SALVATORE FANCELLO e la scuola ceramica di Dorgali
SALVATORE
FANCELLO e la scuola ceramica di Dorgali Alberto Crespi
Comune di Dorgali
Il presente volume è stato realizzato in occasione della mostra
SALVATORE FANCELLO e la scuola ceramica di Dorgali 2 giugno – 28 agosto 2016 Cala Gonone, Scuole elementari un’iniziativa voluta dal Comune di Dorgali Sindaco Angelo Carta Assessore alla cultura Fabio Fancello con il coordinamento di Luccia Spanu (Ufficio Cultura e Servizi Sociali) La mostra rientra tra gli eventi previsti per le celebrazioni del centenario della nascita dell’artista Salvatore Fancello, coordinati da Ugo Collu
Mostra A cura di: Ilisso Edizioni Progettazione allestimento: Antonello Cuccu Allestimento: Artigianato e Design
Catalogo Le biografie dei ceramisti sono a cura di Manuela Flore Impaginazione, grafica, editing, selezione colore: Ilisso Edizioni Referenze fotografiche: Le fotografie, se non diversamente indicato nella didascalia, fanno parte dell’Archivio Ilisso e sono state realizzate da Nelly Dietzel, ad esclusione delle n. ???????????? (P.P. Pinna) L’autore del testo, Alberto Crespi, dedica il suo scritto alla memoria dell’amico Franco Renato Gambarelli – industrial designer e testimone entusiasta e insostituibile delle vicende dell’Umanitaria milanese e dell’ISIA di Monza –, e del poeta, intimo di Fancello, Umberto Bellintani, il cui archivio letterario – con le liriche dedicate allo scultore scomparso – è in via d’esser conferito al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. L’editore ringrazia i ceramisti e i collezionisti che hanno generosamente messo a disposizione le opere pubblicate e presenti in mostra. Stampa: Longo Spa
© 2016 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-342-9
INDICE
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UNA LUNGA STORIA DI TERRA, DI COLORE, DI PASSIONE Alberto Crespi
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Bibliografia
CERAMISTI 30
Salvatore Fancello
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Ciriaco Piras
56
Antonio Lovicu
60
Simeone Lai
78
Paolo Loddo
86
Giovanni Cucca
96
Francesco Sale
106
Lorenzo Loi
110
Del Carmen
114
Simeone Piras
118
Francesco Pisanu
124
Francesco Masuri
128
Gionluigi Mele
134
Caterina Lai
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Salvatore e Michele Sotgia
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Bibliografia schede biografiche
UNA LUNGA STORIA DI TERRA, DI COLORE, DI PASSIONE Alberto Crespi
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1. Salvatore Fancello, Disegno ininterrotto, 1938, particolare della fig. 34.
Davanti alla figura di Salvatore Fancello ci si inchina oggi per celebrare i cento anni dalla sua nascita, attribuendo al giovane grande ceramista di Dorgali doti che illuminano il lavoro artigiano di tutto un secolo e la volontà di superare d’un balzo il confine incerto tra oggetto e opera d’arte all’epoca della nascita del design, malgrado la più sfavorevole congiuntura politica, sociale ed economica e l’appartato luogo di provenienza. A credito di quel luogo si deve riconoscere l’iniziativa di togliere al destino di pastori e di formare al lavoro coloro che sembravano promettere di assecondare la necessità di trasmettere con un mestiere il relato mondo di forme e suggestioni ancestrali. A credito dell’apparato educativo del tempo una certa attenzione al ricambio culturale, col fornire incentivi all’emigrazione per studio di allievi scelti. A sommo disdoro della classe politica anni Trenta le deleterie scelte di campo, le leggi razziali e l’invio al fronte di quegli stessi giovani che si volevano “affrancare”, tarpando crudamente sogni, prospettive e ali. Se la vicenda esistenziale di Fancello si apre e chiude tra le due guerre del secolo scorso, la sua parabola creativa dura poco più di dieci anni, comprendendo il periodo d’apprendistato in Sardegna. È con un pannello ligneo intagliato che Fancello fa sua la borsa di studio al concorso del Consiglio dell’economia corporativa di Nuoro nel 1930, dopo il diploma alla scuola di avviamento professionale di Dorgali e l’anno di lavoro da Ciriaco Piras presso il quale il disegno, l’intaglio su legno destinato all’impressione sulle pelli, la piccola decorazione ceramica erano stati i capisaldi dell’istruzione. Si deve pensare che anche la foggiatura a mano libera della creta abbia avuto inizio allora per il giovane artefice (ancora prima si era espresso con felicità nel disegno), indotto semplicemente a scegliere «la via più breve tra l’idea e la forma», connaturata alla ceramica secondo Lévy-Strauss. Datare con esattezza i manufatti di Fancello non è facile, forse non è indispensabile come per molti artisti il cui corpus creativo appare come un assieme coerente, concepito in un’unica grande arcata