Copertina Piante medicinali:Sovraccoperta/copertina piante medicinali
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mia Sardegna, con il piroscafo, come ancora Q nellasi diceva in quel tempo, la prima sensazione,
on sono medico, non sono un botanico, non mi N intendo di fitoterapia e, per dirla tutta, non mi intendo proprio di piante. Neanche il mio lavoro di
all’ingresso della nave nel golfo di Olbia, era olfattiva. La terra che ci circondava, riscaldata dai primi raggi del sole, emanava una serie di odori, profumi direi, che, apparentemente dissonanti, si univano in realtà a formare una precisa identità fragrante. Il vento tiepido ci portava gli aromi del cisto, del lentischio, del mirto, del ginepro ad un tempo individuabili e fusi in unico riconoscibilissimo sentore. Ebbene il libro di Enrica Campanini mi ha rievocato quelle antiche sensazioni fisiche, ma anche cariche di stupore, di piacere e di aspettativa per un mondo, per me bambino, carico di suggestioni e di promesse. Il profumo delle piante della Sardegna emana da ogni pagina del libro scaturendo dalle parole e dalle immagini in gran parte familiari alla memoria. Ma superata questa emozione ecco che se ne presenta un’altra, anche essa costituita da molteplici componenti: Enrica Campanini, in tempi non più vicinissimi, è stata una mia allieva, ha discusso con me la tesi di laurea, abbiamo lavorato assieme accomunati dalla passione per la storia della Medicina. Adesso da allieva è diventata maestra nel campo della fitoterapia come dimostrano abbondantemente le sue pubblicazioni, i libri di successo, l’attività di insegnamento. E allora la prima componente affettiva è l’orgoglio, la soddisfazione di avere tenuto a battesimo una persona che, come si diceva un tempo, “si è fatta onore”. Di questo onore mi sento, seppure in piccola parte, responsabile. Orgoglio quindi, ma anche una punta di malinconia per il tempo che fugge, per i ragazzi che diventano adulti, per gli adulti che invecchiano. Infine ammetterò sinceramente anche un pizzico di invidia: un libro come questo mi sarebbe piaciuto averlo scritto io. Ma come è questo libro? In sintesi estrema lo definirei informatissimo, chiaro senza essere banalmente divulgativo, divertente se non addirittura affascinante per colui che si diletti, superficialmente o approfonditamente, di antropologia e di storia; storia non degli eventi eroici che studiamo a scuola, ma dei piccoli quanto fondamentali accadimenti, problematiche, usi ed abitudini del vivere quotidiano: la tecnica antica di intrecciare canestri col gambo dell’asfodelo al posto del Congresso di Vienna e delle sue conseguenze. Ma al di là delle definizioni un tantino riduttive testé elencate, segnalerò la brillantezza, l’abbondanza e la precisione delle annotazioni storiche su ciascuna pianta, la collocazione del loro uso nell’ambiente della Sardegna di ieri e di sempre; ambiente che emerge a tutto tondo dalle parole dell’autrice (ormai sarda per annosa ed affettuosa consuetudine), imponendosi icasticamente e prepotentemente, con la capacità di evocare l’interesse di chi non conosce l’isola e la nostalgia di chi ne è lontano: non è forse vero che la parola nostalgia significa il dolore per il (mancato) ritorno? Sorvolerò di proposito sull’utilizzo medico, passato e presente, delle singole piante: conosco talmente bene Enrica Campanini da poter dare per scontate la precisione e la completezza del suo lavoro, ma mi devo soffermare sulla iconografia ricchissima, piacevole e accattivante anche per colui che guardi con semplice intento estetico, evocativa, come già si è accennato, per colui che vi si accosti con un patrimonio di ricordi. Insomma un libro da non lasciarsi sfuggire, senza il timore, per chi non è del mestiere, di essere sopraffatto da esoteriche comunicazioni tecniche; un libro per tutti, quindi, ma per tutti coloro che sono capaci di provare un interesse genuino per questa bella famiglia d’erbe e d’animali. Attendo fiducioso il prossimo libro di Enrica.
psicoterapeuta sembra avere molte connessioni con la ricerca di Enrica Campanini, se non per la nostra frequente collaborazione professionale, perché dunque propormi di scrivere una prefazione al suo lavoro? Poi ho capito: mi invitava a “viaggiare” nel suo mondo, e per uno scrittore di viaggi questo è un richiamo irresistibile. Il corpus fondamentale del libro è un viaggio nella natura, nella scienza, nell’antropologia e nella cultura sarda, guidati dalle piante, e con le piante entriamo in un mondo sconfinato di notizie. Sapevo che la ferula era usata per battere gli studenti senza lasciare traccia, ma non che fosse considerata un afrodisiaco e forse anche un anticoncezionale, accoppiata opportuna. Non sapevo che Prometeo avesse nascosto il fuoco rubato agli dei all’interno del suo fusto, pratica purtroppo tuttora usata da qualche piromane. Scopriamo poi che i pastori sardi avevano già scoperto che poteva essere tossica per il bestiame e facevano un rito propiziatorio la notte di San Giovanni, «notte magica e propiziatoria per la raccolta delle piante, mangiavano formaggio con fette del fusto della ferula per scongiurare gli avvelenamenti dei propri capi di bestiame». E poi scopriamo la connessione delle fave, proibitissime da Pitagora ai suoi discepoli, con il culto dei morti, ma anche con la nascita (le fave come embrioni dei bambini). Il tabù dell’attraversare i campi di fave non portò fortuna a Pitagora. «La leggenda … narra che il grande filosofo venne assassinato da sicari, dopo essersi trovato dinanzi ad un campo di fave che avrebbe rifiutato di attraversare. La supposta pericolosità della pianta non era del tutto infondata: in alcuni soggetti predisposti causa una malattia molto grave detta favismo o anemia emolitica». Naturalmente, come negli altri testi di Campanini, vi sono tutte le notizie indispensabili per il fitoterapeuta, ove si confronta il sapere popolare con la ricerca scientifica, evidenziando indicazioni e controindicazioni. Ma è anche un viaggio nel tempo, con lo straordinario “Dizionarietto biografico”, che ci racconta di medici e studiosi delle più svariate discipline: alchimia, astronomia, teologia, farmacologia …, testimoni di un tempo in cui il sapere non era parcellizzato e scisso, e la medicina era forse più olistica. Di ognuno di questi personaggi verrebbe voglia di saperne di più, di indagare, di scriverne la storia. Alcuni sono notissimi, Avicenna e Ippocrate, Pitagora e Malpighi, Raimondo Lullo, figure straordinarie che ci ricordano, come nella famosa frase attribuita erroneamente a Newton, che oggi vediamo più lontano perché siamo nani che stanno sulle spalle di giganti. O la mistica Hildegarda di Bingen: o «santa Ildegarda (Bermeshein 1098-presso Bingen 1179), badessa e naturalista. Sebbene sia spesso chiamata santa, non fu mai canonizzata. Scrisse il Liber semplicis medicinae o Physica ove parlava dei poteri curativi delle erbe, delle pietre e degli animali e il Liber compositae medicinae dove disquisiva sulle cause naturali delle malattie. Lasciò anche scritti di carattere mistico (Liber scivias)». Fu anche musicista, aggiungo, e il suo pensiero è rilevante nel descrivere le esperienze mistiche di coscienza. È curioso scoprire il Vissani o il Pellegrino Artusi della latinità, «Apicio, Marco Gavio (25 a.C. ca.37 d.C. ca.), famoso gastronomo romano, autore del più antico testo di cucina, il De re coquinaria, che rappresenta un’importante testimonianza sulle abitudini culinarie della latinità». Ed è divertente scoprire che Thomas Willis, autore nel 1661 del Cerebri Anatome, passa alla storia non solo per la scoperta del circolo di Willis o per la descrizione del diabete mellito, ma anche perché si trasferì a Londra dove «… nessun medico mai lo sorpassò e guadagnò più denaro di lui». Per ultimo sottolineo che, per lo splendido apparato iconografico, è un piacere estetico sfogliare il libro ed entrare con la guida garbata dell’autrice, nelle meraviglie della natura. D’ora in poi guarderò le piante con più attenzione, e attraverserò i campi di fave, sia pure con rispetto.
Pier Luigi Cabras Professore ordinario di psichiatria, Università di Firenze
Andrea Bocconi Scrittore, psicoterapeuta didatta di psicosintesi
uando, bambino, tornavo in estate per le vacanze
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Enrica Campanini
Enrica Campanini
PIANTE MEDICINALI IN SARDEGNA
PIANTE MEDICINALI IN SARDEGNA
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Ad Angelo e Arianna e alla mia famiglia sarda
«… fu lì che mi innamorai anche della Sardegna: senza dolcezza, ma con un po’ di rabbia e molta determinazione. E così la raffia si strinse attorno all’innesto, e cominciai a nutrirmi di radici non mie». (J. Lussu, L’olivastro e l’innesto)
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PIANTE MEDICINALI IN SARDEGNA Fotografie di Nelly Dietzel
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Progetto grafico Aurelio Candido Impaginazione Silvia Corti Stampa Lito Terrazzi Referenze fotografiche Le fotografie sono state appositamente realizzate per questo volume da Nelly Dietzel e fanno parte dell’Archivio Ilisso. La campagna fotografica non sarebbe stata possibile senza la competenza e l’entusiasmo di Ietta Manca.
Si ringrazia per la cortese collaborazione il prof. Ignazio Camarda. Il ringraziamento dell’autore va a tutte quelle persone che hanno condiviso con lui il loro sapere. Un particolare grazie a Giuseppe Congiu per i suoi preziosi suggerimenti e per l’attenzione con la quale ha letto il manoscritto.
© 2009 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-058-9
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Sommario
PIANTE
MEDICINALI
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APPARATI Dizionarietto biografico dei personaggi citati nel testo
553
Elenco degli alberi monumentali
562
Indice delle piante endemiche e rare della Sardegna
564
Glossario
567
Bibliografia
570
Indice dei nomi scientifici
578
Indice dei nomi comuni
580
Indice dei nomi sardi
583
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Nota dell’autore Il criterio che mi ha guidato in tutto il lavoro è il grande amore per la Sardegna, per la sua natura e il suo ambiente, per la sua gente, per tutte le sue manifestazioni tradizionali e culturali. La scelta delle piante medicinali trattate è scaturita da una valutazione, principalmente medica, che ha inteso privilegiare quelle che trovano applicazione in fitoterapia e di cui esiste un riscontro negli usi, nelle tradizioni e nella letteratura della Sardegna. La trattazione non ha seguito schemi rigidi, ma è stata orientata da personali “simpatie” dettate dalla conoscenza e dall’esperienza maturate in tanti anni di professione medica. L’elenco non include volutamente una serie di piante tossiche o velenose che, per quanto trovino riscontro in alcuni usi popolari, sono da escludere dall’utilizzo familiare e da impiegare solo dietro prescrizione del medico esperto. Inoltre, nella compilazione dei nomi sardi delle piante medicinali – data la complessità dell’argomento e le innumerevoli varianti dei fitonimi – ho scelto di uniformarmi a un testo di riferimento individuato in un classico del genere: O.A.J. Penzig, Flora popolare italiana, Raccolta dei nomi dialettali delle principali piante indigene e coltivate in Italia [1924], Bologna, Edagricole, 1974. Nei casi in cui la pianta da me esaminata risultava assente in tale testo, ho fatto riferimento ad altri due importanti scritti: G. Paulis, I nomi popolari delle piante in Sardegna, Etimologia, storia, tradizioni, Sassari, Carlo Delfino Editore, 1992; A. Cossu, Flora pratica sarda illustrata, Sassari, Gallizzi, 1978. Il volume è integrato dall’elenco degli alberi monumentali della Sardegna e dall’indice delle piante endemiche che completano l’informazione rispetto ai tesori botanici e alla ricchezza di varietà nella flora dell’Isola. Nella stesura degli indici dei nomi comuni e sardi apposti a conclusione dell’opera, sono state riportate unicamente le voci trattate dal punto di vista officinale. Quanto al ricco apparato iconografico selezionato a supporto dei testi, si è scelto di apporre le didascalie unicamente alle immagini delle piante che, sebbene appartenenti alla stessa famiglia, non si riferiscono alla specie trattata. E.C.
Elenco delle abbreviazioni aa = ana ogni sostanza in parti uguali ad fino a ana p. = aa p. di ognuna parti … ana ad ogni sostanza in parti uguali fino a
F.U. Farmacopea Ufficiale
S
g
spp. species
grammo
somministra
gtt gocce
ssp. subspecies
MG1DH macerato glicerico
T.M. tintura madre
O.E. olio essenziale
t.t. taglio tisana
cps capsula
p. parte
E.F. estratto fluido
q.b. quanto basta
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Achillea millefolium L.
STORIA
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n passato la pianta era tenuta in grande considerazione. Presso i celti, ad esempio, la raccolta e l’impiego erano attuati seguendo riti magici. In un canto gaelico, una donna dice: «Raccoglierò la verde achillea cosicché la mia figura possa essere più piena … la mia voce più dolce … le mie labbra come il succo della fragola … ferirò ogni uomo, ma nessuno potrà ferire me». Il canto mette in evidenza quelle proprietà vulnerarie della pianta che portarono Linneo a dedicarla all’invulnerabile per eccellenza, Achille. Narra la leggenda che Achille, discepolo
Achillea millefolium L. Nome comune Millefoglio Nome sardo Erba de feridas, Erba de fertas Nome francese Millefeuille Nome inglese Milfoil, Yarrow Famiglia Asteraceae Parte utilizzata parti aeree Costituenti principali olio essenziale (1%): camazulene, b-pinene, apinene, cariofillene, ecc. flavonoidi: apigenina e luteolina, glicosilflavoni acido caffeico e salicilico; lattoni sesquiterpenici cumarine, tannini, ecc. Attività principali antispasmodica, amaro-tonica antibatterica, astringente, cicatrizzante Impiego terapeutico turbe gastrointestinali, inappetenza dismenorrea, irregolarità mestruali Uso esterno: emorroidi, varici, piccole ferite
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In queste pagine: Achillea ligustica All.
del centauro Chirone, fosse uno degli eroi più colti nella conoscenza dei medicamenti. Ed è con un’erba indicatagli da Achille che Patroclo cura le ferite di Euripilo. Tolto lo strale dalla ferita, «vi spresse poi colle mani il leniente sugo / di una amara radice. Incontamente / calmossi il duolo, ristagnossi il sangue / ed asciutta si chiuse la ferita» (A. Mereu, 1985a). La nomenclatura popolare conferma le proprietà curative della pianta: sanguinella, erba da tagli, erba delle ferite, erba del corpo aperto, ecc., sono solo alcuni esempi che fanno riferimento alle sue capacità vulnerarie. Caspar Bauhin (1560-1624), botanico svizzero che nella sua opera Pinax theatri botanici (1596) ideò la nomenclatura binomiale per la tassonomia delle piante, adottata in seguito da Linneo nel suo sistema di classificazione scientifica, descrive l’achillea come «un piccolo tanaceto a fiore bianco con forte odore di canfora». Nicholas Culpeper (XVII sec.), autore di un erbario nel quale le piante erano classificate secondo un criterio di divisione astrologica del regno vegetale, collocava l’achillea sotto il dominio di Venere, in quanto la considerava particolarmente indicata nelle “malattie delle donne”. Già Plinio (I sec. d.C.) affermava che il semicupio preparato con decotto di achillea era in grado di arrestare i flussi troppo abbondanti, e Dioscoride (I sec. d.C.), come riporta il Mattioli (1501-1578), dichiarava che la pianta si dimostrava di un’efficacia incomparabile «per ristagnare i flussi del sangue, e parimente de i mestrui». Identico concetto esprimeva Galeno (II sec. d.C.) quando assicurava che la pianta «per ristagnare il sangue, la dissenteria e il flusso
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delle donne è molto al proposito». Anche santa Ildegarda (XII sec.) raccomanda l’achillea nell’epistassi e per i dolori mestruali. Vogel, autore tedesco del 1700, riconferma tali proprietà e ne menziona l’efficacia nei disturbi emorroidali «in quanto sopisce gli spasmi». Racconta, inoltre, che «in Svezia assumono la pianta nella birra, a cui conferisce una grande forza inebriante, tanto che viene chiamata Gutta insaniae – Goccia di pazzia» (A. Mereu, 1985a). UTILIZZO MEDICO
L’
achillea è tradizionalmente impiegata come tonico efficace delle vie digestive di cui attiva le funzioni secretomotrici. Grazie alle proprietà toniche, stomachiche e antispasmodiche che manifesta, risulta utile nei disturbi gastrici, nella nausea e nell’inappetenza. Ne viene anche segnalato l’impiego nelle mestruazioni dolorose (azione spasmolitica), per favorire il flusso mestruale o per regolarizzarlo (azione emmenagoga). In caso di terapia prolungata è stata segnalata anche una blanda azione ipotensivante. Scriveva Giovanni Negri: «Il
millefoglio entra notoriamente nella preparazione di una quantità di pozioni, nella formula delle quali è associato a parecchie altre specie che hanno in comune con esso la proprietà di migliorare le condizioni generali della circolazione, agendo come antispasmodici col sistema vascolare, di influenzare blandamente la funzione digestiva ed epatica, di accelerare il ricambio, di frenare le emorragie uterine, emorroidarie ed anche polmonari» (1979, p. 407). Esternamente l’achillea era nota come pianta in grado di sanare le ferite (azione vulneraria). Le proprietà astringente, decongestionante, epiteliogena, analgesica e debolmente antibiotica ne fanno, infatti, un topico di reale valore. Può essere impiegata nel trattamento di ragadi, foruncoli, piccole ferite, varici ed emorroidi. Può essere considerata, come affermava il noto cosmetologo Gianni Proserpio, «pianta tipica per uso cosmetico … abitualmente impiegabile, anche ad alti dosaggi, in oleoliti per bambini, unguenti solari, creme per pelli screpolate, creme o latti protettivi e rinfrescanti per pelli delicate e arrossate, lozioni toniche, shampoos, bagni schiuma e detergenti intimi»
(G. Proserpio et al., 1983, p. 417). Studi recenti hanno segnalato anche proprietà antiossidanti. La presenza nel fitocomplesso della pianta di un olio volatile ricco in camazulene ne determina le proprietà antiflogistiche, spasmolitiche e batteriostatiche, così come la concentrazione in flavonoidi è in grado di determinare un miglioramento generale della circolazione. MEDICINA POPOLARE
C
onosciuta come erba da tagli, è stata da sempre utilizzata per l’azione astringente, vulneraria e per frenare il sanguinamento delle ferite. Anche gli altri nomi che le sono attribuiti, erba dei carpentieri, erba dei boscaioli, ecc., rivelano l’uso come emostatico di “pronto intervento” utilizzato dagli artigiani, contadini, ecc. nei secoli passati. Se ne vantava anche l’efficacia, introducendo nelle narici alcune foglie fresche, per frenare l’epistassi. Spesso era impiegato il succo della pianta nel trattamento di ragadi, ulcerazioni delle varici ed emorroidi. Con il decotto delle foglie, sempre per uso esterno, si curavano la tigna e la scabbia: «Per ciò si prepara anche una specie di unguento fatto con una
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pomata composta di due parti di grasso e una parte di radice di millefoglio, ridotta in piccoli frammenti» (G. Antonelli, 1941, p. 241). Per uso interno era impiegata nelle febbri intermittenti e nelle malattie esantematiche (morbillo, rosolia, ecc.). Le foglie venivano fumate in caso di tosse spasmodica o asma. L’infuso e il decotto erano assunti per trattare i dolori mestruali, i disturbi digestivi, per facilitare l’espettorazione e la diuresi, ecc. In alcune zone, le foglie giovani, raccolte in primavera, si mangiavano cotte o crude in insalata come depurative. IN SARDEGNA
C
aratteristica è la varietà Achillea ligustica All., conosciuta anche come millefoglio selvatico o achillea sarda. Penzig (O. Penzig, 1974), riporta i seguenti nomi sardi: pardamu (Aritzo); pardimu (Iglesias). In gallurese si chiama
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI L’uso dell’Achillea millefolium L. può provocare, in soggetti particolarmente sensibili alle Asteraceae, dermatite allergica. Tra le possibili interazioni a cui prestare attenzione sono segnalate quelle nei confronti dei farmaci anticoagulanti. FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA Infuso 1,5 g di droga per tazza; preparare l’infusione poco prima dell’utilizzo. Bere più tazze al giorno. Decotto 30-60 g di droga per litro (uso esterno). Achillea millefolium T.M. 30-40 gocce, diluite in acqua, più volte al dì. Polvere 100-200 mg/cps; 1 cps tre volte al dì.
