Arte sarda

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ARTE SARDA Manufatti della tradizione popolare



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ARTE SARDA Manufatti della tradizione popolare

Prefazione Philippe Daverio Saggio introduttivo Giulio Angioni Testi Alberto Caoci, Franca Rosa Contu, Antonello Cuccu, Giovanni Maria Demartis, Susanna Paulis


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Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE Coordinamento redazionale Anna Pau

Grafica e impaginazione Ilisso edizioni

Referenze fotografiche Le fotografie, quando non diversamente segnalato in didascalia, sono state realizzate da Pietro Paolo Pinna (Archivio Ilisso), ad eccezione delle nn. 25, 34-35, 58, 6061, 63, 67-68, 70-74, 77, 79-84, 86-87, 89, 92-93, 480, 485-487, 489 (Nelly Dietzel, Archivio Ilisso); delle nn. 133, 143, 180-181, 191-192, 194-195, 201-202, 204 (Virgilio Piras, Archivio ISRE, Nuoro); delle nn. 454-455 (Matteo Setzu).

È vietata ogni ulteriore riproduzione e duplicazione.

Un particolare ed esteso ringraziamento è rivolto a coloro che hanno collaborato a vario titolo alla migliore riuscita del volume, in particolare alla direzione e al personale dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro e del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma. Si ringraziano per la disponibilità il Museo del Fazzoletto di Oliena e Matteo Setzu.

Stampa Lito Terrazzi

© 2014 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-320-7


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Indice

7 PREFAZIONE Philippe Daverio

11 L’ESTETICA

DELL’UTILE

Giulio Angioni

20 IL

PANE

Susanna Paulis

50 IL

DOLCE

Susanna Paulis

72 IL

TESSUTO

Franca Rosa Contu

112 L’ABITO

TRADIZIONALE

Franca Rosa Contu

146 LA

PELLETTERIA

Alberto Caoci

152 IL

RICAMO

Franca Rosa Contu

188 IL

GIOIELLO

Giovanni Maria Demartis

216 L’INTRECCIO Giovanni Maria Demartis

248 LA

CERAMICA

Antonello Cuccu

286 L’INTAGLIO Susanna Paulis

318 I

CORNI E LE ZUCCHE INCISI

Giovanni Maria Demartis

350 IL

SUGHERO

Susanna Paulis

360 IL

METALLO

Susanna Paulis

382 BIBLIOGRAFIA


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1-5 ARTE SARDA Pref., Pani, Dolci, Tessuti, Costumi_Layout 1 19/12/14 13.55 Pagina 7