che non considera lo scorrere del tempo. I motivi vi si scoprono ricorrenti, i ritorni sono determinati dalla crescita nell’intelligenza del linguaggio e l’ampliamento del ventaglio dei termini conduce a riflettere sulle proprie scelte perché le opere possano diventare specchio fedele di un itinerario che si invera nei giorni della vita. Soltanto da un simile duro apprendistato può nascere un discorso forte, capace di spostare i confini, prima del proprio orizzonte, poi dell’arte. È la stagione iniziale, relativamente più oscura, con la sua lezione di seria applicazione, che determina la successiva, folgorante, avvenuta tutta sul continente: della quale, al tempo, l’eco sull’Isola è stata flebile, frammentaria, fino alla notizia della morte. Sono occorsi decenni perché – non per naturale riflusso ma per la caparbia ricerca di poche persone – opere capitali dell’artista facessero ritorno in Sardegna e prendesse corpo quel prezioso archivio della ceramica nel contesto del quale Fancello è asse portante di una galassia di figure e di forme. Alla luce di ciò, l’opera di Fancello non costituisce, di per sé, un termine post quem l’iconologia dei manufatti sardi muta significativamente. La persistenza dei modelli, la resistenza all’evoluzione – stanti la inalienabile congruenza della forma e la subordinazione dell’apparato decorativo nella maggior parte della produzione di oggetti, nonché la lontananza dell’artista dal luogo di nascita – hanno reso l’apporto di 7
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Madre di tutti i manufatti resta comunque la brocca che attraversa i millenni, con lievi variazioni funzionali nei manici e con ingobbi e vetrine di utilità tecnica che fanno altresì da elemento decorativo, giungendo fino al secolo scorso, diffusa a tutto il territorio isolano. La perfetta bellezza della brocca la rende di per sé opera d’arte e l’iconografia ne tiene conto: si vedano la linoleografia del 1934 con donne presso una fonte e la cromolinoleografia del 1937 con il trasporto dell’acqua incise da Giuseppe Biasi, oltre all’ampia e suggestiva documentazione fotografica lungo il Novecento con interpreti come Mario De Biasi e Marianne Sin-Pfältzer. Nel 1935 l’iconologia sarda viene compendiata nel poderoso volume Arte sarda di Giulio Ulisse Arata e Giuseppe Biasi, con tavole fuori testo illustrate da Biasi e centinaia di immagini, edito a Milano per i tipi dei Fratelli Treves, a seguire vari articoli dedicati alla casa popolare sarda e alla sua suppellettile (ristampato nel 1986 è disponibile oggi anche online). Nel libro citato, di riferimento per ogni studio, sono dedicate dieci chiare pagine a ceramica e cestineria collegate e la tavola CLXXIII a un imponente gruppo di ceramiche di Dorgali, con brocche zoomorfe, allora in collezione Clemente a Sassari. Si tratta della prima visione d’assieme e dall’alto della creatività sarda: vi si individuano le radici di ambiti della decorazione nel Protosardo e nel Romanico, vi si lascia intuire anche come le cesure tra le varie arti non siano che artifici di comodo, vi si operano attenti confronti tra manifatture isolane e di queste con altre realtà regionali; con riferimento alla ceramica vi si sottolinea come storicamente, a differenza delle produzioni continentali, per quella sarda si possa parlare di continuità in una poco diversificata realtà degli oggetti d’uso; vi si certifica la tradizione di Dorgali (che dagli anni Venti si caratterizza per la decorazione “a freddo”) e vi si ricorda come ogni oggetto dell’infinita panoplia isolana viva nella 12
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8. Francesco Ciusa, Il Golfo degli Angeli (ante 1908), piatto in terracotta da stampo con interventi di colore “a freddo”, Ø 41 cm, Sassari, coll. privata. 9. Francesco Ciusa, Cantu prus mannu est s’amore tantu prus trista est sa bida, modello ante 1908, contenitore con coperchio in terracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 28,5 cm, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate. Sul fondo, marcato in pasta: SPICA. 10. Francesco Ciusa, Mammina che lega la cuffietta (1919-21), piastra in terracotta da stampo dipinta “a freddo”, 23 x 12,6 cm, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate. Sul retro, marcato in pasta: SPICA; altro marchio: Le copie e le contraffazioni sono perseguite a termine di legge. 11. Francesco Ciusa, Scatola (1919-21), terracotta da stampo dipinta “a freddo”, h 17,5 cm, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate. 12-13. Francesco Ciusa (esecuzione Giovanni Barbaricino Ciusa), Bomboniere (anni Cinquanta-Sessanta), terracotta da stampo dipinta “a freddo”, rispettivamente: Ø 8,4 cm, sul fondo, marcato in pasta: G.B. Ciusa; Ø 7 cm, sul fondo, marcato in pasta: B. Ciusa, Cagliari, coll. privata.