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CURIOSITÀ • «Nel linguaggio dei fiori viene generalmente assegnato alle Achillee il valore simbolico di fiori della guarigione, ma stranamente, anche quello di emblema della guerra, forse perché continuano ad essere collegati con le tragiche vicende del conflitto troiano. Per questa ragione l’A. millefolium, è nella vicina Francia battezzata con i nomi di “herbe à la coupure” e “Sorriso di Venere” assumendo contemporaneamente il valore di “veemente dichiarazione d’amore” intesa nel senso di passione che combatte ed elimina tutti gli ostacoli» (G. Nicolini, A. Moreschi, 1982). • «L’Achillea Millefolium L. si adopera inoltre in Svezia per sostituire il luppolo, nella fabbricazione della birra, ed in Germania se ne usa dare, alle donne che allattano, le radici per favorire la secrezione lattea» (L. Pagliani, 1928). • «L’Achillea millefolium L. che viene usata specialmente in liquoreria, è comune in talune zone della Sardegna, soprattutto nel Gennargentu; anche di questa potrebbe farsi abbondante raccolta» (Atti del Convegno erboristico sardo, 1932).
alba piluttsa, letteralmente “erba pelosa”, perché i fusti e le foglie giovani sono tomentosi (G. Paulis, 1992, p. 91). Per il forte odore canforato viene chiamata anche canforedda. Camarda asserisce che si tratta di «una specie assai simile al millefoglio, ma dal forte odore canforato … per questo motivo la pianta che infesta i pascoli è rifiutata da qualsiasi tipo di bestiame» (I. Camarda et al., 1986, p. 148). La pianta inizia a fiorire a giugno, nel mese del solstizio d’estate, e da questo deriva il nome sardo di frore de santu Juanne, “fiore di san Giovanni”. Nella medicina popolare il millefoglio selvatico era usato, in infuso, per combattere i disturbi intestinali e come antielmintico. L’infuso ottenuto dalle foglie e/o infiorescenze era impiegato per le proprietà amaro-toniche e digestive, antispasmodiche, diuretiche ed emmenagoghe. La pianta è conosciuta anche come erba ’e feridas (Sulcis) ed éiva ’e taglios (Thiesi): per uso esterno, infatti, era impiegata come emostatico e cicatrizzante nel trattamento di ferite, piaghe e ulcerazioni. Si utilizzava il decotto delle foglie per impacchi o lavaggi oppure per preparare una pomata ottenuta «facendo macerare per 1 mese la foglia in olio di oliva, quindi bollendola a bagnomaria e pressandola» (A.D. Atzei, 2003, p. 65). In caso di foruncoli e ascessi, emorroidi e ragadi anali venivano fatti lavaggi con il decotto delle infiorescenze. Per queste ultime patologie si preparava anche un unguento, da applicare
localmente, ottenuto dal succo della pianta mescolato a grasso. In caso di raffreddore, bronchite e tosse la pianta, preventivamente riscaldata e poi avvolta in un panno, era applicata sul petto del malato, oppure venivano praticate fumigazioni con le foglie. Impiastri ottenuti scaldando la pianta e amalgamandola con olio erano applicati sullo stomaco e/o sull’addome in caso di gastralgia e/o fermentazioni intestinali. Contro le artralgie di natura reumatica si applicavano cataplasmi di foglia bollita, mentre per contrastare il mal di testa si facevano respirare i vapori dell’infusione ottenuta con le foglie. Cataplasmi variamente preparati erano applicati in caso di nevralgie sulle zone dolenti, oppure sul collo in caso di mal di gola, e inoltre come antinfiammatori nelle varie malattie della pelle. La pianta aveva anche un uso magico: le foglie raccolte la notte di San Giovanni erano messe, dopo essere state essiccate, insieme ad altre erbe magiche o a qualche granello di sale, in una sacchettino (sa redzèta) da appendere al collo e da portare per tutto l’anno contro il malocchio e per favorire la salute e la buona sorte (A.D. Atzei, 2003, p. 65). La pianta era indicata anche come abortiva, insieme alle foglie e fiori del Chrysanthemum coronarium L., conosciuto come karagantsu, kareganzu, radici di prezzemolo e fiori di Calendula arvensis L. o frore de cada mese (G. Dodero, 1999, p. 41).
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FORMULAZIONI Dispepsia gastrica Specie composta per tisana all’Achillea (Formulario nazionale F.U. IX ed.) Achilleae millefolii herba 30% Taraxaci radix cum herba 30% Curcumae longae rhizoma 20% Menthae piperitae fol. 20% S / Infuso al 3%; una tazza di infuso dopo i pasti principali. Inappetenza, difficoltà digestive Achillea m. T.M.: 30-40 gocce, diluite in mezzo bicchiere d’acqua, un quarto d’ora prima dei pasti principali. Sorseggiare. Couperose – Acne rosacea (Cagnola, Botticelli) Mirtillo foglie t.t. 40 g Achillea m. sommità t.t. 30 g Rosa canina frutti t.t. 30 g S / Versare un cucchiaio della miscela in una tazza di acqua calda, lasciare in infusione 15 minuti: bere una tazza due-tre volte al giorno. Con lo stesso infuso, una volta raffreddato, possono essere fatti impacchi sul viso (tenere 15 minuti e poi sciacquare con acqua tiepida).
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Adiantum capillus-veneris L.
botanico Lobelius (Mathias Lobel, 1538-1616), che percorse erborizzando il Sud della Francia, parte dell’Italia e tanti altri paesi, fu il primo a utilizzare la pianta nell’asma e nella pertosse. Olivier de Serres (1539-1619), considerato il padre dell’agronomia francese, nel suo celebre testo di agricoltura e di economia rurale, Le théâtre d’agriculture et mesnage des champs (1600), così annotava a proposito della pianta: «Il capelvenere rompe la pietra e la renella, fa urinare, frena il flusso di sangue che cola dal naso, guarisce la tigna e anche quelli che hanno l’itterizia». Nel XIX secolo il medico comasco Giberto Scotti così scriveva:
Adiantum capillusveneris L. Nome comune Capelvenere Nome sardo Farzia, Pampinella (Cagliari); Erba chi non infundet (Nuoro) Nome francese Capillaire Nome inglese Venus’ hair Famiglia Polypodiaceae Parte utilizzata pianta Costituenti principali mucillagini, tannini, capillarina (sostanza amara) e olio essenziale (tracce) Attività principali emolliente, decongestionante, espettorante astringente e antinfiammatoria Impiego terapeutico affezioni bronchiali come antiforfora
STORIA
I
l nome deriva dal greco adiantos = non bagnato, in quanto l’acqua non aderisce alla superficie delle foglie che, anche se immerse, restano asciutte. Capillus-veneris deriva dalla presenza dei piccioli brunoneri, lucidi, simili a capelli di una donna (o di Venere) ed è con questo nome che appare nel II secolo d.C. in Apuleio Platonico. Plinio (I sec. d.C.) riteneva che la pianta rinforzasse i capelli evitandone la caduta e rendendoli «crespi e folti» (R. Benigni et al., 1962-64, p. 222). Eraclide da Taranto (III sec. a.C.) l’usò contro la calvizie. Il medico
Cresce in tutti i luoghi umidi della Provincia presso le fontane, nei pozzi e sulle rupi bagnate di acqua. Circa due secoli fa, Pietro Formés di Nimes pubblicava un trattato, “contenant la description, les utilités et les diverses preparations galeniques et spagyriques de l’adhianthom”. Ma di solito i monografisti non meritano maggior fede dei compilatori di necrologie; e di tutte le preparazioni galeniche e spagiriche del capilvenere non rimase ormai, nella pratica che l’infuso teiforme, come diuretico, diaforetico e demulcente bechico. Alcune farmacopee danno anche la formula d’uno sciroppo (G. Scotti, 1872, p. 18). UTILIZZO MEDICO
L
a pianta gode fama di blando espettorante ed emolliente utile come coadiuvante nella terapia delle sindromi da raffreddamento, caratterizzate da raucedine ed afonia, e nelle affezioni bronchiali. L’infuso rappresenta una gradevole bevanda invernale la cui regolare assunzione può
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alleviare le difficoltà respiratorie. essere consigliata nei soggetti che Padre Antonelli riassume vanno incontro con facilità a tali efficacemente le indicazioni manifestazioni. La tradizione relative all’uso popolare della medica del passato consigliava pianta e le modalità di preparati a base di capelvenere assunzione: per fluidificare il catarro bronchiale difficile da espellere Infuso: 10-15-20-50 gram. per e nella tosse persistente di un litro di acqua bollente; se ne qualsiasi origine, nelle forme prende più volte il giorno una asmatiche e nella dispnea in tazzina molto calda, addolcita genere. Da alcuni autori è con zucchero o meglio con consigliata come regolatore miele, in casi di raffreddori mestruale e normalizzante della molto forti con perdita di voce funzionalità epatica. Le foglie (afonia) o raucedine od risultano anche blandamente oppressione, e quando si vuole diuretiche. Il capelvenere rientra nella composizione dell’elixir di Garus, a base di CURIOSITÀ mirra, zafferano, aloe, • Natale Sanna, poeta (Orgosolo): «Sa garofano, noce moscata varzia – Pilos appatilaos e ozzosos / si e sciroppo di venin sapunaos in varzia / torran che seda capelvenere. Era un lisos, “vaporosos”, / dande una grina luhida e pulia» (Il capelvenere – Capelli medicamento che si annodati e grassi / se vengono lavati con rifaceva a una capelvenere / ritornano lisci come seta, formulazione di vaporosi / dando una chioma lucida e Paracelso, alchimista, pulita) (A.D. Atzei, 2003). astrologo e medico • Alla pianta erano legate anche credenze (1493-1541), ed era magiche: le donne con le mestruazioni non impiegato nelle potevano toccarla, pena la scomparsa del epidemie di qualsiasi mestruo. Nel caso invece che la donna tipo (peste, colera, ecc.), fosse in amenorrea (mancanza di nelle febbri maligne, in mestruazioni) doveva assumere la mattina caso di dissenteria, ecc. a digiuno il decotto fatto con le fronde La pianta è conosciuta raccolte nel mese di settembre «a luna anche per l’azione calante, preferibilmente da un uomo». Vi astringente che la era infine anche un uso tintorio: a Samugheo con la pianta si tingevano, renderebbe utile nella infatti, in verde le lane (A.D. Atzei, 2003). prevenzione della caduta dei capelli e come antiforfora (decotto: frizioni ad eccitare il sudore. Vi si può effetto antiforfora). aggiungere anche latte. L’uso MEDICINA POPOLARE
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e foglie di questa felce (in infuso) erano impiegate nei raffreddori “di petto” e nella tosse per le proprietà pettorali e addolcenti, nelle bronchiti acute e croniche per fluidificare i catarri bronchiali e nelle forme asmatiche per
continuato, per molto tempo, di questo infuso agisce come regolatore dei periodi mensili, ed è anche un buon antireumatico. Con il decotto si fanno gargarismi in caso di mal di gola, mentre esternamente la pianta viene utilizzata per tonificare la pelle della testa, impedire la caduta dei capelli e allontanare la forfora (G. Antonelli, 1941, p. 71).
Nella medicina domestica godeva anche fama di pianta ad azione eupeptica ed emmenagoga e l’infuso era considerato anche un buon antireumatico. IN SARDEGNA
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ndrea Manca Dell’Arca (1780) annotava: «Il capelvenere, così nominato, perché applicando il suo decotto fa rinascer i capelli di buon colore, si chiama da’ Sardi pimpinella, confondendo il nome dell’altra pianta … prendendo del suo sciroppo e decozione, vale per li catarri e difetti del petto, siccome alle oppilazioni del fegato e milza» (A. Manca Dell’Arca, 2000, p. 255). Era diffuso l’impiego della pianta anche come regolatore del ciclo mestruale, in particolare in caso di ritardi. Era allora consigliato, ad esempio, un decotto preparato con capelvenere, un pezzo di radice di corbezzolo e di agrifoglio o lauro spinoso (Ilex aquifolium L.) (G. Dodero, 1999, p. 51). La pianta era altresì considerata efficace nei dolori a carico dell’apparato genitale femminile, in particolare nei dolori mestruali (dismenorrea) e nei dolori del parto. Si riteneva inoltre che il decotto somministrato ad alte dosi fosse abortivo. Il decotto era assunto anche come galattagogo e, con aggiunta di vino, in caso di frigidità. L’infuso e lo sciroppo di capelvenere «sogliono prescriversi alle puerpere» per i dolori al seno durante l’allattamento (G. Dodero, 1999, p. 51). Altrettanto conosciuta era l’azione espettorante e anticatarrale della pianta, utilizzata in caso di raffreddore, raucedine, ecc. Decotti e infusi
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erano assunti come depurativi del sangue, per normalizzare la pressione arteriosa (azione diuretica) e, in alcune zone (Lotzorai e Villaputzu), come antianemico. In questo caso «si beve al mattino a digiuno … il decotto di fronda previamente esposto per tutta la notte all’aperto (“a serenài”)» (A.D. Atzei, 2003, p. 9). Esternamente il decotto “di fronda” era usato nel mal di denti, nei dolori reumatici, nelle coliche intestinali (azione astringente) e risultava «ottimo antidoto per i dolori del seno durante l’allattamento» (A.D. Atzei, 2003, p. 9). Il decotto era anche impiegato in frizioni per il cuoio capelluto, come antiforfora, sgrassante e rafforzante dei capelli. Le foglie fresche pestate, e a volte mescolate con olio, erano applicate sulle ferite per favorire la cicatrizzazione o la maturazione dei foruncoli. Capelvenere, viole, orzo, senna, polipodio, cassia e altri vegetali rientravano nella composizione di un elettuario lenitivo che, grazie alla blanda azione lassativa e depurativa, preparava l’organismo malato ai successivi trattamenti terapeutici (G. Dodero, 1999, p. 51).
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI La letteratura non segnala effetti secondari e tossici alle dosi terapeutiche, a meno che non vi sia una particolare sensibilità individuale. FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA Infuso 1,5 g di droga per tazza d’acqua bollente. Bere più tazze al giorno. Decotto (uso esterno) 5-10%. Adiantum c.v. T.M. 40 gocce, diluite in acqua, 2-3 volte al dì. FORMULAZIONI Sciroppo per la tosse Adiantum c.v. 100 g Acqua distillata 1550 g Zucchero bianco q.b. Versare l’acqua bollente sulla pianta, lasciare infondere sei ore in un recipiente chiuso; filtrare con pressione, lasciare riposare, decantare. Aggiungere lo zucchero nella proporzione di 180 per 100 di infuso. Portare per qualche minuto a ebollizione e filtrare. S / Assumere a cucchiai più volte al dì. Tintura di capelvenere (uso esterno) «La tintura si prepara mettendo a macerare in una bottiglietta 20 g di fronde di capelvenere essiccate con 100 ml di rhum a 40°. Dopo una settimana si filtra e si travasa il liquido in un flaconcino di vetro scuro. Per frizioni si applica qualche goccia di tintura sul cuoio capelluto e si massaggia. Non occorre lavare i capelli prima o dopo l’applicazione» (C. Cagnola, A.M. Botticelli, 1998, p. 105).
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Agrimonia eupatoria L.
STORIA
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l nome Agrimonia sarebbe una corruzione di Argemone (riferito a una specie di papavero), pianta in grado di guarire le ulcere dell’occhio (in greco chiamate argema): del resto le proprietà oftalmiche della pianta sono riportate in vari erbari del passato e testi di medicina antica. Trotula de Ruggiero (sec. XI), donna medico della Scuola Salernitana (la prima e più importante istituzione medica d’Europa
Agrimonia eupatoria L. Nome comune Agrimonia Nome sardo Erba mela Nome francese Aigremoine Nome inglese Agrimony Famiglia Rosaceae Parte utilizzata foglie, sommità fiorite Costituenti principali acido ursolico e altri triterpeni minori (1,5% nelle foglie) tannini catechici (4-10%), fitosteroli, flavonoidi, olio essenziale acido silicico (sino al 12%), acido nicotinico, acido ascorbico, ecc. vitamine K e B1 Attività principali coleretica e colagoga; ipoglicemizzante antiallergica; antinfiammatoria e analgesica decongestionante, antisettica e vulneraria (uso topico) Impiego terapeutico stati allergici (congiuntiviti, orticaria, dermopatie pruriginose, ecc.) gastroenteriti; epatopatie faringiti, stomatiti
all’inizio del Medioevo) nel LIX capitolo della sua opera De mulierum passionibus (sulle malattie delle donne) così scriveva: «Se la fistola si trova in una zona tale che la sua cavità può raggiungere gli occhi … è incurabile … taluni, tuttavia, affermano che una fistola del genere può esser unta solo con Agrimonia». Pietro Ispano (sec. XIII), annoverato tra i grandi medici medievali, salito al soglio pontificio con il nome di Giovanni XXI, autore di un trattato medico che conobbe enorme fortuna, il Thesaurus Pauperum, riteneva l’agrimonia simbolo di gratitudine e riconoscenza perché in grado di preservare gli occhi che «sono guida del corpo» e il vedere che è «Paradiso dell’anima uscente dalli occhi».
Eupatoria (Eupatorium) farebbe riferimento a Mitridate Eupatore (I-II sec. a.C.), re del Ponto, che per primo avrebbe introdotto l’uso terapeutico della pianta. Per altri sarebbe una corruzione latina del greco epatorion, da epar (fegato): niente di più attendibile visto che l’uso principale della pianta era proprio rivolto alla cura delle malattie epatiche. Culpeper, erborista e astrologo inglese (1616-1654), scriveva: «Il fegato è il formatore del sangue, ed il sangue colui che nutre il corpo, e l’agrimonia è quella che fortifica il fegato». Ancora altre sono le virtù terapeutiche attribuite alla pianta dalla tradizione: grazie, per esempio, alle proprietà astringenti e amaro-toniche le veniva riconosciuta una benefica influenza a livello dell’apparato digerente e, nel 1615, Jacques Daléchamp nella Histoire générale des plantes consigliava l’infuso teiforme che, oltre ad avere il vantaggio di presentarsi «plaisante, parce qu’elle a la couleur du vin clairet», costituiva una bevanda astringente, leggermente aromatica, adatta ai malati affetti da disturbi digestivi accompagnati da diarrea. Nel 1640 John Parkinson nel Theatrum Botanicum, oltre a segnalare che dalla radice si poteva ottenere una tinta gialla molto vivace, ne conferma le diffuse applicazioni mediche: «Con essa si cura principalmente il fegato e le farmacie dei nostri paesi, principalmente quelle di Londra, al giorno d’oggi fanno uso di questa prima specie di Agrimonia» (G. Nicolini, A. Moreschi, 1982, p. 24). Nel Manoscritto Aldini 211 della Biblioteca di Pavia si legge, a proposito della supposta efficacia nel morso dei serpenti: «Raccogli due dramme di Agrimonia e bevila con vino
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caldo e applicala sopra il morso serpentino e questo guarirà». Tale proprietà doveva essere molto apprezzata se in diversi antichi codici la pianta veniva raffigurata con a fianco un serpente. Gli antichi trattati parlano dell’utilizzo della pianta nelle malattie mentali. A questo proposito Ildegarda di Bingen (1098-1179) scriveva: Se un uomo perde l’intelligenza e la ragione, si cominci col tagliargli i capelli, dopo si faccia bollire l’Agrimonia nell’acqua e con quest’acqua gli si lavi la testa; un panno contenente la stessa erba gli sarà applicato sul cuore fino a che egli prova un deliquio, gliela si metterà allora sulla fronte e nelle tempie: l’intelligenza e la ragione saranno purificate e il malato sarà libero dalla sua follia (A. Mereu, 1985b).
Dello stesso avviso era il Manoscritto Aldini 211, che indica il decotto nella cura di coloro che sono «usciti di senno». Accanto al potere di preservare la mente la pianta affiancava quello di preservare il corpo, tanto da essere considerata tra le piante vulnerarie per eccellenza. Questo potere è magnificato dal Lemery che include l’agrimonia tra i componenti dell’Acqua vulneraria d’Archibugiata, così chiamata perché in grado di guarire i colpi di moschetto e d’archibugio (A. Mereu, 1985b). UTILIZZO MEDICO
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egli anni Quaranta del Novecento molte furono le piante studiate approfonditamente presso le varie sedi universitarie, cliniche mediche, ecc. Tali ricerche sono state, purtroppo, dimenticate e solo un paziente e lungo lavoro
di recupero potrebbe portare alla luce una mole di lavoro notevole per interesse e serietà scientifica, in grado di fornire una valida base per la ricerca di soluzioni terapeutiche attuali. Fra questi studi, spiccano per originalità e completezza scientifica quelli effettuati dal dottor Leonardo Santini: condotti tramite esperienze farmacologiche e cliniche, che ne potessero attestare la validità d’impiego, erano volti a convalidare l’efficacia terapeutica dell’agrimonia. Santini partì dall’osservazione che essa veniva usata in alcune regioni italiane in modo empirico ma con buoni risultati. La medicina popolare attribuisce infatti alla pianta svariate attività terapeutiche, di cui la più conosciuta è una moderata azione coleretica e colagoga, la meno nota è quella antiallergica e ipoglicemizzante. L’agrimonia infatti era utilizzata esternamente come decongestionante, risolvente e sedativo in processi flogistici, anche di natura allergica, a carico della congiuntiva, dell’orofaringe, e in svariate dermopatie nelle quali manifestava anche un’azione antipruriginosa. Per uso interno era impiegata come antispastico, sedativo nervoso e depurativo in senso lato. Gli studi del dottor Santini confermarono le indicazioni terapeutiche della pianta e la sua ottima tollerabilità. In tutti i casi da lui trattati nessun paziente aveva accusato sintomi secondari sgradevoli, al contrario i soggetti presentavano una buona tolleranza gastrica: «Senso di euforia, di invigorimento e miglioramento della cenestesi, al punto da poter definire il nuovo farmaco il realizzatore dell’omeostasi biologica» (E. Campanini, 2004, p. 23). La pianta presentava
un’interessante attività antiallergica per cui il dottor Santini ne auspicava l’uso nelle dermopatie pruriginose, nelle forme orticarioidi, nelle congiuntiviti, ecc., così come nelle patologie che vedevano alla loro base una condizione allergica o disreattiva, quali le colecistopatie, le cefalee, le emicranie, alcune forme di insonnia, ecc. Santini affermava a questo proposito: Qualunque sia la modalità d’azione della droga l’attività antiallergica si è resa ben manifesta in tutti i casi trattati … si potrebbe considerare la droga un farmaco antireazionale simile all’ACTH ed al cortisone e come questi due capace di modificare quadri clinici diversi aventi però in comune il substrato patogenetico pur variando l’etiologia (E. Campanini, 2004, p. 23).
CURIOSITÀ • Nicholas Culpeper (1616-1654) collocava l’agrimonia sotto il dominio di Giove in quanto dal carattere e dalle virtù attribuite al sommo dio dell’Olimpo pagano provengono le sue virtù. Giove è la somma sapienza e l’agrimonia fa divenire sapienti. Giove è signore di potenza e il potere malefico dei veleni niente può contro la pianta. Le piante dedicate a Giove, inoltre, avevano il potere di guarire la vista e le malattie dei polmoni. Nella concezione cosmica del corpo umano il pianeta Giove è quello che domina il fegato. • «Le sue molteplici virtù terapeutiche hanno imposto questa pianta come simbolo della salvezza nonché di augurio di una pronta guarigione; questo auspicio si esprimeva, nei secoli scorsi, portando agli ammalati un mazzo di fiori di A. eupatoria» (G. Nicolini, A. Moreschi, 1982).