Prefazione Philippe Daverio

a Sardegna, si sa e talvolta pure lo si dice, non è un’isola, bensì un continente in miniatura. La Sardegna è anche, in quella parte occidentale del Mediterraneo, l’insediamento con le culture testimoniate più autentiche e autonome sin dalla notte dei tempi. La stringata logica del sillogismo porta quindi a considerare la Sardegna il più antico dei piccoli continenti. Ecco perché possono apparire in quei luoghi misteriosi pietre scolpite durante il medioevo recente che s’imparentano con le figure primordiali del primo romanico. Ecco perché le zucche seccate per diventare borracce possono recare decori graffitati analoghi alle pitture rosse dei vasi attici, con libertà erotiche che sembrano lontanissime dall’immaginario che solitamente viene attribuito ai costumi isolani. Si tratta nei vari casi di opere importate dal flusso dei venti e dei mari. Ma ben più antichi sono questi flussi se si pensa alle statuine steatopigiche conservate nei musei di Cagliari, quelle provenienti dalla cultura prenuragica di Ozieri di cinquemila anni fa, e se, a volo d’uccello, si va a considerare le incredibili e inspiegabili costruzioni di Gremanu dove solo dall’alto dei cieli si individua il fallo lungo cento metri. La Sardegna contiene una memoria compressa dalle stratificazioni infinite. Le mode passano, i modi restano. Le stoffe che la tradizione ha lentamente elaborato nell’assiduo lavoro del telaio testimoniano con acume un esotismo linguistico che collega gran parte delle culture mediterranee anche se oggi permane solo nella sponda meridionale del Mediterraneo; fino a ieri erano quelle dei fabbricanti di tappeti dell’Anatolia diventata parte dell’impero ottomano. Vi è un modo arcano di tessere che accomuna tutte le popolazioni del mare interno e che sembra volere contraddire le tradizioni greco latine delle tonache bianche esaltando una policromia che invade l’immaginario intero. È forse quello che già praticava Penelope mentre aspettava tessendo all’infinito il ritorno di Ulisse. Ed è carico di segni, di simboli, quelli che narrano la vita domestica dei campi, l’esaltazione dei fiori e la frescura dei giardini che il tappeto riassume. Dinnanzi a troppa natura l’invasione del segno umano diventa una necessità e le grafie del telaio vanno a coinvolgere anche l’intreccio delle ceste: è sempre la medesima mano di Penelope che opera, la medesima devozione delle dita che narra l’immaginario costante. Il tempo disponibile sembra talvolta infinito. Sono i ritmi dell’esistere scanditi da una liturgia stabile che rendono questo tempo ciclico e senza fine. È l’Aion greco che torna al punto di partenza con il giro degli anni. Come dice Eraclito: «Lui è un bambino che gioca come un bambino e sposta le figure sul tavoliere». La devozione diventa totale quanto va ad esaltare il sacro. Il primo gesto sacro domestico è quello del focolare: è nella cucina per le feste che la fantasia va a combinare la manualità delle paste con il cromatismo degli zuccheri e gli attrezzi usati poi per la tavola assumono la medesima pulsione decorativa. Ma il gesto sacro massimo è quello della devozione per il sacro supremo,

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Bisaccia, area dell’Oristanese, fine XIX sec., ordito e trama in cotone, trama supplementare in lanette e seta, Cagliari, Pinacoteca Nazionale.

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41-42. La festa di San Giovanni, Fonni, secondo decennio XX sec., foto G. Marchi. Due scene della festa di San Giovanni a Fonni, i cavalieri che portano il monumentale cohone ’e vrores e le donne che assistono alle pariglie che si svolgono al termine della processione. 43. Cohone ’e vrores, Fonni. Realizzato in occasione della festa di San Giovanni (24 giugno) su cohone ’e vrores (pane dei fiori) è uno dei pani più belli e complessi

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elaborati in Sardegna: su una focaccia di circa 40 cm di diametro vengono posizionati 160 uccellini e 5 galline di pane. Su cohone viene dapprima presentato in chiesa per la benedizione e poi portato in processione da su sòciu de Santu Giuanni (il priore della festa, che si assume anche l’onore della realizzazione); successivamente è affidato ai cavalieri che, durante le pariglie che si tengono il pomeriggio della festa, faranno la loro corsa tenendo ciascuno un uccellino tra i denti tramite l’asticella di canna su cui sono infissi.

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89. Orillettas, Nuoro. Fritture intinte nel miele, prevalentemente denominate orillettas e montecadas. Il dolce è costituito da una striscia di pasta molto sottile e larga circa 2 cm. La forma più ricorrente è quella con la sfoglia ripiegata su se stessa a mo’ di fisarmonica, ma esiste anche la variante chiusa “a ruota”, che inscrive una serie di cerchi (uno al centro e gli altri disposti a raggiera attorno a quest’ultimo). La cottura avveniva tradizionalmente nello strutto (ozu de porcu), oggi sostituito quasi sempre dall’olio d’oliva, mentre in alcune famiglie si era soliti friggerle nell’ozu casu (olio di formaggio), una

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sostanza grassa ricavata dalla panna di latte. Dopo essere stati fritti, i dolci vengono intinti nel miele bollente, talora aromatizzato con scorza di limone o d’arancia. Come tutte le fritture, l’occasione in cui venivano preparati e fruiti coincideva prevalentemente col Carnevale, tuttavia in alcuni centri, come ad esempio a Orune, essi scandivano anche le principali emergenze festive del ciclo della vita: le nozze e il battesimo. Sullo sfondo: 90. Tessuto, Ittiri, metà XIX sec., ordito e trama in lino.


