MARIA LAI Elena Pontiggia
Arte e relazione
MARIA LAI Elena Pontiggia
Arte e relazione
La realizzazione del volume non sarebbe stata possibile senza la preziosa e costante collaborazione dell’Archivio Maria Lai; in particolare si ringraziano la presidente Maria Sofia Pisu, la direttrice Eva Borzoni e la curatrice Chiara Manca per la consulenza e l’aiuto nella ricerca iconografica.
Coordinamento editoriale Anna Pau Grafica e impaginazione Ilisso Edizioni Stampa Lito Terrazzi Si ringraziano: Musei Civici di Cagliari, MAN di Nuoro, MUSMA di Matera, MART di Rovereto, Fondazione di Sardegna, Presidenza del Conglio Regionale della Sardegna, Fondazione Giuseppe Dessì, Museo dell’Olio di Castelnuovo di Farfa, MEOC Museo Tessitura di Aggius, Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra di Cagliari, Cooperativa Teatro Fueddu e Gestu, Fondazione Ercole Bartoli per l’Arte Contemporanea di Cagliari, Gallerie d’Italia (Intesa San Paolo) di Milano, Olnick Spanu Collection di New York, Augusta Porciani, direttrice dell’Archivio Biblioteca della Quadriennale di Roma, Sveva Di Martino (Studio Spazi Consonanti Architettura), Maria Teresa Mura, Massimo Duranti, Giovanna Tamassia, Ille Strazza, Guido Strazza, Simonetta Gorreri, Giuliana Carbi, Stefania Miscetti, Giampietro Orrù, Giovanni Locci, Diego Viapiana, Gianni Polinas, Mario Saragato, Pierluigi Dessì, Giorgio Dettori, Maria Giuseppina Cuccu, Gianfranco Canneddu, Gino Frogheri, Michele Barba, Maria Rosaria Guarini, Egidio e Giuliana Chillotti, Linda Puddu, Massimo Lai e Tiziana Tascedda, Elisabetta Pisu, Walter Baldi, Giovanna Puddu Crespellani, Giovanna, Maria e Margherita Crespellani, Giulio Lai, Ernesto Porcari, Angela Colomo, Pasquale Merlini, Stefano De Montis, Francesca Cataldi, Luisa Picozzi, Francesco Proia, Mila Dau, Franca Sonnino, Nina e Antonio Salvatore. Un ringraziamento particolare va a tutti i collezionisti che con grande disponibilità hanno collaborato alla riuscita del volume. Referenze fotografiche: Quando non diversamente specificato in didascalia, le foto sono state realizzate, appositamente per questo volume, da Pietro Paolo Pinna e afferiscono all’Archivio della Ilisso Edizioni, ad eccezione delle nn. 67, 102, 108-112, foto Richard Max Tremblay; nn. 50, 124, Archivio Musei Civici di Cagliari; nn. 90, 150, 286, Archivio MAN, Nuoro; nn. 280, 284-285, 430, 438, Archivio Olnick Spanu Collection, New York; n. 407, Archivio MUSMA, Matera; n. 291, Gallerie d’Italia (Intesa San Paolo) di Milano. L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte. È vietata ogni ulteriore riproduzione e duplicazione.