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14. Francesco Ciusa, Bomboniera bottone sardo (1919-21), terracotta da stampo dipinta “a freddo”, Ø 9,5 cm, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate. Sul fondo, marcato in pasta: SPICA.
casa, amato, sull’orizzonte quotidiano dello sguardo. L’angolazione dell’opera non consente peraltro all’autore di esplicitare ipotesi di intrecci virtuosi – non improbabili – lungo i decenni, tra gli interpreti noti dei diversi rami della produzione. Frattanto, le prime esposizioni biennali di arti decorative affermano la consistenza del linguaggio della tradizione mentre le susseguenti Triennali si incaricano progressivamente di abolire ogni presenza strettamente regionale. Competerà alle ricerche del secondo dopoguerra di aprire a confronti con un più vasto orizzonte determinato da afferenze continentali ed europee mediate da un accesso all’informazione relativamente facilitato e da flussi di un’utenza nuova, inimmaginabile prima dell’avvento del turismo internazionale sull’Isola. Occorrerà attendere gli anni Ottanta e seguenti affinché si riprenda un progetto d’archivio della produzione figulina sarda, con la ricognizione del passato produttivo, il suo inquadramento storico, e con l’iniziativa preziosa di un censimento attivo per la mappatura delle manifatture esistenti. Un evento espositivo di vasta portata come la rassegna sassarese del 2000 dal titolo Cento anni di ceramica, promossa dall’Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano (ISOLA), fa per primo il punto della situazione con ampia messe di dati nel catalogo curato da Antonello Cuccu. Nuovi ragguagli sulla storia, linguaggio e prospettive in Sardegna appaiono, con un corredo iconografico di straordinaria bellezza e ricchezza, nell’amplissimo volume Ceramiche, edito dalla Ilisso nel 2007, opera di scientifica perizia. Con pressoché analoga scansione temporale, le iniziative odierne, legate al nome di Fancello, vogliono allargare la consapevolezza di quanto si è classificato a un più vasto territorio, moltiplicando occasioni e sedi espositive secondo la concezione di museo diffuso che – mediata dagli strumenti attuali di comunicazione – sembra oggi atta a trasmettere la curiosità di conoscere alle generazioni del futuro. È su questa premessa che una nuova esposizione ricognitiva dell’esperienza ceramica sarda, dorgalese in particolare, acquista senso innestando il suo portato di sapere in prospettiva. Non si dimentichi mai che l’artigianato, oggi in pericolo, è stato il fondamento sul quale si è retta per secoli l’economia della nazione italiana. La crisi del pensiero umanistico che si dà in Europa all’inizio del Novecento coincide con una crisi estetica che determina svolte radicali lungo i primi quindici anni del secolo. Con la prima guerra mondiale si può dire con Jean Clair che si chiuda l’arte come “grande maniera”. Il concetto di monumentalità sarà richiamato dalla retorica Anni Trenta senza tuttavia incidere sensibilmente sulla cultura dell’oggetto e dell’oggetto decorativo, tanto più quanto più distanti sono i luoghi di produzione regionale dalla sede del regime. Tale osservazione, mediata dalla mente lucida della compianta Rossana Bossaglia, sembrerebbe valere massimamente per la Sardegna, dove ad esempio vien meglio conservata, con le forme, anche la vivacità del colore, a fronte di un impoverimento medio delle cromie legato al clima della guerra. Ma le istanze provenienti dal confronto con la produzione nazionale nel tornante delle occasioni espositive sul continente non rimangono del tutto inattive e alle esigenze
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34-35. Salvatore Fancello, Disegno ininterrotto, 1938, china e acquerello su carta da telescrivente, 29,4 x 668 cm, Dorgali, Museo Civico “Salvatore Fancello”.