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130-131. Tapinu de mortu, Orgosolo, inizio XIX sec., ordito e trama in lana, 245 x 84 cm, Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”. Questo particolare manufatto è un drappo funebre utilizzato per deporre la salma distesa sul pavimento durante la veglia funebre a Orgosolo, località dalla quale proviene la maggior parte degli esemplari e dove hanno continuato a essere utilizzati fino ai primi anni Cinquanta per adagiare la salma durante la veglia funebre domestica e proprio per questo sono stati oggetto di cura particolare: nei momenti di non uso, attribuendogli una viva sacralità, erano infatti distolti dagli occhi degli estranei. Di fatto si tratta dell’unico vero tappeto tradizionale sardo, destinato com’era a essere disteso sul pavimento, ma la denominazione locale non deve trarre in inganno: tapìnu non significa affatto tappeto, ma tessuto fitto, compatto. Un gran numero di questi tessuti funebri risponde a uno schema compositivo caratterizzato da testate con ornamentazioni ad andamento orizzontale, oltre le quali si apre un ampio campo rettangolare con uno o più ordini di cornici che includono motivi a onda, variamente disposti, in tre colori alternati. Al centro del tessuto è normalmente presente un riquadro contenente a sua volta simboli astratti, figure antropomorfe e zoomorfe stilizzate. Si può pensare che il motivo a onda, comune a buona parte dei tapìnos, costituisca una rappresentazione simbolica dell’acqua che scorre e favorisce il percorso dell’anima verso l’aldilà ovvero il ritorno verso cui tutto trae origine; il concetto di acqua quale elemento primordiale è presente nei miti cosmogonici di tutto il mondo e trova rappresentazione in motivi a onda che, nella rigidità dovuta alle tecniche di tessitura, possono assumere forma a zig-zag continuo o complicarsi in moduli a spirale o a greca. Tali figurazioni sono consuete in numerosi manufatti antichi tra i quali anche quelli ceramici e tessili. È probabile che in un momento collocabile intorno alla seconda metà del Settecento tale simbologia primordiale avesse perso il vigore del suo significato; questo spiegherebbe la sovrapposizione di figure umane, animali e vegetali che, con l’antica simbologia magica e religiosa, descrivono nel tessuto una sorta di “paesaggio ultraterreno”, di “paradiso”, che nella sua bellezza conforta il defunto nel distacco dal mondo terreno. La valenza originaria dei simboli descritti si è perduta quando ha iniziato ad affievolirsi la forza del pensiero tradizionale che l’aveva generata per significare importanti valori culturali di portata spirituale e sociale così “universalmente riconosciuti” da divenire elemento fondamentale di un complesso linguaggio rituale tramandato e rispettato anche quando se ne erano persi i più profondi significati. Tale linguaggio si esprime in vari prodotti della cultura materiale, dalle decorazioni delle necropoli e dei templi, alle ceramiche e ai legni intagliati, dai pani ai ricami per l’abbigliamento cerimoniale.

