Alessandro Ricci
BARTENDER A CASA TUA storie e segreti per preparare cocktail con quel che c’è
Indice • Prefazione di Paolo Massobrio • Introduzione
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Capitolo 1 LE BASI DELLA MISCELAZIONE • Il pilastro dell’armonia • Punch e cocktail • Catalogare i drink • Costruire il bar a casa • Costruire il cocktail: le tecniche • Perché shakerare, come farlo • L’ingrediente sottovalutato: il ghiaccio • I drink conviviali (e in bottiglia) • La presentazione del drink • Il decalogo del party perfetto
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Capitolo 2 GLI INGREDIENTI DELLA MISCELAZIONE • Il mondo dei distillati • Liquori • I vini dei bartender • I soft drink • Costruiamo il nostro bar
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Capitolo 3 LE ROTTE DEL BERE MISCELATO • La nascita della miscelazione moderna • Il Proibizionismo e la successiva rivoluzione Tiki • Le origini del bere miscelato in Italia • L’Italia dei cocktail popolari • L’epopea di Angelo Zola • I cocktail conquistano la strada • Crisi e rinascita della miscelazione • La miscelazione contemporanea
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Capitolo 4 I COCKTAIL DA FARE A CASA:
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STORIE, TRUCCHI E RICETTE
• Americano • Bellini
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• Black Russian • Bloody Mary • Caipirinha • Champagne Cocktail • Clover Club • Cuba Libre • Daiquiri • Gimlet • Gin Tonic • Godfather • Irish Coffee • John Collins • Mai Tai • Manhattan • Margarita • Martini Cocktail • Mint Julep • Mojito • Moscow Mule • Negroni • Le varianti del Negroni • Old Fashioned • Punch • Sazerac • Sidecar • Spritz • Whiskey Sour • White Lady • Ricette analcoliche • Indice per base alcolica • Indice per momento di consumo • Indice dei drink conviviali
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Capitolo 5 GUIDA AI PRODUTTORI ITALIANI
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Capitolo 6 GLOSSARIO TECNICO
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Prefazione di Paolo Massobrio Appena compiuti i 18 anni, all’insaputa dei miei genitori, mi feci due regali: l’acquisto di una pipa Savinelli e l’ingresso al Bar Basso a Milano, che era un tempo dei cocktail dove Mirko Stocchetto aveva inventato lo “Sbagliato”, ovvero il Negroni con lo spumante al posto del gin. La voglia di stupire poi ci prendeva anche a casa, con quel c’era, per fare improbabili cocktail che non sempre ricevevano il gradimento degli amici. Ecco, questo libro è nato così: dall’ansia di prestazione, per scoprire, con Alessandro Ricci, che una miscela sbagliata difficilmente si può correggere. Dunque ci vuole metodo, anche e soprattutto quando si accoglie qualcuno, essendo il cocktail il benvenuto che dà il timbro al convivio. Intorno ai cocktail c’è un mondo, che solo negli ultimi anni, in Italia, secondo la regola della ciclicità degli eventi, ha avuto una riscoperta. Un tempo il cocktail era un vezzo dei grandi alberghi e proprio al Principi di Savoia si era formato Angelo Zola, il fondatore dell’Aibes e poi dell’Iba a cui anni fa dedicammo un libro, L’Angelo dello Shaker (edizioni Club Papillon), dopo aver ritrovato nel soffitto della sua casa di Viverone il quaderno scritto a mano con le sue ricette. E fu affascinante scoprire da Zola il valore dei cocktail per le relazioni. Fu una lezione leggere il motto: «il bere miscelato è bere moderato» e scoprire la sua idea chiara che un cocktail era legato a un momento da ricordare, al piacere di una compagnia, al rispetto dell’altro che doveva essere trattato con precisione. E quanti valori ci sono dentro a un bicchiere che offre sfumature di gusti impensabili. Ora, l’attuale boom del bere miscelato, con figure come i bartender che spopolano in tutto il mondo, non era prevedibile, visto che ovunque avevano preso piede le Bollicine come elemento dell’aperitivo, se non il vino. Eppure siamo immersi nell’era dei cocktail che vengono addirittura abbinati a un menu, al ristorante, oppure danno l’ispirazione per l’apertura di nuovi locali dove la gente di incontra. Alessandro Ricci, classe 1981, fa parte di questa generazione e la sua passione per le birre, i cocktail e il vino lo ha portato a diventare curioso e puntiglioso. Con lui abbiamo deciso di farci prendere per mano, per colmare quell’ansia che non s’è mai sopita. E per dare vita a quel bisogno di relazioni, sapendo che Angelo Zola, se fosse ancora vivo, avrebbe un monito da esternare ai clienti: davanti a un cocktail spegnete quel cellulare!
