di politicanti di tutti i partiti della Destra, del centro e della sinistra, tranne il radicale, a baciare l’anello. La reazione dimostra che quello dell’elettorato cattolico ha, su essi, un riflesso simile ai miraggi per i carovanieri del deserto: porta tutti fuori strada, verso la morte per sete. Lo è stato col Patto Gentiloni nell’Italia giolittiana, colla riconciliazione ed il concordato per Benito Mussolini, l’anticlericale salito al potere con l’appoggio dei futuristi di Filippo Tommaso Marinetti perché «svaticanasse» l’Italia e circondato dai fratelli massoni quadrumviri della marcia su Roma, col povero Bettino Craxi nella riedizione di uomo della Provvidenza dalla mascella robusta, ed in fin dei conti anche coi vecchi comunisti, attratti dall’idea gramsciana di saldatura fra gli operaî e le masse contadine cattoliche e dalla prospettiva della repubblica conciliare. Tutti sedotti ed abbandonati, al momento opportuno, mentre ad ogni giro della solita giostra la Monarchia Papale ha riconquistato una sovranità reale non sul Lazio, ma sull’Italia. Anche formalmente, in quanto cacciata dal Quirinale la Regalità ghibellina di Casa Savoia, l’unico Monarca resta il Papa in Vaticano. Per questo, non mi sorprendo di quegli amici monarchici non ghibellini che, eredi del papismo dei Nazionalisti di Luigi Federzoni, si genuflettono davanti a Sua Santità, ma di quei neofascisti i quali «lefevrianeggiano» dichiarandosi nostalgici di Pio XII, dimentichi che Lui non riconobbe mai la Repubblica Sociale Italiana ma trattò con gli Anglo-Americani, già evidenti vincitori, le sorti d’Italia, come da Nunzio apostolico nella Germania ebbe commercio coi Nazionalsocialisti quando fu evidente il loro affermarsi. Di tutto ciò non si possono rimproverare i Papi, che fecero e fanno il proprio mestiere, come ebbe a sottolineare a suo tempo quel grande gentiluomo romano che fu il Conte Fabrizio Sarazani, scomunicato da Pio XII, del quale fu amico di famiglia, per la colpa, nella Roma degli anni cinquanta, d’aver combattuto l’ultimo duello; lui sfidante, manco a dirlo. In quella carrellata sulla Monarchia Papale che resta il suo La Roma di Sisto V, «er papa tosto», in cui il grande giornalista, fu tra l’altro collaboratore de il Borghese, apre squarci nel tempo che vanno da San Pietro al Paolo VI conciliare, annotò tra l’altro: «Non è storicamente concepibile la Chiesa cattolica senza la difesa politica del Papato. Anime di eccezione che operano nella santità del cosiddetto Primato, o personaggi vigorosi che riescono, persino con la violenza del loro governare, a mantenere integra la continuità del potere. Azione spirituale ed azione politica, secondo le trasformazioni sociali di un epoca». E più avanti, rintracciandone la radice: «Per i teologi la Chiesa è un organismo soprannaturale. Ma il Papato, nel periodo immediatamente successivo all’epoca apostolica, diviene, e si consolida, come forza terrena. Quasi un partito, una rivoluzione, che smantel-
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la a poco a poco la costruzione e l’ideologia dell’Impero pagano. I martiri, come combattenti. Nella dialettica dei primi Padri della Chiesa si parla in linguaggio d’attacco, di opposizione dura ed inflessibile. Il “soprannaturale” del cristianesimo senza la potenza esaltatrice della fede, e senza il coraggio materiale dell’azione, non avrebbe vinto la grande battaglia. È il linguaggio di un guerriero, per esempio, quello che usa nella sua limitatissima opera letteraria Sant’Ignazio di Antiochia […] La Chiesa come realtà umano-divina. Nel disfacimento dell’Impero, la sola organizzazione effettiva è nelle sue mani. Il Vangelo diviene, infatti, con San Gregorio Magno, il console di Dio, una forma allora attuale di vera e propria politica». Nei giorni delle dichiarazioni del Cardinal Bagnasco, chi ha avuto la vista più acuta è stato Arturo Diaconale, nell’articolo di fondo de L’Opinione del 29 Settembre 2011: «Questo desiderio di purificazione e pulizia è certamente condivisibile […] Ma questa volontà e quest’ansia di voltare pagina passando dal nero al bianco, dal peccato alla santità, è solo la faccia positiva e splendente della medaglia. L’altra […] è la faccia in cui appare sin troppo chiaramente come nel nostro Paese sia ormai in atto un processo […] d’islamizzazione della società nazionale. Non nel senso, ovviamente, che la moltiplicazione delle moschee e la crescita incontrollata dell’immigrazione mussulmana rischi di intaccare la natura storicamente cattolica degli abitanti della penisola. Ma in un senso molto più profondo e pericoloso. Quello di azzerare, per ragioni politiche contingenti, la più grande conquista ottenuta con secoli e secoli di traversie drammatiche e spesso sanguinose ed una continua e profonda elaborazione culturale durata generazioni dopo generazioni, la distinzione tra l’Impero ed il Papato, tra lo Stato e la Chiesa, tra l’autorità politica e quella morale e religiosa. E di provocare una sorta di profonda ed inguaribile regressione a quando l’autorità civile dipendeva da quella religiosa, l’Imperatore era investito dal Papa e lo Stato e la vita di qualsiasi singolo individuo erano subordinati all’autorità superiore ed indiscutibile di quanto proveniente da Dio di chi deteneva l’autorità morale». È il sogno politico di Bonifacio XVIII che, Pontefice Romano, proclamò sé medesimo Imperatore. Il Triregno, la tiara con le tre corone sullo Spirito, sulle anime e sul Regno politico, è semioccultato nello stemma di Benedetto XVI, timbrato con una mitria vescovile con la triplica croce papale, ma sulla bandiera dello Stato Vaticano è sempre lì, sopra le chiavi colle quali Saturno aprì le porte solstiziali battezzate chiavi di Pietro. In fatto di simboli il Papato è bravissimo a rivoltarli come calzini, anche il Pontefice Imperante riprende da quella statua d’Ottaviano l’Augusto in panni pontificali ora al Museo Nazionale Romano. Tanto, in questo centocinquantesimo dalla proclamazione del Regno d’Italia, ci fa comprendere la grandezza dell’opera politica del Conte di Cavour, riassunta nella formula «sociniana» Libera Chiesa in Libero Stato. Però non si può pretendere che sia il Papato ad essere liberale, illusione sempre smentita da Pio IX a Benedetto XVI, occorre che sia lo Stato a saper difendere la propria Sovranità ed i cittadini la propria Libertà, che poi questo si chiami ghibellinismo, laicismo, libero pensiero, imperialismo pagano o quant’altro poco conta. Una sola cosa, mi consenta l’amicizia, si può ribattere ad Arturo Diaconale: perché dare per scontato lasciare alla Chiesa di Roma il monopolio della morale, anzi dell’eticità, come se il libero essere umano non attingesse a proprie intuizioni etiche? È questo il trappolone teso dalla cosiddetta bioetica cattolica, il giudizio confessionale sulla facoltà dell’essere umano di determinarsi nelle scelte fondamentali della vita, dal
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far venire al mondo un figlio a come lasciare questo piano terreno d’esistenza. La scorsa legislatura Antonio Del Pennino presentò un disegno di legge ben fatto sul testamento biologico, che riconosceva e disciplinava nelle forme la facoltà d’un essere umano libero di determinarsi nel trattamento medico che avrebbe voluto fosse a lui applicato in caso di stato terminale incosciente, per malattia od incidente. La proposta raccolse un’ampia maggioranza ma non passò entro quella legislatura e decadde. Poi la Chiesa Romana sentenziò non si possa disporre d’un dono di Dio. Che io sappia ciascuno di noi può farsene quello che vuole d’un regalo, sennò è un comodato. È presa di posizione strumentale per affermare la teocrazia della Monarchia Papale. Quando ad essa fece comodo questo transito terreno contò poco o nulla e la pena di morte fu legittima usata, fino allo spreco, dai Papi; oggi la condanna è la riduzione a vegetale imbalsamato, come se non esistesse vita in eterno ma soltanto materialisticamente terrena. Quanta spiritualità vera e cosmica nelle ultime parole del pagano Imperatore Adriano, quel tenero colloquio con la sua piccola e vaga anima, nel quale si chiede verso quali Soli essa sia diretta!
Rettifica su Vittorio Emanuele III a Brindisi
NON HO SCRITTO «FUGA» Fare una rivista politica non è semplice, il direttore deve aver facoltà di tagli, sostituzioni d’espressioni con altre più sintetiche per far entrare gli articoli negli spazî disponibili. Claudio Tedeschi, in ciò, ha rispetto pei collaboratori, abilità e discrezione. Tuttavia opinioni convinte anche del migliore dei direttori possono giocare qualche scherzo. Sul numero d’Ottobre scorso, nell’articolo dedicato a Luca Cordero di Montezemolo, pag. 9, ho ricordato la nobile figura del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, le vicende del 1943 ed avevo scritto: «All’atto del trasferimento del Re e del governo da Roma». Il direttore, per abbreviare, ha sostituito: «all’atto della fuga del Re a Brindisi». La dicitura riflette il pensiero di Claudio Tedeschi, ed un luogo ormai comune, condiviso com’è da «repubblichini» e «repubblicani», ma che non corrisponde al mio pensiero. Ritengo infatti che il Re Soldato, di fronte ad una guerra persa, si sia assunto la responsabilità di salvare la continuità dello Stato, e ciò richiese il trasferimento delle Istituzioni in provincie non occupate né da Angloamericani né da Tedeschi: la King’s Italy come dissero i primi. Ciò evitò all’Italia quella debellatio che subì la Germania con relativa divisione, anche se poi i politicanti non seppero sfruttare il vantaggio. Non profitto oltre dello spazio per la rettifica, del quale sono grato, sempre disposto a confrontarmi sul tema. RICCARDO SCARPA
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LA POLITICA E LA CHIESA
«IN HOC signo», ancora? di RICCARDO PARADISI A BISANZIO coi barbari alle porte si discuteva se un angelo potesse reggersi sulla punta d’uno spillo; la politica italiana con la crisi che ha ormai sfondato le porte del Paese - non è meno capace di astrazioni. È da lunghi mesi che ci si trova a registrare la resistenza di questa fragile maggioranza sulla linea Maginot dei voti di fiducia - l’ultimo risale al 14 ottobre - e che, dall’altra parte, si è costretti ad assistere alle velleità d’un opposizione che al di là di governi istituzionali sempre più improbabili non sa nemmeno proporre una coalizione definita e indicare un leader alternativo. Verrebbe dunque da dire: niente di nuovo sul fronte italiano. Una novità, Invece, a ben guardare c’è. Si tratta di qualcosa che non ha ancora assunto una forma compiuta di cui non è ancora possibile nemmeno definire l’esito e la manifestazione ma è un movimento reale e potente. Così avvertito da generare reali riflessi condizionati sulla nervosa dinamica del gioco politico italiano. Stiamo parlando del ritorno dei cattolici alla politica o più precisamente dell’esigenza manifestata dalle più alte gerarchie e del vasto mondo dell’associazionismo cristiano di accettare la sfida di un nuovo protagonismo sulla scena pubblica italiana. Non è un movimento nato oggi. È da almeno un triennio che il mondo della Chiesa ha preso atto che la lunga fase strategica del condizionamento a distanza attraverso la moral suasion sulla società e la battaglia culturale contro il relativismo ha compiuto il suo ciclo e che una fase nuova deve aprirsi. Una fase in cui i cattolici smettono di delegare la rappresentanza delle loro istanze etiche e sociali per cominciare a portare avanti in proprio il loro discorso pubblico. Una fase, quella della delega, durata tutto il quindicennio della seconda repubblica e scandita sostanzialmente da due diversi periodi e due rispettive strategie. Il primo periodo è quello della cosiddetta dottrina Ruini e discende dalla presa d’atto che un partito di riferimento come la Democrazia cristiana non sarebbe più stato possibile in Italia; vuoi perché la ragione sociale della DC era venuta meno con la fine dell’impero sovietico vuoi perché il nuovo schema politico bipolare, scaturito dalle macerie di Tangentopoli e basato sulla cosiddetta democrazia dell’alternanza, non avrebbe più consentito l’esistenza di un partito-Stato di maggioranza relativa in grado di saldare il blocco sociale moderato incarnandone i valori genericamente conservatori e cattolici. Il presidente della CEI Ruini, anche di fronte alla diaspora democristiana verso i due principali nuovi schieramenti di centrodestra e centrosinistra, intuisce che i valori cristiani hanno una maggiore possibilità di successo se seminati a trecentosessanta gradi. È una strategia sagace e per lunghi anni anche vincente. Nel centrodestra e nel centrosinistra la presenza dei cattolici frena ogni possibile spinta laicista e mercatista che premono in entrambi gli schieramenti . Sen-
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nonché, soprattutto nel centrosinistra, le contraddizioni non tardano ad emergere ed esplodono sui valori bioetici. Prima con il referendum sulla fecondazione nel 2005 poi, nel 2009, sul caso Englaro. È su questo fronte caldo che ha a che fare con quelli che la Chiesa chiama valori non negoziabili che si consumano divorzi, rotture e scissioni all’interno del centrosinistra come quella della Margherita di Rutelli. E là dove non si arriva a vere e proprie rotture s’allargano comunque faglie e fossati tra eredi del PDS ed ex popolari, continuamente tentati da un «ritorno» neocentrista. Le scosse del referendum, l’aspra battaglia di idee che s’apre nel Paese e l’avvicendamento al vertice della CEI tra Ruini e Bagnasco portano le gerarchie a cambiare piano. Pur dentro l’orizzonte della distanza dalla sfera politica la dottrina Bagnasco sembra ora prediligere un’interlocuzione privilegiata con lo schieramento di centrodestra. Messi qui in sicurezza i valori non negoziabili riferiti al fine e inizio vita i cattolici investono sulle prospettive politiche per la famiglia che il centrodestra sembra promettere solennemente con il Family Day del maggio 2007. Ma sono appunto promesse. Il centrodestra e il governo Berlusconi non avvierà mai una politica della famiglia. Tanto che la Chiesa non tarda a lamentare una minima attenzione alla libertà di insegnamento e il continuo rinvio del varo del quoziente famigliare. La condotta sempre più palesemente disinvolta del presidente del Consiglio e incidenti come quelli che investono il direttore del quotidiano della CEI, Avvenire, moltiplicano delusione e scetticismo. La Chiesa chiude un occhio, ne chiude anche due: depreca morbidamente gli stili di vita poco commendevoli di Berlusconi ma addita anche il rischio di una deriva giustizialista contestando l’eccesso di mezzi per spiarne la vita privata. Ma siamo alle ultime battute di questa strategia scandita in due fasi. La Chiesa, infatti, capisce che l’era della supplenza è finita. Non a caso si moltiplicano gli interventi ufficiali della Cei e di singoli esponenti della gerarchia in favore di un rinnovato impegno dei cattolici in politica. È lo stesso presidente della CEI Bagnasco da Madrid dove è in corso la XXVI Giornata mondiale della gioventù a tratteggiare una linea d’intervento. «I cattolici guardano al futuro senza nostalgie del passato con grande lucidità di obiettivi e determinazione per una società e una forma di politica che sia all’insegna della moderazione e della dimensione etica della vita. I cattolici vogliono esserci e ci saranno.» Nel maggio precedente, nella sua prolusione alla 63esima assemblea generale dell’episcopato italiano, Bagnasco aveva detto chiaramente che i vescovi italiani non intendono sottrarsi ai ripetuti appelli del Papa, che chiede loro di impegnarsi per preparare una generazione nuova di cittadini, anzi
(Gianni Isidori, il Borghese 10 Novembre 1974)
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assicura che «la chiesa si sta impegnando a formare nuove generazioni di politici cattolici per essere presenza morale non condizionabile». Il quotidiano Avvenire rilancia: «Nessuno si illuda che i cattolici accettino un destino da minoranza insignificante e questo è un tempo buono per tornare a dimostrarlo». Interventi che discendono tutti dal più importante e dal principale di essi, quello appunto pronunciato dal Papa a Cagliari nel settembre 2008. «In Italia», dice Benedetto XVI, «serve una nuova generazione di politici cattolici, che abbiano rigore morale e competenza.» Il Papa esorta, insomma, la Chiesa e i cattolici a tornare ad «essere capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell'economia, della politica». Sono gli stessi toni che riecheggiano nel recente discorso di Reggio Calabria dove il Pontefice torna ad invitare i cattolici all'impegno nella società: «Per il bene comune e non per interessi di parte». Parole che suonano ancora più significative considerato che vengono pronunciate a una settimana dal raduno delle associazioni cattoliche a Todi dove il vasto e radicato mondo dell’associazionismo cattolico si ritrova per mettere a punto, niente di meno che, una piattaforma di idee che guardi al futuro politico del Paese e al superamento della Seconda Repubblica. Non è un appuntamento interlocutorio dunque, un convegno come gli altri. Qualcuno anzi guarda a Todi come all’embrione d’una nuova stagione italiana. Insomma, dietro l’angolo di questa legislatura ormai al termine, c’è un nuovo partito cattolico? Non è un’ipotesi da escludere anche considerando il fatto che nella rottura dell’attuale schema politico il comune denominatore che potrebbe riunire i moderati potrebbe proprio essere la cultura cattolica. L’unica cultura politica sopravvissuta alla strage delle ideologie novecentesche che l’ultimo quindicennio s’è incaricato di portare a termine. Intendiamoci non si tratta di un’impresa semplice. I tempi della DC sono lontani e di quella classe dirigente s’è perduto il ricordo. Tra i cattolici presenti negli schieramenti di centrodestra e centrosinistra non spiccano certo dei leader né è cresciuta a quelle latitudini una classe dirigente cattolica, spesso anzi marginalizzata e penalizzata. Per questo c’è la consapevolezza tra i cattolici che una nuova classe dirigente deve essere enucleata e preparata e che l’ambito da cui essa può formarsi è proprio quello dell’associazionismo. Di converso però ci vuole fantasia a definire classe dirigente la gerontocrazia e il materiale politico di risulta che occupa i vertici dei principali partiti del bipolarismo morente. Il cui logoro schema potrebbe essere scosso da un nuovo soggetto politico cattolico e moderato che potrebbe aggregare un’area di popolarismo di stampo europeo - come accade in Spagna per esempio - in grado di concorrere al governo del Paese. A questo scenario concorre anche l’asfissia di culture politiche al tramonto a cui, al di là delle etichette e delle rendite di posizione, non crede più nessuno di quelli che pure ne usano i loghi. Il cattolicesimo invece è una tradizione vera. E può piacere o no quello che dicono i cattolici ma quando le gerarchie parlano e quando l’associazionismo cattolico si muove, lo fa in nome di qualcosa che trascende i singoli individui e i particolari interessi. C’è un’idea insomma in movimento. E malgrado quello che si possa credere sono sempre le idee che muovono il mondo. C’è persino - in questo triste clima da finis Italiae - «una certa idea dell’Italia» che i cattolici coltivano. La stessa che durante il Risorgimento coltivavano Manzoni e Gioberti. Tanto che potrebbe inverarsi il paradosso che a salvare il risorgimento, fatto contro la Chiesa cattolica, potrebbe essere proprio la Chiesa cattolica.
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VERSO UN DISASTRO SENZA FINE?
LA FALSA destra al potere di FILIPPO DE JORIO (*) MENTRE la situazione politica ed economica si aggrava sempre di più, la posizione del Presidente del Consiglio e dei suoi appare quella dei «beati possidentes». La maggioranza c’è, si va avanti. Dove, non si dice. C’è un’ipotesi benevola che vuole Berlusconi chiedere e governare lui stesso, a dicembre, lo scioglimento del Parlamento e la fissazione delle elezioni, rendendosi conto della insostenibilità della vicenda che lo coinvolge. Ma c’è anche una ipotesi meno benevola e cioè che egli intenda resistere su di una immaginaria linea del Piave fino a che potrà, auspicabilmente fino al 2013. Questa seconda alternativa è drammatica perché porta con sé la marcizione del sistema ed il disordine sociale, ma è, nello stesso tempo, la più gradita alla classe dominante costretta ad esaminare il problema della propria sopravvivenza. La prima soluzione sarebbe la più «normale» ed intelligente, ma non è detto, poiché, in realtà, essendo solo Berlusconi a decidere (dato che i suoi consiglieri appartengono alla schiera dei «nominati» per cui qualsiasi negatività anche inconsapevolmente espressa, può costare cara in termini di favore del premier) tutto è rimesso a lui e soltanto a lui. Occorre notare che potrebbe influire sulla sua decisione finale il fatto di avere capito che buona parte del suo ex elettorato di Forza Italia e del PdL gli è ormai ostile, e non senza ragione. Perciò, potrebbe essere indotto a decidere di resistere contro tutti fino alla fine della legislatura. Mi chiedo se Berlusconi si sia reso conto o non - assorbito da altre e per lui preponderanti preoccupazioni ed occupazioni personali - che la maggior parte dei provvedimenti adottati negli ultimi mesi sono contrari agli interessi (ed anche ai diritti costituzionali) della maggioranza
(Dal sito www.nelpopolodellaliberta.org)
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assoluta dei suoi stessi elettori. Di quanto diciamo, vi sono centinaia di esempi! Basta citarne i maggiori: l’aumento delle imposte e delle tasse e dei poteri dell’Amministrazione Finanziaria, la persecuzione contro i pensionati (vedi legge 122!) l’eliminazione degli avvocati dalle Commissioni tributarie, un vulnus questo di portata storica che disonora quella categoria senza alcuna ragione e pone la giustizia tributaria nella mani del fisco; quest’ultimo dall’11 di agosto è autorizzato, senza alcuna garanzia o intermediazione di altri soggetti ad entrare direttamente su tutti i conti correnti dei contribuenti italiani! Fatte queste considerazioni logiche, ed andando alla prognosi, se dovessimo scommettere, daremmo quasi per certo un tentativo di Berlusconi di resistere fino al 2013, con qualsiasi mezzo. Tuttavia, la protesta spontanea che si va delineando sia pure in maniera disorganica, nel Paese ha un significato che non dobbiamo sottovalutare: l’esasperazione della gente che vede che, qualsiasi cosa faccia, le risposte non arrivano, sostituite dalla sfacciata affermazione che tutto va, più o meno, bene e che tanto l’avvicendamento di altre forze di governo non porterebbe a nessun vero cambiamento. Questa protesta spontanea rischia però di degenerare da un momento all’altro, aprendo scenari di guerra civile che è inutile obliterare. Accanto alla marmorea faccia tosta di Berlusconi e dei suoi c’è però da sottolineare un altro dato di fatto e cioè che nella falsa destra al potere non vi è nessuno dei personaggi alla ribalta che sia spendibile politicamente nel caso di un ritiro del premier. Non certo Fini che finge di non capire che la gente non ha dimenticato e non dimenticherà mai la brutta figura, i contorsionismi, le menzogne legate all’episodio della casa di Montecarlo sottratta al suo stesso partito per quattro soldi ed attribuita ad un suo familiare. Non certo Scajola o Tremonti anch’essi coinvolti in non edificanti episodi di case malamente acquistate o godute. Non certo personaggi di secondo piano come Cicchitto, Gasparri, Bossi etc. Lasciamo da parte Casini su cui demmo un giudizio che ci dispiacque ma che non cambiamo. Insomma, c’è il deserto. Perciò ricambio da quella parte non c’è. In questa situazione di disastro vediamo però le opposizioni deboli, senza idee e senza iniziative. La loro debolezza è tale che potrebbe addirittura favorire una reviviscenza del premier. Perciò è necessario creare qualcosa di nuovo. Dicevo qualche tempo fa: una confederazione di movimenti e di persone note ed ineccepibili che realizzi quanto auspicato da Benedetto XVI e cioè una nuova discesa in politica di laici, guidati dagli ideali cristiani e tesi al bene comune. Si tratta di fare rivivere idee e propositi che sono cari ritengo - a tutti i nostri compatrioti a cominciare dal concetto e dalla pratica della moralità pubblica, oggi completamente e desolatamente assente, da quello - irrinunciabile - del disinteresse necessario per chi si occupa degli altri, e dalla realizzazione piena di quell’articolo della Costituzione, il 54, che impone ai detentori di cariche pubbliche di comportarsi con «disciplina e con onore». Il tutto con una connotazione particolare di fedeltà ai doveri che ci impone la nostra appartenenza alla Religione Cristiana. Nei prossimi giorni daremo corpo a questo tentativo rivolgendoci direttamente al Paese insieme ad altri influenti Amici. *Presidente della Consulta dei Pensionati e dei Pensionati Uniti
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FINE DI UN PARTITO MAI NATO
EUTANASIA anticipata di GENNARO MALGIERI INUTILE nasconderlo. Il PDL cade a pezzi. Quelle che erano correnti, mascherate da fondazioni fino ad un po' di tempo fa, come prevedevamo si stanno trasformando in minipartiti. Rissosi, arroganti, perfino ricattatori. Tutti tramano contro tutti nel partito mai nato, nel «partito che non c'è». I più attivi sono gli ex democristiani. Pisanu, Scajola, Formigoni immaginano, perfino legittimamente, un centro nuovo di zecca da costruire insieme con Casini (chissà Fini ed i suoi come si troveranno subalterni al «post-dc») ed i transfughi margheritini del PD. Benedetto, magari, dalla Conferenza episcopale italiana. Gli altri stanno a guardare. Inutile dire che la destra, la quale pure potrebbe accampare qualche ambizione, non c'è proprio nel PDL: quelli che la rappresentavano non si danno neppure pena nel mostrarsi ad un elettorato che pure sarebbe disposti a votarli e che, certamente, diserterà le urne perché la parte politico-culturale nell'aggregato berlusconiano nella quale si riconoscevano, si è dissolta. I riformisti tacciono per il semplice motivo che non hanno più niente da proporre. L'amalgama tentato, avventurosamente, dal Cavaliere, insomma, si è consumato, complici le sue imprudenze (chiamiamole così) e la più spaventosa crisi economico-finanziaria che il suo governo non è stato capace di fronteggiare per tempo fidando sulla buona stella e su un ministro adeguato a contenere i costi, tagliando indiscriminatamente, ma incapace di immaginare la crescita e lo sviluppo. Eppure c'è chi nel PDL vorrebbe affrettarne la fine reclamando le elezioni anticipate. I soliti tacchini pronti ad invocare l'aiuto di Casini al quale in cambio sarebbero pronti a riconoscere il Quirinale. Pazzesco. La tentazione che si va mani-
MIASMI FETIDI
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festando, infatti, in alcuni settori del centrodestra di aggirare o sabotare il referendum,non ha altro scopo che quello di archiviare il centrodestra. E per che cosa, poi? Non credo si possa gettare alle ortiche un patrimonio politico-culturale, fondato sulla partecipazione popolare e sul primato della democrazia diretta, come è quello del centrodestra perfino nella sua ultima incarnazione del PDL, per inseguire Casini nella spericolata avventura del ricorso alle elezioni anticipate al fine di evitare la celebrazione del referendum e cambiare, come si spera, l'attuale deprecabile legge elettorale. Se sciaguratamente dovesse prevalere questo calcolo politicista e partitocratico, il PDL in particolare si assumerebbe la gravissima responsabilità di aver disatteso la speranza e la richiesta della stragrande maggioranza degli Italiani di riappropriarsi del loro destino politico scegliendosi i parlamentari che ritengono, come tutti, a cominciare da Casini stesso che il «Porcellum» lo ispirò, negli ultimi tre anni hanno ripetutamente dichiarato, mostrando disgusto per il provvedimento varato nell'autunno del 2005. Se si può capire (si fa per dire) il leader dell'UDC che nella prospettiva referendaria vede il tracollo del suo partito e la fine del sogno terzopolista, si fa più fatica a comprendere le ragioni di chi, volendo legarsi all'UDC in un progetto neo-centrista, si rende complice di un disegno antidemocratico poiché avversare l'orientamento di milioni di italiani vuol dire condannarsi alla marginalità e regalare alla sinistra la guida che non merita del rinnovamento politico-istituzionale. Immaginare, dunque, di far rivotare gli Italiani nelle condizioni attuali e soprattutto con il sistema delle liste bloccate e senza preferenze, per garantirsi un posto al sole, come vorrebbe Casini, nella speranza addirittura di condizionare centrodestra e centrosinistra, significa non aver capito ciò che sta succedendo fuori dal Palazzo. E cioè che gli Italiani non ne possono più, non di Berlusconi o di Bersani, bensì dell'immobilismo e dell'indecisionismo della politica oltre che del potere di interdizione di partitini che non hanno il coraggio o la voglia di scegliere concorrendo con chiarezza alla determinazione di politiche di governo. I nostri concittadini, checché se ne pensi nelle «segrete stanze», vogliono un bipolarismo vero in ragione del quale possano indicare il Primo Ministro, votare una coalizione, scegliersi i parlamentari. Altre manfrine non sono più disposti ad accettarle. Perciò il PDL farebbe malissimo ad assecondare Casini scavandosi la fossa, nella prospettiva, eventuale e al momento confusa, di un accordo elettorale. Viste come sono andate le cose in questi anni ed i ricorrenti attacchi portati dall'UDC al centrodestra e al governo cui non ha risparmiato nulla, contrastandolo anche quando gli interessi convergevano, una alleanza soltanto ipotizzata, ma sempre sdegnosamente respinta dai neo-centristi che vorrebbero porre condizioni inaccettabili per la sua realizzazione, non può essere ritenuta praticabile fine a prova contraria. Il partito di Berlusconi dovrebbe, invece, riscoprendo la sua antica vocazione riformista e maggioritaria, cogliere senza riserve l’occasione referendaria, ammettere il fallimento (prevedibile, del resto) della legge vigente, e provare, magari in accordo con chiunque voglia difendere la democrazia dell’alternanza, a varare un provvedimento che consenta ai cittadini-elettori di partecipare attivamente alla composizione del nuovo Parlamento. Soltanto così il centrodestra può arrivare all’appuntamento del 2013 con la speranza di rivincere le elezioni e,
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comunque, di non partire battuto come accadrebbe se il voto dovesse essere anticipato alla primavera del prossimo anno. Oltretutto ben altro c’è da fare piuttosto che imbarcarsi in una campagna elettorale che assomiglierebbe ad un'ordalia: provvedimenti per la crescita e lo sviluppo, la difesa dell’economia dai pericoli incombenti, il rasserenamento (nei limiti delle possibilità) del clima generale e magari l’impostazione di una stagione costituente che veda al centro della proposta del centrodestra il presidenzialismo non foss’altro per superare quello strisciante ed improprio che sembra si vada affermando giorno dopo giorno all’interno del sistema istituzionale stravolgendolo di fatto. Insomma tradire le aspettative di chi ha firmato per il referendum e dei tantissimi che non hanno avuto la possibilità di farlo, sarebbe imperdonabile. Così come imperdonabile agli occhi degli elettori del centrodestra sarebbe la negazione del bipolarismo, riaffermato solennemente da Alfano e da tutta la classe dirigente del partito, per accettare la polverizzazione del sistema come chiedono innumerevoli democristiani, tornando ad un passato che nessuno vuole tranne chi crede di poter lucrare sulle disgrazie degli altri. Se una destra esistesse questo sarebbe il momento opportuno per far sentire la propria voce, piuttosto che nascondersi dietro la finzione di un PPE italiano tanto per farsi dimenticare del tutto. La sua storia, la tradizione politica e culturale che per decenni, in mezzo ad innumerevoli difficoltà ha incarnato, le tragedie che ha vissuto dovrebbero suggerire ai superstiti che di essa, come soggetto attivo, c'è un disperato bisogno. Se il PDL fosse stato altro rispetto a quel che abbiamo visto nascere e se in esso come tanti chiedevano - la componente di destra avesse fatto il proprio dovere invece di farsi annettere tranne poi farsi cacciare o omologarsi a pratiche riti che nulla hanno a che fare con i costumi che furono del MSI e di AN, probabilmente oggi racconteremmo un'altra storia. E chissà, forse perfino le vicende del centrodestra sarebbero di altro tenore. Anche rispetto alla democrazia diretta, partecipativa, referendaria.
(Gianni Isidori, il Borghese 11 Giugno 1978)
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LA PREGIUDIZIALE IDENTITARIA
QUALE futuro? di ADRIANO TILGHER NON bisogna avere paura delle parole, ma soprattutto non bisogna aver paura di essere se stessi. Proprio un partito identitario può raccogliere al suo interno uomini e donne che vengano da altre esperienze e che si riconoscano in un cammino comune, che può anche essere temporaneo, ma che deve diventare momento magico di aggregazione e non drammatica situazione di confusione. Annacquarsi e celarsi per avere altri con sé, significa perdere senza speranza e non avere futuro. Possiamo forse negare di essere i portatori di alcuni valori essenziali nella politica? Vogliamo vergognarci di credere nella supremazia della politica sull’economia? Vogliamo forse far credere che anche noi vogliamo partecipare al grande banchetto della casta? O vogliamo ribadire ciò in cui abbiamo sempre creduto che la politica, cioè, è un’arte nobile e che la degenerazione dello spettacolo dei sedicenti politici di oggi riduce al rango di antipolitica, la vera politica? Abbiamo sempre sostenuto che un popolo senza radici è un popolo senza storia, ed un popolo senza storia difficilmente avrà un futuro. La stessa idea vale per la politica. Un partito che non ha ben salda la consapevolezza del suo passato e ben chiara la visione del suo futuro difficilmente avrà vita durevole. Il nostro partito non può rinunciare alla sua storia di coerenza, per proiettarsi, sì, nel futuro ma con la netta consapevolezza del proprio passato. La storia del MSI e di tutto ciò che girava in quella vasta «area sommersa», che vide in Almirante, Michelini, Romualdi, Borghese… i propri riferimenti, sono i nostri passaggi obbligati di riferimento. Le radici da cui prendeva spunto quella storia costituiscono i presupposti dottrinari del nostro incedere nella politica attuale. Non si tratta di ideologia ma di concezione della vita e quindi di dottrina. Come fare a credere in un percorso futuro, se si rinuncia al proprio passato. Oggi che la crisi non è soltanto economica e sociale, ma è anche culturale, etica e valoriale, c’è bisogno, più di ieri, di identità certe e ben riconoscibili. Questa pregiudiziale identitaria fa proprio la differenza tra i partiti degli affari e noi, soltanto con questa pregiudiziale ben chiara possiamo far entrare nel partito ogni persona che si riconosca nei nostri programmi, e possiamo, altresì, fare accordi con chiunque. È questa identità, fatta di valori, di etica, di storia, di tradizioni, di voglia di gioventù e di proiezione verso il futuro, che ci rende diversi dalle varie caste e dagli altri partiti: è il nostro punto di forza, marca la differenza. Qualcuno ha scritto che dobbiamo decidere se aprirci alla società o chiuderci in noi stessi. Non si fanno i partiti per chiudersi in se stessi, servono le torri d’avorio. Proprio per aprirsi agli altri bisogna essere consapevoli, e profondamente, del proprio essere per poi plasmare la società secondo alcuni precisi paradigmi culturali. Fingere per ingannare il prossimo non ci appartiene. Non faremmo così il partito nuovo di cui
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abbiamo sempre parlato ma l’ennesimo contenitore privo di spina dorsale e di punti di riferimento. Il PDL già c’è, farne un altro non ha senso. Non siamo nati per liquefare la nostra identità in contenitori di vario genere; sarebbe follia farlo adesso. La gente, il nostro popolo disorientato dall’incapacità dei sedicenti politici attuali a trovare risposte e stimoli per la rinascita nazionale, ha bisogno di idee forti, di riferimenti certi. Oggi che il senso di appartenenza nazionale viene minato, che la famiglia si va dissolvendo, che la scuola non forma e nemmeno informa, che le istituzioni tutte, dalla magistratura al parlamento, danno pessimo spettacolo di sé, c’è bisogno di un pensiero forte che ridia forza ed impeto e spina dorsale alla rassegnazione delle masse nazionali. Non è più tempo di buonismo, serve credere in qualcosa di altro e di alto che possa soppiantare la mitologia del dio denaro ormai inesorabilmente in crisi. Ricostruiamo il senso di appartenenza ad una grande comunità politica, come presupposto per la rigenerazione della comunità nazionale in uno spirito di solidarietà. Diventa allora essenziale costruire una forza politica che ponga come primaria la pregiudiziale identitaria. Questa la nostra vocazione da sempre, questo il nostro destino, questo il futuro possibile per l’Italia.
SESSO, POTERE E «ROCK'N' ROLL» Lo si sussurrava nei sacri ambulacri di Montecitorio, lo si accennava cautamente sulla stampa, era tutto un pissi pissi bau bau tra giornalisti e onorevoli, ma adesso è stato certificato scientificamente, se la sociologia è una scienza. Il professor Francesco Alberoni, soprannominato Francesco Banaloni, il sociologo dell’ovvio, licenziato dopo appena 25 anni dalla prima pagina del Corriere della Sera per approdare ahinoi - sulla prima pagina del berlusconiano Il Giornale, ha ivi sentenziato in un’intervista del 2 ottobre: «Quando Gianfranco Fini s’innamora e la sua militanza politica cambia, allora ci si accorge che la passione e l’amore non sono così banali». Alberoni dixit e così possiamo essere più che certi che ci sia stato un rapporto causa/effetto tra le passioni erotiche di un ultracinquantenne e le sue immediatamente successive idee antiberlusconiane camuffate da idee di una Destra Nuova. Chi, tra i suoi seguaci in buona o in mala fede, aveva creduto in una illuminazione sulla Via di Montecarlo deve ormai ricredersi: si è trattato di una conversione sulla via della camera da letto. Lo accredita il sociologo dei sentimenti e dell’amore passionale. Il che, invece, non è avvenuto per il suo colonnello, il Bocchino Italo che invece non è caduto nelle reti intrecciate dalla Began, emissaria, come qualche maligno foglio di opposizione ha sostenuto, del «Berlusca», la quale non è riuscita a convertire il neoseparato vicefini. Anzi, tra «Ape Regina» e «Gallo Cedrone» è tutto finito a suon di querele per stalking (vulgo: persecuzione) via cellulare. Un vero peccato, che non si sia potuto avere un esempio concreto opposto a quello del presidente del FLI! O la Sabina non ha le doti della Elisabetta, oppure l’Italo è più coriaceo del Gianfranco… G.D.F
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L’ITALIA FARÀ «DEFAULT»?
SE SARÀ conveniente di EMMANUEL RAFFAELE MAURIZIO Blondet, il 20 novembre 2010, titola: «Ripudio del debito: forse conviene». Un lungo ed approfondito articolo, provocatorio come al solito: sul tavolo l’ipotesi di Paolo Savona, già ministro nel governo Ciampi, circa l’eventualità di un default pilotato dell’Italia. Se di area euro in crisi già si sussurrava, la questione default sovrano ancora era scartata a priori. Settembre 2011: i Cds sul debito tedesco passano da 73 a 110 dollari. Lo spettro del contagio ormai è reale. Dell’Europa unita raccogliamo i frutti peggiori ora che a decidere sono i mercati, mentre la Politica è morta e sepolta. I banchieri centrali (si veda la lettera Draghi-Trichet al nostro governo) dettano ormai le politiche economiche senza averne la legittimazione. E così è arriva in Italia il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio: decisione che, al di là del merito, ben raffigura la Politica che si piega al Mercato: «stiamo facendo ciò che ci chiedete, perdonate la nostra ubris». In fin dei conti, una sottomissione meritata. Ma facciamo qualche passo indietro: default italiano, un’ipotesi plausibile? Di cosa ha bisogno l’Italia? 353 miliardi di euro, a tanto ammonta il debito greco, nei confronti del quale il Paese, anche in seguito al taglio previsto del 21 per cento, non potrà che essere insolvente. È così che, secondo Vittorio Da Rold, il punto ormai in discussione presso la BCE non sarebbe più se il default ci sarà o meno, ma come far fallire la Grecia in maniera conveniente. L’ipotesi esclusa a priori è quella di un ripudio totale del debito, ciò che impedirebbe l’accesso al credito per alcuni anni così come successe all’Argentina (con un debito pari ad un quinto di quello greco). E che provocherebbe probabilmente default a catena o comunque una grossa crisi dell’economia europea. Scontata sembrerebbe, invece, l’ipotesi default strutturato. Niente favole, dunque: col ripudio non si cancella il debito. Una lezione da tenere a mente. Stefano Levato, private banker di Bologna, d’altronde, evidenzia: l’Islanda non è la Grecia né l’Italia; ha soltanto 300.000 abitanti e, soprattutto, non ha azzerato il suo debito, che è ancora al 90 per cento del PIL, mentre la sua economia è ormai in recessione da tre anni e l’avanzo di bilancio è un ricordo del passato. Argentina e Russia, invece, col default sono andate in rovina e si sono riprese soltanto grazie alla loro disponibilità di materie prime. In effetti, c’è un soltanto motivo per cui l’FMI aiuta ancora la Grecia e lo spiega Martin Feldstein: «ritardare la data del default equivale in pratica a far guadagnare tempo agli istituti finanziari di Francia e Germania per consolidare il loro capitale, ridurre la loro esposizione verso le banche greche e infine vendere i bond greci alla Banca centrale europea». La ragione è presto detta: «Il Fondo europeo di stabilità finanziaria», prosegue Feldstein, «dispone di capitali sufficienti a coprire le necessità finanziarie di Atene, ma non abbastanza per aiutare Roma e Madrid […]. In sostanza, procrastinando per due anni il default di Atene, i politici eu-
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ropei sperano di concedere a Madrid e a Roma il tempo sufficiente a dimostrare di essere finanziariamente vitali». La Grecia fallirà, ma di far fallire Italia e Spagna non se ne parla neanche. Anche se qualcosa di inquietante è nelle sue parole: «Anche se Spagna e Italia sono fondamentalmente sane, forse questi Paesi non avranno due anni di tempo a disposizione per scoprirlo. Ormai il livello dei tassi greci dimostra che i mercati credono che la Grecia stia per fare default da un momento all’altro». Proprio il Mercato, insomma, si opporrà alla salvezza dei due Paesi mediterranei. Contro i suoi stessi interessi. Mentre gli Stati, come il gatto e la volpe, provano a vendere denaro che non hanno al Pinocchio di turno, convincendo in tutti modi i mercati a scommettere su di sé. Per questo il circolo vizioso, con il declassamento dell’Italia, continuerà, soprattutto dopo quello di Standard & Poor’s e di Moody’s. I mercati scapperanno, come stanno già facendo. E chiederanno sempre di più per acquistare i nostri titoli. Il debito aumenterà e l’economia, che cresce a ritmi dello 0,9 per cento, accentuerà il rapporto debito/PIL. Ed in tutto ciò nessuno perseguirà l’unica ricetta necessaria: rifondare lo Stato. Il pareggio di bilancio, come detto, è divenuto principio costituzionale. Le tasse sono state alzate, si è parlato anche di patrimoniale e lo scorso 29 settembre il governo ha incontrato le banche per mostrare «la mercanzia», il patrimonio immobiliare dello Stato con il quale si intende far cassa. Tutte idee che mostrano una Politica china di fronte al Mercato, priva di slanci riformatori e debole nell’esercizio del suo potere decisionale. Misure per il rientro dei capitali dall’estero (ovvero, condono degli evasori) e difficoltà, invece, quando si è trattato di compiere riforme strutturali (basti guardare al taglio delle province, dei parlamentari: cose, tutto sommato, non impossibili): questa è stata la Politica negli ultimi anni. Ci si è indeboliti mettendosi nelle mani del Mercato ed ora nessuno sa come riprendere le redini. Dunque, proviamo a dire le cose obiettivamente. Un default strategico non è impensabile. È necessario, anzi, parlarne dal momento che alcuni vantaggi (esportazioni e debito ridotto) sarebbero indubbi. Il punto è: sarebbero maggiori degli svantaggi? Il crollo della nostra economia indebolirebbe quella europea in un circolo vizioso che ci coinvolgerebbe. In un’economia in decrescita, potremmo finanziarci soltanto con le tasse vista la chiusura del credito estero. Il tutto senza azzerare il nostro debito e dipendendo per il 75 per cento del fabbisogno energetico dagli approvvigionamenti esteri. Abbiamo un settore manifatturiero ancora forte, ma è il terziario - ahinoi! - alla base della nostra economia. Insomma, fare default, con una ricchezza privata che supera di quattro volte il debito e che ne uscirebbe svalutata, è davvero la soluzione ideale? Piuttosto, facciamo ciò che certamente serve sia a noi che al Mercato: ripensiamo il ruolo dello Stato, perché oggi lo spreco è strutturale. Ma ciò deve esser fatto subito, altrimenti si dovrà farlo (male) proprio secondo le regole imposte dai creditori. Il grasso che cola c’è e ciò che serve è soltanto il coraggio di eliminarlo. Non è il vincolo di bilancio o il Mercato in sé il nemico, quanto la sua supremazia sulla Politica. Una rivoluzione dall’alto sospinta da una rivoluzione dal basso: ecco l’opportunità. E, grazie ad una bella dose di coraggio che è sempre alla base della buona politica, ripensare il ruolo dello Stato nell’economia, senza intaccarne i princìpi redistributivi. Ripensare i costi della politica dalle fondamenta, le società partecipate, la sanità, gli sprechi nella spesa degli enti intermedi e, perché no, nei fondi alla cultura e nel welfare. Occorre rifondare lo Stato per ripartire. Le misure tampone lasciano il tempo che trovano. Mentre la Rivoluzione, beh, la Rivoluzione è vitale per la rinascita.
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CON «FORZA GNOCCA»
PIÙ «PIL» per tutti di PIETRO DEL TURA A SILVIO Berlusconi, da qualche tempo, non ne va bene una. L’uomo, come si sa, è un gaffeur conclamato e recidivo. Al suo confronto il Mike Bongiorno del famoso «Ah, signora Longari lei mi è caduta sull’uccello!» fa la figura del dilettante. Tra barzellette da «bar dello sport», corna alla Merkel di fronte al fotografo e la veritiera, ma inopportuna, definizione della medesima come «culona inchiavabile», il Cavalier «Pompetta», come lo chiama Dagospia per via di certe intuibili pratiche idrauliche, è ormai del tutto inemendabile e non scusabile. Anche perché, se perseverare è diabolico, insistere fino alla noia è da coglioni. Detto questo, va tuttavia sottolineato che Berlusconi viene crocifisso dai suoi avversari anche quando è incolpevole o il peccato commesso è decisamente veniale. Il mese scorso, per esempio, come tutti sanno, è divampata una furibonda polemica, tra il ridicolo e il deprimente, sulla battuta, da lui pronunciata alla Camera, discutendo con un gruppetto di amici, sul nome da dare ad un eventuale nuovo partito destinato a sostituire il logoro e sgangherato Pdl. «Mi dicono che il nome che avrebbe maggior successo», avrebbe detto il Cavaliere, «sarebbe Forza Gnocca». Apriti cielo! Subito si è scatenata la bagarre prendendo a pretesto il vetero machismo del premier e la sua nota e irrefrenabile propensione senile per il gentil sesso. Bersani, che non si perde un’occasione per fare un po’ di demagogia a buon mercato, ha stigmatizzato il fatto che la battuta sia stata pronunciata mentre si svolgevano i funerali delle operaie di Barletta morte nel crollo di una palazzina. E Paola Concia, lesbica dichiarata, da parte sua ha lapidariamente sentenziato che il Cavaliere è «un vecchio porco». La risposta alla Concia non si è fatta attendere: E l’ha inviata, a stretto giro di posta, un sarcastico Vittorio Sgarbi. «Tecnicamente», ha detto il critico d’arte, «Berlusconi è un vecchio porco ma non è questo il punto. La signora che ha fatto questa affermazione non ha infierito tanto sul porco ma sull'età. Perché sia chiaro è molto più offensivo sentirsi dare del "vecchio" che del "porco". E poi non capisco perché la Concia si debba scandalizzare. È paradossale, perché Forza Gnocca sarebbe proprio il suo partito ideale. Scusi perché a lei non piace la gnocca?» Alessandra Mussolini è corsa in soccorso di Berlusconi buttandola sullo scherzo. Ad una trasmissione radiofonica ha infatti addirittura cantato l’inno del nuovo partito: «Forza Gnocca, siamo tantissimeee…» E naturalmente su internet è subitaneamente apparso un sito che, imitando quello del Pdl, ha provveduto ad illustrare le virtù del nuovo partito. Ma, una volta tanto, il Cavalier «Pompetta», a nostro avviso, non è affatto da condannare. In fin dei conti cos’ha fatto di male? Ha semplicemente avanzato una proposta che, di questi tempi grami, ha una sua implicita
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validità. Conciati come siamo - ovvero con le pezze al sedere - soltanto la Gnocca (che scriviamo doverosamente con la G maiuscola) ci può salvare. Pensateci: l’euro rischia il tracollo, il dollaro se la passa maluccio e anche l’oro, vecchio e tradizionale bene-rifugio, non gode di buona salute. Ma una buona gnocca, vivaddio, non si svaluta o si deprezza. Per essa - la gnocca intendiamo - è ancora in vigore il vecchio Gold Standard. Chi la presenta all’incasso viene subito pagato pronta cassa. Perché, dunque, invece di dare ai creditori le patacche fasulle dei nostri Bpt non diamo loro le patacche autentiche, ossia le gnocche? Lo spread tra i Bpt e i Bond tedeschi si ribalterebbe immediatamente a nostro favore. Tra una bella «figheira» come il ministro Mara Carfagna e quella «culona inchiavibile» della Merkel, onestamente, non c’è paragone. La bella Mara fa schizzare il alto il Mibtel mentre frau Angela, onestamente, soltanto a guardarla fa calare il Dax 30 di venti punti. Alcuni riterranno sicuramente inappropriata e fuor di luogo questa inclusione della Gnocca tra i prodotti finanziari. Ma sbagliano di grosso. L’intima relazione tra la Gnocca e il denaro risale infatti agli albori della storia umana. Insomma, è l’aratro che traccia il solco, ma è la Gnocca che lo difende! Del resto non sostengono le puttane toscane, in maniera cruda, ma efficacissima, che «senza lilleri non si lallera»? Concetto, questo, ribadito anche da Giuseppe Gioachino Belli in questo sonetto del 1832 intitolato L’indovinarello. Per una maggiore comprensione occorre specificare che priffe, in romanesco antico significa denaro. Sori dottori, chi ssa ddimme prima come se chiama chi ggoverna er monno? Cuello che mmanna tanta ggente in cima cuello che mmanna tanta ggente in fonno? Er Papa? er Re? - De cazzi, io ve risponno: sete cojjoni, e vve lo dico in rima. Er pelo e er priffe è cquer che ppiú se stima pe cquanto è llargo e llongo er mappamonno Er priffe e ’r pelo sò ddu’ cose uguale, der pelo e ’r priffe sò ttutti l’inchini, p’er priffe e ’r pelo se fa er bene e ’r male E una cosa dell’antra è tanta amica cuanto la fica tira li cudrini, e li cudrini tireno la fica. Stabilito dunque che il priffe e il pelo sono due cose uguali perché non mettere a frutto questa innegabile equivalenza? Senza saperlo il Cetto Laqualunque che proclamava «Cchiu pilu pe’ tutti», ribadendo la stretta connessione tra pilu, politica e finanza, aveva già intuito quale avrebbe potuto essere la soluzione ai problemi economici del Paese. Naturalmente, per salvare l’Italia dal default, occorre un po’ di sano patriottismo. Se le donne italiane, nel lontano 1936, offrirono le loro fedi alla Patria è ora giunto il momento che, almeno le più carine, offrano, nel superiore interesse della Nazione, le loro gnocche. Anche Berlusconi, ovviamente, dovrebbe fare la sua parte. Lui, infatti, notoriamente, ha non soltanto molto priffe - per dirla con il Belli – ma anche molto pelo. Sarebbe molto patriottico, da parte sua, se rinunciasse ai suoi Bunga Bunga e, come dire?, immettesse le «olgettine» sul mercato. Del resto, non è forse con l’aumento del Pil (pe’ tutti) che si salva il Paese?
