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LA LOCANDIERA: STORIA DI UNA DONNA MODERNA
di Letizia Chiostri Per commemorare il grandissimo commediografo italiano Carlo Goldoni, non si poteva far altro che andare al teatro Goldoni, zona oltrarno, ad assistere allo spettacolo la “Locandiera”, il capolavoro dello stesso Goldoni. Testo di una donna intraprendente, astuta, determinata, moderna, pur essendo originalmente ambientato nel 1751. Mirandolina è la bella donna d’affari che gestisce la sua locanda con passione ed ammalia tutti gli avventori con il suo fascino; finché, un giorno, arriva un ricco Cavaliere, disprezzatore delle donne, per niente disposto a cadere vittima delle insidie della padrona e che, anzi, non la rispetta affatto, proprio a causa del suo genere. Mirandolina, allora, deciderà di attuare la sua vendetta, pianificando di far innamorare di lei il Cavaliere, ma non potrà prevedere le conseguenze dalle sue azioni. Il tema fondamentale dell’opera è l’ars amandi, l’arte della seduzione, che al tempo dell’autore era un’attività quasi esclusivamente riservata al genere maschile. Ma qui le carte in tavola vengono ribaltate: questo è il riscatto delle donne, che trasforma il testo in un messaggio molto moderno di femminismo e di parità di genere. La stessa protagonista rappresenta la femme fatale senza tempo, furba, intessitrice di inganni. In questa giostra di intrecci, Mirandolina è la sola governatrice, la sola vincitrice. Senza che se ne rendano conto, tutti i personaggi, dai suoi ammiratori, come il Marchese di Forlipopoli e il Conte d'Albafiorita, al suo devoto cameriere, Fabrizio, sono tenuti sotto scacco dalla locandiera. Tuttavia, Mirandolina non gioca con le sue “pedine” per un capriccio o una leggerezza di spirito, ma mantiene sempre la sua dignità di donna. Purtroppo, in questa rappresentazione il suo carattere signorile è venuto un po’ a mancare, sostituito in certi casi da un’eccessiva volgarità nei modi. Questo accadeva specialmente nei monologhi della protagonista in cui, invece, sarebbe dovuta emergere la fierezza di essere donna e un senso di superiore sorriso di fronte alle stravaganze degli altri personaggi. Pur essendo una donna che sa usare le sue arti, Mirandolina non è una popolana. Non mi ha molto convinta l’introduzione di canzoni nello spettacolo che, secondo me, esulavano dalle scene stesse e accrescevano una commedia già di per sé piuttosto lunga. I tre atti originali sono stati modificati accorpando i primi due, ma in questo modo c’era una grande sproporzione tra i due tempi. Molto originale e creativa la scenografia, continuamente in cambiamento, quasi a voler raffigurare l’operosità, il movimento e la solerzia della vera protagonista dello spettacolo: la borghesia. In questa direzione va anche la decisione del regista, Luca De Fusco, di ambientare la storia negli anni ’50 del Novecento: dopotutto, come afferma lo stesso regista, c’è “un’analogia tra la freschezza e l’ottimismo della nascente borghesia italiana del ’700 e quello della borghesia italiana degli inizi del boom economico del secolo scorso”. E, devo dire, questo aspetto è emerso nella visione della rappresentazione. Si poteva percepire un’aria di giovialità, bonarietà e semplicità, che rispecchiavano perfettamente la serenità dell’autore stesso. Il teatro goldoniano non vuole far ridere a crepapelle il pubblico, vuole farlo sorridere, educandolo allo studio dei comportamenti e degli atteggiamenti umani. Vuole rappresentare la realtà con tutte le sue sfaccettature, vuole raffigurare la società borghese del tempo ma, inevitabilmente, anche la nostra società, diventando un teatro immortale.
