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UCRAINA: UN BILANCIO SU QUESTI OTTO ANNI DI GUERRA
di Giovanni Cavalieri
Negli ultimi mesi l’Ucraina è stata oggetto all’inasprirsi di un conflitto già latente, allargatosi con l’invasione russa del paese. I primi allarmi si erano destati a dicembre, quando le truppe russe avevano ammassato un ingente numero di truppe al confine con l’Ucraina. allora Biden e altri leader occidentali avevano accusato il Cremlino di violare la sovranità territoriale dell’Ucraina; d’altra parte, Putin ha tacciato gli Stati Uniti di retorica imperialista e definito l’Ucraina uno Stato illegittimo, fantoccio dell’Occidente. L’iniziale e apparente diminuzione di tensione tra i due paesi – percepita verso metà febbraio – è stata subito esasperata dall’intensificarsi degli scontri in Donbass: l’esercito ucraino aveva iniziato a bombardare le città di Donec’k, Lugans’k e Gorlovka, portando le autorità separatiste a evacuare parte della popolazione civile e a mobilitare le proprie forze, oltre che a richiedere la presenza di truppe russe nel territorio. Il presidente russo Vladimir Putin, con il pretesto di difendere le minoranze russofone del sud-est, si è allora mosso verso il riconoscimento delle Repubbliche del Donbass, per poi invadere il resto del paese. Oggi il paese è in parte occupato dalle truppe russe, i bilanci delle vittime sono innumerevoli e non si sono risparmiati drammi che, per quanto purtroppo caratteristici di ogni guerra, hanno destato lo sdegno dell’opinione pubblica e dei governi occidentali: basti pensare ai violenti bombardamenti inflitti dalle forze armate russe sulle città di Kharkiv (o Khar’kov), Marjupol’ e in parte di Odessa; per non parlare di Buča, piccolo villaggio alle porte della capitale Kyiv (o Kiev), dove ha avuto luogo un massacro indiscriminato di civili da parte di truppe russe. Al centro della vicenda sta l’Ucraina, un paese storicamente legato alla Russia, che negli ultimi otto anni è stato lacerato da una guerra violenta, seppur a bassa intensità, nella regione orientale del Donbass. Ma quali sono le ragioni di questa divisione, di questo conflitto che sembra aver raggiunto il suo drammatico culmine?
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Un po’ di storia L’Ucraina è sempre stata un’entità politica, territoriale e culturale assai complessa: la capitale dell’ex repubblica sovietica lo fu anche della Rus’ di Kiev, un’entità monarchica fondata verso il IX secolo dai Variaghi (etnonimo con qui sono indicati i popoli scandinavi insediatisi in Europa orientale) che fu il primo nucleo di uno Stato “russo” vero e proprio. Sia gli ucraini che i russi si sentono eredi di questa entità statale, e considerano personaggi quali Rurik (condottiero vichingo semileggendario, considerato il fondatore della Rus’), Olga di Kiev e Vladimir “Il Santo” (grande principe di Kiev dal 988 al 1015, celebre per aver imposto la conversione al cristianesimo ortodosso nei suoi domini) figure fondanti della propria storia. Dal 1132 Kiev costituì un principato autonomo, poi divenuto un regno vassallo dell’Impero mongolo – così come i principati russi limitrofi. Dal XIV secolo in poi il territorio dell’Ucraina fu ripartito tra il Granducato di Polonia (poi confluito nella Confederazione Polacco-Lituana), il Gran Principato di Moscovia (divenuto poi, sotto Pietro il Grande, Impero Russo) e il Khanato di Crimea, Stato tataro vassallo dell’Impero Ottomano. Nell’Età moderna si sono susseguiti, per il controllo della regione, conflitti tra polacchi, russi e cosacchi Zaporoghi. Nel quadro della Grande Guerra del Nord l’Etamanato Cosacco, guidato dall’atamano Ivan Mazeppa, si schierò con l’Impero Svedese