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IL BORGHESE
SE CROLLA BERLUSCONI
TUTTI a casa di ADALBERTO BALDONI È MAI possibile che un uomo navigato come Berlusconi non si accorga che parte dei deputati e dei senatori del PDL ormai lo considera politicamente un morto che cammina? Non ha ancora compreso che questi cani sciolti si augurano che, sotto l’offensiva incalzante delle Procure e per la netta presa di distanza della Curia (soltanto Giuliano Ferrara non la pensa così), il Cavaliere faccia un passo indietro e rassegni le dimissioni? Magistrati e Vaticano, non c’è dubbio, sono al momento da considerarsi i più temibili avversari di Berlusconi. Perché l’opposizione, frastagliata e caotica, senza programma, priva di un autentico leader, non riesce ad assestare la spallata al presidente del consiglio. Parliamoci chiaro: l’opposizione non è capace di rappresentare una valida alternativa politica, sociale ed etica all’attuale maggioranza; un’alternativa, inoltre, che possa fornire sufficienti garanzie per uscire dalla crisi economica in cui versa l’Italia. Il Cavaliere, dopo il tracollo alle amministrative e la sconfitta ai referendum, è corso ai ripari nominando Angelino Alfano segretario del PDL. Ha preso atto che i tre coordinatori, Bondi, La Russa, Verdini, non avevano impresso slancio al nuovo soggetto politico nato nel marzo 2009 con la fusione AN-Forza Italia. Per fare presa sulla pubblica opinione, alquanto scossa non soltanto dalla crisi ma dagli scandali che investono la Casta, a qualsiasi livello, Alfano ripete quotidianamente che il PDL vuole capovolgere l’attuale sistema elettorale. Ma le sue affermazioni sono uscite lo stesso giorno in cui si è appreso che il referendum elettorale sostenuto da un largo fronte dell’opposizione (PD, IDV, Sinistra e libertà), era pervenuto al numero di firme necessario. Anzi. Come è accaduto in precedenza, i referendari avevano trionfato con un milione e duecentomila firme (ne bastavano 500 mila). Le difficoltà di Alfano per costruire un vero partito Mentre le varie correnti, ex AN ed ex Forza Italia, continuano a riunirsi per mostrare i muscoli, il neo segretario tenta di dare forma e sostanza al partito. Fondazioni e Associazioni si aggiungono alle altre già esistenti perché i rispettivi presidenti vogliono dimostrare la loro forza aggregativa. Le ultime arrivate sono la Fondazione «Rivolta ideale» presieduta da Domenico Gramazio che ha riunito una vasta area di ex dirigenti del Raggruppamento giovanile del MSI, della Giovane Italia, del FUAN, del Fronte della Gioventù, dei Volontari nazionali e l’Associazione «Fareitalia» guidata da Adolfo Urso e da Andrea Ronchi che, avvicinandosi al PDL, avrebbero abbandonato (il condizionale è d’obbligo) «Futuro e libertà», per aderire ad «una costituente popolare per realizzare in Italia un soggetto politico che si ispiri ai valori e ai programmi del PPE». Ma Urso è anche presidente di «Farefuturo», creatura di Gianfranco Fini (presidente onorario della stessa). Il che autorizza a nutrire qualche sospetto sulle reali intenzioni dei due soggetti. Chi li conosce bene, sa perfettamente che Urso e Ronchi sono
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«generali» senza truppe al seguito e contano politicamente come il due di coppe. Ma, in questa fase, contribuiscono con i loro due voti a tenere in piedi alla Camera la traballante maggioranza, spesso in difficoltà per le assenze dei deputati. Alfano vuole effettuare una svolta, costruendo un movimento moderno e radicato sul territorio, deve seppellire definitivamente il partito-azienda creato da Berlusconi, come pure non cadere negli stessi errori di Fini che, con la complicità dei suoi più stretti collaboratori, aveva governato il partito calpestando ogni regola democratica. È sufficiente considerare un dato di fatto. Dal 1995 (quando sciolse il MSI e diede vita ad AN) al 2008, Fini aveva indetto un solo congresso nazionale, quello del 2002 a Bologna. In tredici anni, un solo congresso! La tirannide finiana ha impedito la crescita e la valorizzazione di una nuova classe dirigente, sia al centro che nella periferia, provocando, come abbiamo documentato nelle nostre precedenti disamine sulla destra, l’attuale inadeguatezza della classe dirigente che occupa posti di responsabilità e di governo. Fini, inoltre, nella forsennata corsa alla poltrona occupata da Berlusconi, ha rinnegato e disconosciuto il patrimonio della propria memoria storica che aveva permesso ad una comunità di sconfitti di uscire dal ghetto politico in cui le forze della partitocrazia l’avevano relegata, non soltanto raggiungendo clamorose affermazioni elettorali (anche nelle politiche del 2006 - anno in cui Prodi aveva battuto Berlusconi - AN si era confermata il terzo partito con oltre 4 milioni e mezzo di voti, 71 deputati e 41 senatori). Litigiosa e mediocre la classe dirigente del «PDL» - Ed è la carenza di una valida classe dirigente che rende problematica la successione ad un uomo carismatico come Berlusconi. È una classe dirigente che non riesce ad individuare un nuovo leader, a proporre idee originali, a prendere decisioni, ad operare delle scelte, a riformare un polo politico-elettorale di destra di cui il Paese ha bisogno se si vuole mantenere in vita l’alternanza e non tornare indietro di decenni. Chi, tra gli esponenti del PDL, è convinto che Berlusconi abbia fatto il suo tempo e si affanna a cercare soluzioni ibride, scavalcando il nuovo segretario Alfano, non si rende conto che così facendo accelera il crollo politico ed elettorale del PDL. Da mesi l’ex ministro dell’Interno, Beppe Pisanu, cattolico di provata fede, molto sensibile ai richiami d’Oltretevere, tesse la tela di un ipotetico raggruppamento dove convogliare le diverse anime provenienti dalla Democrazia cristiana e soprattutto dall’associazionismo e dal volontariato del mondo cattolico. Da parte sua, un sempre più irrequieto Claudio Scajola, con la sua pattuglia di fedelissimi parlamentari, pretende più spazio all’interno del centrodestra. Poi ci sono Roberto Formigoni, Marcello Pera (chi si risente!), Lamberto Dini che ogni giorno discettano e propongono personali soluzioni per fare uscire il PDL dalla crisi. La verità? Questi presunti leader hanno timore - in caso di elezioni anticipate (a cui, ma a chiacchiere, sarebbe favorevole Bossi) - di essere spazzati via dalla sinistra e di non contare più nulla. Evidentemente la loro fiducia in Alfano è alquanto scarsa. Anche gli ex AN (compresi i finiani) sgomitano pur di rimaner a galla. C’è chi condivide la nascita di un nuovo soggetto politico sulla base del Partito popolare europeo, chi consiglia di allearsi con l’UDC, chi vagheggia un fronte cattolico benedetto dal presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco, chi scende in piazza e sfida la rabbia dei disoccupati e dei cassintegrati, pur di rimediare qualche ceffone e finire sui giornali. Cosa si fa, pur di rimanere incollati alla poltrona…
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ATTIVISMO FUORVIANTE
ALEMANNO e le «lucciole» NEI mesi che hanno fatto seguito alla nomina di Angelino Alfano a segretario del PDL, per il suo attivismo politico e non, si è distinto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, presidente della Fondazione «Nuova Italia» e capo di una corrente di ex AN. Per niente preoccupato della situazione di emergenza per l’immondizia che potrebbe investire la capitale come a Napoli, se non si riesce a chiudere la discarica di Malagrotta e a reperire nuovi siti; per nulla impensierito per gli scandali che hanno colpito l’amministrazione capitolina (non ultimo le chiamate dirette all’EUR Spa, di cui è amministratore delegato il suo amico Riccardo Mancini), Alemanno si è gettato a capofitto nelle polemiche interne al PDL e alla maggioranza, criticando (giustamente) la Lega, il suo vecchio alleato Tremonti e persino il premier. Sembrava aver fatto suo il necrologio di Berlusconi firmato da Piero Ostellino sul Corriere («Per Berlusconi il tempo è scaduto, visto che non è stato la soluzione dei problemi del Paese ed è diventato lui stesso il problema»). Alemanno ha indicato la strada da percorrere senza indugi: congressi, primarie «ad ogni livello per la scelta dei candidati, dai sindaci a premier» e riforma elettorale che «preveda le preferenze per uscire dalla logica del Parlamento dei nominati e delle Minetti». Altrimenti - ha minacciato è preferibile tornare alle urne. Anche in questo caso ha parlato come fosse segretario del partito. Alemanno finge di dimenticarsi che anche lui faceva parte del ristretto numero di persone che - assieme a Fini - decideva chi dovesse entrare in lista. Ha sempre agito tenendo conto dei meriti, della qualità e della preparazione politica dei soggetti da inserire nelle liste elettorali? Oppure - come ci risulta - ha favorito suoi amici e sue amiche, anche di basso profilo, pretendendo fossero messi in lista nei primi posti,
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anche nelle circoscrizioni dove non avevano mai messo piede, nemmeno durante le vacanze? Nel caso si andasse a votare, magari a primavera del prossimo anno per un cedimento del governo o della maggioranza, oppure per un passo indietro di Berlusconi (improbabile), cosa farebbe Alemanno? Lascerebbe il Campidoglio, come fece Walter Veltroni, e concorrerebbe alle politiche, dato che fino a questo momento alcuni suoi seguaci lo hanno indicato - dopo il suicidio politico di Fini - come il naturale successore di Berlusconi a Palazzo Chigi? Alemanno: «Non penso a Palazzo Chigi ma a difendere Roma» - Alemanno, dopo avere appreso con soddisfazione i risultati del sondaggio ISPO di Renato Mannheimer (eseguito tra il 26 e il 27 settembre su un campione di 801 unità) che gli accredita il 57 per cento di giudizi positivi, ha smentito qualsiasi dubbio sulla sua permanenza in Campidoglio: «Non penso a Palazzo Chigi ma a difendere Roma. La mia volontà è di ricandidarmi alla guida della capitale: lo dico da mesi». Al tempo stesso ha contestato i risultati di un altro sondaggio, quello dell’IPSOS, circa le intenzioni di voto dei cittadini tra due anni. L’attuale presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, sarebbe favorito con il 55,8 per cento contro il 44,2 di Alemanno. Al di là dei sondaggi, buoni per gli addetti ai lavori, permangono i problemi correnti che affliggono la capitale e che, purtroppo, Alemanno non ha risolto che in minima parte, teso com’è ad inseguire progetti che, alla prova dei fatti, risultano irrealizzabili oppure avveniristici. Ultimo in ordine del tempo, la costruzione di uno stadio per la società di calcio della Roma. Alla gente comune interessa che le strade, le piazze, i parchi, i giardini siano puliti, che i cestini dell’AMA siano collocati in modo razionale nel centro storico (e, una volta sistemati, svuotati…), che i mezzi pubblici siano puntuali e i loro autisti educati con gli utenti e non impegnati a conversare con il cellulare, che la Metro non si sfasci ogni mese, che il traffico sia più scorrevole specie nelle ore di punta (spesso per andare e tornare dal lavoro si impiegano anche due ore e mezza), che sia tutelato il patrimonio artistico e museale sia al centro che in periferia, che i tassisti la smettano di tartassare i clienti, specialmente i turisti, ritenendosi una casta intoccabile perché protetta del sindaco (un’indagine realizzata dagli Automobil club europei e basata sull’ispezione dei servizi taxi di 22 grandi città europee ha sostenuto che «i tassisti romani sono tra i peggiori d’Europa perché costosi, scorretti, aggressivi e poco rispettosi del codice della strada», che i cimiteri non siano terra di nessuno (spesso privi di acqua e sporchi), che siano di nuovo installati i servizi igienici almeno nelle zone strategiche dove è sempre forte la presenza dei visitatori. Cito a questo proposito due emblematici interventi dei due più diffusi quotidiani della capitale. Degrado inqualificabile - Per richiamare l’attenzione delle autorità capitoline sulla mancanza dei servizi igienici e per stigmatizzare l’atteggiamento di alcuni esercenti che si rifiutano di fare usare le toilette dell’esercizio pubblico, Il Messaggero ha sostenuto (20 settembre scorso) la «Giornata del pappagallo», provocatoria iniziativa dell’ «Associazione consumatore consapevole», per «suggerire ai cittadini di munirsi del famigerato strumento per prevenire impreviste esigenze fisiche». Il Corriere della Sera, invece, ha dato risalto alla denuncia di una lettrice che ha raccontato di essersi recata, assieme ad alcuni amici americani ed italiani, al Colosseo, definito «un suk con gente che cerca di venderti tutto,
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in modo insistente e fastidioso, senza alcun controllo». Il passaggio più interessante della lettera: «Due delle nostre accompagnatrici hanno necessitato dei bagni. La sola espressione usata all’uscita è stata disgusting e, ovviamente, non necessita di traduzione. Ma allora, perché, mi chiedo, un monumento come il Colosseo, visitato da milioni di persone, non è organizzato come un Paese civile dovrebbe essere?» La risposta del Corriere (8 ottobre scorso): «Perché in altri Paesi è possibile mantenere puliti, quindi non disgusting, i servizi igienici nei musei e nelle aree archeologiche nonostante la presenza di grandi numeri di visitatori? Semplice: perché rispettano i loro tesori e onorano il loro lavoro. Ma qui siamo in Italia e siamo a Roma». E i vigili (sono 6.600)? Dovrebbero adempiere i loro compiti istituzionali. Meno vigili negli uffici, più agenti nelle strade, anche nella sterminata e abbandonata periferia. Le strade della capitale, dove è indispensabile la presenza dei vigili, sono tra le più pericolose d’Italia. Ogni giorno ci sono incidenti mortali e con feriti. Assistiamo, invece, al largo impiego dei vigili urbani nelle retate, quasi sempre di notte fino alle prime luci dell’alba, delle lucciole, a cui ha spesso partecipato in moto anche il sindaco Alemanno, seguito e immortalato in questa sua discutibile e singolare performance. A mio parere, ripeto a mio parere, questo compito dovrebbe essere assolto dalle Forze dell’Ordine, su precisa disposizione del questore. Sono le lucciole (quelle che battono il marciapiede non quelle, più fortunate e protette, che hanno trovato una sistemazione nelle stanze dorate del Potere) il vero problema della criminalità nella capitale? Sono le giovani disperate che vendono il proprio corpo pur di guadagnarsi da vivere che deturpano il decoro della città? Nel dossier sulla criminalità preparato da Rosario Vitarelli (presidente dell’Osservatorio regionale per la sicurezza e la
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legalità) con la sua équipe, presentato dalla Regione Lazio ed illustrato tra gli altri dalla presidente Renata Polverini ai primi di ottobre, emerge che Roma è una città «con un alto tasso criminale». Ma tra i reati segnalati, quello dello sfruttamento della prostituzione, occupa uno degli ultimi posti. Più preoccupanti, sono altri delitti: le violenze sessuali, le rapine, il traffico degli stupefacenti (desta allarme la diffusione delle droghe da parte dei giovani anche nelle scuole e nei luoghi di divertimento), i furti, le lesioni colpose le estorsioni… Dati che si riferiscono allo scorso anno mentre una recente inchiesta del Corriere della Sera, apparsa sul settimanale Sette («Malaroma. Crimini e misfatti nella capitale», settembre 2011), firmata da Goffredo Buccini, Giovanni Bianconi e Maria Egizia Fiaschetti, ha ripercorso i mesi del corrente anno, contraddistinto da regolamenti di conti, agguati, pestaggi, omicidi, oltre 30 quanti in tutto il 2010: «Ormai si spara per un nonnulla e nuove bande si scontrano per il controllo del territorio. È in corso una guerra dentro la malavita». La recrudescenza dei crimini, ha spiegato saggiamente Rosario Vitarelli, «è colpa della crisi economica che alimenta tensioni che sfociano in gravi episodi di violenza, nonché della degenerazione sociale alla quale stiamo assistendo. Ma la crisi favorisce anche le infiltrazioni sul territorio della malavita organizzata». A proposito di prostituzione. Perché il sindaco Alemanno non propone ai suoi amici che siedono in Parlamento di rilanciare la proposta di modifica della Legge Merlin, che 50 anni fa mise fuorilegge i bordelli? Potrebbe aprirsi un salutare dibattito. Ma senza ipocrisia. Sono in tanti, anche nella maggioranza, ad essere favorevoli alla riapertura delle case chiuse. (a.b.)
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LEGA NOSTRA
IL POTERE è donna di GIGI MONCALVO QUEL giorno del marzo 2004 quando andai all’ospedale di Varese a vedere Umberto Bossi, colpito quarantottore prima dall’ictus, rimasi colpito da alcune cose. Il numero di coloro che erano lì sinceramente commossi e addolorati per quella imprevedibile disgrazia, era molto basso e riguardava persone umili, militanti dalle mani callose, gente senza poltrone pronta a dare la vita per il proprio leader. Al contrario, molto elevato e ricco di nomi autorevoli, era il numero di coloro che dava Bossi per spacciato e stava già preparando giochi e strategie per colmare il vuoto, anzi la voragine, di potere che si stava aprendo. Terzo: fin dalle prime ore un ri-aspirante senatore, che voleva tornare a Palazzo Madama, fu il più lesto di tutti e organizzò una messa di preghiera a Pontida, per la domenica successiva. Stranamente voleva tenere tutto sotto traccia evidentemente scettico sulla regola secondo cui tante preghiere sono probabilmente più efficaci che poche. Gli mandai all’aria i piani pubblicando la notizia sulla Padania. Soltanto alla fine della cerimonia scoprii che quel tale era così convinto della dipartita del «Capo» che si era portato avanti (un po’ troppo prematuramente) col lavoro preparatorio, e prevedendo chi sarebbe diventato il «nuovo padrone» (anzi, forse, ai sensi di un contratto lo era già da quattro anni…) aveva invitato a quella Messa soltanto … Silvio Berlusconi. Aveva volutamente «dimenticato» i colonnelli. Pensavo che essi sarebbero comunque andati a pregare per chi li aveva «miracolati» dopo averli trovati ai bordi di una strada con le pezze al culo. Ma non si presentò nessuno. E quando seppero che soltanto il Cavaliere era andato a pregare restando defilato in fondo alla chiesa in modo che lo vedessero bene tutti i fedeli che uscivano, si creò un certo trambusto. Un’altra cosa che mi colpì, e francamente mi fece un po’ sorridere nonostante la tragicità della situazione, era che davanti all’ospedale veniva fatta circolare una voce: «Là dentro i primari sono tutti massoni. C’è il rischio che facciano fuori Bossi». I medici di quella struttura sanitaria erano di prim’ordine e ovviamente hanno sempre cercato di salvare e non di uccidere i pazienti. Ma quella voce senza fondamento serviva - come in molte altre vicende della Lega - ad ammantare di mistero la situazione, tentare di addossare la colpa a qualcuno prima che qualcosa accadesse davvero, e infine «coprire» la verità. E cioè che c’era davvero chi voleva «uccidere» Bossi, ma non certo i medici, approfittando di quel grave problema di salute. Ma uccidere soltanto, per fortuna, in senso politico. La conferma arrivò dal fatto che, simultaneamente, alcuni fedelissimi di un famoso «colonnello» stavano già facendo circolare un’altra falsa notizia: «Nella borsa del Capo c’era il suo testamento politico e l’indicazione del successore: quella borsa è in mani sicure». Soltanto che non esisteva né un testamento e nemmeno una borsa, dato che Bossi non ha mai portato una con sé, e nemmeno ne teneva in ufficio.
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Fu in quella fase caotica e preoccupante non soltanto per la Lega ma anche per il Paese - Bossi era ministro delle riforme e la Lega dal 2001 teneva in piedi il governo -, che emerse in modo determinante una figura già dotata di un notevole potere, ma che nella circostanza dovette uscire allo scoperto e mettere in riga quei due o tre che si erano già posata in testa la corona e si stavano guardando compiaciuti davanti allo specchio. Quella figura era la moglie di Bossi, Manuela Marrone. Una signora che, paradossalmente, secondo i canoni etnici recentemente messi in campo per il successore di Mario Draghi alla Banca d’Italia, così come Saccomanni non avrebbe potuto competere - in quanto non milanese, anzi «terrona», siciliana per l’esattezza - al soglio supremo di Palazzo Koch. La signora Bossi per fortuna prese in pugno la situazione, dettò le istruzioni del caso e insinuò nelle menti dei pretendenti al trono due concetti assai importanti: «Mio marito ha la pelle dura e non è morto. Attenti che quando guarisce e ritorna, vi sistema per bene…». La signora fu convincente poiché il terrore cominciò a serpeggiare tra i baldanzosi colonnelli che abbassarono la testa di fronte a quel «pericolo», dato che alcuni consideravano «pericolosa» la guarigione di Bossi e si auguravano perfino la sua morte. La signora, tuttavia, non riuscì a cancellare dalle menti e dai propositi di tutti costoro le ambizioni accese dalla «fermata ai box» del Capo supremo, e i relativi sogni di poltrone, consulenti, corti dei miracoli, passaggi televisivi, privilegi di Stato, scorte, auto blu, portavoci (meglio se belle, anzi isa-belle, giovani e del Sud…). Il momento-chiave che riesce a spiegare - meglio di qualunque altro ragionamento - quel che accade oggi nella Lega, va fatto risalire a quel periodo. Come avvenne nell’immediato dopoguerra quando bastò far penzolare il cadavere di Mussolini mentre la classe dirigente collusa con il fascismo e poi doppiogiochista riuscì a farla franca e soltanto pochi furono davvero epurati e messi al bando, allo stesso modo nella Lega, dopo l’11 marzo 2004, non c’è stata l’epurazione necessaria e la dura selezione che sarebbe stata opportuna. Se la morte di Bossi avrebbe certo facilitato il compito di quegli avvoltoi che ronzavano intorno all’ospedale di Varese, la sua guarigione miracolosa non ha sopito, anzi ha scatenato, ancora di più gli appetiti che sono cominciati proprio in quel momento. Da questo punto di vista l’unico rilievo che oggi si può muovere alla signora Bossi non è quello di comandare e di stare, logicamente ed encomiabilmente, vicina a suo marito, ma di non aver usato il pugno di ferro in quel periodo facendo fuori politicamente coloro che si comportavano da avvoltoi. In questo modo avrebbe depurato la Lega dai virus che oggi emergono clamorosamente e che da anni la stanno dilaniando. Certamente la signora aveva altro a cui pensare, le sofferenze del marito e l’incertezza sulla sua sorte, sono state anche le sue e dei suoi tre figlioli: ma su questo giocarono coloro che pretendevano di salire al trono. La fecero franca, ne combinarono di tutti i colori, bussarono più volte alla villa di Arcore, prepararono piani e progetti insieme a quello che consideravano il nuovo «padrone», finirono per far diventare la Lega una vera e propria «sottomarca» di Forza Italia, il Cavaliere aveva già scelto il successore di Bossi. La conferma viene da alcuni episodi. Ad esempio, quando Bossi uscì dal coma ed ebbe un filo di voce, come primo atto diffuse un appello via radio ai leghisti annullando, pochissimi giorni prima, l’annuale raduno di Pontida. Aveva capito che colui che sarebbe salito su quel palco al posto suo, pur avendo formali parole di augurio per lui per strappare applausi dalla folla, sarebbe automaticamente diventato nell’immaginario leghista il suo «successore». E infatti due dei colonnelli si
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erano già spartiti i compiti, e uno di loro - l’altro era destinato a «brigare» con Berlusconi - avrebbe chiuso il comizio e sarebbe stato virtualmente, e non soltanto, acclamato nuovo leader. Fu la moglie a indurre Bossi a quell’intervento viaradio e a far fermare tutto. Ma quelli che avevano fatto il «patto dell’ictus» da allora non hanno riposto nel cassetto le loro aspirazioni e i loro sogni di gloria. Anzi, li hanno rafforzati. E dopo sette anni sentono vicino il traguardo. Oggi sono più forti di allora, mentre Bossi non è più lo stesso. Berlusconi li tiene in scacco in virtù dell’accordo del 2000. La Lega non sembra la «sottomarca» di Forza Italia, semmai talvolta il contrario, ma alla fine quello che conta è l’appoggio al Cavaliere e la tenuta del governo Scilipoti, e quindi sottomarca la Lega di fatto lo è. Della base «chissenefrega». La moglie di Bossi aveva visto giusto, aveva fatto bene a uscire allo scoperto, ma non aveva voluto affondare il coltello fino in fondo. Le preoccupazioni per la salute del marito, giustamente, avevano il sopravvento e assorbivano ogni sua energia. Non fu possibile nemmeno una simbolica «piazza Loreto», come invece sarebbe stato necessario: i nuovi padroni della Lega l’hanno sfangata, a poco a poco si sono impadroniti di tutto, «usano» Bossi come icona da mandare in giro per comizi e feste padane, espellono ed epurano - proprio loro che avrebbero dovuto essere i primi epurati - tutti quelli che esprimono dissenso, a cominciare da gente come Giancarlo Gentilini a Treviso o Flavio Tosi a Verona. Il problema, dunque, non è se la signora Bossi sia oggi l’imperatrice della Lega, ma il fatto che non abbia usato il machete quando era il momento. E ora si trovi ad avere ragione su cose, uomini, e avvoltoi che conosceva già bene e che ha visto all’opera fin dal momento in cui suo marito era in fin di vita.
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I PROFESSIONISTI DELL’ANTIMAFIA
TRIBUNALI speciali di RUGGIERO CAPONE
C’È UNA sinistra (politica e giornalistica) che quotidianamente inventa storie di mafia e malaffare su imprenditori invisi a CGIL, IDV e SEL. Nell’ottobre 2011 a Termini Imerese il segretario FIOM Landini, incurante dei problemi quotidiani degli operai FIAT, ha tentato, in un comizio, d'istillare nelle maestranze dubbi circa la provenienza delle risorse finanziarie del gruppo Di Risio (che sta rilevando gli stabilimenti FIAT nel Mezzogiorno). Stessa cosai benpensanti della sinistra pugliese allarmati circa gli investimenti russi a Bari e provincia: «Chi ci garantisce che gli investimenti non provengano da fonti mafiose?», urlano i benpensanti, «qui necessita un certificato antimafia europeo, onde evitare che dietro gli investimenti esteri possano annidarsi capitali di provenienza mafiosa». Belle parole, ma non basterebbero a sfamare gli operai del Sud che non immaginano che questi predicatori (Landini, Bersani e compagni) hanno comunque lo stipendio assicurato. Un turbinio di bugie, che tende sempre e comunque a delegittimare ogni operazione economica che si compia durante il governo del Cavaliere. Ma le Pagina 1 bugie hanno le gambe corte. Soprattutto rivelano l'inattendibilità dell'opposizione. Necessiterebbe, infatti, che Berlusconi organizzi una cortina sanitaria europea, che salvaguardi l'Italia dalla forza distrutOgni lunedì, dal 3 ottobre tiva di PD, IDV, SEL e CGIL-FIOM. È notizia ormai vecchia (sempre d’ottobre 2011) che PD e IDV (aiutati dai professionisti dell'antimafia) starebbero accreditandosi presso il Parlamento di Strasburgo come unici titolati a dare patenti Ore 21-22 d'antimafiosità a politici e imprenditori: unici perché cultori della materia, che avrebbero affinato con approfonditi studi Seguici con mafiologici in Italia, Paese culla del pericolo mafioso. A dare manforte a PD ed IDV c'è Martin Schulz, politico tedesco (presidente del gruppo parlamentare Alleanza Progressista dei Socialisti e Dee mocratici presso il Parlamento europeo), noto per aver rivolto accuse pesantissime (e immotivate) contro Berlusconi. Si tratta dello stesso Schulz usato da Di Pietro per mettere fuori legge a livello europeo sia la Lega Nord che Forza Italia, basandosi su fasulle accuse di contiguità neofascista. È difficile difendersi dalle bugie, da prove inventate di sana pianta. Delle due l'una: o questi calunniatori agiscono su mandato dei poteri forti Puoi telefonare e fare le domande internazionali (gli stessi che finanziano le agli ospiti presenti agenzie di rating) o - ed è peggio - lo fanno soltanto per motivare la propria
Canale 897 di SKY
PUBBLICITÀ I N D I R E T TA !
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esistenza politica. Secondo il Cavaliere, se l'Italia non avesse avuto chi rema contro e chi inventa bugie e ombre, sarebbe già uscita dalla crisi. Le inutili commissioni - «Basta con le commissioni parlamentari d’inchiesta, che le verità le appuri la magistratura», con questi toni dopo decenni i familiari delle vittime di terrorismo e mafia hanno chiesto di non sprecare più soldi in commissioni. «Di Commissioni ne abbiamo avute abbastanza, e siamo contrari a qualsiasi altra nuova iniziativa parlamentare di questo tipo: è ora di finirla con la ricerca a tutti i costi di verità condivise, di fatto impossibili, visto anche il clima politico attuale», sono le parole di Paolo Bolognesi (uomo di sinistra) presidente della «Unione familiari vittime per stragi» (che raggruppa le associazioni delle stragi di Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Treno Italicus, stazione di Bologna del 2 agosto 1980, Rapido 904 e Firenze via dei Georgofili). Paolo Bolognesi è noto per aver appoggiato ieri Prodi e oggi Bersani. Ma non ha mai avuto torto sul dato delle commissioni d’inchiesta, che sempre hanno spiccato per l’uso spregiudicato di consulenze ed incarichi di vario genere ad esterni, e senza mai giungere ad un percorso di soluzione del problema. Figuriamoci se possano promettere d’eliminare il fenomeno… Sul versante dell’antimafia c’è da sempre il problema opposto alle stragi. Nasceva zoppo l’iter per l’approvazione della legge istitutiva della commissione bicamerale Antimafia, che rischiava d’entrare in contrasto con la Costituzione (di cui violerebbe l’articolo 82). Infatti l’antimafia nasceva per perpetrare provvedimenti limitativi della libertà costituzionalmente garantite, pretendendo di poter adottare restrizioni ed accompagnamenti coatti. Da non dimenticare che, durante l’ultimo governo Prodi, si pretendeva che il Parlamento ratificasse una sorta di status di «componente della commissione d’inchiesta antimafia». Di fatto la sinistra di governo stava scivolando sul terreno a lei più congeniale, quello di cui ha abusato per decenni, cioè l’uso strumentale delle commissioni speciali d’inchiesta. «La polemica innescata sulla utilità delle commissioni speciali d’inchiesta dimostra che quando la sinistra è al governo svela il suo vero volto», mi disse Enzo Fragalà (ucciso a Palermo due anni fa, e per più legislature deputato di AN nonché membro delle commissioni stragi, giustizia e Mitrokhin), «cioè un misto di malafede e doppiezza politica. Quando la sinistra è all’opposizione la commissione antimafia, la stragi e tutte le altre commissioni parlamentari d’inchiesta vengono richieste a gran voce, e per essere usate come strumento di propaganda politica, come arma impropria contro gli avversari. Invece quando la sinistra è al governo, le commissioni d’inchiesta diventano inutili, anzi scomode. È tutto nell’ottica consueta alla sinistra, che da sempre fa in modo che non venga disturbato il proprio manovratore. Ma quando sono all’opposizione fanno i processi e s’ergono a professionisti dell’antimafia.» Dal brigantaggio alla mafia - Il binomio mafia-politica viene partorito dal PCI a fine anni ’40. La sinistra post-bellica (legata a Mosca) non aveva digerito le elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947, che capovolgeva la situazione della Costituente. Se prima aveva vinto la DC, poi il Blocco del popolo (socialisti, comunisti e indipendenti) vinceva con il 29,13 per cento dei voti. Il primo maggio del 1947 gli uomini di Salvatore Giuliano sparavano sui contadini riuniti a Portella della Ginestra (12 morti e più di 30 feriti), la cosa veniva subito strumentalizzata. Sulle prime vennero arrestati i presunti
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capimafia, come Giuseppe Troia, Salvatore Romano, Elia Marino e Pietro Gricoli: accusati dal PCI d’essere legati ad un gruppo politico conservatore e terriero. Ma il 22 giugno la versione ufficiale dei fatti cambiava: venne accusato il bandito Salvatore Giuliano, considerato unico responsabile (gli altri vennero tutti rilasciati). Negli anni ’50 gli episodi «mafiosi» venivano quotidianamente sottolineati sulle testate di sinistra forzando i toni. Così la commissione Antimafia veniva istituita cent’anni dopo la nascita di quella sul brigantaggio (obsoleto far rivivere) e dopo la strage di Ciaculli (1963). La prima antimafia presentò la relazione dopo ben nove anni, nel 1972. Così CGIL e PCI sfornarono una lunga sfilza di giovani esperti e professionisti dell’antimafia. Vi fu anche la relazione di minoranza a firma La Torre. Nel 1982, con la legge antimafia, venne istituita una Commissione di vigilanza, che poi diventò una Commissione d’inchiesta rinnovabile a ogni legislatura. La vulgata raccontata dal PCI suonava così: «La mafia è un legame tra politica non di sinistra, criminalità organizzata e ricca imprenditoria meridionale». È un po’ una rivisitazione di ciò che, nei primi anni del regno sabaudo, sostenevano i rappresentanti al Parlamento di Torino: «i baroni nel Sud coprono con la massima omertà i briganti». Durante il fascismo, il 30 marzo del 1930, il prefetto Cesare Mori, parlando dell’atavica fame di terra dei contadini siciliani, definiva inconcepibile il fatto «che la proprietà terriera della Sicilia sia accentrata per un terzo della superficie catastale dell’isola nelle mani di ottocento famiglie e che, di queste, meno di duecento ne possiedano un sesto». La sinistra, per oltre 50 anni ha soltanto finto di voler dare la terra ai contadini: di fatto l’ha tolta ai latifondisti ed ai presunti mafiosi per affidarla alle coop rosse e alle comunità di Don Ciotti.
(Gianni Isidori, il Borghese 19 Maggio 1974)
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IL BORGHESE
Briganti: proletari incompresi - Dalle storie delle commissioni, sul brigantaggio prima e sul fenomeno mafioso. ancor oggi, emerge come il pregiudizio abbia frenato il Sud ed arricchito la nuova aristocrazia di sinistra. Nel luglio 1861, il generale sabaudo Enrico Cialdini, già a capo delle forze di repressione, assommava quell’anno, per ordine del Re, la carica civile di luogotenente diventando il responsabile unico delle sorti del Mezzogiorno. I partigiani borbonici operavano non soltanto su monti e nelle campagne, ma persino alle porte di Napoli: 25 lire era la ricompensa per chi catturava un brigante. Ma nessuno osava parlare. I briganti cercarono più volte di uccidere Cialdini. Al punto che per sicurezza il generale dormiva su una fregata alla fonda nel porto di Napoli. Bettino Ricasoli succedeva a Camillo Benso di Cavour e, all’atto d’insediarsi, rendeva noto che «il nostro governo in queste province è debolissimo, non ha altri partigiani sicuri che i battaglioni di cui dispongo». Nell’ottobre 1861, La Marmora succedeva a Cialdini, prendendo la carica di prefetto di Napoli e il comando militare della repressione del brigantaggio. Nell’agosto del 1862 Vittorio Emanuele II decretava lo stato d’assedio: nel Sud l’autorità militare veniva a essere superiore a quella civile. Nel dicembre 1862 nasceva la Commissione Parlamentare d’Inchiesta per studiare il fenomeno del brigantaggio nelle province meridionali e le sue cause politiche e sociali. L’inchiesta, nota come Massari-Castagnola (già più volte proposta dalla sinistra dell’epoca) avrebbe dovuto anche sollevare il velo di silenzio steso dal governo sugli errori e sugli abusi compiuti dall’esercito nell’opera di repressione. Nel maggio 1863 la Commissione d’Inchiesta concludeva i suoi lavori. I risultati, raccolti in una lunga relazione, vennero letti alla Camera in diverse sedute e furono pubblicati in estate sul giornale Il Dovere. La relazione evidenziava soltanto le numerose ragioni economiche e sociali del fenomeno del brigantaggio. Lo storico Denis Mack Smith ha sottolineato gli sprechi dell’anti-brigantaggio, soprattutto che «le vittime furono più numerose di tutti i soldati persi dal regno sabaudo nelle guerre di indipendenza contro l’Austria (che erano poco più di seimila)». Antimafia europea - Se l'antibrigantaggio decimava le genti del Sud, la nuova antimafia (quella dell'UE) promette «nuove norme, misure più impegnative per la confisca dei beni...». L'obiettivo comune di PD, IDV e SEL è «portare la lotta antimafia in Europa». Così a Strasburgo la «Commissione parlamentare per le liberta civili e la giustizia» ha approvato (con 49 sì e due no) la relazione che chiede «l’istituzione di una commissione speciale antimafia all’Europarlamento». Così i certificati antimafia che il ministro Brunetta tenta d'abolire in Italia, per evitare che la crisi porti via anche le ultime imprese aperte, vengono imposti in modo blindato dall'Europa. Paladini dell'antimafia europeo sono Sonia Alfano (europarlamentare IDV), Rosario Crocetta (eurodeputato pd ed ex «sindaco antimafia» del comune siciliano di Gela), l'eurodeputata pd Rita Borsellino, e Don Ciotti dell’associazione «Libera». La polemica è d'obbligo: che significa fregiarsi del titolo di «sindaco antimafia»? E perché tale titolo può essere usato soltanto da un sinistro? Intelligentemente, l’eurodeputato del PDL Salvatore Iacolino s'è astenuto sull’istituzione della commissione parlamentare, ed ha votato contro l’allargamento del reato di associazione mafiosa. Del resto Crocetta sostiene che «le informative antimafia rilasciate dalle prefetture sono state uno strumento efficacissimo per escludere le imprese mafiose dagli appalti». Tanti sono i casi di dubbi di mafia calati su imprese pulite, ma invise a certe conventicole che orbitano tra prefetture, tribunali e politica.
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E L’ITALIA PAGA ...
UN MISTERO chiamato Ustica di MARY PACE DOPO oltre 30 anni i familiari delle vittime della strage di Ustica avranno il risarcimento. Lo ha stabilito il Tribunale di Palermo ritenendo il Ministero dei Trasporti e quello della Difesa responsabili della tragedia, per non aver garantito la sicurezza del volo Itavia. Il risarcimento sarà di circa 100 milioni di euro, ma ciò che successe quella sera resterà per sempre un mistero. Tante le ipotesi, tanti i depistaggi e tanta omertà circonda questa tragedia. Ripercorriamo i fatti accaduti il 27 giugno 1980 all’aereo DC9 della compagnia Itavia volo IH870 con 81 persone a bordo, di cui 13 bambini partito da Bologna e diretto a Palermo. Il comandante del velivolo, Domenico Patti scherza con il secondo pilota, un viaggio semplice tranquillo. Ma alle 20,59 minuti l’aereo scompare dal radar, precipitando nelle acque del Tirreno in prossimità dell’isola di Ustica, a 60 km dalla costa siciliana. Qualcuno, subito, avanzò l’ipotesi della bomba a bordo, ma una volta ripescato il relitto, questa ipotesi cadde, perché il DC9 presentava un foro da missile su un alettone. Ci fu anche chi accusò l’Itavia di un cedimento delle strutture dell’aereo; tali accuse portarono alla chiusura della compagnia. Nella maxi-inchiesta condotta dal giudice Rosario Priore si legge, che l’aereo era stato intercettato da due caccia. Dai tracciati radar delle stazioni che avrebbero seguito il volo e la testimonianza dei militari addetti quella sera a tali stazioni, ci fu reticenza, nessuno seppe dare un’informazione valida per ricostruire l’incidente. All’inizio si diede l’incarico per recuperare i resti dell’aereo ad una compagnia francese, poi tale incarico venne ritirato per timore di inquinamento delle prove, in quanto si riteneva che i caccia potessero essere francesi o americani. Anche la portaerei Saratoga venne coinvolta, ma la NATO smentì categoricamente che la nave fosse in mare, asserendo che la portaerei non lasciò mai il porto di Napoli. Ma si può smentire la NATO? Ancora altre testimonianze vere e false, altri tracciati radar e altre ipotesi. Qualche mese dopo la caduta del DC9, si ebbe notizia di un caccia libico MIG ritrovato nella Sila per un atterraggio di fortuna. Ma in seguito si scoprì che il fatto era avvenuto proprio la sera della tragedia di Ustica. Un contadino della zona che aveva assistito al fatto, venne indotto dai Servizi a cambiare versione indicando una data diversa. Si ipotizzò un combattimento aereo nella zona di Ustica, fra aerei occidentali (Francesi? Oppure americani?) e uno o due MIG libici. Uno degli aerei avrebbe lanciato un missile, ma l’aereo bersaglio si sarebbe posto oltre il DC9, che sarebbe così stato centrato per sbaglio. Oltretutto i missili aria-aria in dotazione ai caccia occidentali sono in genere a guida terminale a raggi infrarossi, cioè il volo del missile è attirato dal calore dei motori dell'aereo bersaglio, ma se in quel momento trova un aereo più vicino, il missile devia su di lui. Insomma, secondo questa tesi, un missile avrebbe colpito il DC9, mentre il
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MIG libico, consumato il carburante nello scontro, non avrebbe potuto raggiungere la Libia e sarebbe finito sulla Sila. Secondo i tracciati radar di Marsala, la sera della tragedia di Ustica, un jet proveniente da Tripoli con destinazione Varsavia, viaggiando in senso inverso al DC9, invase il nostro spazio aereo, ma qualcuno fece cambiare immediatamente rotta all'aereo libico, che virò alla volta di Malta. Chi avvisò tempestivamente il Boeing che poteva verificarsi un attentato? Il codice di volo fornito da Marsala era «codice 56» corrispondente a «personalità a bordo» ma l'Aeronautica dichiara che il «codice 56» non esiste. Chi era a bordo del jet? Gheddafi senza dubbio scortato da uno o due caccia MIG. Oltre alle 81 vittime che erano a bordo del DC9, vi furono altre morti sospette. Il maresciallo Alberto Dettori morì impiccato il 31 marzo 1987 ed era in servizio la sera della strage; nello stesso modo ha trovato la morte il maresciallo Franco Panisi. Sono state imputate 25 persone dell'Aeronautica Militare, ma poi tutte assolte, s'incontrò il muro di gomma, nessuno sapeva niente, ad eccezione del maresciallo Luciano Cerico, anch'egli imputato, il quale ammise che l'Aeronautica aveva seguito sul radar le fasi della strage di Ustica. Oggi il maresciallo Cerico riceve continue minacce. Lo Stato italiano deve risarcire le vittime, ma c'è da chiedersi perché l'Italia? I nostri caccia non erano in volo, né avrebbero lanciato un missile contro il MIG di Gheddafi; il dittatore libico, infatti, è stato protetto sempre dall'Italia, specialmente dal generale Giuseppe Santovito capo del SISMI. Come poteva garantire il Ministero della Difesa o quello dei Trasporti il volo del DC9? Potevano forse prevedere che quella sera sul cielo di Ustica ci sarebbe stato molto traffico? Dovrebbero essere i Francesi o gli Americani a pagare il risarcimento di 100 milioni di euro, ma si sa che in Italia abbiamo un cuore magnanimo e siamo sempre pronti ai risarcimenti, anche se non spettano a noi. E il mistero continua.
È VELENOSISSIMO!
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MAXI TAGLI ALLA FARNESINA
UN’ITALIA fuori dal mondo di DANIELA ALBANESE L’ITALIA passa da «A+» ad «A». Cosa associabile ad una formula senza logica, ma che riassume in pochi caratteri la fragile condizione economica del nostro Paese. Standard & Poor's, nota agenzia di rating, così declassa il livello di crescita dell’Italia. Nonostante il varo di una manovra finanziaria volta proprio a ridurre il debito pubblico e sanare i conti dello Stato, la debole coalizione di Governo, con le numerose differenze al suo interno, limita la capacità di rispondere in maniera decisa alle sfide macroeconomiche interne ed esterne. Naturalmente per il Governo si tratta di valutazioni dettate più dai retroscena dei quotidiani che dalla realtà delle cose e appaiono viziate da considerazioni politiche. Un iter complicato, a tappe forzate e costellato di aspre polemiche quello della manovra finanziaria. Un provvedimento da 54,262 miliardi quasi esclusivamente incentrato sulle entrate che graveranno sulle spalle degli Italiani. La parte del leone la fa l'aumento dell'IVA al 21 per cento. Fra le misure previste anche un prelievo di solidarietà sui redditi alti, l'anticipo al 2014 dell'innalzamento dell'età pensionabile delle donne nel settore privato e la trasformazione delle Province in città metropolitane. Un modo furbesco per nascondere che si tratta di tagli alle persone ed ai servizi. Quasi tutti i settori colpiti a partire dai trasporti, istruzione, enti locali, ministeri, pensioni, sanità e pubblico impiego. Tra tutti i tagli non è forse un grande errore tagliare le risorse anche al Ministero degli Esteri? Nei corridoi della Farnesina circolano strane voci, messe in giro ancor prima della presentazione della finanziaria da parte del Ministro dell’Economia Tremonti, su nuovi tagli. La questione sembra apparentemente appartenere soltanto a quella classe diplomatica che molti ritengono «casta privilegiata», i cui componenti si definiscono Servitori del Paese. «Se la Farnesina va a fondo, l'Italia va fuori dal mondo»: con questo slogan anche le feluche hanno incrociato le braccia di fronte ad una manovra che di fatto debilita gli strumenti fondamentali dell'attività della Farnesina, minandone il sistema meritocratico. Un’agitazione inconsueta ma, necessaria, per salvare il destino della politica estera italiana. Le dolenti note di bilancio interessano anche il MAE, che è uno dei Ministeri che meno incidono sul bilancio dello Stato e che negli anni si è visto ridurre le risorse su tutti i fronti; ma le conseguenze ricadono ancora sugli Italiani, in tal caso soprattutto i residenti all’estero. La questione degli Italiani all'estero non può essere messa ai margini dell'agenda politica, con incomprensibili interventi sulla rete consolare e tagli scellerati alla promozione di lingua e cultura. La strategia di questa vacillante maggioranza è ormai palese: ridurre di oltre il 50 per cento l’intervento verso i connazionali all’estero e con tagli indiscriminati alla cultura, specie ad alcuni istituti che rappresentano eccellenze italiane riconosciute nel mondo. L'ex ministro De Michelis critica fortemente i tagli ed afferma: «Se c'è un ministero su cui semmai val la pena spen-
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IL BORGHESE
FRANCO FRATTINI (Dal sito www.greenews.info )
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Bisogna infatti considerare che l’Italia è tra coloro che spendono meno per la propria politica estera. In alcuni settori siamo addirittura alla destrutturazione di qualsiasi possibilità di attività come ad esempio la Cooperazione allo Sviluppo, i cui fondi sono ormai così esigui che si è costretti a gestire unicamente i progetti finanziati nel passato. Per rinnovarsi e crescere ci vogliono le risorse necessarie e i tagli mettono a repentaglio la funzionalità di molte ambasciate e stanno producendo un danno molto grave al nostro Paese e alla sua credibilità. In un momento di forti crisi internazionali è sempre più evidente il progressivo declino del Ministero degli Esteri. Errori diplomatici, carenza di personale e scarso decisionismo contraddistinguono la linea italiana adottata negli ultimi eventi internazionali. Ma oltre ai clamorosi errori nella gestione delle emergenze è il sistema stesso della Farnesina che sta andando a rotoli. Sullo sfondo si «erge» la figura del ministro del «vorrei ma non posso», delle promesse non mantenute, dell’indignazione a scoppio ritardato: Franco Frattini. Tra tagli e silenzi la reazione dei vertici politici e amministrativi della Farnesina, è stata un po’ tardiva. Anche in questo caso Frattini ha fatto flop. Gli Italiani, e non soltanto quelli all’estero, ricorderanno l’attuale Governo come «l’esecutivo dei tagli», quello del ridimensionamento cieco della rete diplomatico-consolare, della riduzione degli investimenti per la promozione di lingua e cultura italiana. Tali misure non contribuiranno nemmeno a tranquillizzare i santificati mercati poiché esplicano gli effetti maggiori a partire dal 2014, così l’attuale governo cercherà di 21-10-2011 14:09 Pagina 1 scaricare la patata bollente sui prossimi governi.
dere di più è la Farnesina, la politica internazionale è essenziale per gli interessi del Paese». I tagli rischiano di rendere impossibile una rappresentazione adeguata per l'Italia in un momento in cui la politica estera è molto importante anche per l'Interno. In questo contesto e in una situazione in cui l'Italia non ha più il peso che aveva ai tempi della Guerra Fredda e in cui le risorse sono sempre di meno, è forse necessario focalizzare l'attenzione e concentrare le risorse sulle priorità? Quali sono oggi le priorità della nostra politica estera? L'Italia è impegnata in teatri di conflitto quali l'Afghanistan, il Libano, i Balcani; la sua proiezione economica è inoltre rivolta in aree più lontane come Cina, India, America Latina. E la tanto decantata dimensione euroSaverio Romano mediterranea? Lo spiega l’Ambasciatore “La mafia addosso” Sergio Romano: «l'Italia dovrebbe esseIntervistato re un po' più Turchia, in allusione al da Barbara Romano crescente ruolo in Medio Oriente che si sta ritagliando autonomamente Ankara». pagg. 190 • euro 16,00 Con una posizione più autonoma e netta in Europa e nel Mediterraneo l'Italia avrebbe certamente un profilo più forte anche in rapporto con gli Stati Uniti e il resto del mondo. Il problema è che in realtà una strategia chiara purtroppo non si vede. In effetti, come sostiene Lucio Caracciolo, diretMarine Le Pen tore della rivista geopolitica Limes, Controcorrente «l'Italia non ha una presenza internazioprefazione di nale proporzionata al suo reale peso Fabio Torriero traduzione di politico, economico e culturale; anzi il Anna Teodorani Belpaese negli ultimi anni è sprofondato in uno dei momenti più oscuri dal 1945, pagg. 228 • euro 18,00 l'Italia conta poco e proprio in un momento in cui il resto del mondo è in pieno informazioni al dinamismo».
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IL BORGHESE
«Occupy Wall Street» e «Libertarias»
La Rivoluzione dei dispersi di RICCARDO SCARPA QUANDO, a New York, il 2 d’Ottobre, circa millecinquecento manifestanti hanno invaso il ponte di Brooklyn diretti a Wall Street, e la polizia ha fermato settecento persone, qualcuno ha notato come il movimento spontaneo Occupy Wall Street avesse dimostrato una grande capacità nell’usare i mezzi di comunicazione: un’accorta gestione dei siti sulla rete telematica permise l’auto-convocazione dei manifestanti, il blocco del traffico in uno snodo nevralgico costrinse la polizia, che sino a quel momento seguì i manifestanti, a sgombrare il ponte ed a procedere ai fermi, e ciò assicurò la conquista d’un posto preminente su telegiornali, giornali radio e prime pagine dei quotidiani, alla vigilia di un’altra grande manifestazione nazionale preannunciata a Washington, mentre altre manifestazioni locali s’accesero davanti a tutte le borse valori sparse per la grande federazione nordamericana. Il movimento, che attacca il globalismo del capitalismo finanziario si colloca, nel panorama politico d’oltre Oceano, «a Sinistra», e tanto, forse, fa sì che i militanti non si siano nutriti delle letture sull’usurocrazia di quel fascista di Ezra Pound. È il primo movimento spontaneo che agiti la Sinistra di quella Nazione da molto tempo, molto tempo durante lo scorrere del quale l’iniziativa parve fosse passata alla Destra del Great Old Party, il Repubblicano, da quando scoppiò tutta quella serie di movimenti che vanno dai Libertarians al Tea Party. Occupy Wall Sreet ed gli anarcocapitalisti della Destra americana sembrano schierati su fronti opposti: a Sinistra la protesta contro banche ed altre espressioni del capitalismo globale, a Destra quella contro il Moloch statalista, che invade la vita dei cittadini, espropria i loro redditi con le tasse, soffoca tutti con una burocrazia sempre più diffusa ed impone loro quello che gli illuminati programmatori pensano costituisca il loro benessere, senza considerare che maggiorenni e vaccinati forse preferirebbero avere in tasca il proprio reddito e decidere loro come spenderselo. Siamo sicuri, però, che il «tipo umano» che sostá a questi due movimenti di protesta sia così diverso ed agli antipodi? Il disobbediente che reagisce al globalismo bancario è un essere umano che vive del proprio lavoro, e magari ha perso casa perché posta in esecuzione dall’istituto di credito che, come tutti gli usuraî, si mostrò ammiccante quando occorreva un prestito per espandere la propria attività produttiva o per dare una residenza migliore alla famiglia; il libertario di Destra reagisce al fisco che ha espropriato il suo reddito, e magari all’esattore che lo ha messo in condizioni, esattamente come il suo doppio di sinistra, di dover vivere sotto una bella tenda piantata nel parco pubblico in quanto la sua casa è stata venduta da quell’esattore. Tutti e due vorrebbero essere proprietarî delle loro vite e dei loro beni, confiscati dal comunismo globale. Già, in quanto alla fine, quello che evapora, nel
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globalismo imperante, è la proprietà dei privati, quella individuale. Questo capitalismo globale ha il motore in fondi comuni d’investimento e nel sistema bancario che rastrellano i risparmî d’una collettività indistinta. Essi acquisiscono il controllo delle imprese, dalle multinazionali alle più piccole, che quindi non rispondono più ad un padrone in carne ed ossa, ma ad una nomenclatura di imprenditori che non sono proprietarî ma stipendiati d’oro, a carico della collettività indistinta. L’esecuzione a carico del mutuante che non può pagare, chiude il giro espropriando l’ultima proprietà individuale. L’espropriato và in affitto in un residence di proprietà d’una società immobiliare a capitale anonimo, gestita dalla stessa nomenclatura e magari «partecipata» da banche e finanziarie. Queste controllano le agenzie di rating che consigliano, affibbiando dei punti, quali siano gli Stati in cui investire, cosicché i governi di quegli Stati debbono esser graditi a quelle agenzie più che al Parlamento che rappresenta i cittadini, ed eufemisticamente si appellano ad una collettività senza identità: il mercato. Il liberalismo, quello vero, non fu mai una dottrina dogmatica e non lo è, è soltanto costituito da quei sistemi d’idee che, in una data Nazione ed in un certo periodo storico, si battano per difendere ed ampliare la libertà dell’essere umano in società. Quindi, oggi, non c’è nulla di più illiberale di questo collettivismo globale, a cui, ne siano o meno consapevoli, negli Stati Uniti dell’America settentrionale, si oppongono sia Occupy Wall Street che il Tea Party, ma essi, al momento, non si saldano in quanto l’uno và a Sinistra l’altro a Destra. * * * Destra e Sinistra, però, non sono sistemi d’idee ma schieramenti nelle aule parlamentari. I sondaggi in vista delle primarie repubblicane dicono che il Tea Party, divisioni a parte sui candidati da sostenere, conta sul consenso soltanto di circa il 17 per cento degli elettori del Great Old Party; quanto pesi Occupy Wall Street nella Sinistra democratica è presto dirlo. Forse messi assieme i due apparentemente opposti supererebbero il 40 per cento e, dal verificarsi o meno di questa saldatura dipenderà se ci sarà o no una rivoluzione nella Nazione, ricordiamocelo, che sorse quando pacifici coloni di dominî palatini, cioè non dello Stato ma della Real Casa (per questo il Parlamento inglese ritenne non poter dare ingresso a loro deputati come suoi membri), si videro imporre dal Re delle marche da bollo. Quanto alla vecchia Europa ed all’Italia, staremo a vedere, ma fino a quando la gente, fiaccole in mano, non darà fuoco alle sedi d’EquItalia, non si vedranno rivoluzioni in vista, ma soltanto mugugni da caffè. Come giudicare l’inerzia di cittadini d’uno Stato in cui il privato che vanti un credito deve spendere anni per formarsi un titolo esecutivo, quasi sempre una sentenza, e poi passare all’esecuzione, mentre lo Stato emessa una cartella esattoriale, cioè un’affermazione unilaterale dove asserisce d’avere un credito, la passa ad un esattore che ti pignora l’autovettura o la casa senza passare al vaglio d’un giudice, ed anche l’opposizione del malcapitato raramente sospende l’esecuzione, ed il privato cittadino si chiama così perché viene letteralmente privato, cioè derubato della vettura e della casa? In un Paese civile e reattivo nessuno verserebbe una lacrima se, nell’incendio della sede dell’esattoria, fosse arrostito qualche suo bieco sgherro.