© 2017 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-356-6
Indice
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Introduzione
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Gli esordi
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La seconda stagione romana. Dalla mostra all’Obelisco alla nascita dei Telai
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La materia e l’immateriale. Gli anni Settanta: Tele cucite, Pani, Libri
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Arte e relazione. Legarsi alla montagna
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Gli anni Ottanta. Fra azioni collettive, teatro e fiabe
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Maria Pietra e la riflessione sull’arte
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A cavallo del millennio. Dal Museo dell’Olio alla Casa delle inquietudini
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Essere è tessere e oltre. Una presenza più forte
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Antologia. Scritti di Maria Lai
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Bibliografia essenziale
Introduzione
«Accorgiti che il tuo mondo contiene il mondo» dice un proverbio orientale. Qualcosa di simile si avverte nell’opera di Maria Lai. Il suo mondo di telai, tessuti, pani delle feste, espressione di una Sardegna millenaria, si è intersecato felicemente col mondo dell’arte contemporanea, e dell’arte concettuale in particolare. È un dato sempre riaffermato dalla copiosa critica che in questi ultimi anni ha riflettuto sul suo lavoro, ed è un dato indiscutibile, soprattutto se ne cogliamo esattamente le proporzioni, come ci invita a fare il proverbio. Ci spieghiamo meglio. Nel 1967 Maria Lai realizza Oggettopaesaggio. È una costruzione che evoca la struttura di un telaio, anche se non saprebbe riprenderne la funzione, ed è quasi un simbolo della civiltà sarda, che ha portato l’artigianato a una sapienza inarrivabile. L’impiego di materiali non canonici dialoga però con le opere di Pascali e si inserisce naturalmente nell’alveo di quell’arte concettuale, nata dagli oggetti della vita, che in quel periodo conosce varie declinazioni, dal Nouveau Réalisme all’Arte Povera. All’inizio degli anni Settanta Maria Lai compone le prime Tele cucite, in cui sostituisce ai pennelli i fili. Non dipinge più, cuce. Richiama cioè quella sapienza dell’ago che nell’Isola si esprime
da secoli nella tessitura e nei ricami di vesti, tappeti e oggetti, anche se la evoca dimessamente, in forme prive di ornamenti. Al tempo stesso però le sue opere si incuneano in quell’ampia ricerca extrapittorica che da Burri a Scarpitta, da Fontana a Manzoni non lavora sulla tela, ma con la tela, trattandola non come un supporto ma come la materia prima delle proprie composizioni. E ancora. Nella seconda metà degli anni Settanta l’artista crea una serie di sculture di pane. Non ha dimenticato gli impasti di farine e semole che aveva visto da bambina, quando alla vigilia delle feste le donne preparavano i pani bianchi, guarniti e intagliati come gioielli, per la tavola familiare, anche se il suo è un pane feriale, di un colore terroso e opaco, senza trionfi di decorazioni. Le sue opere si confrontano però con le michette di Manzoni, con gli alimenti utilizzati dal Nouveau Réalisme, con la ricerca di nuovi materiali dell’Arte Povera. Allo stesso modo quando, alla fine del decennio, cuce su pagine di tela una scrittura composta di segni indecifrabili e di grovigli, che poi raccoglierà in Libri, le sue Pagine racchiudono ancora l’eco degli antichi lavori domestici, delle lenzuola rammendate dalla nonna, ma si ricollegano anche agli esiti recenti della poesia visiva e dei Libri d’artista.
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Telai, pani, fili, cuciture: l’arte di Maria Lai è un viaggio di andata e ritorno tra la Sardegna e l’Europa, tra il particulare e l’universale. Bisogna però constatare che, se il grande contiene il piccolo, nel suo caso il grande non è il mondo ma il suo mondo, non è la scena internazionale ma l’orizzonte della sua terra, con le sue leggende, i suoi canti, le sue poesie, la sua arte, la sua cultura. Maria Lai, insomma, muove dal grande universo dell’Isola (grande perché millenario, abituato a misurare un tempo senza tempo e a convivere con le memorie di epoche esistite prima della scrittura e della storia; grande, anche, perché in Sardegna l’arte astratta è nata molti secoli prima di Kandinsky, già con i tessuti di Nur, e l’arte polimaterica è nata molti secoli prima delle avanguardie, con un artigianato artistico che pervade tutta la vita quotidiana); Maria Lai, dunque, muove dal grande universo dell’Isola per comprendere il piccolo universo dell’Occidente contemporaneo. E proprio l’eredità del suo mondo, unita al suo talento così straordinariamente capace di empatia, dà alle sue opere quel particolare calore, quella singolare umanità, quella cadenza di leggenda e di fiaba che è il loro carattere irripetibile. Proprio la ricchezza del suo
mondo, insomma, dà al suo concettualismo una dimensione lirica, carica di memorie e di mito, che lo distingue dagli esiti dei suoi compagni di strada. Spesso l’eredità del passato, mescolata all’esperienza viva del presente, introduce più facilmente al futuro. Anche per questo in Legarsi alla montagna del 1981 Maria Lai, muovendo da una leggenda tramandata da secoli, è riuscita ad anticipare di quasi due decenni (un arco di tempo enorme nel concitato panorama dell’arte contemporanea) quello che Nicolas Bourriaud ha chiamato nel 1998 estetica relazionale, cioè una forma
1-5. La casa di Maria Lai in via Prisciano 75 a Roma, 1991. Le foto, scattate appena prima del trasferimento in Sardegna, mostrano alcuni dei lavori che Maria Lai teneva in casa; qualcuno di questi, oggi, fa parte di raccolte pubbliche. Nella camera da letto sono presenti le foto dei genitori e dell’abitazione di Cardedu realizzate da Marianne Sin-Pfältzer, nota fotografa tedesca sua amica. Nel soggiorno, infine, sono esposte le opere degli artisti a lei vicini, fra i quali Nivola, Strazza, Bentivoglio, Gut e Casula.