di Carlo XII contro il Regno Russo. Prima alleato di Pietro il Grande, Mazeppa passò dalla parte degli svedesi credendo di poter preservare l’indipendenza dell’Etamanato dalla Russia. Ma la sconfitta dei cosacchi e della Svezia nella battaglia di Poltava costrinse Mazeppa prima a una fuga rocambolesca, poi alla resa. L’Etamanato Cosacco fu definitivamente annesso all’Impero Russo nel 1764 per opera di Caterina II “la Grande”. Dal XIX secolo in poi l’Ucraina subì un processo di russificazione, con il divieto d’uso della lingua ucraina da parte del regime zarista. Nello stesso periodo l’Ucraina divenne il “Granaio d’Europa” e Odessa, città affacciata sul Mar Nero, divenne per la Russia un importante centro commerciale e portuale e la città più grande dell’Ucraina; d’altra parte Leopoli, importante centro abitato della Galizia, diventò una delle più grandi città dell’Impero Austro-ungarico. Nel periodo della Rivoluzione Bolscevica e della successiva guerra civile l’Ucraina fu segnata da violente lotte e dalla nascita di più entità politiche separate: nei territori occidentali fu proclamata la Repubblica Nazionale dell’Ucraina Occidentale; la Crimea fu occupata dall’Armata Bianca, formata dai lealisti dello zar; nella zona tra Kiev e Kharkiv si scontrarono nazionalisti ucraini e bolscevichi; infine, nella zona sudorientale fu proclamato il Territorio Libero (conosciuto anche come Makhnovia), entità territoriale di tipo anarchico governata dall’Esercito insurrezionale
rivoluzionario d’Ucraina di Nestor Makhno. Tale frammentarietà ebbe fine nel 1922, quando l’Ucraina divenne parte dell’URSS come Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Fu in questa cornice che Lenin “istituì” l’Ucraina come repubblica autonoma, seppur sempre e comunque parte dell’Unione Sovietica. Lenin lo aveva fatto in quanto, sostenendo il principio di autodeterminazione dei popoli (seppur da una logica marxista, secondo cui i confini nazionali sarebbero poi andati a dissolversi con l’arrivo della Rivoluzione), riteneva che anche il popolo ucraino – a lungo sfruttato dall’aristocrazia zarista – avrebbe avuto il diritto ad autodeterminarsi, pur rientrando nell’Unione Sovietica. Inoltre, per garantire la creazione di una classe operaia che appoggiasse la Rivoluzione in quei territori, i confini della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina furono tracciati in modo da comprendere anche le regioni del Donbass, ricche di giacimenti minerari e quindi con una forte presenza di operai. Infatti dall’inizio del Primo Piano Quinquennale, ordinato da Stalin nel 1928, questa regione subì un notevole sviluppo industriale. Il periodo degli anni ’30 fu segnato da forti contrasti: la collettivizzazione forzata dei campi agricoli, voluta dal governo sovietico, portò a uno scontro con i Kulaki ucraini, ceto di contadini agiati che contavano di grandi tenute agricole. Alla repressione operata dal regime staliniano i Kulaki reagirono con azioni di sabotaggio quali l’uccisione del bestiame e la distruzione del proprio raccolto. Questi fattori, insieme a un insieme di catastrofi naturali, portarono nel 1933 a una drammatica carestia, tristemente conosciuta come Holodomor. Questo evento è sentito dalla maggioranza degli ucraini come una tragedia per il proprio popolo, costretto alla fame dalle decisioni di Stalin. Fino ad allora la regione occidentale della Galizia era rimasta separata dal resto dell’Ucraina poiché inglobata, dopo i Trattati di Versailles del 1918, nei territori della Seconda Repubblica di Polonia. Ma con il Patto di non aggressione siglato tra Unione Sovietica e Terzo Reich e la conseguente spartizione della Polonia tra le due potenze, la Galizia fu riunita