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INTERVISTE SULLA DESTRA - MARCO TARCHI
ANALISI SULLE PROSPETTIVE della Destra politica in Italia a cura di MICHELE DE FEUDIS INTELLETTUALE libero, professore ordinario della facoltà di scienza politiche dell'Università «Cesare Alfieri» di Firenze, Marco Tarchi è uno maggiori studiosi della storia politica e culturale della destra. Direttore di Diorama Letterario e Trasgressioni, ha dedicato negli ultimi anni il suo impegno scientifico nell'approfondimento del fenomeno «populismo» in Italia ed Europa. In gioventù è stato uno dei leader dell'area giovanile neofascista che si raccolse intorno alla rivista La Voce della Fogna, su posizioni anti-atlantiste e critiche rispetto al conservatorismo e al nostalgismo missino. Candidato alla segreteria nazionale del Fronte della Gioventù (fu il più votato in una consultazione interna al movimento, ma Giorgio Almirante decise di nominare Gianfranco Fini arrivato soltanto quinto), e capofila della corrente metapolitica definita la «Nuova Destra» in simbiosi con il gruppo francese di Alain de Benoist «Nouvelle Droite», fu espulso dal partito nel 1981, a causa di una prima pagina della VdF di satira caustica contro la nomenclatura in doppiopetto del MSI. Tarchi - impegnato nel diffondere idee non conformiste, oltre gli steccati destra/sinistra e non allineate all'occidentalismo - fotografa bipolarismo, eredità del post fascismo e prospettive future («frammenti ricchi di contraddizioni») con lucidità e realismo politologico. Nei prossimi mesi pubblicherà una nuova edizione ampliata di Esuli in patria. I fascisti nell'Italia repubblicana, uscito per Guanda nel 1995. La postmodernità liquida ha progressivamente allentato in Italia le categorie ideologiche. Dissolti i partiti di tradizione novecentesca, in quali forme si manifesta la richiesta di partecipazione politica? «Non esagererei nel considerare marginale l’influenza ideologica sulla politica italiana. In forme residuale, le vecchie appartenenze continuano a pesare su una parte consistente dell’elettorato, che ha allentato il rapporto con i partiti ma tiene ben stretto quello con le aree di riferimento. Benché i loro contenuti siano sempre più vaghi e tendano a volte a confondersi, al pubblico più vasto le categorie di destra e sinistra continuano ad apparire indicatori di posizione utili. Per taluni, sono feticci a cui aggrapparsi per continuare a seguire una tradizione familiare o locale in declino. Pensi alle tendenze elettorali apparentemente insradicabili di certe regioni rosse o bianche. Certo, oggi la richiesta di partecipazione politica trova altri canali di sfogo, a partire da internet e, più specificamente, dai social networks. Ma anche qui gli slogan e gli sfoghi di astio verso il “nemico” predominano largamente sul confronto delle idee.» L'attuale sistema tendenzialmente bipolare mostra crepe e genera frequenti cortocircuiti per conflitti tra po-
teri dello Stato. Oltre le enunciazioni di rinnovamento istituzionale, cosa c'è dietro la prospettiva riformista sbandierata dai due poli? «A giudicare dai fatti, pochissimo. Il bipolarismo crea la necessità, per vincere le elezioni, di conquistare gli elettori di centro, e dunque di avvicinare, smussare, rendere vaghi i programmi, evitando di sbilanciarsi e di proporre progetti e riforme nettamente connotati, che potrebbero dividere i potenziali sostenitori piuttosto che unirli. Per coprire questa continua diluizione dei contenuti, che sono ormai quasi completamente sbiaditi, ci si sforza di apparire diversi dai concorrenti alzando la voce, scambiandosi insulti, sbandierando promesse di riforme epocali. Ma una volta vinte le elezioni, si annega nella routine del piccolo cabotaggio.» I partiti della Prima Repubblica sono estinti con tutto il bagaglio di simboli e lotte popolari, sostituiti da partiticoalizione. Che bilancio si può tirare dell'omologazione italiana alle liturgie delle democrazie anglosassoni? «Tutt’al più del sistema statunitense, perché in Gran Bretagna, malgrado i cambiamenti di rotta e gli annacquamenti ideologici, dietro a conservatori, liberaldemocratici e laburisti ci sono comunque tradizioni consolidate, mentre da noi gli pseudo partiti “pluri-identitari”, come ha azzardato definirli uno dei fondatori del PDL, sono aggregazioni raccogliticce ed eterogenee tenute insieme soltanto dalle circostanze e da interessi di bottega. Il bilancio di questa trasformazione è nettamente negativo: è cresciuta enormemente la distanza tra classe politica e cittadini, i programmi di governo sono stati
Sarà lo spirito del tempo, sarà la forzata convivenza nei contenitori partitici postmoderni, sarà il sistema politico tendenzialmente bipolare che tende a smussare diversità e omologare differenze. Il perimetro di un arcipelago culturale che si è riconosciuto - pur tra contraddizioni e ossimori - in una visione spirituale della vita e nell’umanesimo del lavoro, visione declinata a destra dal Msi e da una miriade di circoli, case editrici, associazioni, comitati civici e riviste, sembra adesso attraversare un momento di forte disorientamento. Oltre i rassicuranti confini del «nostalgismo» e dei paletti novecenteschi, però, persistono idee forti, autori di riferimento e nuove battaglie da combattere. Per questo Il Borghese pubblicherà un ciclo di interviste con scrittori, filosofi ed intellettuali per analizzare gli scenari presenti e futuri, offrendo ai nostri lettori le possibili coordinate delle nuove rotte nel mare della politica italiana. (m.d.f.)
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MARCO TARCHI (Dal sito www.mirorenzaglia.org)
IL BORGHESE complicati e intralciati dai dissensi interni fra le varie anime, i gruppi d’interesse hanno acuito le loro possibilità di condizionamento tessendo ancor più solidi rapporti clientelari con gli esponenti delle varie correnti o potentati, spesso per guadagnarsi favori in ambito amministrativo. E
a giovarsene è stata soltanto l’antipolitica.» Il saggio «Suburra» di Filippo Ceccarelli ben descrive la parabola decadente dei costumi del Palazzo. Morbosità per le abitudini amorose disordinate dei politici e tintinnare delle manette, idolatria consumistica e «web» radicalismo sono le nuove tendenze che hanno preso il posto delle ideologie? «Quando la politica perde il motore delle passioni (magari destinate a degradarsi in illusioni, ma comunque capaci di spingere alla dedizione disinteressata e al sacrificio), delle visioni del mondo che si vorrebbe veder sorgere, dell’ambizione a disegnare e porre in atto modelli di società, e si tramuta in mera professione a fini di lucro, la sua privatizzazione non può che condurre a risultati di questo tipo. La retorica dell’impegno per il bene comune non inganna più. È sempre più evidente che la motivazione di gran lunga prevalente nel ceto politico è il desiderio di conquistare una porzione di potere per goderne i benefici materiali di vario genere. Fra i pochi che non seguono questa direttrice furoreggia invece uno zelo puritano che non di rado assume i tratti del fanatismo. E sappiamo dove conducono i capipopolo che si propongono di purificare il mondo in nome della Verità.» Lo scioglimento di Alleanza Nazionale nel «PDL», dopo quello del «MSI», ha sostanzialmente ratificato l'omologazione al pensiero unico liberalcapitalista ed occidentalista dell'area politica e culturale che dal 1945 in poi era collocata «a destra». Cosa resta di quella tradizione «anticonformista» nell'attuale «PDL»? «Quasi niente. Soltanto qualche illusoria ambizione di continuità in ambienti giovanili. Ma il percorso verso questo esito viene da lontano, e si è svolto in parte già all’interno del MSI. C’è ormai un’abbondante e seria letteratura sul tema. Il neofascismo ha ben presto perso ogni ambizione di conquistare alle proprie idee originarie settori cospicui della società italiana e si è appiattito nell’anticomunismo, nell’atlantismo, in un vago e velleitario conservatorismo. Se ha lasciato un po’ di spazio nelle sue pubblicazioni ad autori, filoni di pensiero ed esperienze politiche in odore di zolfo (Evola, Schmitt, Jünger, Drieu La Rochelle, i frondisti del ventennio, la Nouvelle Droite, i “fascismi sconosciuti”…), lo ha fatto soltanto per offrire un contentino a una base militante giovanile che avrebbe altrimenti preso altre strade.» L'area postfascista ha avuto e soltanto in parte conservato nel Paese un immenso patrimonio immobiliare, oltre
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ad un popolo di credenti - soprattutto nella base - che non ha né una casa né una direzione per il futuro. Quale prospettiva c'è all'orizzonte per quelli che su «Il Giornale» Pietrangelo Buttafuoco ha definito «un milione e mezzo di Italiani, gli elettori del “MSI”, tutta gente per bene»? «Quanti ne siano rimasti oggi, di quei “credenti” a distanza di sedici anni dalla scomparsa del MSI, non ci è dato sapere. In ogni caso, per le loro speranze di un tempo non c’è più alcun futuro. Spenta la fiamma e abiurate molte delle credenze del passato, i loro ex dirigenti hanno imboccato la via della “rispettabilità” per giocarsi al meglio le carte di cui disponevano. E non torneranno indietro.» Spesso sono state accostate sensibilità e intuizioni della Nuova Destra alle attività di intellettuali raccolti prima intorno a Fare Futuro, poi confluiti in «FLI», guidato da Gianfranco Fini. Ci sono elementi di contatto tra le due esperienze? «Nessuno, sebbene questa presunta affinità o addirittura primogenitura sia stata sbandierata, all’unico scopo di nobilitarsi culturalmente, dagli ambienti finiani. Come ho più volte argomentato, la Nuova Destra aveva fatto scelte opposte a quelle di FLI in quasi tutti i campi. Volendo ricorrere a una schematizzazione, con tutti i limiti del caso, aveva guardato a sinistra negli ambiti in cui FLI si è collocato a destra (politica internazionale, questione sociale, tematiche ecologiche), e a destra laddove il FLI ha assunto posizioni orientate a sinistra (temi etici, questioni connesse alle ondate migratorie ecc.). Ho documentato questa totale discontinuità, punto per punto, nel libro La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra, che ho curato lo scorso anno per Vallecchi.» Cosa resta attuale della elaborazione politica della «ND» e degli scritti di Alain de Benoist su partecipazione e geopolitica? Che ruolo può svolgere nella «guerra delle idee» a cui ha dedicato l'editoriale del numero 304 di «Diorama»? «Gran parte delle elaborazioni metapolitiche della “Nuova Destra” restano attuali, e de Benoist sforna di continuo analisi e spunti intelligenti e suggestivi. Purtroppo, l’isolamento massmediale decretato dai custodi dell’ideologia dominante nei confronti dei dissidenti ha ridotto i canali di espressione non-conformisti a flebili voci. Per resistere, nella guerra delle idee, occorrerebbero ben altri mezzi, che nessuno pare disposto a fornire. La semina, quindi, c’è, ma quando arriveranno i frutti è difficile prevedere. Sempre che poi qualcuno li vada a raccogliere.» Il Mediterraneo in fiamme per le rivolte popolari ha riaperto il dibattito sulla politica estera, relegata sempre nelle pagine interne dei quotidiani. Che ruolo sta svolgendo l'Italia nello scacchiere internazionale? «Un ruolo di assoluta subordinazione ai voleri degli USA, che alla distanza non gioverà né a lei né all’Europa. Il mondo è avviato verso un assetto multipolare articolato su “grandi spazi”, dove conteranno sempre di più la Cina, l’India, l’America latina ed altri attori. Fare la parte dei servi del progetto imperiale nordamericano e insistere nell’appiattirsi nell’esaltazione di un Occidente che ne è una mera appendice strumentale avrà effetti controproducenti quando si saranno definiti i nuovi scenari geopolitici.» Trattati ed equilibri sovranazionali spesso non coincidono con gli interessi dell'Italia e l'aspirazione a persegui-
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re un profilo di indipendenza e autonomia nazionale. Rivedere l'adesione dell'Italia alla «NATO» è considerato un tema da bollare come sterile antiamericanismo. L'attuale diritto internazionale, dalla crisi serba all'Afghanistan, dall'Iraq alla Libia, presenta interpretazioni sempre più soggettive. Non è arrivato il momento di iniziare una nuova codificazione delle relazioni internazionali, sottoponendo i trattati al vaglio della sovranità popolare? «Certo, sarebbe una svolta cruciale ed opportuna. Ma chi se ne assumerà l’onere? Non vedo candidati all’orizzonte. Domina un piatto conformismo allo stato di cose esistenti.» Il tema dell'autodeterminazione dei popoli una volta era un cardine dell'impegno politico a destra. Ora è appannaggio di sparute frange leghiste. Non sarebbe il caso di rileggere tanti conflitti sulla tavolozza del «Grande Gioco» secondo questa chiave? «“A destra”, direi proprio di no. In alcune frange degli ambienti giovanili missini e in settori più radicali della destra estrema, semmai. Certo, il tema andrebbe ripreso, declinandolo però nella più adeguata e produttiva prospettiva della rivendicazione del diritto all’affermazione delle specificità culturali di popoli e nazioni. Per il resto, come ho detto, ci si dovrebbe orientare verso la costituzione di grandi spazi autonomi fondati su comuni interessi geopolitici.» Il politicamente corretto su questi argomenti genera scomuniche. Il saggio di Massimo Fini «Il Mullah Omar» è considerato una sorta di propaganda talebana sul «Corsera», mentre il coinvolgimento dei Fratelli Musulmani nella transizione «post» primavera araba appare il primo passo verso un pericoloso fascismo islamico. Esportatori di democrazia all'estero e sacerdoti della censura totalitaria sul proprio territorio nazionale? «È così. La censura delle idee sgradite attraverso il silenzio ha raggiunto quasi lo stadio della perfezione, e internet non è un rimedio efficace, perché nel suo oceano sterminato tutto si disperde, se non ha il traino dei giornali, delle radio e delle televisioni che ne rilanciano i messaggi. Il controllo sull’immaginario collettivo che i governanti totalitari si sforzavano di ottenere mediante l’irreggimentazione e la repressione, oggi viene garantito dal potere seduttivo del consumismo e degli apparati comunicativi. Lo spirito del tempo detta i suoi modelli, che le classi dirigenti - intellettuali mediatizzati in testa - si incaricano di portare ad affermazione.» Gramscismo di destra. Oltre gli «slogan» e gli articoli, dal 1994 ad oggi, cosa è cambiato rispetto alle egemonie pre-esistenti? «Quella marxista si è sgretolata, producendo nuove mode di pensiero di forte presa, dal cosmopolitismo all’ideologia dei diritti umani, passando per un’onnipresenza del materialismo pratico e individualista liberale. La destra d’ogni coloritura, tradizionalista, conservatrice o neofascista, è arretrata su tutti i fronti. Non poteva che finire così, dato l’assoluto disinteresse degli ambienti che la componevano per la battaglia delle idee, scioccamente considerata secondaria se non inutile. Il “gramscismo di destra” di Alain de Benoist e di chi ne seguiva la lezione di metodo era sconfinatamente ambizioso, ma avrebbe potuto conquistare spazi preziosi se fosse stato assecondato da chi veniva ingenuamente considerato un alleato potenziale (leggi, in Italia, gli ambienti missini). Invece, proprio da lì sono venuti gran parte dei sabotaggi, delle scomuniche, delle mistificazioni.»
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Nichi Vendola, animando una nuova sinistra di estrazione libertaria,ha puntato tutto sulla «web» propaganda. «PDL» e Lega, invece, trascurano l'adozione di strumenti politici legati alla rete. A cosa si deve questo ritardo? «Ancora una volta, a una mentalità incapace di accettare le sfide cruciali della modernità. Anche se, per le ragioni che ho citato, non ci si deve illudere che internet sia la panacea di tutti i mali per chi non ha contenuti efficaci da comunicare.» Su «Diorama» ha denunciato come nessuna forza politica sia impegnata nel costruire nuove classi dirigenti attraverso la formazione. A destra dove si allenano le nuove «élite»? Quali fondazioni o case editrici forniscono strumenti per la crescita di avanguardie culturali libere dagli stereotipi dell'«american way of life» e dell'edonismo di stampo liberalcapitalista? «Di progetti coerenti e consistenti, non ne vedo. Solo fermenti sparsi. Frammenti ricchi di contraddizioni. C’è chi proclama di voler sfidare il futuro e per farlo assume a modello di stile stereotipi che risalgono a novanta anni fa. E chi pensa di creare “destre nuove” andando al traino di soggetti come Cameron o Sarkozy, che sono agli antipodi del pensiero critico che Lei richiama. A destra prospera il deserto culturale.» Il movimentismo giovanile degli ultimi anni ha generato a destra e sinistra soggetti politici originali e fuori dal perimetro liberista e occidentalista? «Non direi. L’opposizione agli effetti più nefasti della globalizzazione avrebbe potuto portare ad un simile risultato, ma l’occasione è andata sprecata.»
(Gianni Isidori, il Borghese 28 Aprile 1974)
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NUBI FOSCHE SUI «PIGS»
AUTUNNO malinconico di MINO MINI DISILLUDETEVI, niente «operazione nostalgia». La melodica canzone con la quale una bellissima Marisa Del Frate ventiseienne incantò il pubblico partenopeo cinquantatre anni fa, non c’entra. La radice della melancolia nasce, piuttosto, dalla constatazione tutta attuale degli effetti nefasti che una concezione totalitaria dell’economia, di cui scrivemmo su queste pagine nell’aprile 2010, sta generando all’interno della crisi. Crisi, sia chiaro, che non è soltanto economica, ma totale: - Crisi di conoscenza dovuta al peccato originale della modernità. Dopo aver generato il settorialismo delle discipline con conseguente perdita dell’unità della coscienza, è sfociata nel relativismo culturale precipitando nel baratro del nichilismo. L’università ne è l’espressione più evidente ed i laureati che licenzia delineano, inconsapevolmente, un quadro drammatico di impreparazione generale ed incapacità decisionale individuale; - Crisi economica assai più grave di quella settoriale che stiamo vivendo. Perdura, infatti, l’equivoco circa il ruolo dei diversi protagonisti del processo economico (imprenditore, capitale, lavoro, mercato). Il conflitto interno tra gli stessi, non risolto, risulta foriero di pericolose distorsioni del normale processo ciclico dell’economia; - Crisi etico-politica innescata dal totalitarismo economicista che priva del ruolo decisionale la categoria politica nullificandone i valori di riferimento già messi in dubbio dal relativismo e dal nichilismo. La naturale conseguenza è la proletarizzazione dell’uomo da cui, in estremo, sorge il barbaro artificiale il prodotto di massa delle nostre metropoli -antitetico al cives - che traduce in atti devastanti la consapevolezza elitaria secondo cui «tutto è uguale a nulla» essendo tutto annientabile dall’arbitrio di una distorta volontà di potenza; - Crisi estetica ovvero della capacità di comprendere e studiare il mondo della forma. In altre parole: crisi della capacità dell’uomo di creare e costruire il mondo, il proprio habitat, nella complessità dei rapporti, delle interrelazioni che legano l’uomo all’ambiente. Se vogliamo, come vogliamo, «batterci per il nuovo che verrà», per dirla con il Franco Jappelli de il Borghese di agosto-settembre rielaborando una Visione del Mondo come condizione pre-politica ,come auspicato da Gianfranco De Turris «Nel Deserto della Destra» del mese scorso, occorrerà - in primo luogo - superare la concezione totalitaria dell’economia di cui sopra. Torniamo, però, alla radice della malinconia di cui in apertura. L’autunno ancora in corso è stato caratterizzato da eventi particolarmente significativi. Alcuni di questi, che investono temi affrontati in precedenti articoli de il Borghese, esaminati con un po’ di buonsenso, compongono un quadro desolante: - Il 14-15 settembre a Genova si è tenuta la IX Biennale delle città e degli urbanisti europei organizzata dall’INU (Istituto Nazionale Urbanistica) con il titolo «Smart planning per le città gateway» in Europa; il 20 settembre la
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società di rating Standard & Poor’s esce allo scoperto. Anticipando la sua «concorrente» Moody’s declassa l’Italia; il 29 settembre, durante l’assemblea dell’ANCE (Ass. Naz.le Costruttori), viene contestato con accesa violenza verbale il ministro Altero Matteoli; il 30 settembre l’osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia del territorio, ente pubblico del Ministero dell’Economia e delle Finanze, rende noto che il mercato immobiliare è in piena crisi: le compravendite di immobili hanno registrato un calo del -5.6 per cento. Il peggiore dal 2004. Dal 2006 al 2010 il calo è stato costante: quasi il 30 per cento. Qual è la logica che sta dietro questi eventi così diversi ed apparentemente slegati fra loro? La risposta è: la geopolitica condizionata dal totalitarismo economicista. Consideriamo il declassamento dell’Italia del 20 settembre. È stato l’ultimo atto, prima dell’annuncio di Moody’s, della guerra di aggressione che la finanza internazionale di matrice americana, inserendosi come un cuneo nel solco scavato dalla Germania, ha scatenato contro l’Europa con l’occulto intento di scalzare il blocco dell’euro. Infatti la Deutsche Bank, a luglio, aveva annunciato di aver venduto 7 degli 8 miliardi di Bot italiani che deteneva spingendo l’Italia ai margini dell’euro. Comprensibile, ancorché esecrabile l’attacco «geofinanziario» del capitalismo selvaggio che da sempre gioca la partita del divide et impera nei confronti dell’Europa, ma qual era il senso della manovra tedesca così palesemente antieuropea? La inqualificabile Merkel, caduta nella trappola, si è giustificata affermando: «Abbiamo tutelato i nostri interessi nazionali». Con ciò dimostrando come, nella miopia della sua visione geopolitica, per lei l’Europa non fosse l’organismo di grado superiore da realizzare quale sintesi di molteplici aspetti di un’unica civiltà europea, ma soltanto un mezzo per perseguire l’egemonia economica tedesca a scapito degli altri membri della UE. Soprattutto dei tanto disprezzati PIGS (porci in inglese). [È l’acronimo dei Paesi mediterranei: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna]. Perseguendo tale disegno, palese nelle vicende europee recenti, la Germania mira ad imporre agli Stati mediterranei, tramite la BCE, manovre deflattive foriere di impoverimento e disoccupazione e l’apertura di una partita su quelli che vengono definiti gli asset, ovvero le attività patrimoniali. Ricordate la boutade - ma non troppo - della cessione del Partenone come contropartita per l’aiuto dell’Europa (leggi Germania)? Quel che si vorrebbe imporre all’Italia, messa in difficoltà da Standard & Poor’s e Moody’s, altro non è che una riedizione del Britannia dove si attuò la svendita prodiana delle nostre industrie pubbliche e parapubbliche. Del resto non è un mistero per alcuno come, sin dal 2009, la Direzione generale per il Mercato interno del commissario francese Barnier avesse lanciato una procedura d’infrazione contro la normativa sulla golden share che fino ad oggi ha protetto Eni, Enel, Snam, Finmeccanica, Telecom e gli altri «gioielli di famiglia» da scalate ostili in borsa. Come nel gioco degli scacchi, però, ogni mossa è preludio ad altre mosse, così nella politica finanziaria. Il fine di questo sporco gioco «geofinanziario» è quello di ridurre l’Italia ad «un calzino cucito alle Alpi e perso a bagno nell’acqua del Mediterraneo» come avemmo modo di scrivere su queste pagine in agosto-settembre. A che prò? Un’Italia protesa com’è nel Mediterraneo, qualora fosse adeguatamente infrastrutturata, diventerebbe il naturale hub energetico continentale nullificando il disegno di consolidare i megadepositi di Baumgarten (Austria) e Katrina
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(Germania), con la connessa borsa degli idrocarburi che tratterebbe i prezzi in euro e che la Germania vorrebbe gestire in compartecipazione con la russa Gazprom. È uno degli aspetti della famosa politica continentale basata sull’asse Mosca-Berlino e sulla guerra dei gasdotti ed oleodotti il controllo dei quali assicurerebbe un enorme potere geoeconomico. Ma la politica antimediterranea non si ferma a questo. Su queste pagine nel maggio scorso, esponendo il sistema infrastrutturale dei corridoi paneuropei e - a livello mediterraneo - delle autostrade del mare, mettemmo in evidenza due punti: 1. In una prima fase i corridoi paneuropei furono concepiti come infrastrutture miranti a mettere in sistema i nuovi Paesi membri della UE con quello della Merkel finalmente sgomberato dall’impedimento del muro di Berlino; 2. Per insufficienza infrastrutturale dell’hub di Genova, le merci in transito nel Mediterraneo circumnavigano la penisola iberica e la Francia per sbarcare i containers nei porti mitteleuropei così da guadagnare tempo di accesso ai mercati dell’Europa sarmatica e danubiana. Ecco il collegamento con la IX Biennale delle città e degli urbanisti europei che proprio a Genova ha sviluppato il tema «Smart planning per le città gateway».Vi risparmiamo la dissertazione sullo smart planning, l’ultima «trovata» americana nel campo della pianificazione per concentrare l’attenzione di chi ci legge su significato di city gateway. Il Travel industry Dictionary ne dà due definizioni il cui riassunto unitario suonerebbe: «Una città che funge da ingresso di una o più compagnie aeree o marittime o da punto di partenza da o verso un Paese». Visione meccanicista della «parte per il tutto» che ignora la complessità di relazioni fra città e territorio di pertinenza ma che, per i fini di questa esposizione, accettiamo di utilizzare. La definizione si adatta, chiaramente, ad ogni hub e quindi a maggior ragione al caso di Genova, hub mediterraneo per eccellenza delle autostrade del mare che, se adeguatamente infrastrutturato, potrebbe svolgere una funzione ben più importante di quella che la definizione di città gateway lascia supporre. Infatti Genova è naturalmente e storicamente vocata a mettere in relazione organica i due sistemi mal connessi: il continente europeo e il bacino del Mediterraneo. Così come lo è, ad oriente, Trieste. Sviluppiamo una considerazione: il mare nostrum, naturale baricentro delle masse continentali, nell’ottica della moder-
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nità non poteva che ritornare, in epoca di mondializzazione, a svolgere il ruolo di snodo fra oriente che produce ed Europa che consuma. Se ne è resa conto la Cina che ha acquistato i porti della riva Sud e quelli greci estendendo i suoi interessi ai porti italiani. Se ne sono resi conto anche i Francesi e gli Inglesi, ma in chiave neo-colonialista. Protesi verso altre traiettorie geostrategiche di interesse nazionalistico, incapaci di vedere un’Europa sintesi unitaria di entità diverse, nell’autunno di un anno fa, tramite i loro servizi segreti, misero in atto un golpe contro gli Italiani in Libia: Tant’è : Quos Deus perdere vult … con quel che segue. Tornando a Genova ed al suo ruolo geopolitico di gran lunga più rilevante di quello economicisticamente settoriale discusso nella IX Biennale, giova riaffermare un concetto già espresso su queste pagine: il corridoio Genova-Rotterdam per il collegamento con il Mare del Nord è fondamentale, ma ha senso soltanto se si realizza anche il corridoio V perché dal collegamento dei due si potenzia la capacità della city gateway di mettere in sistema il Mediterraneo con l’Europa occidentale e quella orientale. Non meno importante, per le stesse ragioni, è il completamento, nel tratto italiano, del corridoio peninsulare Berlino-Palermo. Siamo in piena crisi economica, è vero, ma per non innescare quel processo deflattivo che ci sbatterebbe col culo a mollo nel Mediterraneo, come PIGS nel brago, occorre concentrare ogni possibile risorsa nel completamento della rete infrastrutturale. Vi è, però, chi rema contro per imbecillità o perché prezzolato o - ancor peggio - per gretto tornaconto. La vicenda «NO-TAV» è emblematica a riguardo, particolarmente per l’intervento dei black-block che - vedi caso - vengono da fuori. Che dire, tuttavia; di certi «imprenditori»? Abbiamo citato, in apertura, l’assemblea dell’ANCE e la contestazione nei confronti di Matteoli per il rallentamento delle commesse pubbliche che, a loro dire, avrebbe messo con le spalle al muro molte imprese costringendole a ridimensionarsi o, in diversi casi, a chiudere. La realtà è un’altra. La maggioranza delle imprese, che era dedita alla speculazione edilizia ed urbana, si è trovata di fronte alla saturazione del mercato con, a carico, una enorme quantità di case invendute - specialmente seconde case - e con i relativi scoperti bancari per i mutui contratti che, non essendo stati riversati sugli acquirenti, - com’è consuetudine - sono rimasti loro sul gobbo. Da qui era nata la richiesta da parte della categoria, che lo Stato frantumasse i fondi FAS (Fondi aree sottoutilizzate) per le opere pubbliche in piccole tranche per sostenere l’industria delle costruzioni. La stessa industria, per la quale era stato elaborato il piano casa, che ha dimostrato di non saper intraprendere il ciclo virtuoso della demolizione e ricostruzione che lo stesso piano prevedeva. La stessa industria che per bocca del suo presidente Paolo Buzzetti il 3 agosto, rilasciando un’intervista al Corriere della sera si espresse nel seguente tenore: «Finalmente tornano i fondi per le piccole opere e non per quelle, come il ponte sullo Stretto ma anche la Torino -Lione [corridoio V, N.d.R.] che, con tutto il rispetto, non mi paiono una priorità…». È quali sarebbero state le priorità secondo i costruttori: l’assistenzialismo nei confronti di imprese i cui dipendenti sono, in stragrande maggioranza, operai del nord ed est europeo nonché extracomunitari? Degni, questi lavoratori, del massimo rispetto, ma certo non determinanti per il rilancio dell’economia nazionale, ma solo per il gretto tornaconto dei loro datori di lavoro. Nasce da tutto questo annuvolarsi sul nostro futuro orizzonte la melanconia di questo drammatico autunno.
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seria presenza nel mondo della politica è da tempo dubitabile. Adesso la dimensione etica (e critica) diventa ininfluente anche nel mondo della cultura accademica e della ricerca. Ogni cosa, in effetti, è conseguente. Il declino della indipendenza dell’Università nasce dal fatto dell’averla trasformata in azienda. La trasformazione in azienda, con «imprenditori» (rettori, presidi, docenti) improvvisati implica il rischio del gioco d’azzardo e del fallimento. E chi sbaglia deve pagare. La logica privatistica che sottintende tutto questo comporta poi il passaggio (già sollecitato) alla privatizzazione di HERVÉ A. CAVALLERA delle Università. Così lo «Stato leggero» non si dovrà nemmeno preoccupare dei fallimenti. Ulteriore annotazione: la professionalizzazione prevale L’UFFICIO Stampa del Ministero dell’Università, con un cosulla ricerca e la considerazione delle logiche del mercato sul municato datato 22 settembre 2011, ha informato che il Conlavoro scientifico disinteressato. Per esser chiari, in un futuro siglio dei Ministri ha approvato il decreto legislativo sui paramolto vicino l’Università non sarà più una istituzione di ricermetri di sostenibilità finanziaria degli Atenei e l’eventuale ca scientifica, ma un mero titolificio con ricerche funzionali commissariamento. Si tratta del V decreto attuativo della Rialle richieste esterne di commesse espresse dal mercato. Bisoforma Gelmini e stabilisce l’intervento sulle Università nei gna aggiungere, tornando al decreto ministeriale da cui abbiacasi: a) di «disequilibrio economico e finanziario e patrimomo preso le mosse per queste «allegre» considerazioni, che niale temporaneo»; b) dissesto finanziario. In questo caso la saranno dei revisori dei conti, nominati dai Ministeri, ad accarenza di un solido piano di rientro condurrebbe al commiscertare le condizioni del dissesto. Dei docenti universitari sariamento. L’ANVUR dopo la procedura commissariale, delle sedi, dove pure ci sono economisti, giuristi ecc., non ci dovrà valutare «se esistano i presupposti per mantenere l’acsi fida. Qui emerge il centralismo del potere, dopo che il potecreditamento dell’istituzione universitaria ovvero per un’ere ha infranto il vaso che conteneva, raccolti, tutti i venti. ventuale operazione di federazione o fusione di atenei». InLa notizia dell’approvazione del decreto attuativo non somma, il processo di autonomia avviato col primo Governo giunge inaspettata, come non è inaspettata l’ingerenza del Prodi mostra i suoi frutti: le Università possono fallire e posMinistero dell’Economia nei casi di quello dell’Università. sono essere chiuse. Lo Stato interviene per vigilare, premianChe gli Atenei si trovino in condizioni non facili è altresì gado (con poco) o punendo. rantito dai tagli operati negli anni dal Ministero dell’EconoÈ il ritorno al vecchio metodo, educativamente discutibile, mia sulle Università e sulla Ricerca. Così si è mestamente dei premi e castighi, che è uno degli aspetti della Riforma sorriso quando il ministro Gelmini ha ufficialmente dichiarato Gelmini, laddove invece bisognerebbe in origine evitare dei che la recente manovra economica non avrebbe toccato la possibili fallimenti che avrebbero gravissimi effetti non solScuola, l’Università, la Ricerca. Sarebbe stato, infatti, molto tanto sull’istituzione, ma sullo stesso territorio in qui l’istitudifficile trovare ancora qualcosa da poter sottrarre. Tuttavia, è zione opera. Ma ciò che conta, in quest’epoca difficile, è far vero, ai balzelli non c’è mai limite… La stessa concessione quadrare i conti. Così, dopo aver favorito la moltiplicazione tanto sbandierata, dell’ultimo giorno di settembre, del denaro delle Università e dei corsi, il Ministero si accinge a troncare per le Università meridionali sembra scaturire più dalla necese a sopire, di manzoniana memoria. Non sarebbe forse mesità di affrontare l’emergenza, che da un reale piano organico. glio di un Ministero gendarme, un Ministero che fissi le reali Così va prendendo sempre più corpo la nuova Riforma discrezionalità operative? che, in nome di un centralismo economicistico, falsamente Il nocciolo della questione, però, non è soltanto questo. meritocratico, va riducendo la libertà della ricerca, degli studi Chi deve vigilare? Il Ministero dell’Università verrebbe subidisinteressati, delle utopie rigeneratrici. Quello che conta sono to da dire. Non è proprio così. Questo Ministero deve essere i conti, per usare un gioco di parole. Stipendi bloccati oltre coadiuvato dal Ministero dell’Economia. Il che praticamente che esigui, assunzioni bloccate, concorsi futuribili a tempo vuol dire che il Ministero dell’Economia potrà intervenire determinato, prossimo aumento del precariato, alta disoccupadirettamente sulla gestione finanziaria degli Atenei. Il ruolo zione intellettuale. È un panorama mortificante, plumbeo. Il del Ministero dell’Università è così dimezzato. Il primato fatto è che non è casuale: è la logica conseguenza che ha, per dell’economico, che tormenta - anche per motivi di recessione l’Università, i suoi prodromi nel ministero Ruberti (1989- i nostri tempi, si traduce nel primato del Ministero dell’Eco1992) e la sua ripresa in quello Berlinguer (1996-1998) e connomia su quello dell’Università e tinuatori. E lo stringere il tutto, quedella Ricerca. La congiunta dualità sto è ancora più amaro, non si acesplicita il senso, già più volte palecompagna con una crescita elitaria sato, di buona parte della Riforma delle professionalità, ma con un adeGelmini: l’assoggettamento al potere guamento strumentale. Il che è una economico, che troverebbe ulteriore triste constatazione per coloro che accondiscendenza per le Facoltà e le hanno conosciuto la grande Universiricerche di scienza applicata, che tà di tempi non molto lontani negli avrebbero degli utili sul mercato. anni, ma nei fatti remoti. Il filosofo Naturalmente non è alcunché di Giambattista Vico aveva parlato di male che debbano essere sostenute corsi e ricorsi storici. Speriamo (ma iniziative che possano avere un rinon sappiamo quanto ci vorrà) che scontro economico. Il guaio sarebbe dopo la nottata, vengano le luci del il rischio di ridurre il tutto all’econonuovo giorno. Intanto siamo conse(Gianni Isidori, mico. Che la sfera etica abbia una gnati alle tenebre. il Borghese 16 Giugno 1974)
CHI DECIDE SULL’UNIVERSITÀ?
IL MINISTRO dell’Economia
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LA SCUOLA E L’IDENTITÀ NAZIONALE
STRANIERI nell’aula propria di ALESSANDRO CESAREO
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elementare milanese formata quasi interamente da bambini stranieri, con le connesse, implicite problematiche d’integrazione-fusione, non giova certamente all’avvio di un sano, quanto costruttivo, confronto tra culture ed identità diverse quali sono quelle che sempre più di frequente son chiamate a misurarsi all’interno della nostra Penisola. Il confronto con le svariate, variegate etnie nazionali con le quali siamo chiamati a misurarci all’interno dei confini dell’Italia è, infatti, un’operazione così difficile e complessa che richiede, in primis, autentico spirito di collaborazione e tanta, tanta buona volontà. Ma quest’ultima non deve venire soltanto da una parte. Non può e non deve essere a senso unico. Con molta probabilità, è questo quanto il Ministro Gelmini ha intuito, nello stabilire la chiusura della classe in oggetto, in quanto non in linea con i parametri previsti per l’inserimento di figli di extracomunitari nei plessi scolastici italiani. Insomma, una classe fatta di soli figli d’immigrati non ci sta. Non ci può stare. Il fatto è di cronaca e, quindi, non sembra necessario riportare altri particolari, se non l’evidente, preoccupante tendenza ad esagerare da parte dei genitori, che hanno reagito denunciando il Ministro, reo, a loro dire, di un grave reato, ma quale? Difficile intravvedere, a questo punto, i margini di una reale e verificabile infrazione della legge commessa dalla titolare del Dicastero. In realtà, ecco che, quando s’inizia subito con le denunce e con le azioni giudiziarie di vario genere, diventa subito difficile instaurare un dialogo educativo davvero proficuo. Ma è davvero la questione educativa che sta a cuore a chi strepita così forte? La cosiddetta ricetta Pisapia, progetto vago e fumoso con cui il municipio milanese intenderebbe risolvere la questione, presenta, invece, preoccupanti risvolti
«CON quel volto sfidato e dimesso/con quel guardo atterrato ed incerto / con che stassi un mendico sofferto/ per mercede sul suolo stranier/ star doveva in sua terra il lombardo./ L’altrui voglia era legge per lui / il suo fato, un segreto d’altrui / la sua parte, servire e tacer.» Così Alessandro Manzoni in una celeberrima ode, assai adatta a celebrare i 150 anni della nostra unità nazionale, ha descritto la triste condizione del lombardo, costretto a stare nella terra natale e a comportarsi come se, in realtà, fosse uno straniero. Questo nonostante calcasse il patrio suolo e nonostante vivesse in una terra di sangue e di lingua italiani. Di sicuro, la situazione in cui gli Italiani di allora, oppressi dal giogo del secolare potere straniero, erano venuti a trovarsi, non doveva essere felice, anche se illuminata dalla prospettiva di una liberazione che, prima o poi, il tempo avrebbe realizzato e che l’evoluzione della situazione storica avrebbe di lì a poco confermato. Ora, invece, quasi due secoli dopo rispetto alla data di stesura di quell’ode, che cosa succede? Qualche segno di stanchezza, o almeno di noncuranza, sembra aver iniziato a sostituire quel sentimento nobile ed ineffabile, un tempo chiamato amor di Patria. Pare, infatti, che oggi di tutto si parli, tranne che della bellezza e dell’importanza di essere Italiani, cittadini italiani. Il nostro essere popolo con un’identiRivista Bimestrale tà, una lingua, una fede, pare doversi Per nuove sintesi culturali offuscare in maniera preoccupante ed diretta da Fabio Torriero ingloriosa. Dimensione nazionale che, invece, andrebbe tempestivamente riscoperta. E rinvigorita. E, forse, ancora una volta non sarebbe male che l’identità di un popolo venisse a riconfigurarsi e a riqualificarsi proprio all’interno delle aule scolastiche. Non è in questi luoghi, infatti, che si formano, o che almeno dovrebbero formarsi, le coscienze dei cittadini? Oltre le celebrazioni istituzionali richieste dall’anno che si avvia alla conclusione, non sarebbe dunque male riavviare un reale processo di maturazione dell’identità nazionale che, soprattutto nella fase iniziale, passi per i banchi di scuola. In questo modo, si Rivista Quadrimestrale potrebbe anche pensare a riallacciare di Geopolitica e Globalizzazione quel filo della memoria storica che si è diretta da Eugenio Balsamo andato gradualmente, quanto inesorabilmente, sfilacciando negli ultimi due o tre decenni. Ed il messaggio, che arriva Via G. Serafino, 8 • 00136 Roma • Tel. 06 45468600 • e-mail: luciano.lucarini@pagine.net dalla stampa, di una classe di scuola
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di tipo integralista, almeno per chi vorrebbe un’evidente caratterizzazione culturale del nostro sistema scolastico. Ma non tutti la desiderano, né la auspicano. C’è anche chi, al contrario, sembra prediligere un qualunquismo pseudointellettuale al quale conformare ogni iniziativa. La situazione richiederebbe, invece, un confronto davvero sano, di ben altro tipo. Di altra natura. Un confronto dal quale non trapelino (come invece sembra in questo caso) atteggiamenti sostanzialmente noncuranti delle regole vigenti in Italia, per far rispettare le quali il Ministro può e deve intervenire. Ha tutto il diritto per farlo, né questo diritto può essere anche minimamente messo in discussione da un gruppo di genitori scontenti. Per giunta, neppure del tutto al corrente del reale spirito che anima le leggi italiane. E, forse, verrebbe da aggiungere, in parte animati da una certa animosità e da una non dissimulata volontà di rivalsa. Ma rispetto a chi? Rispetto a cosa? Vorrà dunque dire che in questa particolare classe, se la malasorte sinistreggiante e sinistrorsa, oggi amaramente e visibilmente predominante in quel di Milano, finirà sfortunatamente col prevalere, la lingua italiana verrà praticamente esclusa all’interno di quello specifico gruppo di studenti. Con essa, andranno a farsi benedire (stavolta è proprio il caso di dirlo) valori, usanze tradizioni culti connessi al nostro mondo. Al nostro essere Italiani, al nostro essere popolo. La conseguenza più evidente ed immediata sarà dunque, com’è facile peraltro prevedere in certi casi, un ulteriore, evidente ed allarmante caso di emarginazione della nostra lingua, della nostra cultura. Un altro, preoccupante caso di oscuramento della nostra identità, che andrebbe ad aggiungersi a numerosi altri e che non sarebbe di sicuro da prendere alla leggera. Se queste sono le premesse, ecco allora che l’irenico, quanto fantasioso, progetto di una scuola in cui bambini di culture e religioni diverse crescono insieme, credendo in quelli che possono ritenersi valori comuni, sfiorisce dunque prima di sbocciare. Il perché è presto detto. Una classe, anche una sola classe con una presenza di studenti italiani praticamente pari a zero significa, di fatto, la palese estromissione degli Italiani da un ambito fondamentale della società. La scuola. Equivale a dire a bambini, genitori, insegnanti italiani, di non impacciarsi dei fatti altrui, ma di ritirarsi un buon ordine e, soprattutto, in silenzio e senza creare problemi. Tutto questo viene rivolto a chi, in realtà, abita in casa propria e calpesta, va ricordato, il suolo natio. Se, dopo aver chiamato in causa Manzoni, vogliamo scomodare anche il grande Virgilio, ecco che possiamo trovare nelle Bucoliche un verso adatto alla situazione, rivolto anch’esso a dei lombardi altrettanto sfortunati, anche se per motivi diversi da quelli qui esposti. Esso suona così: Haec mea sunt: veteres migrate coloni. Ed ancora una volta, o per forza o per amore, il lombardo di cui sopra (ma la metafora è tragicomicamente valida per tutti gli italiani) dovrà dunque fare le valigie e andarsene prontamente. Altro che pretendere, lombardi ed italiani, bontà loro, di poter ancora preparare alberi e presepi per commemorare e festeggiare, il giorno di Natale, la nascita di Cristo! Così facendo, infatti, mancherebbero di rispetto a chi non coltiva la loro stessa fede e...se iniziano ad esistere intere classi con una fede e con dei culti totalmente contrari, se non addirittura opposti, ai nostri, noi quale fine sarà riservata ai nostri valori ed alle nostre tradizioni? Forse, dovremmo cambiare Paese? O, meglio andarcene a quel paese? Anche la più abbondante e consolidata dose di pazienza e di bontà vacilla davanti ad un incalzare così pressante ed intollerante, volto esclusivamente a farci dimenticare
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il più presto possibile la nostra già malcerta e, purtroppo, anche risicata identità. Viceversa, gruppi classe sapientemente ed oculatamente articolati, costruiti e coordinati in base al saggio, efficace e praticabile obiettivo di realizzare un’effettiva, reciproca conoscenza e condivisione dei valori educativi essenziali, rappresenterebbero una dimensione totalmente diversa e contribuirebbero ad indicare una prospettiva assai diversa dal soffocante contesto in cui si dibatte la tragica, grigiastra realtà quotidiana. I vari modelli didattico-organizzativi realizzati nei vari Stati dell’Unione Europea, soprattutto in Francia ed in Germania, sembrano avere in comune un elemento d’indiscutibile valore, che è quello dell’integrazione nel contesto culturale del territorio, in base alla formula che è l’identità del territorio ospitante quella al cui interno i cittadini stranieri (e soprattutto i loro figli) vanno guidati ed accompagnati. E la conoscenza, ovvero l’uso, della lingua dello Stato che li ospita è, davvero, la condizione imprescindibile perché ciò accada e si realizzi senza tante false remore. Qualche secolo fa, nel pieno del dilagare della Riforma luterana, nelle contrade d’oltralpe si era diffuso il principio cuius regio, eius religio. A questa regola di validità universale si potrebbe ora accostare, e facendolo non si farebbe torto a nessuno, la regola, altrettanto generale ed importante, così riassumibile: cuius regio, eius sermo. Essa, se applicata con intelligenza, puntualità e buon senso, potrebbe forse aiutare a dipanare una matassa che, almeno in Italia, si fa sempre più intricata. A peggiorare la situazione intervengono anche mali di vecchia data, quali una certa insipienza della classe politica ed un generale senso di rilassatezza e di neghittosità. Elementi preoccupanti, potremmo dire, se non addirittura allarmanti. Non il contrario di ciò, dunque. Non l’annullamento dell’identità nazionale di questo o di quel popolo europeo in nome di non si sa ancora bene che cosa. Ecco perché non sono ammissibili, né affatto praticabili o realizzabili, classi all’interno delle quali la lingua italiana venga praticamente emarginata e, con essa, le nostre tradizioni, i nostri valori, la nostra fede cattolica. Noi siamo cattolici. Non siamo agnostici. Anche questo va ricordato con chiarezza e con la dovuta, necessaria fermezza. Senza barare. Senza giocare a nascondino, ecco. Bisogna che questo aspetto rimanga ben chiaro, oppure che venga ulteriormente chiarito. Chi vive in Italia, a prescindere dalla natura e dalle peculiarità del Paese di origine o di provenienza, non può non tener conto della funzione chiave svolta dalla conoscenza e dall’impiego dell’idioma nel processo di formazione di una coscienza civile e di una memoria culturale che, con il passare del tempo, possa risultare condivisa ed accettata. È dunque compito di tutti lavorare perché ciò si realizzi, perché questo tanto auspicato rinnovamento culturale passi attraverso la lingua, concreto strumento di comunicazione e fattore di promozione e di crescita umana, morale e civile. E la lingua italiana non può non essere usata nelle scuole italiane, tanto che chi sostiene candidamente il contrario fa nascere dubbi seri circa l’efficacia della proposta educativa. E, come al solito, giocare a fare i buonisti un po’ distratti non può giovare al bene dell’Italia. Meno che mai al nostro. Non classi formate da stranieri, dunque, ma un numero contenuto di bambini stranieri nelle classi italiane, accanto a tutta una serie di attività volte a coinvolgere gli stessi nel nostro affascinante e stimolante mondo culturale. E noi Italiani, soprattutto quando vogliamo, in campo culturale sappiamo stupire. E dobbiamo riuscirci anche in questo caso.
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SOLDI DI STATO - FIGLI E FIGLIASTRI
BACIATI dalla fortuna di VINCENZO PACIFICI LA GIUNTA Storica Nazionale è un organismo nazionale, polo di coordinamento dell’attività degli istituti e degli enti di ricerca storica italiani. Viene istituita con il Regio Decreto n. 1226 del 20 luglio 1934. È posta sotto tutela e vigilanza del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed ha come suoi organi diretti gli Istituti per la storia antica, per il medioevo, per l’età moderna e contemporanea e per la storia del Risorgimento. Attualmente è guidata dal prof. Paolo Prodi, fratello dell’ex capo del Governo, ed annovera tra i suoi componenti i presidenti degli istituti storici: Giardina, Miglio, Lotti e Ugolini. Mancano due membri e nonostante il lungo tempo trascorso dalla loro scomparsa (Scoppola nel 2007 e De Rosa nel 2009) né l’inconsistente ministro Bondi né il decisionista, suo successore, Galan hanno trovato il tempo per designare i successori. La premessa è stata necessaria per delineare il quadro delle strutture scientifiche, che con pari dignità e pari valore e - si pensava - parità di diritti, si occupano del settore storico sia accademico sia delle società e dei sodalizi locali. Perché l’inciso sulla parità di diritti? Perché questo principio, elementare e logico, da sempre osservato e da tutti rispettato, appare superato, addirittura infranto, dall’approvazione definitiva, avvenuta al Senato il 13 settembre di quest’anno, di una proposta di legge, presentata il 6 ottobre 2009, da 16 deputati, di cui 15 dell’allora maggioranza (alcuni sono attualmente nel FLI) ed 1 del PD. Prevede la «concessione di contributi per il finanziamento di attività di ricerca sulla cultura latina del medioevo europeo». Il primo proponente, Barbieri, fornito di diploma di maturità scientifica e consulente aziendale, è affiancato da altri sconosciuti cultori della storia medioevale, nella quale - tutti sanno - quanto sia essenziale la conoscenza della lingua latina e di quella tedesca nella quale hanno scritto molti tra i più accreditati studiosi a livello mondiale. A Montecitorio il progetto, dopo una lunga sosta in commissione (novembre 2009-2010), è discusso in aula tra il 31 gennaio ed il 2 febbraio del 2011. Uno dei sottoscrittori della proposta, Barbaro, al momento del voto finale, ricorda i 4 enti «baciati dalla fortuna»: l’Istituto storico nazionale, il Centro italiano di studi sull’alto medioevale, la Società internazionale per lo studio del medioevo e la fondazione «Ezio Franceschini», di cui non si riesce onestamente ad afferrare la connessione con gli studi del periodo. È facilmente immaginabile la condivisione al progetto espressa da un rappresentante della Lega Nord, che certo non censura l’esclusione dai contributi, nell’anno celebrativo del 150° della proclamazione del Regno, dell’Istituto per la storia del Risorgimento. Merito va reso all’onorevole Lanzillotta, che, senza negare il peso degli enti, raggiunti da una «legge mancia»
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di 2 milioni di euro, denunzia la mancanza di un provvedimento di carattere generale a tutti gli enti di ricerca, senza distinzioni di sorta. La Camera approva con 291 sì, 4 no e 190 astenuti. Al Senato l’iter inizia con l’esame in commissione, avviato nel febbraio e concluso a luglio, mentre la discussione in aula è aperta il 5 settembre ed all’epilogo si giunge 8 giorni più tardi. Il porro unum non è la denunzia del provvedimento in sé quanto la sanzione di uno squilibrio immotivato e irragionevole, la nascita - in termini poveri ma eloquenti - di figli e figliastri. La maggioranza, rimproverata da più parti per la sua disattenzione verso la cultura, non si lascia sfuggire l’occasione per palesare una miopia, resa tangibile dal dibattito in aula. Il relatore, insegnante di chimica e scienze naturali, lascia basiti nel momento in cui, pur ammettendo che «sarebbe stato preferibile ampliare ulteriormente la platea degli istituti beneficiari», osserva, con la solita ed abusata giustificazione della difficile congiuntura economica, che «è comunque preferibile non rinunciare a stanziamenti per i quali è già prevista una copertura». Lo stupore non diminuisce nel leggere le parole di un senatore umbro, che, dopo aver fatto ricorso alle motivazioni arcinote, conclude con un’affermazione, sensata in altre occasioni ma assolutamente impropria in ambito culturale, «è più opportuno concentrare le risorse anziché frammentarle». E meno male che un altro membro dell’assemblea, professore universitario di diritto romano, si sia ricordato di sollecitare, seppure in modo del tutto incidentale, un discorso generale, che interessi e coinvolga anche l’Ottocento ed il Risorgimento. Ci voleva ma onestamente non basta davvero per cancellare il giudizio sulla debolezza, la parzialità e quindi l’inopportunità della misura legislativa adottata. P.S. - Al 3 ottobre, giorno della chiusura dell’articolo, la legge non risulta ancora pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.
IL SISTEMA COMUNISTA (Gianni Isidori, il Borghese 28 Aprile 1974)
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IL SINDACATO IN ITALIA
COME sta cambiando di NAZZARENO MOLLICONE IL 2011 sarà indicato come una data fondamentale nella storia del sindacalismo in Italia dal dopoguerra. Molti gli eventi, legislativi e contrattuali, politici e sindacali, che hanno caratterizzato la nuova fase del mondo sindacale italiano, indicando una svolta di tipo strategico. Per comprenderlo occorre partire da due premesse principali. La prima riguarda la composizione del sistema sindacale italiano. Dopo l’«autunno caldo» del 1969 ed il successivo periodo di «contestazione globale al sistema» di potere, si affermò il ruolo egemone della CGIL, legata al PCI, che grazie alla sua forza organizzativa ed alla soggezione psicologica che imponeva alle altre due confederazioni collegate, la CISL e la UIL (la CISNAL era stata estromessa dai tavoli delle trattative per un imposizione dell’allora segretario generale della CGIL, il comunista Luciano Lama) - aveva una specie di diritto di veto e di decisore finale su qualsiasi questione. La seconda premessa si riferisce alla situazione produttiva ed economica nazionale, profondamente mutata dagli anni ‘70. Mentre in quell’epoca esistevano grandi fabbriche con decine di migliaia di addetti, negli ultimi lustri la tecnologia (soprattutto l’informatica e la robotica) ha ridotto enormemente il numero dei dipendenti delle grandi imprese, come risulta dai dati dell’ISTAT che ne segnalano la costante, anche se leggera, diminuzione: ed è noto che era proprio nelle grandi fabbriche che il sindacato raccoglieva il maggior numero di propri aderenti e poteva incidere maggiormente con scioperi e richieste contrattuali. La globalizzazione - Nel frattempo, poi, ci si è messa anche la cosiddetta «globalizzazione» e «liberalizzazione dei mercati», dovuti in gran parte ai Trattati dell’UE ma ancor di più alla costituzione, nel 1995, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che ha aperto le porte alla Cina, all’India ed ad altri Paesi «emergenti». Poiché la globalizzazione si è attuata senza imporre contemporaneamente regole minimi per quanto riguarda la tutela giuridica ed economica del lavoro (contrariamente a quello che chiedeva l’Organizzazione Internazionale del Lavoro), si è realizzata di fatto una concorrenza sleale basata sui minimi costi del lavoro che ha comportato da un lato l’importazione in Italia di prodotti a prezzi bassissimi, costringendo alla chiusura le omologhe aziende produttrici nazionali; e, dall’altro, al trasferimento all’estero, in Europa e fuori d’Europa, di produzioni prima effettuate in Italia lucrando sul basso costo del lavoro locale (si pensi ad esempio alla Romania, alla Polonia, alla Turchia, etc.). La conseguenza di ciò è stata una crescita della disoccupazione e la spinta per comprimere verso il basso i diritti e le retribuzioni dei lavoratori italiani, per avvicinarli il più possibile alla concorrenza internazionale. Cosa doveva fare allora il sindacato dinanzi a questa situazione? Non potendo bloccare la globalizzazione mediante l’imposizione di dazi doganali, che l’Unione Europea e
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l’OMC proibiscono, bisognava cercare di difendere quanto più possibile le produzioni nazionali trovando un compromesso accettabile tra mantenimento dello status quo giuridicoretributivo e riduzione del costo del lavoro, e soprattutto tentando di difendere il più possibile la permanenza in Italia delle imprese che erano tentate di spostare la produzione all’estero. La contrattazione aziendale ed il caso «FIAT» -D’altra parte, si faceva sempre più forte la tendenza, sia da parte datoriale che da parte dei sindacati più responsabili, l’opportunità di stipulare contratti aziendali in deroga a quelli nazionali per regolamentare meglio tutte le materie relative all’organizzazione produttiva con possibili ricadute positive come partecipazione ai risultati aziendali da parte dei lavoratori. In questo senso vi era stato un accordo interconfederale il 15 aprile 2009 ed il governo volle favorire la contrattazione aziendale disponendo la tassazione forfettaria del 10 per cento sugli incrementi retributivi dovuti alla maggiore produttività. Queste problematiche sono apparse apertamente all’opinione pubblica con il caso FIAT di Pomigliano d’Arco prima, e poi di Mirafiori. La FIAT, sotto la guida del nuovo amministratore Marchionne, era tentata di trasferire alcune produzioni all’estero, chiudendo lo stabilimento di Pomigliano e ridimensionando gli altri. L’unica condizione per rimanere era quella di rivedere alcune normative proprie del contratto nazionale per favorire la massima attività produttiva, e lo strumento sarebbe stato proprio uno specifico contratto aziendale. Cosa che fu fatto, prevedendo tre turni di lavoro di otto ore ciascuno; l’aumento, in caso di forte attività, delle ore di straordinario rispetto al massimo fissato dal contratto nazionale; sanzioni per i tassi di assenteismo anomali e non dovuti a comprovate malattie, ed altre cose ancora. Questo contratto, stipulato nel mese di giugno del 2010, vide un fatto eccezionale nella vita sindacale italiana: fu stipulato da CISL, UIL, UGL (il sindacato nato dalla trasformazione della CISNAL) ma non dalla CGIL. Quindi, in una delle principali fabbriche italiane, in un contratto molto importante, la vecchia «unità sindacale» della cosiddetta «triplice» si ruppe. Non soltanto, ma quel contratto fu sottoposto a referendum confermativo da parte dei lavoratori interessati, ed il voto ratificò la firma del contratto: determinanti furono i voti degli iscritti all’UGL che, se si fossero dimostrati contrari, avrebbero annullato non soltanto quel contratto, ma anche le prospettive dell’azienda di Pomigliano ed il futuro dei lavoratori occupati. Contraria rimase la CGIL, soprattutto il suo sindacato dei metalmeccanici FIOM. La cosa si ripeté anche allo stabilimento «principe» della FIAT, Torino Mirafiori, con lo stesso risultato e gli stessi protagonisti. Ne nacque poi una vertenza giudiziaria, attuata dalla FIOM, non commentabile qui per i suoi aspetti giuridici ma che ha confermato la validità dell’accordo aziendale. Questa importante svolta nel quadro sindacale italiano non è rimasta isolata, perché un anno dopo l’accordo di Pomigliano , fu stipulato - con CISL, UIL, UGL ed in questo caso anche CGIL - un altro accordo, questa volta confederale con la Confindustria, il 28 giugno scorso. Nell’accordo si riconferma che l’obiettivo della contrattazione aziendale è quello di favorire il sistema produttivo, e quindi l’occupazione e le retribuzioni, esaltando nel contempo la centralità del lavoro, partendo dal presupposto che quel tipo di contratto, più vicino al lavoratore, tiene conto delle specificità aziendali, anche in relazione ai contesti territoriali. Il contratto nazionale non viene annullato, esso però regolamenta princìpi generali validi per tutti gli appartenenti ad una
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determinata categoria, a prescindere dalla grandezza dell’azienda e dai suoi problemi specifici. In tal modo, quindi, con il contratto nazionale vi è un appiattimento verso il basso perché deve essere sopportabile anche dalle piccole aziende, con pochi dipendenti, L’accordo del 28 giugno scorso ha avuto poi un’importante ratifica giuridica perché è stato richiamato nell’art. 26 della legge n. 111 del 16/7/2011 (la «manovra finanziaria» di luglio) e nell’art. 8 del decreto n. 138 del 13/8/2011 (la successiva manovra di agosto) per rafforzare il ruolo della contrattazione aziendale ed agevolarla fiscalmente ove raggiunga determinati obiettivi.