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234. Abito tradizionale del Campidano, anni Cinquanta XX sec., foto Marianne Sin-Pfältzer. Negli sfarzosi costumi femminili del Campidano le collane, cannaccas, sono spesso interamente formate da grossi chicchi aurei che, a seconda della forma, sono individuati con specifiche denominazioni: a perra ’e cannuga, a crox’e nuxedda, a mariga, a pisu. 235. Collana, fine XIX sec., oro e corallo, 24 cm, Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde. Questa tipologia di collana, denominata gutturada perché veniva indossata stretta al collo, è tipica del corredo di gioielleria femminile dei centri di Oliena e Dorgali. I nomi che queste collane o le sue parti assumono in Logudoro e nel Nuorese (a postas, appostada, gutturada a painnostres) fanno intuire un collegamento strutturale e simbolico con la corona del rosario, poiché le postas e i painnostres sono i nomi sardi dei “padrenostri” dei rosari. 236. Collana, fine XIX sec., oro, 53,5 cm. Molti manufatti campidanesi anziché essere infilati entro nastri come avviene sempre nelle altre zone, risultano “incatenati” da anellini interconnessi. Questo tipo di cannaca è denominata a mariga, poiché le barrette saldate ai vaghi ricordano i manici delle brocche (marigas). 237. Collana, fine XIX sec., oro e corallo, 44,2 cm. 238. Collana, fine XIX sec., oro e madreperla, 43 cm. Questa tipologia di collana, denominata cannaca, è formata da grossi vaghi in oro composti da due calotte semisferiche in lamina d’oro sottilissima saldate tra loro; ha una vasta diffusione nella zona del Campidano, a sud dell’Isola. Per la sua leggerezza è definita anche cannaca ’e entu (collana di vento).

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Caratteristici oggetti sono i coffinus, cofanetti muniti di coperchio, a base circolare o ellittica, non di rado riccamente ornati, e destinati all’invio di doni, a contenere dolciumi, la biancheria dei neonati (coffinu de is pannìzus o de sa spòlla) oppure il lievito per la panificazione (coffinu de su fromèntu). 291. Cofanetto con coperchio, Sinnai, metà XX sec., ordito in culmi di grano e tessitura in giunco con inserti in panno, interno rivestito in seta, h 23 cm, Ø 40 cm, Sassari, collezione ISOLA.

Denominato localmente coffinu de dolu, questo manufatto era tradizionalmente usato per portare cibi alle famiglie che avevano subito un lutto. 292. Cofanetto con coperchio, Quartu Sant’Elena, prima metà XX sec., ordito in culmi di grano e tessitura in giunco con inserti in panno, Ø 52 cm. 293. Scatola con coperchio, Campidano, metà XX sec., ordito in culmi di grano e tessitura in giunco con inserti in stoffa, h 17 cm, Ø 33 cm.

Nella doppia pagina seguente: 294-295. Crivello, San Vero Milis, 1911, ordito in foglie di giunco e tessitura in giunco, h 4 cm, Ø 30 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Denominato localmente chiliru de cherrere. 296. Venditore ambulante di cesti e crivelli, primi decenni XX sec., foto Antonio Ballero.

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356. Copricassa, Mogoro, fine XIX sec., oridito e trama in cotone, trama supplementare in lana, lanetta, filo dorato, inserti in seta, 240 x 76 cm, Cagliari, Galleria Comunale d’Arte. I copricassa erano destinati a ornare il coperchio e parte delle fiancate delle casse e dovevano dunque essere per lo più prodotti “su misura” per adattarsi alle dimensioni della stessa. 357. Cassa, Barbagia di Belvì, XIX sec., legno di castagno, 91 x 163 x 70 cm, Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Lo specchio centrale delle casse veniva decorato con un messaggio narrativo analogo a quello dei pani nuziali, i cui motivi rappresentavano, sotto forma di rigoglio della natura (foglie, fiori, spighe e colombe), un augurio di fecondità e fortuna per gli sposi. Il simbolo augurale di prolificità e abbondanza doveva essere individuato in tutti gli elementi fitomorfi e aviformi: i volatili in coppia, disposti in schema araldico, probabilmente rappresentavano i custodi simbolici del ciclo vitale, che si rigenerano all’albero della vita.