con il resto dell’Ucraina, anche se come parte dell’URSS. Quando la Germania nazista invase l’Unione Sovietica una buona parte della popolazione ucraina, spinta dall’astio contro il regime sovietico, accolse i soldati tedeschi come dei liberatori. Furono molte le organizzazioni paramilitari ucraine – alcune persino inquadrate nelle SS – che parteciparono alle azioni di guerra, sia nei combattimenti che nei rastrellamenti di civili: basti pensare al Massacro di Babij Jar, avutosi il 28 settembre 1941, nel quale le SS e i collaborazionisti ucraini massacrarono 33.771 ebrei. Inoltre nelle regioni di Galizia e Volinia i nazionalisti dell’Esercito Insurrezionale Ucraino, guidato da Stepan Bandera, si resero complici di una vera e propria pulizia etnica nei confronti delle minoranze polacca
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ed ebraica. Queste azioni di pulizia etnica e rappresaglie nei villaggi proseguirono anche dopo la fine della guerra, fino al 1949. Dopo la fine della Guerra l’Ucraina fu segnata dall’annessione della penisola di Crimea (ne parleremo più avanti in merito all’annessione russa del 2014) e, poi, dal disastro di Černobyl’ del 1986, le cui conseguenze perdurano tutt’oggi (e su cui si sono brevemente riaccesi i riflettori all’inizio dell’invasione, quando truppe russe occuparono la città fantasma vicina al confine con la Bielorussia).
Il nuovo millennio, tra Russia ed Europa Nel processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’Ucraina ottenne l’indipendenza il 16 luglio 1990, quando il Parlamento adottò la Dichiarazione di sovranità dell’Ucraina. Questa dichiarazione affermava l’autodeterminazione dell’Ucraina, oltre al passaggio a una forma di democrazia (cosa che è sempre difficile a dirsi nei paesi est-europei, soprattutto nelle ex repubbliche sovietiche) e al libero mercato. Nonostante il referendum del 17 marzo 1991, tenutosi in gran parte delle ex repubbliche sovietiche, avesse dato un esito favorevole alla conservazione dell’Unione Sovietica (nella stessa Ucraina il 71,48% votò a favore), la dissoluzione di quest’ultima fu inevitabile e il 1° dicembre 1991 si tennero le prime elezioni presidenziali dell’Ucraina indipendente. Negli anni ‘90 l’Ucraina fu caratterizzata, così come le altre ex-repubbliche sovietiche e altri paesi dell’ex Patto di Varsavia, dal radicale passaggio da un’economia pianificata a una di libero mercato. Questo cambiamento repentino portò a un aumento di povertà e disuguaglianze sociali, con il conseguente emergere della criminalità organizzata e il consolidamento della classe degli “oligarchi”, così come nel resto dell’ex Unione Sovietica. La situazione di povertà estrema portò una parte della popolazione ucraina, in particolare la fascia meno povera, a vedervi come soluzione una possibile integrazione con l’Unione Europea: del resto paesi est-europei quali Polonia e Repubblica Ceca avevano già iniziato il processo d’integrazione in Europa, oltre che un più ampio avvicinamento all’Occidente (inclusa la tanto controversa adesione alla NATO). Questo desiderio d’integrazione con l’UE – unito a un’insoddisfazione verso il potere politico monopolizzato dagli oligarchi – culminò nella Rivoluzione Arancione: a seguito delle elezioni presidenziali del 2004 i sostenitori del candidato alla presidenza Viktor Juščenko protestarono contro presunti brogli, che avrebbero portato alla vittoria del candidato filorusso Viktor Janukovič. Le proteste costrinsero la Corte Suprema ucraina a indire nuove elezioni, dalle quali Juščenko uscì vincitore. Inoltre il clima era stato esasperato quando Juščenko presentò sintomi di avvelenamento per diossina, di cui fu accusato l’avversario Janukovič.