e sottilmente ironico, e marcatamente antiretorico (Leoncillo Leonardi diventerà magmatico soltanto con i Mostri presentati alla Triennale del 1940). L’elegia della natura, il ricorso alle figure di animali per allegoria vengono di nuovo in soccorso allo scultore sardo nella triste stagione delle leggi razziali che costringono gli amici intimi, Nivola, Ruth e Renata Guggenheim all’emigrazione: animali come simbolo di purezza forte e costantemente attiva fuori dalle norme umane divenute odiose: questo il senso ultimo della figurazione fancelliana, per nulla onirica o fiabesca, per quanto presentata talvolta in forma di racconto, per comprendersi meglio, amorosamente viscerale, mai aneddotico, cronaca minima di rare gioie e vasta paura dei giorni. Alla purezza degli animali si affianca quella della figura femminile, nella vicenda del desiderio e della sua tragica elisione: nudi arresi e pure lontani, allontanati dalla consapevolezza dell’impossibilità di amare in tempi da incubo. Il segno di Fancello è capace di registrarvi le minime tracce dell’emozione e del disinganno. Precorre le opere citate, analogo nella concezione tridimensionale, uno splendido disegno di animali da eseguirsi in ceramica, vero progetto di scultura (leggibile anche come decorazione a rilievo per un vaso), caratterizzato dal ribaltamento raddoppiamento e allungamento delle figure di leoni e cinghiali a costituire un unico articolato corpo, accompagnato dal tipico déplacement e slittamento delle tâches cromatiche rispetto alle forme figurali à la manière de Dufy. I segni, di varia frequenza e intensità, appaiono in relazione immediata con quelli che plasmano, innervano, commentano e trafiggono il corpo plastico (ad ogni tratto d’inchiostro di china corrisponderà un’incisione del chiodo o una traccia di colore). Il lavoro documenta il nitore dell’idea sottesa, la perizia della costruzione, la leggerezza nel porgere: doti che si ritroveranno, nel dopoguerra, nella limpida ceramica di Fausto Melotti. Coevi al disegno citato sono quelli su carta da telescrivente, come il Disegno ininterrotto, punta di diamante del Museo di Dorgali e opera capitale della grafica europea del ventesimo secolo, al quale ebbi l’onore di dedicare il primo studio quasi trent’anni fa al suo arrivo in Italia. Mario Delitala, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, Giorgio Rosi, oltre agli architetti Pagano, Palanti e Romano, e Giulia Veronesi, Raffaele Carrieri, e Saul Steinberg oltre a Umberto Bellintani e Giovanni Pintori, sono a quel tempo riferimenti per salde amicizie, relazioni preziose o appena intraprese, progetti o proposte di lavoro che non fanno in tempo a superare lo stadio iniziale (l’impareggiabile generoso Edoardo Persico era già scomparso alla vigilia della “sua” Triennale nel 1936).
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36. Salvatore Fancello, Bovini al pascolo (1937), tempera su carta, 30,4 x 46,5 cm, Dorgali, Museo Civico “Salvatore Fancello”.
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Come per l’archivio di Padova, quel che resta della produzione di Fancello ad Albisola Marina (in origine oltre cento pezzi in maiolica colorata e il monumentale presepe di ventidue gruppi di statue e dieci di animali, oggi molto meno numerosi e difficilmente visibili) basta comunque a illuminarci: la sensazione del rastremarsi del tempo sospinge tanto le mani dello scultore quanto la sua coscienza critica; le opere diventano sempre più geometrizzanti, ardite e luminose, complici gli smalti riflessati; le gamme cromatiche si riducono verso il 1939 tornando alla bicromia e alla monocromia, la dinamica della plastica si accentua ulteriormente, talvolta in senso drammatico. Anche nel pannello dei giochi sportivi realizzato per la mensa dell’Università Bocconi, posto in opera nel 1941 e fotografato da Giovanni Pintori (pubblicato sulla copertina di Domus nel novembre 1941), per quanto relato a una tematica obbligata, tutto appare in movimento, ma in quel tempo sospeso come dopo la caduta di un fulmine, dalla bianca figura centrale omaggio alla Vittoria dell’aria di Fontana, ai dodici gruppi figurali in terra rossa contro il fondo smaltato d’azzurro intenso. Dopo di che, tutto ineluttabilmente riprende a scorrere, inarrestabile, come la storia
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e gli ultimi giorni di vita, in quella naturale nudità di gesti che il bozzetto di figura femminile seduta assegnato al 1940 – pubblicato nel volume edito da Tamburini per le ceramiche Pozzi con prefazione di Guido Piovene e documento sicuro dell’intenzione dell’artista di proseguire i suoi studi di scultura – testimonia, audace nel suo seno tenerissimo, e solitario. Alla considerazione (rilettura) degli oggetti d’uso Fancello si avvicina nei periodi trascorsi a Padova: presso l’Archivio Ferraresso si conserva quanto è sopravvissuto della sua produzione entro il 1936, quella minima frazione che è riuscita a superare la guerra, il trasferimento del laboratorio e un incendio: a parte le sculture, una teiera con lattiera, un’alzata, due portaprofumi, quattro versatoi. Nessun elemento che richiami la decorazione in uso in Sardegna; smalto rigorosamente monocromo. Pochi icastici oggetti atti a dichiarare con esattezza l’approccio dell’artista al design: approccio minimalista, potremmo dire, mediato dalla lezione della Secessione da una parte e corroborato dall’intellighentia milanese del razionalismo architettonico presente nel corpo docente dell’ISIA. Comunque prove di scultura, e prove di carattere: versatoi in forma di chioccia o di ariete dalle linee essenziali, figure inequivocabilmente femminili ma di massima semplicità per i portaprofumi. A esse si aggiunge un canguro stilizzato, a smalto nero lucido, degno di confondersi col miglior bestiario di Melotti. Si tratta di una figurazione assai diversa da quella proposta nelle mostre annuali dell’ISIA, accorpata nelle vetrine della VI Triennale e ben nota da varie foto d’epoca; da quelle figure di animali di terracotta grezza o appena toccata di bianco o di colore, ora scattanti ora volutamente un poco goffe, ironiche sempre e ingannevolmente morbide, cinghialetti, elefanti, leoncini, galline, fagiani e pavoncelle, caprette, pecore lunghe lunghe, come giocattoli porti da un mago a un bambino. Pare incredibile, ma la formidabile lezione che poteva conseguire dagli oggetti citati non fu conosciuta da nessun altro artefice o architetto amico o storico dell’arte: rimase ignota, confinata nel laboratorio di Padova fino alla ricognizione del 2012 da parte di chi qui scrive. Del resto, lo stesso Fancello, preso nel vortice della sperimentazione di terre e smalti, dovette andare oltre quelle prove lasciando il discorso in sospeso, con la prodigalità tipica del vero artista capace di abbandonare una via per aprirne subito un’altra, spinto da inesausta curiosità. Considerando oggi quegli oggetti, quelle forme, si intuisce quale fosse la portata della mente di quel giovane bruciato davvero dal fuoco creativo, che lavorava a un ritmo indiavolato per impedirsi di pensare che magari non aveva denaro sufficiente per tornare a casa d’estate. E se si vuol parlare di nascita del design a quell’epoca, non si potranno più ignorare quei lavori di Fancello.