Introduzione Questo libro nasce da una grande passione e una serie infinita di errori. Il soggetto della passione è evidente, in un volume che racconta di cocktail e ha l’ambizione di spiegare come prepararli a casa. La serie infinita di errori sono i miei, inanellati ogni qualvolta ho provato a replicare nel tinello l’alchimia di un buon drink assaggiato al bar. Perché se preparare un buon cocktail non è difficile, sbagliarlo è facilissimo. La miscelazione non segue le regole della cucina, dove al piccolo errore si riesce a rimediare facilmente, aggiungendo un pizzico di sale, prolungando di uno zic la cottura, allungando un fondo troppo ridotto con un mestolo di brodo. Quando si sbaglia un cocktail, è perduto per sempre, e basta davvero poco per far svanire l’armonia alchemica di ricette collaudate, trasformando una buona bevuta in un martirio. È una partita che si gioca su dosi minime, proporzioni rigorose, tempi precisi. In questo la miscelazione assomiglia più alla pasticceria, dove lo sgarro comporta quasi inevitabilmente il disastro. Un centilitro in più o in meno di un distillato, in un bicchiere che ne conta una decina, determina una differenza abissale. Una temperatura di servizio sballata, soprattutto se spinta verso l’alto, rovina qualsiasi drink. Il ghiaccio, aggiunto con mano troppo parsimoniosa, è sinonimo di disfatta; ma se non si fa attenzione a trattarlo come si deve, il cocktail risulterà annacquato, per la tristezza del bevitore. Prima regola imparata alla scuola del bancone: la perfetta replicabilità del drink. È proprio così. Dietro alla scenografica gestualità dei barman – 1/3 prestigiatori, 1/3 alchimisti, 1/3 attori – si cela la millimetrica capacità di dosare gli ingredienti, ghiaccio compreso. Basta qualche goccia in più di Angostura e il Manhattan perde la sua rotondità stordente. È sufficiente un leggero squilibrio tra gin e bitter e il Negroni non è più a prova di Conte (Camillo Negroni, il nobile che lo ha inventato). Basta un metaforico sassolino nella stesura di un Martini Cocktail per vederlo inciampare malinconicamente lungo il dirupo delle cattive bevute. Seconda regola da bar fly, ossia da frequentatore assiduo di bar: per realizzare un buon drink servono buoni prodotti. La miscelazione però non segue la relazione di equivalenza. Ottime bottiglie non sono garanzia di risultati superlativi, ma al contrario si possono ottenere ottimi drink miscelando prodotti comuni, non eccezionali. Perché la tecnica è un fattore altrettanto (se non più) importante.
Terza regola di saggezza: se alcuni cocktail hanno fatto la storia, attraversando epoche e continenti, influenzando gusti e tendenze, replicati – in miseria e nobiltà – nei bar di ogni città, un motivo ci sarà. Si può (e si deve) guardare oltre, cercare nuovi confini, ma alcune regole – definiamole la grammatica della miscelazione – sono le fondamenta di qualsiasi idea di mixology. Si possono anche abiurare, ma bisogna conoscerle, per farlo. Questo libro vuole essere un fedele alleato per chi ha l’ardire di approcciare per la prima volta uno shaker, ma anche per chi ha maggiore dimestichezza. Il primo passo è conoscere le regole di costruzione di un cocktail e le tecniche del barman. Quali bottiglie e attrezzature sono necessarie per il proprio bar casalingo è il passo successivo. Poi non resta che cimentarsi con le ricette. Replicare un unforgettable – ossia uno degli evergreen che la stessa Associazione Internazionale dei Bartenders (IBA) ha così definito – sarà un esercizio di stile possibile a tutti. Così come twistare un grande classico, proponendone una variante, grazie alle ricette di alcuni tra i più importanti barman italiani. Ma all’epifania della “bevuta perfetta”, ammesso che esista, non concorre soltanto quello che è stato miscelato nel bicchiere, perché il momento del cocktail è un insieme di cose, e soprattutto un contesto. Conta il luogo: il bar dal bancone di mogano consunto e gli ottoni lucidati, il chiosco sulla spiaggia col mare all’orizzonte, il caminetto acceso nella casa di campagna. E ancor più la compagnia. Il cocktail è, alla fine dei giochi, un pretesto per prendersi un momento per sé e per volersi bene. Per coccolarsi e osservare il tangibile e l’astratto da una spigolatura differente. «Il problema con il mondo è che tutti sono indietro di qualche drink» sosteneva Humphrey Bogart. E non aveva tutti i torti.