DOPO «S&P», «MOODY’S» E «FITCH»
La presenza dell’«UGL» - Ma non vi è stato soltanto questo, nel mondo sindacale. Proprio in relazione all’ultima manovra di Ferragosto, la CGIL - trascinandosi dietro, con qualche malumore interno, il PD - ha proclamato uno sciopero il 6 settembre. CISL ed UIL non hanno aderito, anzi hanno fatto qualcosa di più: hanno organizzato il 1° settembre scorso a Piazza Navona una manifestazione sindacale (ma non sciopero) di critica ad alcuni punti della manovra, coinvolgendo anche l’UGL la quale è stata presente sul palco con il suo segretario Giovanni Centrella ed in piazza con migliaia di aderenti sventolanti le loro bandiere. Quindi, a settembre si è registrato, dopo gli eventi della FIAT dello scorso anno, una palese rottura della vecchia unità sindacale fondata sulla «triplice» CGIL-CISL-UIL ma soprattutto sul diritto di veto che si riservava di fatto la CGIL su ogni questione, e l’avvio di una collaborazione, anche palese, tra il sindacato di origine cattolica CISL, quello di origine socialista e repubblicano UIL e quello di origine socialnazionale l’UGL, mentre è stato confermato il ruolo fondamentale che dovrà avere la contrattazione aziendale soprattutto allo scopo di rafforzare la produttività delle imprese e la loro competitività.
FINO a qualche mese fà, il declino italiano era l’argomento principale per giornali e televisioni, un declino analizzato in ogni suo aspetto, e, sopra il dibattere, il litigare, l’approfondire questo triste declino, aleggiava un solo sentimento: l’angoscia per l’incerto futuro. Adesso l’abbiamo qui quel futuro ipotizzato e temuto e non si parla più di declino, ma, appropriatamente, di decadenza. Esorcizzata, questa decadenza, dai pochi segnali favorevoli, un po’ enfatizzati e sbandierati, primi fra tutti la capacità della nostra gente di sopportare e di fare del risparmio un dogma e un dovere il provvedere, in famiglia, a quelle funzioni assistenziali che lo Stato, a corto di disponibilità, non può assicurare. Magra consolazione, comunque, quando ogni giorno si deve passivamente assistere all’erosione dei risparmi, al ridimensionamento del valore dei titoli sottoscritti con fiducia e nella certezza del vecchio adagio «lo Stato non fallisce». Risparmi che l’uragano dei mercati condanna, quotidianamente, alla ghigliottina. E quanti di noi, con figli grandi, in età da lavoro, trascorrono notti insonni ed agitate ad immaginare un futuro per queste generazioni allevate nel benessere fittizio, benessere, anche questo, a tempo determinato? Dati Istat indicano, grande novità per le nostre consuetudini, un abbandono da parte delle famiglie, della propensione al risparmio: un punto e mezzo percentuale in meno rispetto al secondo trimestre del 2010. Dobbiamo tornare indietro al 2000, quando nel primo trimestre di quell’anno si toccò la percentuale più bassa del risparmio famigliare, pari all’1,2 per cento. La propensione al risparmio sarà caduta o i risparmiatori, in maggioranza, non hanno più margini per accantonare il denaro? Con l’aumento indiscriminato di tutti i prezzi e con i prossimi, negativi effetti determinati dall’IVA appesantita di un punto, i nuclei famigliari e non soltanto, non dimentichiamo gli anziani soli titolari di esigue pensioni, vedranno diminuire ulteriormente le loro già modeste capacità d’acquisto. All’impossibilità di accantonare parte del reddito, si è aggiunta l’insicurezza sulla gestione del risparmio già investito: troppa ansia viene diffusa dai media sulla sorte della moneta unica e sulla tenuta dei titoli di Stato, con il risultato di aggiungere incertezza su valori che, soltanto ieri, erano comunemente considerati i più solidi del mondo; in pratica si è creata una corsa affannosa al superiore rendimento, che il giorno successivo viene regolarmente superato dalle nuove emissioni. Dobbiamo considerare come l’aumento dell’IVA in vigore dal 17 settembre sia stato, in realtà e come preventivato dalle Associazioni dei consumatori, ben più consistente, per le tasche degli Italiani, del punto stabilito: il Codacons ha dichiarato che «…Se l’IVA passa dal 20 per cento al 21 per cento non significa che un bene che prima veniva un euro ora passa ad un valore di 1,01; bisogna scorporare e considerare il prezzo del bene senza l’IVA, e su quello applicare l’IVA maggiore al 21 per cento». Infatti l’aumento dell’aumento è piombato su tutte le merci ed i carburanti, benzina in testa,
La partecipazione - A ciò aggiungasi la sempre più forte spinta verso la partecipazione dei lavoratori all’andamento ed ai risultati aziendali, tematica che - in contrasto con il principio marxista della lotta di classe - è sempre stato proprio alla dottrina sociale cristiana, a quella mazziniana ed a quella del sindacalismo nazionale. E non a caso le Confederazioni che s’ispirano a questo principio si trovano oggi unite! A ciò aggiungiamo che lo stesso Governo, nella persona del ministro del lavoro Sacconi, guarda con favore alla partecipazione tanto che il 9 dicembre 2009 è stato sottoscritto presso il Ministero del Lavoro un «avviso comune in materia di partecipazione» che, in premessa, afferma testualmente: «l’economia della partecipazione è la soluzione che concilia la solidarietà tipica del modello sociale europeo con l’efficienza richiesta dal mercato globale; «l’economia della partecipazione presuppone un modello d’impresa sempre più attento al valore della persona e un modello di sindacato quale soggetto attivo dello sviluppo; «la partecipazione dei lavoratori ai risultati d’impresa può contribuire a fidelizzare i dipendenti, a stimolare la qualità dell’occupazione e la crescita della produttività del lavoro». In questo modo, le Parti Sociali intendono cercare di difendere la tradizione sociale nazionale e nello stesso tempo la presenza delle imprese, con la finalità di far rimanere l’Italia nell’ambito delle Nazioni più industrializzate, mentre appare superato ed anche non condiviso dai lavoratori interessati quel sindacato, come la CGIL, che rimane legato agli schemi degli anni settanta del secolo scorso.
DECLASSATI e tartassati di ALESSANDRO P. BENINI
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che è volata ad 1,70 euro. Come sempre, in queste circostanze,sono mancati i controlli, che dovevano essere attivati preventivamente, prima dell’entrata in vigore della manovra. Se è vero che alcune aziende primarie nella produzione di capi d’abbigliamento hanno rinunciato ad alzare i prezzi dei loro articoli, è anche vero che la maggioranza dei prodotti quotidianamente acquistati dai consumatori hanno subìto «ritocchi» in media del 7 per cento. Ancora una volta le famiglie pagano l’ignavia governativa e premiano, loro malgrado, la rapacità dei furbi. Un altro fenomeno, poi, giunge a confermare la negatività del periodo: l’acquisto della casa, bene primario per gli Italiani, segna una battuta d’arresto, con un 7 per cento negativo nel secondo trimestre; non altrettanto, però, per quanto riguarda il costo degli immobili, ben fermi ai vertici e, anzi, in alcuni casi, con un incremento dello 0,50 per cento. Evidentemente, i potenziali acquirenti preoccupati per il crollo di tutte le certezze e per la volatilità del costo della vita ci pensano due volte prima di caricarsi l’onere di un debito consistente, e la flessione del 20 per cento delle richieste di mutuo è a confermarlo. Anche le retribuzioni, con l’inflazione in gara con i prezzi, sono ferme, e tutte le manovre, andranno ad incidere sulle zone disagiate del nostro Paese. Il meridione ha subito una perdita di occupazione di oltre 300mila unità, portando il livello alle percentuali di dieci anni fa. In Campania, Calabria e Sicilia, la popolazione in età da lavoro in attività è soltanto il 40 per cento del totale. Al Sud, dunque, ad avere un lavoro stabile, è il 20 per cento dei giovani, contro il 38 per cento del Centro-Nord. E per le donne il lavoro rappresenta soltanto il 23 per cento della popolazione femminile, mentre nelle regioni centrali e settentrionali a lavorare sono il 57 per cento delle donne. Sull’altare di questa complessa crisi, per la prima volta da cinquant’anni, sono stati sacrificate le matricole universitarie: nelle Università del Sud, infatti, le iscrizioni sono scese dal 73 per cento al 60 per cento. Brutto segnale, quest’ultimo, come quello della ripresa massiccia dell’emigrazione intellettuale. Una prospettiva drammatica, rafforzata dal «rapporto Svimez», che prevede, nel prossimo quarantennio, un meridione ancor più dipendente dall’assistenzialismo e sempre meno popolato, non soltanto per emigrazione e disperazione, ma per una drastica diminuzione della natalità. A tutti questi mali non risulta estranea la mancata realizzazione di «grandi opere» per complessivi 358 miliardi, come sancito dalla «Legge obbiettivo» di dieci anni fa: soltanto quattro miliardi sono stati impiegati nel nostro Meridione. È decadenza, dunque, stigmatizzata, con un certo compiacimento dalle agenzie di rating statunitensi, evocata spesso e volentieri dai vertici economici e politici di quell’Unione Europea di cui l’Italia è stata tra i fondatori. Le nostre aziende, quelle grandi, che operano in tutto il mondo, hanno subìto anche loro un declassamento e, francamente, non troviamo altro motivo se non quella invidia che perseguita da sempre il nostro Paese. Indubbiamente, anche lo spettacolo della politica non gioca a nostro favore. Un esecutivo che subisce, per forza di cose, le iniziative leghiste, un parlamento bloccato su temi che non toccano minimamente l’interesse della gente, presa dalla lotta quotidiana con i problemi economici ormai ingigantiti, con ministri della Repubblica che apertamente invocano le secessione, senza che nessuno, a parte il Capo dello Stato, abbia il coraggio di dire la parola basta a queste stupidaggini pericolose, massimo esempio di grettezza ed oscurantismo. Tutto questo, naturalmente, provoca nel mondo diffidenza per le nostre istituzioni con le conseguenze note. Un amico straniero mi ha telefonato chiedendomi dove si trova la «Padania», visto che l’atlante in suo possesso non la indica. Per adesso.
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MENTRE IL «G7» DORME
LA CINA SI DÀ alle biomasse di FRANCO LUCCHETTI IN REALTÀ, nessuno si aspettava che il G7 di Marsiglia portasse cambiamenti sostanziali e decisioni concrete tali da incidere positivamente sul corso dell’economia mondiale nel periodo difficile che stiamo vivendo. Infatti, i risultati usciti dall’importante consesso dei Ministri delle Finanze sono a dir poco insoddisfacenti. Anzi, potremmo dire deludenti. La pressante crisi finanziaria ed economica che incombe ormai da anni sulle nostre teste imponeva una determinazione ed una celerità che doveva essere senza indugi, non legata ai tempi della politica. La crisi economica impone alle grandi economie avanzate di rompere gli indugi e mettere da parte le differenze di vedute per trovare uno spirito di rinnovato coordinamento sulle ceneri di quello del 2008. La crescita dell’economia in Europa è quasi nulla, i debiti pubblici degli Stati si riflettono sui mercati, le borse continuano a non registrare un momento favorevole, il mercato finanziario è instabile. «Vogliamo dare una riposta molto forte a queste sfide», aveva affermato Francois Baroin, ministro francese dell'Economia, dopo il peggioramento delle tensioni di mercato. Ma la prima giornata dei lavori è stata accompagnata da una nuova ondata di crolli a catena delle Borse mondiali. Non poteva iniziare in maniera peggiore il vertice riunitosi per trovare strumenti adatti a sostenere una crescita economica che anche in Germania ha dato segni di rallentamento a causa della crisi del debito pubblico degli Stati membri dell’eurozona. Il capo economista della BCE, Juergen Stark, si è dimesso tre anni prima della scadenza del suo mandato (che doveva decorrere nel 2014) perché in disaccordo con la politica di sostegno a Paesi come l’Italia e la Spagna attraverso l’acquisto dei loro titoli di Stato. Anche la decisione riguardo la Grecia circa la prima quota degli aiuti internazionali per evitare il default, era stata rimandata; chiaro elemento di una politica che non ha bene le idee chiare sul da farsi. La decisione delle dimissioni a sorpresa di Stark, non contraria la Merkel, sono state interpretate come l’espressione della volontà del governo di Berlino di non sostenere più i Paesi dell’euro che non sono in grado di controllare la dinamica della spesa pubblica e sottoposti alla speculazione finanziaria degli ambienti aglo-americani. L’indiscrezione di questa interpretazione filtrata dalle agenzie di stampa, ha fatto crollare le Borse e ha spinto al ribasso le quotazioni dell’euro sul dollaro e sulla sterlina. Ciò significa che la Germania non è più disponibile a salvare Paesi più deboli che dovranno continuare la loro corsa verso la riduzione del debito interno e della spesa pubblica per ridurre il disavanzo, come il Portogallo e l’Irlanda, oltre alla Grecia. Anche l’Italia, insieme alla Spagna, è considerata un Paese «cicala», ma la nomina di Mario Draghi alla BCE, che prende il posto del francese Jean Claude Trichet, ha in qualche modo aiutato la stessa Italia a non incappare nella stessa situazione di Portogallo e Irlanda, anche se la Germania lo ha votato a denti stretti, frutto soprattutto di una mancanza, al
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momento, di alternative autorevoli. Inoltre, agli occhi di Berlino, Draghi viene visto con sospetto sia per il suo passato di Goldman Sachs (una delle banche d’affari più grandi e affamate del mondo) che per la sua vicinanza a logiche atlantiche e anglo-americane, ed a questo si aggiunge il fatto di essere un esponente di un Paese a «rischio» come l’Italia. Il G7 nato per tentare di trovare una strada alla crisi economica che si basasse su un accordo e un programma comune tra i Paesi partecipanti, si è concluso solamente con le intenzioni di portare avanti il tema del consolidamento dei bilanci dei Paesi membri come risposta alla crisi generale del sistema economico internazionale. I mercati, da questo incontro, sono rimasti abbastanza delusi, facendo crollare i listini del Vecchio Continente. La questione preoccupante è che queste turbolenze dei mercati, insieme all’indecisione che ha regnato nel Consesso, hanno causato, ancora di più, la volatilità dei prezzi delle materie prime, dove la situazione rimane preoccupante. Mais e benzina sono a livelli folli. L’andamento dei prezzi delle Commodities è il barometro della crisi finanziaria che scuote le borse mondiali. I prezzi di soia, e grano sono aumentati ancora del 10 per cento, vittime della speculazione della finanza internazionale, che aumenta i prezzi a suo vantaggio senza pensare alle conseguenze che possono essere disastrose. Uno dei fattori principali dell’aumento del prezzo delle Commodities, rimane l’uso crescente delle materie prime per produrre carburante (il mais negli USA, è destinato per il 40 per cento al settore dei biocarburanti). Ciò significa che i prezzi del cibo e dell’energia sono oggi più collegati che mai. Questo provoca diversi fenomeni. Primo fra tutti il divario tra i Paesi a economia avanzata e i Paesi emergenti con un sistema economico debole, fragili dal punto di vista ambientale e fortemente dipendenti dalle importazioni di cibo, che potrebbero non sostenere il prezzo crescente delle derrate. Questo problema potrebbe interessare anche quei Paesi a economia avanzata, perché un'altra questione delicata e molto pericolosa è il tragitto che queste materie prime percorrono prima di arrivare sulla tavola. Aumentando il prezzo del petrolio, aumenta il carburante che è necessario per far funzionare i trattori e le macchine agricole, e di conseguenza aumentano i prezzi degli alimenti. Nel frattempo la domanda di cibo è in crescita e le diete, sempre più variegate, stanno cambiando, soprattutto nei Paesi emergenti come Cina, India e Brasile. Per produrre un chilo di carne, occorrono diversi chilogrammi di grano, quindi all’aumentare della richiesta di carne, la richiesta del grano quadruplicherà. I vertici mondiali e il G7, ne devono tener conto e dare risposte concrete. La situazione che stiamo vivendo richiede strategie precise. Questa situazione ha portato all’aumento nel mondo delle centrali di biomasse per la produzione di energia elettrica. L’aumento delle centrali, che in Europa è intorno a 1.000, e soltanto in Brasile ce ne sono 400, deriva dall’impulso dato alle fonti rinnovabili con forti incentivi. Nei prossimi anni, sarà l’Asia il mercato principale delle centrali del nuovo mondo, grazie agli incentivi attesi in Cina e India. Infatti, la stessa Cina, è impegnata ad acquistare grandi spazi in Africa e nel Sud del mondo per creare piantagioni di alberi per la produzione di legname destinate alle biomasse da bruciare in Europa al posto del gas e del costoso petrolio. Questa strategia potrebbe portare alle stesse domande che ci poniamo per biocarburanti e agroalimentari. Soprattutto riguardo agli impatti sulle popolazioni locali che costituiscono la parte della popolazione più povera del mondo che oggi soffre maggiormente per l’aumento dei prezzi delle Commodities.
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PER AFFRANCARSI DAL PETROLIO
L’EUROPA torna alla terra di ALBERTO ROSSELLI L'ITALIA accelera sui biocarburanti «avanzati» e prova ad imitare i Paesi più attenti alla sostenibilità ambientale e al risparmio, anche con l'obiettivo di migliorare la produzione interna di energia e dipendere meno dai giacimenti mediorientali e africani, ormai ad alto rischio di sommosse e guerre. Di questo si è discusso nel corso del XIX° Simposio sul Biofuel, che si è svolto a Veronafiere dal 10 al 14 ottobre. La strategia europea (e italiana) punta dunque ad un incremento e ad un perfezionamento tecnico-produttivo del nuovo comparto energetico: settore, supportato, tra l'altro, da alcuni importanti quanto necessari provvedimenti legislativi. Nell'Unione europea, infatti, sulla scorta delle Direttive 28 e 30 del 2009, nel 2011 diversi Stati Membri hanno aumentato di molto, rispetto al 2010, le quote nazionali di miscelazione dei biocarburanti. Così l'Italia (passata da 3,5 a 4 per cento), la Polonia (da 5,75 a 6,2 per cento), Spagna (da 5,83 a 7 per cento), Bulgaria (3,5 a 5 per cento), Danimarca (adotta per la prima volta una quota del 3,5
(Dal sito www.ecosystemdiscovery.com)
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CAPITALISMO «VAMPIRO» STA apparendo, a meno di imprevisti, quel che uscirà dalla crisi economico-finanziaria, la quale ci sta facendo ingoiare bocconi acri: una terrificante sottrazione di reddito da numerosi ceti in favore dei ricchi. L'ho scritto, riscritto, insisto, continuo a dirlo: se non usciamo tutti con le ossa spezzate, i pensionati, i giovani, gli impiegati, più che gli stessi lavoratori operai, o insieme a costoro, ricorderanno i nostri anni come i peggiori della loro e nostra vita. Ci rimetterà il modello del «benessere», specialmente i servizi, quelle comodità a cui ci siamo, per alcuni decenni che sembrano un'eternità, assuefatti, e che sarà durissimo sradicare. La tendenza è questa. Se tra le nebbie del caotico futuro scorgiamo qualcosa, lo individuiamo nell'impoverimento di nuovi ceti: i pensionati, gli impiegati, i giovani, oltre agli operai. E nella strettura dei servizi. Perché questi ceti e i servizi devono ricevere tale compressione? Per evitare il disavanzo. Ma è un falso. In verità, attraverso il fine della eliminazione del disavanzo, questione seria ma opportunisticamente esagerata, si cerca di dissanguare operai, pensionati, impiegati, giovani. Avendo difficoltà a conquistare profitto, il capitalismo dissangua altre fasce sociali e rovina i giovani. Sosterrò sempre, che dal capitalismo munifico che si arricchiva mediante i consumi, siamo al capitalismo «vampiro» che si arricchisce contro i consumi. Le ragioni sono molte, basta accennare che ormai c'è tanto lavoro, il capitalismo può spingersi a usare lavoratori al ribasso, anche se non è questa l'unica motivazione del capitalismo contro i consumi. I fatti: si è aumentata l'IVA dell'1 per cento, nella recente manovra economica, i prezzi sono cresciuti, dicono i giornali, fino al 7 per cento, il che significa ridurre i consumi. Più grave è la speculazione che le banche compiono sui titoli di Paesi in difficoltà ma che ricevono aiuti, sì che i titoli riprendono valore e le banche, rivendendoli, ne hanno vantaggi enormi, al dunque, gli aiuti che diamo a Paesi in difficoltà finiscono a vantaggio delle banche, le quali minacciano, se si volesse impedire la loro speculazione, di vendere titoli di altri Paesi facendoli crollare! Si inserisce in quest'insieme una frenetica attività degli industriali nella speranza di un loro futuro politico e nella pretesa di risolvere la crisi privatizzando e aumentando l'età pensionabile e imponendo una piccola forma di patrimoniale che fa sghignazzare. Insomma, coma la si giri, la sfera del capitalismo mostra aspetti atroci: arricchimento, da un lato, impoverimento, dall'altro. Usciremo dalla crisi, quando perfezioneremo la speculazione e l'impoverimento?! Coloro che strepitano in favore di una politica liberale, privatistica vogliono soltanto aumentare la presa sull'esistente. Tra qualche tempo chiederanno la privatizzazione del Partenone e dei dipinti di Giotto. Vedrete se non sarà così. Ma dico io, esiste un popolo, una coscienza popolare, una difesa, un argine «politico», civile a questo trionfo dell'affarismo senza altro scopo che l'affarismo? ANTONIO SACCÀ
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per cento). E tali incrementi sono stati in qualche modo sollecitati, oltre che da considerazioni di carattere economico-ambientali, anche dalla preoccupazione, ormai diventata oggettiva, di una progressiva «destabilizzazione» delle tradizionali regioni arabo-islamiche produttrici di idrocarburi. Come risultato di questo scenario, aumenta il tasso atteso con un maggior consumo di biocombustibili per trasporti in UE. Secondo EurObserv'Er (stime a luglio 2011), le vendite di biocarburanti sono passate da 1,7 milioni di tonnellate petrolio equivalente del 2009 a 13,9 milioni. Di pari passo con la crescita delle produzioni di biofuel, si sta diffondendo una visione più ampia nel settore dei biocarburanti. «Sia in Italia che nell'Unione europea l'approccio nei confronti delle energie rinnovabili non considera più soltanto l'ambiente e la riduzione dei gas serra, cosa evidentemente importante e direttamente connessa all'origine rinnovabile del combustibile, ma il fenomeno dei biocarburanti viene sempre più analizzato anche da altri angoli di osservazione», afferma l'ingegnere David Chiaramonti, docente del corso di Energie rinnovabili alla facoltà di Ingegneria e presidente del Consorzio di ricerca Re-Cord. L'esempio degli USA è emblematico. Sempre secondo Chiaramonti: «negli Stati Uniti l'accelerazione reale che ha avuto il biofuel in questi anni è stata principalmente legata ad obiettivi quali l'indipendenza energetica, la sicurezza e la diversificazione degli approvvigionamenti energetici, ed il supporto alla produzione agricola interna. Il tutto di supporto alle esigenze ambientalistiche». Sta dunque avanzando una nuova consapevolezza, e cioè che attorno ai biofuel si possa edificare una «nuova economia» reale e legata al territorio, in grado di assicurare un indotto produttivo e occupazionale decisamente significativo. «Effettivamente», prosegue Chiaramonti, «progressi ne sono stati fatti parecchi, tanto che oramai la fase di ricerca si è concentrata sui biocarburanti di seconda generazione. Attraverso processi produttivi come la pirogassificazione o la steam explosion, da biomasse lignocellulosiche, come residui forestali e colture erbacee, è possibile infatti ottenere combustibili liquidi da destinare ai trasporti, con una notevole riduzione di gas serra rispetto alla corrispondente filiera fossile di riferimento.» Nel 2009, la produzione italiana dei biocarburanti ha già dato lavoro a 5.600 unità (rispetto ai 63.200 delle fonti rinnovabili) per un fatturato complessivo di 1,5 miliardi di euro (su 9,7 miliardi complessivi delle rinnovabili). E in questo senso, il nostro Paese, attraverso lo sviluppo di progetti come quello targato Gruppo Mossi & Ghisolfi sull'etanolo da biomassa lignocellulosica (l'impianto dimostrativo oggi più grande al mondo), si trova questa volta a svolgere - incredibile dictu - un ruolo di punta a livello internazionale. «Per il nostro Gruppo l'avere ottenuto, in Italia e all'estero, conferma pratica dei nostri studi rappresenta un grosso traguardo e una grande soddisfazione», afferma Guido Ghisolfi, presidente della citata Mossi Ghisolfi. «I carburanti di seconda generazione passano finalmente alla fase industriale, e il nostro impianto di Crescentino è il primo nel suo genere a livello planetario. Il bioetanolo che, a partire dal 2012, qui si produrrà, è la risposta concreta alla richiesta di mobilità sostenibile, prodotto da biomassa non alimentare coltivata su terreni marginali. Questo impianto apre di fatto la strada alla chimica da fonti rinnovabili, che tante applicazioni potrà trovare sia in Italia che nel mondo.»
FOTOGRAFIE del BORGHESE
È TEMPO DI RIVOLUZIONE: LUI HA GIÀ PRONTO IL «CACHEMIRE» (Nella fotografia, Fausto Bertinotti)
IL PARTITO PIÙ AMATO DAGLI ITALIANI (Nella foto, «L’origine du monde» di Gustave Courbet, da cache2.allpostersimages.com)
SI ISCRIVERÀ ANCHE LEI? (Nella fotografia, l’onorevole Paola Concia)
IL NUOVO VICERÉ D’ITALIA (Nella fotografia, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della «CEI»)
IL FACENTE . . . FUNZIONI (Nella fotografia, Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica italiana)
È FINITA L’EPOCA DELLE «OLGETTINE» . . . (Nella fotografia, Nicole Minetti dal sito ilvascellofantasma.it)
. . . .SI TORNA AI CHIERICHETTI (Nella fotografia, dal sito www.lavocedinocera.it)
IL TEMPO DELL’ABBONDANZA È FINITO . . . (Nella fotografia, l’attrice Maria Grazia Cucinotta, dal sito www3.pic-upload.de)
. . .. ADESSO ARRIVA LA CRISI (Dalla collezione del «Borghese»)
IL TERZO POLO PRESENTA IL «PROGRAMMA» (Nella fotografia, Francesco Rutelli)
LA SINISTRA NE PREGUSTA L’ATTUAZIONE (Nella fotografia, Nichi Vendola)
ECONOMIA IN CRISI? - «PER I COMPAGNI È UNA GODURIA» (Nella fotografia, Susanna Camusso, Segretario generale della «CGIL»)
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IL MEGLIO DEL BORGHESE
LA CRISI C’È, chi la paga? di MARIO TEDESCHI CHE LA crisi economica sia ormai una realtà preoccupante, nessuno più osa negarlo; nemmeno gli inventori del centrosinistra. Che coloro i quali l’hanno provocata e voluta oggi versino lacrime di coccodrillo, è anche evidente: Riccardo Lombardi, dopo avere imposto la nazionalizzazione elettrica al dichiarato scopo di mettere in crisi il sistema produttivo borghese (il sistema del benessere, per intenderci), ora grida che la nostra economia rischia di essere «colpita mortalmente». Che il Governo e il regime, nel momento stesso in cui fanno la gara a chi è più antifascista, stiano imboccando la strada di una nuova autarchia, è stato già detto da autorevoli fonti estere; sicché l’antifascismo verbale dei «padroni del potere» serve soltanto a nascondere il ritorno ad una condizione economica di ristrettezza, di miseria, di dirigismo, che il fascismo giustificava sul piano ideologico e compensava con l’espansionismo guerriero, mentre oggi si spiega soltanto con l’incompetenza e le ruberie e non trova compenso alcuno, su nessun piano. Mussolini dové affrontare le sanzioni, ma perché voleva conquistare l’Impero; gli antifascisti invece (l’ha scritto il socialista Francesco Forte sulla Stampa di Torino del 9 giugno) rischiano di avere le «frontiere chiuse per mancanza di soldi con cui pagare l’importazione». Che per uscire da questo guaio l’Italia abbia bisogno di nuovi aiuti stranieri, è evidente: in pratica, sia il fiduciario di Colombo, Ferdinando Ventriglia, la settimana scorsa alla conferenza mondiale dei banchieri di Williamsburg, sia altri nostri rappresentanti, questa settimana, a Washington, alla conferenza dei dirigenti economici e monetari degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone, non hanno fatto altro che batter cassa. Che gli stranieri (praticamente, Tedeschi e Americani : i soli che abbiano possibilità), non siano disposti a darci ancora soldi per vederli gettare dalla finestra o gestire dai comunisti, è d’altro canto pacifico. Proprio a Williamsburg, la settimana scorsa, dopo che Stati Uniti, Germania e Francia avevano deciso di accordarsi per combattere insieme l’inflazione, è stato affermato che, per quanto riguarda l’Italia, «il rischio per i crediti è diventato ormai insopportabile per le banche multinazionali». Così, l’Italia è stata ufficialmente accomunata, per quel che riguarda le valutazioni bancarie, ai Paesi del «terzo mondo» non produttori di petrolio. Ai morti di fame, insomma. Che, infine, i prestiti esteri non possano bastare a nulla se contemporaneamente gli Italiani non si rimetteranno a lavorare e se tutti non faranno il loro dovere, questo oramai cominciano a capirlo anche i più restii. Insomma: siamo nei guai e dobbiamo cercare di uscirne. Poiché, però, non sarà possibile salvarsi senza sacrifici, il problema è stabilire chi dovrà pagare il prezzo. E a questo punto nasce la discussione, la crisi, il contrasto, lo scontro. Sul piano politico, non c’è dubbio che il prezzo dovrebbero pagarlo democristiani e socialisti, colpevoli insieme di
questo disastro. Poiché, però, né la DC né il PSI hanno questa intenzione, e poiché il PCI non intende assumersi la gestione della crisi, si continua a dire che il centrosinistra è l’unica soluzione possibile e che il Governo di coalizione va difeso ad ogni costo. «Se, dopo il contrasto dovuto al dissenso economico, il ministero sopravvivrà, sarà soprattutto perché il PCI non vuole che cada», ha scritto Domenico Bartoli, che fascista sicuramente non è. Per cementare questa bella alleanza, e per togliere agli elettori ogni possibilità di alternativa, si fanno scoppiare alcune bombe e si scatena la campagna contro il «pericolo fascista». Così il giuoco è fatto: i «padroni del potere» restano in sella e il conto lo pagano i più deboli. E questo non avviene, come dice Guido Carli, soltanto «perché i deboli sono i più», ma perché la società italiana è ingiusta e corrotta. Il contrasto fra le due «linee», quella di Carli e quella dei socialisti, non può infatti nascondere la sostanza, che si riassume in questi termini: l’Italia è un Paese ancora formalmente libero, dove però già esistono tutte le sperequazioni fra i cittadini «comuni» e «la nuova classe», tipiche dei Paesi socialisti. Tanto è vero che, nonostante il contrasto, come vedremo, né Carli né i suoi antagonisti toccano il punto essenziale. Cominciamo da Carli. Il Governatore della Banca d’Italia dice: «Non possiamo continuare a comportarci come un Paese che, invece dei suoi cittadini, tassa quelli delle nazioni confinanti». E aggiunge: «Io non lascio: se il mio programma non va, mi invitino e tolgo il disturbo». Molto bello, molto ben detto, ma anche molto ipocrita. Perché il dottor Guido Carli non può ignorare che l’Italia è il Paese dove, al momento di fare la riforma tributaria, tutta la discussione si è accentrata sulle esenzioni, tanto che la legge di riforma si apre con un articolo che esonera il Presidente della Repubblica dal pagamento delle imposte. Il dottor Guido Carli non può ignorare che la società italiana democratica e antifascista è riuscita, a differenza del fascismo, a creare una sua borghesia; che questa borghesia (la «borghesia di Stato», come proprio lui, Carli, l’ha chiamata), annidata negli Enti statali e parastatali, nelle aziende municipalizzate, negli Istituti previdenziali e assistenziali, ha come unità di misura il milione mensile e come dimensione geografica di investimento l’Europa, se non addirittura l’America: talché vive in condizioni particolarissime di privilegio e non teme, né un’imposta patrimoniale, né altre forme di persecuzione fiscale. Il dottor Guido Carli non può ignorare (come invece ha fatto e fa) che i capitali continuano a fuggire indisturbati all’estero in modo massiccio, tanto è vero che (lo sottolinea in questo stesso numero l’amico Nencioni) la Magistratura elvetica valuta in duemila miliardi l’anno le lire che cercano rifugio nella sola Lugano. E allora, è ipocrita e inutile che Guido Carli dica : «Io non lascio: se il mio programma non va, mi invitino e tolgo il disturbo». Non c’è bisogno di comunicazioni ufficiali: il suo programma è contraddetto nei fatti da questo regime, da questa società, che, in nome dell’antifascismo, stanno realizzando l’ingiustizia sociale, giorno dopo giorno. Non parliamo, poi, degli altri. Il già citato Francesco Forte, sulla Stampa del 9 giugno, ha proposto queste misure fiscali: aumento dell’IVA; tassa sui fabbricati, soprattutto quelli esenti; acconti sui redditi diversi da quelli fissi e un’aliquota in anticipo sui redditi superiori ai quattro milioni; aumento della benzina; «ritocco» dell’imposta sulle concessioni governative. Il Forte è il Vicepresidente dell’ENI: nessuno ha pensato a dirgli che, prima di parlare di nuove tasse, avrebbe dovuto spiegare perché lo Stato (cioè
IL MEGLIO DEL BORGHESE tutti noi) deve spendere circa otto miliardi l’anno per un quotidiano (Il Giorno), o partecipare insieme ai petrolieri privati all’opera di corruzione dei partiti politici, come lo scandalo in via di «insabbiamento» ha dimostrato. Ma Francesco Forte non è solo. Il Ministro del Tesoro, Colombo, visto che le Mutue divorano i contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro senza tuttavia riuscire a far fronte ai loro impegni, ha proposto che, per sanare i debiti contratti dai vari Enti con gli ospedali (circa duemilasettecento miliardi) si emetta un prestito a carico di tutte le aziende. In pratica, questo è un modo come un altro per aumentare di 1,50 per cento i contributi, già esosi. Anche in questo caso, nessuno ha detto a Colombo che, prima di avanzare siffatte proposte, avrebbe dovuto se non altro spiegare come e perché si lasciò sovvenzionare dalla «Unione Consumatori», tanto da meritarsi una denuncia, anche questa regolarmente «insabbiata» dinanzi al tribunale parlamentare. Non è finita. Il Ministro socialista del Bilancio, Giolitti (denunciato insieme a Colombo per lo scandalo della «Unione Consumatori») e il Sottosegretario socialista alle Finanze, Machiavelli, propongono una imposta patrimoniale. Il primato della faccia tosta lo conquista il Sottosegretario Machiavelli, il quale dice: «Mi rendo conto che, se non opportunamente studiata e propagandata, la patrimoniale potrebbe creare dei contraccolpi, soprattutto sul piano psicologico; ma, aumentando l’inflazione, chi ne trae vantaggio? Chi ha beni immobili». Ammirate la logica di questo ragionamento, tutto socialista. Il rappresentante del Governo non chiede scusa per l’inflazione che aumenta, ma, addirittura, va a cercare chi «ne trae vantaggio», per tassarlo. Dimenticando che il solo ad essere favorito dall’inflazione, data la enorme massa di debiti che ha contratto, è lo Stato. Come si vede, né da una parte né dall’altra si sente enunciare la sola politica che potrebbe salvarci: per quanto riguarda le tasse, niente esenzioni, ma obbligo ad ognuno di pagare in proporzione a quel che guadagna; per quanto riguarda il lavoro, nessun esonero e nessun sabotaggio, in base al principio che chi non lavora non mangia; per quanto riguarda la spesa, ognuno spenda soltanto quello che ha, e magari meno di quel che ha, ma il primo a dare l’esempio in materia sia lo Stato. Certo, sappiamo bene che per arrivare a questo tipo di organizzazione sociale, bisognerebbe cominciare con cacciar via gli attuali «padroni del potere». Ma questo lo sanno anche gli interessati, i quali si mostrano più che mai decisi a difendere il posto. E per questo scoppiano le bombe «nere», manovrate da organizzazioni che fanno capo ad ex partigiani. Capito il trucco? (il Borghese, 16 giugno 1974)
Novembre 2011
L’ITALIA dei pretori di MARIA R. BOENSCH NON È una novità: i connotati della Giustizia sono cambiati a tal punto che gli «utenti» stentano a riconoscerne le antiche e rassicuranti sembianze. Certo, teoricamente, la Magistratura è ancora indipendente. Ma se questa indipendenza non vuole essere arbitrio, deve avere un «contrappeso» nella soggezione del giudice alla legge. Se il magistrato non soggiace alla legge, non la applica o addirittura la viola, nello spirito e nella lettera, come fanno spesso i giudici «progressisti», allora, anche la sua indipendenza (e tutte le guarentigie ad essa connesse) va a farsi benedire. Ora, nella Magistratura italiana, questo «contrappeso» è venuto a mancare; ci sono giudici che si ribellano o, come essi sostengono, «anticipano» la legge, in nome della palingenesi marxista. I «rivoluzionari del Codice», infatti, con l’alibi della interpretazione evolutiva, sono approdati ad una interpretazione arbitraria e anarchica della norma. E, naturalmente, chi ci rimette è sempre l’«utente» della Giustizia: cioè, tutti i cittadini. Così, mentre neanche il più incallito delinquente corre il rischio, in questo Paese, di una buona condanna a morte senza possibilità di appello, gli infortuni che possono capitare anche ad uno specchiato galantuomo sono innumerevoli. Ogni giorno che passa sprofondiamo sempre più nel baratro della anarchia. E siamo arrivati al punto che, se un cittadino riceve una semplice «comunicazione giudiziaria», si dà immediatamente alla macchia. Ciò dimostra la sfiducia degli italiani nella Giustizia. Le ragioni di questa decadenza sono molteplici, ma una fa premio su tutte le altre, quando lo Stato crolla, non si può pretendere che i suoi pilastri restino in piedi. Si può tentare però di puntellarne le impalcature. E molti credono che una riforma del Consiglio Superiore possa risolvere, almeno parzialmente, la crisi della Giustizia. Ma quale riforma? Certo, l’Organo di autogoverno è diventato uno strumento clientelare come, del resto, tutti i centri di potere nostrani. Gli attuali rappresentanti, infatti, sono riusciti ad occupare gli ambitissimi seggi, promettendo di appoggiare la legge per le promozioni per anzianità; e cioè, l’avanzamento «automatico» fino ai supremi vertici della carriera.
(Gianni Isidori, il Borghese 19 Maggio 1974)
Novembre 2011
IL MEGLIO DEL BORGHESE
Tra poco, perciò, la Giustizia italiana camminerà su una strada lastricata di «eccellenze» (i giudici «progressisti» sono i primi a concupire questo malandato titolo onorifico, avanzo dei prestigiosi tempi borghesi). Ma gli altri, quelli che sono rimasti fuori del Palazzo dei Marescialli, si battono per il sistema «proporzionale» per permettere soprattutto ai magistrati della estrema sinistra di entrare nel Consiglio. A questo punto, qualcuno si chiederà: «Ma perché? Forse i giudici-consiglieri guadagnano più degli altri?» Non precisamente; o perlomeno, in questa lotta, lo stimolo non è soltanto di carattere economico. Il gettone di presenza del Consiglio Superiore, infatti, è uno dei più magri: cinquemila lire, per ogni seduta (e su questo, sia detto per inciso, i consiglieri, nell’intimità, piangono tutte le loro lacrime). I maligni insinuano, però, che ci sono presidenti capaci di riunire le commissioni anche per dieci minuti. Se a questo forsennato attivismo «conciliare» corrispondesse un altrettanto rapido disbrigo delle pratiche, non ci sarebbe nulla da eccepire; ma purtroppo, la farraginosa lentezza e la deplorevole indulgenza con le quali il Consiglio affronta e risolve, per modo di dire, i «casi» sui quali deve pronunciarsi, sono diventati ormai proverbiali. E mentre il Consiglio Superiore sembra colpito da encefalite letargica, i «furieri» della Giustizia ne approfittano a tal punto che persino i politici, che pure hanno fatto del loro meglio per sobillarli, di fronte a certe iniziative, cominciano a tremare. Certo, la tentazione di diluire lo sproporzionato potere dei giudici è forte, per tutti i partiti. Cominciano a circolare, infatti, suggerimenti, consigli e progetti di legge per una riforma del Consiglio Superiore. I politicanti, è ovvio, si battono per una «accresciuta rappresentanza dei membri laici, eletti dal Parlamento». Con la definizione di «membri laici», però, si intendono i membri politici; quindi, nella malaugurata ipotesi che ciò dovesse accadere, il Consiglio diverrebbe un terreno di lottizzazione, come il Governo, come gli Enti pubblici. Attualmente, come è noto, esso è composto da sedici magistrati e da sette professori di. Diritto e avvocati, eletti dal Parlamento in rappresentanza dei vari partiti, ed è presieduto dal Capo dello Stato. Il «progetto di legge Bianco», presentato (e non è un caso) da una folta schiera di parlamentari della sinistra democristiana, propone ora di riformare il Consiglio portandolo a «due terzi» di membri «laici» e «un terzo» di magistrati. Affiorano poi, qua e là, anche fuori degli ambienti politici, promotori di riforme non malintenzionati che, esasperati dalla agonizzante debolezza di questa congrega, avanzano «proposte razionali» che sono semplicemente utopistiche. Essi suggeriscono, cioè, che il Parlamento scelga i membri «laici» al di fuori dei partiti. Come se ciò fosse possibile in un Paese dove i partiti sono diventati i predoni della vita politica, amministrativa e sociale! Una volta, la Suprema Corte disciplinare (approvata con R.D. 30 dicembre 1923 n. 2786), era composta dì sei alti magistrati e di sei senatori del Regno e funzionava egregiamente. Ma gli uomini politici di allora erano «cittadini al disopra di ogni sospetto». E dove andiamo a pescarli, oggi, i «cittadini al disopra di ogni sospetto»? I partiti si servono del Consiglio per dare un «contentino» ai deputati trombati alle elezioni oppure per sbarazzarsi degli adepti troppo scomodi. Ed è chiaro che costoro, una volta assisi sugli scanni del Palazzo dei Marescialli, vi portano le «istanze» di coloro che li hanno mandati. E non occorre spiegare di che natura siano codeste istanze per compren-
dere fino a che punto esse siano deleterie per la Giustizia. D’altro canto, così non si può andare avanti, anche perché, nonostante i fermenti sediziosi che scuotono l’ordine giudiziario, l’Organo di autogoverno non dà segni di ravvedimento, anzi. Ora, noi non abbiamo l’autorità e tanto meno la competenza per suggerire miracolose terapie, ma possediamo sufficiente buonsenso per comprendere che il malanno non si cura mettendo il Terzo Potere in balia dei politicanti. Certo, l’articolo 104 della Costituzione si può riformare ma perché non modificarlo in maniera definitiva? E cioè, dimezzando il numero dei consiglieri, abolendo il sistema elettorale ed eliminando i membri laici? In fondo, il Consiglio Superiore è un organo di pura e semplice amministrazione e basterebbero pochi magistrati coraggiosi e incorruttibili, che siano in grado di distribuire cariche e punizioni, con un salutare senso di equità, a farlo funzionare. (il Borghese, 8 dicembre 1974)
POTREBBE ACCADERE AD UN MAGISTRATO DI SINISTRA (Gianni Isidori, il Borghese 2 Giugno 1974)
IL MEGLIO DEL BORGHESE
IL CARDINALE e la ballerina di GIANO NEL numero del Canard Enchainé pubblicato il 5 giugno a Parigi, i lettori potevano trovare, sotto il titolo: «La verité estelle scandaleuse?», un articolo destinato a suscitare nel cielo politico della Francia, appena uscita dai ludi cartacei ed audiovisivi presidenziali, una bufera che ha presto raggiunto le dimensioni del tornado. La «Scandaleuse verité» cui si riferiva il Canard, è il titolo d’un volume nel quale il cardinale Daniélou, da poco defunto, aveva inteso dimostrare qualche anno fa che la verità non dovrebbe mai far nascere lo scandalo. Era questa la ragione, spiegava l’articolista, per cui sembrava opportuno far conoscere ai lettori come l’altissimo prelato non fosse morto d’infarto per istrada, secondo quanto avevano annunziato le gazzette, ma al numero 56 della rue Dulong. E chi abita al numero 56? Abita la signora Santoni, Marinette Santoni per gli aficionados, la quale, nonostante il nome perfettamente intonato alla decenza cardinalizia, esercita invece il mestiere di spogliarellista. Il Cardinale quindi non era morto per istrada, ma nel tempio di questa sacerdotessa di Afrodite. Rimosso dalle mura profane il corpo del trapassato, il Provinciale, padre Coste (e qui cominciano le disavventure) aveva pensato di telefonare alle redazioni di tutti i giornali francesi per chiedere una estrema «discrezione» sulle circostanze funeste dell’accaduto. Ma questo innocente (e pio) sotterfugio fu reso vano da un prevedibile inghippo: l’esistenza di un giornale come il Canard Enchainé, tenacemente mangiapreti sin dalla fondazione, al quale non è parso vero di lanciare un primo scoop, che ha rettificato senza altri particolari il luogo del decesso, salvo a scaricare nel numero seguente una tremenda bordata di «messe a punto». Intanto, gli avvenimenti si accumulavano: radio, televisione, giornali del partito «innocentista» avevano chiamato a raccolta, sulla base della versione «stradale», testimonianze di cordoglio ad altissimo livello. Cordoglio giustificato. Il cardinale Daniélou, in verità era una delle personalità più in vista della capitale parigina. Intelligente, brillante, erudito, coraggioso, aggressivo, spiritoso, era oltretutto il «numero uno» della Chiesa di Francia. Specialista di Patristica, aveva avuto per questo settore già numerosi conflitti con la Curia romana e con molti teologi poco simpatizzanti per le sue deduzioni spericolate. Fin dai primi anni successivi alla guerra, Daniélou è uno dei responsabili cattolici favorevoli all’«apertura». Insegna, lavora e pubblica enormemente, come collaboratore alla rivista dei Gesuiti, Études. Nel 1962 è nominato decano della Facoltà di Teologia all’Istituto Cattolico di Parigi. Ma non occuperà nessuna funzione ufficiale nell’Ordine al quale appartiene. Giovanni XXIII lo nomina «esperto» al Concilio «Vaticano II». Qui, assieme agli altri teologi più arditi, i Congar, i Delubac, gli Chenu, si lancia polemicamente all’assalto delle vecchie strutture. Ma presto un singolare mutamento sembra invadere il suo slancio. Lo si vede esitare nella polemica verbale e scritta ... Con uno di quei rivolgimenti di cui è costellata la sua vita (aveva iniziato
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giovanissimo come segretario del padre, Ministro radicalsocialista) Daniélou sembra spaventato dalla macchina messa in movimento durante il Concilio. Il teologo sussiste, ma il polemista tentenna, nicchia, tergiversa. Trova, in tale atteggiamento, la naturale solidarietà di quell’altro grande Amleto, che è il successore di Giovanni, il Pontefice in persona. Nel 1968 provoca la famosa «lettera di fedeltà» a Paolo VI, firmata da Mauriac, Gilson, Michelet e centomila altri francesi. «Evoluzione sì, ma nella tradizione» e sovrattutto niente rivoluzioni ... (intanto, però il vaso di Pandora è già bell’e scoperchiato ...). La sua morte ha provocato nei sopravvissuti che hanno voluto commentarla una dicotomia precisa: quelli che vogliono rettificare la verità in nome dell’abito che l’uomo indossava, e gli altri, che invece pretendono dimostrare che quel vestito non comporta altra verità se non quella comune ad ogni mortale. Giornali che pensano che la morte l’abbia colto come un Presidente repubblicano al momento del «soliloquio avvolgente» ed altri che sostengono, documenti alla mano, che la visita alla signora Santoni era, come quella d’un fra’ Cristoforo, a far da solerte intermediario per pasticci altrui. Noi, invece, non abbiamo mai dimenticata una frase da lui scritta un giorno di grande impegno: «Sono naturalmente pagano, e difficilmente cristiano ...». Il destino della Chiesa è senza comune misura con le circostanze della morte d’un uomo, e non vale la pena di dubitare dell’esistenza di Dio, per una peripezia di quest’ordine. Ma la frase che abbiamo citato di questo gesuita fuori dall’ordinario, ci sembra piena d’una profonda verità storica. La stessa verità che ha fatto chiudere il necrologio sul Monde d’un collega del Cardinale, il teologo della Sorbona André Mandouze, con queste parole: «Presa nella pazzia dei suoi combattimenti di retroguardia su ‘celibato e sacerdozio’, la Chiesa non sembra aver ancora liquidato con la ‘carne’ un contenzioso che l’affligge da secoli». (il Borghese, 30 giugno 1974)
NUOVI PRETI (Gianni Isidori, il Borghese 29 Dicembre 1974)
Novembre 2011
IL BORGHESE
I GIOVANI ED IL LAVORO
MECCANISMO inceppato di MAURO SCACCHI NON è facile parlare di lavoro senza rischiare di apparire banali. L’argomento è stato trattato in tutte le salse. Di certo, però, vi sono elementi oggettivi che non possono essere taciuti, in vista di considerazioni generali che da loro prenderanno le mosse. Il lavoro, per le nuove generazioni, così come per i nati almeno negli anni Settanta che spesso, per disavventure personali, sono all’attualità privi di impiego, può considerarsi alla stregua di un mostro. Un mostro da cercare e da fronteggiare e, prima ancora, da conoscere. Diciamo subito che non snoccioleremo numeri e percentuali, di cui è già pieno il web. Affronteremo, invece, la questione di petto: il sistema del lavoro così com’è non va. Disoccupati, precari, lavoratori a «posto fisso» che tutto è fuorché fisso. A parte la prima categoria, facilmente intuibile, le altre due sono ambigue e comprendono in realtà la maggior parte di coloro che contribuiscono alla ricchezza del Belpaese. Sei precario se hai un contratto di stage, di apprendistato, di collaborazione a progetto (i famigerati «co.co.pro.»), di staff-leasing, se a pagarti è un’agenzia interinale ma anche se sei a «tempo determinato». Sei precario, quindi, ogni volta che al di là della tipologia di contratto con il quale sei assunto ti ritrovi presto molto facilmente per strada e devi ricominciare tutto daccapo. Quelli che hanno il posto fisso per così dire «finto», son quelli a contratto a tempo indeterminato presso cooperative ma pure presso società che, pur mettendo in regola il lavoratore, possono ad ogni cambio di vento e d’umore licenziarlo. La crisi del mercato, partorita dal liberismo più sfrenato che ha dato a banche, petrolieri e agenzie di rating il potere di decidere le sorti financo degli Stati nazionali, ha messo in ginocchio tutto il sistema globale del lavoro. Conseguenze: licenziamenti e, nella migliore delle ipotesi, mobilità e cassa integrazione. Ecco perché il problema investe sia chi è alla ricerca di primo impiego, sia chi disperatamente ne sta cercando un altro per seguitare a pagarsi l’affitto o il mutuo ed a sostenere una famiglia. Secondo la concezione governativa, sembra che ad aver importanza non siano tanto le persone nella loro individualità, quanto il loro numero, la massa senza nome e senza volto. Non interessa se i lavoratori non sono mai gli stessi, con storie, esigenze e possibilità diverse tra loro. Interessa soltanto che, ad un dato momento, essi siano in tanti. Questo è tragico. Gli esseri umani ridotti a numeri, sorprendentemente intercambiabili. La cosa potrebbe anche funzionare, a livello di gestione dell’economia di uno Stato, non fosse che poi vien meno la professionalità, l’attaccamento al proprio settore d’impiego, la passione, fattori senza i quali, privo di menti realmente pensanti e soprattutto privo di strumenti che consentano ai meritevoli
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una pur minima carriera, il mondo del lavoro si sgretola, collassando su sé stesso. In ciò, schiacciando impietosamente la dignità di chi lavora, il quale vive la propria condizione come un passeggero, poco o nulla gratificato. Lavorare, oggi, è come un continuo salire e scendere da un pullman, ogni volta visitando diverse località, in modo che tutte le si conosca ma mai nessuna in modo approfondito. Se da un lato le Università tendono a specializzare le professioni, dall’altro lì dove queste servirebbero vi è un appiattimento, un livellamento indecoroso. Tanto numerosi sono i disoccupati e gli stessi precari, che anche il più incerto e antipatico dei mestieri diventa oggetto di competizione. Difatti la consapevolezza di avere un impiego precario porta le persone a cercare comunque un altro lavoro, al limite precario anche quello ma che abbia una scadenza di qualche mese in più. Questo è l’estremizzarsi del pensiero «lavorare serve per vivere», già riduttivo di per sé, poiché il lavoro dovrebbe essere il contributo personale alla crescita di una Nazione. Un estremo pericoloso perché in nulla tiene conto delle necessità interiori dell’essere umano né, tanto meno, dell’idea di «grandezza» di uno Stato. In Le Corporazioni come opzione di lotta (Ed. Comunitarie, Roma 2010), Rutilio Sermonti scrive: «non è ormai generalizzato l’uso di chiamare “domanda di lavoro” l’offerta di esso che fa il disoccupato, e “offerta di lavoro” quella dell’imprenditore disposto ad assumere personale? Non è solo un errore lessicale: è molto, molto sostanziale». I valori, parlando di lavoro, si sono capovolti. Il significato di ciò risiede nel fatto che, oggidì, l’essere umano che offre le proprie prestazioni è meno importante del datore di lavoro che offre, cioè consente l’utilizzo di quelle stesse prestazioni. Sempre il Sermonti fa notare che lavoro deriva da labor ed indica «sofferenza», mentre per ripristinare il senso nobile del possedere un mestiere e metterlo a disposizione della comunità si dovrebbe poterlo chiamare «opera», «arte». Se il mercato così com’è non va, e se a maggior ragione (non è qui il caso di spiegarne il motivo) i sistemi comunisti non sono la risposta, rimane una «terza via», posta sull’asse centrale ai lati del quale rimangono capitalismo e comunismo. Questa via fonda sul cosiddetto «spirito corporativo». In modo sintetico e di sicuro imperfetto, esso può definirsi come quel sentire comune a tutti i membri di una società i quali individuino nel «lavoro di squadra» il mezzo (giammai un fine!) che, cementando i rapporti sociali, possa rendere migliore, e più forte, lo Stato. Come ogni squadra, anche ogni mestiere dovrà prevedere un «capo», che coordini e supervisioni l’operato generale. Ma questo «capo», pur dotato di maggiori responsabilità, nonché capacità perlomeno manageriali, non potrà disporre degli altri come di una cosa sua, mirando tutti quanti, a dispetto della carica e del grado posseduti, allo stesso obiettivo, cioè la buona riuscita dell’impresa, del risultato cui il lavoro deve tendere. Al lavoratore, per così dire, «neofita», dovrebbe esser garantito il minimo della sussistenza, ma pure un alloggio all’occorrenza. Un po’ come un tempo accadeva per i «ragazzi di bottega», che imparavano la propria arte e poi la proseguivano in seno, appunto, alle Corporazioni di mestieri. Ecco che la «terza via», opportunamente teorizzata e riattualizzata (che, purtroppo, troppi errori politici la relegarono nell’oblio del Ventennio, condannato stoltamente in toto), potrebbe fornire suggerimenti quanto
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IL BORGHESE
mai utili alla risoluzione dei problemi connessi al «sistema lavoro Italia». La «Manovra di Ferragosto» ha toccato il mondo del lavoro in alcuni punti di grande rilevanza. In particolare, la possibilità di stipulare accordi aziendali in deroga ai contratti collettivi nazionali permetterebbe d’introdurre nei contratti una maggiore flessibilità nei licenziamenti e la possibilità di non reintegrare il lavoratore licenziato in maniera illegittima. Si vede bene come tali norme acuiranno, di fatto, situazioni già di per sé difficili e che palesemente sviliscono la persona (come nei casi del precariato, ma non soltanto). Molte idee sono volate tra uno schieramento politico e l’altro, e molte ancora ne voleranno nel prossimo futuro, c’è da scommetterci. Tra le tante, ricordiamo l’aumento dell’aliquota previdenziale della gestione separata INPS per i cosiddetti «contratti a progetto», già notoriamente sottopagati; a giustificazione di ciò, qualcuno ha asserito che così, almeno, si avrebbe un miglioramento della pensione futura. Vien quasi da ridere, non fosse che è vero, son queste le idee con cui si vorrebbe rimettere in pista l’Italia nel mercato globale: affossare l’ambizione del singolo, vituperare l’idea sociale del lavoro, spremere e fare cassa. Un solo consiglio per i giovani e meno giovani, sullo stesso naviglio in acque perigliose: fate squadra, abbiate un’idea condivisa e formate un’organizzazione che vi permetta di realizzarla (magari guardate al terzo settore, l’associazionismo), non demordete. Mai darla vinta a chi vuole uccidere la fiducia in voi stessi e nel vostro valore.