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d’arte che non si esprime in oggetti ma in rapporti, non produce quadri e sculture ma legami, sia pure momentanei e destinati a svanire. In Legarsi alla montagna, la prima esperienza d’arte relazionale in Italia, Maria Lai ha portato infatti tutti gli abitanti di Ulassai, dov’era nata, a stringere le proprie case una all’altra con un nastro e poi a legarle al monte sopra il paese. Ha capovolto insomma il rapporto fra artista e osservatore, facendo diventare la gente il vero autore dell’opera. È un modo diverso di pensare e praticare l’arte che non elimina quello canonico, come l’invenzione del cinema non ha eliminato il teatro. Piuttosto gli si accosta e gli si aggiunge. Ma col suo linguaggio liricamente concettuale, coi suoi Telai, i suoi fili, i suoi Libri, i suoi Pani, che cosa ha voluto dire l’artista? C’è un filo – è il caso di dire – conduttore nella ricerca di Maria Lai, che sosteneva: «L’arte si inizia a capire proprio quando non si comprende», ma che non si è mai rifiutata di parlare dei simboli racchiusi nei suoi lavori? Se, come diceva lei stessa, «l’arte si sviluppa dalla materia all’idea. Idea che non esisteva prima dell’opera», quale idea si rivela nella sua opera?1 L’artista di Ulassai è stata, a dispetto delle apparenze, quello che i francesi chiamano “peintre-philosophe”. Appartiene cioè a quella categoria di artisti in cui la ricerca visiva coincide con l’espressione di un denso nucleo di pensiero. Certo, il suo è un pensiero affabile, che si fa capire anche da un bambino, come accade con le fiabe. Non è mai un teorema da dimostrare, ma è un pensiero in divenire, aperto al mistero e a quanto di quel mistero si rivela in corso d’opera. Tuttavia è un pensiero profondo e, a ben vedere, organico, che si concentra principalmente su due concetti, anzi su due esperienze: la relazione e l’arte. Dove l’una non è che un aspetto dell’altra, perché, come diceva lei stessa: «Questo dovrebbe fare l’arte: farci sentire più uniti, senza questo non siamo esseri umani».2 Per comprendere meglio questo nucleo di significati, ripensiamo in estrema sintesi al suo percorso, che avremo modo di analizzare distesamente più avanti. Dopo un’infanzia che definiva “selvaggia” (fino ai nove-dieci anni non aveva imparato a scrivere), ma già segnata da una vocazione pittorica e fantastica, Maria ha per maestro alle scuole medie lo scrittore Salvatore Cambosu a cui deve i primi insegnamenti fondamentali: l’amore per la poesia e la sensibilità per il ritmo. Nel 1933, appena quattordicenne, ha occasione di posare nello studio di un importante scultore come Francesco Ciusa. 5
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Vi ritorna l’anno dopo, questa volta con l’avallo ufficiale della scuola, quando apprende i rudimenti del modellato. Le sue prove, oggi perdute, vincono il primo premio ai Littoriali di Roma del 1935. Ottenuto faticosamente dal padre il permesso di iscriversi al liceo artistico della capitale, Maria studia dal 1939 con Mazzacurati, allora nel pieno della sua stagione scultorea. Nel 1943 si trasferisce a Venezia, dove segue le lezioni di Arturo Martini (un insegnamento che comprenderà pienamente venti o trent’anni dopo) e di Alberto Viani. Rientrata in Sardegna alla fine della guerra e superato, anche grazie all’incoraggiamento di Cambosu, un momento di dolorosa crisi espressiva, riprende a disegnare e a scolpire nei modi di un realismo lirico, caratterizzato da una risoluta sintesi geometrica. Nel 1956 torna a Roma dove, dopo una breve stagione informale e polimaterica – e una lunga pausa espositiva – tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo, con i Telai, le Tele cucite, i Pani, le Scritture, i Libri e le Geografie (mappe astrali immaginarie, cucite sulla stoffa), si avvicina da un lato a Burri, dall’altro all’arte concettuale e alla poesia visiva. Dopo Legarsi alla montagna, il suo capolavoro, realizza altri eventi corali (Villasimius, 1982; Camerino, 1983; Orotelli, 1984), a cui affianca attività e laboratori teatrali, animati dallo