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37. Copertina di Domus, novembre 1941, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate. 38. Salvatore Fancello, Cangura (1936), ceramica smaltata, Padova, coll. privata.
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39. Fausto Melotti, Giraffa (1950), ceramica smaltata, Monza e Milano, coll. Montrasio Arte.
BIBLIOGRAFIA
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SALVATORE FANCELLO (Dorgali 1916-Bregu Rapit 1941) Penultimo di dodici figli, Salvatore nasce da Pietro Fancello e Rosaria Cucca, in una famiglia contadina di disagiate condizioni economiche. Manifesta giovanissimo spiccate doti di disegnatore. Conclude nel 1927 le classi elementari e si diploma presso la Scuola di Avviamento professionale a Dorgali nel 1929, iniziando a lavorare come apprendista nel laboratorio artigiano di ceramica e pelletteria di Ciriaco Piras; qui ha modo di mettere a frutto le proprie capacità manuali e inizia a sperimentare con le argille. Nel 1930 partecipa a un concorso bandito dal Consiglio per l’economia corporativa di Nuoro vincendo una borsa di studio per i corsi dell’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA) di Monza, diretto da Guido Balsamo Stella. Parte da Olbia il 28 ottobre 30
con Giovanni Pintori, parimenti assegnatario di borsa di studio e giunto a Monza alloggia nel convitto annesso alla scuola nella Villa Reale. Frequentato il corso preliminare, accede alla sezione di Ceramica rivelando a docenti e colleghi doti di apprendimento rapido e straordinarie capacità nel disegno e nel modellato. Nel 1931 fa gruppo con Giovanni Pintori e Costantino Nivola di Orani, giunto anche lui a Monza con borsa di studio; in questi anni frequenta l’ISIA anche Pietro Mele, giovane di Dorgali iscritto alla sezione di pittura. Ha come insegnanti di Tecnica degli smalti e Tecnica delle costruzioni rispettivamente Karl Walter Posern e Virgilio Ferraresso. Tra gli altri cattedratici: Ugo Zovetti, Arturo Martini, Pio Semeghini, Raffaele De Grada. All’ISIA, il nuovo direttore Elio Palazzo compie una revisione dei programmi: sostituisce Martini con Marino Marini, affida la grafica pubblicitaria a Marcello Nizzoli, storia del-
l’arte, critica, costruzioni, descrittiva e conferenze a famosi esponenti della cultura e dell’architettura razionalistica come Edoardo Persico, Giuseppe Pagano, Agnoldomenico Pica, Giovanni Romano, Pietro Reina e Raffaello Giolli. Nell’estate 1933 espone due lavori alla IV Mostra interprovinciale sarda di Belle Arti a Cagliari. Nel 1934 si diploma Capo d’arte. Inizia a frequentare il laboratorio di Virgilio Ferraresso a Padova sperimentando nuovi materiali. Rientra a Monza per il biennio di perfezionamento, avendo come docente di Composizione Umberto Zimelli. I suoi lavori, segnalati dalla Direzione tra gli esiti migliori della produzione dell’ISIA, vengono esposti alla mostra permanente degli elaborati della scuola e ne illustrano i pieghevoli pubblicitari. Conseguito a Monza il diploma di Maestro d’arte, nell’estate del 1935 torna per le vacanze in Sardegna, nell’occasione espone alla IV Mostra sindacale di Nuoro e alla V Mostra dell’artigianato e piccola industria di Cagliari (ricevendo un premio acquisto per un cinghiale in terracotta) e frequenta il laboratorio dorgalese di ceramiche di Simeone Lai. Nell’autunno, ospite a Padova di Virgilio Ferraresso, già suo docente, realizza un vasto corpus di ceramiche mettendo a frutto ogni suggerimento del maestro e perfezionando ulteriormente le tecniche di smaltatura (gran parte dei lavori andranno perduti nel periodo bellico). Collabora con sculture in gesso a soggetto di animali alla Mostra della Montagna a Torino, accanto a Zvetteremich e Nivola (l’installazione riporta le tre firme). Nel 1936 partecipa alla VI Triennale al Palazzo dell’arte di Milano con un’ampia parete graffita a soggetto coloniale, dodici piastrelle ceramiche a figurare i mesi e dodici segni zodiacali, un mosaico di piastrelle litoceramiche (firmato