FINE DELLA TRASMISSIONE (Giuliano Nistri, il Borghese 4 Aprile 1971)
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LO SPORTELLO DELL’USURATO
PAESE CHE VAI, banche che trovi di ANTONELLA MORSELLO «L’INGIUSTIZIA, ovunque si verifichi, minaccia la giustizia dappertutto. La giustizia ritardata è giustizia negata e ogni legge ingiusta non è affatto una legge.» (Martin Luther King). «La mia vita è diventata un incubo a causa della pressione psicologica, del mobbing a cui i direttori di due banche mi hanno sottoposto per la scadenza della rata mensile impostami per il rientro di due c/c, visto che mi IMPEDISCONO DI LAVORARE ONESTAMENTE» Queste sono le parole della signora Beatrice Zadera. Dal lontano 1987 fa parte della Ditta Comi, che opera nel commercio e distribuzione di agrumi e altri prodotti della terra. La qualità e il rapporto di fiducia sia con i clienti che con i collaboratori sono il fattore strategico dell'azienda. Nel 2000 fa nascere il progetto «Comipegasus online», prodotti in un click. Una selezione di prodotti artigianali tipici unici per essere legati al territorio. Usare l'immagine per far conoscere luoghi e prodotti nuovi, in Paesi culturalmente e tradizionalmente diversi. Un viaggio a ritroso per descriverne, non soltanto il prodotto finito, ma il processo di produzione e lavorazione. Soffermandosi su luoghi e antiche tradizioni, con l'intento di valorizzare, la terra di Calabria. Nel 2003 intraprende una battaglia legale contro i due Istituti, chiedendo però che venga ricalcolato il dare/avere sui conti correnti intestati all’azienda. La risposta fa sì, che il 6 giugno 2009 deposita in Procura denuncia per usura, e successivamente, richiede la sospensione dei termini. Dopo tredici mesi (la legge imporrebbe 30 giorni), in data 19/07/2010, la sospensiva viene emessa, dal Prefetto di Reggio Calabria, con nota di protocollo 46956, ai sensi dell’art. 20 della legge nr. 44/99. In sede civile, le udienze vengono rinviate, con tempistiche quasi annuali. Purtroppo la vittima di usura bancaria, rispetto alla vittima di usura criminale, è doppiamente penalizzata. Il reato è sminuito quando a perpetrarlo è una banca, anche se la Corte di Cassazione ha ormai riconosciuto da tempo che la «tutela del risparmio» non rappresenta semplice interesse privato; bensì vero e proprio «interesse pubblico» che trova esplicito riconoscimento nel testo costituzionale (in particolare nell'art. 47 Cost.): «...nel nostro ordinamento», osserva infatti la Corte, «l'attività bancaria nel suo complesso, quale comprensiva dell'esercizio del credito e della raccolta del risparmio (...) risulta disciplinata in modo tale da configurare non solo una delle tante forme di esercizio di impresa, già di per sé sottoposto a particolari forme di controllo, ma soprattutto, proprio in quanto riservata in via esclusiva agli istituti di credito e in conformità al dato (spesso trascurato) della tutela costituzionale del risparmio di cui all'art. 47 Cost., predisposta a favore della collettività, un servizio per il pubblico con tipiche forme di autorizzazione, vigilanza e di “trasparenza”; ne deriva che i profili di responsabilità nell'espletamento di tale attività vanno individuati e, ove
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sussistenti, sanzionati in conformità all'elevato grado di professionalità richiesto». Un diritto negato, neanche un semplice c/c senza affidamento, con cui lavorare. L’importante è chiudere il conto, differentemente sarà fatta valere la vendita dell'azienda posta a garanzia. Intrapresa la battaglia legale, le sono revocate tutte le linee di credito e imposti piani di rientro. Con grande forza e sacrificio, con l’aiuto dei fornitori che le concedono dilazioni (vittime loro stessi della crisi provocata anche dal sistema bancario), riesce ad onorare parte degli impegni. Intanto sono già stati nominati dal GIP i Consulenti Tecnici d’Ufficio, e con il deposito in Tribunale di una delle due perizie, si evidenzia che è vittima del sistema bancario. Le sferrano il colpo di grazia,quando iscrivono ipoteca giudiziale sugli immobili, proveniente da un decreto ingiuntivo illegittimo (false attestazioni ex art. 50 del TUB dei funzionari), oggetto di un Procedimento Giudiziario in corso, per un saldo che non è né certo, né liquido, né esigibile. Dunque, da una parte ci sono gli interessi bancari vessatori e usurai, illegittimi decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi, altrettanto probabili illegittime iscrizioni di ipoteca giudiziale e segnalazioni a «sofferenza» alla Centrale Rischi della loro Banca d’Italia (l’Istituto è partecipato al 100 per cento da Banche e fondazioni bancarie e ciò crea un palese conflitto d’interesse), che diventano vere armi di ricatto per titolari e fideiussori, il cartello tra banche fa il resto. In una situazione del genere, l'autonomia di cui gode il mondo bancario, finisce per consentire che tra le maglie di questo mondo passino una serie di situazioni che danneggiano nella più totale indifferenza della Giustizia e delle Istituzioni. «Di Banche non si deve più morire». La permanenza di quelle che potrebbero dimostrarsi a questo punto illegittime segnalazioni, fa ritenere che l’unico scopo delle Banche segnalanti, sotto inchiesta, sia quello di intimidire, mediante l’annientamento di ogni possibilità di sopravvivenza, la ditta della signora Beatrice, precludendo alla medesima ogni operatività economica. È un dato di fatto che, permanendo dette segnalazioni, ci si ritrova in una aberrante situazione: ritirare le denunce civili e rivolgersi ai canali illegali del «credito alternativo» per sopravvivere. Quindi, a denunciare e stare dalla parte della giustizia ci si ritrova sul lastrico, perché le banche, citate in giudizio, ti considerano, e ti fanno considerare da tutto il circuito bancario e finanziario «a rischio», anche in conseguenza di atti tuttora al vaglio della magistratura. La domanda nasce spontanea. Come potrà lo Stato battere la ‘ndrangheta, oramai sempre più finanziaria e imprenditoriale, se le banche distruggono chi non è mafioso? Le Istituzioni , a cui più volte Beatrice ha chiesto aiuto, latitano. Ad oggi l’azienda fattura quasi zero. Chi vuol far valere i propri diritti necessita che lo Stato garantisca i princìpi di legalità e di trasparenza nell’attività degli istituti di credito. Spesso invece la gente onesta viene condannata dal sistema creditizio senza diritto di difesa. Non si può combattere da soli una battaglia impari combattendo in prima linea una battaglia di cui nessuno parla. Lavorare onestamente e voler fare impresa in Calabria non paga. Esiste differenza tra i comportamenti delle Banche e quelli dell’usuraio mafioso? Gli abiti sono di sartoria migliore, i metodi sono equivalenti, il reato è il medesimo. Purtroppo non applicando la legge, o applicandola in modo distorto, o in ritardo, si crea soltanto sfiducia al cittadino, al quale non rimane altro che rivolgersi a canali illegali per sopravvivere. «Andremo sul sentiero della giustizia e non cammineremo soli ma troveremo compagni lungo la via scoprendo il frutto della linfa vitale.» (maredelnord@gmail.com)
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LA CRISI DEL 2008 E QUELLA DI OGGI
UNA BELLA differenza di ENEA FRANZA GLI ECONOMISTI sottolineano alcuni grandi differenze tra la crisi di tre anni fa e quella di oggi. Nella sostanza, esemplificando, essi ritengono che le due crisi hanno origini diverse. La crisi del 2008, sostengono alcuni, cominciò dal basso, dagli ottimisti che compravano le case grazie ai prestiti delle banche, mentre la crisi che stiamo vivendo è iniziata dall’alto. Insomma i vari governi, incapaci di stimolare le loro economie, hanno gradualmente perso la fiducia della comunità finanziarie. Tale fatto (la perdita di fiducia e non altro) ha causato una progressiva riduzione negli investimenti privati, che di conseguenza ha alimentato disoccupazione e tassi di crescita bassi. Secondo questo modo di affrontare il problema, i mercati e le banche in questo caso sono le vittime, non i carnefici. Una altra ipotesi che gli economisti più accreditati ripetono (e che forse gode di un più vasto consenso) è che negli anni immediatamente precedenti la crisi del 2008, le imprese finanziarie ed immobiliari avevano approfittato della crescente facilità nell’ottenere crediti. Quando scoppiò la bolla, il pesante intervento per diminuire i debiti che si rese necessario causò una pesante crisi recessiva. Fin qui la ricostruzione di quello che è successo nella crisi passata. Questa volta, tuttavia, il problema sembra
OGNI RIFERIMENTO È PURAMENTE CASUALE (Giuliano Nistri, il Borghese 15 Dicembre 1974)
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essere opposto. La stagnazione economica ha spinto aziende e privati a mettere al sicuro i propri risparmi, causando una forte riduzione dei consumi e della crescita. La terza differente ipotesi che a ben vedere costituisce un corollario delle precedenti sostiene che, date le premesse, la crisi del 2008 ebbe una sola semplice (ma azzardata) soluzione: l’intervento dei governi per fornire liquidità a tassi d’interesse bassi ed il rifinanziamento delle banche. Non fu certo facile perché costrinse tutti i cittadini dei vari Paesi colpiti a pagare per gli errori altrui, ma alla fine secondo gli economisti evitò una depressione economica globale. Oggi una risposta di questo tipo non è possibile: i problemi non dipendono dalla mancanza di liquidità, ma dalla mancanza cronica di fiducia degli attori del mercato finanziario nella capacità dei rispettivi governi di far ripartire l’economia. Se le cause della crisi attuale sono queste, la soluzione è pressoché delineata; Per uscire da questa crisi, non basterà un’iniezione di nuovi capitali nel mercato, ma sarà necessario aspettare che i mercati abbiano recuperato fiducia, o che i governi abbiano preso misure significative per rilanciare l’economia. Ma ci vorrà molto tempo Noi pensiamo che le cose stiano diversamente. Il problema è, secondo il nostro modo di vedere, che l’enorme pressione esercitata sull’Occidente dai flussi migratori altamente professionalizzati e la connessa globalizzazione finanziaria abbiano avuto il duplice effetto di redistribuire la ricchezza dell’Occidente verso settori improduttivi quali, in primo luogo, le rendita immobiliari ed i titoli a reddito fisso. Effetto conseguente è stato quello di penalizzare la middle class. Colpiti al cuore lo spirito animale del capitalismo e la borghesia, interprete della laboriosità dell’Occidente - ripetiamo compressa e schiacciata tra il capitale finanziario e le orde di nuovi lavoratori provenienti dai flussi di migranti disposti a lavorare in condizioni di precarietà e di sudditanza - il beneficio della nuova ricchezza prodotta è andato al solo capitale ed, in particolare, alle Banche ed al loro management. La spirale che si è creata è stata una politica schiacciata sulle necessità delle banche e l’arricchimento di un nuovo profilo di «imprenditore», che ha quale finalità della propria esistenza il lusso e la produzione di denaro fine a se stesso. Visto sotto questa luce interpretativa si intravede una via di uscita. Essa consiste nella riappropriazione del diritto di batter moneta, del controllo dell’immigrazione e della riappropriazione delle ricchezza della nazione, oggi malamente distribuite tra rendita immobiliare e rendita finanziaria.
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NON CONVINCE L’ASSE PARIGI-BERLINO
EURO(PA) al capolinea? di MASSIMO CIULLO DA diversi mesi ormai, dalle parti di Bruxelles tira una brutta aria. La crisi finanziaria e la stagnazione economica che interessa diversi paesi dell’Unione Europea sta mettendo a repentaglio la sopravvivenza stessa della moneta unica, secondo le previsioni dei più pessimisti. Il Presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet ha avvertito che la crisi della zona euro ha «raggiunto una dimensione sistemica» e ha esortato i governi ad agire. Meno di due settimane fa, Trichet ha detto che l’Europa è «l’epicentro di una crisi globale», parlando nelle vesti di presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico, un’istituzione dell'Unione europea il cui compito è limitare i rischi sistemici del sistema finanziario della zona euro. I commenti del Presidente della BCE evidenziano un incremento nella diagnosi della crisi. Alla conferenza stampa della BCE del mese di settembre, Trichet aveva usato toni più rassicuranti, invitando a non drammatizzare la situazione nel settore bancario. Trichet ha sottolineato che serve una decisione chiara e coordinata in merito alla ricapitalizzazione della banche. Alle proposte del Capo della BCE ha aggiunto un suo piano in dieci punti il Presidente dell’Eurogruppo JeanClaude Juncker. Le misure del politico lussemburghese per la soluzione della crisi della zona euro prevedono, tra l’altro, sanzioni automatiche per i governi irresponsabili sotto il profilo dei conti pubblici, un’espansione dei poteri della Commissione e un dividendo da corrispondere ai contribuenti che salvano le banche. In ogni caso, il rischio di un abbandono dell’euro da parte degli Stati più esposti (leggi Grecia e Portogallo) rimane abbastanza realistico, se alcune imprese hanno da tempo preparato piani finanziari che prevedono l’eventuale ritorno ad una divisa nazionale. L’iceberg è stato avvistato da tempo, ma sul Titanic europeo si continua a ballare, o meglio a litigare, come nella migliore tradizione del sempre più scalcinato «Club di Bruxelles». I ripetuti incontri tra il Presidente francese Nicolas Sarkozy e il Cancelliere tedesco Angela Merkel non hanno prodotto i risultati sperati. Entrambi continuano ad assicurare che l’Europa, a breve, avrà un piano per risolvere la crisi del debito. Quali siano nel dettaglio le misure che hanno in mente i due leader del ritrovato asse francotedesco, non è dato sapere. Si conosce solo un obiettivo: la ricapitalizzazione delle banche. Uno sforzo piuttosto esiguo se l’obiettivo è quello del superamento della crisi del debito nell’Eurozona. Altre indiscrezioni circolate nelle sedi finanziarie di Francoforte e Parigi lasciano intendere che si vorrebbe prevedere un sistema di ristrutturazione per gli Stati che faticano a rispettare i criteri del Patto di stabilità, che sa-
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ranno seguiti passo per passo da uno speciale Commissario UE, come descritto in una bozza di una mozione preparata dal partito della Merkel per il congresso della CDU di questo mese. Se l’idea della Merkel sarà accolta in sede europea, probabilmente toccherà alla Grecia fare da cavia, partendo dal prossimo pacchetto di aiuti che sta per arrivare nella casse esangui di Atene. Almeno su questo punto Parigi e Berlino sono d’accordo: la Grecia deve restare nell’Eurozona. Secondo il Presidente della Commissione UE, Jose Manuel Barroso, l’abbandono di Atene non deve essere neanche ipotizzato, perché un eventuale default ellenico avrebbe conseguenze «imprevedibili». Le preoccupazioni che angustiano Barroso, Sarkozy e Merkel, non sono condivise da tutti i membri della UE, che mal sopportano l’eccesso di protagonismo da parte di Parigi e Berlino degli ultimi tempi. Poco meno di due settimane fa il parlamento slovacco, in prima battuta, ha respinto l’accordo sul fondo salva-stati, creando ulteriore panico nell’Eurozona. Il primo a fare la voce grossa contro l’ipotesi di un direttorio franco-tedesco è stato il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha chiesto più collegialità nelle scelte da operare in ambito comunitario. Anche altri membri UE, tradizionalmente inclini a saltare sul vagone della locomotiva tedesca, come il Belgio e l’Olanda, hanno cominciato a storcere il naso a causa dell’intenzione francese di ricorrere al fondo salva-Stati per ricapitalizzare i debiti di due colossi transalpini del credito (Société Générale e Crédit Agricole), iscritti nella lista dei 17 istituti a rischio. Per non parlare del fastidio provocato ai newcomers dell’Est europeo, trattati ancora una volta come membri di serie B: se Nicolas Sarkozy non vuole far perdere alla Francia la tripla A attinga a risorse nazionali e non europee. Come in tutte le situazioni di crisi, anche in questo caso esiste una parolina magica che potrebbe far cambiare il corso degli eventi, facendo ripartire l’economia europea: Eurobond. A favore dei titoli UE si sono pronunciate diverse personalità europee, riunite al Nicolas Berggruen Institute, per mettere a punto un manifesto «per il futuro dell’Europa». L’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, insieme a colleghi come lo spagnolo Felipe Gonzales (socialista) e il belga Guy Verohfstadt (liberal-democratico), a Mario Monti e Nouriel Roubini, hanno convenuto sul fatto che gli Eurobond rappresentano l’unica strada per evitare l'implosione dell’Unione monetaria europea, purché si adottino le misure chieste anche dal presidente della BCE JeanClaude Trichet. Nel manifesto, sottoscritto anche da Tony Blair e Jacques Delors, si afferma esplicitamente che non esistono terze vie: o si va avanti con decisione verso una vera unione fiscale ed economica oppure il rischio di far saltare tutto il processo di integrazione europea potrebbe veramente concretizzarsi Angela Merkel ha colto l’occasione per ribadire ancora una volta la sua contrarietà agli Eurobond, uno strumento che, a suo dire, causerebbe la nascita di una «Unione del debito», mentre l’obiettivo da raggiungere consiste in una «Unione della stabilità», percorrendo sia il binario della solidarietà insieme però, a quello della responsabilità degli Stati. L’ipotesi dei titoli di Stato emessi con garanzia congiunta da parte dei Paesi dell’area euro non piace però, neanche a Standard & Poor’s. L’agenzia di rating, infatti, darebbe agli Eurobond un voto basato sulla più bassa valutazione del credito tra quella dei Paesi partecipanti.
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TORNA L’IMPERO SUL BOSFORO
IL SOGNO della mela rossa di ALFONSO FRANCIA TRA qualche anno, ricordando gli scontri e le rivolte di piazza che hanno terremotato i vecchi regimi islamici dall’inizio del 2011, più che di primavera araba parleremo di primavera turca. L’unico governo ad avere davvero tratto vantaggio dalla caduta dei vari Mubarak e Ben Ali è infatti quello di Ankara, che si è ritrovato praticamente leader della regione per abbandono degli avversari. Già da qualche anno la Turchia aveva cercato di rafforzare il suo ruolo nel Maghreb e in Medio Oriente, allontanandosi da un Occidente che l’aveva delusa con i ripetuti rinvii del processo di adesione all’Unione Europea e la continua - ma sacrosanta - azione pressante per il riconoscimento del genocidio armeno. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva saputo far salire alle stelle il suo gradimento tra i popoli arabi mostrandosi come un leader devoto ma democratico, e soprattutto cominciando a criticare Israele mettendo fine a un decennio di ottimi rapporti con Gerusalemme. Non è un caso che il primo leader a visitare i Paesi recentemente liberatisi dei loro vecchi satrapi sia stato proprio Erdogan. Ricevuto con estrema deferenza da governi provvisori e giunte appena installate, il leader turco ha svelato con grande abilità le sue intenzioni auspicando per questi Paesi l’affermarsi di governi «democratici, secolarizzati ma rispettosi della fede musulmana». Copie perfette del governo turco insomma. In Egitto le sue dichiarazioni hanno deluso i gruppi più radicali, come i Fratelli Musulmani, ma hanno entusiasmato i giovani che avevano riempito piazza Tahir nei mesi caldi della contestazione a Mubarak. Finito il viaggio promozionale, tanto per far capire che l’avvicinamento al mondo musulmano non esclude il mantenimento dei rapporti con quello occidentale, Erdogan è poi volato a Washington da Obama per discutere della crisi economica. Più che le furberie di politica estera però, a sostenere l’affermazione della Turchia come attore principale della regione è stata una crescita «asiatica», basata sull’esportazione di prodotti finiti e non di materie prime come accade in buona parte del mondo musulmano. Lo sviluppo della Turchia negli ultimi 15 anni andrebbe insegnato nelle facoltà di economia, perché è basato sull’inclusione di quasi tutta la popolazione. I contadini delle regioni per noi remote - geograficamente e culturalmente - si sono addensati nei piccoli centri locali e hanno dato vita a distretti produttivi capaci di produrre merci di buona qualità a prezzi contenutissimi (d’altra parte da quelle parti il costo della vita è relativamente basso). È come se nell’Italia del boom economico i braccianti meridionali, invece di affollare i treni diretti a Milano e Torino, avessero dato vita alle loro industrie a Benevento, Cosenza, Lecce o Ragusa. Fantascienza. Il grosso del sostegno elettorale all’AKP sta proprio in questa parte del Paese, produttiva e fortemente religiosa,. Approfittando di questa fioritura di imprese, Erdogan ha
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saputo raccogliere attorno a sé un nutrito gruppo di imprenditori che hanno preso a seguirlo nei suoi viaggi all’estero, facendo incetta di commesse e accordi industriali. Nel decennio appena trascorso la Turchia ha quindi visto nascere e consolidarsi parecchi colossi dell’industria, che di recente hanno pure preso a fare la spesa dalle nostre parti: negli ultimi mesi ben tre aziende turche hanno inglobato delle società italiane: il gigante degli elettrodomestici Vestel si è appropriato di quattro piccole imprese appartenute a Merloni, il Kale Group, che produce oggetti in ceramica, ha acquistato l’emiliana Fincuoghi e la ditta d’abbigliamento From Bottons ha inglobato una ditta dell’agonizzante distretto marchigiano. Tanto perché si capisca che non si tratta di un fenomeno isolato: all’inizio di ottobre il Console turco a Milano ha accolto alcuni imprenditori suoi connazionali invitandoli a «guardare all’Italia come un partner privilegiato nei rapporti economico-finanziari». Nulla di strano: siamo un Paese in forte crisi, diciamo in fase di saldi. Acquistare piccole e medie imprese che non riescono più a sopravvivere ma sono ancora detentrici di impianti e un interessante patrimonio di conoscenze tecniche è decisamente un affare. Insomma, fino a un paio di anni fa temevamo l’invasione di lavoratori turchi; andrà a finire che saremo noi a lavorare per loro. Tanto spettacolare è il progresso della Turchia, tanto deprimente è patetico è il collasso dell’Europa, che si è sciolta d’improvviso non appena è venuto meno l’unico collante che l’ha finora tenuta insieme; l’unione economica. Per parecchi mesi questo giornale aveva ammonito che il Vecchio Continente non avrebbe avuto futuro se non avesse avuto il coraggio di unificarsi davvero diventando finalmente un’unione politica, valorizzando una plurisecolare identità culturale e religiosa. Si è pensato che una moneta unica e una politica economica più o meno omoge-
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nea sarebbero state sufficienti a tenerci insieme, ma è bastato lo scossone della crisi del debito per far fuggire i più ricchi dall’edificio pericolante abbandonando il resto della famiglia all’interno. Sotto le macerie resteremo di sicuro noi Italiani, che dopo i soliti padri nobili Alcide De Gasperi ed Altiero Spinelli non abbiamo saputo proporre alcun leader o pensatore politico in grado di dare un senso al nostro stare insieme sotto la bandiera blu con le dodici stelle. Siamo stati europeisti convinti sì, ma europeisti ignoranti, attratti all’idea di agganciarci tramite la moneta comune alla possente locomotiva tedesca senza pensare che per restare insieme occorreva diventare un po’ meno italiani e tedeschi e un po’ più europei. Il resto della «famiglia», del resto, non si è comportato in maniera molto migliore. Negli ultimi dieci anni la Germania ha gestito le politiche comuni come se avesse un diritto di primogenitura - al massimo con la partecipazione francese - e trattando le istituzioni comunitarie come dei fastidiosi intralci. È notizia di pochi giorni fa che la Merkel ha proposto un «Consiglio Europeo dell’Eurozona», che altro non sarebbe se non un organismo ad hoc gestito in coppia col solito Sarkozy per aggirare il viscoso potere decisionale della Commissione a 27 nella gestione della crisi. Ovviamente la Germania non ha approfittato della sua golden share per stimolare un rafforzamento dell’identità europea anzi, non ha perso occasione per dimostrare lontananza e disprezzo rispetto ai cosiddetti popoli latini. Stendiamo poi un velo pietoso sul Regno Unito, che quasi si fa fatica a ricordare come membro dell’Unione. Non ha neanche accettato Schengen ed è rimasto fuori dall’euro, rimarcando in ogni occasione la sua «insularità» tenendo sempre lo sguardo ansiosamente puntato verso l’altra sponda dell’Atlantico. Dimenticandoci di farci europei, siamo rimasti piccoli e fragili, e ci siamo fatti travolgere da una crisi che colpisce prima di tutti chi è diviso. L’Europa ha attraversato crisi terribili, è sopravvissuta pure alla fine dell’Impero Romano, al fallimento dell’unificazione sotto il Sacro Romano Impero e al pangermanesimo di Hitler: sopravvivrà pure a questa nuova implosione, ma certo rimane il rimpianto di aver sprecato l’ennesima occasione. Questo ricorderemo soprattutto dell’Unione Europea, un’enorme occasione sprecata. L’immagine di questa Turchia, giovane, potente e in crescita, così diversa da quell’Europa che per anni le ha negato pure il diritto a una collaborazione privilegiata, suona quantomeno ironica di fronte alle rovine di Bruxelles. Viene da ridere oggi a ricordare che una delle principali motivazioni con le quali abbiamo impedito ad Ankara di tentare l’ingresso nell’UE era proprio la sua diversità culturale, il suo essere altro rispetto alla tradizione europea. Ma se l’Europa costruita in questi anni non è stata altro che un sodalizio economico e finanziario, perché impedire alla Turchia di farne parte? Quanto ci sarebbe stato utile l’entusiasmo, la salda crescita e gli ottimi rapporti col mondo musulmano della Turchia! Un Paese islamico ma tuttora laico al fianco della UE sarebbe stato un blocco eccezionale al propagarsi di sentimenti antioccidentali nel mondo musulmano. Come accadde nel 476 d.C., Costantinopoli/Istanbul guarda al disastro del suo vicino Occidentale restando in perfetta salute e mantenendo il controllo su Medio Oriente e parte del Nord Africa. Allora l’Impero d’Oriente fallì la riconquista di Roma pur andandoci vicino; chissà se stavolta il futuro dell’Europa non riparta dal Bosforo.
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SE CROLLA L’EURO
LA GERMANIA ci rimette di FRANCO JAPPELLI INUTILE illudersi. Per loro, per i Tedeschi intendiamo, siamo sempre quelli del mandolino, della pizza, del melodramma e delle canzoni in cui cuore fa rima con amore. In base agli immarcescibili, ma vetusti stereotipi teutonici gli Italiani, da sempre, sono imbelli, simulatori, mancatori di parola, oziosi, infingardi e, ovviamente, anche un po’ mafiosi. Ma, per singolare paradosso, amano il Bel Paese pur detestandone gli abitanti. «Conosci tu il Paese dove fioriscono i limoni?», scriveva infatti un estasiato Goethe, durante il suo viaggio in Italia, agli amici rimasti nelle fredde e grigie brughiere del Nord. Alcuni, sicuramente, lo conoscevano molto bene. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento furono infatti migliaia i «culattoni» germanici che varcarono le Alpi alla ricerca di giovani efebi italici da fotografare nudi e adornati di pampini come puttini greci. Da queste parti, evidentemente, non fiorivano soltanto i limoni, ma crescevano, rigogliose, anche le zucchine. E a questo mondo, si sa, ognuno ha le sue preferenze. Questo per dire che è dai tempi di Arminio che tra noi e i Germani c’è un po’ d’incomprensione e di reciproca diffidenza. Sentimenti, questi, che si sono rafforzati dopo il nostro salto della quaglia dell’8 settembre 1943. Ora, poi, con questa storia della crisi economica e dell’euro traballante, la tradizionale antipatia si è trasformata in aperta ostilità. Grazie all’euro la Germania è diventata la potenza egemone in Europa. Le sue esportazioni si reggono infatti su una moneta forte che altro non è che il marco sotto altro nome. L’Italia, e gli altri Paesi del Mediterraneo, in realtà, per rilanciare le loro economie, avrebbero bisogno di monete deboli, da svalutare periodicamente, per potenziare l’export e l’industria manifatturiera. Lo abbiamo fatto per sessant’anni e siamo andati avanti alla grande diventando la terza economia del continente e la seconda potenza esportatrice dietro la stessa Germania. E lo stesso debito pubblico, anche se gigantesco, era, proprio grazie alle frequenti svalutazioni della lira, decisamente più sopportabile. Poi, con l’avvento della moneta unica, questa «pacchia» finì. Ci siamo ritrovati con una moneta d’occupazione che ha dimezzato il nostro potere d’acquisto, messo in ginocchio la nostra industria e frenato le esportazioni. Mentre noi tiravamo la cinghia in nome dell’Europa, la Germania si rimpannucciava a nostre spese facendo pagare ad un intero continente i costi della sua riunificazione. E dopo il danno, puntuale, è arrivata la beffa. Se l’Unione Europea rischia di crollare come un castello di carte la colpa, secondo Berlino, è tutta della nostra finanza allegra e della nostra scarsa propensione ai sacrifici e a subire la macelleria sociale imposta da Francoforte. Hanno ragione i crucchi? Neanche un po’. Se obbedissimo ai loro dicktat non faremmo altro che impoverirci sempre di più e consolidare quello che ormai, sempre più spesso, viene definito il «Quarto Reich» tedesco, ovvero l’egemonia economica della Germania sull’Europa. In realtà, anche se finge il contrario, tutto l’interesse a salvare l’euro è unicamente della Germania. Se crolla la
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moneta unica il suo impero economico si sgretola in tempi brevissimi. L’esposizione delle banche tedesche e francesi nei nostri confronti è tale che un nostro default causerebbe il loro immediato fallimento. E questo spiega perché la BCE continua a pompare denaro nelle banche e sottrae risorse per la crescita ai cittadini dei Paesi mediterranei. Come uscire da questo cul de sac? Se l’Italia avesse ancora la sua sovranità monetaria il problema sarebbe già risolto. Basterebbe svalutare la lira e l’economia ripartirebbe immediatamente. Ma con l’euro, ovviamente, questo non è possibile. A questo punto, per l’Italia, non esiste altra strada che quella della negoziazione con la Germania e gli altri Paesi europei. Ma, paradossalmente, al tavolo della trattative, siamo noi i più forti. Un vecchio proverbio americano recita infatti che «se devi un dollaro hai un problema con la tua banca, ma se ne devi un milione è la tua banca ad avere un problema con te». L’Italia, insomma, è too big to fail, troppo grande per fallire. E questo spiega la crescente irritazione tedesca. Berlino non sa proprio come uscire da questo ginepraio. Tanto più che proprio i Tedeschi che rimproverano le cicale italiane per le loro dissipatezze sono i primi a truccare i propri conti. «Ebbene anche i crucchi, pardòn…tedeschi», scrive infatti l’economista Nicoletta Forcheri, «fanno i loro sporchi giochini contabili. ”Possibile?!” direte voi. Possibile, possibile vi dico io. «Sappiate che sono 16 anni che l’impeccabile Germania bara sui suoi conti pubblici, non includendo tra le passività quelle generate dalla Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW) e che ammontano alla bellezza di 428 miliardi di euro. Ma cos’è questo KfW? Si tratta di una sorta di nostra Cassa Depositi e Prestiti, posseduta per l’80 per cento dallo Stato e per il restante 20 per cento dai Länder. La KfW fa mutui a enti locali e piccole e medie imprese. E detiene partecipazioni cruciali in colossi come Deutsche Post e Deutsche Telekom. Mica male,vero? È vigilata dai ministeri delle Finanze e dell’Industria,e non dalla Bundesbank. Grazie al legame di ferro con lo Stato, la KfW conquista la medaglia d’oro nella classifica mondiale dell’affidabilità, stilata da Global Finance, e il mas-
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simo rating da parte di Moody’s, Standard Poor’s e Fitch:lo stesso della Repubblica federale. «Le sue obbligazioni», osserva l’economista, «sono dunque uguali ai Bund. Ma a differenza dei Bund, magicamente non entrano nel conto del debito pubblico. Se vi entrassero ,come la logica del Trattato di Maastricht vorrebbe, il debito pubblico tedesco salirebbe da 2.076 miliardi a 2.504 miliardi (di gran lunga il più alto debito pubblico europeo), e la sua incidenza sul prodotto interno lordo 2011 balzerebbe dall’80,7 per cento al 97,4 per cento. Bella differenza, eh? L’escamotage utilizzato per quest’imbroglio contabile bello e buono,si chiama Esa 95. Si tratta del manuale contabile che esclude dal debito pubblico, a integrazione dei criteri di Maastricht, le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono il 50,1 per cento dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. «Per farla più semplice, è pressappoco la stesso schema usato dalla Lehman Brothers per mascherare le passività…Insomma, se KfW si trovasse in crisi di liquidità, alla fine dovrebbe essere sempre lo Stato a dover rispondere del debito. «Ora, come detto in precedenza,la nostra Cassa depositi e prestiti è simile alla KfW, ed è per il 70 per cento del Ministero del Tesoro e per il restante 30 per cento di fondazioni bancarie (quindi privati). La Cdp emette anno dopo anno obbligazioni che godono della garanzia statale e sono collocate dalle Poste sotto forma di buoni e di libretti. Per approssimazione sono almeno 300 miliardi, due terzi reinvestiti in titoli di Stato e un terzo in mutui agli enti locali. La Cdp emette anche obbligazioni non garantite per una ventina di miliardi destinate alle iniziative per le imprese e detiene partecipazioni rilevanti. Ma il suo debito è per tutta la parte coperta da garanzia pubblica conteggiato nel debito pubblico. «E allora, alla luce di quanto sopra bisognerebbe mettersi d’accordo. Le regole sui bilanci devono essere rigide ed uguali per tutti. Quindi, - conclude Nicoletta Forcheri o anche la Germania conteggia tutte le passività, oppure a Paesi come l’Italia andiamo a scorporare quelle che per la Germania non vengono fatte valere.» La rivelazione, a ben guardare, è clamorosa e dimostra due cose: la prima è che anche la Germania ha gli armadi pieni di scheletri e la seconda è che l’Italia ha una classe politica imbelle e impecoronita che non sa far valere le sue ragioni a livello internazionale. Non a caso le pretese dei crucchi stanno aumentando. Per evitare i default dei Paesi mediterranei che danneggerebbero principalmente loro, i Tedeschi hanno chiesto che si proceda speditamente verso un’unione fiscale dei Paesi UE. Berlino, insomma vuole una sola politica economica, stesse tasse, stessa previdenza e un solo debito pubblico. E tutto questo, ovviamente, sotto il controllo tedesco. Detto in altri termini i Paesi dell’area mediterranea, con in testa l’Italia, saranno obbligati a diventare «virtuosi» come la Germania pur operando in contesti economici completamente diversi e perderanno la loro residua sovranità diventando, per di più, sempre più poveri, strangolati da un euro strutturato su misura per le esigenze tedesche. Ma a rimetterci, alla lunga, sarà la stessa Germania. Il 42 per cento delle sue esportazioni sono infatti dirette verso i Paesi della UE. E se questi si impoveriscono chi acquisterà i prodotti made in Germany? Da questo tunnel, insomma, non sarà facile uscire. Anche perché, comunque la si voglia vedere, il serpente finirà sempre per mordersi la coda. Ah Europa, quanti delitti si commettono in tuo nome!
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DA LONDRA A TRIPOLI
UN PUGNO di sabbia di GIUSEPPE DE SANTIS DI RECENTE la rete televisiva ITV ha trasmesso un documentario sul supporto dato dalla Libia di Gheddafi ai terroristi dell'IRA: a quanto pare, poco prima della fuga, ha dato un milione di sterline ai terroristi irlandesi per vendicarsi dell'appoggio dato dal governo Britannico ai ribelli. Quanto ci sia di vero è difficile dirlo ma in passato il colonnello ha fornito soldi e armi ai terroristi repubblicani irlandesi e questo documentario ha riportato alla luce una delle pagine più buie della storia britannica. Il fatto che sia stato trasmesso ora non è certo una coincidenza, il governo Britannico sta cercando in tutti i modi di giustificare una guerra che l'opinione pubblica trova difficile appoggiare: nonostante le promesse che la liberazione del popolo libico potesse avvenire in tempi brevi, la realtà è che a distanza di mesi il leader libico è ancora libero e i suoi sostenitori stanno dando filo da torcere a coloro che lo vogliono spodestare. Non sono in pochi a chiedersi se sia giusto che i soldati inglesi debbano rischiare la loro vita per portare avanti una guerra che non ha niente a vedere con la Gran Bretagna e se abbia senso spendere una montagna di soldi in questa campagna (che secondo alcuni analisti potrebbe costare un miliardo e mezzo di sterline) quando il governo sta facendo tagli dappertutto per far quadrare il bilancio. Ma soprattutto c'è un crescente scetticismo alimentato dal fatto che molti dei politici che usano parole dure contro il beduino del deserto di fatto hanno fatto accordi sottobanco anche per interessi personali. Questo naturalmente non vale soltanto per la Gran Bretagna, dopotutto il petrolio libico fa gola a tutti ma questa ambivalenza, se non ipocrisia, ha toccato un nervo presso l'opinione pubblica britannica e non solo tra coloro che sono stati vittime degli attentati compiuti dall'IRA. A destare scalpore è stata la vicenda legata la rilascio per motivi umanitari nel 2009 di Abdelbaset al-Megrahi, il cittadino libico condannato per l'esplosione dell'aereo della Pan Am avvenuto sopra i cieli di Lockerbie, una città della Scozia, nel 1988 che causò la morte di 270 persone. Nel 2009 la decisione del governo scozzese di rilasciare al-Megrahi perché malato terminale di cancro scatena un putiferio in Scozia e negli Stati Uniti soprattutto tra i familiari delle vittime che si sentono presi in giro e la polemica non si accenna a placare visto che dopo due anni al -Megrahi è ancora vivo e vegeto in Libia. Però a destare scalpore c'è anche il fatto che molti faticano a capire come mai il governo scozzese fosse determinato a prendere una decisione così controversa che fino ad ora ha portato pochissimi vantaggi e moltissime critiche. In molti hanno interpretato questo gesto come un tentativo dell'esecutivo scozzese di riaffermare la loro autonomia dal governo centrale britannico e dare un segnale che il popolo scozzese non si sarebbe più fatto comandare da
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Londra ma col passare del tempo questa ipotesi è diventata sempre più difficile da giustificare. A Febbraio è emerso che l'allora governo laburista fece di tutto per far rilasciare Al-Megrahi allo scopo di agevolare la British Petroleum a ottenere concessioni petrolifere il Libia e alcune settimane fa alcuni giornali hanno riportato che l'ex premier britannico Tony Blair ha avuto alcuni incontri secreti con Gheddafi poco prima del rilascio di alMegrahi. Però se i Laburisti e i secessionisti dello Scottish National Party ne escono male, i Conservatori non ne escono bene. David Cameron ha definito sbagliata la decisione di rilasciare al-Megrahi ma il fatto che non sia andato oltre una semplice condanna viene visto da tanti come un segno che il premier Britannico, quanto ad opportunismo, non è ha niente da invidiare al suo predecessore. Nel frattempo la coalizione di governo prende tempo e spera che qualcosa di positivo possa accadere per convincere l'opinione pubblica che questa guerra sia non soltanto giustificata ma possa anche portare grossi vantaggi nell'immediato futuro. Purtroppo l'esperienza delle guerre in Iraq e Afghanistan non lascia ben sperare. Anche in quel caso si era detto che l'azione militare avrebbe finalmente dato ai popoli iracheni e afghani libertà, democrazia e prosperità ma il fallimento di queste guerre di liberazione è sotto gli occhi di tutti e nessuno crede che in Libia le cose possano andare diversamente. Nonostante il governo faccia di tutto per manipolare l'opinione pubblica, il fatto è che sempre più persone si informano tramite internet e i social network, dove ottengono una versione dei fatti ben diversa da quella ufficiale e cresce anche il numero di coloro che invece di guardare i telegiornali della BBC preferiscono canali stranieri come Russia Today. La guerra di liberazione del popolo libico è destinata a durare per un bel po', la pazienza degli elettori britannici forse un po’ meno.
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IL 2012 SI AVVICINA, POVERI NOI!
IL GIRONE senza pietà di DANIELA BINELLO SOLTANTO a pronunciarla provoca disgusto e irritazione. La gente scappa non appena ne sente parlare. Perfino i buonisti la evitano, i politici e i preti mormorano quella parola nelle omelie soltanto se si tratta di fare riferimento a qualche lontanissima situazione internazionale. Ma all’esistenza in vita dei gironi danteschi bisogna credere e se li si vuole toccare con mano basta alzarsi una mattina di buon’ora, attraversare il bel centro storico di Roma, imboccare via de’ Coronari che porta al variopinto mercato di Campo de’ Fiori, pieno di spaparanzata mondanità, e tagliare nel vicolo all’altezza dei filetti di baccalà. Quello di fronte alla friggitoria di tocchetti di merluzzo più famosa della capitale. Lasciato alle spalle tutto quel po’ po’ di bellezza, si arriva al Monte di Pietà e salendo il ripido scalone che immette all’Ufficio dei Pegni si entra con il fiato corto in un altro mondo. Lì c’è il girone dei poveri diavoli. Lì c’è il mal comune mezzo gaudio, la povertà da una vita che è quella parola invisa a chiunque, perfino a chi ci è dentro fino al collo da generazioni. «Questo sistema lo hanno inventato i preti. Ci venivo da rigazzì con mi’ madre», racconta il signor Mario che incontriamo nella sala d’attesa col suo numerino 183, «e questo posto per me è come na’ seconda casa. Con tre figli, che anche se lavorano me tocca continuamente d’aiutà, ho tante pratiche aperte qui che per me venire al Monte di Pietà è diventato quasi come un lavoro. Devo impegnare e disimpegnare perpetuamente, cercando di rispettare le scadenze dei rinnovi altrimenti gli interessi per ogni giorno di ritardo me magnano vivo.» Mario ricorda tutto quello che negli anni è successo al Monte. Da quando si impegnavano perfino le lenzuola «ma senza piagnesse addosso perché a quei tempi eravamo poracci tutti uguali, eccetto quelli della borsa nera», a quando, con l’innovazione informatica, è subentrato lo sportello multifunzionale che, a suo dire, rallenta l’attesa, facendo guadagnare di più la banca che ha in gestione questo servizio, perché così «le persone che non passano in mattinata, sono costrette a tornare il giorno dopo, pagando la maggiorazione della mora». Alle considerazioni di Mario si aggiungono poco dopo anche quelle della sora Carlotta, numerino 191, che conclude, fra il serio e l’ironico: «Mo’ che se semo venduto de tutto, alla nostra età, che se vendemo d’artro?» E giù tutti a ridere. Intanto, dal benessere di viale dell’Astronomia all’EUR, la Confindustria ha divulgato il suo bollettino dei morti e dei feriti. Si tratta di Scenari Economici, il Rapporto che in questo ultimo scorcio d’anno anticipa le previsioni sul prossimo. Con il mercato del lavoro «imballato», aggettiva testualmente il Rapporto, nel 2012 le unità di lavoro cresce-
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ranno soltanto dello 0,2 per cento. Ancora meno di quest’anno, in cui la crescita, si fa per dire, è stata dello 0,9 per cento. E l’anno venturo si chiuderà con 729mila unità mancanti all’appello rispetto al 2007. Gli industriali italiani sostengono che in assenza di significativi guadagni in produttività, il potere d’acquisto delle retribuzioni non possa essere aumentato, ma ciò innesca un circolo vizioso fra bassa crescita e bassa occupazione e dà l’ultima spallata alla capacità di risparmio delle famiglie, già notevolmente intaccata. Giacché il reddito disponibile è peggiorato in termini reali (-0,8 per cento nel 2011 e -1,1 per cento il prossimo anno), il tasso di risparmio netto delle famiglie consumatrici è sceso sotto il 6,1 per cento. All’inizio degli anni ’90 era del 20 per cento. «Di questo passo ci stiamo avvicinando a una caduta dei consumi del 4-5 per cento», rincara la dose da parte sua Federconsumatori, «perché con le manovre varate dal governo le famiglie italiane nel 2012 perderanno a regime altri 2.031 euro di potere d’acquisto». E qui non c’è proprio niente da ridere. Andiamo in Germania, allora, dove l’economia è ripartita con slancio fin dalla seconda metà del 2009, grazie all’export, permettendo di riallungare gli orari di lavoro (fortemente ridottisi durante la fase di recessione) e di raggiungere una crescita dell’occupazione dell’1,7 per cento. Con un salario medio di 2.500 euro mensili, gli operai dei vari Länder lavorano 35 ore settimanali e per il resto del tempo non se la passano affatto male, nonostante la crisi globale, tanto da fare innalzare i consumi a oltre il 2,1 per cento nel primo trimestre del 2011. Del resto, non era stato il vecchio Keynes, poco dopo la grande depressione degli anni ’30, a dimostrare che «reddito uguale domanda aggregata»? Un paradigma che, cotto e mangiato, vuol dire che le cose si comprano con lo stipendio e con i risparmi. E, perché no, anche con la carta di credito, che consente di pagare a lungo termine, ammesso e non concesso, che la banca ti rilasci la carta, perché negli Stati Uniti, ad esempio, non è più così. In un contesto caratterizzato dalla necessità delle famiglie americane di abbattere i debiti e ripristinare un più appropriato tasso di risparmio, l’andamento dei consumi è crollato miseramente, causando il peggior indice (44,5) di Conference Board dal 2009 in qua (misura la fiducia dei consumatori americani sulle prospettive dell'economia e della propria situazione finanziaria). Il blocco dei consumi nel mercato americano imbriglia la spesa dei consumatori di quella nazione, ma non dimentichiamoci che ha ricadute pesantissime su tutto il globo, visto che il PIL statunitense rappresenta il 70 per cento sui consumi interni americani e il 30 per cento su quelli mondiali.
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Dulcis in fundo, India e Cina. Uniti da un insolito e stravagante destino, questi due continenti stanno facendo le prove generali come potenze mondiali dirompenti in Africa. Mentre gli Indiani investono in Africa, i Cinesi si portano tutto da casa, manodopera compresa, ma il risultato non cambia. Sui mercati africani non c’è più nulla di africano, le merci sono cinesi e indiane, dalla A alla Z, mentre la ricchezza delle risorse naturali africane, dall’oro nero ai minerali, dal gas ai diamanti, migra verso le due superpotenze asiatiche. Con la nascente economia africana, però, aumentano i consumi degli africani. La classe media emergente in Africa è formata ormai da circa 300 milioni di persone che hanno un potere d’acquisto dai 2 ai 10 dollari al giorno (una massa critica simile a quella emersa in Cina e in India). L’accelerazione del PIL africano arriverà a 5,8 per cento nel 2012. E sebbene soltanto il 20 per cento delle famiglie africane possieda un conto corrente, con la diffusione massiva della telefonia mobile, stanno insediandosi a perdita d’occhio nuovi «sportelli» bancari condivisi con gli shop di ricariche telefoniche, che sorgono già da tempo nelle aree dei grandi mercati. La Standard Bank sudafricana, nella nazione che produce da sola circa un terzo del PIL africano, ha aperto di recente 8.300 di questi sportelli-shop che, attraverso il sistema delle ricariche telefoniche e degli sms, sta diffondendo i micropagamenti elettronici. Tanti africani che vivono nelle townships (i sobborghi che sorgono vicino alle aree metropolitane) possono così utilizzare i servizi bancari. Praticamente la via più diretta verso il Monte di Pietà africano è già spianata.