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stesso desiderio di un coinvolgimento collettivo. Intanto continua a lavorare ai Libri, che dal 1984 prendono anche l’aspetto di Fiabe, ai Telai, alle Scritture, alle Geografie. Anche nei due decenni successivi dà vita a eventi relazionali (L’albero del miele amaro, Siliqua, 1997; Essere è tessere, Aggius, 2008), a cui accosta interventi di arte pubblica (Ulassai, 19922005; Sinnai, 1999; Castelnuovo di Farfa, 1999-2001; Osini, 2004) e la creazione di giochi collettivi, volti a far comprendere i meccanismi dell’arte. La parola scritta diventa protagonista di molte sue opere, a cominciare dalla serie degli Alberi (L’albero del poeta, Museo dell’Olio, Castelnuovo di Farfa, 1999). Si misura anche con sculture monumentali incentrate sulla linea, sul filo tradotto in metallo (Monumento a Gramsci, 2007; Il telaio del vento, 2007; La cattura dell’ala del vento, 2009). Come si vede anche da questi pochi dati, dopo una stagione iniziale che la porta dal realismo lirico all’informale, Maria Lai si concentra sul tema del legare. I suoi Telai, le sue Tele cucite alludono all’atto di congiungere, collegare, allacciare. Quello che le interessa non è la decorazione della tela, nonostante la superba tradizione che ha alle spalle, ma il tenere insieme le diverse forme, le diverse estensioni, le diverse individualità dei tessuti. Lo stesso concetto ispira l’azione Legarsi alla montagna, impostata sulla costruzione di un legame tra gli uomini, e degli uomini con la natura, in uno slancio di solidarietà, se non di compassione schopenhaueriana. «Nulla è più necessario all’uomo che l’uomo stesso» diceva Spinoza, e Maria muove da una identica consapevolezza: senza sentimentalismi, senza illusioni utopistiche (la vita, che le aveva tolto un fratello di morte violenta, si era incaricata di guarirla da una visione ingenua delle cose), e tuttavia con un senso di fiducia e di speranza raro nella ricerca espressiva del Novecento. L’arte, dunque, può creare legami. L’intento di Maria Lai è quello di rendere le persone non solo partecipi ma coautrici del suo evento. La sua opera non è individuale e intimista, ma arcaicamente corale, come i racconti popolari o il coro greco, e comporta necessariamente lo stare insieme. Ma non solo. In Legarsi alla montagna il nastro che annoda le case si ispira a quello che, come insegna un’antica leggenda del paese, una bambina aveva inseguito sotto un furioso temporale, abbandonando la grotta dove si era rifugiata. Il suo gesto, apparentemente insensato, le aveva evitato la morte, proteggendola dalla frana che aveva travolto la grotta. Legarsi alla montagna, dunque, introduce il tema dell’arte come possibilità di salvezza. Maria avvia da questo momento un’indagine sul linguaggio artistico, condotta non in modo libresco e astratto, ma attraverso una festa, un gioco, un teatro totale che coinvolge bambini e adulti. Pensa che tutti debbano avvicinarsi all’arte, non per seguire un ideale estetizzante, ma per essere veramente se stessi. Come dirà anni dopo, citando Gramsci: «È chi cammina per strada che deve conquistare la cultura».3 Nella sua concezione, peraltro, l’arte è un nome di genere assolutamente femminile. Per lei il paradigma dell’artista è Maria Pietra, protagonista di una leggenda narrata da Cambosu, a cui si ispira in tante sue opere. Maria Pietra è una donna che usa poteri magici proibiti per amore del suo bambino malato e accetta il tremendo castigo che le viene inflitto (essere tramutata in pietra) per ridargli la vita. Per Cambosu, e per la leggenda, è il simbolo dell’amore materno; per Maria Lai è invece l’emblema della creatività artistica e la metamorfosi che subisce le infonde una dimensione di eternità. Se l’artista per antonomasia è Maria Pietra, artiste sono anche le Janas (fate generate da una scintilla divina, che insegnano alle