con Nivola), vasi e numerosi pezzi da vetrina. Ai Segni zodiacali è assegnato il Gran premio della Triennale. L’attività di Fancello, sostenuta da Giuseppe Pagano, viene segnalata dalla critica. L’artista si trasferisce con gli amici Nivola e Pintori a Milano dove frequenta l’ambiente della cultura razionalista. Nel 1937 amplia le proprie conoscenze e frequentazioni: il disegnatore Saul Steinberg, i poeti Raffaele Carrieri e Leonardo Sinisgalli, il ceramista Tullio d’Albisola, il funzionario del Ministero dell’educazione nazionale Giulio Carlo Argan, Giulio Rosi della Sovrintendenza alle antichità di Torino (questi ultimi acquistano alcune sue sculture). Lavora per la Mostra del Tessile a Roma (un bassorilievo di ceramica e graffiti), realizza installazioni con figure geografiche e statue d’angeli mutuate dai coevi presepi per i negozi Olivetti a
Milano, accanto a Pintori e Nivola assunti dall’ufficio promozione e pubblicità della Casa di Ivrea. A dicembre è chiamato alle armi. Durante il servizio militare, nel 1938, conosce Cesare Brandi, soprintendente per le Belle Arti a Rodi. Nell’estate è in licenza a Milano, in gravi difficoltà economiche. Disegna con passione: nascono i lavori sui rotoli di carta per telescrivente. Giulia Veronesi gli dedica un articolo sulla rivista Corrente. Disegna vignette per il settimanale umoristico Il Settebello. Le opere eseguite per la Triennale del 1936 sono illustrate nel volume Arte decorativa italiana di Giuseppe Pagano (Milano, Hoepli). Si reca a lavorare da Mazzotti ad Albisola Marina: nella famosa bottega di ceramiche, a contatto con vari artisti – da Martini al
gruppo futurista, a Sassu, a Lucio Fontana –, realizza più di un centinaio di pezzi di alto livello tecnico e profonda maturità: bestiario in maiolica colorata, piatti e vasi riflessati in oro e colori metallici, presepe in duplice copia (esposto nel 1940 a Torino, nel 1942 a Milano e in parte al Museo di Brooklyn nel 1950); il lavoro albisolese di Fancello e di Fontana è sovente documentato dalle fotografie di Giovanni Pintori. A causa delle leggi razziali, Costantino Nivola e la moglie devono emigrare negli Stati Uniti. Fancello intesse una corrispondenza con Renata, sorella di Ruth Guggenheim. Richiamato alle armi, nel 1939 viene trasferito da Ivrea a Susa Molaretto. Nel marzo del 1940 si reca in licenza a Milano dove ritrova l’amico Pintori e lavora per la
VII Triennale dove espone insieme a Leoncillo Leonardi, vincendo il diploma d’onore: il lavoro dei due ceramisti incontra l’apprezzamento di Sinisgalli. Su incarico dell’architetto Giuseppe Pagano, Fancello realizza decorazioni ceramiche per la sala della mensa e per il pennone portabandiera dell’Università “Luigi Bocconi”. Eseguiti nelle fornaci Ilsa di Albisola, i pezzi vengono collocati in opera a Milano l’anno seguente con il denaro inviato dal fronte dall’artista stesso (superstite è il solo pannello maggiore dedicato alle attività sportive). Esegue un nucleo di disegni a graffito a soggetto di nudi femminili e di costellazioni e intraprende nuove ricerche plastiche, rimaste allo stadio di abbozzo poiché ai primi di gennaio del 1941 è chiamato al reggimento presso Ivrea e alla fine del mese è imbarcato a Bari per il fronte albanese. L’ultima lettera ai familiari data 20 febbraio, Fancello muore infatti a Bregu Rapit il 12 marzo e viene sepolto nel cimitero di guerra. Nel 1942 il Centro di Azione per le Arti allestisce presso la Pinacoteca di Brera a Milano una mostra omaggio all’artista con sculture, ceramiche e disegni provenienti dalle collezioni Argan, Labò, Mazzotti, Mussolini, Pagano, Palanti, Pintori, Podestà (catalogo a cura del Gruppo Editoriale Domus). Nel 1947 viene conferita alla memoria di Fancello la medaglia d’argento al valor militare. Nel 1954 la sorella richiede il rimpatrio delle spoglie. Nel 1962 l’urna viene tumulata nel camposanto di Dorgali.
41. Salvatore Fancello alla fine degli anni Trenta, foto Giovanni Pintori, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate.