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Dal punto di vista chimico è stato messo in evidenza come vi siano strette relazioni tra steroidi e triterpeni: quest’ultimi (presenti nella pianta) possono essere considerati come preormoni in grado di essere trasformati nell’organismo, mediante processi di rielaborazione, in ormoni steroidei (ad azione corticosurrenalica) quando ne esiste uno stato carenziale: l’ipotesi di Santini può essere considerata, pertanto, «ardita ma non certo inverosimile» (E. Campanini, 2004, p. 23). La presenza, oltre ai triterpeni, di tannini, flavonoidi, olio essenziale, ecc. concorre alle proprietà antinfiammatorie, cicatrizzanti e antisettiche. Ciò conferma l’antico e perpetrato uso della pianta, sotto forma di decotto per gargarismi, nel trattamento di faringiti, faringotonsilliti, stomatiti, ove all’azione antisettica, dovuta all’olio essenziale, affianca proprietà antalgiche. Per quanto riguarda l’azione ipoglicemizzante, la prima segnalazione pubblicata su una rivista rivolta alla classe medica si deve al dottor Luigi Ferrannini (1942): «Le sue foglie raccolte preferibilmente prima della fioritura, dal giugno all’agosto, contengono un olio essenziale ad azione astringente. Se ne usa l’infuso al 2% e l’estratto fluido in dose di 2-3 cc al giorno» (E. Campanini, 2004, p. 23). L’autore attribuiva l’attività ipoglicemizzante della pianta alla presenza delle glucochinine, principi per i quali ipotizzava un’azione diretta sul ricambio dei carboidrati. Secondo il medico francese Henri Leclerc (XX sec.), una malattia che risponde in modo favorevole all’impiego di agrimonia sarebbe l’incontinenza
FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA Infuso caldo 1,5 g di droga per tazza. Decotto 1,5 g di droga per tazza. Agrimonia eupatoria T.M. 50 gocce, diluite in acqua, 2-3 volte al dì. Estratto secco 100-200 mg/cps; 1 cps tre volte al dì. FORMULAZIONI Sovrappeso (con dermopatia) Agrimonia e. T.M. Cynara s. T.M. Spiraea u. T.M. ana parti S / 50 gocce, diluite in acqua, tre volte al dì. Faringite, raucedine, afonia (per gargarismi) Agrimonia foglie essiccate 100 g Acqua 1000 g «Far bollire fino a riduzione di ¾ e aggiungere poi 50 g di miele rosato» (H. Leclerc, 1983, p. 112). Faringite, raucedine, afonia (Pagliani) Decotto delle foglie (10%) con miele rosato e aceto, in gargarismi, 4-5 volte al giorno.
urinaria che si osserva nelle donne in menopausa «senza che per altro si possa riscontrare una qualche precisa lesione a livello dell’apparato genito-urinario». La presenza nel fitocomplesso di tannini, triterpeni, olio essenziale e silicio potrebbe giustificare in parte la validità di tale segnalazione che necessita, tuttavia, di ulteriori verifiche. A questo punto risultano quanto mai attuali e fonte di riflessione le parole del prof. Benigni: Nello studio delle piante medicinali bisogna andar molto cauti prima di accogliere come vere tutte le virtù che vengono loro attribuite, senza che siano state confermate prima da rigorose prove farmacologiche e cliniche. Ecco perché il connubio tra la Farmacologia e la Clinica è indispensabile in questo genere di studi … (R. Benigni, 1942). MEDICINA POPOLARE
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infuso, dal sapore gradevole, era impiegato «nelle emicranie, nelle coliche ventose, nelle indigestioni, nei vomiti e nella tosse … si usa con vantaggio anche dai malati di asma, nel
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TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI La letteratura non segnala effetti secondari e tossici alle dosi terapeutiche, a meno che non vi sia una particolare sensibilità individuale. Possibile interazione con farmaci ipoglicemizzanti orali (vedi Utilizzo medico). CURIOSITÀ • L’enolito di H. Leclerc. Il dottor Henri Leclerc in un suo scritto ricorda come, durante la prima guerra mondiale, in veste di ufficiale medico ebbe la possibilità di constatare l’azione benefica che l’agrimonia esercitava sulle ferite infette. Nell’agosto del 1914, nella ritirata dalla Marna, avendo a disposizione solamente grosse quantità di vino rosso, vi fece bollire rizomi e foglie di agrimonia che aveva appositamente raccolto. L’enolito preparato con 500 g di pianta in 10 litri di vino gli servì egregiamente per lavare e medicare le ferite infettate dal terriccio, brandelli di stoffa, ecc. Ricordando tra l’altro l’osservazione di un autore anonimo che aveva guarito con succo di agrimonia un uomo affetto da ulcera alla gamba, «ove i vermi pullulavano provocando dolori atroci», curò in attesa dell’ospedalizzazione un soldato che presentava una piaga alla bocca, ove alcune larve cominciavano a produrre un doloroso prurito. Con questo enolito riuscì a sbarazzarlo dagli “indesiderati ospiti”. Sempre a Leclerc si deve un’annotazione relativa all’utilizzo della pianta nelle faringiti, angine, ecc. L’autore, infatti, racconta di aver curato con successo alcune monache di clausura, assai conosciute per la perfetta esecuzione del canto gregoriano, le quali, essendo affette da faringite granulosa, trassero giovamento dalla prescrizione di gargarismi a base di decotto di foglie di agrimonia (100 g in 1000 di acqua) addizionato con miele rosato.
catarro cronico polmonare, negl’ingorghi dei visceri e nell’ematuria». L’infuso era molto stimato inoltre come bibita astringente e aromatica nei disturbi digestivi con diarrea. Il decotto era impiegato sotto forma di gargarismi in caso di infiammazioni della gola e della bocca (faringiti, stomatiti, ecc.). Per uso esterno venivano fatti cataplasmi «un po’ consistenti» considerati molto efficaci «nelle contusioni, nel risolvere i tumori infiammati e nelle storte» ove lo stesso cataplasma «si applica il più caldo possibile; si ottiene facendo cuocere, a fuoco dolce, parti uguali di crusca di frumento, foglie di agrimonia sminuzzata e aceto; si rinnova questo cataplasma mattina e sera fino a guarigione». Pediluvi caldi del decotto erano considerati ottimi per «togliere la stanchezza dei piedi» (G. Antonelli, 1941, pp. 249-250). In caso di diarrea veniva consigliato un decotto preparato con 50 g di foglie e fiori in un litro di acqua. Lo stesso decotto veniva impiegato per uso esterno contro le lussazioni e le contusioni (L. Pagliani, 1928, p. 17).
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a medicina popolare sarda utilizzava la pianta per trattare disturbi a carico del fegato (epatite, insufficienza epatica, calcolosi biliare) e come astringente generico per curare faringiti, raucedini ma anche emorragie, alvo diarroico, ecc. Per quanto riguarda le faringiti è interessante notare che il vocabolo sardo erba mela deriverebbe dal greco melos = musica, a conferma dell’antica usanza di impiegare il decotto di agrimonia nel trattamento delle faringiti croniche, in particolare per gli oratori e i cantanti. Interessante, infine, è la segnalazione dell’impiego della pianta come antalgico nelle gastralgie e negli spasmi colici di varia natura (decozione) e nell’ansia. Nell’oristanese il decotto godeva fama di antipiretico e antimalarico. La pianta era impiegata anche come antalgica in caso di coliche addominali e nelle gastralgie: «Si beveva il brodo ottenuto cuocendo la pianta» (A.D. Atzei, 2003, p. 373). Cossu segnala anche l’uso popolare come pianta bechica e pettorale (A. Cossu, 1978, p. 17).
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Allium sativum L.
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Allium sativum L. Nome comune Aglio (domestico o ortense) Nome sardo Agliu, Allu, Azu, Aggiu Nome francese Ail Nome inglese Garlic Famiglia Liliaceae Parte utilizzata bulbi (bulbilli) Costituenti principali composti solforati (bulbo integro: S-allil-cisteina solfossido, S-allil-mercaptocisteina, g-glutamil-S-allilcisteina) vitamine A e B, C; sali minerali (selenio); zuccheri (fructani) saponosidi steroidici e triterpenici; flavonoidi (tracce) principi ad attività antibiotica (garlicina e alisina) Attività principali ipotensivante e ipolipemizzante fibrinolitica-antiaggregante piastrinica antisettica e immunostimolante Impiego terapeutico ipercolesterolemia e ipertensione
pianta notissima fin dai tempi più remoti sia per il suo uso culinario sia per quello terapeutico. Il nome Allium deriverebbe dalla parola celtica all = caldo, bruciante, in allusione al sapore, mentre sativum è la contrazione di seminativum, che si può cioè seminare. «Linneo indica la Sicilia come la patria della pianta. Kunth indica l’Egitto. De Candolle afferma che l’unico paese dove l’Aglio è stato trovato allo stato selvatico, in maniera ben certa, è il deserto dei Kirghisi di Soongaria. Wallich afferma di averlo trovato spontaneo in India. Coltivato da tempo antichissimo» (R. Benigni et al., 1962-64, p. 21). Come sottolineava il famoso indianista Angelo De Gubernatis (1840-1913) le proprietà attribuite all’aglio sono riassunte dal suo nome sanscrito Bhutagna che vuol dire «uccisore di mostri» e, nel passato, era considerato «mostruoso» tutto ciò che poteva nuocere alla salute. I Celti lo usavano come preservativo contro i malefizi. Anche nell’Odissea compare l’uso dell’aglio che, non a caso, ha la proprietà di vincere gli effetti dei filtri magici di Circe: secondo alcuni, infatti, la pianta Moly donata da Ermes ad Ulisse per vincere l’incantesimo della maga, non sarebbe che una varietà di aglio. L’aglio era considerato un prezioso rimedio e già nella
Bibbia, a riprova dell’alta considerazione in cui era tenuto, è riportato che veniva fatto mangiare ai mietitori per fortificarli e preservarli dalle epidemie; Plinio, invece, ci tramanda che gli Egizi divinizzarono la pianta giungendo a forme di adorazione nelle pratiche di raccolta e coltivazione: ironizzando su tale usanza Giovenale (I sec. d.C.) commenta nelle Satire (XV, v. 9): «O santa gente alla quale nascono di questi dei nell’orto». Erodoto (490-424 a.C.) narra che l’aglio, unitamente alla cipolla, era l’alimento principale degli operai impegnati nella costruzione della piramide di Cheope e che, su questa, era riportato in caratteri egizi l’importo speso dal Faraone per provvedere a tale alimentazione: somma notevole per un ammontare di 1600 talenti d’argento che, secondo lo storico della medicina Arturo Castiglioni, corrispondevano a circa dodici milioni di lire italiane del 1934. Gli Ateniesi, scrive Scotti, «erano grandi consumatori di aglio, e quei lottatori, prima di scendere nell’arena, ne mangiavano diversi spicchi, per infondersi coraggio e forza» (G. Scotti, 1872, p. 31). Nell’antica medicina greca l’aglio era rimedio molto noto e negli scritti di Ippocrate, il padre della medicina, è spesso citato e consigliato per l’attività diuretica, lassativa, aperitiva, nel trattamento delle affezioni polmonari e per facilitare il flusso mestruale. Ippocrate lo considerava, inoltre, un ottimo condimento e ne consigliava l’uso nelle eccessive libagioni, «quando si berrà troppo, oppure in stato di ebbrezza». I contemporanei di Ippocrate dovettero prendere alla lettera i suoi consigli visto che, a causa
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del cospicuo consumo di aglio, venne emanata una delibera ufficiale che impediva l’ingresso nei templi di Cibele a coloro che ne risentivano nell’alito. Stando ad alcune cronache del tempo costoro erano così numerosi che le cerimonie religiose si svolgevano spesso in templi semideserti (A. Mereu, 1986a). «Presso i Romani ne mangiava il popolo; ma i ricchi lo sdegnavano; e l’epicureo Orazio lo aborriva come veleno: cicutis allium nocentius (che micidiale è più della cicuta)» (G. Scotti, 1872, p. 31). Tra gli autori arabi, Avicenna (980-1037 d.C.) insiste particolarmente sul valore dell’aglio per rendere innocue le acque cattive e, oltre che ad attribuirgli efficacia come rimedio contro il morso delle vipere, vanta la decozione come ottimo rimedio per calmare i dolori di testa provocati dal freddo. Sull’utilizzo dell’aglio come antidoto, fa cenno il Regimen sanitatis della Scuola Salernitana (XI sec.) dove, per quanto riguarda i contravveleni, dice: «Contro i mortali veleni / buoni antidoti son questi / ruta, rafano, aglio, vera teriaca / noci e pere». Trotula de Ruggiero (XI sec.), donna medico della suddetta Scuola, annovera l’aglio tra gli alimenti indicati per le donne che hanno scarse mestruazioni e santa Ildegarda (XII sec.) lo raccomanda quale ottimo rimedio nella cura delle ulcere. In questo periodo, grazie al fatto che la coltivazione su vasta scala era stata raccomandata da Carlo Magno (795) nei Capitolari, l’aglio era largamente coltivato nei monasteri, ma le sue applicazioni rimanevano ancorate alle indicazioni degli antichi. Nel Medioevo, l’aglio fu usato per combattere febbre, sordità, come antisettico e
soprattutto come antidoto nella lotta contro la peste. Nel XVII secolo le epidemie erano molto frequenti e come difesa contro i “miasmi” vennero escogitati vari mezzi di difesa: tra questi le palle odorifere, sfere metalliche traforate che, all’interno, contenevano sostanze aromatiche e profumi atti a
FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA Aglio fresco 2-5 g al dì. Polvere essiccata 0,4-1,2 g al dì. Olio 2-5 mg al dì. Estratto secco 200 -300 mg/cps gastroresistenti; 1 cps tre volte al dì. Allium sativum T.M. 30 gocce, diluite in acqua, 2-3 volte al giorno. FORMULAZIONI Gocce ipotensivanti (come coadiuvante) Allium s. T.M. Crataegus o. T.M. Olea e. T.M. ana parti S / 30 gocce, 2-3 volte al dì. Gocce ipocolesterolemizzanti (come coadiuvante) Allium s. T.M. Cynara s. T.M. ana parti S / 30 gocce, 2-3 volte al dì. Dispepsia fermentativa Spicchio d’aglio (bulbillo) S / Mangiarne tre al giorno. Sciroppo «Fare macerare parti uguali di aglio tritato o pestato e di acqua, e aggiungere poi due parti di zucchero, in modo che sia di consistenza sciropposa, regolandosi nella quantità di acqua: 1-2 cucchiai al giorno» (G. Antonelli, 1941, p. 40).
prevenire le pestilenze. Risale a questo periodo un particolare abbigliamento adottato dai medici che l’iconografia del tempo ci ha tramandato: una lunga veste cerata copriva la persona lasciando libere solo le mani, rivestite da guanti; il volto era coperto da una maschera che chiudeva completamente il capo, munita sul davanti di un lungo rostro atto a contenere delle spugne imbevute di sostanze ritenute in grado di vincere la peste. Tra queste sostanze c’era anche l’aglio. In tempi vicini a noi, l’aglio ha conosciuto alterne fortune che determinarono un lento declino del suo utilizzo terapeutico. Nel 1858 il chimico e biologo Luis Pasteur scoprì le proprietà antibiotiche della pianta, dichiarando la sua efficacia nel bloccare la riproduzione di numerosi batteri. Nel 1918 durante l’influenza spagnola, altrimenti conosciuta come la “Grande Influenza”, pandemia influenzale che uccise milioni di persone, in molti paesi si ricorse all’uso dell’aglio per cercare di arginare l’epidemia. UTILIZZO MEDICO
L
a droga è costituita dai bulbilli (spicchi) di aglio freschi o disseccati accuratamente. Costituente principale dell’aglio fresco non contuso è l’alliina. Quando i tessuti sono danneggiati l’alliina (inattiva) viene degradata dall’enzima alliinasi in allicina (attiva), dotata di attività antibatterica. L’ossidazione all’aria dell’alliicina porta al disolfuro di diallile, costituente maggioritario dell’essenza, che
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impartisce il caratteristico odore (J. Bruneton, 1999, p. 181) e di altre sostanze tra cui gli ajoeni, le vinilditiine. La fitoterapia attribuisce all’aglio numerose virtù terapeutiche alcune delle quali sono state convalidate da studi scientifici (J. Bruneton, 1999, p. 180): è il caso delle proprietà antibatteriche, grazie alle quali manifesta attività antisettica ed antibiotica, in particolare a livello dell’apparato respiratorio e gastroenterico, e antifungine (soprattutto per la Candida albicans). Attualmente la principale indicazione terapeutica riguarda il trattamento coadiuvante dell’ipertensione e dell’ipercolesterolemia. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità «… può essere usato come adiuvante della dieta nel trattamento dell’iperlipidemia e nella prevenzione dell’aterosclerosi vascolare (etàdipendente) e può essere utile nel trattamento dell’ipertensione di tipo lieve» (World Health Organization (WHO), 1999, pp. 5-15). L’ESCOP (European Scientific Cooperative on Phytotherapy) riconosce anche il suo impiego per ristabilire una buona circolazione in caso di insufficienza vascolare periferica e trattare le infezioni delle vie respiratorie. Una recente revisione degli studi clinici effettuati e pubblicati ha dimostrato la superiorità della pianta rispetto al placebo nel diminuire i livelli di colesterolo se non troppo elevati (C. Stevinson et al., 2000). L’effetto ipotensore, che ne fa un valido coadiuvante nel trattamento dell’ipertensione essenziale, sarebbe dovuto ai derivati tiocianici e all’inibizione nella secrezione di catecolamine. Sono presenti, inoltre, proprietà diuretiche attribuibili soprattutto
ai fruttosani e all’olio essenziale. Sono state dimostrate anche proprietà antiaggreganti piastriniche e fibrinolitiche (attività simile all’aspirina: riduce il rischio di trombosi e quindi di infarto). Tale attività sarebbe legata agli ajoeni che interagiscono direttamente con i recettori piastrinici del fibrinogeno e della lipossigenasi. Il disolfuro di diallile, in particolare, è un inibitore della trombassano-sintetasi, enzima che svolge un ruolo importante nella formazione del trombassano A2, potente aggregante piastrinico. Preparati a base di aglio presentano, inoltre, per la ricchezza in zolfo, un’interessante azione antiossidante per inibizione dell’ossidazione dell’acido arachidonico. Scrive Schultz a questo proposito: «La formazione dei radicali liberi derivati dall’ossigeno, che porta alla perossidazione lipidica, potrebbe rivestire un ruolo chiave nella patogenesi dell’aterosclerosi e pertanto gli effetti antiossidanti dell’aglio potrebbero contribuire alle sue proprietà antiaterosclerotiche» (V. Schulz et al., 2003, p. 123). Da qui l’importanza di inserire nell’alimentazione quotidiana un pool di agenti antiossidanti, fra cui anche l’aglio. A livello dell’apparato digerente, estratti di aglio risultano possedere azione stomachica, spasmolitica, eupeptica. Ai preparati a base di aglio viene attribuita infatti una notevole azione colagoga e coleretica, sono in grado cioè di stimolare il flusso biliare verso l’intestino e la secrezione della bile da parte delle cellule epatiche. La pianta può essere inoltre considerata «come una delle più attive, fra le droghe atte ad aumentare la secrezione gastrica» (R. Benigni
et al., 1962-64, p. 27). L’attività antisettica che si esplica a livello della flora patogena intestinale ne fa un ottimo disinfettante intestinale utile nelle infezioni intestinali acute e croniche. In vitro, l’allicina, diluita 1/1000, risulta ancora attiva nei confronti di stafilococchi, streptococchi, batteri intestinali (E. Campanini, 2004, p. 35). Combatte inoltre efficacemente il meteorismo grazie all’attività antispasmodica ed antifermentativa (allicina). La pianta, la cui essenza viene eliminata in gran parte attraverso l’apparato respiratorio, è impiegata anche come espettorante e antisettico polmonare. Manifesta inoltre un’azione spasmolitica sulla muscolatura liscia e aumento della secrezione bronchiale. Secondo Henri Leclerc (XX sec.) agirebbe efficacemente nella pertosse ove determina, in pochi giorni, un miglioramento con diminuzione degli attacchi pertussoidi e del vomito, ripresa dell’appetito e miglioramento considerevole dello stato generale. Una segnalazione particolare è quella che vede nell’aglio «un eccellente medicamento contro
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i disturbi cronici da nicotina» (E. Meyer, 1935, p. 35). Secondo l’autore l’aglio sopprime i disturbi cardiaci e nervosi dovuti alla nicotina, le manifestazioni catarrali dei fumatori e regola le funzioni intestinali combattendo la diarrea, risultando pertanto uno specifico medicamento contro il complesso sintomatico dell’avvelenamento da nicotina. Attualmente, inoltre, sono in corso studi che indagano le proprietà immunostimolanti ed antitumorali attribuite alla pianta. Dati epidemiologici dimostrano che la consumazione regolare di aglio (e cipolla) è inversamente correlata al rischio di cancro gastrico: ne è conferma la rarità di questa patologia nella popolazione cinese che fa largo consumo di aglio. Tali studi hanno confermato queste osservazioni segnalando una significativa riduzione dei decessi causati da neoplasie maligne. Un importante componente presente nel fitocomplesso responsabile dell’attività antitumorale sarebbe l’S-allil-cisteina (D.L. Lamm, D.R. Riggs, 2000; J.A. Milner, 1996). L’aglio sarebbe dotato di un’azione piuttosto marcata e durevole sulla glicemia e sulla
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI Raramente possono manifestarsi, in soggetti predisposti, reazioni di tipo allergico quali asma e dermatite. A livello dell’apparato digerente oltre all’alito pesante possono comparire turbe gastriche e in soggetti affetti da ipercloridria, per dosaggi elevati, gastrite e ulcera gastrica. È bene tenere presente che la sua somministrazione determina l’allungamento del tempo di coagulazione. L’impiego dell’aglio, anche a dosaggi terapeutici, è controindicato o quantomeno deve essere attentamente vagliato, nei pazienti in trattamento con farmaci anticoagulanti e con gli inibitori dell’aggregazione piastrinica (warfarin, aspirina, ecc.) o con farmaci antiinfiammatori non steroidei. Si consiglia di sospendere il trattamento prima di un intervento chirurgico (può prolungare il tempo di sanguinamento). È buona norma sospenderne l’assunzione durante la gravidanza e l’allattamento. I principi attivi dell’aglio vengono eliminati attraverso l’apparato respiratorio, la secrezione urinaria, sudorifera e lattea. Si consiglia cautela nell’utilizzo per via topica: in seguito a dosaggio elevato o per contatto prolungato, può manifestare azione vescicatoria e necrotizzante.