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donne sarde l’arte dei telai) e le donne stesse dell’Isola, che dai segni della tessitura fanno nascere l’alfabeto e la poesia. Lai ne narra la vicenda nelle fiabe La leggenda del Sardus Pater e Il dio distratto del 1990 (ispirate a un racconto dell’amico Giuseppe Dessì), e Ca’ de Janas del 1996. Artista, ancora, è l’ape apparentemente inoperosa, ma capace di indagare il senso delle cose, protagonista della fiaba Curiosape, 1991. Appellandosi non alla sociologia, ma alla leggenda e al mito, Maria rovescia la mentalità allora corrente, secondo cui l’arte non era una cosa per donne, mostrando al contrario che il regno dell’arte è governato da regine. Ma che cos’è, allora, l’arte? È un artificio, un inganno, come aveva dimostrato già nel 1979 a Selargius, “imbastendo” con segni metallici la parete di una casa e lasciando pendere una gugliata di filo dal muro, come se l’avesse davvero cucito. Tuttavia l’arte è anche l’espressione più alta dell’uomo. Supera gli istinti primitivi e negativi, aiuta ad affrontare le ansie e i drammi della vita, come rivela l’azione partecipativa di Camerino, 1983, impostata sulle spoglie di grandi rettili. È il nutrimento dell’anima, come fa capire la performance collettiva L’alveare del poeta a Orotelli, 1984. Certo, l’arte è uno strumento fragile, un vascello di carta che attraversa i mari del mistero, come mostra l’installazione Su barca di carta m’imbarco, 1993, e il libro La barca di carta, 1996. Certo, è un linguaggio che va studiato con pazienza, con l’umiltà dei bambini che vogliono imparare a scrivere, come insegna l’installazione Il tempo dell’arte, 1996. Certo, può incutere timore all’artista che vi si cimenta, come simboleggia Daphne impaurita, 1999. Eppure coincide col gioco, è una sorta di gioco degli adulti. Maria Lai cerca di farlo capire col gioco stesso, disegnando mazzi di carte (I luoghi dell’arte a portata di mano, 2001) e tavolieri (Il gioco del volo dell’oca, 2002-04)4 che avvicinano ludicamente ai procedimenti espressivi. Attraverso le proprie magie L’arte ci prende per mano, come è il titolo di un lavoro del 2003, e ci conduce verso l’infinito.
Quest’ultimo concetto, che ritorna costantemente nelle opere e nelle riflessioni di Maria degli ultimi decenni, non coincide romanticamente e leopardianamente con un dolce naufragare nel mare dell’essere, con un perdersi smemorante e mistico, ma al contrario con la conquista, per così dire, della nostra umanità. «Il rapporto con l’infinito è essenziale per essere umani» ripete l’artista.5 La sua ultima azione partecipativa è Essere è tessere, 2008, un’estrema equazione tra esistenza, relazione e arte, che condensa tutti i suoi ideali. Esistere significa tessere una trama di relazioni, ma poiché la tessitura è una forma d’arte, significa anche avere esperienza della poesia, muovendo verso l’infinito. È un’esperienza, o un gioco, che è il contrario delle torri d’avorio dell’estetismo perché tutti possono parteciparvi. A una tensione verso l’assoluto allude anche il grande triangolo rivolto verso il cielo che compare nel Monumento a Grazia Deledda, 2012, l’opera con cui Maria Lai chiude il suo percorso espressivo. Lasciarsi accompagnare dall’arte, insomma, non è un privilegio di pochi. L’invito al viaggio della poesia non ha posti limitati. Ed è con questo pensiero che la poetessa del filo si congeda da noi, lasciandoci un filo di Arianna che non smetterà di aiutarci a uscire dal labirinto delle nostre inquietudini, tenendo per mano il sole.