La coscienza di Zeno
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di Sarrie Patozi
È il 1923 quando Italo Svevo decide di pubblicare la sua opera per antonomasia: La coscienza di Zeno. Aron Hector Schmitz (in arte Italo Svevi) nasce nel 1861 a Trieste, allora territorio dell’impero asburgico, da un’agiata famiglia borghese di origini ebraiche. Nel 1869 sposò una sua cugina, Livia Veneziani, e da loro matrimonio nascerà una figlia. È questo un evento estremamente importante all’interno della vita dello scrittore: sul piano psicologico riuscì a superare molte fragilità e insicurezze personali grazie al nuovo ruolo di marito-padre; inoltre assunse un prestigioso ruolo nella ditta del suocero. A livello intellettuale, Italo Svevo presenta una fisionomia profondamente diversa da quella della tradizione italiana di fine Ottocento. Triste è infatti una città in cui convergono la cultura italiana, quella tedesca è quella slava (a ciò si deve lo pseudonimo stesso dell’autore). Alla base della sua opera vi è una solida cultura filosofica (in particolare il pensiero irrazionalista di Schopenhauer, Nietzsche) è un sincero interesse verso le scienze (Darwin). Sappiamo che egli risente anche del pensiero marxista da cui trae la chiara percezione dei conflitti di classe che percorrono la società moderna. Nei suoi romanzi, Svevo analizza infatti un tipo di coscienza frutto di un certo contesto storico e sociale. Problematico fu poi il suo rapporto con la psicoanalisi: il suo interesse verso Freud spinse il suo interesse verso le ambivalenze della psiche profonda. Tuttavia sappiamo che lo scrittore non apprezzò la psicoanalisi della terapia bensì come puro strumento conoscitivo, narrativo. Sarà proprio questa, tra l’altro, la conclusione del romanzo. Dopo questa premessa sull’autore, veniamo dunque (e finalmente) al romanzo. La coscienza di Zeno è il terzo romanzo di Italo Svevo ed è un’opera costituita in gran parte da un memoriale (o confessione autobiografica) che il protagonista, Zeno Cosini, scrive su invito del suo psicanalista, il dottor S., a scopo terapeutico. Nella breve prefazione tuttavia il lettore viene a conoscenza che è stato proprio il dottore a pubblicare il manoscritto del suo paziente, per vendetta: Zeno ha infatti deciso di interrompere la cura. Il racconto non presenta gli eventi in successione cronologica ma li colloca in un tempo tutto soggettivo, che mescola più piani temporali raggruppando i vari episodi per tematiche. Il romanzo presenta cinque capitoli in cui vengono trattati i seguenti argomenti: il vizio del fumo, la morte del padre, la storia del proprio matrimonio, il rapporto con la moglie e la giovane amante, la storia dell’associazione commerciale con Guido Speier. Il protagonista narratore è la figura di un inetto, aptico e incostante, che conduce una vita oziosa e scioperata. Il padre, facoltoso commerciante, non ha la minima stima del figlio poiché lo considera immaturo. Zeno, dal canto suo, ama sinceramente il padre. Il vizio del fumo a cui Zeno collega intollerabili sensi di colpa, ha nel suo fondo inconscio proprio l’ostilità contro il padre, il desiderio di sottrargli le sue prerogative e renderle proprie. Evento cruciale sarà lo schiaffi che il padre lascia cadere sul viso del figlio che lo assiste: Zeno resterà nel dubbio angoscioso se sia stato o meno un gesto involontario. Dopo la scomparsa del padre, il signor Cosini va subito alla ricerca di una figura paterna sostitutiva e la troverà in quella di Giovanni Malfenti, tipico borghese abile e sicuro nella
sua attività. Zeno decide di sposare una delle sue figlie solo per “adottarlo” come padre. La donna Malfenti che diventerà sua moglie sarà Augusta, benché egli ambisca ad Ada; Augusta è però in realtà colei che il suo inconscio ha scelto fin dal primo momento: ella si rivelerà infatti la donna di cui Zeno ha bisogno. Ella infatti è sollecita è amorevole come una madre, capace di creare un clima familiare di dolcezza affettuosa e di sicurezza. Augusta, pur possedendo un limitato sistema di certezze, è un perfetto campione di sanità borghese: è l’antitesi di Zeno che è “diverso”, incapace nel profondo di integrarsi con il sistema di valori sociale. Egli è “malato” e la sua malattia è la nevrosi che simula tutti i sintomi della malattia psicosomatica: ogni volta che vive un’esperienza frustrante, Zeno comincia ad avvertire un dolore alla gamba e a zoppicare. È qui che il personaggio proietta la propria inettitudine attribuendo la colpa dei propri mali al fumo, pur sapendo in realtà, dentro di sé, che è lui stesso la causa dei propri dolori. Zeno cerca costantemente di liberarsi di questo vizio nella convinzione che solo così potrà arrivare alla “salute” fisica, morale e sociale. Eppure tutti questi tentativi finiscono inevitabilmente nel nulla. Un altro personaggio antitesi del personaggio-narratore è il cognato Guido Speier, colui che ha sposato Ada; egli incarna il ruolo del rivale ed è infatti un bell’uomo, disinvolto è sicuro di sé. L’amicizia è l’affetto che Cosini dimostra verso Speier nascondo in realtà un odio profondo che emerge quando Zeno sbaglia corteo funebre alla morte di Guido. È questo infatti, come Freud afferma, uno di quegli “atti mancati” che sono rivelatori dei nostri impulsi. Alla fine del romanzo, Zeno si proclama come perfettamente guarito, eppure il lettore sa bene che non è vero: queste resistenze sono infatti tipico sintomo della sua malattia. Nelle ultimissime pagine il protagonista sottolinea il confine incerto tra salute e malattia: la vita è “inquinato alle radici” e l’uomo viene visto come costruttore di ordigni, strumenti che finiranno per portare ad una catastrofe cosmica. Ma è Zeno un narratore attendibile? Più no che sì. Il dottor S. insiste sulle “tante verità e bugie” accumulate nel memoriale che rappresentano un tentativo di autogiustificazione da parte di Zeno. Ad ogni pagina traspaiono i suoi impulsi reali ma le menzogne che l’autore scrive sono autoinganni determinati da una profonda e inconsapevole riluttanza della realtà, della propria realtà. La diversità con cui lui guarda il mondo funzionano da strumenti straniante nei confronti dei cosiddetti “sani” e “normali”, egli non riesce ad accettare fino in fondo le imposizioni sociali pur avvertendo un disperato bisogno di integrazione nel contesto borghese.
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