glicosuria che contribuirebbe ad abbassare (R. Benigni et al., 1962-64, p. 29): viene così confermato quanto segnalato dalla tradizione popolare. Utilizzato per via esterna, manifesta un’azione fortemente rubefacente che può, per un dosaggio elevato o per contatto prolungato, diventare vescicatoria e necrotizzante: per questo motivo i preparati per uso topico devono essere attentamente dosati. L’olio canforato, composto da una miscela di due parti di olio canforato e una di aglio finemente triturato serve, per frizioni esterne, nei soggetti affetti da dolori reumatici in quanto procura in genere un beneficio immediato e non passeggero. Paul Fournier ci ricorda che, contro la pertosse e la tosse, può essere utilizzato lo stesso olio frizionando la pianta dei piedi: tale indicazione è testimonianza, molto probabilmente, di un antico sapere in quanto proprio sulla pianta del piede esistono precisi punti che vengono stimolati dagli agopuntori per calmare la tosse (P. Fournier, 1947, vol. I, p. 49). L’aglio, inoltre, viene impiegato tradizionalmente nel trattamento locale delle verruche. Studi clinici recenti sembrano confermare le proprietà antifungine dell’aglio in applicazione topica nel piede d’atleta (infezione fungina che di solito colpisce la pelle tra le dita dei piedi) (Ledezma E., Marcano K. et al., 2000). MEDICINA POPOLARE
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aglio era uno stimolante dell’appetito e della digestione ed era considerato utile per espellere i gas intestinali. Fra le numerose indicazioni segnalate dalla medicina popolare si ricordano
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l’impiego del succo e degli estratti per il trattamento degli ossiuri: veniva somministrato pestando alcuni spicchi di aglio nel vino e facendolo bere a cucchiai più volte il giorno, oppure facendone bollire alcuni spicchi con il latte o con il brodo. Erano anche note le spiccate proprietà antisettiche per cui era considerato come ottimo preservativo nelle malattie infettive e un valido disinfettante gastro-enterico. Poiché la sua essenza viene eliminata attraverso l’apparato respiratorio, la medicina popolare impiegava preparati a base di aglio (alcolati, vini, ecc.), per trattare malattie delle vie respiratorie anche gravi, come la tubercolosi polmonare. L’aglio era impiegato in caso di ipertensione (macerazione in alcol) ed era considerato «eccellente per eliminare la renella e i calcoli urinari e la colica ventosa, prendendolo, per uso interno, bollito nel latte, in lavande, o applicandolo all’esterno sull’ombelico; serve, così applicato, anche per uccidere i vermi dei bambini … Il succo di aglio, mescolato con olio di oliva o di noce, è eccellente per le scottature; le radici di aglio o gli spicchi, pestati in un mortaio con un poco di olio di oliva, che vi si unisce a poco a poco, e si riduce a forma di unguento, fa cadere i calli ai piedi, ponendolo sopra; e inoltre il sugo di aglio, mescolato con miele e burro, non salato, guarisce la tigna e la rogna la più ribelle… Di più i cataplasmi di aglio risolvono le ulceri indolenti, i tumori scrofolosi, gl’ingorghi delle articolazioni e fanno cadere le verruche» (G. Antonelli, 1941, p. 39). Veniva inoltre usato, come cataplasma di aglio crudo pestato, nei dolori reumatici per la sua azione rubefacente. Anche per le radici viene segnalato un uso
terapeutico: «Le sue radici sono diuretiche, e utili, unite specialmente con altre piante adatte, contro la renella e la pietra o calcolo, quando ancora è piccolo. Questo uso è antico» (G. Antonelli, 1941, p. 40). IN SARDEGNA
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ndrea Manca Dell’Arca (1780) riassume in poche righe l’uso della pianta:
Si conosce in Sardegna di due specie, una delle quali produce il capo a spicchi più grossi, e lo chiamano aglio catalano … L’aglio è un sano medicinale companatico de’ rustici, e s’impiega dalla gente civile per mischiarlo in molte vivande. Preso la mattina crudo avanti pasto ammazza i vermi o lombrici del corpo: cotto giova alla tosse e stretture di petto: il suo odore scaccia i serpi ed ogni animale velenoso, ed applicato sopra i morsi di essi animali o cani rabbiati, leva il veleno: mettendo aglio sopra la carne o frutti d’alberi, impedisce l’avvicinarsi mosche, o uccelli. I clisteri fatti con brodo di capi d’aglio, uniti colle foglie, guariscono i dolori colici … mettendo aglio nel vino, lo fa divenir aceto, il quale coll’odore veemente dell’aglio, è contrario
al veleno della cattiva aria, ed a tutti gli animali. È un gran preservativo dopo di aver bevuto acqua cattiva (A. Manca Dell’Arca, 2000, pp. 230-231).
La pianta era impiegata nell’ipertensione, sia mangiato crudo che assunto sotto forma di preparazioni alcoliche. Era conosciuto anche l’uso come ipoglicemizzante. In caso di emorroidi «ci si siede su un recipiente su cui viene bruciato aglio … Per arrestare l’emorragia dopo estrazione dentaria si facevano sciacqui con aceto bollito insieme con spicchio pestato … Come astringenteantiemorroidario … applicazione di tunica tostata e finemente tritata, amalgamata con olio di oliva» (A.D. Atzei, 2003, p. 275). In caso di congiuntivite si alitava sugli occhi subito dopo aver masticato e mangiato alcuni spicchi di aglio e per facilitare il parto venivano fatte fumigazioni «alle parti intime bruciando in un braciere le trecce di foglia essiccate» (A.D. Atzei, 2003, p. 276). Macerato nel vino era considerato antimalarico. I contadini sardi inserivano abbondanti quantitativi d’aglio
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CURIOSITÀ • Apicio, gastronomo romano (I sec. d.C.), nel De re coquinaria ci trasmette le ricette di due salse in cui rientra l’aglio: «Togliere la mollica ad un pane alessandrino e macerarlo nella posca (mistura di acqua e aceto bevuta abitualmente dai soldati). Tritare nel mortaio pepe, miele, menta, aglio, coriandro verde, formaggio vaccino salato, ed insieme acqua ed olio. Spargere sopra del ghiaccio, quindi servire in tavola». «Tritare un pizzico di comino, la metà di pepe e uno spicchio d’Aglio mondato. Cospargere di salsa di pesce; versare sopra goccia a goccia un po’ di olio. Questa salsa ristora assai lo stomaco pesante e fa digerire».
nella loro alimentazione per combattere e prevenire la malaria. In caso di febbre si strofinava la pianta dei piedi con spicchi di aglio in quanto «si riteneva che in tal modo la febbre sarebbe andata via dall’estremità inferiore del corpo». Diffuso era l’uso di strofinare l’aglio fresco sulle punture di insetti come disinfettante, sfiammante e antalgico e come risolvente per porri e verruche. In caso di eritemi veniva preparato un particolare oleolito, l’òllu minàu, preparato emulsionando «mediante energica e prolungata sbattitura, spicchi d’aglio tritato con acqua di fonte e olio di oliva vergine». La mexìna de ir cìnku kòsasa era un oleolito preparato con «olio puleggio, menta insulare, prezzemolo e aglio» e veniva applicato sullo stomaco per facilitare la digestione e in caso di dolori o coliche. (A.D. Atzei, 2003, p. 276). Veniva attuato anche un uso magico della pianta: nel Sulcis si praticava l’esorcismo, sa morridùra, contro le infezioni provocate dalle punture di insetti (zecche, ecc.), morsi di animali velenosi (ragni, serpenti, ecc.) utilizzando aglio schiacciato e, recitando formule magiche, si passava sulla zona colpita facendo una croce. In caso di dolori veniva impiegato un
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• «Andadu ses azu, torradu ses chibudda (Sei andato aglio e sei ritornato cipolla). Dicesi ad uno che non ha ottenuto il fine per cui era andato, o per aver tratto poco profitto dallo studio. Azu cun chibudda (Aglio con cipolla). Dicesi ad uno incoerente» (G. Spano, 1852). • Come “migliorare” l’alito dopo aver mangiato l’aglio: lavare i denti non ha alcun effetto sull’alito perché i composti volatili dello zolfo vengono eliminati attraverso le vie respiratorie e sono necessarie almeno tre ore prima che siano eliminati completamente. L’unico modo per ridurre un po’ questo disagio è quello di masticare prezzemolo, menta, chicchi di caffè o semi di anice.
oleolito, variamente preparato ma il più delle volte utilizzando aglio raccolto la notte di San Giovanni. Si applicava sulla zona sofferente recitando uno scongiuro e massaggiando «a forma di croce». Per lenire il prurito cutaneo «si effettuavano suffumigi con tuniche d’aglio preparate a treccia il giorno di S. Giovanni Battista, e che venivano appositamente conservate di anno in anno» (A.D. Atzei, 2003, p. 276). In caso di verminosi, gli spicchi di aglio venivano fatti mangiare crudi la mattina oppure erano somministrati sotto forma di macerazione in acqua, latte, vino, menta, assenzio, ecc. Questi preparati erano utilizzati anche per praticare clisteri. Lo spicchio di aglio veniva usato anche come supposta. Ai bambini a volte si faceva indossare una collana o corona fatta con spicchi di aglio. Vasto, infine, era il suo utilizzo nell’alimentazione: il pane poteva anche mancare ma l’aglio c’era sempre. Fra gli usi particolari viene segnalato l’impiego, insieme a fichi secchi, come correttivo del sapore dell’olio di lentischio per mitigarne l’asprezza. G. Dodero segnala che in Sardegna sono presenti anche: «l’aglio minuscolo o selvatico (Allium chamaemoly), l’aglio roseo o aglio di serpe (Allium roseum) e l’aglio pelosetto (Allium subhirsutum), detti allu ’e carroga (o ’e coga), l’aglio triquetro o
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angolare (Allium triquetrum) … L’Allium nigrum, aglio selvatico è detto lillu burdu. Il nome di allu de margiani è dato a un’Amarillidacea, il Leucojum aestivum, campanella maggiore» (G. Dodero, 2003, p. 22). Dodero include l’Allium parciflorum Viv., aglio a fioritura estiva, tra le specie endemiche dell’isola dell’Asinara: si tratta di un endemismo della Sardegna e della Corsica che testimonia la continuità territoriale del massiccio sardo-corso. Allium triquetrum L., aglio triquetro o aglio angolare, conosciuto come àpara è pianta selvatica ed è considerato edule (scapo e bulbo): viene consumato crudo in insalata o per preparare frittate molto apprezzate. Rientra nella composizione della minestra di 18 erbe selvatiche della Barbagia e per insaporire le salsicce, il sanguinaccio di pecora e «anticamente, prima della disponibilità dei frigoriferi, per la conservazione della carne in Ogliastra si faceva ricorso a s’antsangˇòni, ossia all’aglio angolare» (A.D. Atzei, 2003, p. 278). La pianta conosce anche un uso terapeutico, molto simile a quello dell’aglio comune. Alla pianta è legato anche un modo di dire diffuso nel nuorese: «È noto il motto “s’abasciat chei s’apara”, per uno che china subito la testa, e l’esclamazione “abasciau chei s’apara”, detto verso chi alza troppo la testa o la voce senza motivo plausibile» (I. Camarda et al., 1986, p. 163). Anche l’aglio pelosetto (Allium subhirsutum L.) era considerato edule: veniva impiegato per preparare saporite focaccine e per aromatizzare salsicce e prosciutti. La pianta intera, raccolta prima della fioritura e bollita nel vino, era considerata un depurativo.
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Alnus glutinosa (L.) Gaertn.
STORIA
A Alnus glutinosa (L.) Gaertn. Nome comune Ontano nero Nome sardo Alnu, Àlinu, Mura burda Nome francese Aulne glutineux Nome inglese Alder Famiglia Betulaceae Parte utilizzata foglie, corteccia; gemme Costituenti principali tannini (corteccia: 10-20%); flavonoidi Attività principali astringente (corteccia-foglie) antinfiammatoria, vasoregolatrice (gemme) Impiego terapeutico flogosi delle vie aeree (gemme) cefalea vasomotoria, senilità (gemme)
lnus deriva dal celtico al lan = vicino ai fiumi, in riferimento all’habitat della pianta; glutinosa perché le gemme e le foglie giovani sono viscose. Sembra che gli antichi ignorassero le proprietà medicinali dell’ontano, mentre ne conoscevano l’utilizzo pratico. Gli autori latini ne apprezzavano il legno che ritenevano imputrescibile e con il quale realizzavano, svuotando il tronco, condutture sotterranee. In effetti il legno di questo albero tende a indurirsi quando rimane a lungo sommerso in acqua e si conserva nell’acqua per secoli senza alterarsi. Non a caso le palafitte del neolitico poggiavano anche su tronchi di ontano. Plinio (I sec. d.C.) assicurava che i pilastri fatti con questo legno risultavano di eterna durata e che potevano sopportare pesi enormi. Vitruvio, architetto romano del I secolo a.C., nel suo trattato De architectura riportava che le fondamenta di Ravenna erano fatte con tronchi di ontano. «Si sa che Venezia è costruita su pilastri di ontano. I veneziani», scrisse Mattioli nel XVI secolo, «lo tengono in grande considerazione, per fare le
fondamenta delle loro case e dei loro palazzi» (P. Lieutaghi, 1982, p. 559). Gli ontani venivano piantati lungo i corsi d’acqua per contenerli nel loro alveo, in quanto in grado, con le loro radici, di rinforzarne gli argini. La caratteristica del legno di colorarsi all’aria in rosso, una volta tagliato, ha valso all’ontano numerose credenze magico-superstiziose. Nella mitologia greca, l’ontano nero era l’albero dei morti e presso i Celti faceva parte dei boschetti sacri dei druidi (classe di sacerdoti). Omero lo descrive nell’Odissea come uno degli alberi della resurrezione e lo colloca all’ingresso della grotta della ninfa Calipso. A causa del suo habitat nelle zone palustri e del suo colore rosso era inoltre associato alle streghe. «Il carattere sacro-apotropaico dell’ontano si riscontra anche in Turingia, ove la notte del primo maggio era costume appendere rami di quest’albero alle case ed alle stalle, per allontanare gli spiriti maligni» (G. Paulis, 1992, p. 443). Solamente nel Medioevo comparvero le prime indicazioni riguardanti l’impiego terapeutico della pianta. Santa Ildegarda (XII sec.) raccomandava le foglie contro le ulcere, e la corteccia e le foglie contro l’idropisia. Mattioli suggeriva impiastri di foglie fresche per risolvere «ogni gonfiezza e tumore» e per calmare le infiammazioni in particolare dei piedi stanchi: «Messe sotto la pianta dei piedi di quelli che sono stanchi e tormentati dal cammino, li tonificano». Tale proprietà defatigante si trova segnalata fino al XVIII sec. Il grande medico senese evidenziava anche la facoltà dei rami fogliati di attirare pulci e parassiti: «Quando sono ancora con la
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rugiada», dice il Mattioli, «si spargono per le camere per le pulci: che è cosa ben sperimentata» (P.A. Mattioli, 1568, p. 156). Il medico Jean Adolphe Murray (1776) raccomandava l’applicazione di cataplasmi caldi di foglie di ontano, da ripetere due-tre volte al giorno, per arrestare il latte e combattere l’inturgidimento del seno nelle nutrici: erano impiegate le foglie fresche, triturate, scaldate in forno fino a quando cominciavano a perdere la loro acqua. Per quanto riguarda la corteccia, le sue virtù astringenti e febbrifughe saranno riconosciute solo più tardi, «in quanto venivano vantate solo quelle tintorie» (P. Lieutaghi, 1982, p. 559). Nel XIX sec. la corteccia era considerata il miglior succedaneo, come antifebbrile, della corteccia di China, tanto da essere conosciuta anche come la “China indigena” (F.J. Cazin, 1876, p. 114). UTILIZZO MEDICO
una pianta medicinale oggi trascurata, senza dubbio a torto, che la pratica popolare aveva un tempo tenuto in grande stima» (P. Lieutaghi, 1982, p. 557).
«È
Le foglie, sotto forma di infuso, vantavano virtù febbrifughe e diuretiche. Anche alla corteccia venivano attribuite proprietà febbrifughe ed era impiegata quale succedaneo della corteccia di China (G. Garnier et al., 1961, p. 312). Molto ricca di tannino, la corteccia di ontano presenta proprietà astringenti vicine a quelle della corteccia di quercia. Esternamente, preparazioni a base di corteccia erano adoperate, sotto forma di gargarismi, nelle malattie a carico della bocca e della gola: afte, gengiviti, tonsilliti, ecc. Un tempo la decozione serviva per la detersione delle ulcere atoniche e varicose. Analogo impiego era previsto anche per le foglie. Sarà soprattutto la Gemmoterapia a rivalutare la pianta dal punto di vista terapeutico. Alle gemme dell’ontano nero, infatti, sono state attribuite proprietà antinfiammatorie, vasoregolatrici, favorenti la circolazione cefalica e anticatarrali. Alnus glutinosa MG1DH (il gemmoderivato) agisce favorevolmente nelle sindromi infiammatorie delle mucose (sinusiti, tracheobronchiti, ecc.) ove manifesta azione antisuppurativa e contribuisce
CURIOSITÀ • L’ontano è una delle piante tintorie più largamente utilizzate in Sardegna nella colorazione dei tessuti. Molto apprezzata era la sua tonalità nera, ottenuta dalla corteccia, che veniva impiegata per tingere l’orbace. Dalle foglie o dai germogli si ottenevano, a seconda dell’associazione con altre droghe tintorie e con mordenzanti, tonalità giallo-marroni. Vi sono anche indicazioni dell’impiego della pianta per tingere in rosso. Scrive Camarda: L’infuso ottenuto dalla corteccia … dell’ontano nero era utilizzato soprattutto per tingere in nero “su vresi” (l’orbace). Per avere risultati migliori nella tintura si aggiungeva durante la bollitura “s’eremeri” (Daphne gnidium L. …), che agiva da mordenzante, e “sa linnedda”, una corteccia esotica colorante, che si acquistava in bottega. Qualche giorno dopo la preparazione dell’infuso si immergeva la lana da tingere e quindi si fissava il colore in una soluzione di “virdiolu” (solfato di ferro) (I. Camarda et al., 1986, p. 73).
a limitare l’insorgenza del processo febbrile. Può essere somministrato, inoltre, come complementare agli antibiotici di cui completerà l’azione antiflogistica e antisuppurativa a carico delle mucose. Alnus glutinosa MG1DH rappresenta anche un importante rimedio
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TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI La letteratura non segnala effetti secondari e tossici alle dosi terapeutiche, a meno che non vi sia una particolare sensibilità individuale. Eventuali effetti collaterali (irritazione gastrica) e interazioni farmacologiche sono dovuti alla presenza dei tannini. FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA Decotto (corteccia) 3%, bollire 10 minuti. Uso esterno. Decotto (foglie) 15%, bollire 15 minuti. Uso esterno. Infuso (foglie) 3-5%, lasciare in infusione 15 minuti; bere 2 tazze al dì. Alnus glutinosa MG1DH 50 gocce, diluite in acqua e sorseggiate lentamente, 1-2 volte al dì.
del sistema circolatorio e dei quadri morbosi determinati da spasmo vascolare, utile, ad esempio, in caso di cefalea vasomotoria. Manifesta, inoltre, una spiccata attività antinfiammatoria con tropismo elettivo per i vasi arteriosi encefalici: è pertanto indicato nel deficit cerebrale dell’anziano, nelle sequele di patologie cerebrovascolari, come emorragie cerebrali e rammollimento cerebrale. Migliorando la circolazione cerebrale, inoltre, ne favorisce le funzioni quali l’attenzione, la memoria, le prestazioni intellettuali e può essere prescritto pertanto nei soggetti anziani che presentano un indebolimento di queste funzioni. Presenta infine azione di prevenzione nei confronti delle trombosi venose e
retiniche. La varietà Alnus incana (L.) Moench (ontano bianco) mostra, rispetto ad Alnus glutinosa, uno spiccato organotropismo nei confronti dell’apparato genitale femminile e dell’apparato scheletrico (azione rimineralizzante). Viene indicato come medicamento utile nella terapia del fibroma uterino e della mastopatia fibrocistica in quanto sembra presentare azione inibente nei confronti del tessuto fibromatoso. MEDICINA POPOLARE
a medicina popolare utilizza la decozione della corteccia dei giovani rami (ricca in tannini)
L
per sciacquature e gargarismi della bocca, delle tonsille, della
gola, in caso di infiammazioni della mucosa, di emorragie gengivali, ecc.; nonché contro le febbri intermittenti … Anche le foglie, che contengono saccarosio … e gli acidi corrispondenti, vengono impiegate, triturate a fresco, in cataplasmi contro gli ascessi, e applicate sui capezzoli per arrestare la portata lattea; in decozione per limitare, mediante bagni, il sudore dei piedi (G. Negri, 1979, p. 74).
In caso di febbre si assumeva l’infuso preparato con 30-50 g di foglie versate in un litro di acqua bollente e, spento il fuoco, lasciate in infusione per un’ora. Per i gargarismi si preparava il decotto di foglie di ontano (un pugno abbondante in mezzo litro di acqua; si fa bollire lentamente fino a ridurlo a metà, dolcificato con un po’ di miele).
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30 CURIOSITÀ • A Orgosolo, «oltre che l’orbace, anche il velo da vedova, lióndzu, … veniva tinto in nero come l’orbace, anziché in giallo con lo zafferano come il velo da sposa» (A.D. Atzei, 2003). • «A Olbia i pali degli impianti di miticoltura fissati sul fondo, attualmente anche di ferro, tradizionalmente erano di legno o di ontano o di castagno o rovere o leccio» (A.D. Atzei, 2003). • «La maschera carnevalesca (bisèra) del mamuthòne di Mamoiada, scolpita in legno dolce leggero, soprattutto nei tempi più recenti viene realizzata in legno d’ontano, in sostituzione di quello di pero utilizzato in passato» (A.D. Atzei, 2003). • «Il pavimento (s’isterriméntu) del carro agricolo lussurgese era costituito da 11 tavole rettangolari (sas sèddas) in legno di olmo o di ontano» (A.D. Atzei, 2003). • In alcuni paesi per le feste popolari si usa costruire is paràdas (baracche-bar provvisorie per la vendita di dolci e bibite) infittendone le pareti e le coperture con frasche di ontano (P. Congia, 1998). • Nel Guspinese vige il nome abìu de sàntu Giuànni ‘ontano di san Giovanni’, perché le fronde della pianta sono adoperate per adornare i carri in occasione della festa di San Giovanni Battista (28 agosto, martirio del santo) e infine vengono bruciate nel tradizionale falò (G. Paulis, 1992).