ASPETTANDO IL TURISTA (Gianni Isidori, il Borghese 7 Luglio 1974)
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I PROBLEMI DI OBAMA CON ISRAELE
LA COLLERA di Bibi di ANDREA MARCIGLIANO DICONO, i soliti «bene informati», che a Bibi Netanyahu il solo sentir nominare l’attuale Presidente statunitense provochi, ormai, travasi di bile e orticaria con convulsioni. Al punto da far sospettare che, se invitato a fare il vecchio «gioco della torre» tra (il defunto) Osama e (il vivo ed in ottima salute) Obama, il premier israeliano avrebbe più di qualche esitazione su chi buttare nel vuoto. Battute e giochi (di parole) a parte, è un fatto che le relazioni fra Washington e Gerusalemme non sono mai state così fredde come in questi ultimi tempi. E non si tratta di un gelo esclusivamente personale fra i due leader, che comunque non appaiono certo fatti per intendersi. Nazionalista ed iper-conservatore il sanguigno Bibi; liberal, con venature da sinistra radical-chic il sempre sorridente, ma in fondo algido Barack. Il primo un autentico sabra, un figlio d’Israele legato, visceralmente, alla Terra Santa, ed erede della tradizione, pura e dura, del Likud. Il secondo prodotto del melting pot globalistico: padre kenyota, madre (bianca) del Kansas, cresciuto tra l’Indonesia e le Hawaii, trapiantato, infine, per ragioni politiche, a Chicago, dove le nozze con Michelle - lei sì un’autentica afro-americana, orgogliosa discendente di antichi schiavi - gli hanno finalmente fornito un, necessario, radicamento. Insomma, due uomini più diversi non potevano trovarsi al vertice di Washington e Gerusalemme, ma, come dicevo, il gelo attuale dipende (anche) da ben altro. Recriminazioni e sospetti - La lista delle reciproche recriminazioni, delle lagnanze è lunga. Gerusalemme lamenta l’ambiguità della politica dell’attuale Amministrazione statunitense nei confronti del mondo arabo. Ambiguità inaugurata da Obama all’indomani della sua elezione, quando, in un tour nel Medio Oriente raccolse ovazioni per le sue «aperture» verso gli Arabi e l’Islam, culminate nel famoso discorso tenuto all’Università cairota di alAzhar, la più importante istituzione culturale del mondo arabo, certo, ma anche la roccaforte del fondamentalismo sunnita che nutre i movimenti dei Fratelli Musulmani ed influenza le loro propaggini radicali. Ambiguità, poi, continuata con le costanti incertezze sulla questione palestinese e, addirittura, con l’apertura di credito al regime di Damasco, considerato da Israele una minaccia per la propria sicurezza. Credito ormai chiuso dopo i recenti avvenimenti interni alla Siria, e tuttavia non va dimenticato - e Bibi certo non dimentica - che l’Amministrazione Obama ha riaperto l’Ambasciata di Damasco, scongelando così le relazioni tra Siria e Stati Uniti. Infine il comportamento di Washington di fronte alle cosiddette «Primavere arabe». Un comportamento che ha decisamente favorito - quando non direttamente provocato - il «Regime Change» in Tunisia ed Egitto, rendendo improvvisamente instabili due Paesi la cui politica aveva, sino a quel momento, contribuito a
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garantire la sicurezza israeliana. Per non parlare poi della guerra libica, che potrebbe innescare un minaccioso focolaio in tutto il Nord Africa. Politica, quella americana, che il Capo di Stato Maggiore israeliano ha apertamente definito «pericolosamente avventuristica». Quanto all’iroso Bibi si dice che, privatamente, abbia usato espressioni ancor più colorite. Per altro anche a Washington le doglianze nei confronti dell’amico israeliano non mancano. In primo luogo la politica di Netanyahu favorevole ai coloni, che sembra aver vanificato un decennio abbondante di strategia volta a trovare un accordo con l’ANP di Abu Mazen. E quindi a depotenziare la questione palestinese, che molti, nell’entourage di Obama, ritengono essere la causa principale dell’odio arabo nei confronti degli Stati Uniti. Causa da rimuovere quanto prima, se davvero l’attuale Amministrazione vuole riuscire a chiamarsi fuori dall’Iraq e, soprattutto, a presentarsi come paladina delle libertà alle nuove classi dirigenti emergenti un po’ in tutto il Medio Oriente ed il Maghreb. Questa la posizione sostenuta da ascoltatissimi consiglieri di Obama, come il suo vice Joe Biden, vecchio senatore con il pallino della politica internazionale e già più volte promotore di iniziative alquanto balzane (sua, ancora ai tempi di Bush, la proposta di dividere l’Iraq in tre Stati, consegnando di fatto il sud petrolifero agli Iraniani e creando a nord uno Stato curdo, suscitando la furia di Ankara. Proposta rimasta fortunatamente soltanto sulla carta, almeno sino ad oggi). Poi c’è la questione della rottura fra Gerusalemme ed Ankara in seguito all’incidente - per usare un eufemismo - della nave Mavi Marmara. Washington ha, naturalmente, preso, nel Palazzo di Vetro, le parti di Gerusalemme, ma lo ha fatto masticando davvero amaro. Infatti, l’intemperanza di Bibi - come in taluni ambienti dell’Amministrazione viene valutato il comportamento israeliano - nonché la sua caparbietà nel non volersi scusare con il premier turco Erdogan, stanno costando care agli States. Rimettendo in discussione i rapporti con quella Turchia che rappresenta pur sempre la seconda forza militare della NATO, ed un pilastro degli equilibri nel Mediterraneo. Riflessi (elettorali) nel mosaico americano - Freddezza e recriminazioni reciproche, dunque. Uno stato di cose che, però, in questo momento potrebbe costare più caro ad Obama che a Netanyahu. Infatti, l’appressarsi delle Presidenziali del 2012 vede l’attuale inquilino della Casa Bianca a forte rischio di sfratto, come, per altro, egli stesso ha ammesso in una recente dichiarazione (dando però tutta la colpa alle contingenze economiche internazionali, al fallimento dei partner europei e, in buona sostanza, al «destino cinico e baro» di saragatiana memoria). Comunque, nello staff presidenziale si leggono ed interpretano ogni giorno con maggior preoccupazione i sondaggi. Non soltanto quelli, generali, di pubblico dominio - che pure danno la popolarità di Obama in vertiginoso calo - ma anche, anzi soprattutto, quelli, meno noti, che analizzano le intenzioni di voto per specifici gruppi. Gli States, infatti, sono un insieme di mille, diverse, comunità etniche e/o religiose, un complesso mosaico dove, come scrive Michael Walzer, non esistono gli «americani» tout court, bensì gli «americani con il trattino», ovvero gli anglo-americani, gli italo-americani, gli afro-americani e così via. Orbene, il voto di queste, diverse e coese, comunità è, sempre, determinante per la scelta di un presidente, sia questi democratico o repubblicano, liberal o conservatore.
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E Obama, ad un anno dalla sfida per restare alla Casa Bianca, deve farsi bene i conti. Dando per scontato l’appoggio massiccio della comunità afro-americana - tranne che nel caso, improbabile, che i Repubblicani candidino il multimilionario, ed ultra-conservatore «nero» Herman Cain - è, però, sempre più dubbio quello di altre lobby estremamente influenti che lo avevano sostenuto nel 2008. In primo luogo i «latinos», delusi da politiche sull’immigrazione molto più restrittive di quelle di George W. Bush e, per altro, da sempre più legati ai New Democrats clintoniani che ai liberal di Obama. Una perdita di consenso già di per sé grave, che però si trasformerebbe in un incubo, per lo staff di Obama, se vi si dovesse aggiungere la defezione in massa anche dell’elettorato ebreo-americano. Elettorato da sempre prevalentemente orientato verso i Democratici, ma che già in passato ha dato prova di essere pronto a svoltare massicciamente a favore dei Repubblicani qualora venissero messi in discussione gli interessi di Israele, o, addirittura, la sua sopravvivenza. Un elettorato influente non soltanto per il numero di voti, ma ancor più per il ruolo che la comunità ebraica riveste nei media e in ampi settori dell’economia e della comunicazione. Tant’è che tutti i candidati repubblicani, in questi ultimi tempi, si stanno dando un gran daffare per corteggiarla, con dichiarazioni di totale sostegno agli interessi ed alla sicurezza di Gerusalemme. Obama, dal canto suo, sta provando a recuperare terreno, in particolare con il veto opposto all’ONU al pieno riconoscimento dell’Autonomia Palestinese come Stato membro. Però potrebbe essere troppo poco e, soprattutto, troppo tardi. La sensazione è che Obama abbia perso questo treno quando, lo scorso anno, di fatto ha allontanato da Washington - per «promuoverlo» sindaco di Chicago il suo vecchio capo dello staff, quel Rahn Emmanuel che tutti conoscevano - anche per la sua storia familiare - come l’uomo di collegamento fra l’Amministrazione di Washington e il Likud di Netanyahu.
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INCERTEZZE REPUBBLICANE
MA DOVE È l’anti Obama di FRANCESCO ROSSI LE PRIMARIE per le elezioni presidenziali del 2012 si svolgono soltanto per i Repubblicani, perché i Democratici, avendo un loro uomo alla Casa Bianca che ha già annunciato la sua candidatura per un nuovo mandato, non devono passare per questo procedimento importante per la democrazia ma sfibrante per ogni partito. I singoli candidati, infatti, se le danno di santa ragione con la conseguenza di danneggiare il loro partito. Potremmo usare il condizionale per la formazione che in questo momento esprime il Presidente, poiché non può escludersi che qualcuno tra i Democratici si faccia avanti per sfidare Barack Obama. Al momento in cui si scrive, questa eventualità, già ventilata, non ha raggiunto il livello che la renderebbe probabile, però al tempo stesso non la si può escludere del tutto. Perché un Democratico dovrebbe sfidare il suo Presidente? Perché è un Presidente debole, con un tasso di popolarità che si aggira a poco più del 40 per cento, una percentuale di «scontentezza» nei suoi confronti dell’81 per cento, ragion per cui sfidarlo potrebbe apparire un modo per evitare ai Democratici una sconfitta più che possibile. La sfida «interna» è già avvenuta in passato, vedi per il partito Democratico quella di Ted Kennedy contro il Presidente in carica Jimmy Carter nel 1980 e per il partito Repubblicano la sfida di Ronald Reagan contro il presidente Gerald Ford nel 1976 o quella di Pat Buchanan contro l’inquilino della Casa Bianca George Bush nel 1992. In tutti i casi di sfide «interne», il Presidente in carica, anche se alla fine ha ottenuto la candidatura del proprio partito (nel caso di Ford contro Reagan, soltanto per pochissimi delegati), ha visto la propria posizione indebolirsi nei confronti dell’elettorato ed alla fine ha perso l’elezione. Se un esponente Democratico si facesse avanti per contestare la posizione di candidato alla Casa Bianca a Barack Obama, questo fattore, forse più di qualunque altro, renderebbe la rielezione di Obama davvero incerta.. Se la posizione dell’attuale Presidente è senza dubbio difficile, come lui stesso ha dichiarato, anche se non certo per il suo operato a suo avviso ma «…a causa delle crisi economica» , i Repubblicani non se la spassano affatto. Non è ancora emerso con chiarezza il candidato antiObama e coloro che apparivano come i favoriti si sono attaccati in maniera così netta sulla stampa ed in particolare nei dibattiti televisivi da uscirne a brandelli. Alcuni esponenti Repubblicani hanno chiesto a gran voce il ritorno in gara un candidato che già ne era uscito prematuramente, il Governatore del New Jersey Chris Christie. «Ora non è il mio momento», ha dichiarato l’interessato il 5 di ottobre, lasciando definitivamente il campo, dopo però che per alcune settimane il suo possibile ritorno ha reso incerti i giochi in casa Repubblicana. In Florida, in base ad un sondaggio pre-elettorale, è risultato vincente Herman Cain, un imprenditore nero di grandi capacità dialettiche. Uno dei grandi favoriti, l’ex Governatore del Massachusetts, Mitt Romney, già candidato per le presidenziali del 2008, non riesce a suscitare entusiasmo. L’altro grande
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favorito, l’ex Governatore del Texas, Rick Perry, reaganiano doc, che ricorda fisicamente il quarantesimo e molto popolare Presidente degli Stati Uniti, è stato quello che più ha perso terreno proprio a causa dei suoi scontri televisivi con Romney. La debolezza di Obama verrà dunque compensata dall’indecisione dei Repubblicani? Finiranno per appoggiare qualcuno ma senza troppa convinzione? Nonostante le indubbie difficoltà, il candidato Repubblicano che ha più possibilità di emergere in netta contrapposizione rispetto all’attuale Presidente e poi di vincere la corsa finale è proprio Rick Perry. Politico di credenziali conservatrici con positivi risultati all’attivo come Governatore del Texas, Perry è un uomo di poche ma nette convinzioni e non usa formule ariose o banali per esprimerle come l’appello al «cambiamento» o alle «riforme». Egli ha definito l’attuale sistema di Sicurezza Sociale uno «schema Ponzi» ed affermato che il primo passo per migliorarlo è quello di riconoscere che quello è un problema. Perry ha fatto molto come Governatore per rendere sicuro il confine del Texas e per ridurre l’immigrazione illegale; ha sostenuto la legge anti-immigrazione illegale dello Stato dell’Arizona e ha dato a questo Stato il proprio appoggio nella battaglia legale contro il ministero della Giustizia. Insieme all’investimento per rendere sicuri i confini con il Messico, Perry, sorprendentemente, ha concesso il diritto ai figli di immigrati clandestini di avere dei benefici per frequentare le scuole statali, un modo questo, secondo il candidato Repubblicano, di dare a quei ragazzi la possibilità di divenire cittadini produttivi e di evitare la formazione di una «sotto-classe». Il maggiore problema di Perry è che, nonostante sia stato per più di dieci anni il Governatore del secondo Stato con maggiore popolazione degli Stati Uniti, è ancora poco conosciuto nei circoli Repubblicani e presso la stampa. Il suo principale concorrente, Mitt Romney, lo attacca dicendo che non ha la sua esperienza di uomo d’affari. È vero, ma Perry può comunque vantare il suo servizio di cinque anni come pilota dell’aviazione, che lo ha portato a guadagnarsi il grado di capitano e questo nel contesto americano ha il suo peso. E per quanto concerne il dato politico, Perry ha fatto un ottimo lavoro come Governatore del Texas. Per quanto riguarda Mitt Romney, la sua debolezza è la riforma sanitaria da lui compiuta quando era Governatore del Massachussets, che ha fatto crescere le spese del settore e che presenta dei pericolosi punti in comune con la tanto deprecata riforma sanitaria di Obama, per esempio, l’obbligo per ogni cittadino di sottoscrivere un’assicurazione sanitaria privata. Se uno di cavalli di battaglia dei Repubblicani nel 2012 per sconfiggere Barack Obama è la necessità di abrogare la sua riforma sanitaria, come potranno cavalcare con forza quel cavallo se Romney sarà il loro candidato? Questo è un grosso problema e non a caso Rick Perry sottolinea questa contraddizione sostenendo che l’eliminazione della riforma di Obama è «il più urgente richiamo per chiunque sarà il nuovo Presidente». Ecco perché, anche alla luce delle battaglie Repubblicane combattute durante il mandato dell’attuale Presidente, Rick Perry è quello che nell’insieme ha le maggiori possibilità di riportare i Repubblicani alla Casa Bianca. Tra i conservatori e i moderati, Ronald Reagan ha acquisito ormai lo status di figura di riferimento e Perry per la sua attività politica ed il suo aspetto può essere presentato come il Reagan del ventunesimo secolo, con il quale condivide, oltre che le basilari convinzioni politiche, anche un’altra esperienza: quella di aver fatto parte, inizialmente, del partito Democratico, che ha abbandonato nel 1989.
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CAMBIO DELLA GUARDIA A MOSCA
OGGI A TE, domani a me di INNA KHVILER AIELLO DMITRIY Medevedev, interrompendo il lungo silenzio sul nome del candidato alle prossime elezioni presidenziali del 2012, il ventiquattro settembre scorso, al Congresso del partito di maggioranza «Russia Unita», ha annunciato: «Ritengo che sia la decisione più giusta per il Congresso sostenere il leader del partito Vladimir Putin come candidato alla Presidenza», e Putin, a suo turno, salito sul palco, ha indicato Medvedev per il ruolo di Premier al termine del mandato presidenziale e l’ha proposto come capolista del partito alle elezioni legislative del prossimo dicembre. Nell’intervista rilasciata ai direttori dei tre più autorevoli canali televisivi russi, Medvedev ha respinto le accuse di chi ha sostenuto che tutto era già deciso e che sono sicuri anche gli esiti delle imminenti elezioni, rilevando che gli uomini politici non possano essere mai certi dei risultati elettorali. Nella storia del nostro Paese, ha aggiunto il Presidente del Cremlino, e in quella di altre Nazioni è accaduto più di una volta. Secondo gli ultimi sondaggi, però, il partito «Russia Unita» sarà il primo alle legislative con un gradimento dell’elettorato pari al 43 per cento, mentre per il Partito comunista, guidato da Andrei Zughanov, si prevede un secondo posto con soltanto il 13 per cento dei voti. In altre parole, il dito di Medvedev puntato su Putin come l’unico candidato del partito nella corsa al Cremlino e i lunghi applausi della sala al Congresso sono stati inequivocabili: Vladimir Putin, già Presidente della Federazione Russa dal 2000 al 2008, sarà alla guida del Paese per i prossimi sei anni, così come previsto dalla nuova legge elettorale. Alla domanda del direttore del primo canale televisivo russo perché il Presidente in carica, con un buon livello di gradimento tra la popolazione russa, non si è ricandidato, Medvedev ha giurato di aver rinunciato alle sue ambizioni personali per il bene del Paese. Il Presidente uscente ha ammesso che ora è Vladimir Putin l’uomo politico più autorevole in Russia e che la decisione è stata concordata e ben meditata. «Quando affermavo che non escludevo di ricandidarmi al Cremlino non ingannavo nessuno, la vita può prendere le strade più imprevedibili», ha aggiunto Medvedv, «ma sapevo che la scelta, qualunque fosse stata, non avrebbe influito sulla politica russa per la comunanza d’idee con Putin sulle strategie chiavi dello sviluppo in Russia.» I mezzi d’informazione britannici, però, hanno espresso forti dubbi sulla sincerità di Medvedev, così come sostenuto dal Financial Times. Secondo l’autorevole giornale, la decisione annunciata al Congresso del Partito è conseguenza e parte di un compromesso politico concluso qualche anno fa tra i due uomini politici e il Capo del Cremlino ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, «… al Congresso, il Presidente Medvedev è apparso molto agitato e ha trattenuto le lacrime con una certa difficoltà», ha sostenuto il giornale inglese.
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Secondo la BBC, in un certo momento, l’Occidente ha creduto che Medvedev fosse un sicuro liberale, intenzionato a partecipare alla corsa alla poltrona del Cremlino senza compromessi con Putin, ma il Congresso di «Russia Unita» ha tolto ogni dubbio in proposito. A parte, comunque, le illazioni e le ricostruzioni degli eventi che hanno portato alla candidatura di Vladimir Putin, importante ora è comprendere quali saranno nel prossimo futuro le reazioni interne, internazionali e quelle dei mercati. Gli esperti dell’autorevole azienda russa per gli investimenti «Troika Dialog» considerano la decisione di candidare Putin come molto positiva, infatti, hanno affermato che «l’annuncio della candidatura a conclusione di un lungo periodo di silenzio è stato finalmente quella svolta definitiva che consentirà chiarezza nei mercati e agli investitori di pianificare tempestivamente i loro programmi». Anche la quotata azienda russa TKB Capital, attraverso i suoi analisti, ha sostenuto che, nonostante il gradimento degli investitori per il liberale Medvedev a candidato alla poltrona presidenziale, non vi è ora spazio per preoccupazioni poiché i due leader non hanno consistenti disaccordi sulla politica economica del Paese. La decisione di candidare Putin, quindi, appare bene accolta all’interno della Russia sia dall’elettorato e sia dagli investitori. Ripercussioni, invece, si temono nelle relazioni internazionali, i primi commenti non sono tutti univoci, anche se in Russia si afferma che i rappresentanti del business occidentali hanno accolto abbastanza positivamente la notizia. Il Financial Times non è apparso sostanzialmente critico sugli avvenimenti, riportando: «… la maggioranza degli uomini d’affari è convinta che Putin porterà avanti le riforme liberali compresa la privatizzazione …» e l’influente analista britannico Chris Weafer ha dichiarato che nei prossimi anni Putin favorirà il progresso economico del Paese, «… oggi da parte di tanti si può sentire che la Russia va incontro a una stasi, ma se per questa stasi s’intende la stabilità del potere e il controllo del Governo sull’economia, sono tanti i Paesi occidentali in profonda crisi economica e finanziaria che vorrebbero la stessa situazione politica». Secondo il quotidiano britannico Guardian con il ritorno di Putin al Cremlino, la Russia continuerà ad avere problemi di libertà dei mezzi d’informazione e sui diritti umani e rallenterà il cammino verso una società pienamente democratica, mentre secondo la BBC, il Presidente russo uscente avrà difficoltà nella promozione della sua politica nei prossimi sei mesi, antecedenti alle presidenziali. Gli esperti dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, sia pure riconoscendo la mancanza di un’alternativa valida a Vladimir Putin, hanno espresso forti preoccupazioni per eventuali deterioramenti dei rapporti tra Russia e Paesi occidentali, in particolare tra Mosca e Washington. In un articolo apparso sull’autorevole quotidiano Wall Street Journal, si suppone che il ritorno di Putin alla poltrona presidenziale russa annullerà tutti gli sforzi dell’amministrazione di Obama per un ampliamento della collaborazione nel campo del controllo degli armamenti e nel settore commerciale. Sulle pagine del quotidiano Daily Telegraph è stato pubblicato, invece, un articolo più
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cauto dal titolo «L’eterno Putin», nel quale l’autore ha voluto ricordare che la Russia è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ed esportatore d’idrocarburi e che se anche mancherà l’intesa tra Mosca e Washington, i rapporti tra le due capitali sono destinati a incrementarsi. In Russia, la politica di reset, lanciata da Barak Obama e Hillary Clinton e mirata a far dimenticare la guerra fredda e a rilanciare la cooperazione strategica tra Mosca e Washington, provoca tanto scetticismo. L’attuale inquilino del Cremlino è stato spesso criticato in Patria per la sua esagerata disponibilità nei confronti dell’Occidente, grazie, infatti, a Medvedev, la Russia ha sostenuto le sanzioni contro l’Iran, si è screditata nel Medio Oriente per l’interruzione della fornitura dei missili S300, ha facilitato l’accesso della NATO in Afganistan, non ha ostacolato l’intervento dei Paesi europei in Libia trascurando i buoni rapporti e i contratti per miliardi di dollari con Gheddafi. Nello stesso tempo, però, gli USA non hanno rivisto i loro piani sull’ABM in Europa, non hanno abolito l’emendamento Jackson-Vanik e non evitano di fare dichiarazioni come quella del direttore dell’intelligence statunitense James Clapper che l’undici marzo scorso ha definito la Russia come un pericolo mortale per la sicurezza degli States. Gli esiti futili della politica di reset non potranno, quindi, influenzare Putin che ha sempre saputo gestire situazioni difficili a livello internazionale anche a costo di guadagnarsi un’immagine negativa all’estero. In Russia, si è convinti che nonostante l’Occidente perderà un partner «comodo», non avrà convenienza a trascurare gli scambi commerciali. Nel frattempo, lo stimato Ministro delle Finanze russo Aleksei Kudrin ha dato le dimissioni ed è stato sostituito dal suo vice Anton Siluanov. Il gossip politico russo parlava da qualche tempo di forti disaccordi tra Kudrin e i membri del tandem sulla ripartizione degli stanziamenti governativi, in particolare per la difesa. Il ministro «tirchio» avrebbe tentato di diminuire le spese federali, a suo parere, esagerate a fronte delle difficoltà economiche mondiali. Da parte di alcuni settori si sostiene, però, che Kudrin, meritevole anche alla poltrona di Premier, sia rimasto irritato della preferenza espressa da Putin per Mevedev. Nonostante Aleksei Kudrin sia considerato uno dei più importanti protagonisti del «miracolo russo», il Cremlino ha accettato subito le sue dimissioni, affermando che in uno Stato presidenziale un ministro non può contrastare la linea governativa. Le ultime notizie danno per certo un riavvicinamento tra Putin e l’ex ministro che ha deciso di accettare l’incarico di consulente del Cremlino e la promessa di ottenere, dopo le elezioni, un importante incarico nel mondo della finanza. Comunque vada tra i due, in Russia si spera che Putin sia avvantaggiato durante il suo mandato da un rialzo dei prezzi del petrolio, altrimenti avrà serie difficoltà a mantenere la promessa di modernizzare il Paese e di assicurare benessere ai cittadini. Non rimane che aspettare e capire se Putin sarà il «leader di ferro», come definito dal quotidiano britannico Sunday Telegraph e, soprattutto, se farà conseguire alla Russia il predominio energetico sulla scena mondiale.
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LA SPAGNA ED IL DOPO ZAPATERO
LA RESA dei conti di GIANPIERO DEL MONTE I SONDAGGI prevedono una netta sconfitta dei socialisti ed una entrata trionfale del PP al governo ma la campagna elettorale denota accenti di bassa lega. Le elezioni politiche di novembre si imperniano sullo scontro fra Alfredo Pèrez Rubalcaba e Mariano Rajoy esponenti delle due principali forze in campo, evidenziando una povertà dialettica in chiaro contrasto con l’esigenza di verità che dovrebbe caratterizzare il dibattito. I socialisti ripetono che la destra sta pianificando il disfacimento dello stato del benessere presentando Rajoy come colui che riserverà la falce per i pensionati e la motosega per il settore dell’Educazione. Diffondono l’idea che «può venire il lupo» della destra che porterà spavento e accentuerà la crisi ma di questo linguaggio, certo, gli Spagnoli non hanno bisogno e vorrebbero ascoltare frasi dai contenuti più solidi e dai ragionamenti più costruttivi. Sarebbe necessario anche un maggiore sforzo intellettuale per non scadere nel catastrofismo e nella demagogia quando si segnalano le differenze con l’avversario. Rubalcaba rimarca ogni giorno che il PP favorisce i ricchi mentre il PSOE, naturalmente, difende i poveri, senza stare a sentire quanti gli rinfacciano le sue responsabilità nel governo socialista che ha prodotto il maggior numero di tagli in tutti i settori fra tutti i governi della democrazia spagnola, impoverendo più che mai tutti i cittadini. Secondo le ultime inchieste Rubalcaba porterebbe i socialisti ai peggiori risultati della sua storia, con esiti peggiori di quelli ottenuti nel 2000 da Joaquin Almunia di cui sembra ripetere gli errori. L’accordo Almunia-Frutos fra i socialisti e Izquierda Unida fece crollare il partito ai minimi storici. Ora Rubalcaba rincorre la sinistra estrema abbandonando il centro che è il terreno in cui si pescano i voti e che sta invece lasciando a Rajoy. Il PSOE ha ora riesumato la figura di Felipe Gonzalez per ritrovare una spinta in avanti contro ogni previsione di sconfitta, cercando di gettarsi alle spalle l’èra nefanda di Zapatero che lascerà il potere. L’ex presidente del governo si è messo a disposizione del candidato socialista nel comitato elettorale di fine settembre ed ha chiesto una mobilitazione immediata che dia adito ad una offensiva contro i peggiori pronostici. I socialisti, però, si aggrappano ora ai gruppuscoli abortisti, agli studenti ribelli, ai sindacalisti e ai simpatizzanti dell’ETA per trovare motivi alternativi che consentano un valido contrasto coi popolari di Rajoy. Il presidente del governo basco, Patxi Lòpez, ha chiesto al governo centrale che faccia accedere i carcerati dell’ETA ai penitenziari della Comunità Autonoma basca con l’obiettivo di far cessare le sue attività criminali e decretare la sua sparizione. Il governo socialista ha risposto che terrà conto della proposta ricordando che la politica antiterrorista è frutto dell’accordo fra il governo spagnolo e quello basco. Il Lehendakari, presidente del governo autonomo basco, ha avvisato la sede del PSOE a Madrid prima di accennare al suo piano ed ha condiviso la sua strategia con l’ex ministro dell’Interno ed ora candidato socialista Alfredo Pèrez Rubalcaba.
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La questione ha acceso i toni del dibattito registrando il naturale disaccordo dei popolari fra i quali il presidente del PP basco Besagoiti il quale ha accusato i socialisti di «mettere l’ETA nella campagna elettorale» per cercare voti appoggiando la proposta di Patxi Lòpez. Ha sottolineato l’irresponsabilità di Rubalcaba che sembra stare con l’ETA ed ha aggiunto che «bisogna far capire ai giovani come i socialisti non abbiano alcun piano da offrire ai cittadini per affrontare i problemi economici, dell’educazione e della sanità e men che meno le questioni del lavoro che più preoccupano la gente». Nessuno s’illude che a breve e media scadenza si possano sviluppare politiche molto differenti da quelle dettate dall’UE, anche se vincessero i popolari. Tuttavia si spera almeno che Rajoy sappia affrontare i problemi con maggiore equilibrio. L’uomo è esperto, è difficile che si faccia illudere dal successo e sa che avrà tutti i fucili puntati su di lui. Dovrà procedere con decisione e prudenza. I problemi sono tanti e ci vuole un programma sensibile e cauto, senza la pretesa di cambiare subito tutto alle radici. I suoi interventi dovranno riguardare, oltre le questioni economiche e del lavoro, la giustizia, che è un campo di imparzialità e di diseguaglianze, le autonomie, l’educazione e i rapporti internazionali con Castro, Chavez e i palestinesi, facendo ben intendere che non si è loro clienti. Molti pensano che Rajoy chiamerà al governo Alberto Ruiz Gallardon, sindaco di Madrid, e questo non dovrebbe suscitare obiezioni. Si conoscono le aspirazioni di Gallardon che gli hanno già procurato contrasti e strane alleanze. Ora si è messo a disposizione del PP intavolando buone relazioni con Rajoy che a sua volta mantiene buone relazioni con Esperanza Aguirre, presidente della Comunidad de Madrid. Gallardon si riunisce ogni settimana con Rajoy nel Comitato di direzione del partito per seguirne la strategia. Si cerca di limare ogni asprezza e di schivare ogni polemica. Difficile che arrivi alla vicepresidenza del governo per la quale si pensa soprattutto a Soraya Saenz de Santamaria ma potrebbe avere quella economica se Rajoy decidesse di avere due vicepresidenze. Nel clima di austerità ora necessario, però, se ne potrebbe avere una sola e allora Gallardon potrebbe essere nominato portavoce o andare agli Interni, alla Giustizia o alla Difesa. Fra le linee del programma dei popolari si prevede l’abbassamento delle tasse per le piccole e medie imprese e la riforma del pagamento dell’IVA. I popolari si sono incontrati con gli imprenditori e fanno notare che senza di loro non c’è lavoro per cui occorre sostenerli in quanto per creare ricchezza e posti di lavoro rischiano il loro patrimonio. La crisi coinvolge tutti ma la Segretaria generale Dolores de Cospedal ha detto che, in caso di vittoria, se non si potrà parlare di fine immediata della crisi sarà comunque il primo giorno di un percorso che alla fine della crisi porterà.
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CONTRASTO TRA PROTESTA E RIVOLTA
DIVERSITÀ dei fini di ALFONSO PISCITELLI IL 2011 è stato anno di tensioni sociali: a maggio in Spagna scendono in campo gli indignados, che occupano Puerta del Sol e protestano contro il giro di vite imposto dalla zona euro, la corruzione e la collusione tra politici e banchieri. 250.000 persone scendono in piazza a Madrid e Barcellona. A giugno i giovani israeliani protestano con scioperi della fame e manifestazioni in piazza. I manifestanti chiedono al governo di rivedere le proprie priorità ponendo all’ordine del giorno le questioni dei salari e degli affitti troppo alti. In Grecia, montano le proteste contro i tagli previsti dal pacchetto di austerità approvato da Papandreu, che prevede tagli di quasi la metà dello stipendio e la messa in mobilità di 30 mila dipendenti pubblici. Ultima in ordine di tempo la protesta degli Stati Uniti: una protesta che per così dire va al cuore del sistema, Wall Street. Sul ponte di Brooklyn: i manifestanti molto civilmente manifestano contro gli speculatori e i banchieri che hanno posto i presupposti della crisi speculativa, e contro i politici che con la loro acquiescenza hanno foraggiato le banche senza risolvere i problemi di fondo. Accanto a tutte queste, si è verificata però nel corso del 2011 una protesta che ha assunto caratteri del tutto particolari, non riconducibili allo schema tipico delle altre. A Londra in estate un ventinovenne di colore Mark Duggan viene ucciso da un agente di polizia il 4 agosto nel quartiere di Tottenham. Il ragazzo si era sottratto a un controllo di polizia e in conseguenza di una prevedibile prassi viene colpito. Alla morte di Duggan seguono scontri e saccheggi che si estendono anche ad altre città del Regno Unito. Protesta sociale o espressione di teppismo urbano? In sociologia spesso non esistono confini netti tra un forma e l’altra di comportamento sociale e d’altra parte le azioni umane spesso rispondono ad una molteplicità di motivazioni. Ciò detto alcune considerazioni si impongono: il carattere netto di saccheggio caratterizza le vicende inglesi di questa estate e rende assolutamente peculiare la rivolta scoppiata nel quartiere di Tottenham. Nel sobborgo di Londra l’elemento fondamentale non è stata la protesta contro le politiche incapaci di gestire la crisi; non è sorto un movimento che ha fatto proposte o ha avanzato denunce. I giovani che hanno preso parte alla sommossa non erano collegati in un movimento, ma erano coordinati tra di loro attraverso gli strumenti individuali di comunicazione. Facebook, Twitter, i telefonini palmari che ormai fungono da antenne della grande rete informatica. La polizia inglese è stata messa sotto scacco due volte. I poliziotti monitoravano i blog, i siti internet aperti a tutti dove si esprimono idee; e invece i giovani extracomunitari comunicavano attraverso quelle pagine private di internet che
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esprimono il senso del clan e alle quali si accede soltanto dopo che è stata «accettata l’amicizia». La polizia è stata messa sotto scacco una seconda volta perché grazie alle telecamere contenute nei telefonini i rivoltosi potevano commettere impunemente violenze e nello stesso tempo filmare la reazione energica delle forze dell’ordine. Ma tutta questa tecnologia d’avanguardia, nel corso della rivolta estiva di Tottenham, è stata posta al servizio di un impulso primordiale: l’impulso predatorio. Non una denuncia sociale, non una proposta di cambiamento, gli obiettivi programmatici dei rivoltosi erano tutti nelle vetrine dei negozi: televisori al plasma, computer portatili, addirittura videogiochi, abiti sportivi e scarpe firmate. Uno spettacolo tutto sommato interessante: una umanità precaria ormai avvezza ai prodotti o ai sottoprodotti della società del benessere, e intenzionata a procurarseli con i vecchi strumenti della violenza. Tutto ciò ha suscitato l’indignazione della società civile inglese: come già a Parigi gli immigrati davvero integrati nella società hanno riconosciuto immediatamente la stigma criminale e anti-sociale della rivolta. Il governo ha reagito con fermezza: con la stessa fermezza con la quale a suo tempo un altro governo conservatore - quello della signora Tatcher - reagì contro gli Hooligans, che erano generalmente bianchi e biondi. Per la serie: non si guarda né in faccia, né in testa a nessuno. Soltanto alcuni vecchi intellettuali hanno ancora una volta subito il fascino della rivolta: scambiando teppismo allo stato puro per nobile protesta sociale. Plateali in Italia le dichiarazioni di Flores d’Arcais, che inneggiava alla rivolta sociale inglese e auspicava che qualcosa di simile avvenisse anche in Italia. Intanto a Londra le macchine bruciavano nella notte, le vetrine si infrangevano: erano le vetrine dei negozi giovanili, dalle quali gli adolescenti appartenenti alle gang metropolitane asportavano i loro miseri obiettivi: la scarpa da ginnastica firmata, il videogioco che rincoglionisce meglio. * * * Alla mente incrostata di ideologia di Flores d’Arcais sfugge un elemento fondamentale della vicenda: l’elemento della territorialità. Nei sobborghi di Londra, come l’altra volta nei sobborghi di Parigi, si è aggregata una umanità che col passare del tempo ha perso ogni anelito alla integrazione. I giovani di questi quartieri non accettano integrazione culturale, rivendicano piuttosto il controllo su un territorio. È una dinamica antica quanto il mondo. Mentre gli intellettuali si dilettano con le teorie del multiculturalismo (alla inglese) o dell’assimilazionismo (alla francese), nei luoghi di massiccia immigrazione si creano delle isole etniche, dove vige una «legge» che non è quella dello Stato ospitante e non è neppure quella - tutto sommato dignitosa - dei luoghi di provenienza. Per questo la scintilla della rivolta scatta quando la polizia tenta di effettuare un controllo. Questa pretesa, considerata assurda, diventa la scintilla di un focolaio di violenza che fa scattare l’istinto predatorio: si sfasciano allora le vetrine e si asportano le prede preferite. Sotto i nostri occhi, per effetti della società «multiculturale», stanno avvenendo fenomeni arcaici, e tuttavia ancora molto vitali: la lotta per il controllo del territorio, la guerra per bande, lo sfogo dell’impulso predatorio. I nostri intellettuali «progressisti» si ostinano a interpretare questi fenomeni con concetti astrattamente moderni, e nello stesso tempo vecchi e ormai inutilizzabili.
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SE LA SIRIA LASCIA IL LIBANO
L’IRAN ALLE porte d’Israele di ERMANNO VISINTAINER LA SIRIA è il Paese in cui la stagione delle rivolte arabe, dopo la lunga estate libica che non ha ancora esaurito i suoi impulsi rivoluzionario-integralisti, trovandosi dinnanzi all’incalzare dell’inverno, sta iniziando a segnare il passo. Non che siano mancati degli scontri di piazza ed anche cruenti. Secondo quanto riferisce l’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, il bilancio delle vittime in Siria è salito a più di 2.900 da quando le proteste sono iniziate, lo scorso marzo. Il problema è piuttosto quello che la posizione estremamente nevralgica del Paese, ubicato, sullo snodo geopolitico di tre continenti dove convergono degli interessi planetari, impedisce il mutamento repentino dello status quo. Nella fattispecie due potenze regionali cercano di influenzare le dinamiche e l’esito degli eventi su questo scacchiere tanto importante. L’Iran e la Turchia. L’Iran, infatti, è una delle nazioni che, fin dagli esordi delle primavere arabe, ha cercato di assumere la leadership intellettuale e geopolitica dei tumulti scaturiti all’interno del mondo arabo. Peraltro l’Iran, nonostante la visita amichevole di Erdogan, due anni or sono, a Teheran e nonostante l’appoggio sgradito agli USA dimostrato dalla strana coppia costituita dal Paese anatolico e dal Brasile sulla questione del «nucleare iraniano», non ignora di trovarsi in competizione con la Turchia per la leadership in Medio Oriente. E altresì non ignora la posizione maggiormente privilegiata di Ankara, dal punto di vista economico, diplomatico nonché religioso, rispetto alla propria onde assumere questo ruolo. Tutto questo non ha comunque scoraggiato l’Iran a perseguire una politica estera atta a sostenere le masse arabe a sollevatesi in opposizione ai cosiddetti regimi autocratici e patriarcali. Infatti, malgrado la disomogeneità linguistica, culturale e religiosa dell’Iran - gli iraniani sono sciiti - rispetto al mondo arabo, Teheran cerca in tutti i modi di superare i vincoli e gli ostacoli che possano interferire o distogliere la propria influenza geopolitica da questi Paesi. Facendo leva, ad esempio, sulle note posizioni anti-americane e anti -israeliane, fra cui la posizione negazionista nei confronti dell’Olocausto sostenuta dal Presidente Mahmoud Ahmadinejad, che gli hanno permesso di aggirare il fattore etnico-religioso per attrarre il consenso nel mondo arabo e musulmano. Nonostante ciò la politica iraniana di sostegno ai moti di piazza delle masse arabe contro le cosiddette autocrazie, non è scevra di una certa incoerenza di fondo, in quanto soprattutto la crisi siriana non ha potuto evitare di essere una fonte di imbarazzo per l’Iran. Vi è, infatti, un’evidente idiosincrasia fra il tentativo, da una parte, di Teheran di sostenere le rivolte arabe, e dall’altra quello di
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sostenere il governo siriano contro la sua stessa opposizione interna. Difatti, tale atteggiamento da parte dell’Iran, non può essere diversamente interpretato se non come un esercizio di pragmatismo finalizzato a mantenere la stabilità degli equilibri di forza regionali che costituiscono la ragion d’essere degli stretti legami siro-iraniani. Fattori che negli ultimi decenni hanno sancito e caratterizzato questa alleanza. Dal punto di vista iraniano, la Siria rappresenta una propaggine strategica della massima importanza per le proprie ambizioni regionali. Essa è considerata un alleato insostituibile e privilegiato situato proprio sul limes del conflitto arabo-israeliano, il cui governo attribuisce all’Iran una funzione emblematica alla causa della regione. Un espediente pertanto, per giocare la partita delle sue carte regionali in funzione anti-israeliana ed antiamericana. Di conseguenza è irragionevole aspettarsi che l’Iran abbandoni il suo più prezioso alleato regionale. Tuttavia se gli eventi dovessero volgere a favore di una caduta effettiva del governo baathista di Damasco, la mossa più logica da parte dell’Iran potrebbe essere quella di assumere direttamente il ruolo di guardiano del Paese dei cedri, in altre parole il Libano, che è anche il Paese degli Hezbollah, il partito sciita libanese ispirato all’ideologia khomeinista. Il movimento degli Hezbollah costituisce, in effetti, la longa manus, di Teheran lungo il confine israeliano. Qualora venisse a mancare il supporto logistico siriano, tuttavia, l’Iran sarebbe costretto a trovare nuove alleanze per appoggiare il movimento sciita libanese. Ma è indubbio che il partito di Dio, ovvero gli Hezbollah, ne uscirebbe rafforzato dal momento che verrebbe a rappresentare l’ultima pedina da mettere in gioco sullo scacchiere mediorientale. Epilogo di tutto questo altro non potrebbe essere se non un’escalation della conflittualità nell’area. Un ulteriore fattore con cui fare i conti è - come detto all’inizio - la Turchia. Se un tempo l’Iran rappresentava un baluardo unico e una leadership indiscussa per l’arabismo in funzione anti-statunitense e anti-israeliana, negli ultimi tempi questo ruolo è stato inesorabilmente assorbito dalla Turchia. La nuova politica estera turca messa a punto dal Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, l’ha posta al centro dei giochi in Medio Oriente, come ha recentemente commentato Sergio Romano su Panorama, il quale scrive che: «essa è tanto più credibile e autorevole quanto più difende la causa palestinese ed è in sintonia con il risentimento delle società arabo-musulmane per la politica israeliana». E difatti, il premier Recep Tayyip Erdogan, cavalcando questo nuova ondata di attivismo diplomatico, si è recato nelle varie capitali delle rivolte arabe, proponendo il modello turco basato sulla formula di un Islam moderato, dinamico ed economicamente vincente. Un soft power che rispetto al modello isolazionista ed oltranzista iraniano possiede maggiori chance di soddisfare le aspettative di libertà delle masse arabe, venute a galla negli ultimi mesi. La partita rimane comunque aperta in quanto per il momento sia in Libia che in Egitto sembrano prendere piede movimenti refrattari alla concezione di un Islam moderato. La Siria forse data la vicinanza con la Turchia potrebbe assimilarne il modello, mentre il Libano potrebbe divenire l’ago della bilancia di future contrapposizioni, sebbene sia prematuro avanzare delle congetture in merito.
TERZA PAGINA LA FINE DELL’EUROPA
Da signora a puttana, per finire da badante di ADRIANO SEGATORI PARLARE di Occidente è una faccenda piuttosto ambigua, perché questo termine si associa ad una visione di tipo americanoide che, anche se fosse genuina, ci sarebbe comunque estranea. Viene meglio parlare di Europa, di quella che è stata per secoli, di quella che è diventata ora, e di come qualcuno - incensato propositore del pensiero diarroico - auspica che dovrebbe diventare. Quando sulla terra abitata tribù indistinte e orde primitive praticavano il cannibalismo e la superstizione totemica, l’Europa, sotto le insegne dell’aquila di Roma, aveva già consolidato istituzioni essenziali ad un organismo politico: la Famiglia, il Senato, il Diritto civile e penale, la Giustizia. Dal punto di vista simbolico, la figura fondante era il Pater, il rappresentante dell’Autorità e, fatto fondamentale, della Legge. Egli era il simbolo della trascendenza, di quella seconda natura che supera e completa la prima, legata alla fisicità di natura, Tant’è che c’erano due termini per definire l’uomo: il vir, il portatore del coraggio, della fierezza, dell’eroismo, della virtus, che niente aveva da spartire con la moderna e patetica moralità borghese; e l’homo, un essere generico, inteso come fenomeno di natura ed espressione delle forze vegetative e delle pulsioni animali. Soltanto il vir poteva essere Pater, per altro espressione anche del casato, della famiglia e dell’onore della stirpe. La «vecchia Signora» è stata, per così dire, all’avanguardia della cultura in senso lato, proponendo e istituendo costituzioni e ordinamenti che per secoli si sono mantenuti come esempio di civiltà. Da un certo punto di vista, il Pater era anche il pedagogo, colui che con l’esempio e la paro-
la aveva il compito di addestrare i figli, di condurli a quella che la moderna psicologia definisce «esame di realtà», di prepararli all’iniziazione e alla maturità. Era lui che spostava l’attenzione dalla fase dell’accudimento materno a quello della responsabilizzazione adulta. Sotto l’autorità del Pater, l’Europa è stata l’esempio virile della conquista e dell’espansione, il faro della civiltà e il punto di riferimento del mondo. Poi, in lenta ma inesorabile, decadenza, che il politicamente corretto chiama «progresso», questa figura si è lentamente sbiadita, fino a dissolversi, per una patologica supremazia maternalista. Per una serie di trasformazioni molto sottili e pervasive, troppo complesse ed intricate da delineare in poche righe, quella che era stata la dominatrice dello spazio politico e militare del mondo è così diventata la serva dell’Occidente. La fondatrice dello Stato e del «politico», in maschile, tanto per usufruire del concetto di Carl Schmitt, è stata ridotta a società e a gestore della politica, in femminile. Il salto simbolico non è da poco. Castrata nella virilità del potere, ciò che era prerogativa unica del comando, cioè la sovranità nella decisione e nel destino, si è degradata a sottomissione passiva e a rassegnata ubbidienza. Come nel peggior esempio di femminino, l’Europa conquistatrice si è trovata compromessa e soggiogata da forze che avevano tutto l’interesse a ridurre, fino ad annullare, ogni sua velleità di rinascita e di orgoglio. Il fatto grave è stato che, per un istinto di sopravvivenza sbagliata, o per una soddisfazione masochistica creata ad arte dai suoi protettori, la «vecchia signora» ha pensato bene di affidare la sua cura e la sua tutela a dei papponi senza
scrupoli, il cui unico interesse era lo sfruttamento delle doti rimaste e degli antichi splendori, mentre volgevano gli occhi e gli interessi verso altri più succulenti prede. Luogo di godimento e fonte di soddisfazioni, è stata considerata il riposo dei guerrieri d’oltreoceano e il mezzo di guadagno per ogni tipo di sfruttatore. Come nel peggior meretricio, mica quello d’alto bordo, anonimi pagavano prestazioni e sottomissioni, rimanendo senza un volto e senza un nome. Disposta a subìre le peggiori umiliazioni in cambio di una discutibile protezione, senza un Pater su cui fare affidamento, perché troppo virile, troppo autoritario, troppo poco disposto al compromesso, ad un certo punto è stata scaricata. Come ogni battona che non si rispetti, una volta sfiorita nelle grazie e prosciugata nelle prestazioni, doveva essere riciclata in un ruolo più marginale. Le grandi puttane finiscono a fare le maîtresses, continuano a comandare e a gestire affari: l’Europa no! Da virago dominatrice, passando a puttana di piccolo cabotaggio, è finita a fare la badante. Il trionfo della castrazione e l’apologia del peggiore dei maternage. All’inizio ho accennato ad un pensatore diarroico: mi riferivo al Bauman del pensiero liquido, dell’amore liquido, della vita liquida, della religione liquida, dei legami liquidi, del liquame della modernità. È lui il sostenitore ineffabile dell’Europabadante, all’interno di una discutibile visione relativista della realtà e degli uomini che la abitano. Dice il pensatore disfattista che dopo quella «Europa che ha dominato tutti i continenti, uno dopo l’altro, ma non è stata mai dominata da alcuno di essi; e ha inventato una civiltà che il resto del mondo ha tentato di imitare, oppure è stato obbligato con la forza a replicare, mentre non è mai accaduto (almeno finora) il contrario» bisogna sostenere un suo ruolo di accogliente soccorritrice e di disponibile ospite. Questo perché «se l’Europa è (o diventa, o rinasce come) versione ampliata dello Stato sociale, essa ha l’opportunità di acquisire un peso sufficientemente grande da poter essere avvertito quando (se) venga gettato sul piatto della bilancia ‘cosmopolitica’». Capito l’antifona? L’Europa, rinnegato il Pater, ha ten-
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tato di riciclarsi come femmina, ma l’è andata storta. Ora, qualcuno, le rinfaccia il passato glorioso, anzi, come puntualizza lo stesso Bauman «il passato da piromane dell’Europa può essere una valida ragione per un bell’esame di coscienza e parecchi sensi di colpa», per cui non le resta che annullarsi e da figlia frustrata e madre mancata, adottare tutti gli avanzi di altri mondi. Per scontare gli antichi fasti e la passata potenza, l’Europa deve accogliere in genuflessione penitente gli incapaci di qualsivoglia civiltà, perché «i presunti ‘richiedenti asilo’ sono in effetti attratti verso l’Europa soprattutto per le sue protezioni sociali generose ed inclusive». Insomma, da dominatrice e civilizzatrice a dominata e imbarbarita. Questa è la fine, dopo la scomunica del Padre, detentore della Legge, creatore del limite e difensore del confine. Ci sarà, si spera, qualcuno, come nel significativo libro e nell’altrettanto simbolico film, La strada, che «porterà il fuoco» della tradizione in un possibile futuro?
«MARXISME OBLIGE» (Gianni Isidori, il Borghese 28 Aprile 1974)
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19 DICEMBRE 1941 - ALESSANDRIA D’EGITTO
Il Dio del mare apprezza gli eroi di FERNANDO TOGNI «Vincere la guerra non è la cosa più importante, importante è farla bene, con coraggio, con dignità. » TESEO TESEI - MOVM QUEST’ANNO ricorre un anniversario particolare e da alcuni mesi ci stavamo pensando. ogni volta con riflessioni diverse. Si potrebbero scrivere pagine e pagine: opinioni personali ed inutili. Però un riferimento oggettivo possiamo ipotizzarlo: i sessanta milioni di Italiani (intendiamo la collettività di un popolo) non se ne ricordano. E questo ci fa nascere una domanda precisa. Non la facciamo qui, la rimandiamo alla fine. La Marina è l’Arma silenziosa. Immaginate uno scafo affusolato di circa cento metri (settant’anni fa) con parecchie decine di uomini, a cento metri di profondità, in mezzo all’Atlantico: tutto immobile. Ogni lettore lo vede, capisce, sente quel silenzio. Quello è lo spirito della Marina che fa la guerra. Anche la Marina Italiana. La guerra non ha niente di epico. Epico è un atteggiamento umano astratto: gesta umane possono travalicare i fatti e renderla epica. Consola che una realtà triste (la guerra) possa dar vita pure a qualcosa che va al di là di essa: l’unica condizione è che il supporto umano ci sia. anzi rifulga. Richiamando il ricordo di una azione mostruosamente incredibile, noi guardiamo agli UOMINI che l’hanno compiuta; è molto bello che anche i lettori si sentano partecipi. Sarebbe meraviglioso che i sessanta milioni potessero farlo. Peccato! Perché certi valori diventano collettivi se i singoli li condividono. Il sommergibile Scirè sta navigando verso l’estremo Mediterraneo sudorientale. Si ferma al largo della baia di Alessandria d’Egitto, dov’è alla fonda la flotta inglese di quello scacchiere. È il 19 dicembre 1941; anche gli Stati Uniti d’America sono nel conflitto da due settimane. La mitica flotta inglese sta attraversando un momento molto delicato: in
Mediterraneo e nei mari orientali ha appena subìto perdite pesanti ad opera di I ta l ian i , Tedeschi e Giapponesi, cioè due incrociatori, tre corazz a t e (Barham, Repulse, Prince of Wales) una portaerei, e naviglio minore. Lo Scirè ammara tre cuccioli per la battuta di caccia: sono i «maiali» inventati da Tesei e Toschi. Siamo poveri, abbondiamo soltanto di genio e coraggio, e questa selvaggina non è predestinata, è invece molto pericolosa. Verso mezzanotte un battello entra in porto, facendo aprire le reti di sbarramento. Avete già capito cosa hanno fatto i tre maiali: siluri a lenta corsa (SLC) cioè siluri semoventi, ciascuno con due uomini a cavalcioni. Sì, nipoti che state leggendo, era proprio così. Ogni equipaggio si dirige al suo bersaglio e va a piazzare i trecento chili di esplosivo contenuti nella parte anteriore del siluro sulla fiancata sommersa della nave nemica. Poi riemergono i sei uomini e se ne vanno in giro quasi come turisti … per poco. L’allarme è scattato e li catturano (non si può pretendere troppo quando si fanno delle ragazzate). Il comandante d’una corazzata inglese vuole che un nostro Tenente di vascello gli spieghi come funziona il giochino, ma il nostro Ufficiale si sta divertendo troppo: non apre bocca, e rischia un’altra volta la pelle. Lo mettono nella stiva: chissà se sentiva il tic-tac del congegno a orologeria. Quando è l’ora, l’Ufficiale italiano avvisa il comandante inglese perché salvi l’equipaggio … e lo rimettono nella stiva.
Novembre 2011 È con fierezza che anche dopo settant’anni scriviamo: Italiani Soldati Gentiluomini. Tre boati … nipote, a noi rimbombano ancora nel cuore (evviva la retorica). La nave da battaglia Valiant andò a fondo per opera del Tenente di vascello Luigi Durand de la Penne e del capo palombaro Emilio Bianchi. La nave da battaglia Queen Elizabeth va a fondo per mano del Capitano Genio navale Antonio Marceglia e del palombaro sommozzatore Spartaco Schergat. Il Capitano Armi navali Vincenzo Martellotta e il capo palombaro Mario Marino fanno un doppio danno: il siluro applicato al cacciatorpediniere Jervis non soltanto sistema la nave da guerra, danneggia pure la contigua petroliera Sagona. Il dio del mare apprezza gli eroi: gli Italiani sono incolumi Sei uomini normali, come l’inquilino della porta accanto, che avevano saputo interpretare il motto di un Comandante per realizzare, in guerra, «la cosa più importante»: cioè «farla bene, con coraggio, con dignità». Il Primo Ministro Winston Churchill ammise alla Camera dei Comuni che sei uomini avevano provocato uno dei maggiori disastri nella. storia della Marina inglese. Sei Uomini della Marina Italiana: sei medaglie d’oro al valor militare; sei medaglie d’oro di trenta guadagnate dall’Unità da guerra forse più piccola del mondo, forse la Flottiglia più eroica del mondo Ora ci sembra doveroso e onesto fare la domanda che nelle prime righe abbiamo rimandato alla fine. Ha ancora senso, oggi, ricordare questi fatti, quegli Uomini? A chi interessa? A che cosa serve? Con sincerità diciamo di non saper rispondere; però abbiamo scritto l’articolo: non fa male a nessuno L’autore è soltanto un marinaio da sbarco, ma anche il nostro battaglione di volontari ha dato seicento vite alla Patria e ottenuto due medaglie d’oro nel fare la guerra: per «farla bene, con coraggio, con dignità». Come in sogno ci sembra veder filare a dritta i tre «maiali» di Alessandria, con i loro sei UOMINI, che erano marinai italiani. Noi non abbiamo i nostromi coi fischietti, ma siamo schierati in banchina e ai fratelli imbarcati vittoriosi rendiamo gli onori alla voce, con il nostro grido di guerra: «Decima! Comandante». Là in fondo si intravede lo Scirè: settant’anni dopo al picco della torretta sventola sempre il Tricolore.
