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LA TERRA DESOLATA ED EMPIA

di Francesca Oriti

Thomas Stearns Eliot nasce a St Louis nel 1888. Dopo una permanenza di qualche anno in Europa, durante la quale entra in contatto con le idee del filosofo e scrittore Bergson e studia a fondo Dante, ritorna in America e consegue la laurea in filosofia ad Harvard nel 1911. Nel 1917 si trasferisce in Inghilterra e l’anno successivo sposa Vivienne Haigh-Wood, una donna con delle instabilità psichiche che influenzeranno fortemente anche l’autore. La vita di Eliot fu caratterizzata da una profonda inquietudine, a cui il poeta cercò di porre rimedio prima con le cure in un istituto psichiatrico di Losanna e poi con la conversione all’Anglicanesimo, l’evento spartiacque della sua produzione letteraria. Nel 1927, ottenuta la cittadinanza britannica, si definì “classicista in letteratura, monarchico in politica, Anglo-cattolico in religione”. In quanto eminente rappresentante della poesia modernista, fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1948. Morì a Londra il 4 gennaio del 1965. Publio Virgilio Marone nasce nel 70 a.C. ad Andes, un villaggio nel mantovano in cui la famiglia possedeva delle terre: è qui che viene a contatto con la vita contadina. Alla fine della guerra civile tra Cesare e Pompeo subisce l’esproprio delle terre di famiglia, che dovevano essere distribuite ai veterani. Come T.S. Eliot, anche Virgilio vive in un mondo belligerante, in una Roma incapace di scappare dalla trappola di schemi politici ricorrenti che la tiene sotto scacco da un secolo. Tuttavia negli ultimi anni della sua vita il poeta latino gode anche dei fasti e della gioia per una pace insperata che caratterizzano l’epoca augustea. I valori che contraddistinguono i primi anni del principato vengono celebrati nell’Eneide, il poema epico di Roma, per la cui grandiosità il poeta americano T.S. Eliot definirà Virgilio “il centro della civiltà europea” (Cos’è un Classico, 1944). Prima di poter effettuare l’ultima revisione sul suo capolavoro, nel 19 a.C. Virgilio muore a Brindisi. The Waste Land è un poemetto suddiviso in 5 parti, caratterizzato da due elementi fondamentali: un linguaggio finalizzato precipuamente all’evocazione di emozioni e sentimenti e continue citazioni intertestuali. L’opera è dedicata ad Ezra Pound, poeta statunitense e fondatore della corrente dell’imagismo, che revisionò l’opera prima della pubblicazione. Il tema alla base del poema è il contrasto tra la fertilità di un passato mitologico, a cui si allude con elementi leggendari appartenenti a varie culture, e la sterilità spirituale del mondo occidentale che si risveglia davanti ai cumuli di macerie che ha prodotto la prima guerra mondiale e che non trova più punti fermi a cui appoggiarsi. La percezione del lettore di caos e distruzione è ulteriormente accentuata dallo stile che spazia tra vari generi poetici e diverse tipologie di versi. Dunque il passaggio dell’uomo nella terra desolata è segnato dalla ricerca della salvezza, simboleggiata dal Sacro Graal, la cui leggenda viene ripresa dal testo di antropologia From Ritual to Romance (di Jessie L. Weston): alla