Majdan e Odessa: le scintille nella polveriera Il governo di Viktor Juščenko fu segnato da una serie di contrasti interni su questioni spinose quali l’integrazione nell’Unione Europea e il conflitto tra Russia e Georgia del 2008: Juščenko condannò l’invasione russa della Georgia, mentre l’allora primo ministro, Julija Tymošenko, prese posizioni neutrali sulla questione. Tali divisioni portarono nel 2008 a una crisi politica, poi alle elezioni del 2010, nelle quali vinse Viktor Janukovič. L’Ucraina aveva stabilito, a partire dal 2004, un rapporto di partnership economicocommerciale con l’Unione Europea; ma Janukovič scelse di non firmare il trattato di associazione con l’UE, preferendo accettare un prestito di 15 miliardi di dollari dalla Federazione Russa (in quanto tale prestito era considerato dal presidente Janukovič più conveniente sul piano finanziario rispetto agli accordi presi in precedenza con l’UE). Questo fattore, sentito come un tentativo di Putin di legare a sé l’Ucraina e di tenerla
lontana dall’Unione Europea, portò allo scoppio delle rivolte di “Euromajdan”. Le proteste, che si svolsero dal novembre 2013 al febbraio 2014, nacquero come manifestazioni pacifiche; tuttavia la risposta repressiva delle forze dell’ordine, l’azione di cecchini dall’identità e dalle intenzioni ancora sconosciute (che spararono sia a manifestanti che a poliziotti), oltre alla presenza di forze di estrema destra quali Svoboda e Pravyj Sektor (entrambi partiti nazionalisti di orientamento neonazista) a sostegno della protesta, portarono allo scoppio di scontri violenti tra manifestanti e polizia governativa. Tali scontri trasformarono il centro di Kiev in un campo di guerriglia urbana. Il clima di violenza scoppiato nella capitale costrinse Janukovič a dimettersi dalla carica di presidente e a fuggire di soppiatto da Kiev. Alle proteste di Euromajdan e alle dimissioni di Janukovič seguì la creazione di un governo provvisorio, presieduto prima da Oleksandr Turčynov e poi da Petro Porošenko. Se da una parte è vero che una componente della popolazione ucraina aveva sostenuto le proteste di Majdan, bisogna ammettere che queste ricevettero un forte sostegno esterno, soprattutto dagli Stati Uniti: politici americani quali John McCain supportarono in pieno le proteste e Victoria Nuland, allora assistente segretario di Stato USA, dichiarò che gli Stati Uniti “hanno investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita”. Sempre Victoria Nuland era solita recarsi a Majdan, portando cibi e vivande ai manifestanti accampati nella piazza. Infine l’allora assistente segretario di Stato americana fu oggetto di controversie quando, secondo quanto riportato da una fonte anonima, avrebbe dichiarato in una telefonata “F*ck the EU” (tradotto, “Si f**** l’UE”), alludendo all’intenzione statunitense di marginalizzare il ruolo dell’Unione Europea nella gestione della crisi ucraina. In particolare, l’obiettivo statunitense sarebbe stato quello di far entrare l’Ucraina nella NATO, portando a un “accerchiamento” della Russia. Nei territori sud-orientali dell’Ucraina, a maggioranza russofona, si levò quasi subito una reazione negativa all’insediamento del nuovo governo, considerato “golpista” e “filofascista”, per tornare a rafforzare i legami con la Russia. Prima ancora che con la secessione delle repubbliche del Donbass, il picco di questo contrasto si ebbe con il massacro di Odessa, avutosi il 2 maggio 2014: in quell’occasione dei manifestanti filorussi e comunisti si scontrarono con forze filogovernative, composte da ultras calcistici ed estremisti di destra, per poi rifugiarsi nel Palazzo dei Sindacati. Allora i sostenitori del governo post-Majdan circondarono il palazzo e vi lanciarono dentro proiettili incendiari: dall’incendio scaturirono cinquanta morti e un centinaio di feriti. Inoltre, secondo testimoni oculari, alcuni manifestanti fuggiti dalle fiamme sarebbero stati linciati dai nazionalisti. In tutto questo la polizia ucraina non reagì e fu bloccato persino l’intervento dei pompieri. Il Massacro di Odessa ha dimostrato come il nuovo governo, seppur nato con le premesse di maggiore democrazia, sia stato spesso connivente con frange neonaziste, tollerate e poi inquadrate nell’esercito per mantenere il controllo sulle regioni orientali.