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IL PERCHÉ DELLA DEGENERAZIONE SOCIALE
Italiano, lingua ancillare dell’inglese di GIANFRANCO DE TURRIS GUIDO Ceronetti ha scritto sul Corriere della Sera del 10 settembre senza alcuna apparente eco né politica né culturale, il che è un pessimo sintomo - un accorato e indignato intervento sulla decadenza della nostra lingua che si può sintetizzare con una frase di De Maistre che egli riprende da Cioran: «Ogni degradarsi sia individuale o nazionale è prontamente annunciato dal degradarsi proporzionale del linguaggio». Sicché il nostro Filosofo Ignoto può ben dire che «tra declino linguistico e degenerazione politica e civile il legame è strettissimo» perché «noi viviamo della lingua che parliamo. Se grazie alla parola siamo esseri razionali, è per dono di lingua che siamo anche civili e cittadini». In altri termini, è la lingua lo stigma della nostra identità, come già diceva alla fine della seconda guerra mondiale un linguista per altri motivi oggi molto noto, J.R.R. Tolkien, che scriveva al figlio esprimendo angoscia per un mondo che dopo la vittoria degli Alleati avrebbe parlato soltanto inglese, lui che conosceva, leggeva e parlava le lingue più «strane», compreso il goto… L’appello di Ceronetti sarà perfettamente inutile, così come tanti lanciati da altri prima di lui e lo stesso sarà per quanti lo faranno dopo di lui. Non soltanto perché non troverà quei «quindici puristi tra quanti scrivono di economia» che non oseranno né avranno la voglia seguirlo in questa iniziativa, ma anche perché non è tanto dell’Economia e della Tecnologia la colpa dell’invasione di un inglese d’accatto per cui «l’italiano è diventato una lingua ancillare dell’inglese», quanto delle categorie che più incidono sul mondo mediatico e, attraverso di esso, sulla popolazione, specie giovanile, che accetta acriticamente quanto le viene ammannito. La colpa è soprattutto del giornalismo, dell’editoria e della cinemato-
grafia. Ma anche del governo di centrodestra. È il nostro giornalismo che da tempo usa e impone implacabilmente giorno dopo giorno vocaboli inglesi perfettamente inutili sostituendoli a quelli italiani sino a ventiquattro ore prima esatti e comprensibili (shopping, editing, location, business, loft, ecc. ecc. ecc.) offrendo testi e titoli scarsamente comprensibili. È la cinematografia che da anni e anni usa non più tradurre i titoli dei film anche quando essi sono traducibilissimi: basti vedere ultimamente il film di Polanski presentato come Carnage, perché Carneficina era ritenuto forse meno chic. O il film dedicato alla legione perduta: The Eagle! Orripilante, considerando che si parla dell’antica Roma e L’Aquila era più che confacente. Del resto il film di alcuni anni fa su Troia non lo si presentò come Troy? Una schifezza. La mania è trasmigrata anche agli editori che non trovano di meglio che lasciare i titoli originali come se i loro libri li vendessero a Brooklyn: forse perché più oscuri e intriganti? Si pensi per fare un esempo a Twilight, la saga dei giovani vampiri innamorati: Crepuscolo era meno suggestivo? E si potrebbe continuare all’infinito. Ma è soltanto e semplicemente una abitudine: non si scrivessero certi termini essi non entrerebbero nel linguaggio comune e nemmeno ci si penserebbe. Ma poiché nella testa di giornalisti, cinematografari ed uffici stampa e promozionali delle case editrici non si riuscirà mai e poi mai a far breccia con un ragionamento serio, evidentemente quella di Ceronetti e di altri illustri nomi della cultura italiana è una battaglia perduta e resterà soltanto come una bella testimonianza. Dimostrazione che, proprio a causa di questa idiota arrendevolezza all’inglese inutile, il nostro povero Paese, sempre meno «normale», farà ognora la figura di una provincialissima peri-
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feria dell’Impero che non ha più alcun desiderio di essere linguisticamente e culturalmente indipendente e preferisce restare, come scrive Ceronetti, «passivo, cieco, incapace di reagire, teleguidato». E poiché abbiamo avuto settanta anni fa un fascismo che rifiutava i «barbarismi» anche con risultati ridicoli, ecco che ci si ripara dietro questo usbergo «antifascista» rifiutando ogni e qualsiasi orgoglio linguistico, come ad esempio fa la Francia. In questo una colpa ce l’ha anche l’attuale governo che ha peccato per opere e omissioni. Le opere consistono nel fatto che chiama il Ministero delle Politiche Sociali di cui è titolare Sacconi «Ministero del Welfare»… Siamo una succursale di Obama o Cameron? E lo ripetono a pappagallo i giornalisti. Per omissione giacché si è perso nei meandri del Parlamento il progetto di legge promosso grazie al professor Lucio d’Arcangelo per un Istituto Superiore della Lingua Italiana, mentre nessuno parla più di far entrare nella Costituzione, che tutti vorrebbero riformare, anche l’articolo per cui mentre il Tricolore è la bandiera ufficiale del nostro Paese, anche l’italiano deve essere considerato la nostra lingua ufficiale, il che eviterebbe, senza penalizzare i dialetti (che vennero difesi anche dal fascismo, ma nessuno lo ricorda), tante iniziative decisamente idiote e inopportune. Ma si sa, non si possono scontentare i leghisti che parlano solo e soltanto in dialetto…
IL SOTTOSEGRETARIO (Gianni Isidori, il Borghese 28 Aprile 1974)
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RICCA PENSIONE A CHI HA ROVINATO L’ITALIA
La spazzatura sotto il tappeto di ROMANO FRANCO TAGLIATI SONO anni difficili. La crisi iniziata nel 2008 negli Stati Uniti, originando il crollo del PIL in tutto il mondo, ci ha colpito in modo particolare nel settore delle materie prime e delle risorse energetiche. La globalizzazione, affrontata spesso in modo avventuroso, ci ha messo davanti ad una concorrenza inattesa e spietata come quella della Cina. L’allargamento della Comunità europea a paesi fino a ieri appartenenti all’area sovietica, ha spostato masse di lavoratori verso occidente e migliaia d’imprenditori verso Paesi in cui la manodopera costa meno. I sintomi della crisi si sono fatti sentire in tutto il Paese, e se nel Nord -Est il dato risulta oggi più evidente, è perché, trattandosi spesso di settori manifatturieri, sono particolarmente esposti alla concorrenza dei Paesi dell’Est. Un problema che si riscontra in quasi tutti i Paesi d’Europa. Se a qualcosa è servita questa crisi, è stata almeno quella di sollevare i polverosi tappeti sotto i quali sono stati «nascosti» decenni di politica economica dissennata. Da noi, dove le legislature non duravano a volte nemmeno un anno, le colpe, di volta in volta scaricate sulle passate gestioni, vanno dallo scandalo della «Banca Romana» a «Mani pulite», e il debito pubblico, che ha ormai raggiunto un’entità tale da mettere in crisi qualunque logica, passa da Andreotti a Forlani, a Craxi fino a Prodi e Berlusconi senza soluzione di continuità. Non siamo i soli, ma questo complica soltanto le cose. Che fare? Un tempo i vari Paesi avrebbero stampato moneta e svalutato la loro valuta fino a ridurla al puro costo della carta. Se una tale logica fosse stata applicata all’interno della tua famiglia, sarebbe giunto il momento in cui i fornitori si sarebbero rifiutati di darti il pane. Ma lo Stato non ragiona così. Lo Stato non ha un’entrata fissa. Il suo bilancio non si basa essenzial-
mente sul pareggio tra entrate e uscite. Perciò, quando i soldi non bastano, o mette le mani nelle tasche dei cittadini, come farebbe un qualunque mariuolo, o s’indebita con loro fino al collo, dandogli in cambio titoli che, di questo passo, potrebbero un giorno valere davvero meno della carta sulla quale li stampa. L’entrata in Europa, giustamente salutata come il più grande evento della storia moderna, avrebbe dovuto fare riflettere. Cosa cambiava? Cambiava il fatto che nella cassa comune, il valore dei titoli emessi dai singoli Stati, il loro valore reale, non si stimava più soltanto sulla base del rendimento promesso ma, soprattutto, sulla loro spendibilità, sulla probabilità che, in qualsiasi momento, potessero essere onorati. Accadeva che le compagnie di rating mettessero il naso nelle varie economie nazionali e che, qualche volta, a torto o a ragione, dicessero no, con la conseguenza che quei titoli non si collocassero più con la stessa facilità di un tempo e che, anche il fornaio dello Stato, incominciasse a storcere il naso prima di accettarli in pagamento o di concedergli nuovo credito, proprio come sarebbe accaduto a qualunque famiglia. A questo andava aggiunto che i Paesi si trovassero tutti in una relativa stagnazione e che, senza crescita, il divario di bilancio si facesse più evidente. Come uscirne? Non c’è giornale che non offra la sua ricetta. Non c’è economista che non suggerisca la sua soluzione. Tagliare la spesa pubblica, diminuire il numero dei parlamentari, togliere le auto blu, intervenire sull’età pensionabile, togliere le pensioni d’anzianità (mettendo magari col culo per terra proprio i più poveri!) o buttare finalmente un occhio sulle inestricabili ragnatele che da molti anni s’annidano nella casbah della Sanità. Privatizzare la RAI, l’acqua, l’ENI, l’ENEL, vendere le poste, gli immobili e alcune proprietà dello Stato. Non c’è dubbio che, alla fine, sarà proprio questo che bisognerà
Novembre 2011 fare, ma, stiamone certi, facile non sarà. In Cina, una simile decisione sarebbe stata presa nel corso di in un sol giorno. Ma questa è una Democrazia! Qui vale il parere di tutti. Qui c’è un governo, ma anche un’opposizione. Ci sono i partiti, le cordate, i soloni che consigliano di uscire dall’Europa, i dibattiti televisivi, dove tutti hanno il diritto di metterci le mani, e coloro che - mentre il fiume in piena rischia di travolgere gli argini - consigliano di fermarsi, per esaminare, polemizzare, discutere, verificare attentamente quale delle soluzioni rechi minor danno agli stessi che le propongono. «Perché solo ora?», si chiede la gente, «perché quegli interventi - se realmente possibili - non si sono fatti prima che il debito straripasse, nel momento in cui s’è capito che nessun pareggio di bilancio avrebbe impedito che il debito, per effetto degli interessi inarrestabili, schizzasse alle stelle?» Se guardassimo alle nostre spalle, se leggessimo i giornali e i resoconti di quegli anni, non tarderemmo molto a scoprire che, tra tutti gli sgomitatori che abbiamo mandato al governo, non proprio tutti erano degni, onesti e lungimiranti. Un tempo chi si riempiva di debiti o portava la sua azienda alla rovina, si sparava nella notte un colpo di pistola. Adesso scopriamo che costoro, in cambio del danno evidente procurato alla nazione, percepiscono pensioni principesche. Sento voci di piccoli sindaci che vorrebbero proclamare una loro repubblica, fondare un principato, chiudersi in una torre, mettere indietro l’orologio cosmico, tornare, al tempo dei Comuni, gridando ai quattro venti quanto sia bello il loro orto, il loro fiume, quanto sarebbero ricchi se non dovessero spartire con altri, il profitto del loro lavoro! Nell’ottocento i fratelli Grimm scrivevano favole orribili nelle quali, genitori in difficoltà, abbandonavano i loro figli nel bosco! Dopo stavano meglio? In un momento di vacche magre, ogni volta che parli di tagli, persino i membri della tua coalizione si rivoltano. In un Paese che ancora a metà del novecento mandava milioni di emigranti affamati in giro per il mondo, e nel quale sacche di povertà e d’ingiustizia sociale ancora resistono, qualcuno, ormai abituato al superfluo, crede di star facendo un grande
IL BORGHESE sacrificio perché, invece di andare per la terza volta alle Seychelles, per qualche tempo dovrà accontentarsi della divertentissima Rimini. Bossi, tanto per spaventare gli ultimi passeri rimasti in questi giorni d’autunno in equilibrio sui fili della luce - e dare una boccata d’ossigeno alla sua base virulenta - spara cartucce a salve, tornando a parlare di Padania e di una secessione che in verità nessuno vuole. Pesiamo le parole. Una Nazione, caro Umberto, non è - e non è mai stata - un fatto di sola economia o di sola finanza. Ma tu questo lo sai, anche se non sarebbe male, tanto per sincronizzare gli orologi sul tempo reale, farti rileggere la terza strofa del nostro inno nazionale dove dice: «Noi fummo da secoli / Calpesti e derisi / Perché non siam popolo / Perché siam divisi…» È lì che dovremmo tornare? Se viaggi in tandem e smetti di pedalare, l’altro evidentemente arranca. In una società per azioni, se uno degli azionisti si ritira, quelli rimasti, pur di restare in piedi, vano a cercare i soldi mancanti da altri possibili investitori. In questo avevi ragione tu: se dopo la defezione di Fini, come suggerivi, si fosse andati subito a elezioni anticipate, quasi certamente sia PDL sia la Lega ne sarebbero usciti rafforzati e avrebbero avuto i numeri per fare qualunque riforma. Ma Berlusconi - invocando il fatto sacrosanto che quel governo era legittimato dal sovrano voto del popolo (ma evidentemente preoccupato delle sue sorti in seguito alle troppo numerose pendenze giudiziarie ) disse di no. Un errore. Un errore gravissimo. E, anche se, poco dopo, con un magistrale colpo di reni, rimise in sesto la maggioranza, evidente restava che la sua leadership si era indebolita, lasciando spazio ad un’opposizione agguerrita, di dipingerlo come un mostro, additandolo come l’unica causa del nostro discredito internazionale e fargli una guerra all’ultimo sangue. Da che il mondo è mondo, quando le cose vanno male, le colpe ricadono sul capo. Sì, ma senza esagerare. «Io non sono venuto a difendere Cesare.» Ma, anche se qualcuno ha scritto che soltanto in quel modo si potesse salvare Roma, devo confessare che, in tutte quelle coltellate, ancor oggi fatico a vederci una grande testimonianza d’amore per la Patria.
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ENZO ERRA
La vita è politica di RICCARDO PARADISI SI GUARDAVA intorno con piglio da ufficiale mentre vicino a lui s’affaccendavano in una decina per sistemare un tavolo e delle sedie. Da li a poco ci sarebbe stata una conferenza stampa che i dissidenti di Fiuggi avevano indetto per dissociarsi dalle abiure di Fini e dar vita al nuovo MSI. Vedendolo libero mi avvicinai e gli rivolsi parola: «Lei è Enzo Erra vero?» «Certo che è vero», fu la secca risposta. «E lei chi è?» Declinai le mie generalità e gli dissi quel che mi premeva e che non aveva a che fare con la cronaca del congresso che facevo per una radio locale. «Volevo parlare con lei di Massimo Scaligero». Al nome del filosofo, direttore della rivista dell’Ismeo Est and West e uno dei massimi rappresentanti italiani dell’antroposofia, il volto di Erra si rasserenò subito, le folte sopracciglia si distesero, abbozzò anche un sorriso, astraendo da quella concitata situazione. «Di Massimo io parlo sempre con piacere, era il mio migliore amico e il mio maestro. Ma non qui, non ora», si affrettò ad aggiungere. «Lei vede che casino e che ambiente. Mi chiami.» Assistei alla conferenza stampa e ascoltai la sua analisi, la stessa che aveva offerto al congresso di Fiuggi dove Fini aveva deciso, di concerto con la dirigenza del partito, di sciogliere il MSI. Lui con quella svolta non era d’accordo, riteneva che sarebbe finita in un vicolo cieco. E di Gianfranco Fini che pure riteneva molto abile e per il quale aveva organizzato la campagna elettorale di Roma coordinando i comitati «Fini sindaco» non aveva molta stima. Lo chiamai qualche mese dopo e il colloquio si svolse in due parti era sempre così, una metrica che si sarebbe mantenuta fino alle ultime chiacchierate - prima si parlava di politica e poi delle «cose nostre» che riguardavano appunto quella corrente di idee - la via del pensiero la chiamava lui - che da Goethe arrivava a
64 Steiner e Scaligero. Era reduce dalla prima assemblea del nuovo MSI, era fiducioso che da lì potesse nascere qualcosa che arginasse il deviazionismo di Fini. Non ero molto appassionato a quelle questioni, seguivo da osservatore le sorti della destra politica italiana ma ero pieno d’ammirazione per la logica e la passione che Enzo metteva nella politica, soprattutto quella sua capacità di coniugare il pensiero e l’azione, la visione con la strategia. Erra non era uno sprovveduto. Era uno che veniva da lontano, dalla RSI certo, a cui aderì giovanissimo e in cui fece appena in tempo a perdere la guerra, ma soprattutto dalla durissima battaglia politica del dopoguerra. Fino al conflitto con Almirante e l’uscita dal partito. Dentro il quale Erra rientra negli anni Ottanta. È in quel decennio che insieme ad altri elabora una strategia politica e culturale per la destra italiana che a suo giudizio non può restare rinserrata nella sterile ridotta dell’alternativa al sistema, come una nave dentro la bottiglia. Erra chiede al MSI di giocare la sua partita a tutto campo, di cercare e trovare alleanze per realizzare il suo progetto a partire da quella repubblica presidenziale a cui è interessato anche il PSI. Nel quale si riscopre una vena tricolore e si stabiliscono contatti non occasionali con intellettuali di destra come Giano Accame. Ora, quando Erra negli anni ‘80 e primi ‘90 conduceva questa riflessione, Fini era dall’altra parte; là dove ogni navigazione in mare aperto, al di là delle almirantiane colonne d’Ercole, era considerata una forma di tradimento, di intelligenza con il nemico. Siamo negli anni in cui l’attuale presidente della Camera parlava d’un fascismo del duemila, un tema, quello del fascismo, a cui più seriamente Erra aveva già dedicato saggi acuti. A Fiuggi le cose si erano capovolte: lui che assieme ai suoi amici della corrente «Italia protagonista» era stato accusato di aperturismo e di entrismo si trovava a rifondare il MSI mentre gli altri, quelli delle colonne d’Ercole, liquidavano una storia cinquantennale con un colpo di spazzola, senza uno straccio di dibattito, senza un abbozzo di riflessione. Andati a dormire fascisti s’erano risvegliati postfascisti, tappa intermedia verso l’antifascismo ideologico che Fini imporrà, con diktat staraciano, da lì a qualche anno.
IL BORGHESE Enzo non me l’avrebbe consentito ma io credo che il suo arroccamento sia dipeso anche da quell’ingloriosa Bad Godensberg, ebbi però occasione di dirgli che ritenevo sterile qualsiasi rifondazione di una destra ancora criptofascista. E che lo ritenevo sprecato, per il suo spessore e la sua storia, dentro una partita che ormai si giocava a un livello generale deprimente. Lui rispondeva sempre che della politica non poteva fare a meno. Faceva parte della sua natura. Tanto che quando da Alleanza Nazionale gli venne fatta la proposta di fare il direttore d’un archivio storico, naturalmente mai realizzato, della destra italiana, lui rispose che non si sarebbe mai fatto archiviare. Ma non era la politica la sua attività che a me, suo amico, interessava, quanto i libri che continuava a scrivere. Enzo non era solo un grande giornalista, un fine cronista parlamentare lo è stato per tanti anni per il Roma e la Notte - era uno storico e un polemista di vaglia. I suoi libri da Italia luci e ombre a Napoli 1943: le quattro giornate che non ci furono, da L’inganno europeo a Il cappotto di Napoleone da Le radici del fascismo a La Patria che visse due volte meritano di essere meditati e sono la dimostrazione di come il revisionismo non è un genere condannato per forza al rancore e all’aneddotica. Così come sono spesso illuminanti i suoi articoli sparsi in riviste e antologie sull’antroposofia di Steiner, sui rapporti tra umanesimo e cultura scientifica, su Goethe, per fare degli esempi.
Novembre 2011 Enzo era un uomo di grande serietà e intelligenza ma non era un pedante. Era anzi capace di battute fulminanti, di dire la parola che spezzava la tensione, che ti faceva ridere. Durante un’iniziativa organizzata vicino a Roma dalle varie sigle alla destra di AN per la costituzione d’un soggetto unitario, Enzo fu avvicinato da un giornalista che gli chiese con una certa concitazione: «Allora Erra cos’è la Cosa nera?» «Tu sei abbastanza grande; gli rispose Enzo, «te lo devo spiegare io cosa è la cosa nera?» Nell’ultimo periodo però Enzo stava male ed era malinconico. Aveva diradato molto i contatti con gli amici e aveva fatto capire che voleva affrontare da solo l’ultima battaglia, senza affliggere nessuno con la sua prostrazione. Gli amici che l’hanno salutato alla chiesa della Vergine della Salette al Gianicolo sapevano cosa pensasse di quel mistero abissale che chiamiamo morte che lui riteneva la porta d’accesso d’una vita più vera. «Quando un amico muore», mi disse una volta Enzo, «non dovremmo essere tristi, perché la nostra patria è quel mare di luce in cui verremo accolti dal Cristo, se ne saremo degni.» Io Enzo me lo figuro in quella luce, libero di meditare e contemplare quelle idee che sono state sulla terra il suo orientamento e la sua ragione di vita. Alla fine della sua corsa Enzo, come l’apostolo delle genti, ha potuto dire: «Ho mantenuto la fede, ho combattuto la buona battaglia». Chapeau.
L’ODORE RIMANE (Gianni Isidori, il Borghese 16 Giugno 1974)
IL GIARDINO DEI SUPPLIZI PER MANCANZA DI UNA POLITICA EDITORIALE
Il declino della «fiction» di MICHELE LO FOCO ERA inevitabile, ed a nulla sono valsi gli avvertimenti, i commenti, gli studi, che per la fiction televisiva cominciasse una lunga fase negativa. L’eccesso di offerta, la ripetitività delle trame, la superficialità dei racconti e soprattutto la mancanza di studio preliminare non potevano non causare la reazione del pubblico che oggi punisce severamente chi ha progettato i programmi snobbando per esempio commissari come Scamarcio e Banfi che sembravano, ad occhi inesperti, un sicuro successo. Mi sento di affermare che il pubblico comincia a dimostrare meno affezione verso gli attori e i volti tradizionali, e in definitiva più conosciuti. In realtà spesso si confonde il concetto di popolarità con quella di accettazione: pochi attori sono popolari e ben accetti e spesso nel corso del tempo chi godeva del favore del pubblico non ne gode più. Altresì capita che chi ha avuto un periodo fortunato al cinema non lo abbia più ma goda di favore in televisione, così come è possibile anche il contrario. Purtroppo in Italia l’attenzione verso queste parabole non è tale da spingere gli attori o i produttori a monitorarle ogni sei mesi, ma sarebbe bene lo facessero per evitare sforzi inutili e perdite di tempo. Tornando all’analisi iniziale è proprio in periodi come questo che nasce la necessità di interpretare le esigenze del pubblico: d’altra parte la modesta riuscita di Tutti pazzi per amore, così come di Anna e i cinque su Canale 5, oppure di Atelier Fontana o di Sangue caldo sono la prova che non basta incastrare attori e storielle per attrarre il pubblico, ma è necessaria una politica editoriale basata su dati ragionevolmente esatti e su analisi del mercato precise ed approfondite. Certamente la fiction ha straripato dai confini per invadere altri orari, e questo elemento ha provocato una certa saturazione anche nelle persone anzia-
ne che tolleravano tutto. D’altra parte la diversità degli argomenti, lungi dall’essere un pregio, soprattutto a causa della presenza degli stessi attori, crea una sorta di fastidio che si trasforma subito in abbandono. Dimostrano le serie americane, che prendiamo ad esempio pur nella spaventosa differenza qualitativa, che il pubblico ama la quotidianità dell’incontro e la conoscenza dei protagonisti, ma costoro devono svolgere lo stesso ruolo, non trasformarsi un giorno in poliziotti, il giorno dopo in medici, il terzo in duchi. Purtroppo, nel nostro ambito nazionale, la scelta dei personaggi non è un fatto industriale né un lavoro, ma un esercizio di potere e di intuito. Chiunque possa esercitarlo, lo fa con una disinvoltura tale che ormai il concetto di capacità è stato totalmente archiviato. Non a caso la richiesta più frequente da parte di un attore non raccomandato non è più quella di ottenere una parte, ma di poter partecipare ad un provino: questo vuol dire che la scala dei valori si è adeguata a circostanze ormai definitive. Nei Paesi evoluti la scelta di un attore è determinata da quanto i produttori immaginano che quel signore o quella signora possano far loro guadagnare subito e in futuro. Da noi il collegamento tra prestazione professionale e utilità marginale è talmente labile da non avere alcun peso. Quella che una volta era la nozione di noleggio oggi vale forse ancora un po’ per il cinema, in quanto la sala è ancora un intrattenimento a pagamento diretto e non subisce troppo l’influenza politica. Ma dal momento che il peso dei diritti d’antenna nell’ambito di ricavi è comunque preponderante, non è escluso che anche il cinema, prima o poi, si adegui totalmente alle istanze nazionali,diventando schiavo della politica. La conseguenza potrebbe essere innanzitutto l’isolamento produttivo dell’Italia nel mondo, fatto questo già
parzialmente vero e dal quale subiamo gravi danni. Questi danni sono di due tipi: A) Difficoltà di copro durre B) Difficoltà di vendita del prodotto Il primo aspetto dipende a sua volta da due elementi: A1) Struttura delle nostre fiction, in particolare della miniserie in 2 puntate. A2) Mancanza di attori riconoscibili Il secondo aspetto dipende dai medesimi elementi citati ai quali si aggiungono: B1) Prezzo di vendita B2) Peculiarità delle storie narrate. È ovvio, lo sottolineo, che mentre storie nostrane ma con forte connotazione e grandi location possono attrarre, storie nostrane intimiste e sconosciute non interessano nessuno. Non mi dilungo in questa sede, poi, sul fatto che per vendere o co-produrre occorrono strutture agili e professionali che riescano ad intercettare le esigenze dei Paesi europei e le capacità produttive nazionali. Tutto questo, allo stato, è reso impossibile dalle strutture esistenti in Italia. E? ovvio, poi, che anche il Festival della Fiction accompagni le sorti del settore, risultando alla fine una manifestazione inutile, velleitaria ed inutilmente costosa. Ma nel nostro Paese l’utilità degli avvenimenti cede sempre il passo all’ambizione, alle consulenze e ai privilegi.
GABRIEL GARKO (Dal sito www.funweek.it)
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IL BORGHESE
NOSTRA SIGNORA TELEVISIONE
Il «cabaret» è morto, viva il «cabaret»! di LEO VALERIANO FINO a non molto tempo fa, quando si parlava di media, era quasi scontato riferirsi alla televisione. Radio e giornali occupavano, alla lontana, un decoroso secondo posto. Oggi dobbiamo renderci conto che la funzione della televisione, che tra i media resta comunque il più appariscente, è diminuita in maniera drastica. Ci sono reti e programmi che sono riservati esclusivamente ai bambini e molti apparecchi televisivi, usati in funzione di babysitter, sono sintonizzati perennemente su quelli. Molti altri programmi (di tutte le reti) sono diretti ad un pubblico che sembra interessarsi solo della gastronomia: donne (e uomini) che non sanno più nemmeno preparare una pasta e fagioli decente. A conforto di quanto dico, c’è stato l’aumento esponenziale della vendita di cibi pronti e surgelati, che certamente possono aiutare chi ha poco tempo a disposizione, ma non hanno il sapore dell’autenticità. Per il resto, anche le trasmissioni più autorevoli si dedicano soltanto ai pettegolezzi. Naturalmente, queste riflessioni si riferiscono alla televisione nostrana; la stessa cosa non accade in altri Paesi. Dei grandi problemi mondiali che, in un modo o nell’altro finiranno per coinvolgerci, si parla poco o non si parla affatto. Per esempio, c’è qualcuno che ha messo l’accento sul fatto che il governo cinese ha acquistato, in Africa, una quantità di terreni pari alla superficie della Spagna? Servirà soltanto a coltivare riso oppure, come fecero i profughi ebrei nell’attuale Israele, a creare i presupposti per fondare un nuovo Stato? Credo che varrebbe la pena di soffermarsi a riflettere almeno un momento su avvenimenti come questo. Ma non succede. E non accade neanche che qualcuno riesca ad indignarsi per il fatto che si possa perdere tempo ed energie per spiare ciò che fanno i politici nelle loro rispettive camere da letto. Verrebbe da chiedersi: ma c’è qualcuno che si rende conto che, mentre il nostro mondo sta crollando, c’è qualcuno che si di-
verte (con i nostri soldi) a spiare i telefonini di mezza Italia? È legittimo fare questo, in un periodo in cui la maggior parte delle persone sente fortemente il peso della crisi economica? Questo inutile sperpero di danaro, non è uno schiaffo nei confronti di chi fatica ad arrivare alla fine del mese? E, a questo proposito, c’è almeno un programma televisivo che osa prendere una ferma posizione su fatti di questo genere? Chiaramente no. Le ragioni posso solamente intuirle, ma non mi meraviglia affatto che, anche in conseguenza di questo, la televisione (in genere) stia perdendo importanti pezzi di ascolto. E neanche di questo si parla. In passato, la televisione tradizionale ha modellato e trasformato la società. In Italia, forse, l’ha addirittura condizionata. Ancora qualche anno fa, la potenza del mezzo televisivo era tale da incidere sul comportamento delle persone e anche sui loro costumi. In maniera parziale, naturalmente; ma resta il fatto che allora la gente credeva ancora al messaggio televisivo. Lo considerava carico di credibilità. Ancora si accettava che qualcuno potesse dire «L’ha detto la televisione», così come i comunisti dichiaravano «Compagno, non è vero: l’Unità non lo dice», o i cattolici, mi si perdoni l’accostamento, paragonavano la verità acclarata a quanto «.. è scritto sul Vangelo». Quello che usciva dal piccolo schermo, così veniva chiamato allora il televisore, aveva quasi un timbro notarile di autenticità. Oggi, a parte il fatto che gli schermi si sono allargati fino all’inverosimile, quello che viene detto in televisione non trova più nessun credito tra coloro che si trovano davanti al «piccolo schermo». Per i giornali stampati, va un po’ meglio; ma bisogna prenderne sempre più di uno per formarsi un’idea su quello che ci accade intorno. E l’informazione via web? Per un po’ è andata bene e migliaia di persone si sono illuse di trovare nella rete quella «verità» che veniva loro negata dalle
Novembre 2011 reti televisive. Poi si sono dovuti ricredere, accorgendosi che di «verità» ce ne sono tante. Troppe! Quello che accade (ed è accaduto) su Facebook e ogni altro social network, ha lasciato fortemente perplessi anche i meno svegli tra i fruitori del web. Anche la rete telematica comincia ad essere stracolma di notizie fasulle! Ecco perché di fazzoletti viola non se ne vedono quasi più, in giro. Ma torniamo alla televisione, almeno per vedere cosa si sta combinando in questo periodo. Quando, diverse settimane fa, lessi che su Retequattro stava per andare in onda una trasmissione che come titolo aveva Blog, la versione di Banfi, ne fui particolarmente lieto. Pensavo ad un modo spensierato, forse satirico, per affrontare le notizie più importanti. Ma non si trattava di Lino Banfi, come credevo io, bensì di Alessandro Banfi, giornalista e uomo di cultura. Egli racconta l’Italia alla sua maniera e, come si usa oggigiorno, con la complicità di alcuni ospiti. Il risultato non deve essere stato entusiasmante per nessuno, visto che il programma si attestato su uno share del 3,50 per cento. Un po’ meglio è andata la nuova trasmissione Piazza pulita condotta da Corrado Formigli su La7. Ma, forse, soltanto perché il pubblico televisivo comincia ad essere stanco di Lilly Gruber. Di particolare interesse sembra essere, invece, la nuova versione di In Onda che ha visto la sostituzione di Luisella Costamagna con Nicola Porro. Naturalmente, il popolo della sinistra è prontamente insorto: «Come si sono permessi, i dirigenti de La7, di sostituire la pasionaria rossa con il vice direttore del Giornale?». Vuoi vedere che, anche loro, si sono accorti che più della metà degli Italiani tifano per il centro-destra? Comunque, anche gli argomenti di questo programma, non si discostano da quelli che citavo prima. Persino Enrico Mentana, con il suo nuovo Bersaglio mobile, dedica la sua attenzione ad argomenti che dovremmo relegare unicamente alla sfera del gossip. Ed ho notato che anche nei settori di intrattenimento la TV comincia a mostrare la corda. Il massimo si è ottenuto con il passaggio di Bonolis al settore «quiz», con un programma che non fa certamente onore al noto conduttore, il quale ha scelto di involgarirsi oltre misura pur di fare ascolti. Le parolacce tirano sempre! Dopo anni di attività, «il Bagaglino» ha chiuso i battenti. La decisione
Novembre 2011 è stata presa a causa della mancanza di spettatori e dalla cancellazione di offerte televisive. Insomma, il cabaret sembra essere finito. Nei mesi scorsi sono state approvate le nuove nomine Rai. Tra tutte, ci ha stupito particolarmente quella del Gr3, un giornale radio che produce tre sole edizioni nell’arco della giornata e che vede al lavoro un caporedattore centrale, 2 caporedattori, 1 vicecaporedattore, 2 caposervizio e 2 soli redattori semplici. In totale, col neo nominato condirettore, attualmente ci sono 7 dirigenti e 2 giornalisti. Veramente notevole. Come neocondirettore di Rai Parlamento, abbiamo notato che è stata nominata Simonetta Faverio, ex addetta stampa di Bossi. La sua sede operativa sarà Milano dove non soltanto non ha a sua disposizione alcun giornalista da «condirigere», ma non c’è nessun parlamento. Vuoi vedere che si stanno organizzando per il Parlamento della Padania? E passiamo a Gad Lerner che ha ripreso la sua trasmissione serale su La7. In una delle ultime, un noto luminare, esponente della sinistra, ha chiaramente affermato che poiché il Capo del governo non disdegna la compagnia di giovani donne, è affetto da SATIRIASI! Una malattia gravissima, da curare! Insomma, omosessuali e travestiti stanno bene, in parlamento. Ma se si scopre che c’è uno che gradisce le donne, quello è un malato affetto da Satiriasi. Ma allora, non è vero che il cabaret sia finito!
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NASCE UN NUOVO MENSILE
«I Dialoghi» del «Canova» di DELFINA METZ È USCITO il numero uno del mensile di cultura, politiche sociali, attualità e diplomazia internazionale I Dialoghi (edizioni «Angels Society International»), diretto dalla giornalista, scrittrice e promotrice di eventi Katia Princi Menniti. Il giornale è dedicato ad un glorioso testimone della storia della capitale: il bar «Canova», la punta di diamante del famoso Tridente dell’arte e dell’eleganza, a Piazza del Popolo. Punto di riferimento e di ritrovo lungo il Novecento fino ai giorni nostri non soltanto per i «Romani de’ Roma» (oggi mischiati con tanti turisti), ma anche dell’intellighenzia e dell’eleganza internazionale. Lunga ed affascinante è la storia del «Canova», riportata in un bel ritratto letterario da Attilio Battistini in un numero di ottobre 1977 del foglio settimanale di arte e cultura Il Miliardo con un’illustrazione del «Canova» di ieri con signore liberty e gentiluomini in cilindro.
Disegno «liberty» del «Canova» (Per gentile concessione del dott. G. Trombetta)
«Il tempo non pesa», scrive a proposito il sensitivo poeta e nitido pittore Sebastiano Carta nel 1931 «nelle curve di cristallo / che indicano nostalgia di cielo / la vita è come sospesa alle lacrime del campanile / E una insistente leggerezza d’ali / Sono i pensieri». I versi furono dedicati a Giacomo Natta, uno degli abituali frequentatori del locale, appena appena inaugurato nel 1947 dall’architetto Del Debbio, in gran voga dagli Anni Trenta per aver progettato e realizzato il monumentale Stadio dei Marmi a Roma. L’architetto diede vita ad un caffè di gran classe. Fin dal 1938 il «Canova» era stato gestito da un tal Oddone, pasticciere e fornitore del vicino e sofisticato «Albergo di Russia» (ora «Hotel de Russie»). Dopo il pasticciere, il «Canova» fu gestito da un grossista di pesce, un tal Barboni, che lo cedette alla leggendaria signora napoletana Adele (il cognome non si seppe mai, bastava soltanto Adele). Corrosiva, salace e piena di aneddoti. Finalmente il commendator Berardo si rivolse a Del Debbio che fece del nostro bar il capolavoro di arredamento ed accoglienza che è tutt’oggi. Ai tavoli? L’intellighenzia: fra i tanti, Sandro de Feo, Pannunzio, Maria Maffai, Trombadori, Monachesi, Gentilini, i rappresentanti della «Scapigliatura» di via Margutta, più tardi quelli della Scuola Romana: Franco Angeli, Renato Schifano, Mimmo Rotella e…il «tenente Sheridan», al secolo Ubaldo Lai. C’era anche un piano bar, dove si esibiva Armando Trovajoli, che, altro che scapigliatura, aveva una cascata di capelli nero corvino. Non mancavano i finanzieri e gli imprenditori dell’Italia del boom, gli aristocratici viveurs (Dado Ruspoli) e i play boy di fama come Porfirio Rubirosa, nonché i rappresentanti della diplomazia di Roma e di tutti i Paesi. Fu fotografata anche Evita Peron, nella sua
68 unica visita a Roma, in un tango scatenato. «Signora Princi Menniti», a questo punto mi urge domandare, «come si sente nel rappresentare con “Dialoghi” tanta storia, cultura e costume?» Fresca del successo del cocktail di inaugurazione del suo numero uno, con il bar stracolmo di rappresentanti della cultura, della diplomazia internazionale, del giornalismo e di entusiasti avventori habitués o presenti anche per caso, e dopo la presentazione del nuovo foglio ad opera del critico d’arte Carlo Roberto Scascia e alla presenza di Carlo Capria, capo gabinetto dello Sviluppo Economico, Katia Princi Menniti, tutta sorridente fra il proprietario del «Canova», Giorgio Trombetta, e il padrone di casa (sul posto da diciotto anni) il direttore Adriano de Santis, mi risponde: «Il mio “Dialoghi” ha tutti i numeri per essere un successo. I dialoghi sono letteralmente aperti a tutti e tutti i lettori potranno interagire. In questo momento direi che molti giornali sono “sotto padrone” e distribuiscono “veline”. “Dialoghi” sarà proprietà dei lettori. Sarà composto da un foglio piegato in due, una piega che unisce, non divide. Sarà distribuito in questo bar e nelle vie attigue, tipo strillonaggio, ma senza strilli…In Italia oggi si strilla troppo e si fa ancora troppo poco. «Noi, assieme ai lettori, vogliamo informare senza padroni, ma soprattutto vogliamo fare. “Scripta manent, strilla volant”! E poi “Dialoghi” sarà visto dal popolo di internet in più lingue (anche in cinese, quest’anno, fra l’altro, è l’anno della Cina) e in tutto il mondo. Il mio editoriale sarà un puntuale amarcord, un “come eravamo” e anche un come diventeremo. L’ultima pagina si chiamerà “Canova Express” e tratterà di società, costume e perché no, anche di cronaca mondana, sempre nel dna del “Canova”. «Poi c’è l’indispensabile dialogo della “Posta dei Lettori”, non solo interlocutoria, ma da parte nostra attiva nel prendere in considerazione pratica le loro richieste. Non vi promettiamo di fare arrivare in orario i treni, ma di informarvi e di aiutarvi a risolvere i vostri problemi pratici». «Che altro domandarle direttore? In bocca al lupo!» «…Non dico “crepa” perché sono una convinta animalista ed ambientalista!», è la raggiante risposta.
IL BORGHESE
Novembre 2011
INTERVISTA A MARCO FALAGUASTA
La vita è commedia da vivere in allegria a cura di ROBERTO INCANTI ANCHE quest’anno, come di tradizione, si è svolta la consueta rassegna «Estate Romana» che ha annoverato, tra i suoi protagonisti, uno degli attori più eclettici e talentuosi dello spettacolo italiano, e del panorama eminentemente romano: Marco Falaguasta. Sempre gentile e cortese con tutti, mi riceve nella sede del teatro Testaccio, dove ricopre il ruolo di direttore artistico. Sia nelle vesti di produttore, che in quelle di attore e regista, porta in scena degli spettacoli sempre divertenti e frizzanti, ma capaci anche di far riflettere in questi momenti non certo facili. Lasciamogli allora volentieri la parola per raccontarci qualcosa di più sugli spettacoli ai quali sta lavorando, e non soltanto … Marco innanzi tutto grazie per aver concesso, al «Borghese», questa intervista. «Ma grazie a voi, è un piacere per me.» Parlaci del tuo ultimo spettacolo, che hai portato in scena per l’estate romana, e che si intitola: «È facile smettere di sposarsi se sai come farlo». Come mai un titolo così particolare? «Il titolo prende spunto dal libro di Carr Allen: È facile smettere di sposarsi se sai come farlo. Leggendolo due o tre volte, mi è arrivato subito alla mente il parallelismo tra l’iniziare a fumare e lo sposarsi. Così come chi inizia a fumare non sa quali siano gli effetti dell’azione che sta intraprendendo, anche chi inizia una relazione non ha la più pallida idea che quello potrebbe essere il legame di tutta una vita, e che potrebbe portarti all’altare. Il filo conduttore delle due azioni è il lasciarsi andare: da una parte il non riuscire a smettere di fumare, dall’altra l’impossibilità, o la non consapevolezza, a troncare i legami che non hanno più l’entusiasmo dei primi tempi. Per tutt’e due i
casi vale il concetto di come la casualità della vita abbia, molto spesso, il sopravvento sulla volontà dell’individuo.» Com’è strutturata la commedia? Quanti sono i personaggi? «Sono sei personaggi, quattro uomini e due donne, dalle esperienze di vita molto variegate e disparate tra di loro: l’avvocato, il carabiniere innamorato del suo lavoro, il romanziere mancato… La commedia è, a mio giudizio, molto divertente e, in un certo qual modo, anche nostalgica, in quanto copre l’arco temporale che va dagli anni ’80 fino ai giorni nostri. Per chi è della mia generazione, gli ’80 hanno rappresentato il momento di crescita, di maturità, in cui cominciavamo a costruire noi stessi ed il nostro futuro.» Marco rimanendo sul tema degli anni ’80, sappiamo che hai frequentato una scuola molto «chic» di quegli anni nel quartiere Prati, che era il «Marcantonio Colonna», e che hai avuto delle esperienze, anche importanti, all’interno del movimento giovanile dell’allora
MARCO FALAGUASTA (Dal sito www.chronica.it)
Novembre 2011 «Alleanza Nazionale»; quali erano i fermenti artistici e politici di quegli anni e in cosa quei tempi si differenziavano dagli attuali? «La mia generazione non aveva degli ideali politici ben definiti, basti pensare che le generazioni che ci hanno immediatamente preceduto, i ’50 ed i ’60, ossia coloro che hanno fatto il ’68, erano portatrici di un vento nuovo, di ideali che poi hanno consentito, nel bene e nel male, di cominciare a trattare alcune tematiche molto forti che qualche anno prima era impensabile che si potessero affrontare; di conseguenza noi abbiamo agito un po’ di “rimessa”, vale a dire che dividevamo il mondo in etichette sociali e in status ben predefiniti.» E riguardo al momento politico contingente qual è il tuo pensiero? Perché il centro-destra, ed il «PdL» in particolare, sono così in crisi? «Ritengo sia mancata completamente la formazione, la costruzione di una classe dirigente nuova, che potesse aprire degli spazi di società civile alle giovani generazioni che oggi, purtroppo, faticano a costruire il loro futuro; si è pensato a sconfiggere a tutti i costi il centro-sinistra senza pensare alla costruzione vera di un partito capace di elaborare, a livello pratico, la sintesi delle diverse anime che lo compongono e, quindi, è mancata la radicalità di questo soggetto sul territorio non avendolo sviluppato, grazie anche all’opera dei militanti, nei classici circoli e nelle sezioni territoriali.» Marco facciamo una rapida panoramica sulle tue attività nel campo dello spettacolo: attore, regista, produttore, direttore artistico; ecco proprio quest’ultima caratteristica ti lega molto a Roma, in quanto il teatro «Testaccio» si trova nel cuore dell’omonimo quartiere ed inoltre sei, da anni, uno dei nomi di punta dell’estate romana. Cosa ti lega a questa città? «Tante cose mi legano a Roma: è la mia città, ci sono cresciuto ed ha visto evolversi la mia formazione e la mia crescita umana e professionale. Da dieci anni gestisco il teatro “Testaccio”, che rappresenta per me una fonte di grande onore. «Chiaramente se a tutto questo aggiungiamo che con la mia associazione culturale e, finanche, con la
IL BORGHESE mia compagnia teatrale “Bonalaprima”, arrivata ad avere ormai un esperienza ventennale, partecipiamo tutti gli anni, come hai giustamente ricordato, all’estate romana, tutto ciò mi lega fortemente ed indissolubilmente a questa città.» Che genere di rappresentazione teatrale porti in scena abitualmente? «Non ho un genere particolare di rappresentazione teatrale che sovente porto sulla scena in quanto, nei miei spettacoli, cerco di descrivere più situazioni: le aspettative dei ventenni ed i loro slanci positivistici verso il futuro, le ansie ed i primi bilanci dei trentenni, le analisi dei quarantenni arrivati al giro di boa, il tutto condito dalla forma della commedia alla quale io spesso ricorro perché ritengo che, nella vita, non debba mancare la positività, l’ottimismo e l’allegria.» Progetti futuri? «A novembre mi vedrete nella serie televisiva: “Il Restauratore” su RaiUno con Lando Buzzanca e Martina Colombari; per quanto riguarda il teatro sarò al “‘de Servi” con due rappresentazioni: dal 20 settembre al 9 ottobre con “Due volte Natale” e dal 3 al 22 gennaio con “So tutto sulle donne”. «Nel primo spettacolo, tutto ruota al personaggio di Zio Baldo, che invita i suoi due nipoti a passare un po’ di tempo con lui nella sua baita di montagna. I ragazzi accettano volentieri, per recuperare un rapporto interrotto da anni con il parente, ma non hanno fatto i conti con gli altri bizzarri personaggi presenti nell’abitazione che, oltretutto, è addobbata come se fosse Natale, anche se la scena si svolge a marzo mentre, nel secondo spettacolo, il protagonista, si trova in un momento particolare della sua vita: i suoi pensieri vagano sempre nella direzione di lei, la donna che lo rende un uomo inquieto. Gli amici, cercando di aiutarlo, parlano con lui un intera notte sul loro argomento preferito: le donne e, proprio quando arrivano ad una conclusione non rasserenante, un imprevisto colpo di scena provvederà a smantellare tutte le loro certezze.» Grazie Marco ed in bocca al lupo per tutto «Grazie a te, ed un saluto con affetto a tutti i lettori de “Il Borghese”.»
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IL CINEMA ITALIANO?
Lontano dalla ... Terraferma di FABIO MELELLI ALL’ULTIMA mostra del cinema di Venezia sono stati presentati alcuni (troppi) film italiani sul tema dell’immigrazione clandestina, film che non passeranno alla storia del cinema, ma che sono accomunati da un dato inquietante: restituiscono del nostro Paese e delle nostre istituzione un immagine tutta al negativo, senza sfumature o distinguo. Ora, è noto che un film di denuncia perché funzioni debba porre dei problemi allo sguardo dello spettatore, piuttosto che offrire delle soluzioni belle e pronte. Ovvero deve evitare quanto più possibile la tentazione del manicheismo, non riducendo a stereotipo la complessità del tema. In questi difetti strutturali, relativi alla banalizzazione dell’argomento e alla sua presentazione in termini volgarmente «politici», scivola purtroppo l’opera di un ottimo regista, quale Emanuele Crialese, autore in passato del notevole Respiro e del meno notevole Nuovomondo (senza dimenticare l’esordio avvenuto con l’invisibile, oggi reperibile in dvd, Once We Were Strangers), il cui ultimo film Terraferma, inopinatamente premiato a Venezia (preferito per esempio a Carnage di Roman Polansky, film di tutt’altra levatura, puro cinema d’autore concentrato in unico ambiente, un soggiorno di pochi metri quadri), e proposto per l’eventuale candidatura all’Oscar (tutta da conquistare, naturalmente), mostra un Paese in cui le forze dell’ordine, qui impersonate dal capitano della Finanza Claudio Santamaria (un ottimo attore ridotto a macchietta), trattano con durezza e poca umanità i disperati che approdano in gommone sulle nostre coste e i compatrioti che gli danno soccorso. I clandestini, d’altra parte, sono dipinti indistintamente come persone oneste in cerca di un lavoro e di una condizione di vita dignitosa (sappiamo purtroppo che non è sempre così, ma un film sull’importazio-
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ne di spacciatori e manodopera criminale in Italia non troverebbe forse produttori). Scegliendo di raccontare l’immigrazione clandestina con i toni buonisti e accomodanti dello sceneggiato televisivo, Crialese forse incontra il favore del committente (la potente Cattleya di Riccardo Tozzi, marito di Cristina Comencini, modesta regista, nota esponente di punta antiberlusconiana), ma fa cattivo cinema, non disegna personaggi credibili, si accontenta di mettere in scena un insipido segmento narrativo che non sfigurerebbe in una puntata di Ballarò, buono per far scattare l’indignazione «progressista» ma certo non per riflettere in modo serio su un problema sempre attuale e scottante. * * * Si dirà che il cinema deve volare più alto della cronaca, elevarsi al di sopra delle strumentalizzazioni politiche, giusto; e allora Crialese avrebbe dovuto scegliere la strada dell’apologo dai tratti surreali come in Nuovomondo o dell’aspro realismo documentale in salsa rosselliniana, come in Respiro. E invece Crialese, come il Patierno di Cose dell’altro mondo (in cui si racconta di un surreale sciopero dei lavoratori immigrati) e in misura minore l’Olmi de Il villaggio di cartone (ma Olmi raccontando di una chiesa che deve sempre saper accogliere l’altro, realizza un’opera forse imperfetta ma vibrante) preferisce dare una «lettura» di parte e di comodo che sicuramente intercetta le aspettative di un certo pubblico alla ricerca di un capro espiatorio, individuabile invariabilmente nelle forze dell’ordine e nel nostro supposto razzismo; più serio sarebbe rinvenire le responsabilità di tanti amministratori e politicanti, che per malinteso senso di solidarietà, accolgono indiscriminatamente autentici criminali fuggiti dalle carceri dei loro Paesi e persone bisognose di protezione (madri di famiglia, bambini), rendendo un pessimo servizio ad una sana strategia dell’accoglienza. Ma di questo nei film sul tema non c’è traccia. Attraverso il cinema comunichiamo la nostra immagine nel mondo, e scegliere Terraferma quale ambasciatore della nostra produzione significa veicolare un certo giudizio sul Paese e lasciar pensare che sia questo il vertice della settima arte in Italia.
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LE COLLEZIONI MUSEALI
Una legislazione a tutela di RICCARDO ROSATI ANCHE in questa occasione intendiamo affrontare un tema pratico nella gestione museale in Italia: la legislazione. Tuttavia, essendo argomento vasto e complesso, vogliamo soffermarci soltanto su alcune leggi che riteniamo importanti per inquadrare le problematiche conservative anche sotto una prospettiva storico-giuridica. Il mantenimento della integrità, nonché la tutela del patrimonio presente in una collezione, vuoi pubblica vuoi privata, è stato un argomento che ha iniziato a essere di considerevole importanza già molto tempo addietro. Ricordiamo, ad esempio, come la necessità di rendere accessibile l’arte a tutti spinga il giovane Regno d’Italia a espropriare i beni ecclesiastici nel 1886; l’anno precedente, con la prima legge sulla urbanistica, si era cominciato con i privati, tramite «l’espropriazione per pubblica utilità». La giurisprudenza ottocentesca in materia di tutela è caratterizzata dal fidecommesso: un istituto giuridico riguardante la successione degli eredi. Costoro sono così vincolati all’obbligo di trasmettere il patrimonio ereditato intatto, vietandone lo smembramento. Tale provvedimento fu reso necessario dal rischio che alcuni nobili, specialmente romani, fossero tentati di cedere ad acquirenti stranieri alcuni pezzi pregiati delle ricche collezioni artistiche avute in eredità. Tuttavia nel 1865 lo Stato abolisce questo istituto che comunque già con Napoleone Bonaparte, spietato razziatore della meravigliosa collezione inizialmente voluta dal cardinale Scipione Borghese (1576-1633), mostra i propri limiti: nel 1807 Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, «cede» al cognato gran parte della collezione archeologica della sua Galleria. Nel 1883 si decreta inoltre che raccolte artistiche private di un certo rilievo per la nazione debbano essere vendute soltanto allo Stato, alle province o ai comuni. In pochi passaggi abbiamo potuto
comprendere quanto da secoli sia dibattuta la legislazione che salvaguarda la integrità delle collezioni. Difatti, al nobile che ha reso possibile il formarsi di inestimabili raccolte artistiche va la nostra imperitura gratitudine. Ciononostante, il suo gesto, benché illuminato, nasce da un desiderio di appagamento personale e oggigiorno non possiamo più accettare che l’arte sia un piacere per pochi, cosa che ostacolerebbe la formazione di una sensibilità culturale nel cittadino. Il museo creato dal collezionismo, con gli sviluppi avuti in età illuministica e positivistica, aveva pienamente raggiunto lo scopo che si prefiggeva: soddisfare l’esigenza estetica di una nobiltà colta e illuminata, la quale rappresentava però sempre una minoranza. Anche in anni più recenti, la tematica è stata assai viva. La Legge Bassanini (1997) ha devoluto molte funzioni alle regioni, tra queste, la gestione di musei, gallerie, pinacoteche, ecc. Ormai, siamo testimoni oculari del vorticoso succedersi di innovazioni, non sempre sagge, in materia di beni culturali. Iniziative come quella del Museo Egizio di Torino, prima grande collezione statale divenuta fondazione sulla scia del modello anglosassone, sembra dare comunque buoni risultati. È da augurarsi che cresca quanto prima un amore per una ricchezza artistica che è nostra per diritto naturale e non privilegio di poche, seppur colte, élite. In fondo, non esiste miglior forma di legislazione di quella rappresentata dal senso civico individuale e dal desiderio che nasce nel singolo di tutelare il Patrimonio: ciascuno di noi dovrebbe sentirsi, nel contempo, proprietario e custode della nostra arte. Questo potrebbe non soltanto salvaguardare il Museo come luogo fisico, ma anche l'Italia stessa, arrestando quel miscuglio di relativismo culturale e cieca esterofilia che ormai da troppi anni sta letteralmente uccidendo l'anima del nostro Popolo.