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terra sterile del Re Pescatore della leggenda si associa la situazione politica dell’Europa, all’infertilità del suolo la desolazione dell’uomo dopo un disastro epocale come la guerra che devastò il Vecchio Continente. Le Bucoliche sono una raccolta di dieci componimenti che raccontano la vita dei pastori. Il modello sono gli Idilli di Teocrito, poeta ellenistico non molto apprezzato nell’élite culturale dei neoteroi perché la vita dei campi era ritenuta simbolo di mediocrità. Questa critica si rivelerà fondamentale per lo svezzamento di Virgilio dall’ambiente neoterico e l’approdo al classicismo augusteo: visto l’attrito che c’era tra i poeti elegiaci, in qualche modo successori dei neoteroi, e l’ambiente augusteo, il poeta latino mette al centro della sua opera l’agricoltura in quanto base del mos maiorum, da cui tutta la società latina dovrebbe essere ispirata per condurre una vita retta. Tuttavia la poikilìa, cioè la varietà di termini catartici, le dichiarazioni di poetica e le reminiscenze di una tradizione molto erudita, ci presenta Virgilio come l’ultimo discendente dei poeti alessandrini. I due temi alla base delle Bucoliche sono l’amore e il furor distruttivo che causa, e il canto, inteso come medicina amandi, definizione offerta nell’Egloga VI. Lo stile delle Bucoliche viene definito dallo stesso poeta tenuis e humilis, con un equilibrio di raffinatezza e sobrietà.

L’Egloga I di Virgilio è il canto proemiale delle Bucoliche, strutturato in forma di dialogo tra due pastori e poeti, Titiro e Melibeo, in cui si contrappone alla libertà del primo di comporre poesie e vivere nei campi il destino di quest’ultimo pastore, che subisce l’esproprio delle terre poi ridistribuite ai veterani da Augusto. In questo componimento notiamo l’emergere di caratteristiche tematiche che ritroviamo anche in un’opera della poesia modernista: The Waste Land, di T.S. Eliot. La prima sezione del poemetto novecentesco, The burial of the dead, particolarmente vicina alla composizione virgiliana, è un intreccio di versi frammentari riguardanti principalmente il contrasto tra la morte e la vita, la prima rappresentata dalla cartomante Madame Sosostris (versi 43-59), dalla città nebbiosa di baudelairiana memoria (versi 60-61) e da un amore struggente (versi 39-40), e la seconda dai lillà che spuntano dalla terra morta (verso 2), dalle radici che si avvinghiano alla terra (verso 19) e dai giacinti (versi 36-37). La terra è in entrambe le opere un elemento essenziale, infatti i vari frammenti del poemetto di Eliot trovano una base comune nella leggenda del Sacro Graal, in quanto esemplificazione dei riti di rinascita della vegetazione, mentre in Virgilio la campagna, con la capanna e le spighe di grano (verso 68-69), simboleggia l’identità stessa di Melibeo. Ad una prima analisi emerge un’antitesi tra la natura e l’uomo: infatti Eliot afferma che “April is the cruellest month” (“Aprile è il mese più crudele”, verso 1) perché, di fronte alla capacità della natura di rigenerarsi perfino dopo la morte, con i vivaci colori dei lillà e la crescita dei tuberi (versi 2-7), il Figlio dell’Uomo si sente impotente, vedendo il suo mondo costellato solo di “stony rubbish” (“pietrose rovine”, verso 20) e di “broken images” (“immagini frante”, verso 22); Virgilio analogamente contrappone i boschi che cantano il nome di Amarillide (verso 5), come un coro che ubbidisce a Titiro nel ruolo di direttore, alla sorte di Melibeo, costretto a perdere le sue radici e a lasciare la sua terra per andare in mezzo a popoli stranieri (verso 3-4). E’ impressionante la tenacia che Eliot attribuisce agli elementi naturali, grazie alla quale le spente radici del verso 4 diventano poi “the roots that clutch” (“le radici che s’avvinghiano”) al verso