La Crimea, cuore caldo del Mar Nero Il Cremlino, sentendosi minacciato da un possibile avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente, approfittò della confusione generale per portare avanti il processo di annessione della Crimea. Già nel 1991 il presidente russo Boris El’cin aveva proposto all’allora omologo ucraino, Leonid Kravčuk, di restituire la Crimea alla Russia; ciò era motivato dai sentimenti autonomisti della popolazione della penisola (a maggioranza russofona) e dalla presenza di una parte della flotta russa nel porto di Sebastopoli. Il 27 febbraio 2014 truppe russe entrarono, senza segni distintivi, nel territorio della Crimea, occupando i principali centri governativi e vie di comunicazione della Crimea.
L’operazione, avvantaggiata dalla presenza di soldati russi a Sebastopoli, ebbe un successo veloce e sorprendente. Per non aggravare la situazione il Cremlino, piuttosto che l’occupazione militare, optò per un referendum con cui rendere valida l’annessione della Crimea. Il 16 febbraio 2014 venne dunque indetto tale referendum, al quale partecipò l’83% degli abitanti aventi diritto: di questi il 97% votò a favore del congiungimento con la Federazione Russa. Fu così dichiarata l’indipendenza della Crimea dall’Ucraina e l’annessione alla Russia. Tale annessione è sempre stata oggetto di controversie, essendo considerata una violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina ed essendo il referendum ritenuto illegittimo. Come risultato immediato la Russia fu espulsa dal G8 e sottoposta a sanzioni da molti paesi occidentali.
La ragione dell’annessione russa è semplice: chiunque controlla la Crimea, controlla tutto il Mar Nero. Da questo punto di vista, la Russia si è così assicurata una zona cuscinetto rispetto ai paesi NATO (dei quali, tra l’altro, tre sono affacciati sul Mar Nero), oltre che uno sbocco sul Mediterraneo da cui far passare le navi militari dirette in Siria – a sostegno del regime di Bashar al Assad nel conflitto tuttora in corso nel paese arabo. Inoltre, le acque del Mar Nero intorno alla Crimea sono potenzialmente ricche di giacimenti di gas e petrolio, nonostante i progetti di estrazione delle risorse siano sospesi da tempo. Per l’annessione della Crimea il Cremlino usò come scusa la presenza schiacciante di popolazione russofona nella penisola e un trattato stipulato da Khruščëv nel 1954: infatti il leader sovietico, per sancire i “300 anni di amicizia Russo-Ucraina”, decise di far passare l’amministrazione dell’Oblast’ di Crimea dalla RSFS Russa alla RSS Ucraina. Secondo la narrativa russa, tale suddivisione sarebbe diventata nulla dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991, e quindi la Crimea sarebbe dovuta appartenere di diritto alla Russia. A oggi la situazione in Crimea è rimasta cristallizzata: una buona parte della popolazione russofona di Crimea, delusa dalla classe politica ucraina, aveva accolto con favore l’annessione alla Russia; d’altra parte tale entusiasmo si è affievolito, dato che la penisola è stata soggetta a una forma d’isolamento economico da parte dell’Ucraina. Inoltre, dal 2014 diversi oppositori all’integrazione nella Russia sono stati oggetto di persecuzione politica, incarcerati e spesso torturati. A oggi il futuro della Crimea sembra incerto: Kiev avrebbe intenzione di riconquistarla prima o poi, ma il che risulta piuttosto difficile e, se anche avvenisse, provocherebbe un ulteriore inasprimento del conflitto. Donbass, terra di sangue e carbone Il Donbass (abbreviazione di Doneckij Bassejn, “bacino del Don”) è una regione dell’Ucraina orientale, a maggioranza russofona. Nonostante la popolazione di questa regione avesse votato a favore dell’indipendenza dell’Ucraina nel ’91, i