Nei dolori reumatici venivano praticati “bagni di foglie”: le foglie erano fatte scaldare al sole o in forno, con esse si preparava una sorta di giaciglio su cui si faceva coricare immediatamente il malato e lo si copriva con altre foglie e con una coperta calda e spessa di lana. Questo trattamento provocava una sudorazione abbondante; dopo una mezz’ora si asciugava rapidamente tutto il corpo del malato con un panno. Il “bagno di foglie” se ripetuto ogni giorno per una settimana, «portava spesso alla guarigione completa dai dolori reumatici» (P. Lieutaghi, 1982, p. 557). La corteccia, ricca in tannino, si usava per la concia delle pelli. Messa a macerare con limatura di ferro, dava un bel nero ricercato per i feltri dei cappelli, per il cuoio e i tessuti; con i germogli si otteneva invece un colore cannella.
IN SARDEGNA
L’
ontano nero rappresenta nelle zone più elevate del massiccio del Gennargentu l’albero di maggiori dimensioni (A.R. Marchioni, F. Calio Distefano, 1989, p. 25). Il termine mura burda = gelso falso, fa riferimento alla somiglianza delle foglie con quelle del gelso (Morus nigra L.). Andrea Manca Dell’Arca (1780) così riporta nel suo trattato:
L’Alino, alano, o amedano, chiamato in latino idioma alnus, nasce vicino a’ fiumi, alle cui torrenti [sic] serve spesse volte di ripa e argine: il suo legno resta alquanto rosso e poroso; ma mettendolo verde in mezzo dell’acqua, o in luoghi fangosi, è di molta resistenza, quindi può servire per gli argini, e le casse delle muraglie, che si fabbricano nel mare, o fiumi. La scorza ha virtù restringente e refrigerante, e giova per infiammagioni: il suo frutto è simile alla galla, ed in mancanza di questa s’impiega (A. Manca Dell’Arca, 2000, p. 194).
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La pianta era pertanto conosciuta per le sue proprietà antinfiammatorie e vulnerarie e veniva adoperata sotto forma di decotto o infuso (foglie e corteccia) oppure come cataplasmi di foglia fresca. Le foglie erano impiegate in infuso come diuretiche e, per uso esterno, tramite massaggi con foglia unta d’olio, per contrastare l’ingorgo mammario nelle nutrici. Il suo utilizzo pertanto non si discosta da quello della tradizione medica e popolare del resto del paese. Segnalazioni
particolari riguardano l’impiego della linfa, ottenuta dal tronco e dai rami e raccolta in primavera, reputata rinfrescante (A.D. Atzei, 2003, p. 36), e l’uso delle foglie direttamente applicate alle dita dei piedi per bloccarne la sudorazione (I. Camarda et al., 1986, p. 71). La pianta conosceva anche un utilizzo magico: Nella Bassa Gallura, per far sparire porri e verruche (li arrùkuli) si interravano tante foglie d’ontano quanti erano i porri o le verruche, in un sito in
cui il paziente non sarebbe mai passato … In alcuni paesi dell’Isola per favorire la scomparsa dei porri si sfregavano con una foglia d’ontano, la quale veniva poi buttata nell’acqua di un fiume, recitando una formula magica (A.D. Atzei, 2003, p. 36).
Anche nell’Isola le fronde dell’ontano venivano impiegate come parassiticide: si spargevano le foglie nelle stanze da letto per allontanare le pulci. La corteccia veniva impiegata per la concia delle pelli.
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Anchusa spp.
STORIA
I
Anchusa spp. Nome comune Buglossa (Anchusa officinalis L.); Buglossa azzurra (Anchusa italica Retz.) Nome sardo Burraccia salvatica, Erba de porcus, Linga di boi (Anchusa italica Retz.) Nome francese Buglosse, Fausse bourrache Nome inglese Bugloss Famiglia Boraginaceae Parte utilizzata foglie, sommità fiorite Costituenti principali nitrato di potassio, mucillagine, olio essenziale (tracce) cinoglossina, consolidina, consolicina (alcaloidi) allantoina (tracce) Attività principali espettorante, sudorifera diuretica Impiego terapeutico desueto
l termine Anchusa deriva dal greco anchousa = belletto, «perché le loro radici sono pregne di sostanze tintorie, conosciute sin dalla più lontana antichità, in particolare usate dalle donne greche come cosmetico e tintura per stoffe. Le ancuse servirono anche come cibo, in minestre, ripieni ed insalate, risolvendo molti dei problemi alimentari, sostituendo egregiamente la più comune borragine ed interessando inoltre l’erboristeria e la medicina per la loro partecipazione a decotti ed infusi» (G. Nicolini, A. Moreschi, 1982, p. 39). Il nome popolare buglossa, dal significato “lingua di bue”, fa riferimento all’aspetto ruvido e alla forma delle foglie. Nell’antico uso medico (medicina egiziana), la pianta era considerata uno specifico contro l’itterizia. Le foglie di buglossa venivano impiegate, oltre che come emolliente nelle affezioni polmonari, contro la rabbia canina mentre i fiori erano considerati particolarmente efficaci nelle forme ipocondriache e nella melanconia (depressione). Si usava, inoltre, sotto forma di tintura vinosa o alcolica per trattare l’epilessia. Chomel, medico del 1700, la impiegava nel trattamento della dissenteria e Carlo Clusio, medico e botanico olandese del XVI sec., nel cardiopalmo. Antonio Targioni Tozzetti scriveva: «Gli antichi usavano questi fiori come cordiali, e l’erba come emolliente, rinfrescante, lassativa ed il Boerhaave la raccomandò in decotto nelle pleuritidi e nell’ipocondriasi: ora è in disuso» (1847, p. 550). Di analogo parere Scotti che commenta:
Quest’erba è ormai caduta in dimenticanza, e serve al più nella medicina domestica per farne, colle sommità fiorite, infusioni diaforetiche e diuretiche. Ora anzi è difficile a comprendere come, con quelli della borragine, di rosa, di calendula, di viole, questi di buglossa fossero compresi tra i cinque fiori cordiali delle vecchie farmacopee (G. Scotti, 1872, p. 563).
Anchusa officinalis L. (buglossa) spesso è stata confusa con Anchusa italica Retz.: «Questa anchusa italica è la pseudo ancusa di Plinio» (A. Targioni Tozzetti, 1847, p. 550). Un’altra specie di questa famiglia è Alkanna tinctoria (L.) Tausch, alcanna, dalle cui radici rosso scuro, contenenti un principio colorante rosso innocuo (alcannina), si otteneva una sostanza usata in farmacia per colorare unguenti, pomate, paste dentifrice, ecc. (G. Negri, 1979, p. 301). UTILIZZO MEDICO
L’
uso medico della pianta è attualmente desueto. Anchusa officinalis L. (buglossa) e l’affine A. italica Retz. presentano proprietà terapeutiche simili alla borragine (Borago officinalis L.): mostrano, infatti, una composizione del fitocomplesso abbastanza simile. Gli alcaloidi (cinoglossina, consolidina, consolicina) sono presenti in scarsa concentrazione «nelle foglie separate dalla pianta, le quali, contenendo essenzialmente sostanze tanniche e gommose e molta mucillagine, sono usate per la preparazione di pozioni diaforetiche ed espettoranti»
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In queste pagine: Anchusa italica Retz.
IN SARDEGNA
N
ell’Isola viene segnalata la Anchusa italica Retz. (= Anchusa azurea Mill.). I nomi sardi burraccia salvatica, burraccia aresti significano “borragine selvatica” e ribadiscono la somiglianza fra queste due piante appartenenti, del resto, alla stessa famiglia. Per il termine erba de porcus (erba per porci), Paulis riporta queste considerazioni: Le giovani cime e le tenere foglie della buglossa azzurra sono lessate e mangiate unitamente ad altre verdure. Ma l’utilizzazione della pianta a scopi culinari ed il suo pregio sono nettamente inferiori rispetto a quelli della borragine, le cui giovani foglie si consumano crude in insalata oppure cotte nelle minestre e nelle frittate. Da qui la denominazione spregiativa in esame (G. Paulis, 1992, p. 197).
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI Non riportati. CURIOSITÀ • Le radici di alcune piante appartenenti a questo genere forniscono una materia colorante rossa che veniva impiegata dalle donne come fard per il viso. • «Il linguaggio dei fiori affida alle Ancusa in genere il valore simbolico di fiori del ricordo e l’invito a non dimenticare. Il loro messaggio, molto simile a quello più sommessamente lanciato dai minuscoli Myosotis, dovrebbe avere un effetto amplificato e solenne considerata la rilevante taglia raggiunta da molte specie» (G. Nicolini, A. Moreschi, 1982).
(G. Negri, 1979, p. 301). Il medico francese Henri Leclerc (XX sec.) impiegava le foglie della pianta come emollienti e diuretiche ed i fiori come pettorali e sudoriferi. In passato venivano preparati, oltre al decotto e all’infuso di foglie e fiori miscelati, la conserva di fiori, lo sciroppo di fiori e l’acqua distillata (G. Garnier et al., 1961, p. 1051). MEDICINA POPOLARE
L
a medicina popolare utilizza la pianta come succedaneo della borragine. Si usa il decotto dei fiori e delle foglie alla dose di 25-50 g in un litro di acqua per calmare la tosse e come sudorifero (P. Fournier, 1947, vol. I, p. 259). È pianta mellifera.
Anche in Sardegna alla pianta venivano attribuite proprietà sudorifere, bechiche ed emollienti. Nell’Isola è presente un endemismo sardocorso, Anchusa crispa Viv., «che vegeta sulle sabbie di alcune località marittime della parte settentrionale dell’Isola». Si trovano anche altre forme endemiche: Anchusa littorea Moris, «tipica delle sabbie litoranee della Sardegna centro-occidentale», Anchusa maritima Valsecchi, «tipica delle sabbie costiere comprese tra Castelsardo e l’Isola Rossa», Anchusa undulata L. ssp. capellii (Moris) Valsecchi, «rinvenuta sul M.te S. Vittoria di Esterzili, presso i tacchi di Sadali, e, recentemente, anche nel bacino del Rio Gutturu Mannu» (N. Marras, 2000, p. 82).
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Apium graveolens L.
STORIA
Apium graveolens L. Nome comune Sedano Nome sardo Apiu, Apiu burdu, Apiu d’arrùe Nome francese Céleri Nome inglese Celery Famiglia Apiaceae Parte utilizzata radice, pianta, frutto Costituenti principali olio essenziale (frutti: 2-3%; foglie: 0,1-0,8%) idrossicumarine, derivati furanocumarici (bergaptene) flavonoidi; acido clorogenico, ecc. Attività principali aromatizzante, digestiva, carminativa diuretica, emmenagoga; sedativa Impiego terapeutico miglioramento funzionalità digestiva gotta e forme reumatiche (come depurativo)
A
pium deriva dal celtico apon = acqua, pianta delle paludi. Omero chiama la pianta selinon, e descrive Achille che la utilizza per curare i suoi cavalli. Il nome greco selinon (“pianta lunatica”) (H. Leclerc, 1984b, p. 222) ricorda che la pianta era ritenuta essere sotto il dominio della luna e da ciò forse derivano le proprietà afrodisiache che le venivano attribuite. «Nell’antico Paganesimo, l’appio o sellaro, era erba sacrata all’Inferno, quindi ornavano con essa i sepolcri, forse per la sua gran bontà e grato odore» (A. Manca Dell’Arca, 2000, p. 231). La pianta veniva utilizzata anche per celebrare trionfi: il capo degli atleti vittoriosi era cinto con corone di sedano («Nei giochi nemei, istituiti nel 516 a.C. in contrapposizione a quelli olimpici, il premio, per i vincitori, era una corona di sedano», G. Bosisio, 1974, p. 45). Il sedano, infatti, si presentava, rispetto a ora, molto fogliato e assai simile al prezzemolo: la pianta come appare oggi venne selezionata, probabilmente in Italia, nel XVII secolo. I medici dell’antichità e del Medioevo consideravano il sedano efficace
per scacciare la melanconia. Giberto Scotti riporta che il sedano in genere venne creduto diuretico, risolvente, bechico e raccomandato nei catarri bronchiali, nell’afonia, nelle idropi, negli infarcimenti dei visceri, nell’itterizia, e fino nei calcoli. I semi sono stimolanti, carminativi; e Dèniau li dice in Oriente contro il mal di mare. – Le foglie in cataplasma, o cotte con sugna, sono rimedio volgare contro gli ingorghi, principalmente lattei. Il succo, sotto forma di gargarismo, è riputato antiscorbutico; e si applica pure come detersivo sulle croniche piaghe e sui cancri ulcerati … Ha usi analoghi a quelli già enumerati pel prezzemolo, compreso il febbrifugo … Per questa analogia il già citato Gamberini allo Spedale di S. Orsola ne esperimentò l’olio essenziale come emmenagogo; e nel bollettino delle Scienze Mediche (ottobre 1870) publicò diversi fatti che ne constatano l’efficacia, dandolo alla dose di uno, due grammi in 30 di emulsione edulcorata. Non sarebbe pertanto infondata la volgare credenza che dice il sedano pregiudizievole alle gravide (G. Scotti, 1872, p. 451).
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35 CURIOSITÀ • «Col gambo o stelo, cui venga praticata un’incisura longitudinale, si otteneva uno strumentino musicale ad ancia doppia, che emette un suono grave, ronzante, gradevole» (A.D. Atzei, 2003).
Il medico comasco ricorda inoltre che Ippocrate suggeriva in caso di mal di testa il succo «in nares, cerebro bile infestato» e riporta come in Algeria «coi vapori sviluppantisi dall’erba in cozione, si fanno suffumigi contro l’emicrania». UTILIZZO MEDICO
T
utta la pianta è medicinale: grazie al sapore aromatico e leggermente amaro viene impiegata per stimolare la secrezione salivare e gastrica, contribuendo in tal modo a migliorare i processi digestivi. Presenta, inoltre, proprietà colagoghe e stimolanti il peristaltismo intestinale (E. Teuscher et al., 2005, p. 179). La radice rientra fra i componenti dello sciroppo delle cinque radici (oltre al sedano, finocchio, prezzemolo, asparago, pungitopo) utilizzato come depurativo nel trattamento della gotta e delle forme reumatiche e nei disturbi a carico dell’apparato urinario. Il succo delle foglie (1 cucchiaio da tavola due volte al giorno) è reputato antiscorbutico e tanto esso, quanto l’infuso a caldo dei frutti (1 cucchiaino da tè per tazza, lasciare riposare 8 ore e consumare a sorsi nella giornata), agiscono come sicuro diuretico nei casi di ritenzione di urina dovuti a disturbi dei reni e della vescica, a nefriti gottose e riescono efficaci per l’eliminazione di raccolte idropiche che non abbiano origine cardiaca (G. Negri, 1979, p. 210).
I frutti (semi), per la ricchezza in olio essenziale, risultano aromatizzanti, digestivi e carminativi. Possiedono anche proprietà sedative e
• Il sedano era considerato un mezzo infallibile per conoscere il sesso del nascituro e per guarire dal mal di denti: «Se si mette in testa della donna incinta, senza che questa se ne accorga, una pianta di Sedano con la sua radice, se il primo nome che pronuncia è maschile, sarà un maschio, altrimenti una femmina» (L. Joubert, 1578).
spasmolitiche dovute ad alcuni componenti dell’olio essenziale. I preparati di sedano incrementano la • Nel libro Disputatio de dentibus (1649) circolazione pelvica e l’autore, Sigismundus Closius, parla di un l’irrorazione degli amuleto contro l’odontalgia che consisteva organi ivi presenti: ciò in una radice di sedano che si appendeva al in passato bastava per braccio, dallo stesso lato del dente malato. giustificare la Completa comunque il suo racconto reputazione di pianta affermando che «molti considerano questo afrodisiaca. È stata rimedio vano, ridicolo e superstizioso». segnalata anche un’azione emmenagoga e ossitocica. Alcuni studi hanno un’importante azione di rivelato che l’estratto acquoso protezione cellulare. provoca nella cavia, resa Il sedano è ritenuto un alimento iperlipemica a causa di una a azione antiscorbutica, tonico alimentazione troppo ricca in e vitaminizzante. grassi, riduzione dell’aumento Apium graveolens var. dulce o del tasso di colesterolo, di LDL sedano dolce (o sedano da e dei trigliceridi (E. Teuscher et costa) è conosciuto per l’uso al., 2005, p. 179). Recentemente alimentare: 100 g di parte è stata segnalata nel sedano edibile contengono, fra gli altri, (foglie, semi) la presenza di fibra (1 g), calcio (31 mg), poliacetileni che avrebbero la fosforo (45 mg), ferro (0,50 capacità di impedire in vitro mg), sodio (130 mg), potassio la proliferazione di molti tipi (350 mg), vitamina B1 (0,06 di cellule tumorali (L.P. mg), vitamina B2 (0,19 mg), Christensen, K.J. Brandt, 2006, vitamina PP (0,20 mg), pp. 683-693). Apigenina e vitamina A (207 mg), vitamina luteolina (flavonoidi), grazie C (32 mg). Il valore calorico è alle proprietà antiossidanti, di 21 calorie. Anche le foglie, manifesterebbero, inoltre, dal sapore gradevole, sono
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36 TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI L’uso di medicamenti a base di sedano è sconsigliato a causa del rischio di reazioni allergiche (Commissione E). Evitare la somministrazione di questi medicamenti nelle affezioni renali acute o croniche e in gravidanza. Soggetti allergici alla soia possono manifestare una concomitante allergia al sedano. Questa può essere associata all’allergia al polline della betulla e dell’artemisia. Evitare il contatto prolungato (dermatiti). La presenza di furanocumarine può comportare fotodermatite.
commestibili e possono aromatizzare diverse pietanze. Si evince da questi dati l’importanza di introdurre nella nostra alimentazione quotidiana questa preziosa pianta. MEDICINA POPOLARE
C
ome alimento il sedano era reputato atto ad eccitare la secrezione gastrica e a facilitare i processi digestivi. Il decotto delle foglie (20-30 grammi per un litro di acqua), mescolato con latte fresco e assunto a digiuno, era considerato un buon rimedio per curare l’asma “umida”, i catarri bronchiali e l’afonia. Tale preparato era consigliato ugualmente nei disturbi gastrici, nella ritenzione idrica, nei reumatismi e nei disturbi renali. Anche il decotto ottenuto dalla bollitura della pianta era ritenuto diuretico e valido per trattare catarri polmonari, asma, gotta e forme reumatiche. Il succo delle foglie (150-200 grammi/die) era considerato un febbrifugo: «Nelle febbri di palude, preso per una ventina di giorni, facendo sudare il malato, coprendolo bene (il cibo deve essere conveniente)». Le foglie contuse, mescolate con sale e aceto e applicate localmente guarivano dalla scabbia. In genere i cataplasmi venivano effettuati con le foglie fresche sminuzzate o pestate. Il succo delle foglie era impiegato come collutorio in caso di ulcerazioni della bocca e per rinforzare le gengive. Il decotto molto caldo di sedano era consigliato in caso di geloni: «I geloni migliorano e guariscono, tenendo le parti malate in bagno caldissimo di decotto di sellaro, finché si può sopportare, per circa un quarto d’ora, prima di andare a letto;
dopo il bagno si friziona la parte malata e si ravvolge in un panno». La foglia bollita nello strutto era considerata un ottimo topico in grado di risolvere gli “ingorghi ghiandolari”. Anche la radice era ritenuta medicinale e veniva impiegata come diuretica. L’infuso dei semi era reputato stomachico, tonico ed eccitante. Radici e foglie erano considerate anche stimolanti l’appetito e in grado di facilitare i processi digestivi: «se ne mette perciò un pugno nel brodo o in una tazza d’acqua bollente». Inoltre:
I pezzi di sellaro bolliti (quest’acqua forma la bevanda), finché siano divenuti teneri, si condiscono con latte fresco, un po’ di farina e noce moscata, e si mangiano dal malato stesso, con maggior vantaggio, con pane abbrustolito e patate … Con le sommità della pianta e con zucchero si prepara una specie di conserva, molto stimata nelle malattie di petto, nella flatulenza, per promuovere le regole mensili e le urine (G. Antonelli, 1941, pp. 208-210).
IN SARDEGNA
I
l sedano è conosciuto anche con i nomi di sèllaru, sèllari e sélleri mentre il nome di appiu
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In questa pagina: Apium nodiflorum (L.) Lag.
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de arriu, kugusa e kukusa, appiu burdu, sèllari aresthu è riservato al sedano selvatico (subsp. silvestre), non coltivato e non commestibile (G. Dodero, 2003, p. 437). Scrive Salvatore Vacca-Concas a proposito della pianta: Spontanea nei luoghi paludosi e cresce abbondantissima in Sardegna; ma si coltiva come condimento e come cibo, ed è di più varietà, fra cui il sedanorapa, così chiamato dagli ultimi nodi del fusto ingrossati e carnosi in un corpo globoso simile alla rapa. Lo spontaneo è da noi chiamato appiu de arrìu (S. Vacca-Concas, 1916, p. 117).