19, mentre sia il Melibeo virgiliano che il Figlio dell’Uomo eliotiano sono disillusi di fronte a un futuro che sembra non prospettare niente di positivo. Una differenza tra le due opere riguardo al tema naturale potrebbe essere riscontrata nel fatto che, mentre il prototipo umano prospettato dal poeta americano si trova di fronte a una natura che non dà né riparo, né sollievo né speranze di vita (versi 23-24), Melibeo è costretto a lasciare una campagna descritta come un locus amoenus (versi 51-58). Tuttavia è importante notare che l’immagine di una natura lussureggiante si guasta con la descrizione delle sofferenze di chi vive al suo interno: la partenza di Melibeo causa l’arrivo del soldato empio beneficiario dell’esproprio, che con la colpa di aver ucciso soldati del suo stesso popolo, durante le guerre civili, avvicina “haec tam culta novalia” (“i campi ben coltivati”, verso 70-72) alla desolata natura eliotiana; il poeta latino completa il quadro di dolore rappresentando anche la sofferenza degli animali, come la capretta costretta a partorire sulla nuda pietra (13-15). Il degrado della natura virgiliana è quindi direttamente collegato all’esproprio, che potrebbe essere considerato in un’ottica più ampia come una delle conseguenze delle dinamiche del mondo politico-militare sulla popolazione civile. Analogamente tra i versi 62 e 65 Eliot rappresenta una folla di anime, modellata sull’immagine dantesca dei dannati di fronte all’Acheronte, che sono simbolo dei molti morti tra i civili che ha meritato alla Prima Guerra Mondiale il nome di Grande Guerra. Nella sezione di The Waste Land in analisi c’è un preciso richiamo alla storia romana che spiegherebbe questo collegamento riguardante il motivo bellico: al verso 70 c’è un riferimento alle guerre puniche e più precisamente alla battaglia di Milazzo, che viene inserito in modo paradossale nella narrazione. Oltre alla compresenza di vari piani temporali, troviamo anche vari livelli interpretativi del materiale tematico: il titolo che Eliot sceglie per la prima sezione, The burial of the dead, fa riferimento sia al rito funebre anglicano, sia alla sepoltura dell’effige del dio, simbolo della rinascita della natura, sia alla scomparsa sotto terra degli “uomini vuoti” (che danno il titolo a una poesia posteriore dell’autore), inermi di fronte al dramma che si dispiega davanti ai loro occhi. In questo sbigottimento del genere umano di fronte alla guerra, possiamo riconoscere l’eco della fuga di Melibeo, costretto a lasciare “patriae finis et dulcia...arva” (“la terra dei padri e i dolci campi”, verso 3) in seguito alla rovinosa irruzione della Storia nella sua esistenza, poiché non è stato in grado di concludere il compromesso con il potere che ha decretato la libertà di Titiro (versi 19-25). Di fronte a una simile prospettiva disastrosa non c’è qualcosa di terreno che possa risollevare l’animo umano, infatti sia T.S. Eliot che Virgilio parlano dell’amore, che solitamente è dipinto come una consolazione, come un’esperienza distruttiva: l’uomo innamorato della ragazza dei giacinti, tormentato da una fenomenologia simile a quella stilnovista (versi 39-40), fa eco al protagonista virgiliano Titiro, incapace di trovare la libertà e di occuparsi delle sue finanze a causa del sentimento che lo lega a Galatea (versi 31-32). L’ultima speranza quindi è rivolgersi alla divinità: è curioso osservare come un personaggio pagano si dichiari devoto a un singolo deus (verso 6), lo iuvenis identificato con Augusto, mentre un cristiano come Eliot trovi “shadow under this red rock” (“ombra sotto questa roccia rossa”, verso 25), espressione che fa riferimento alla dimensione collettiva della Chiesa, nonostante The Waste Land sia stata composta cinque anni prima della conversione dell’autore all’Anglicanesimo. In conclusione possiamo notare come due opere distanti di venti secoli rimandino a temi similari, complice l’uso da parte di Eliot del “metodo mitico”, basato sulla costruzione di relazioni tra passato e presente e tra mito e realtà. The burial of the dead e l’Egloga I risultano accomunate da un profondo bisogno di ritornare all’origine, riconosciuta nella natura, per ritrovare il senso dell’esistenza della stirpe umana, che nel millennio intercorso tra le due opere non ha fatto altro che tentare l’autodistruzione, un processo idealmente iniziato con le guerre civili che misero in ginocchio la potenza più grande dell’antichità e destinato a continuare fino alla fine dei tempi.

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