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42. Copertina di Domus, dicembre 1941, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate.
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69. Salvatore Fancello, Lotta fra cavallo e toro (1938-39), terracotta smaltata con ritocchi di colore sottovetrina, 24,5 x 42 x 21,5 cm, Firenze, coll. privata. 70. Salvatore Fancello, Grotta con cinghiali rossi, 1938, terracotta smaltata, 13 x 19 x 18 cm, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate.
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129. Salvatore Fancello (per la Bottega Simeone Lai), Pastore seduto (metà anni Trenta), inchiostro, pastelli colorati, matita su cartoncino sagomato, Ø 36,6 cm, Cagliari, coll. privata.
di china, Ø 34 cm, Bologna, coll. privata. Sul fondo, marcato in pasta: Simeone Lai ceramiche sarde Dorgali-Nuoro / Creazione di Fancello.
130. Simeone Lai (su disegno di Salvatore Fancello), Pastore seduto (seconda metà anni Trenta), piatto in terracotta da stampo dipinta “a freddo” con vernici sintetiche e tratto
131. Salvatore Fancello (per la Bottega Simeone Lai), Fanciulla di Dorgali (metà anni Trenta), inchiostro, matita e pastello su carta, Ø 36 cm, Milano, coll. privata.
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132. Simeone Lai (su disegno di Salvatore Fancello), Fanciulla di Dorgali (seconda metà anni Trenta), piatto in terracotta da stampo dipinta “a freddo” con vernici sintetiche e tratto di china, Ø 33 cm, Bologna, coll. privata. Sul fondo, marcato in pasta: Simeone Lai ceramiche sarde Dorgali-Nuoro / Creazione di Fancello.
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133. Simeone Lai (su disegno di Salvatore Fancello), Tosatura (seconda metà anni Trenta), piatto in terracotta da stampo dipinta “a freddo” con vernici sintetiche e tratto di china, Ø 42 cm, Cagliari, coll. privata. Sul fondo, marcato in pasta: Made in Italy Simeone Lai ceramiche sarde Dorgali-Nuoro Creazione Fancello. 134
134. Simeone Lai (su disegno di Salvatore Fancello), Scatola portagioie (seconda metà anni Trenta), terracotta da stampo dipinta “a freddo” e patinata all’interno e alla base con vernici sintetiche e tratto di china, h 11,5 cm, Ø 11,5 cm, Nuoro, Archivio per le Arti Applicate. Sul fondo, marcato in pasta: Made in Italy Simeone Lai ceramiche sarde Dorgali-Nuoro.
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145. Paolo Loddo, Ragazza di Desulo (anni Trenta-Quaranta), particolare della fig. 151.
Paolo Loddo Eccellente intagliatore, ideatore della filettatura (il righettato che riempie i campi vuoti nella terracotta), distinguerà la sua produzione, ancora oggi vitale attraverso gli eredi, per una riconoscibile attenzione alla qualità decorativa. La sua bottega si è aperta alla sperimentazione negli anni Cinquanta-Sessanta con importanti artisti-designer, presentati da Eugenio Tavolara.
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Giovanni Cucca Pluripremiata per la qualità delle sue pelli lavorate, molto poco ancora si conosce dell’attività ceramica della Bottega Cucca, che ha impresso una sorprendente virata nell’offerta ceramica di Dorgali e per la Sardegna degli anni Trenta, riprendendo e traducendo nella terracotta incisa e dipinta sottovetrina, soggetti esperiti precedentemente col decoro “a freddo” o in pelletteria.