rapporti con la capitale, Kiev, sono rimasti sempre deteriorati: questa alienazione dal resto dell’Ucraina tese a inasprirsi, prima con la Rivoluzione Arancione e poi con la rivolta di Majdan. Inoltre, essendo il Donbass una regione ricca di giacimenti di carbone, la sua popolazione ha sempre sentito un forte orgoglio per il contributo dato all’economia del paese, che fosse l’Unione Sovietica, la Russia o l’Ucraina. Nello scenario d’instabilità sviluppatosi nell’Ucraina post-Majdan, il Donbass fu contraddistinto da un accentuarsi del sentimento indipendentista; inoltre questo fattore era favorito anche dalla caduta del sistema clientelare che fino ad allora era stato sorretto dal governo di Janukovič. Le proteste sorte nelle due principali città del Donbass, Donec’k e Lugans’k, portò all’occupazione degli edifici governativi da parte di gruppi armati e alla creazione di barricate in alcune zone della città. L’11 maggio 2014 venne
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allora indetto un referendum per la secessione dall’Ucraina: negli Oblast’ di Donec’k e Lugans’k, con un’affluenza di circa l’80%, la maggioranza dei votanti votò a favore dell’indipendenza delle due repubbliche autoproclamate di Donec’k e Lugans’k. Il referendum si tenne anche a Kharkiv, ma la bassa affluenza in questa regione garantì la sua permanenza in Ucraina. Il governo ucraino, che considerava questa contro-rivolta una minaccia alla propria integrità territoriale e un’interferenza russa negli affari interni, provò subito a reimpossessarsi militarmente della regione mandando esercito e forze speciali per sedare il moto secessionista. I separatisti replicarono con il fuoco: iniziò così la Guerra del Donbass, arrivata oggi al suo culmine e, a quanto pare, alla sua drammatica (ancora in corso) conclusione. Inizialmente l’esercito ucraino, addestrato ed equipaggiato malamente, subì forti perdite da parte dei separatisti, tanto che alcuni reparti dell’esercito cedettero prigionieri o armi ai ribelli sostenuti dal Cremlino. Allora subentrarono milizie paramilitari, formate da ultras calcistici (spesso vicini ad © Wikipedia ambienti di estrema destra) e finanziate da oligarchi quali Ihor Kolomojs’kyj (lo stesso che ha finanziato la campagna elettorale dell’odierno presidente ucraino Volodymir Zelens’kyj). All’indomani dell’inizio del conflitto e per porvi fine, i governi tedesco, russo, francese, bielorusso e ucraino suggellarono gli Accordi di Minsk: tali accordi imponevano di porre fine agli scontri, di deporre le armi da entrambi gli schieramenti e di garantire un margine di autonomia alle regioni del Donbass – una soluzione assimilabile allo Statuto di autonomia di cui gode l’Alto Adige rispetto allo Stato italiano. Ma nessuna delle due parti coinvolte accettò le condizioni ed entrambi violarono più volte gli accordi presi.Il conflitto è così proceduto per altri otto anni, tra bombardamenti e scontri nelle trincee, interrotti a volte da brevi e instabili cessate il fuoco. Se da una parte il governo ucraino ha ricevuto sostegno materiale e mediatico da parte dei governi occidentali (così come il Cremlino ha fatto con le forze separatiste), dall’altra la sua gestione del conflitto ha spesso destato critiche da taluni riguardo al bombardamento di civili e l’inquadramento nella Guardia Nazionale di gruppi paramilitari neonazisti. Questi gruppi si sono spesso macchiati di crimini di guerra – come tra l’altro hanno denunciato Human Rights Watch e Amnesty International, organizzazioni tutt’altro che filorusse. Tra questi gruppi il più famigerato è il Battaglione Azov, formato da un gruppo di nazionalisti ucraini ed estremisti di destra provenienti da tutta Europa, anche italiani. Questo gruppo estremista è tornato alla ribalta in questi ultimi mesi: da una parte è stato usato come pretesto da Putin per l’invasione