BARTENDER A CASA TUA
1 Le basi della miscelazione Il pilastro dell’armonia Bere acqua è un bisogno fisiologico dell’uomo. Bere vino è un atto culturale dell’umanità, che ha osservato le leggi della fermentazione e le ha fatte proprie. Bere cocktail è un atto estetico, che ha attinenza con l’arte – l’arte meccanica del mestiere che concerne alla produzione – e col bello. È un gesto che sottintende una ricerca o, perlomeno, una speranza. Quella di trovare, tra le pareti del bicchiere, quell’armonia – l’accordo delle parti con il tutto – così difficile da raggiungere nelle frastagliate vicende umane. L’armonia in un cocktail nasce da un paradosso matematico. La somma è maggiore degli addendi. Tutti gli ingredienti di un drink giocano il loro ruolo, devono in qualche modo essere percepibili, ma al contempo evolvono in qualcos’altro rispetto alla loro origine. È il segreto della miscelazione: compenetrare gli elementi per giungere a una nuova architettura. Quest’ultima potrà anche essere sghemba e disequilibrata, se una componente in qualche modo prevale sulle altre, eppure risultare piacevole. Perché l’armonia non scaturisce necessariamente dall’equilibrio, ma può manifestarsi anche nei disequilibri. L’armonia è una convenzione sociale, un “palato collettivo” soggetto a profonde revisioni, incline ai canoni della sua epoca. Per secoli si è bevuto molto più dolce (e di qualità scadente: i due fattori vanno collegati), mentre nel corso del Novecento il gusto si è fatto via via più secco, fino ad arrivare all’estremo. Quando un concetto si esaspera, c’è sempre una “controriforma”, che parte dal basso: i cocktail sgargianti, fruttatissimi e pacchiani degli anni ‘80 ne sono un buon esempio. Il primo consiglio, nell’approcciare la miscelazione casalinga, è di spogliare il gusto dalle strutture sociali, per cercare l’armonia delle proprie papille gustative. Ognuno ha un rapporto personale con i cinque gusti fondamentali (amaro, aspro, dolce, salato, umami). A questi, essendo nel campo dei superalcolici, va poi aggiunta la percezione (e sopportazione) dell’alcol, disparata da persona a persona. Le ricette che compongono la seconda parte del libro non vanno dunque intese come assiomi granitici. L’architrave di ciascuna mistura può essere modificata a proprio piacimento, andando a lavorare sulle proporzioni, anche in considerazione delle caratteristiche organolettiche
LE BASI DELLA MISCELAZIONE
delle bottiglie a disposizione. La nuova Golden Age della miscelazione, che stiamo vivendo in questi anni, ha avuto tra i suoi (benèfici) effetti collaterali anche quello di moltiplicare l’offerta per ogni singola categoria merceologica. In un’enoteca fornita, se non in un buon supermercato, è facile trovare diversi gin, altrettanti whisky, qualche vermouth, magari più di un bitter, e così per ogni tipologia di distillato e liquore. È una gamma che offre al barman professionista, ma anche all’appassionato a casa, molteplici sperimentazioni e qualche rischio. Perché nella miscelazione le peculiarità di ogni prodotto devono integrarsi a vicenda, sostenersi e non fare a cazzotti, nascondere eventuali magagne e far sfavillare i punti di forza. Bisogna conoscere a fondo i prodotti a disposizione, sperimentandone le interazioni. Se un gin dal bouquet esplosivo si presta bene al Gin Tonic, non sarà la stessa cosa per un Martini Cocktail o un Gimlet. Un vermouth rosso articolato e aromatico va gestito con mano sicura: a volte basta diminuire di un poco la dose, o rafforzare per contrappeso un’altra componente, per non sbilanciare il complesso. Lo stesso succede quando si usa un bitter particolarmente violento nelle note amare, o qualsiasi altro prodotto dalla personalità dirompente: il barman non deve trasformare un pregio in un elemento che disturba l’armonia. Perché un cocktail è un gioco di squadra: possiamo anche avere Pelé e Maradona assieme, ma bisogna farli coesistere. E se vogliamo far esplodere un assolo, deve innestarsi con naturalezza, come il sax di Clarence Clemmons in Jungleland. L’importante, una volta trovata la quadra, è codificare la propria armonia di proporzioni, prodotti e tempi per ciascuna ricetta. Scriviamocele, in calce a questo libro, per essere certi di ritrovare la strada.