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FRANCESCO SALE (Dorgali 1925-2014) Ultimo di sei figli, il padre contadino e la madre sarta, fin da giovanissimo si rivela un abile disegnatore; conseguita la licenza elementare abbandona gli studi per aiutare la famiglia nei lavori agricoli. A 15 anni comincia a lavorare presso la manifattura di Simeone Lai, rifinendo con pennino e inchiostro di china i piatti della bottega; rimarrà proverbiale il suo segno nitido e fluido. Nel dopoguerra si trasferisce a Sassari, impiegato come aiuto fotografo all’interno dello studio del fratello Vincenzo. Sviluppa da questo momento una forte passione per l’archeologia; nel 2005 dona la sua collezione di reperti al Museo Archeologico di Dorgali. Nei primi anni Cinquanta, rientrato al paese d’origine, apre una sua attività ceramica; nel 1954 si iscrive alla Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato (poi, nel 1957 all’Albo delle imprese artigiane della provincia di Nuoro) e già nel 1955 espone alcuni suoi oggetti alla VII Fiera Campionaria della Sardegna, guadagnando apprezzamento per il suo lavoro e un premio di 10.000 lire. In questo periodo il suo laboratorio ha sede in casa e non avendo uno spazio espositivo vende i suoi manufatti unicamente all’ingrosso. Nei primi anni Sessanta apre finalmente un suo negozio: un locale che affaccia sulle cen-
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trali via Vittorio Emanuele e via Lamarmora. Qui lavoreranno, due per volta, diverse giovani dorgalesi che, oltre a occuparsi della vendita (concentrata quasi unicamente nella stagione estiva), saranno impegnate nella decorazione “a freddo” dei manufatti prodotti in serie. Tra queste, anche la giovane M.L. Piras che si distingue per una naturale capacità nel decorare con tratto fermo e preciso gli oggetti, abilità riconosciuta e apprezzata da Sale, che le affida anche lavori di un certo impegno che solitamente riservava per sé. Nel gennaio del 1965 – incentivato anche dalla moglie, Placidia Zampighi, un’insegnante originaria di Forlì – stipula un contratto di finanziamento (previsto dal Piano di Rinascita della Sardegna) per costruire un nuovo laboratorio, più funzionale alla sua attività, che in quegli anni andava espandendosi e richiedeva macchinari più innovativi – come il tornio elettrico in sostituzione del tornio a pedale – per stare al passo con la maggiore produzione. Alla fine del 1966 viene ultimato anche il nuovo laboratorio, nell’attuale via Fratelli Cervi, dove può riorganizzare più funzionalmente il suo lavoro, supportato da giovani apprendisti. Nella prima metà degli anni Settanta, a causa della concorrenza, sempre più agguerrita e numerosa, e della generale crisi economica decide di chiudere il negozio in affitto e
di riaprirlo in un locale di sua proprietà, situato all’inizio della via Vittorio Emanuele, quasi adiacente al primo. Con tale ripiego non deve sostenere i costi del personale e della pigione, poiché il nuovo spazio è ricavato all’interno dell’abitazione di famiglia. Nel 1975, colpito da una patologia che gli lascia degli esiti invalidanti (la ridotta funzionalità motoria di un braccio e di una mano), è costretto a sospendere per un lungo periodo la sua attività. Con un grande sforzo di volontà recupera in tempi abbastanza stretti, circa un anno e mezzo, e gradualmente riprende l’attività, seppure con molti limiti. Non potrà infatti più lavorare sulla “produzione in quantità”, e pertanto decide di specializzarsi sugli oggetti non in serie, piatti unici e vasi torniti, venduti in esclusiva nel suo spazio espositivo (produzione già esperita anni addietro ma limitata dai serrati impegni della realizzazione in serie). Alla fine degli anni Settanta, una commerciante d’artigianato, proprietaria di un grande negozio a Muravera, chiede l’esclusiva di tutta la produzione di Sale, che quindi chiude definitivamente la rivendita diretta. Per circa un quinquennio lavora solo per la nuova cliente, sino a quando, senza preavviso, non gli viene acquistata la produzione dell’anno di lavoro. Ciò lo induce, suo malgrado, a chiudere nel 1984 l’attività. Nel suo ultimo
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periodo sperimenta su alcuni piccoli manufatti, scatole tonde portagioie, una diversa tecnica di decoro: l’incisione a mano libera, con l’ausilio di una moletta elettrica. Francesco Sale fu un ceramista molto esigente, dalla linea precisa, attento alla qualità e alla “perfezione assoluta” della produzione. I suoi temi narrativi sono tutti descrittivi della quotidianità di allora: la panificazione, la tessitura, il rito nuziale, il ballo tondo, la caccia e, legata a essa, la primeggiante figura del cinghiale, motivo nel quale recupera gli stilemi fissati da Salvatore Fancello, a lui consueti attraverso la collaborazione con la bottega di Simeone Lai. Ad attività avviata, pur proseguendo una produzione decisamente destinata al mercato – pertanto simile nei ca-
ratteri a quella delle altre botteghe –, compie un passo singolare col quale si posiziona su scelte originali: recupera il tornio (allora in disuso a tutto vantaggio della formatura) e inizia a dipingere le terrecotte sulla superficie liscia del biscotto ch’egli stesso torniva. La composizione, non più campitura di una traccia a rilievo, è guidata ora da una libertà meramente pittorica, originalmente creativa, immaginifica nei colori, complessa nei rimandi, esito e sfogo alla sua vera passione: quella del disegnatore. Una nuova produzione – più sentita ed elaborata – è caratterizzata da uno stile personale e minuzioso, seppur inizialmente influenzato ancora dall’espressività di Fancello, poi totalmente autonomo e originale.
187. Francesco Sale al lavoro (metà anni Cinquanta), foto Madeleine Micheloud e Jean Claude de Wolf, Dorgali, Archivio Eredi Sale. 188-189. Il laboratorio di Francesco Sale tra la fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta, foto d’epoca, Dorgali, Archivio Eredi Sale. 190. Ingresso della rivendita Sale in via Vittorio Emanuele 3 a Dorgali (seconda metà anni Settanta), foto d’epoca, Dorgali, Archivio Eredi Sale.
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BIBLIOGRAFIA SCHEDE BIOGRAFICHE
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