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465. Coltello lungo, fine XVIII-inizio XIX sec., acciaio, ottone e corno, totale 54,5 cm, lama 42 cm, Arbus, Museo del Coltello Sardo. Questa particolare tipologia di coltello, lungo e molto lavorato, viene detto, per la sua provenienza, leppa busachesa (coltello di Busachi). 466. Coltello lungo, Dorgali, metà XIX sec., acciaio, ottone, argento e corno, totale 54 cm, lama 41 cm. La lama di questa leppa durgalesa (coltello di Dorgali) è stata realizzata in loco; il

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manico, piuttosto elaborato, presenta una lavorazione a cesello, bulino e agemina in argento. Inciso sul manico “Dorgali Bachitta”. I manici di legno o corno negli esemplari più raffinati erano rivestiti con lamine di ottone e argento, riccamente decorate con un superbo lavoro di bulino e di cesello, competenza non già di semplici forgiatori ma di argentieri di comprovata maestria. Nella seconda metà dell’Ottocento si distinsero a Dorgali i fratelli Bachitta, che realizzavano splendidi manici di leppas a foggia di testa di leone preziosamente

cesellata, siglati e datati nella superficie laterale. Il fodero in cuoio, nelle tipologie più ricche, poteva recare inserzioni in velluto, broccato o lamina d’ottone. 467. Coltello lungo, Dorgali, metà XIX sec., acciaio e ottone, totale 41 cm, lama 28,5 cm. Per la realizzazione di questo coltello è stata impiegata una lama di Toledo, come si evince dal marchio raffigurante il sole impresso sul metallo. Era abbastanza comune che venissero importate dalla Spagna lame nude per immanicarle e fornirle di fodero.


Nella doppia pagina seguente: 468. Coltello, fine XIX sec., acciaio, ottone e legno, totale 42,5 cm, lama 24,5 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale. Coltello da scuoio a lama larga con manico in legno di noce parzialmente rivestito con lamina in ottone incisa a motivi vegetali. Il sistema di bloccaggio della lama utilizza un perno. Da questa tipologia deriva il coltello a serramanico arburese e dei centri contigui, che si caratterizza per la lama larga, impiegata soprattutto in ambito venatorio, e definita “a foggia antica” oppure “a foglia d’alloro” (a folla ’e làuru), o, ancora, “panciuta” (brentuda). 469. Coltello, Santu Lussurgiu, XIX sec., acciaio e corno, totale 46 cm, lama 21 cm. Sa resolza lussurgesa è uno dei prodotti di eccellenza della raffinata produzione

fabbrile di questo centro del Montiferru, noto anche per la realizzazione di morsi per cavalli e ferro battuto. 470. Coltello, Pattada, anni Venti-Trenta XX sec., acciaio, ottone e corno, totale 36 cm, lama 15,5 cm. Realizzazione Giacinto (Zintu) Canalis. Pattada, paese ubicato nella regione storica del Logudoro (più precisamente nella subregione del Monteacuto), ha dato il nome al più conosciuto fra i coltelli sardi: sa resolza pattadesa, più sinteticamente denominato sa pattadesa, vero e proprio emblema del coltello sardo, tanto apprezzato da essere ampiamente imitato, anche fuori dell’Isola, per la sua linea slanciata ed elegante. 471. Coltello, Pattada, anni Sessanta XX sec., acciaio, ottone e corno, totale

22,5 cm, lama 10,5 cm. Realizzazione Pietro Maria Delinna. 472. Coltello, Pattada, anni Ottanta XX sec., acciaio, ottone e corno, totale 39,5 cm, lama 18,5 cm. Realizzazione Nanneddu Fogarizzu. 473. Pranzo per la tosatura, Nuoro, giugno 1975, foto Fausto Giaccone. Il coltello sardo, quello denominato resolza o leppa, era un arnese personale maschile, più che parte dell’attrezzatura domestica. Il pastore, più di rado anche il contadino o l’artigiano, consideravano la personale resolza o leppa da tasca come la posata principale, anche al desco domestico. Il maschio capofamiglia, con il suo coltello personale, si occupava delle operazioni di taglio e suddivisione delle carni in tavola.

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