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IL BORGHESE
CASTEL SANT’ANGELO - DA ADRIANO A TOSCA
Entrare nella morte ad occhi aperti di NORMA HENGSTENBERG «LA MIA tomba in riva al Tevere riproduce su scala gigantesca, gli antichi sepolcri della Via Appia, ma le sue stesse proporzioni la trasformano, fanno pensare a Ctesifonte a Babilonia, alle terrazze e alle torri attraverso le quali l’uomo si avvicina agli astri… L’Egitto m’ispirò quelle gallerie circolari, quelle rampe che declinano verso sale sotterranee; avevo concepito il piano d’un palazzo della morte, che non avrebbe dovuto essere riservato solo a me o ai miei successori immediati, ma nel quale sarebbero venuti a riposare gli imperatori futuri, separati da noi da prospettive di secoli.» Così parla l’imperatore Adriano attraverso la voce di Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano. La sala delle urne, spoglia delle fastose decorazioni di marmi policromi e stucchi, oggi come unico decoro possiede una targa che recita le ultime parole che l’imperatore rivolge alla sua anima: «Piccola anima, smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli,ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora. Guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non rivedremo mai più. Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti…» L’imperatore visse 62 anni, 5 mesi e 17 giorni e aveva regnato 21 anni e 11 mesi. L’architettura dell’Adrianeum adopera il tumulo di terra di tipo etrusco ed è curioso che le misure della costruzione cilindrica sono simili a quelle della Cuccumella a Vulci. Mentre la Cuccumella è alta 20 metri il mausoleo dell’imperatore è alto 21 metri. La Cuccumella ha un diametro di 65 metri mentre il mausoleo ha un diametro di 64 metri! E nell’epoca rinascimentale è proprio Antonio da Sangallo il Giovane che costruisce le logge di Giulio II e di Paolo III - un altro «legame» con
la Tuscia. L’ascensore «a forza d’uomo» invece è stato installato su ordine di Leone X. Al terzo livello troviamo la Sala della Giustizia. Qui vennero giudicati Pomponio Leto e il Platina soprattutto per una rievocazione classica: le «Pallilie» celebrate dai pastori in onore della dea Pale, perché facesse prosperare le loro greggi. Il Platina venne graziato da Sisto IV che lo nominò prefetto della Biblioteca Vaticana. Tale evento fu raffigurato con maestria da Melozzo da Forli, oggi conservato nella Pinacoteca del Vaticano. Clemente VII, invece, aveva nominato Benvenuto Cellini stampatore ufficiale della Zecca Pontifìcia. Ma il Cellini, rientrato a Roma dopo un breve periodo in Francia, venne accusato di avere sottratto alcuni beni papali durante il Sacco di Roma e per questo imprigionato in Castel S. Angelo. Dopo una rocambolesca fuga viene nuovamente imprigionato per i dissidi con Paolo III e suo figlio; dissidi dovuti al fatto che il Cellini, che si vantava di aver ucciso Carlo di Borbone, comandante degli assedianti durante il sacco di Roma, aveva osato criticare il gusto artistico di Paolo III! Nel primo atto dell’opera «Benvenuto Cellini» di Hector Berlioz, il cannone di Castel S. Angelo segnala la fine del carnevale e l’inizio della Quaresima sparando tre colpi a mezzanotte mentre Cellini viene portato via perché accusato di omicidio. Cellini aveva ucciso l’assassino di suo fratello, un mercenario di Giovanni dalle Bande Nere, ma per quello e altri reati passò soltanto qualche notte in prigione, non nel Castello. Cellini morì all’età di 71 anni ed è sepolto in Santa Maria Novella a Firenze; le sole opere attribuite a lui a Roma sono due candelieri conservati nel Museo del Tesoro di S. Pietro. Ma il castello non era soltanto una temibile prigione, era anche il luogo
71 delle esecuzioni capitali per eccellenza. Stefano Porcari fu un propugnatore delle idee repubblicane che desiderava veder realizzate ed a tale scopo esortava il popolo a ribellarsi al potere pontificio. Organizzò una sollevazione popolare per il 6 gennaio 1453, ma tradito da alcuni congiurati, dopo essersi rifugiato in casa della sorella, fu scovato e rinchiuso nella fortezza. Le proporzioni della congiura furono probabilmente ingigantite; il Porcari fu processato e impiccato su una torre del castello. Una lapide in via della Pigna 19, l’unico ricordo di una casa rimasta della famiglia Porcari recita: «… perché lamentando la servitù della patria levò in tempi di oppressione un grido di libertà fu morto il 9 gennaio 1453 per ordine di Niccolò V». L’industria cinematografica ci ricorda alcune condanne capitali. Beatrice Cenci, l’eroina popolare che veniva decapitata da Clemente VIII nel 1599, è soggetto di alcuni film. Nel film del 1956, Freda non fa vedere l’Angelo in cima perché nell’anno della decapitazione non c’era, era saltato in aria con la polveriera! Durante la decapitazione di Beatrice Cenci erano presenti il Caravaggio e Artemisia Gentileschi e nei dipinti dei due pittori appare spesso il tema della decapitazione. Nella raccolta della Camera Storica della Arciconfraternita di San Giovanni Decollato si conservano ancora i canestri che raccolsero le teste dei decapitati. I loro corpi vennero seppelliti nel giardino della Arciconfraternita, ma Beatrice trovò il suo eterno riposo sotto l’altar maggiore di S. Pietro in Montorio. Le esecuzioni sulla piazza antistante il Castello venivano annunciate dal suono della «Campana della Misericordia». Giovanni Battista Bugatti, chiamato dal popolino «mastro Titta», fu certamente il più famoso boia di Roma. Nel corso della sua lunga «carriera» (ben 70 anni!), eseguì ben 516 «giustizie». Alla veneranda età di 90 anni, ormai alla fine del suo «servizio», ebbe occasione di provare anche uno strumento moderno, frutto della Rivoluzione: la ghigliottina. Si racconta che avesse l’abitudine di sniffare tabacco ed a volte ne offriva una presa anche ai condannati. Sull’altra sponda del fiume esiste il «Vicolo del mastro» che lo ricorda e il Museo Criminologico nel Palazzo
72 del Gonfalone ospita il mantello rosso che indossava durante le esecuzioni. Altro ospite famoso del monumento fu il conte Cagliostro. Veggente, negromante, alchimista, faccendiere e grande iniziato, arriva a Roma nel maggio 1789, e subito dopo Natale viene arrestato e tradotto a Castello. Passarono quattro mesi prima che si iniziasse il processo, e gli stessi interrogatori furono lunghi ed estenuanti: uno durò addirittura diciassette oro! All’inizio del processo il gran «Cofto» ritrovò per un momento tutta la sua superbia e dichiarò che se non lo avessero rilasciato, migliaia di massoni avrebbero preso d’assalto la prigione del castello per liberarlo! Il 7 aprile 1791, l’anno in cui vide la luce «Il flauto magico» venne emesso il verdetto al cospetto del papa: Cagliostro fu condannato a morte. Una umiliante abiura pubblica gli evitò la pena capitale, commutata in ergastolo nella fortezza di S. Leo. Saliamo alla terza aula del mausoleo romano. Qui troviamo la camera del tesoro con tre forzieri. Il più grande dei forzieri è stato costruito all’interno della sala; in questo modo, non potendo passare per la porta, offriva un’ulteriore sicurezza! Tra le molte sale degne di attenzione, accenniamo brevemente alla Sala Paolina, nella quale ricorre il motto latino di Paolo III: «Festina lente». È stato forse Aldo Manuzio a scegliere il motto dell’imperatore Augusto.
IL BORGHESE L’effige di Adriano invece si trova di fronte a quella del papa e gli fanno bella compagnia Alessandro Magno, Prudenza, Temperanza, Giustizia, Forza, Abbondanza, Carità, la Venere Celeste e la Speranza ma anche Chiesa e Concordia, Fede e Religione e perfino due tromp l’oeil che sono simili a quelli del palazzo comunale di Viterbo e a quello di Palazzo Farnese di Caprarola, nella Sala degli Angeli. Anche in questi palazzi degli uomini guardano fuori da una porta semiaperta e nel caso di Caprarola è raffigurato forse lo stesso Aldo Manuzio. Saliamo ora sul tetto dove svetta l’Angelo che, secondo la leggenda, sarebbe apparso a papa Gregorio Magno e una folla di appestati per annunciare la fine della pestilenza rinfoderando la sua spada. È dagli spalti del castello che si getta la infelice Floria Tosca, dopo aver scoperto che il suo amante, Mario Cavaradossi, è stato fucilato per davvero. Nel 1992 Giuseppe Patroni Griffi fece una memorabile versione cinematografica dell’opera di Puccini; fu trasmessa in 107 Paesi e vista da più di un miliardo di persone. Il titolo era «Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca» con la direzione di Zubin Metha e con Placido Domingo nella parte di Cavaradossi. Negli primi anni ’90 del secolo scorso qualche volta appariva una scritta sotto il castello: «Tosca, perché l’hai fatto?», dipinta in grandi lettere bianche.
Novembre 2011 In bianco e nero esiste una versione cinematografica con Mario del Monaco (anche lui Mario!) che è un Cavaradossi strepitoso e che, ormai pronto a morire e iniziando a scrivere una lettera a Tosca, viene sopraffatto dai ricordi e non riesce a terminarla. Così canta «E lucean le stelle…» davanti al panorama della Roma rinascimentale. Fino all’Angelo si arrampicherà invece un giovane Alain Delon in «Che gioia vivere» del 1961. L’ampia vista spazia intorno al Castello che nel Medioevo fu considerato una delle Sette Meraviglie del Mondo, dopo la città di Tebe e i Giardini Pensili di Babilonia, ancor prima delle Piramidi. Prima della costruzione del Castello qui erano gli Orti dei Domizi e fino all’Unità d’Italia tutta la zona era un tappeto verde di vigne, orti e prati, tanto che il quartiere costruitovi dai piemontesi prese proprio il nome di Prati. Al Museo di Roma in Trastevere si trovano gli acquarelli di Ettore Roesler Franz che con straordinario intuito dipinse la «Roma Sparita», poco prima delle demolizioni volute dai nuovi «padroni» della città. Il Castello sembra ergersi in aperta campagna… Salutiamo il Castello con una cerimonia di luci, spari, mortaretti, colpi di cannone e fuochi d’artificio. «La Girandola», probabilmente eseguita la prima volta nel 1481 per l’anniversario della salita al soglio pontificio di Sisto IV, fu eseguita per l’incoronazione dei papi, i loro compleanni, per le venute dei principi e in occasione della festa dei Santi Pietro e Paolo. Fu trasferita dal 1851 sulla terrazza del Pincio perché dopo ogni spettacolo si notavano crepe e fessure nel monumento ma da qualche anno è tornata al luogo del suo antico splendore. Uomini illustri e personaggi famosi si dedicarono all’arte pirotecnica, utilizzando addirittura miscele di spore, alghe ed arbusti. Tra essi Michelangelo, il Bernini, il Vanvitelli ed il Fuga, non dimenticando il Buontalenti detto «Bernardo delle Girandole» ed il Buonmattei detto «l’Affumicato».
LIBRI NUOVI E VECCHI Librido a cura di MARIO BERNARDI GUARDI Rosario Bentivegna Senza fare di necessità virtù Memorie di un antifascista Einaudi, pp.422, euro 20,00 Il caso (ma «il caso è la causa», dice Borges) ha voluto che leggessimo la biografia di Rosario Bentivegna in contemporanea a un libro di Guglielmo Peirce (Pietà per i nostri carnefici), pubblicato da Longanesi nel 1951, cioè sessant’anni fa e acquistato a un libreria antiquaria. Ora, chi ha un po’ di pratica con la storia, di Rosario Bentivegna qualcosa sa, viste fama e infamia che gli sono derivate da quel sanguinoso attentato dei GAP a via Rasella cui seguì la terribile strage «nazi» delle Fosse Ardeatine. C’è da scommetterci, invece, che Guglielmo Peirce l’hanno sentito nominare in pochi. Eppure anche lui fu a lungo un comunista duro e puro, anche lui fu impegnato nella militanza antifascista e nella Resistenza, anche lui credette, obbedì e combatté perché il «sol dell’avvenire» illuminasse i patrii lidi. La differenza sta nel fatto che Peirce, scomparso nel 1958, non aveva sulla coscienza il peso di 42 vittime e che se ne andò dal PCI prima degli anni Cinquanta, scegliendo la libertà. Rosario Bentivegna, invece, lascia il Partito soltanto a metà degli anni Ottanta, quando, essendo nato nel 1922, l’età della ragione l’aveva superata da un pezzo. E di brutte cose ne aveva viste tante, senza fare una piega. E sì che nel 1956, dopo la brutale repressione sovietica della rivolta d’Ungheria, un bel po’ di intellettuali (e al suo «status» di intellettuale militante Bentivegna, medico e scrittore, sembra tenerci) se ne andarono dal PCI, accorgendosi non soltanto «di che lacrime grondasse e di che sangue» il socialismo «reale», ma anche di come utopia e pratica marxiste fossero costruite sul dogmatismo, la menzogna e la doppiezza. E l’ipocrisia. Perché non è provocatorio ma soltanto ipocrita scrivere: «Fu certo un
errore nostro non condannare subito l’invasione d’Ungheria e l’assassinio di Nagy. Nessuno dei nostri più severi esaminatori ha però mai condannato l’America di Granada, di San Salvador, di Guatemala, di Nicaragua, del Vietnam o la Francia a governo socialista che torturava i patrioti algerini o le centinaia di migliaia di comunisti in Indonesia. Al contrario, nessuno di noi si sognava, giustamente, di chiedere ad esempio alla Chiesa la condanna di Pio XII e della sua politica: ci bastava che vi fosse stato Giovanni XXIII e il suo ‘Vaticano II’. «Non abbiamo mai preteso da parte della DC la condanna di Scelba o Tambroni, anche se sarebbe stato giusto che quei dirigenti democristiani si recassero almeno a rendere omaggio alle tombe dei lavoratori di Modena, di Reggio Emilia, di Avola e delle cento località dove sono caduti i nostri compagni dal 1947 al 1964 (governo Moro), perché chiedevano pace, pane, lavoro». Insomma, tutti uguali, tutti assassini, caro Bentivegna? Le riflessioni storiche, politiche, etiche, morali ecc. che dobbiamo fare sulla repressione sovietica in Ungheria sono dello stesso tipo di quelle che dobbiamo applicare all’intervento USA in Vietnam? Gli Stati Uniti e l’URSS della «guerra fredda» erano la stessa cosa? Scelba e Tambroni hanno le mani lorde di sangue come Stalin e Kruscev? Quanto a Pio XII, se nella sua autobiografia Bentivegna non ce lo presenta come un collaborazionista dei «nazi», siamo a due passi, ed è inutile richiamarlo, quanto meno, a fare i conti con documentazioni e controdocumentazione in merito, per avere un’idea più «obbiettiva». Ma, del resto, con tutti i suoi «distinguo», Bentivegna si proclama ancora «comunista», e allora cosa si può pretendere, che ragioni «sine ira et studio», che entri negli specifici «contesti», che si metta pazientemente a spiegarci che differenza c’era, che ne so, quanto a libertà e a «vivibilità», tra l’Italia degli anni Cinquanta e la «corrispondente» Cecoslovacchia? Ma torniamo un attimo a Peirce. Ebbene, il nostro «intellettuale militante», scampato per puro caso alle Ardeatine, già nei mesi della dominazione tedesca a Roma aveva cominciato ad
avere dei dubbi sulla bontà della causa. E si era chiesto se quelli che, a via Rasella, avevano messo la bomba fossero migliori di quelli che erano morti a causa dello scoppio. No, i comunisti non erano migliori. Non lo erano Amendola, Ingrao, Longo. E meno che mai, come racconta in Pietà per i nostri carnefici, lo era il loro leader, «il Migliore» per antonomasia, e cioè Palmiro Togliatti, l’uomo di Mosca, gelido, spietato esecutore degli ordini di Stalin. Peirce si era reso conto ben presto che un’eventuale vittoria del comunismo avrebbe fatto nascere in Italia una società «mostruosa e atroce, un vero inferno, una nuova tirannia, al posto della vecchia». Eppure, da giovanissimo, era stato affascinato, al tempo stesso, dalle avanguardie artistiche e dal marxismo, aveva militato nel partito comunista clandestino, era stato condannato a cinque anni di confino nell’isola di Ventotene e aveva compilato per intero il libro Un popolo alla macchia, poi uscito nel 1947 da Mondadori con la firma di Luigi Longo. Insomma, non gli mancavano titoli da vantare. Ma, come abbiano detto, scelse la libertà e l’Occidente, pur con tutti i loro difetti, e mettiamoci anche errori e orrori, diventando redattore del Tempo e collaboratore del Borghese. Bollato dalla «chiesa» comunista, al pari di uno spretato, il liberale e libertario Peirce rispose invocando una paradossale pietà. Pietà per i persecutori e i carnefici - è il messaggio del suo libro , umanissima pietà per chi, reso inumano dall’utopia del mondo nuovo, è condannato ad essere travolto dalle macerie del comunismo. E il comunismo «imploderà» soprattutto perché dice le bugie. Perché l’autocritica è opportunistica, imposta dall’alto ed è una confessione che non redime: dopo che sei stato costretto a dire «mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa», non sei purificato, ma vai a morire ammazzato. Bentivegna, per sua fortuna, è vivo e vegeto. E noi, in tutta sincerità, gli auguriamo di campare fino a cent’anni. Aggiungiamo, in confidenza, che a suo tempo non ci dispiacque si fosse «incontrato» con il «camerata» Carlo Mazzantini, pronubo Dino Messina, per evocare contrapposti scenari di militanza giovanile, e cioè la scelta della Resistenza e quella della Repub-
74 blica Sociale (C’eravamo tanto odiati, Baldini & Castaldi, 1977). Quanto alla sua autobiografia, che dire? C’è dentro di tutto e di più: le ascendenze familiari (nobiltà siciliana, garibaldina, mazziniana e massonica da parte del babbo; «generone» romano, catto-papalino da parte della mamma), la fede fascista del ragazzino fulminato, «sulla via di Damasco», dalla scoperta di Marx e dalle prospettive di una umanità nuova (come c’era già notoriamente nell’URSS di Stalin…), l’impegno nei gruppi comunisti clandestini, e poi la Resistenza, i GAP, Via Rasella, le Fosse Ardeatine, il lavoro nel Partito, la permanenza in Jugoslavia (dal settembre del 1944 al febbraio del 1945) come vicecommissario politico della IV Brigata Garibaldi (patriotticamente vicinissima, come è noto, alle aspettative di fiumani, istriani e giulianodalmati…), le vicende sentimentali e familiari, il dopoguerra, le medaglie al valore, la vita non sempre facile dell’ex gappista schifato da non pochi (ma guarda un po’…) per il suo «atto di guerra» a via Rasella, le riflessioni sul comunismo che ci poteva essere e c’è stato un po’ sì e un po’ no, e sul postcomunismo che, sì, ha le sue ragioni «storiche», ma non dovrebbe rinnegare la tradizione militante, la «meglio gioventù», le belle battaglie resistenziali e la grande speranza di redenzione annunciata da Marx ecc. ecc. Contento Rosario, contenti tutti, si fa per dire. La sua storia gli appartiene, ci ha creduto, ci crede ancora, pensa di aver agito per il meglio, la guerra è guerra, la guerriglia è guerriglia, il fascismo era brutto, sporco e cattivo ecc., il comunismo invece no ecc., dunque quel che doveva essere fatto è stato fatto, anche se non è stato certo contento di ammazzare tutta quella gente, anche se era brutta, sporca e cattiva ecc., perché lui non era mica un sanguinario, perché non si ammazza a cuor leggero, perché a saltare in aria sono pur sempre degli esseri umani, ancorché disumani, e anche a noi tocca esser disumani a maggior gloria dell’umanità, del socialismo e della libertà ecc. ecc. Il rosario di Rosario lo abbiamo sempre sentito sgranare dai comunisti e anche qui la pia operazione viene riproposta. È il rosario dei «migliori» in un mondo di “peggiori”. Non importa se ogni tanto (spesso, direi…) ti capita tra le dita qualche grano ruvido. Perché, Dio mio, se nel prologo del tuo libro attacchi con questa tiritera: «Ho trascorso quasi tutti i miei ottantanove
IL BORGHESE anni nel ‘secolo breve’ che Hobsbawn ha compreso tra il 1914 e il 1991 e non ho mai smesso di stare dalla parte dei ‘diritti dell’uomo’, di quei principî che le Nazioni Unite avevano individuato nel 1941 quali parole d’ordine della loro guerra al fascismo internazionale: libertà di pensiero e di parola, libertà dalla paura, libertà dal bisogno»; se attacchi con questa tiritera, bisogna che tu dica, sinceramente (la domanda cattiva ci scappa: un comunista può essere «sincero»?), se questi, pur con qualche «contraddizione», erano valori e prassi «reali» dell’URSS, dei Paesi dell’Est, del PCI fino alla «caduta del Muro», e magari se sono valori e prassi «reali» oggi in Cina, in Corea, a Cuba. Il che non regge. Insomma, per dirla brutalmente, è possibile che non ci sia stato e non ci sia un benedetto «socialismo reale» che abbia costruito una società più umana, più giusta, più libera, vogliamo dirlo, più «felice»? Ancora, e sempre ragionando «terra terra», anche volendo dare per scontato che tu combattevi per tutte quelle belle cose e magari ci credi ancora, ma pensi davvero che chi stava dall’altra parte, i cattivissimi tedeschi, i sanguinari repubblichini, combattesse in nome di un mondo «peggiore», per annientare, distruggere, schiavizzare? I loro ideali erano l’orrore e la morte? Buoni, i vincitori, soprattutto i comunisti, pessimi i vinti? Ma a chi lo raccontiamo? Ed eccoci a via Rasella. Sull’attentato ormai esistono biblioteche alle quali la tua ricostruzione di protagonista-testimone non aggiunge nulla. Infatti, non arriva come una novità. È più o meno quel che hai sempre sostenuto, no? Dunque, volutamente non «entriamo» nei fatti di quel 23 marzo 1944. Chiediamo invece, e di nuovo brutalmente: a che cosa «servì» militarmente quell’atto? A cosa «servì» quell’attentato, a tre mesi dall’ingresso degli Alleati a Roma (4 giugno)? Dietro i 42 morti in divisa di via Rasella (le fonti tedesche indicarono anche dieci vittime civili e solo a due è stato dato un nome) e le 330 vittime delle Fosse Ardeatine, c’è un fondato, motivato «perché» militare ? Nel tuo libro, c’è? Noi non lo abbiamo trovato. Quindi restiamo convinti che il PCI abbia voluto tutti quei morti per ragioni «politiche». Gli Alleati avevano già vinto la guerra: se c’erano degli inciampi alla loro avanzata, la vittoria l’avevano comunque in pugno. Ma c’era un’altra guerra da vincere: quella civile, che potesse garantire al PCI una
Novembre 2011 immagine e una presenza «forti» nell’Italia a venire. Bisognava creare il mito della Resistenza rossa, pronta a tutto in nome della «causa». Vogliamo dirlo? In nome di Mosca. Quel nome - venerato dai comunisti - «valeva» i morti di via Rasella e quelli delle Ardeatine. E, ci siano stati o meno i famosi «bandi» che chiedevano agli autori dell’attentato di presentarsi, si sapeva che i Tedeschi avrebbero compiuto una rappresaglia con tanto di legittimazione (convenzione dell’Aia del 1907 e successive precisazioni della convenzione di Ginevra del 1929, firmate da tutte le nazioni a quel tempo belligeranti). Allora, caro Bentivegna, visto che siamo tutti adulti e vaccinati dalla Storia (maiuscola, mi raccomando!) e dal nostro variegato vissuto, perché non dire francamente: il Novecento delle ideologie era questo, ci abbiamo creduto, lo abbiamo voluto, lo abbiamo fatto più in nome del comunismo che in quello dell’Italia, le vittime innocenti ed anche i «compagni» deviazionisti di «Bandiera rossa» - erano comprese nel conto, le nostre «ragioni» erano più importanti della loro vita e la loro vita «ci serviva» in nome delle nostre «ragioni»?
BUGIE COME CASE (Gianni Isidori, il Borghese 24 Novembre 1974)
Novembre 2011
IL BORGHESE
Riflessioni tra presente, passato e futuro «Cavalcare la tigre» di Julius Evola, un libro per la resistenza culturale di GIOVANNI SESSA LA SITUAZIONE politico-esistenziale che in questi ultimi mesi, sta vivendo un’intera area intellettuale, quella che taluni, inopinatamente a parere di chi scrive, continuano a definire come prossima alla «destra», presenta alcuni tratti di somiglianza con quella vissuta dalla generazione che dovette confrontarsi con le problematiche dovute alla conclusione esiziale del secondo conflitto mondiale. Certo, questa constatazione risulta accettabile e condivisibile a patto che si colga, dei due momenti, il diverso grado di drammaticità. Resta il fatto che molti di noi, dopo «l’ennesima occasione mancata», come ricordava Zecchi sull’ultimo numero de il Borghese, rappresentata dalla scarsa o nulla incisività dei governi Berlusconi ormai al tramonto, sentono l’impellente bisogno di tornare a guardarsi negli occhi, di confrontarsi al fine di rintracciare i «nuovi orientamenti» attorno ai quali ricostruire una comunità che, a causa di scelte dissennate delle sue leaderships, è andata via via lacerandosi e atomizzandosi in gruppi e gruppetti incapaci di esprimere un’incisiva presenza politico-culturale nella società italiana. Ciò è testimoniato da alcune iniziative da poco concretizzatesi, a cominciare dall’incontro-dibattito svoltosi a Roma lo scorso 17 Settembre, per volontà della rivista che ci ospita e del suo Direttore, come dalla nascita del movimento di pensiero, animato dalle medesime intenzioni, che ha prodotto il Libro-Manifesto «Per una Nuova oggettività. Partecipazione, popolo,destino», da poco in libreria per i tipi della Heliopolis editrice di Sandro Giovannini (per ordini: libreriapandora@gmail.com). Il caso ha voluto che, nel bel mezzo di una situazione come quella descritta, ricorra il cinquantenario della pubblicazione di uno dei libri più significativi di Julius Evola, Cavalcare la tigre. La
cosa non passerà inosservata. Infatti, la Fondazione che porta il nome del pensatore romano sta, nel momento in cui scrivo, organizzando un Convegno celebrativo che si terrà presso l’Accademia di Romania in Roma, Sabato 5 Novembre. All’evento interverranno diversi studiosi del pensiero tradizionalista. Tra le opere di Evola, Cavalcare la tigre è quella che maggiormente si presta a rispondere al quesito che anima l’attuale vivace dibattito della nostra area: «Che fare?». Per questo riteniamo di non secondaria importanza tentare un’analisi sintetica della risposta data dal filosofo nel 1961. Innanzitutto, è bene ricordare, seguendo la ricostruzione di de Turris, esposta nella Nota editoriale dell’ultima edizione dell’opera (Mediterranee, 2006, per ordini: ordinipv@edizionimediterranee.net), che il libro in questione ha avuto un’incubazione di circa un decennio: fu il frutto del clima spirituale che Evola visse al momento del suo rientro in Italia nel 1948, caratterizzato dalla necessità di rimanere in piedi tra le rovine, e fu scritto probabilmente tra l’inizio del 1949 e la metà del 1951. La pubblicazione, dapprima prevista per le Edizioni dell’Ascia, avvenne nel 1961 per Scheiwiller. È un libro parallelo a Gli uomini e le rovine, prevalentemente rivolto a quell’uomo differenziato che intendeva, nella situazione di crisi data, operare preventivamente all’interno, su sé stesso. Il testo edito da Volpe, invece, mantenendo la stessa vocazione dottrinaria, si rivolgeva a un tipo d’uomo maggiormente orientato all’azione esterna, all’agone politico. Ciò non significa assolutamente che Cavalcare la tigre sia un libro pessimista, manifestante un atteggiamento politicamente rinunciatario, elaborazione di un vero e proprio mito incapacitante, attribuito ad Evo-
75 la, tra gli altri, da Marco Tarchi. Anzi! È vero esattamente il contrario. Questo libro è certamente un manuale di salvezza interiore, ma non motivato in termini individualistici. Se Di Vona ha sostenuto che può essere posto accanto, per valore contenutistico, alla manualistica etica degli stoici, sono convinto che, più in profondità, dalla sua lettura si evinca la qualità e la discendenza ideale che è maggiormente presente in Evola, quella platonica. Essa connota l’apolitia del filosofo come distanza interiore da questa società e dai suoi valori, dal moderno, in termini eminentemente politici. L’uomo differenziato è alla ricerca di quell’ordine interiore, centrato sull’egemonico, unica garanzia per ri-costruire un ordine politico legittimo. Non è platonicamente pensabile, difatti, una comunità giusta e ordinata, se essa non si fonda sull’ordine interiore dei suoi cittadini, e in particolare delle sue guide. È questo presupposto teorico, mai sufficientemente ricordato o volutamente sottaciuto, a svolgere la funzione di raccordo tra il carattere apparentemente «individuale» del dottrinarismo evoliano e il suo correlato politico. Quindi, ha colto pienamente nel segno Stefano Zecchi nel rilevare come in Cavalcare la tigre, Evola, da un lato, definisca un nuovo significato teorico-politico del rapporto pensiero-azione, e dall’altro stabilisca, per la prima volta in modo chiaro e definitivo, come l’opposizione Tradizione-modernità non sia riducibile ad un prima e ad un poi, intesi in termini di mera successione cronologica, ma si connoti, in realtà, come un’opposizione simultanea. Il che vuol dire che la Tradizione dinamicamente intesa, non è qualcosa di cui bearsi nella dimensione contemplativa, ma essa è sempre, così come, il suo correlatoantagonista, il mondo del divenire e della temporalità. Nella dimensione storica, il filosofo pone, sulla scorta di Bachofen e dell’altro romanticismo, la vigenza del mito, che dice l’origine in ogni tempo recuperabile, sia pure secondo modalità epocali diverse, in quanto la Tradizione è centro di costituzione del valore. Il rapporto bipolare Tradizionemodernità acquista una venatura eraclitea, è polemologico: la filo-sofia assume il compito rilevante, Heidegger avrebbe detto basileico, di una riconquista dell’originario attraverso: «Un silenzioso tener fermo di pochi,
76 la cui presenza impassibile…serve a creare nuovi rapporti, nuove distanze, nuovi valori». Lo stare in piedi dei pochi è contagioso, diffusivo, pervadente: indica ai più, o a una parte di loro, come far fronte alla crisi nichilista contemporanea, nella certezza che essa abbia carattere transitorio. Per questo Evola sviluppa, in molte pagine di questo testo, un serrato confronto con la cultura della prima metà del secolo XX, mirato a mostrare come la prospettiva del senso incondizionato e intangibile della vita, nel mondo in cui dio è morto, possa ri-sorgere dall’assunzione diretta del proprio essere «nudo», nel recupero della visione del mondo disincantata della Nuova oggettività. Profonda e significativa risulta l’esegesi di alcuni luoghi simbolici del pensiero novecentesco. In particolare, l’analisi degli sviluppi della musica, dalla dodecafonia a Schònberg, nella quale Evola si fa latore di una filosofia musicale ulteriore a quella del francofortese Adorno, o le pagine nelle quali destruttura le false certezze dell’esistenzialismo o coglie i limiti della stessa esperienza dell’avanguardia artistica dei primi decenni del secolo. Meno riuscite, le riflessioni su Heidegger. Infatti, nell’esegesi del filosofo tedesco il tradizionalista sembra accettare il cliché interpretativo relegante la filosofia del primo, negli angusti limiti della corrente fenomenologicaesistenzialista. Al contrario, l’Heidegger posteriore alla cosiddetta svolta, avrebbe potuto essere colloquiante di rilievo per Evola, in funzione ultranichilista. Con Cavalcare la tigre, il tradizionalista porta a compimento il proprio iter speculativo: soltanto in quest’opera, crediamo, egli si svincola dal debito soggettivista mutuato dal pensiero moderno, e riscopre la dimensione classica del cosmo e della natura. Cavalcare è, pertanto, un libro eminentemente filosofico, che testimonia come Evola rimase filosofo per tutta la vita. Il titolo stesso esemplifica il rischio della modernità, che diventa effettivamente tale per coloro che, di fronte alla tigre che la simboleggia, proiettata in una corsa inarrestabile verso il basso, fossero così ingenui da credere di potervisi immediatamente e direttamente contrapporre. Soltanto il «cavalcare la tigre» rende possibile evitarne gli assalti, consente di domarla, controllarla. In questo senso è un libro che
IL BORGHESE ha insegnato a pensare a una «modernità plurale», a scorgere in essa possibilità neppure intraviste dalle logiche del pensiero sic et simpliciter controrivoluzionario. Ha insegnato, insomma, a postulare il superamento della modernità nichilista, muovendo da essa. Rispetto agli anni sessanta, in cui il libro vide la luce, la situazione storicopolitica, nazionale e internazionale, è certo cambiata. Oggi, della due branche della tenaglia che stringevano allora l’Europa, quella comunista è venuta meno. Gli eredi di quella cultura però continuano, nel mondo occidentale, a svolgere una funzione importante: si sono trasformati nei vessilliferi degli inviolabili «diritti dell’uomo», collante ideale attraverso il quale vengono giustificate le trasformazioni interne degli stessi sistemi liberaldemocratici. Sempre più governance, tecnocrazie autoreferenziali e sempre meno democrazie. In Occidente sta definitivamente scemando l’illusione del progresso materiale senza fine. La crisi devastante che stiamo vivendo (e pagando), ha fatto emergere una diffusa insicurezza sociale che si accompagna al disagio esistenziale. Di fronte a questa situazione che ruolo possono avere gli insegnamenti di Cavalcare la tigre e, più in generale, il riferimento alla Tradizione? Dal libro di Evola, espressione non soltanto di una filosofia della responsabilità ma anche della speranza, l’area dell’opposizione culturale deve imparare che è nuovamente possibile «sorprendere» la storia e tendere «agguati» alla modernità, al fine di recuperare quella qualità di presenza politica che ha smarrito. Inoltre, per quanto attiene al caso italiano, questo libro «per tutti e per nessuno», ci ricorda che la nostra epoca ha costruito la politica totalmente svincolata dalla cultura: in ciò sono da ravvisarsi le ragioni di un fallimento annunciato e inevitabile. Nell’attuale situazione di crisi è necessario farsi trovare pronti alla chiamata: anche i tiepidi, i perplessi e i delusi (ma lo siamo tutti), devono ritrovare le ragioni della «resistenza» culturale e politica e individuare i «nuovi orientamenti» attorno ai quali discutere per ripartire. Evola e la Tradizione in questo percorso possono svolgere un ruolo centrale e propositivo, salvo forse per coloro che credono ancora che il dibattito politico debba muoversi tra le false alternative del «bunga-bunga» e delle case a Montecarlo.
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I LIBRI del «BORGHESE» Saverio Romano La mafia addosso Pagine, Roma 2011, pp. 190, € 16,00 Il 28 settembre 2011 alla Camera dei Deputati si è votato per sfiduciare Francesco Saverio Romano, indagato dai giudici di Palermo prima e dalla Procura della Repubblica poi per concorso esterno in associazione mafiosa e accusato da molti pentiti. La sfiducia non è passata, il ministro delle Politiche Agricole si è salvato, ma, ben prima di tale data, Romano aveva dato alle stampe questo libro-intervista, in cui, rispondendo alle domande di Barbara Romano (con cui, teniamo a precisare, non c’è alcun rapporto di parentela), parla senza mezzi termini della propria situazione, che può essere riassunta in una citazione del ministro stesso: «La mafia addosso è come una maglietta fracida di sudore che non ti appartiene e che ti obbligano a indossare. Non ci muori, ma ci vivi malissimo dentro. E ti porti il puzzo dietro». Questa frase - in cui peraltro traspare la sicilianità di Romano, con quel «fracida» in luogo di «fradicia» - riassume benissimo la condizione in cui si era venuto a trovare: accusato nel 2003, era stato sentito una sola volta dai giudici di Palermo, che avevano poi archiviato il caso. In seguito, come abbiamo notato, la Procura della Repubblica aveva riaperto il caso in base alle dichiarazioni di vari pentiti, senza però ascoltare il ministro. È evidente, dunque, come Saverio Romano non riesca a togliersi di dosso quello che lui stesso definisce «il puzzo» della mafia. Un primo fattore, necessario, da notare a proposito di La mafia addosso è che non è un’intervista in cui il giornalista si piega al volere del politico di turno, facendo domande utili soltanto a trasformare l’intervista in comizio, ma un vero pezzo giornalistico, in cui si sviscerano i problemi che l’accusa ha procurato a Saverio Romano, lo si pone davanti a ciò che i pentiti dicono di lui, ma si affrontano anche le manifestazioni di solidarietà che gli sono giunte (anche dalle persone meno probabili, almeno nell’idea popolare, per esempio un giudice), i casi di altri esponenti
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IL BORGHESE
SCHEDE Anna Maria Campogrande Amore e Oltre Editore Pagine, pp. 88, € 10,00
politici accusati di avere rapporti con la mafia, come Salvatore Cuffaro e soprattutto la fiducia del ministro Romano nella verità, nel fatto che, alla fine, la verità dovrà emergere, che d’altra parte è evidente nella scelta di pubblicare in appendice, senza nascondere nulla, l’ordinanza che dispone la sua imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa. Quanto detto finora rende evidente che il libro di Romano non è un’accusa mossa ai giudici dopo essersi messo al sicuro, ovvero dopo aver incassato la fiducia della Camera. Il ministro, d’altra parte, non attacca i giudici in quanto giudici, anzi, più volte asserisce di aver fiducia nella magistratura, quello che fa in realtà è, poiché il tribunale si rifiuta di ascoltarlo, protestare la sua innocenza, portare in pubblico le prove che la dimostrano, in altre parole combattere la marea che minaccia di travolgerlo. D’altra parte, come afferma Barbara Romano, «tutti hanno diritto a raccontare la propria verità. E se ho voluto scrivere questo libro, non è perché sono innocentista, ma per dare voce a chi ancora non ha potuto parlare in tribunale». Quello che emerge da queste pagine è dunque un uomo stanco per i continui attacchi, le calunnie, le maldicenze, ma ancora pronto a reagire, a non lasciarsi sottomettere. La mafia addosso è un libro che si inserisce perfettamente (e come non potrebbe!) nel dibattito odierno sui poteri attribuiti ai giudici e le loro eventuali limitazioni, o meglio, sui controlli che si dovrebbero esercitare sui giudici stessi per evitare che utilizzino le proprie prerogative per fini personali o politici, è evidente dunque come non sia solo lo sfogo di un uomo perseguitato e costretto a ricorrere alla carta stampata per vedere rispettati i propri diritti, ma soprattutto un segnale che indica una «falla» nella struttura della nostra società, un libro che parla di attualità e ai dibattiti dell’attualità si collega, superando il dato momentaneo che ha portato alla sua nascita. STEFANO SERRA
Questo libro è la testimonianza di un percorso di vita fuori dal comune, tra l’Italia nativa, l’Europa fisica e le istituzioni europee, dove l’Autrice ha sviluppato tutto il suo iter professionale. Il libro si svolge in capitoli che mettono in evidenza l’essenziale delle diverse età nei diversi contesti nei quali l’autrice è portata ad evolvere. Le poesie dell’infanzia, quelle dell’adolescenza, trascorsa sui banchi del liceo Cavour di Roma, le profonde radici spirituali italiane, l’ideale europeo, l’impegno per preservarne l’identità, gli incontri di una vita tutta tesa verso la realizzazione di un sogno quello dell’amore che coinvolge il cielo e la terra, gli uomini e le cose, i Paesi, i Continenti e le Istituzioni, gli angeli e i fenomeni della Natura, gli animali, gli alberi e le piante. Il libro ha un duplice filo conduttore quello dell’amore che si intreccia con quello della rivendicazione di una viva e profonda identità italiana e europea. Un’esigenza vitale che sfocia nell’agguerrita e appassionata difesa della cultura e delle lingue d’Europa minacciate dai predatori del Pianeta i quali impongono il loro modello economico e sociale nefasto, attraverso la lingua unica, l’inglese, che ne veicola il modo di vivere, la cultura e la «forma mentis». Il tutto in un tono vibrante che percorre il libro dall’inizio alla fine. Cosí si sono espresse alcune delle personalità che hanno letto il libro in ante prima: «Pagine che si leggono con un'alternanza di emozioni che toccano i più svariati momenti dell'esistenza, non soltanto quella dell’autrice, e pertanto riassumono i palpiti di chi, sotto varie angolature, ha saputo ed anche cerca di continuo di mettersi in gioco nel suo rapportarsi agli altri sotto l'egida dell'Amore. Sono pagine, però, che non guardano indietro, perché protese in avanti verso scopi molto chiari, volti a coronare un impegno in cui la cultura, l'intelligenza, l'acume politico stanno in primo piano. Il tutto permeato di un afflato poetico, che travalica pure il momento in cui l’autrice ci avverte che quella vena è inaridita. Non c'è tema che non porti con sé lo stimolo a ri-
77 prendere la discussione e insieme a riconoscervi l'intimo fremito che lo pervade.» G.J.C. «Un libro scritto in una lingua pura, bellissima, d’una vera eleganza espressiva, ma non soltanto. Un'ispirazione personale, profondamente sincera, autentica e nonostante poetica, con un messaggio originale, una testimonianza personale, che è come un viaggio interiore verso la pienezza, in una parola, un libro che esprime con leggerezza un cammino di perfezione, attraverso canti e brevi poemi. L’eleganza naturale della forma si combina armoniosamente con una densità eccezionale dei contenuti testuali.» A.B.V. Si tratta di un libro da terzo millennio, preludio alla nuova èra, da comperare e meditare per una nuova filosofia di vita, quella della fratellanza universale, il valore dimenticato della Rivoluzione francese, e della fioritura della Civiltà dell’Amore. FLORA MALASPINA Gabriele Faggioni-Alberto Rosselli Le operazioni aeronavali nel Mar ligure 1940-1945 Ligurpress, 2011, pp. 220 + 50 foto b/n, € 15,00 A sessantasei anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale parrebbe non essere rimasto molto da narrare riguardo questa immane tragedia che coinvolse il mondo e la nostra Patria e, nella fattispecie, sulla guerra aeronavale combattuta tra le forze dell'Asse e gli Alleati nel teatro mediterraneo (e più precisamente nel Tirreno settentrionale), sembrerebbe essere stato già scritto tutto. In realtà, il presente volume edito da LIGURPRESS (Genova), opera di Gabriele Faggioni, archeologo militare e saggista svizzero, e Alberto Rosselli, giornalista e storico, dimostra, al contrario, che è ancora possibile indagare su taluni importanti 'coni d'ombra', realizzando un testo tecnico, molto dettagliato, ma anche ricco di pathos e di memorie umane: poiché ogni evento bellico porta sempre con sé il bagaglio sì dell'eroismo e dell'abnegazione dei combattenti, ma anche quello del dolore, insito, inevitabilmente, nelle gesta di chi credette in qualcosa di veramente sacro e importante, come il dovere e l'amore per il proprio Paese. Il volume in oggetto ricostruisce - come si è accennato - in modo organico e con una dovizia di particolari tecnici difficilmente reperibili in altre similari pubblicazioni, tutte le operazioni aeronavali condotte, tra il 1940 e il 1945, fra la
78 costa toscana e la Provenza. E codesta ricerca si basa su documenti d'epoca e supporti iconografici, gran parte dei quali inediti, conservati negli archivi americani, britannici, francesi, italiani e tedeschi. Grazie alla cernita e all'analisi del materiale ritrovato, per gli Autori è stato possibile ricostruire cinque anni di cruciale seppur in buona misura negletto conflitto, a partire dalla invasione della Francia da parte delle forze tedesche (maggio 1940) fino ad arrivare alle operazioni di sminamento effettuate nel dopoguerra, tra 1945 e il 1947, dalla neonata Marina italiana. Vista la complessità dell'argomento, il testo è stato concepito e strutturato in modo da facilitarne al massimo la comprensione, attraverso un criterio strettamente cronologico, articolandolo su sei capitoli, uno per ciascuno anno. Il tutto, preceduto da un'analisi delle forze contrapposte e degli impianti ed apparati della difesa costiera ligure. Questo corpus centrale è stato preceduto da un'analitica disamina delle forze contrapposte e dalle caratteristiche geofisiche del teatro operativo preso in esame. Completano l'opera tre saggi dedicati rispettivamente al'ultima azione dei mezzi d'assalto della "Decima Mas "; ai terribili bombardamenti aerei subiti da Genova e da altri centri liguri (come quello, a dir poco apocalittico subito dal picco, ma strategico comune di Recco) tra il 1940 e il 1945. Chiude il volume una tabella dettagliata di tutte le unità mercantili e militari citate nel testo. Il libro di Gabriele Faggioni e Alberto Rosselli non intende, ovviamente, puntare ad una sorta di apologia della guerra, ma punta ad illustrare ciò che la guerra ha rappresentato: cioè un 'dramma eroico' in cui uomini di nazioni differenti si sono confrontati se non ad armi pari (gli Alleati, come noto, disponevano di forze preponderanti) con eguale senso del dovere. CHIARA CRISCI Mario José Cereghino Giovanni Fasanella Il golpe inglese Chiarelettere - pp. 368 - € 16,00 Il nostro è stato un Paese a sovranità molto limitata. Questa la conclusione a cui si arriva leggendo Il Golpe Inglese, l’ultimo libro scritto da Giovanni Fasanella in collaborazione con Mario Josè Cereghino, e pubblicato da Chiarelettere, saggio avvincente, esplosivo ma anche inquietante. Gli autori, che
IL BORGHESE hanno potuto visionare documenti top secret, ormai declassificati, presso archivi sia britannici sia statunitensi, hanno ricostruito, con rara maestria, circa cinquant’anni di storia del nostro Paese, dal delitto Matteotti all’assassinio Moro. In tutti quegli anni la Gran Bretagna ha condizionato la vita politica italiana con il preciso scopo di trasformare l’Italia in un suo protettorato, considerata la sua posizione strategica nel Mediterraneo. Con l’apertura del canale di Suez il Mediterraneo, con le sue rotte verso il Medio Oriente e i suoi pozzi petroliferi, era diventato vitale per il Regno Unito, che «senza petrolio non avrebbe potuto esistere a lungo». Una delle rivelazioni più clamorose del libro riguarda il delitto Matteotti. Il deputato socialista fu ucciso per conto degli Inglesi per ricattare il Duce per via di tangenti intascate dal fratello Arnaldo e da esponenti di casa Savoia, che avevano concluso un accordo con la società petrolifera americana Sinclair Oil a discapito della British Petroleum. Matteotti fu assassinato il giorno prima del suo discorso in parlamento in cui avrebbe denunciato il grave episodio di corruzione. Dopo la morte del deputato il governo italiano annullò l’accordo con gli Americani. La Gran Bretagna aveva raggiunto il suo scopo. Negli anni trenta l’Italia aveva stipulato una convenzione petrolifera con l’Iraq. Questo accordo significava l’autonomia energetica per il nostro Paese dalle società petrolifere britanniche. Londra non poteva permettere tutto questo. Il suo imperativo era controllare il Mediterraneo e il Medio Oriente con il suo oro nero. L’Italia non doveva essere indipendente. Roma ancora una volta fu ricattata dagli Inglesi: il via libera alla campagna in Africa orientale in cambio della rinuncia al petrolio iracheno. Secondo documenti dell’intelligence inglese Mussolini fu quasi costretto ad entrare in guerra a fianco della Germania, perché era sicuro che in caso contrario l’Italia sarebbe stata invasa da Hitler. Tutto ciò scombussolò i piani inglesi. Bisognava ricominciare tutto da capo per dominare la penisola. Durante la guerra ma soprattutto dopo l’armistizio ci fu una lotta durissima tra Stati Uniti e Gran Bretagna sul destino italiano. Mentre gli Inglesi desideravano che l’Italia fosse succube degli alleati, gli Americani la preferivano più autonoma. Nel dopoguerra con l’Italia ormai nella NATO ci fu una persona che cercò di ridare piena dignità al nostro paese: Enrico Mattei. Il
Novembre 2011 Presidente dell’ENI, con la sua politica filoaraba e terzomondista ma soprattutto di sfida alle sette sorelle, rappresentava un pericolo mortale per Londra ed il suo dominio nel Medio Oriente. Mattei all’apice della sua carriera morì in un incidente aereo, quasi sicuramente vittima di un attentato. Ancora una volta l’Italia doveva chinare la testa. Durante la guerra fredda l’intelligence britannica appoggiò movimenti sovversivi con a capo Valerio Junio Borghese ed Edgardo Sogno. Per la Gran Bretagna il comunismo era il nemico numero uno. Non bisognava consentire ai comunisti in Italia di prendere il potere, altrimenti il controllo sul nostro Paese si sarebbe dissolto. Se il golpe Borghese alla fine non si attuò perché la CIA non diede il suo via libera, quello capeggiato da Sogno, che sarebbe dovuto avvenire nel giorno di ferragosto del 1974, abortì per motivi oscuri. Londra forse ebbe paura all’ultimo momento di una reazione dell’opinione pubblica. L’ultimo capitolo del libro è forse il più inquietante: il sequestro e la morte di Aldo Moro. Lo statista pugliese, presidente della DC, era in procinto di essere eletto Presidente della Repubblica con i voti decisivi del PCI. Perché fu ucciso? Chi furono i reali mandanti? Le BR agirono da soli o furono spinti da qualcuno? Ricapitoliamo: con Moro si sarebbe finalmente verificato il compromesso storico, la DC e il PCI assieme al governo. La politica estera italiana sarebbe diventata filoaraba e terzomondista, in contrasto,quindi, con quella britannica. Moro fu ritrovato senza vita nel bagagliaio di un auto in via Caetani a Roma. Proprio in quella via esiste Palazzo Caetani, dimora della famiglia Caetani. La loro casa è stato il crocevia di personaggi del nostro Paese vicini all’Inghilterra. Ufficiali del SISMI, prima del ritrovamento del cadavere di Moro, andarono a bussare proprio a casa Caetani, dietro soffiata dei servizi segreti israeliani, nella concreta speranza di ritrovare lì presidente della DC. Ma gli agenti del SISMI si fermarono sulla soglia di casa Caetani. Perché? Perché le autorità italiane, in base ad accordi segreti NATO nel periodo del sequestro Moro, furono letteralmente esautorate. L’Italia, per gli accordi del 1947, era una nazione sconfitta e, quindi, soggetta al controllo delle potenze vincitrici, in primo luogo la Gran Bretagna. Di qui la domanda: la morte di Moro ha giovato al Regno Unito? ALDO LIGABÒ
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a cura di Carla Piccioni Rick Boyd Esempio di Gran Fede Nella sua lunga sofferenza preludio di una “Via crucis” durata sessantadue anni, conclusa con l’indulgenza plenaria di Benedetto Xiii, spettatori ciechi della sua sofferenza del suo sorriso, quanto amore elargiva da un dolore tutto suo. come l’immagine di cristo che soffre e segna il cammino di ognuno di noi. Questa è vera fede. La religiosità di un sorriso che nasconde la sofferenza come un esempio per tutti noi. grazie Angela. 21-08-2009 GiANLuiGi cApitANio
Beatificazione di Giovanni paolo ii 1° maggio 2011
Roccia d’umiltà Roccia d’umiltà per libertà di luce… dalla cortina di ferro in povertà di Fede senza paura d’appartenere Beato donaci nell’incompiuto specchio nuovi esempi d’amore Roccia d’umiltà per silenzio di sofferenza… oltre i sistemi chiusi di possesso nei confini senza paura di comunicare Beato offrici nuovi esempi di speranza per verità in giustizia ARcANGeLo d’AmBRosio Letto incantato profumo di selvaggio nel letto incantato, lenzuola aggrovigliate su un solo corpo, le mani nelle mani e l’uno
dentro l’altro, ricordi di ragazza e sospiri d’amore: sogno un letto berbero dove farti gioire, una tenda da indiano, un cavallo per fuggire lontano, in una vasta prateria, con nuvole d’argento e ruscelli d’acqua pura, lontani nel mondo, in un letto senza fine, con l’odore di sudato e un amore tormentato, gelosia o tradimento? sogno un letto incantato, dove fare, incatenato, l’amore con te per sempre…… iLARiA d’AmBRosio (anni 8 – iii elementare) Una canzone al sole c’era una volta una farfalla dai mille coloriiii ho scritto una canzone al sole al sole arcobaleno lucente vai via notte: fai splendere il sole! Ho scritto una canzone al sole un arcobaleno di allegria il sole è nei pensieri ho scritto una canzone al sole na-na-na-na-na-na-na-na-na ho scritto una canzone al sole wo-wo-wo-wo-wo-wo-wo-wo-wo oteLLo FABiANi Ancora nun lo so’ si m’aricordo bene quela sera me la trovai d’avanti, era ‘n’incanto, le stelle su’ ner celo come ‘n manto co’ mille scintillii de primavera. solo ‘no sguardo, come ‘na carezza, appena quarche cosa sussurrata, ‘n’accenno de parola sillabbata portata via da ‘na leggera brezza. s’incise sur libbrone cor bulino che s’arichiuse, senza famme vede e senza damme... r tempo poi de chiede, er resto de la storia, che distino. Faceva da cornice la bordura che siggillava tutto ‘n der profonno, così ‘n potei capillo si sto’ monno è tanto bello... o c’è la fregatura. domeNico mARiANi Roma una musica, portata dal vento percorre le tue antiche stradine che a stento si adeguano ai tempi. se potessero parlare i tuoi palazzi, quanta emozione trasuda dai tuoi muri secoli di vita vissuta. passeggiare all’alba a Via del corso nel meriggio a trinità dei monti a sera in Via della croce. Quante vite vissute, hanno sospirato
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80 l’illusione dei sogni. camminare di notte nelle tue vie mille vite entrano dentro di me dal fornaio al gran maestro pittore, al poeta maledetto ai corsi e ricorsi storici, vivere dentro di te, è come passeggiare nel tempo tiziANA mARiNi Ophelia Nulla osmotico intriso di tisane calde infinito nulla. Necesse est recita il coro degli angeli come ophelia nell’acqua stringo fiori recisi margherite papaveri tra olmarie appassite. ma aspetto sakura prima o poi. eNzo NARdi Forse un giorno, all’ombra di un muretto e come quei che non sapean se l’una o l’altra via facesse la donzella, si messero ad arbitrio di fortuna…… L. Ariosto
Forse un giorno, all’ombra di un muretto, mentre l’acqua di un fiumiciattolo berrà un cielo improvvisamente livido, mi capiterà di incontrarmi (sbucherò fischiando da un tiglio). e quell’ombra dirà: “sono l’opzione fallita di te, la scelta intraveduta e non fatta!” (in balia di acque e tenebre vive dunque la storia inespressa?) “È inutile ti dica che non sono il solo.” NiNo pAoLiLLi Speranze si spegne lentamente il giorno. con la notte scompare il verde colore dei monti. Assorto e stanco, adagio i miei pensieri sulle ombre della sera. sereno mi addormento, sperando di ritrovarli domani. cARLA piccioNi Caravaggio come destriero incalza la paura Al talamo annida serpente alato
iL BoRGHese
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occhi di lava ai seni e brulicar di vermi dischiuse all’alma il grido contorta l’ombra svuota la luce ancor tenia di luce e mela vera fiamma Luci dall’oro colore ai sensi e lagrimar converte monete ai bari Fondo nero a dissipar la morte sanguigna mano color sorretto ai contorni Nuove le rime di chiaroscuro verso dannato fra i colori e maledetto cavallo e croce precipitò l’abisso Liquame etterno Grido e sole al teschio La piuma scorre piano inchiostro inverno È torbido il liquame dippingi etterno! LuciANo pRocesi dedicata a Ezra Pound Riservo la mia lingua alle ferite mie non lecco mani amiche non sbrodolo saliva offrendo la zampina non sospiro collari non cerco che foreste solo anelo esser solo solo bramo la lotta e un’alchimia d’istinti che ci fa cani o lupi cane sono nato mi son promosso lupo per non morire iena azzannati con me micHeLe VAjuso Trastevere passata è de ‘n’anticchia la matina, che a porta santo spirito spalancheno er portone arruzzonito: mo Roma sta in vetrina, je basta pe cascà ‘n’incarcatina aspetta er bonzervito. ognomo su le mura sta impietrito: la fine se avvicina. Li imperiali s’accarcheno tra porta settimiana e san pancrazzio e già drento se spanneno. Qui dapertutto è strazzio: trastevere se ignotte in un baleno, ma er lupo nun è sazzio. Per proporre poesie per questa rubrica (max 20 versi), spedire una email con nome, indirizzo e numero di telefono a: luciano.lucarini@pagine.net con la dicitura «per il Borghese»
Intervistato da Barbara Romano pagg. 190 • euro 16,00
La mia vita con Giorgio
pagg. 110 • euro 12,00
Regime Corporativo (1935 - 1940)
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