Manca Dell’Arca (1780) affermava che «s’impiega l’appio cotto per zuppe ed altre vivande, serve crudo con olio, pepe e sale; benché sia erba callida vi si mette il pepe, per correggere la sua ventosità; se ne fa olio medicinale, spezialmente per guarire le scaranzìe della gola ungendola sovente» (A. Manca Dell’Arca, 2000, p. 231). La medicina popolare sarda non aggiunge altri usi a quelli già presenti in quella peninsulare. Per via interna la pianta viene impiegata, sia come infuso che come decotto, per stimolare la diuresi nella ritenzione idrica, in caso di litiasi renale e nelle forme reumatiche. «A Gonnosfanadiga, per sbloccare l’impotenza urinaria si consumava, per almeno tre volte, la foglia privata dei fili delle nervature e tagliuzzata, brevemente cotta, condita con olio» (A.D. Atzei, 2003, p. 446). In caso di ascite si preparava un decotto con cipolla, sedano, prezzemolo, ononide e asparago (G. Dodero, 1999, p. 37). Nelle affezioni delle vie respiratorie (faringite, afonia, difficoltà respiratorie, ecc.) si preparava l’infuso di foglia o di
un’azione sfiammante. Il radice essiccata in acqua e latte decotto quasi bollente era usato caldo. Il decotto della foglia era contro i geloni (G. Dodero, impiegato anche per facilitare la 1999, p. 37). Nella mastite si digestione e nell’insufficienza applicava un cataplasma caldo epatica. «A Villacidro, per far di foglia bollita nello strutto. diminuire la portata lattea si La pianta era ritenuta anche sbatteva a sorpresa una foglia antifecondativa e afrodisiaca. di sedano sulle spalle nude della donna: l’effetto era certamente dovuto più allo spavento che FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA al contatto della Infuso pianta!» (A.D. Atzei, 1,5 g di semi per tazza d’acqua fredda; 2003, p. 446). 1 o 2 tazze al giorno. La pianta fresca pestata Apium graveolens T.M. “legno su legno” e 30 gocce, diluite in acqua, 2-3 volte al giorno. amalgamata con olio o aceto era applicata FORMULAZIONI sotto forma di impiastri Sciroppo delle cinque radici in caso di foruncolosi, infezioni purulente, Asparago tumefazioni Finocchio ghiandolari e ferite. Prezzemolo L’oleolito di sedano era Sedano applicato sul collo in Rusco aa 100 g caso di mal di gola e Zucchero 2000 g sulle articolazioni Acqua 3000 g dolenti. In tali Bollire il tutto per 20 minuti. Infondere per situazioni venivano 15 minuti. Filtrare e aggiungere lo zucchero al liquido caldo. Bollire per 3 minuti e predisposti impacchi filtrare nuovamente. con garze imbevute di S / 1 cucchiaio, diluito in acqua, 3 volte decotto utilizzato al dì (azione diuretica). anche in tutti i casi in cui si voleva ottenere
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In queste pagine: Aquilegia nuragica Arrigoni et Nardi
Aquilegia vulgaris L.
STORIA
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Aquilegia vulgaris L. Nome comune Aquilegia; Amor nascosto, Perfetto amore Nome sardo Trefogliu, Tresfollas (Assemini) Nome francese Ancolie Nome inglese Columbine Famiglia Ranunculaceae Parte utilizzata pianta, semi Costituenti principali glucoside cianogenetico (pianta e semi) olio, lipasi, emulsina (semi) acido ascorbico Attività principali antiscorbutica, depurativa, diuretica sedativa Impiego terapeutico pianta velenosa
etimologia del nome scientifico attribuito alla pianta è incerta. Secondo alcuni studiosi, il nome Aquilegia deriverebbe dal latino aquilegium = che raccoglie l’acqua, in riferimento alla forma del fiore all’interno del quale si raccolgono e si conservano a lungo le gocce d’acqua e di rugiada. Secondo altri, deriverebbe dal latino aquila, in allusione all’aspetto dei fiori costituiti da uno sperone uncinato paragonato al becco o agli artigli dell’aquila. È stata invece abbandonata l’identificazione degli speroni con quelli del colombo che aveva dato luogo a un altro nome, quello di colombina, tuttora usato in Francia, Inghilterra, ecc. Giberto Scotti riassume efficacemente gli impieghi terapeutici per i quali era stata utilizzata la pianta: L’aquilegia fu già creduta velenosa. Suspectam omnino illam reddit cum maligna familia cognatio (Murra)y: ed infatti, come appartiene alle ranunculaceae, così è dotata di qualche acredine, che Lieutaud e Schroeder utilizzarono, usandola esternamente come vulneraria detersiva, antisettica nelle ulceri e piaghe. La fama di cui godette quest’erba è principalmente appoggiata 1° alla sua virtù antiscorbutica 2° alla sua efficacia in provocare l’eruzione degli esantemi. I. Fino dal 1716 Schubart publicò una tesi: De aquilegia scorbuticorum asylo; e Tournefort ne consiglia come collutorio, la tintura dei fiori – Ettmuller l’infuso, insieme alla coclearia ed al nasturzio – Tragu e Mattioli i semi in polvere – Astruc un’oppiato colle foglie, miste ad altre erbe ad dentes
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firmandos et gengives detergendas – Eysel, Pena, Lobel l’erba in genere, ecc. II. La sua efficacia in provocare le eruzioni esantematiche (morbillo, scarlattina, vajolo) venne già proclamata da Linneo, da Simone Paulli, da Scopoli, e recentemente confermata da Cazin; il quale a questa scopo ne dava i semi in emulsione, che trovò molto vantaggiosa anche a curare le impettigini croniche, e principalmente la crosta lattea. Si vuole pure che sia rimedio valido contro l’itterizia (LeBouc) – contro la colica (Clusio) – contro i calcoli e le vertigini (Camerario) – proprio a promovere la urine e la mestruazione (ciet urinam et menses, Schroeder) – e sino a facilitare il parto (Clusio). I semi si danno da 2 a 4 grammi in polvere, od in pillole, oppure
se ne fa, sia infuso, sia emulsione. Coi fiori si compone o sciroppo nella proporzione di una parte su due di aqua e due di zuccaro, o tintura nella proporzione di 4 su 30 di alcool, aggiungendone una di acido solforico medicinale. Esternamente si impiega l’erba intera per cataplasmi o fomenti (G. Scotti, 1872, p. 130).
La pianta veniva prescritta anche per «frenare il sudore dei tisici, e le metrorragie» (A. Targioni Tozzetti, 1847, p. 233). La sua tossicità, comunque, venne segnalata da Linneo (17071778), il quale avvertiva di porre molta attenzione alla posologia in quanto aveva visto morire diversi fanciulli in seguito alla sua somministrazione.
UTILIZZO MEDICO
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aquilegia è una pianta velenosa (pianta e semi) per il suo contenuto in glicosidi in grado di liberare acido cianidrico. Tali glucosidi danneggiano principalmente il cuore e provocano crampi, difficoltà respiratorie e aritmie. Non sono conosciuti casi di avvelenamento negli animali da pascolo in quanto la disdegnano. Dalla pianta si ricavano prodotti antiparassitari.
MEDICINA POPOLARE
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lla pianta erano attribuite proprietà diuretiche, sudorifere, antiscorbutiche e calmanti. Lo sciroppo ottenuto con i fiori,
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di un bel colore blu, era usato per calmare la tosse, il decotto era impiegato come sudorifero e diuretico, l’infuso delle foglie per gargarismi e collutori. La radice, considerata astringente, serviva per la pulizia delle gengive infiammate. Si adoperava la tintura alcolica contro «le cefalee isteriche e le crisi dispnoiche della dismenorrea» (S. Viola, 1968, p. 66). Era utilizzata, mediante applicazioni esterne, nel trattamento di eczemi persistenti, della scabbia e della tigna. I fiori furono usati in passato come talismano contro il malocchio e la malasorte. Nel linguaggio dei fiori, invece, «l’offerta di una aquilegia ha il valore di totale dichiarazione d’amore, rafforzata dalla presenza di due ennesimi battesimi volgari quello di “Amor nascosto” e di “Amor perfetto”» (G. Nicolini, A. Moreschi, 1982, p. 54). IN SARDEGNA
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ell’Isola è presente un endemismo esclusivo, la Aquilegia nugorensis
Arrigoni et Nardi. Si tratta della «più diffusa tra le specie esclusive della Sardegna»: il suo areale sembrava limitato ad alcune località del Monte Tonneri (Seui) e del Gennargentu, ma specie per quest’ultima località osservazioni più recenti hanno ampliato il dato sulla distribuzione rilevando la
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presenza di numerose stazioni sia sul versante di Arzana che su quello di Villagrande (N. Marras, 2000, p. 37). Sono inoltre presenti altre due specie esclusive della Sardegna: Aquilegia barbaricina e Aquilegia nuragica. Aquilegia barbaricina Arrigoni et Nardi è stata descritta per la prima volta nel 1977: segnalata nella “Lista Rossa” delle specie vegetali italiane a rischio di scomparsa (1992) nella zona del Monte Spada, nel Gennargentu e in altre due località vicino ad Orgosolo, il suo areale si sta restringendo sempre di più e, attualmente, solo 50 individui sono presenti sul Monte Spada. Aquilegia nuragica Arrigoni et Nardi,
descritta per la prima volta nel 1978, è stata reperita unicamente in un’area di circa 50 m2 in prossimità della gola di Gorropu, vicino a Dorgali. Sono segnalati solo una decina di individui. Le tre specie sono state inserite dalla IUCN (The World Conservation Union) fra le cinquanta piante a rischio di estinzione nelle isole del Mediterraneo. I nomi trefogliu, tresfollas sembrano dovuti alla conformazione delle foglie «divise in tre foglioline lobate … Probabilmente la
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI Pianta tossica (vedi Utilizzo medico). CURIOSITÀ • Nicholas Culpeper (1616-1654), medico, botanico ed astrologo inglese, nel trattato Complete herbal (1653), scriveva: «Le foglie dell’Aquilegia sono utilizzate con successo in lozioni per la bocca e la gola irritate … Gli Spagnoli erano usi mangiare una parte della radice di questa la mattina quando digiunavano molti giorni, per aiutarsi in caso di disturbi con la pietra. Il seme preso in vino con un poco di zafferano rimuove le ostruzioni del fegato ed è buono per l’ittero giallo». • L’aquiliegia è un fiore che ha sempre interessato, per le sue forme strane, la fantasia dell’uomo; nella prima metà del XV secolo Pisanello la ritraeva, accanto al garofano, in un suo celebre ritratto di una principessa estense, per fare da sfondo al profilo della donna. Sappiamo che veniva coltivata nei giardini fin dal 1470. La pianta è presente anche in alcune opere di Leonardo da Vinci, tra cui La vergine delle rocce (I. Pizzetti, H. Cocker, 1968).
denominazione della pianta è incentrata sulle foglie, perché, a scopi terapeutici, si fa un infuso di foglie» (G. Paulis, 1992, p. 291). Le indicazioni d’uso sono simili a quelle presenti nelle altre regioni d’Italia per Aquilegia vulgaris L. Atzei, tuttavia, sottolinea come non risulti un effettivo utilizzo nella medicina popolare sarda (A.D. Atzei, 2003, p. 366).
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Arbutus unedo L.
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Arbutus unedo L. Nome comune Corbezzolo Nome sardo Olidone, Olidoni, Olioni, Lidone; Mela di lidone (Nuoro); Ulioni, Ghilisoni (Gallura); Arbòsc (Alghero); Cariasa (Bolotana) Nome francese Arbousier Nome inglese Strawberry tree Famiglia Ericaceae Parte utilizzata foglia, radice Costituenti principali arbutina, metilarbutina e idrochinone tannini (16-37%) Attività principali antisettica urinaria antinfiammatoria, astringente Impiego terapeutico cistite, prostatite
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ianta caratteristica del bacino mediterraneo, è ricordata dagli antichi con il nome di “albero delle fragole” e ciò fornisce una prima indicazione sull’aspetto dei frutti, vagamente simili alle fragole ma più farinosi e di sapore meno gradevole. La pianta era conosciuta anche come albatro, dal latino arbutus a sua volta derivante da arbor = albero. Arbutus e unedo sono termini di incerta origine di cui già i Romani si servivano per indicare la pianta: Plinio (I sec. d.C.) fa risalire unedo a unum e edo (“io ne mangio uno”), riferendosi al fatto che i frutti sarebbero malsani e, quindi, da usare con moderazione. Dioscoride e Galeno (I e II sec. d.C.), in questo, concordano con Plinio e il primo dichiara che «l’Arbuto nuoce allo stomaco, e fa dolere il capo. Mangiandosi punge il palato e la lingua come se fosse pieno di reste». Di tale pericolosità non parla Teofrasto (IV-III sec. a.C.) il quale, dopo aver descritto chiaramente il corbezzolo, afferma che il suo frutto è mangereccio. Ulteriore conferma sulla commestibilità dei frutti ci viene da Clusio che, nel XVI sec., dichiarava di aver fatto copiosamente uso delle
bacche senza registrare gli inconvenienti di cui parlavano Plinio, Galeno e Dioscoride. Della pianta tratta anche Virgilio (I sec. a.C.), sia nelle Bucoliche che nelle Georgiche, e ricorda come il corbezzolo servisse da alimento all’uomo «prima che Cerere insegnasse loro a coltivare la terra». Diverse citazioni sul corbezzolo si ritrovano nel De re rustica di Columella (I sec. d.C.), dove viene annoverato tra i frutti silvestri più graditi agli animali. Le bacche sono per questo autore un ottimo alimento per capre, maiali, tordi da allevamento e, schiacciate, per i pesci da vivaio. UTILIZZO MEDICO
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l corbezzolo viene impiegato come antisettico urinario per la presenza di arbutina, glucoside idrochinonico, e tannini. Recentemente sono stati isolati altri glucosidi, gli iridoidi asperuloside e gardenoside ad attività antinfiammatoria ed analgesica. La tintura madre, ottenuta dalle foglie fresche, risulta utile nel trattamento della cistite e della prostatite acuta in quanto oltre alle proprietà antisettiche favorisce i processi riparativi a livello della mucosa uretrale. In caso di cistite è preferibile utilizzare Arctostaphylos uva ursi L. (uva ursina), pianta più ricca in arbutina (5-15%), rispetto al corbezzolo più ricco in tannini (16-37%) e quindi in grado di determinare facilmente irritazione a livello del tratto gastrointestinale. La radice e le foglie venivano impiegate nel
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di sapore acidulo-dolciastro, è consumato fresco, candito o sotto spirito e utilizzato per preparare marmellate e bevande. Con le bacche mature si preparava una confettura per trattare le forme lievi di diarrea. Con esse, facendole fermentare in alcol e zucchero, si otteneva anche un liquore molto apprezzato. IN SARDEGNA
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l corbezzolo è un arbusto tipico della macchia mediterranea. Andrea Manca Dell’Arca (1780) scriveva:
trattamento della diarrea in virtù delle loro proprietà astringenti. Apprezzata era anche l’azione diuretica e, indirettamente, ipotensivante. La corteccia e le foglie, ricche in tannino, sono usate nell’industria farmaceutica e, inoltre, per la produzione di coloranti e per la concia delle pelli (concia vegetale). MEDICINA POPOLARE
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e foglie fresche e le giovani gemme erano considerate diuretiche e astringenti: con esse si preparavano tisane particolarmente indicate nelle infiammazioni delle vie urinarie e negli “ingorghi del fegato”. Il frutto, di colore scarlatto e
CURIOSITÀ • «MIELE AMARO. Questa grande varietà di fiori è la fonte di un’abbondante produzione di ottimo miele e di cera; ma comunque quella parte di miele che viene cavato dagli alveari in autunno conserva l’amaro così stigmatizzato da Orazio: Ut gratas inter mensas symphonia discors / Et crassum unguentum, et sardo cum melle papaver / Offendunt. [“Come durante le mense piacevoli un accordo discordante, / sia un profumo grossolano sia il papavero, misto al miele sardo, / disgustano”]. Si sono indicate varie ragioni di questo speciale sapore del miele: alcuni lo attribuiscono ai fiori del corbezzolo, altri a quelli del tasso, all’alloro o alla ruta …» (W.H. Smyth, 1828).
Più bello e delizioso appare nelle costiere e siti aprichi il corbezzolo, arbusto chiamato da’ Sardi alidone, e in lingua latina arbutus, il quale tutto l’anno si lascia vedere con un color verde chiaro e allegro: nell’autunno matura i suoi frutti, che sono racemi di bacche rosse, rotonde e morbide, che ornano l’arbusto, mentre al medesimo tempo si vede fiorito: questi frutti non sono ingrati per il gusto, ma danneggiano lo stomaco, e cagionano dolor di testa. Il suo legno non viene grosso, e s’impiega in pali da sostentar vite (Andrea Manca Dell’Arca, 2000, p. 196).
La medicina popolare impiega la radice della pianta sotto forma di decotto per trattare pressione alta, calcoli renali e dolori addominali (A.D. Atzei, 2003, p. 60). Gli impiastri di radici della pianta erano impiegati nel mal di testa. «Il ceppo di Corbezzolo (kotsina ’e su orioni) era indicato contro la scabbia (arrungia) e … per limpiai su sanguni, purificare il sangue» (G. Dodero, 1999, p. 43). La parte interna della corteccia ridotta in polvere era usata come cicatrizzante.
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CURIOSITÀ • Il corbezzolo, per la sua resistenza all’inquinamento, viene utilizzato nel verde urbano stradale e lungo le autostrade. • «Fiorisce di campanelle di cera nelle macchie il corbezzolo carico dei frutti maturi di un anno fa, e tu mangiane uno solo per lasciarli alle api che ti daranno il miele amaro, che è tanto raro, e ci ha dato un nome nel mondo, come diceva fra Raimondo del convento di Bonorva» (S. Cambosu, 1954). • «Pianta ad arbusto sempreverde alta sino a 4 m … Abbonda nei terreni montuosi della Nurra e nella Gallura
come pure nel Logudoro. Questa pianta vegeta in terreni siliceo argillosi, e si presenta in cespuglioni sani e vigorosi anche in lotti magri e di natura poco profondi. Difficilmente da noi raggiunge il suo vero aspetto arboreo perché gli abitanti di questa regione sfruttano con troppa avidità questo vegetale per l’industria, molte volte meschina, del carbone di legno. Un altro fattore di sfruttamento e quindi di poco sviluppo dell’Arbutus è dovuto al fatto che, nella coltivazione dei vigneti, ogni ceppo di vite è sorretto da pali della lunghezza media di un metro e mezzo. Per l’allestimento di questi pali viene usato molto l’Arbutus, il quale è sempre sottoposto al taglio quando abbia raggiunto l’altezza sopra detta» (A. Sanna, 1935).
Dalla macerazione in acqua dei frutti e successiva fermentazione e distillazione si ottiene il caratteristico liquore di corbezzolo, acquavite a bassa gradazione alcolica vantata per le proprietà digestive. Pianta mellifera, le api hanno nella fioritura autunnale un pascolo importante per la produzione del miele amaro, impiegato nella cura delle affezioni bronchiali (azione antisettica). Scrive Dodero: «Proviene dal corbezzolo il miele amaro, il più amaro fra tutti, molto richiesto anche all’estero, al quale si attribuiscono proprietà medicamentose non ancora completamente conosciute (antiallergico? antiasmatico?)» (G. Dodero, 2003, p. 93). Il miele amaro, che rappresenta una specialità dell’Isola, era ricordato già nell’antichità: «amarior melle Sardo» (Orazio, Ars poetica, I sec. a.C.). Andrea Sanna, nel libro Piante officinali della Sardegna, pubblicato nel 1935, dedica al miele amaro diverse pagine in cui riferisce alcuni dati ottenuti da una ricerca volta ad accertare i principi responsabili del particolare sapore di questo miele, che individuò, per primo, nei glucosidi arbutina e metilararbutina:
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Mentre il miele, come è ben noto, è caratterizzato ed apprezzato per il suo sapore dolce, avviene che nella Campagna della Gallura e specialmente ad Aggius, le api producano un miele dal sapore spiccatamente amaro. È un amaro che piace, che scompare presto, lasciando il gusto soddisfatto. È un miele nel complesso piacevole, dall’odore aromatico, e dal colore giallo limone. Questo fatto che si può definire come una curiosa anomalia, naturalmente ha suscitato e suscita la curiosità di chi ne è edotto, e ho quindi creduto che valesse conto di stabilire a che cosa precisamente sia dovuto, tale amaro … Posso affermare che effettivamente sia nelle foglie che nei fiori di detta pianta vi è presente dell’arbutina e della metilararbutina … Forse concorreranno altre sostanze. Io non pretendo di avere risolto in modo assoluto il problema; ma è certo però che una delle cause della anomalia del miele, che si raccoglie nelle campagne della Gallura, è la presenza dell’arbutina e che questa arbutina, sostanza dal sapore amaro viene succhiata dalli api
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dall’Arbutus Unedo (A. Sanna, 1935, pp. 138-145).
Il corbezzolo, legnoso e robusto, è sempre il primo vegetale a reagire con forza ai danni provocati dal bestiame al pascolo o alle intemperie. Presenta una spiccata capacità di reazione agli incendi per cui, grazie anche alla rapidità di accrescimento e di sviluppo delle sue radici, trova utilizzo nei rimboschimenti e nel consolidamento dei terreni. La pianta rappresenta inoltre una valida risorsa alimentare per gli animali: le bacche sono appetite in particolare dagli uccelli e dagli altri animali selvatici, mentre le foglie sono ricercate dal bestiame al pascolo. Il legno del tronco e i giovani rami secchi (candelathu) erano ricercati nel periodo di carnevale per cuocere le tipiche frittelle e come linna da alluminare (I. Camarda et al., 1986, p. 120). Il legno, per la sua robustezza e per il colore rossiccio, veniva usato per fare piccoli utensili di uso comune e per lavori di intaglio e al tornio.
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI L’alto contenuto in tannino può irritare il tratto gastrointestinale. Si consiglia vigilanza in caso di assunzione contemporanea di farmaci: possibili interazioni farmacologiche sono dovute infatti alla presenza dei tannini. FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA Infuso 10 g di foglie fresche per un litro di acqua: bere durante la giornata. Arbutus unedo T.M. 40 gocce, diluite in acqua, lontano dai pasti, 2 volte al dì. FORMULAZIONI Cistite recidivante Arbutus unedo T.M. S / 40 gocce, diluite in camomilla, 3 volte al dì, lontano dai pasti per 7-10 giorni. (Assumere dietro consiglio medico)
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Arctium lappa L.