Punch e cocktail L’abitudine di bere miscelato si perde nella notte dei tempi. Difficile dire con certezza dove si sia distillato per la prima volta. Se in Mesopotamia, attorno al 500 a.C., quando si distillava per usi cosmetici, o ancor prima, nella medesima area, dove alcuni ritrovamenti archeologici, databili 1500 a.C., sembrano risalire a rudimentali alambicchi. Oppure in Cina, dove già nell’Ottocento a.C. si distillavano fermentati di sorgo e riso per un antenato del sakè. Certo è che la parola alambicco, con il suo bellissimo suono, deriva dall’antico arabo Al-Ambiq, nome con cui veniva chiamato il vaso conico in terracotta che oggi conosciamo come tajine. Anche la parola alcol discende dall’arabo Al-Khul, ovvero polvere impalpabile, con il quale gli Egiziani indicavano un ombretto usato in cosmetica. Per definire l’alcol, invece, adoperavano il termine Al raki, che significa sudore, a richiamare proprio le goccioline di alcol che scendono dal collo dell’alambicco durante il processo di distillazione.
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BARTENDER A CASA TUA
3 Le rotte del bere miscelato Bere per sopravvivere. Non diciamolo ai medici di oggi. Eppure per lungo tempo è stato così. Per secoli gli uomini di mare hanno dovuto combattere lo scorbuto, un pericolo ben peggiore di nemici e tempeste. Almeno fino al 1757, quando il medico inglese James Lind ne comprende le cause: a provocarlo è la mancanza di vitamina C, di cui la dieta dei marinai, costituita da carne secca, brodi e biscotti, era drammaticamente povera. Nel rancio dei marinai inglesi diventa d’obbligo il lime – non a caso il loro soprannome ancora oggi è limeys – che i più consumavano nel Grog (vedi pag. 14), una miscela di rum, acqua, zucchero e lime. Nel secolo successivo, esattamente nel 1867, Lauchlin Rose lancia il Cordial lime juice: un concentrato a base di succo di lime e zucchero, reso immarcescibile da un battaglione di conservanti. Un vero toccasana per lo scorbuto, tanto che lo stesso anno la marina militare inglese obbligò i marinai all’assunzione giornaliera di questo cordiale. Sicuramente più di un ufficiale sottocoperta si sarà preparato un Gimlet (vedi pag. 108), mescolando il cordiale con gin e magari aggiustandolo con uno schizzo di bitter a base di china. Non che sulla terraferma andasse meglio. I militari britannici di stanza in India dovevano combattere arsura e malattie tropicali e lo facevano assumendo lo stesso tonico al chinino, ideato a metà del Settecento dal chirurgo George Cleghorn. Per sopportare il suo gusto amaro, lo diluivano con una generosa dose di gin. Fino a quando, nel 1794, il chimico Johan Jacob Schweppe creò la prima acqua tonica al chinino, per scopi medicinali. Ecco nato il Gin Tonic (vedi pag. 112).
La nascita della miscelazione moderna Bere era sopravvivere, almeno un po’ di più. Ma non nascondiamoci il piacere dell’alcol, che ha sempre accompagnato l’uomo e la sua cultura, da Dioniso in poi. È l’Ottocento il secolo che segna la nascita della miscelazione moderna, quando bere cocktail diventa ufficialmente un piacere. E infatti, come abbiamo già visto, è a cavallo tra il secolo degli Illuministi e quello dei Romantici che compaiono le prime definizioni di cocktail. È in questo periodo che in Virginia si sviluppa l’usanza di bere al mattino un dram (antica unità di misura impiegata dai farmacisti) di sostanza alcolica macerata nella menta. Un anticipo di Mint Julep (vedi pag. 146), dunque. Un
LE ROTTE DEL BERE MISCELATO
poco più a sud, a New Orleans, nella seconda metà dell’Ottocento è tutto un fiorire di cocktail bar. Allora The Big Easy (come è soprannominata la città, per la propensione a prendersela slow) era un porto di grande importanza commerciale: all’ombra dei suoi ricchi alberghi riposavano e si rinfrancavano uomini d’affari provenienti da ogni parte del mondo. Si ritrovavano nel cuore della città, nel Vieux Carré (che ha dato il nome a un grande cocktail, 1/3 rye whiskey, 1/3 cognac, 1/3 vermouth rosso, più ammennicoli vari), il quartiere francese dove aprivano le porte i migliori ristoranti. Per ogni ristorante c’era un cocktail bar, famoso per un particolare drink. Allora i cocktail si bevevano fin dal mattino. Erano generalmente forti, decisi, senza succhi e sciroppi. Come il Sazerac (vedi pag. 174), che deve la sua nascita ad Antoine Peychaud, considerato il primo cocktail americano della storia. O il Ramos Fizz, classico cocktail