dell’Ucraina (spacciata dal Cremlino e dai media russi come “campagna di denazificazione”); dall’altra è stato riabilitato da alcuni opinionisti nostrani, che hanno dipinto i suoi miliziani come “nuovi partigiani”, “semplici nazionalisti” e persino “appassionati lettori di Kant”. Tuttavia l’ideologia e la simbologia del Battaglione Azov sono evidenti: basti pensare che il simbolo del Battaglione è il Wolfsangel (che in tedesco significa “dente di lupo”), una specie di runa usata come simbolo dalla divisione SSPanzer-Division “Das Reich” durante la Seconda Guerra Mondiale e oggi da numerose organizzazioni neofasciste (era per esempio il simbolo di Terza Posizione, movimento neofascista italiano attivo durante gli Anni di Piombo). Inoltre tale Battaglione ha rapporti con gruppi di estrema destra europei quali CasaPound in Italia e il National Action in Inghilterra. Sulla condotta dell’esercito ucraino è esemplare, quanto drammatico, il caso di Andrea Rocchelli, giornalista italiano e corrispondente di guerra, che rimase ucciso nel bombardamento di Slovjans’k insieme al suo interprete Andrej Mironov. Secondo le indagini della procura di Pavia, il giovane fotoreporter fu ucciso in modalità premeditate da parte di un battaglione nazionalista ucraino, comandato dal militare Vitalyj Markiv. Questi, nonostante la condanna a ventiquattro anni decretata dal Tribunale di Pavia (favorita anche dalla doppia cittadinanza italo-ucraina di Markiv), è riuscito a sfuggire alla giustizia italiana, potendo continuare la sua attività nell’esercito ucraino. Allora si erano tenute a Kiev, sotto l’ambasciata italiana, manifestazioni che invocavano il rilascio di Markiv; inoltre, quando il militare fu scarcerato, il presidente Zelens’kyj si complimentò con gli allora omologhi italiani, Sergio Mattarella e Giuseppe Conte, per la liberazione di Markiv. D’altra parte le repubbliche separatiste (o “novorusse”) sono state più volte accusate di essere rette da governi fantocci del Cremlino (il quale li ha armati negli ultimi otto anni), dato che le loro milizie sono affiancate da mercenari del famigerato reggimento Wagner e i suoi odierni presidenti sono affiliati a Russia Unita, il partito politico che sostiene Putin. Inoltre il fronte separatista è composto da forze eterogenee, spesso in contrasto tra loro: cosacchi, comunisti e antifascisti, nazionalisti russi ed estremisti di destra – se non di sinistra – stranieri, affascinati dalla figura di Putin. I primi comandanti delle Repubbliche separatiste si richiamavano fortemente al passato sovietico, sul piano simbolico ma anche ideologico. Tuttavia questi sono stati quasi subito liquidati, molto probabilmente da nemici interni, proprio per il loro orientamento politico.
A oggi il Donbass è una regione depressa, piagata da una guerra che ha causato quindicimila morti (di qui 3.400 civili) e un milione e mezzo di sfollati. Qui i bombardamenti dell’esercito ucraino (prima) e di quello russo (ora) hanno recato solo morte e distruzione. È questa la regione su cui si gioca lo scontro tra le forze d’invasione russe e quelle ucraine. Finora nessuna delle forze hanno posizioni inconciliabili sul Donbass: gli ucraini non sembrano disposti a cederlo, mentre il Cremlino è determinato a sottrarlo dalla sovranità ucraino, se non ad annetterlo – come sembra assai probabile. Chiunque riesca a impossessarsi della regione, una cosa è certa: il Donbass soffrirà per molti altri anni, e questa ferita sarà difficile da far rimarginare. Come del resto sarà difficile da far rimarginare la ferita inferta all’Ucraina, che vacilla tra Oriente e Occidente.