STORIA
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rctium deriverebbe dal greco arktos = orso: pianta pelosa come l’orso. Lappa è il nome usato da Virgilio (Georgiche, I, 153) dal celtico lapp = mano, cioè che prende come una mano e dal greco labé = il prendere, l’afferrare, allusione ai frutti che si appigliano al vello delle pecore e alle vesti (R. Benigni et al., 196264, p. 129). Il termine bardana, che risale all’alto Medioevo, è di origine incerta e deriverebbe dal greco bardtos = via, in quanto pianta che vegeta lungo le
Arctium lappa L. Nome comune Bardana Nome sardo Bardàna, Cima de rani, Cardu tingiosu, Tigiunseri (Tingiuseri) (Fonni) Nome francese Bardane Nome inglese Burdock Famiglia Asteraceae Parte utilizzata radice, foglie Costituenti principali inulina (> 50%); mucillagini; olio essenziale (tracce) polieni e polienine; acido caffeico, acido clorogenico arctiopicrina; acido g-guanidino-n-butirrico Attività principali depurativa e diaforetica stimolante della funzionalità biliare ed epatica antisettica; ipoglicemizzante Impiego terapeutico dermatosi (acne, eczema, crosta lattea, ecc.) forme reumatiche
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strade. La pianta era conosciuta anche come personata, da persona = maschera, perché le foglie erano usate dai giovani come maschere. La bardana è da sempre impiegata nella cura delle malattie della pelle: tra gli altri Dioscoride (I sec. d.C.) consigliava di applicare la radice fresca grattata sulle vecchie ulcere, Columella (I sec. d.C.) usava le foglie pestate e mescolate con sale nei morsi delle vipere. Nel XV secolo conobbe grande fama poiché si narra che contribuì a guarire Enrico III di Francia affetto da sifilide. Baglivi (16681707), del resto, sentenziava che «radix bardanae a plurimis doctissimis viris pro magno segreto habetur ad curandam luem gallicam» (G. Scotti, 1872, p. 718). La bardana era ritenuta anche estremamente efficace nella terapia della gotta, tanto che nel 1758 John Hill «celebrò le sue virtù antigottose in una monografia di grande successo (ciò non gli impedì di soccombere lui stesso alla gotta nel 1775)» (P. Fournier, 1947, vol. I, p. 191). Antonio Targioni Tozzetti riporta che la pianta era considerata aperitiva, mondificante, diuretica, diaforetica, febrifuga … I semi amarissimi, si vollero diuretici, e secondo Linneo sono anche purgativi. Il sugo delle foglie serve a farne un estratto ed un unguento reputato buono contro le emorroidi. Il Percey usava le foglie e il loro sugo contro il lattime dei bambini. In alcuni luoghi mangiano le radici fresche, che hanno un poco di sapore di carducci, ed i teneri germogli (A. Targioni Tozzetti, 1847, p. 503).
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CURIOSITÀ • Nella Rivista medica per il clero (1935) si trova, in un articolo scritto da padre Antonelli, questa ricetta: «Con la sua radice, polverizzata ed unita a burro, acqua e sale, si possono preparare ottimi biscotti secchi, il cui uso nei diabetici comuni produce la riduzione dello zucchero nel sangue (glicemia) e spesso il ritorno alle condizioni normali, con scomparsa di zucchero nelle urine. La quantità di biscotti varia secondo la tolleranza del malato, ma non c’è pericolo alcuno in caso si usino dosi forti. Invece del sale, si può mettere saccarina nei biscotti, rendendoli dolci». • «A Ollolai per carnevale, durante i balli in piazza, i ragazzini sogliono buttare intorno a chi balla sos kattsùttos, un’erba che si attacca al vello delle pecore … da campioni fornitimi da Ollolai è risultato trattarsi dei capolini sia di bardana, che di Xanthium spinosum L. e X. strumarium L.» (A.D. Atzei, 2003).
UTILIZZO MEDICO
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a bardana possiede proprietà diuretiche, diaforetiche e stimolatrici della funzionalità biliare ed epatica tali da giustificare in pieno la fama di pianta depurativa. La moderna fitoterapia utilizza la pianta nel drenaggio, particolare metodo terapeutico di depurazione dell’organismo attuato tramite la somministrazione, a blando dosaggio, di piante opportunamente scelte. La tecnica in questione permette, infatti, l’eliminazione delle tossine da parte dell’organismo, attraverso quelli che possono essere considerati gli emuntori
naturali: fegato, reni, intestino, pelle. Il risultato di un buon drenaggio consiste in un moderato potenziamento dell’attività epatica, della secrezione biliare, della diuresi, del transito intestinale e in una accresciuta attività della secrezione delle ghiandole sudoripare e nella regolazione della secrezione sebacea. La bardana oltre a tutti questi requisiti presenta un’azione elettiva sul tessuto cutaneo, il cui funzionamento difettoso ostacola l’eliminazione delle tossine prodotte dall’organismo. Accanto alle proprietà depurative affianca, inoltre, un’interessante azione ipoglicemizzante,
ipocolesterolemizzante e antibiotica. La radice fresca della pianta contiene alcuni principi dotati di attività antibiotica e, a questo proposito, è interessante segnalare l’originale studio condotto dal medico genovese Camillo Gibelli nel 1929. «Indipendentemente ed ignaro delle ricerche di Fleming, il padre della penicillina» (E. Campanini, 2004, p. 63), intraprese infatti una serie di ricerche che avevano lo scopo di indagare se le piante potessero produrre sostanze antitossiche. A spingerlo verso tale ricerca era stata l’osservazione che il regno animale, uomo compreso, può alimentarsi con notevoli quantità di vegetali, rimanendo immune dall’azione nociva di tutte quelle sostanze tossiche che si possono ritrovare nel terreno in cui le piante crescono e donde traggono il loro nutrimento. Non limitò la sua indagine alle sole muffe, ma le
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estese, ad esempio, ai semi di lupino, grano, miglio, ecc., che mise a germogliare in semplice acqua, e constatò che anche questo liquido assumeva proprietà antitossiche e batteriostatiche paragonabili a quelle trovate nei terreni di coltura delle muffe. Appurò così che l’uso popolare della bardana nella foruncolosi e in varie dermatosi non era privo di fondamento. Altra interessante segnalazione è quella relativa all’azione ipoglicemizzante da sempre attribuita alla pianta: sperimentalmente è stato appurato, infatti, che gli estratti delle radici riducono il livello di glicemia e aumentano la tolleranza ai carboidrati. Responsabile di tale azione sarebbe l’acido guanidinbutirrico. Grazie quindi all’insieme di queste attività la pianta risulta essere particolarmente valida nel trattamento, sia per os che topico, delle forme cutanee quali acne, eczema, crosta lattea, seborrea, ecc. Secondo alcuni, avrebbe un’azione stimolante sulla crescita dei capelli (succo delle foglie fresche per frizioni
al cuoio capelluto), altri autori invece negano tale proprietà: indubbia comunque è l’attività della bardana come antiseborroico nei casi di forte secrezione sebacea del cuoio capelluto, il che ne giustifica la presenza in molti cosmetici per capelli. L’impiego cosmetico è destinato ancora a pelli grasse, asfittiche, con punti neri e predisposte all’acne o alla seborrea. Sembra che la pianta fresca sia la forma galenica più efficace in quanto l’essiccamento le farebbe perdere parte della sua attività.
particolari, attribuite da sempre alla bardana, si annovera l’uso delle radici per favorire la crescita dei capelli e l’olio (macerazione della pianta in olio di oliva) contro la forfora e nella crosta lattea. Le foglie fresche contuse e applicate sulle punture di zanzare, vespe, api e calabroni erano impiegate per calmare rapidamente il dolore e diminuire il gonfiore. Venivano applicate anche sui morsi delle vipere, in quanto si riteneva che la pianta esercitasse sul veleno un’azione neutralizzante. Cataplasmi di foglie, oltre che nelle malattie della pelle (foruncoli, acne, seborrea, ulcerazioni, ecc.), venivano applicati localmente sulle emorroidi (crisi emorroidaria) e sulle articolazioni dolenti e infiammate in caso di artrite acuta o artralgia. Giovanni Negri segnala «la pratica popolare di applicazione di foglie di questa pianta, macerate per una notte in aceto e sale, sulle parti dolenti per reumatismi, mercé la quale si ottiene una rivulsione cutanea assai efficace colla cessazione dei dolori» (G. Negri, 1979, p. 416). La radice veniva fatta mangiare ai diabetici.
MEDICINA POPOLARE
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a decozione della pianta veniva data per facilitare l’eruzione nelle malattie esantematiche e come depurativo generale. Nelle campagne i contadini curavano le affezioni catarrali dell’apparato respiratorio avvolgendo i piedi in larghe foglie di bardana e provocando così la traspirazione. Infusi e decotti erano utilizzati come gargarismi nelle infiammazioni della bocca e della gola. Fra le applicazioni terapeutiche
rctium minus (Hill.) Bernh è una varietà della Arctium lappa L., specie assente nell’Isola (A.D. Atzei, 2003, p. 67). Il termine cardu tingiosu = cardo tignoso, testimonia l’antica consapevolezza relativa all’efficacia della pianta contro la tigna: «La bardana è dotata di proprietà antisettiche su alcuni batteri patogeni che allignano sulla pelle e perciò con le sue foglie si facevano cataplasmi per curare tigna e
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TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI La letteratura non segnala effetti secondari e tossici alle dosi terapeutiche, a meno che non vi sia una particolare sensibilità individuale. Occorre verificare che non vi sia allergia alle Asteraceae. Possibile interazione con farmaci ipoglicemizzanti orali (vedi Utilizzo medico). FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA Decotto 5 g di radice per tazza d’acqua. Tre tazze al dì. Arctium lappa T.M. 50 gocce, diluite in acqua, 3 volte al dì. FORMULAZIONI Decozione (uso esterno: dermatiti) Porre 2,5 g di droga finemente tagliata o grossolanamente polverizzata in acqua fredda (lasciando eventualmente macerare per alcune ore) e far quindi bollire per non più di un’ora. Infine filtrare. Si ricorda che un cucchiaino da tè corrisponde a circa 2 g. Oleolito alla bardana (capelli grassi) Bardana radice t.t. 10 g Nocciolo olio 90 ml «Si mette a macerare la radice di bardana nell’olio di nocciolo per otto-dieci giorni in un vaso di vetro a chiusura ermetica. Dopo di che si filtra e si travasa in un flacone. L’oleolito si applica sui capelli e si lascia per tutta la notte, prima di procedere allo shampoo» (C. Cagnola, A.M. Botticelli, 1998, p. 105). Acne e dermatosi Arctium l. T.M. Cynara s. T.M. Viola t. T.M. ana parti S / 50 gocce, diluite in acqua, 2-3 volte al dì per almeno due mesi.
crosta lattea». Il significato letterale di cima de rani o bani è “germoglio di pane”: La bardana è un’ottima verdura selvatica: i suoi giovani butti (cima designa propriamente la cima tenera, i germogli di una pianta) si possono mangiare in insalata o cotti come gli asparagi … La commestibilità di queste parti della pianta è espressa per mezzo del determinativo de bani, che ha un significato generico, cioè commestibile come il pane (G. Paulis, 1992, p. 84).
Parti eduli della pianta sono anche le foglie, la radice e il fusto decorticato. Uniformi in tutta l’Isola sono le indicazioni in
merito all’impiego della pianta (foglia e radice): punture di insetti, crosta lattea, acne, ascessi e dermatiti in genere per uso esterno, mentre internamente viene consigliata per lo più come bechica, depurativa e diuretica. Il decotto della radice era impiegato per detergere a fondo la pelle, nell’eccessiva sudorazione; impiastri di radice erano applicati sui foruncoli. Con il decotto della pianta si facevano frizioni contro l’acne, le micosi, e per favorire la ricrescita dei capelli. La foglia, in decotto, era considerata bechica, mentre esternamente era applicata nelle punture di insetti, nelle ulcerazioni, nella
crosta lattea e nella tigna. In caso di ascesso dentario la foglia fresca veniva applicata sulla zona dolente. Nelle mastiti si faceva ricorso alla foglia unta con olio o bagnata nel vino cotto: «A Ulassai, quando una madre per ottenere lo svezzamento non dava più latte al bambino, per mantenere fresco il seno vi teneva appoggiata una foglia di bardana» (A.D. Atzei, 2003, p. 67).
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Artemisia absinthium L.
STORIA
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lla pianta, dotata di azione emmenagoga, è stato dato il nome di Artemisia in onore di Artemide, figlia di Giove e Latona, dea della fertilità. Si legge anche che il nome le deriverebbe da Artemisia, moglie di Mausolo, regina della Caria, esperta in botanica e medicina, che la usò per prima come aiuto alle partorienti. Absinthium trae origine dal greco absinthion, “privo di dolcezza”. La pianta è citata, come meraviglioso stimolante dell’appetito, da Avicenna (980-1037 d.C.), famosissimo medico arabo, il cui Canone (Canon medicinae) sarà la base del pensiero scientifico fino al Rinascimento. Plinio (I sec.
Artemisia absinthium L. Nome comune Assenzio Nome sardo Senzu, Assenzu; Attentu; Athetu (Nuoro) Nome francese Absinthe Nome inglese Wormwood, Absinth Famiglia Asteraceae Parte utilizzata foglie, sommità fiorite Costituenti principali olio essenziale (0,2% al 1,5%): b-tuione (46%), linalylacetato (28%), a-tuione (tracce) lattoni sesquiterpenici: absintina, artabsintina flavonoidi Attività principali amaro-tonica ed eupeptica emmenagoga Impiego terapeutico desueto
d.C.), e in seguito anche la Scuola Salernitana (XI sec.), considerava l’assenzio come sicuro preventivo contro il mal di mare («nauseam maris arcet in navigationibus potum»), un buon diuretico («urinam ciet»), vermifugo («ventris animalia pellit»), stomachico in decotto («stomacho saluberrimus»), antitterico («bilemque detrahit») (Plinio, 1830, lib. XXVII, cap. XXVIII). Secondo la badessa Ildegarda di Bingen (XII sec.), «l’assenzio è molto caldo e molto vigoroso ed è il principale rimedio contro tutti gli esaurimenti». Il succo, bollito in vino e miele, bevuto «a digiuno da maggio a ottobre ogni tre giorni e scaccerà la nostalgia e la malinconia, renderà chiaro l’occhio e rafforzerà il cuore e impedirà ai polmoni di ammalarsi, riscalderà lo stomaco e pulirà i visceri, favorendo una buona digestione», mentre in caso di dolore al capo consigliava di versare a sufficienza il succo nel vino caldo e con questo si inumidisca la testa dolente fino agli occhi, alle orecchie e alla nuca, e lo si faccia di sera, quando si va a dormire, e si copra tutta la testa con un berretto di lana fino al mattino; questo reprime il dolore della testa gonfia e il dolore derivante dalla gotta, e scaccia anche il mal di testa interno.
Il succo mescolato a olio doveva essere applicato sul petto della persona che ha un dolore al petto o intorno al petto che la fa tossire … E chi ha dolori al fianco si unga là e lo curerà dentro e fuori … E una persona tormentata da una gotta fortissima, al punto che le sue membra rischiano di spezzarsi, si unga vicino al fuoco dove ha dolore e guarirà (E. Breindl, 1989, p. 148).
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in acqua, li aveva preservati dal tifo, dal colera, dalla dissenteria e perfino dalla malaria. In Francia la strana bevanda dall’amaro gusto di anice diventò rapidamente una moda, quasi un rito sociale. Lo chiamavano Le péril vert, il pericolo verde, o anche La fée verte, la fata verde, con riferimento al colore della bevanda e all’atmosfera “magica” in cui si perdevano le persone che lo consumavano … Verso la fine del diciannovesimo secolo, in Francia, l’Absinthe divenne una bevanda in gran voga e raggiunse l’apice del successo: il suo uso accomunava il ricco borghese, l’artista e il proletario … L’assenzio fu l’ispirazione del modo di vivere bohémien ed era la bevanda preferita di artisti famosi come ad esempio Vincent Van Gogh, Toulouse Lautrec (AA.VV., La fata verde, in www.galenotech.org).
Il Donzelli sintetizza le sue proprietà principali, dicendo: Adversus diuturnas et prorogatas febres, praesertim tertianas (cioè contro le febbri, che durano a lungo, specialmente le terzane). Di più non solo corrobora il ventricolo e sveglia l’appetito dei cibi, ma concilia forza al fegato, e lo libera dalle oppilazioni, purgando per le vie dell’urina gli umori viziosi. Caccia inoltre i vermi del corpo, non solamente preso per bocca, ma anche applicato di fuori (G. Donzelli, 1763, p. 210).
Giberto Scotti affermava: Sotto l’aspetto terapeutico è uno dei più preziosi rimedii amaroaromatici della flora indigena; ed ha virtù tonica, febbrifuga, antisettica, antielmintica, emmenagoga … Ma del bene che può aver fatto l’assenzio come rimedio, è incomparabilmente, fatalmente maggiore il male che fa come liquore. Questa non è che una soluzione alcoolica del
suo olio essenziale; il quale è dotato di un principio viroso, torpente che produce un ebrezza più intensa, più funesta di quella dell’alcool … L’assenzio ha dunque qualche cosa di più deleterio, di più funesto: intossica il sistema cerebrospinale: abbrutisce più completamente, più rapidamente dell’alcool puro: trascina più presto alla paralisi, all’imbecillità fisica ed intellettuale, ad una vecchiaja precoce ed infermiccia: e giustamente Trèlat lo chiama aqua di morte (G. Scotti, 1872, p. 730).
Nel XIX sec., soprattutto in Francia, si diffuse il consumo del liquore di assenzio, dal caratteristico colore verde, ad alta gradazione alcolica (68º): La sua diffusione era iniziata verso il 1830 quando iniziò il trionfante ritorno in patria delle truppe francesi che avevano conquistato l’Algeria. Si vociferava che l’assenzio, diluito
Ben presto emersero però gli effetti nocivi legati al suo consumo (vedi Utilizzo medico) e la commercializzazione del liquore di assenzio fu pertanto interdetta «in Svizzera nel 1908, in Francia e in Belgio nel 1915, poi in Germania. In Spagna, in Inghilterra, nell’Europa dell’Est e in Giappone, resta totalmente legalizzato» (J. Raynaud, 2006, p. 39). Nella simbologia cristiana l’assenzio rappresenta una pianta medicinale che «per il suo ingrato sapore significa disgusto, amarezza, le pene della vita» (O. Pantalini, 1934, p. 37). UTILIZZO MEDICO
A
ttualmente desueto. L’olio essenziale contiene composti terpenici neurotossici (tuione) in grado di provocare turbe psichiche e crisi epilettiformi. L’abuso a scopo voluttuario di liquori a base di
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assenzio (la pianta rientra tra i componenti dei comuni aperitivi, bitter, ecc.) provocò all’inizio del secolo scorso un quadro patologico che prese il nome di absintismo. L’absintismo, sindrome che sfocia nel delirium tremens epilettiforme, sarebbe dovuto non solo alla presenza dell’olio essenziale (tuione) ma anche alla sua associazione con l’alcol. L’azione convulsivante del tuione sembra dovuta all’inibizione del metabolismo ossidativo a livello cerebrale (J. Bruneton, 2001, p. 169). Secondo recenti segnalazioni, il tuione sarebbe strutturalmente molto simile al tetraidrocannabinolo presente
nella canapa indiana: questi principi avrebbero analoghi recettori a livello del SNC. I principi amari contenuti nella pianta non sono tossici e si deve alla loro presenza l’impiego della pianta come amaro-tonica: l’absintina, infatti, è in grado di eccitare le terminazioni nervose della mucosa orale e stimolare così, per via riflessa, la secrezione del succo gastrico. Anche l’olio essenziale contribuisce a tali proprietà grazie all’azione eupeptica diretta a livello della mucosa gastrica (aumento secrezione cloropeptica). La pianta veniva consigliata nell’atonia digestiva accompagnata da stipsi,
disappetenza e le sue preparazioni erano indicate, in particolare, per i soggetti anemici, neurastenici, convalescenti da malattie debilitanti, ecc. Alla pianta veniva attribuita inoltre un’azione antispasmodica che la rendeva utile nei disturbi digestivi dipendenti da disfunzione epatica (azione colagoga), nelle colecistopatie e nella dismenorrea. L’assenzio veniva impiegato anche come antielmintico (ascaridi e ossiuri). Scrive Giovanni Negri: Leclerc suggerisce, a questo proposito, una polvere composta (polvere di foglie di assenzio gr. 2-3, polvere di liquerizia gr. 2,
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polvere di anice gr 0,50; per adulti!) da prendere 5 giorni di seguito, al mattino, incorporata in conserva di prugne (G. Negri, 1979, p. 401).
È stato segnalato che la pianta contiene principi (diterpeni perossidati) in grado di distruggere in vitro, a bassa concentrazione, il vettore della malaria (E. Teuscher et al., 2005, p. 124). Le varie specie di artemisia, compresa A. absinthium, sono considerate tra le specie più allergeniche a cui si devono in prevalenza le manifestazioni tardo-estive. L’artemisia fiorisce infatti tra
luglio e settembre quando la maggior parte delle altre fonti allergeniche sono silenti. La diffusione è anemofila (M. Ballero, G. Piu, 1997, p. 65).
MEDICINA POPOLARE
I
n medicina popolare la pianta è conosciuta come emmenagoga e, a dosaggi elevati, come abortiva. In passato era utilizzata, nell’adulto, come antielmintica (ascaridi, ossiuri) e come febbrifuga. L’infusione vinosa della pianta era considerata molto efficace nell’eccitare l’appetito, nel fortificare lo stomaco e favorire la digestione; con il preparato
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI Si sconsiglia l’impiego della pianta o comunque la prescrizione deve essere solo del medico. Non utilizzare in gravidanza, durante l’allattamento, in età pediatrica e nei soggetti con ipersensibilità accertata alle Asteraceae. Come per tutte le piante ricche in principi amari, il suo uso è controindicato in caso di ulcera gastrica e duodenale. Sconsigliato l’impiego dell’olio essenziale e preparati alcolici per la presenza di tuione (azione neurotossica).
ottenuto facendo bollire la pianta con aceto di vino e assunto a cucchiai subito prima del pasto, «lo stomaco si rinforza e scompare ogni disturbo». Altre indicazioni erano la dispepsia nervosa, l’atonia digestiva con costipazione nei soggetti anemici, la neurastenia, la convalescenza e per fortificare indirettamente il sistema nervoso. Bollito tanto assenzio quanto se ne può prendere con tre dita in
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56 CURIOSITÀ • «L’assenzio allontana anche il fetore della bocca, se viene dallo stomaco … I pittori e i macinatori del bianco di piombo (cerussa) faranno bene di bere 1-2 cucchiai da caffè di vino di assenzio il giorno, perché l’assenzio espelle questo minerale dal corpo» (G. Antonelli, 1941).
acqua e miele, e bevuto molto caldo, calma assai i forti dolori di ventre; e conviene alla maggior parte delle malattie croniche e per essere vulnerario e detersivo eccellente, faceva parte del vino aromatico, tanto familiare a’ vecchi chirurgi, fino al secolo scorso, ed è un buon rimedio per arrestare la cancrena, fomentando spesso le parti malate, tanto più attivo se il fomento è fatto con acqua marina o acqua salata e assenzio, o meglio ancora, se all’assenzio si aggiunge un po’ di aloe (dalle farmacie); ci si lavano e si fanno compresse sulle ulceri e sulle piaghe, che sterilizza e chiude presto (G. Antonelli, 1941).