del “giorno dopo”, dalla shakerata infinita (c’è chi dice 12 minuti, chi addirittura 15). Nella seconda metà dell’Ottocento vengono codificati moltissimi dei cocktail indimenticabili (e indimenticati), quelli che la stessa International Bartenders Association (IBA) definisce unforgettables. Grande merito va Jerry Thomas, il papà di tutti i barman, che ancora oggi chiamano “il Professore”. Nel 1862 per primo codificò le ricette della tradizione orale nel The bartenders guide - How to mix drinks. In pratica, l’Antico Testamento della miscelazione, nitida fotografia del bere miscelato della sua era. Secondo alcuni, è anche l’inventore del Martinez (vedi pag. 141), l’antenato del Martini, secondo una versione che ci conduce diretti nel 1862, nel saloon dove lavorava. Una sera di quell’anno, spunta un forestiero, alla prima apparizione. I suoi occhi sono fessure febbrili e nel palmo della mano stringe una pepita d’oro. Chiede un cocktail, un cocktail speciale, e Jerry Thomas, imperturbabile, mescola assieme gin, vermouth, qualche goccia di bitter e di maraschino. Poi, tolta la scorza, taglia a metà un limone: la prima metà la usa come guarnizione, e con l’altra bagna il bordo del bicchiere. «Dove è diretto?» chiede Jerry Thomas. «A Martinez - risponde il viandante – Perché?» «Perché questo cocktail si chiamerà Martinez cocktail». Ma c’è anche qualche oncia d’Italia in un buon Martini, e non solo perché siamo, con la Francia, il paese produttore dei migliori vermouth. Clemente Queirolo è un barman ligure, di Arma di Taggia, emigrato a New York. Nel 1912 ha l’occasione della sua vita: preparate un cocktail per John Davison Rockefeller, capostipite della dinastia capitalistica più famosa d’America. Ne esce fuori il suo capolavoro: London dry, vermouth italiano, qualche goccia di bitter all’arancia, un’oliva che gli rammenta la riviera ligure. Il Martini (quasi) come noi lo conosciamo. E quando Rockefeller, conquistato, chiese al barman il suo nome, lui pronto rispose: «Mi chiamo Clemente Martini», per evitare le solite storpiature di un cognome
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I COCKTAIL DA FARE A CASA: STORIE, TRUCCHI E RICETTE
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Americano
Il nome evoca terre d’Oltreoceano, ma nessun aperitivo è italiano e storico quanto un buon Americano. Perché dove il bitter incontra il vermouth, lì c’è un pezzo di Italia e due città ben delineate. Già a metà Ottocento si usava mescolare assieme questi due prodotti. È il Milano-Torino, il MiTo che sotto la Mole con orgoglio sabaudo rinominano Torino-Milano, mentre all’ombra della Madonnina arrivano a concepire in una versione Milano-Milano, con bitter e rabarbaro. Nei locali di metà Ottocento, già pronto in caraffa, si serviva in piccoli coppe o bicchieri da cordiale, senza ghiaccio, poiché ancora non erano diffuse le macchine per fabbricarlo. L’Americano è una sua naturale evoluzione, nata tra fine Ottocento e inizio Novecento, che prevede l’aggiunta di soda e ghiaccio. Diventa un classico, tanto che Elvezio Grassi, nel libro Mille Misture (1936), ne codifica dieci versioni, anche se la sostanziale differenza è nella marca di vermouth utilizzata. Le ricette d’allora erano sbilanciate a favore del vermouth e prevedevano una dose generosa di soda e una scorzetta di limone come guarnizione. Come spesso accade per i cocktail, l’origine del nome non ha una sola versione. Alcune sono più impregnate di realtà, le più avvincenti dettate dalla leggenda. La verità? Sta (quasi) sempre nel mezzo: perché per creare un mito serve epica e fantasia. L’Americano riprende nel nome l’usanza – all’americana, appunto – di bere cocktail: on the rocks, in bicchieri old fashioned. La versione romanzata chiama in causa il pugile Primo Carnera, una «montagna che cammina» alta due metri e pesante 129 chili che, partito dal borgo friulano di Sequals, portò i suoi pugni a segno fino al Madison Square Garden di New York, dove nel 1933 si laureò campione del mondo dei pesi massimi, primo e unico italiano nell’impresa. Non a lui è stato dedicato il cocktail – già esisteva – ma è pur vero che per la sua vittoria molti Americano sono stati tracannati. Anche James Bond cede al suo fascino. Ian Fleming, in Casino Royale, fa bere all’agente segreto un Americano preparato con Bitter Campari, Cinzano, una grossa scorzetta di limone e acqua Perrier.
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