Il vino preparato con assenzio era assunto in caso di febbri intermittenti, sia per prevenirle, sia per eliminarne gli effetti e «può sostituire il chinino pei i poveri in queste febbri, e negli affetti d’intossicazione palustre, e per i convalescenti». La polvere ottenuta dalle foglie essiccate di assenzio era consigliata alle persone che soffrivano di disturbi epatici: «Chi soffre di male di fegato o di itterizia sparga una o due volte il giorno un po’ di assenzio polverizzato nel primo cucchiaio di minestra che mangia, o sui cibi, come si sparge il pepe». Il decotto di assenzio veniva impiegato per trattare «le infiammazioni degli occhi, gli occhi deboli e gonfi, lavandoli tre volte il giorno all’esterno, e facendo in modo che un po’ di quell’acqua penetri dentro». Per uso esterno il decotto è usato per fomenti, lavande, ecc., solo o con aggiunta di sale; il decotto era ritenuto anche un ottimo antisettico per la cura di piaghe
• «Per tener lontani dai seminati gli uccelli, vi si appendono rami d’assenzio, pianta erbacea presente in abbondanza dappertutto (nuor. aQéQu, log. atté(n)tu, camp. séntsu = absenthium per absinthium …) o vi si mettono gli spauracchi» (M.L. Wagner, 1924). • «Il capo-caccia entrò nella capanna e ne uscì con i barattoli dei medicinali. Me li porse, e
s’inginocchiò vicino al cane. “Se vive, sarà un miracolo”. E rivolto al cane: “Senza-Paura, tu non meritavi questa disgrazia. Ma c’è qualcuno che comanda sugli uomini e sugli animali; sia fatta la sua volontà. Adesso, il tuo padrone ti vuole curare e salvare. Tu vuoi, non è vero? Vuoi ritornare alla caccia, azzannare il cinghiale al fondo dell’orecchio, inchiodarlo a terra e impedirgli di ferire?”. Il cane agitava la coda, con un movimento cadenzato, lentamente. “Fatti cuore, Senza-Paura. Nipote, dammi il balsamo”. Glielo porsi, nel barattolo di sughero, dopo averne levato largo tappo. Era verde e molle, di foglie finemente triturate. Composto di quell’erba speciale con cui i cinghiali feriti si curano da sé le piaghe, odorava leggermente d’assenzio» (E. Lussu, 1968).
e ulcere «che sterilizza e cicatrizza presto» (G. Antonelli, 1941, pp. 51-56). La pianta era considerata inoltre diuretica ed efficace in caso di gotta e idropisia. Dalla tradizione risulta comunque che l’uso della pianta e dei suoi preparati doveva essere molto attento in quanto si potevano verificare turbe digestive e urinarie, così come veniva evidenziato il rischio legato alla consumazione di liquori a base di assenzio (azione neurotossica). IN SARDEGNA
A
tzei segnala che A. absinthium L. non è pianta spontanea nell’Isola. La pianta spontanea chiamata attentu e simili non è pertanto A. absinthium L., bensì A. arborescens L. o assenzio arbustivo. Nell’Isola è presente un endemismo: Artemisia densiflora Viv. (assenzio della Corsica) il cui areale «comprende, oltre ad alcuni siti della Corsica, varie località della Sardegna settentrionale e, in particolare, è diffusa nell’Arcipelago della Maddalena» (N. Marras, 2000, p. 111). A. absinthium L. Veniva un tempo coltivata per uso liquoristico fino a che non venne chiaramente segnalato
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l’aspetto neurotossico della pianta. Come pianta estremamente amara era ritenuta vermifuga e un efficace febbrifugo (febbri intermittenti). «Nell’800 con la foglia, insieme a ginepro rosso e altre erbe aromatiche, zolfo e aceto, si facevano fumigagioni come preservativo della peste e di altri morbi contagiosi» (A.D. Atzei, 2003, p. 67). Esternamente, con il decotto concentrato delle infiorescenze, in caso di psoriasi venivano praticate abluzioni, e la cenere di assenzio e di altre erbe aromatiche serviva per disinfettare le ferite. Le foglie, per la loro astringenza, facevano parte di decotti composti atti a contrastare l’eccessiva sudorazione ai piedi. A. arborescens L. Andrea Manca Dell’Arca (1780) riassume efficacemente gli usi della pianta: Assenzio. Virtù, ed uso. – Nasce l’assenzio, chiamato in idioma sardo attentu, senza seminarlo, né piantarlo … Dalle ceneri dell’assenzio si prepara estratto di sale, col quale fregando le stoie, e mettendo sotto fronde d’assenzio, preserva i vermi da seta. Applicato alle percosse e ammaccature, le risana: il suo sugo coagulato al sole, e dato alli fanciulli in mezzo a frutto dolce, ammazza i vermi. Il decotto d’assenzio fatto con
vino leva l’ostruzioni, corrobora lo stomaco: le sue fronde son contrarie alla tarma, onde i fogli scritti con inchiostro fatto d’infusione d’assenzio non saranno rosi da topi, né da tarme, ed altresì è uno de’ preservativi per la peste. Le fronde dell’assenzio rinchiuse in un piccolo sacchetto di tela riscaldato al fuoco, ed applicato allo stomaco e ventre, leva il dolore, e giova alla digestione (A. Manca Dell’Arca, 2000, p. 251).
L’assenzio era considerato anche antianemico: si consigliava allora di bere un infuso ottenuto dalle foglie oppure dalle infiorescenze o dalle parti giovani della pianta. Nella credenza popolare, inoltre, si riteneva che l’assenzio, raccolto la notte di San Giovanni e posto negli orti, li preservasse dalle “pestilenze” degli ortaggi. Del resto le foglie essiccate erano impiegate come antitarmiche e poste nei granai per proteggere il grano dagli insetti. Altri impieghi riguardano il trattamento delle affezioni a carico dell’apparato respiratorio: in caso di bronchite e forme catarrali venivano applicate nella parte superiore della schiena o sul petto le foglie scaldate sulla brace e avvolte in un panno, coprendo il tutto con un altro panno. Nel raffreddore si praticavano le fumigagioni:
si facevano respirare i fumi della pianta fatta bruciare in un recipiente di rame contenente braci incandescenti oppure i vapori del decotto delle foglie. Suffumigi erano praticati inoltre in caso di spavento. Abitudine diffusa in tutta l’Isola era quella di sottoporre a fumigazione, o ad applicazioni della pianta riscaldata, le parti dolenti. Nel libro a cura di Matizia Maroni Lumbroso, El mal del moc, I rimedi della nonna descritti dai bambini delle varie regioni d’Italia (1968, p. 314), si legge nel capitolo riguardante la Sardegna: Polmonite: Uno che aveva la polmonite si lavava i piedi con acqua calda, poi appresso faceva degli impacchi di erba che noi chiamiamo “athethu” la metteva dentro un piatto con un po’ di brace, la legava a un tovagliolo e se la metteva dove gli faceva male, il dolore gli passava subito (Orani-Nuoro).
Per sbloccare le mestruazioni, le parti aeree della pianta, seccate in forno e polverizzate, venivano messe ancora calde nelle scarpe che andavano tenute calzate per tutto il giorno, mentre in caso di dolori mestruali le foglie o le infiorescenze riscaldate venivano applicate sull’addome. In caso di mal di denti si effettuavano suffumigi di foglia bruciata sulla brace oppure veniva usato il decotto di germogli per fare degli sciacqui, che non dovevano essere molto numerosi per non rovinare i denti. L’acqua dei fiori e delle gemme di assenzio, fatte bollire a lungo in un recipiente di rame, erano indicate anche per la cura della psoriasi, detta anche arrangiu molentina (G. Dodero, 2003, p. 43).
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Arundo donax L.
STORIA
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Arundo donax L. Nome comune Canna comune Nome sardo Canna Nome francese Canne de Provence; Roseau Nome inglese Reed Famiglia Graminaceae (Poaceae) Parte utilizzata rizoma Costituenti principali principio amaro, resina, olio volatile acido malico, silicio, calcio, sali di potassio zuccheri (pianta giovane) Attività principali diuretica e diaforetica Impiego terapeutico desueto
i origine incerta, forse Asia Centrale e del Sud, la specie si è naturalizzata in molti paesi europei e in America. Arundo è l’antichissimo nome latino della canna la cui etimologia non è chiara. Si pensa possa derivare dal celtico aru = acqua, in quanto la pianta vegeta lungo i corsi d’acqua. Donax era il nome presso i latini e i greci di una canna che cresceva sia nei luoghi secchi che in quelli umidi: deriverebbe da doneo = agitare, lanciare, in quanto con la pianta venivano fabbricate le frecce. Il termine canna sarebbe di origine ebraica. Plinio nella Naturalis historia (LXVI) parla diffusamente della canna, distinguendo le varie specie. Cita anche una particolare sostanza, chiamata adarca, che si forma sulla corteccia delle canne e che reputa utilissima per i denti «perché ha la stessa forza della mostarda». La pianta viene citata da Virgilio nelle Georgiche (II, 414: «Nec non etiam aspera rusci vimina per silvam et ripis fluvialis arundo caeditur, incultique exercet cura salicti»). Galeno (II sec. d.C.) consigliava, per far crescere i capelli, di frizionare il capo con l’estratto del rizoma tenero incorporato con grasso, a guisa di unguento: «ad capillorum in capite generationem, arundinum tenellarum radices ubi contuseris, succum exprimito» (G. Antonelli, 1941, p. 70). Cazin (XIX sec.) riportava alcune note relative all’attività diuretica e sudorifera delle radici, grazie alle quali veniva impiegata per trattare forme reumatiche, gotta e sifilide.
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UTILIZZO MEDICO
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esueto.
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a radice della canna era somministrata sotto forma di decotto per favorire blandamente la diuresi, come sudorifero e per bloccare la lattazione.
IN SARDEGNA
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n utilizzo pressoché comune in tutta l’Isola consisteva nell’impiego dei tappus de canna (i diaframmi interni degli internodi della canna) come emostatici e curativi delle piccole ferite (G. Dodero, 2003, p. 43). Si trattava di applicare la «pellicola membranaceo-spugnosa, bianca, sterile, che si trova internamente
nella parte inferiore di ogni internodio del culmo, al di sopra del nodo, residuo del riassorbimento del midollo, come disinfettante, emostatico e cicatrizzante su ferite e tagli, a guisa di cerottino». A volte, prima dell’applicazione, la pellicola veniva inumidita con la saliva. Anche il culmo tenero, e inumidito sempre con la saliva, veniva applicato come emostatico. Manca Dell’Arca (1780) segnalava che, dal punto di vista terapeutico, «il decotto di radica di canne ha virtù disseccante, e giova contra le distillazioni: la polvere di canna applicata fa nascere i peli caduti» (A. Manca Dell’Arca, 2000, p. 200). Al decotto del rizoma venivano generalmente attribuite proprietà diuretiche, sudorifere, e antinfiammatorie, mentre l’infuso era impiegato come emmenagogo e per ridurre la montata lattea. Il decotto del culmo era invece considerato,
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI Le foglie (generalmente non utilizzate) contengono due alcaloidi: donaxina o gramina (a nucleo indolico) e la donaxarina. La donaxina «a piccole dosi aumenta la pressione sanguigna nel cane, mentre a forti dosi la diminuisce» (G. Garnier et al., 1961, vol. I, p. 200).
oltre che diuretico e diaforetico, galattogogo. Nell’Oristanese i geloni erano curati facendo immergere la parte colpita «in decotto composito salato di eucalipto e rizoma di canna». In caso di «orecchio turato si inviava entro il padiglione auricolare il vapore ottenuto bollendo la foglia fresca». Infine «per contenere una frattura ossea si ricorreva, come ingessatura, al sistema ortopedico empirico dell’utilizzo di culmo di canna (o ferula) levigato: … inkanneddàre» (A.D. Atzei, 2003, pp. 171-172).
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CURIOSITÀ • «Descrive Plinio molte specie di canna; a tre qualità riduce Dioscoride la canna, che frequentemente si conosce, cioè: il maschio pieno, la femmina vuota, e un’altra specie più debole e leggiera, la quale mi persuado, che sia la palustre, indicata da vari autori; in tutta la Sardegna si vede nelle paludi e fiumi, chiamata da’ Sardi canna giuspina o cannixone: delle altre due specie il maschio non si vede, né si conosce nel Regno, la femmina però vuota è quella che comunemente nasce e si pianta per averne in molta copia» (A. Manca Dell’Arca, 1780). • «A tutti è nota l’utilità che porge in Sardegna la canna, mentre i tetti di quasi tutte le case si fabbricano di canne tessute con giunco: si servono di essa le donne per cannochie da filare, i pastori per far flaute e stoie d’affumicar formaggio, i calzolari per far chiodi, gli architetti per tessere arelli o sindrie da fabbricar volte, i viatori per canne di appoggio contra serpi, i pescatori per pescare, i tessitori per pettini, e cannelli, i massari per tesser granai da conservar frumento. In opere rustiche s’impiega la medesima canna femmina (perché l’altra chiamata giuspina, per esser più debole, non si raccoglie, né si fa merito di essa) per accomodar vigne alla sardisca, e pergolati, per marcare e regolar fili, per tessere cesti e corbette da raccogliere e menar frutto, per far gabbie da custodir uccelli, e per molti altri usi necessari» (A. Manca Dell’Arca, 1780). • «Lo stemma e il gonfalone comunali di Ittiri presentano, nel quarto superiore sinistro, tre canne fogliate d’oro simboleggianti un canneto, richiamante il nome di Ittiri Kannédu, in riferimento alla zona di estensione del primitivo paese, avvenuta nel sito di un canneto» (A.D. Atzei, 2003).
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In questa pagina: Asparagus acutifolius L.
Asparagus officinalis L.
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Asparagus officinalis L. Nome comune Asparago Nome sardo Sparàu, Sparàu furistèri, Ispàrau, Ispàragu; Asparach (Alghero) Nome francese Asperge Nome inglese Asparagus Famiglia Liliaceae Parte utilizzata rizoma, radici; turioni Costituenti principali saponosidi steroidali; flavonoidi (rutina), antacianosidi in tracce aminoacidi: asparagina, arginina; purine sali di potassio (1,3-1,6%), fosforo calcio, ferro e vitamine (A, B1, B2, C) Attività principali diuretica Impiego terapeutico ritenzione idrica, litiasi, forme reumatiche
l nome asparago deriva dal greco a = non e speiro = seminare, «allusione alle forme rigogliose che assumono i turioni coll’impianto delle radici e non direttamente dal seme … Oppure da spergere, perché i suoi rami ricordano un aspersorio. Pure dal greco sparassein = ferire, allusione alle spine portate da alcune specie» (R. Benigni et al., 1962-64, p. 113). Ippocrate (V-IV sec. a.C.), considerato il padre della medicina greca e della medicina razionale, impiegava come diuretici, fra le droghe vegetali, il succo della scilla marittima, il sedano, il prezzemolo e gli asparagi. Opinione condivisa da Celso (I sec. d.C.) nell’opera De re medica. Anche Galeno (II sec. d.C.), autore di numerosi trattati su cui si formeranno generazioni di medici, cita l’asparago fra le droghe diuretiche. Plinio e Dioscoride (I sec. d.C.) raccomandavano la pianta nelle affezioni del fegato e nelle coliche renali. Scrive Plinio nella Naturalis historia (lib. XX): «Radix quoque plurimorum praedicatione trita & in vino albo pota calculos quoque exturbat». Egli riteneva la pianta anche un ottimo afrodisiaco. L’asparago fa parte delle piante che Caterina de Medici portò con sé quando, nel XVI secolo, attraversò le Alpi per sposare il futuro re di Francia, Enrico II. Nelle vecchie farmacopee compaiono le radici della pianta che venivano classificate tra le cinque radici aperitive maggiori. L’illustre medico olandese Hermann Boerhaave (16681738), e altri luminari del passato, ritenevano che «l’uso soverchio» degli asparagi fosse nocivo «agli ipocondriaci, ai deboli di stomaco, ai gottosi, e
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che abbia prodotta l’emottisi, il mitto cruento ed altri sconcerti» (A. Targioni Tozzetti, 1847, p. 674). Nel XIX sec. Scotti asseriva: Sia come rimedio principale, sia come mezzo dietetico coadjuvante, gli asparagi furono tentati e lodati in molte malattie, ma specialmente nell’idrope e nelle affezioni cardiache, e, come calmanti, in certi casi di orgasmo nervoso … Il metodo più comodo e più piacevole di fare la cura degli asparagi si è quello di mangiarne le sommità nelle zuppe od acconciate al burro … Dei turioni o sommità si usa il succo o l’estratto; ma … la loro virtù diuretica è più pronta ed efficace, facendone, o secchi o freschi, una tintura alcoolica da somministrare a goccie (G. Scotti, 1872, p. 39).
UTILIZZO MEDICO
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al punto di vista alimentare vengono utilizzati i giovani germogli, o turioni. Si caratterizzano per un basso apporto energetico (25 kcal per 100 g di parte edibile) e un elevato valore nutrizionale. Sono presenti, infatti, importanti concentrazioni in vitamine, sostanze minerali, oligoelementi, ecc. Il contenuto vitaminico può cambiare, anche sensibilmente, a seconda della varietà: risultano più ricchi in vitamina C ed in provitamina A gli asparagi viola, in vitamina B1 ed in vitamina B2 gli asparagi a punta verde. In genere gli asparagi forniscono, per 100 g di parte edibile, 31 mg di vitamina C – circa 16 mg dopo la cottura –, 0,4-0,8 mg di provitamina A, 0,8 mg di vitamina E, 41,6 mg di vitamina K. È una delle verdure fresche che presentano una buona concentrazione in vitamine del gruppo B, in particolare è
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TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI Il suo uso è sconsigliato nelle affezioni renali in fase acuta. Per la presenza di vitamina K si richiede prudenza in caso di assunzione di farmaci anticoagulanti. Come alimento va consumato, in quantità moderata, non più di una volta al giorno e comunque sotto controllo medico. FORME FARMACEUTICHE E POSOLOGIA Decozione della radice far bollire 50 g di radice in un litro di acqua. Lasciare raffreddare e non zuccherare. Bere, fra i pasti, una tazza tre volte al dì (T. Cecchini, 1967). Asparagus officinalis T.M. 30 gocce, diluite in acqua, 2-3 volte al dì. FORMULAZIONI Sciroppo delle cinque radici (diuretico) Asparago radice Finocchio radice Prezzemolo radice Sedano radice Rusco radice Zucchero Acqua
aa
100 g 2000 g 3000 g
Bollire il tutto per 20 minuti. Infondere per 15 minuti. Filtrare e aggiungere lo zucchero al liquido caldo. Bollire per tre minuti e filtrare nuovamente. Litiasi renale Solidago o. Orthosiphon o. Asparagus o.
T.M. T.M. T.M. ana parti
S / 50 gocce, diluite in acqua, 2-3 volte al dì.
considerato un’eccellente fonte di folati (vitamine B9): fornisce, infatti, circa il 25% del fabbisogno quotidiano di folati per la popolazione in generale. Fra i minerali e gli oligoelementi si segnala la presenza di potassio (270 mg per 100 g), calcio (20 mg per 100 g), magnesio (12 mg per 100 g), ferro (1,1 mg per 100 g), sodio (meno di 3 mg per 100 g). Presenti anche rame, manganese, zinco, boro, fluoro, ecc. La punta degli asparagi risulta più ricca in glucidi rispetto al gambo. Questi zuccheri, che rappresentano la riserva energetica della pianta, sono costituiti per lo più da fruttosio, oltre che da pentosani, esosani e fructosani. Fra i costituenti si ritrovano anche
proteine (4,6 mg/100 g) e fibre (1,5 per 100 g). Negli asparagi sono presenti inoltre composti fenolici ad azione antiossidante: si tratta di flavonoidi, in particolare la rutina, acidi fenolici (acido idrossicinnamico), carotenoidi (beta-carotene, luteina, zeaxantina, capsantina). La quantità di composti fenolici risulterebbe maggiore negli asparagi verdi e violetti rispetto a quelli bianchi. È stato affermato che gli asparagi contengono la maggior quantità e qualità di sostanze antiossidanti fra tutte le verdure (N. Pellegrini et al., 2003, pp. 2812-2819). Anche le saponine presenti svolgono azione antiossidante. Per la protodioscina è stata segnalata azione tossica in vitro su alcune cellule tumorali umane. Questa saponina è presente, alla massima concentrazione, nella parte inferiore della pianta. Negli asparagi si rilevano anche modeste quantità di fitoestrogeni: isoflavoni e lignani. Per quanto riguarda gli isoflavoni, la loro concentrazione è assai inferiore rispetto ai prodotti a base di soia, mentre per i lignani è abbastanza simile. Sembra, inoltre, che la cottura non incida sulla loro percentuale. Gli asparagi potrebbero pertanto essere inseriti a pieno titolo nell’alimentazione della donna in menopausa. Da tutto ciò emerge inoltre l’importanza di introdurre comunque nel nostro regime alimentare questa pianta che, per la ricchezza in principi antiossidanti e elementi nutrizionali, può coadiuvare nel mantenimento della salute (prevenzione malattie cardiovascolari, azione di protezione a livello cellulare, ecc.).