6. Maria Lai al lavoro durante il montaggio del Telaio-soffitto al Lavatoio di Ulassai, 1982. 7. Allestimento della mostra Inventare altri spazi, Roma, Scuderie di Palazzo Ruspoli, marzo 1994.
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Essere è tessere e oltre. Una presenza piÚ forte
Nel 2008, sulla soglia dei novant’anni, Maria Lai dà vita ad Aggius (Sassari) a Essere è tessere, l’ultima sua azione collettiva, quasi il suo testamento spirituale. L’intervento ambientale nel piccolo paese della Gallura, noto per la tessitura dei tappeti condotta ancora con metodi antichi e materiali naturali, ha una vicenda articolata e, per descriverla, dobbiamo fare un passo indietro. Nel 2005 l’artista è invitata a eseguire un’opera per il MEOC di Aggius, interessante e ricco museo etnografico, dalla presidente Maria Teresa Mura. Maria realizza Un mondo di trame, un Telaio che ha al centro un frammento di tessuto aggese. Alla fine di maggio del 2006 apre anche una mostra nel museo e fin da aprile lavora accanto alle artigiane del paese, incastonando nelle sue opere piccoli frammenti dei loro splendidi tappeti, che lei stessa definisce «pietre preziose».183 Crea così una serie di telai onirici: scatole velate da una pioggia di fili, come finestre schermate da tende trasparenti, sul cui fondo compaiono scampoli di stoffe, figure, schizzi. Li chiama Telai-teatrini, lo stesso nome (Teatrini) con cui Melotti battezzava le sue scatole magiche (fig. 429). In altre opere, i Cartigli, scrive invece brevi poesie ispirate sempre alla tessitura («Ho sentito / un batter / di telaio e / il villaggio / non più / sembrava / morto»). «È un’atmosfera propizia … allo stesso tempo rilassata e stimolante che stimola la creatività. Non mi aspettavo infatti di produrre tante opere in pochi giorni» racconta del suo soggiorno nel paese. Ricorda Maria Teresa Mura: «In quel periodo Maria Lai ha incominciato a entrare nelle case e a conoscere la gente del luogo. Aggius ha molto amato quella donna piccola, vestita di nero, che parlava d’arte con tanta semplicità, come se facesse parte della vita quotidiana».184 Il 2006 è un periodo di impegni concitati per Maria, che non sembra avvertire l’avanzare dell’età. In febbraio realizza alla biblioteca di Carbonia l’installazione Dammi voce perché io possa volare con il vento verso le stelle (Presa per mano da García Lorca), una grande composizione con pagine e libri, ispirata nuovamente, in quel “dammi voce” che sembra un grido, a un verso di Sorgente del poeta spagnolo. L’8 luglio, nemmeno due mesi dopo la mostra di Aggius, giunge finalmente a compimento un progetto che coltivava da anni: si apre a Ulassai “La Stazione dell’Arte”, un museo interamente dedicato al suo lavoro che, con circa centoquaranta opere, frutto delle sue donazioni, documenta la ricerca di tutta la sua vita. Si chiama così perché è installato nella vecchia stazioncina ferroviaria locale, che un tempo portava da Osini ad Arbatax. Oltre a diventare un’antologica permanente di Maria Lai, il museo organizza seminari internazionali di studio, scambi culturali con studenti giapponesi e americani e varie mostre. Una delle prime, a dicembre, è in coppia con Antonio Marras. Lai espone i Presepi, mentre lo stilista inventa i “vestiti dei pastori”: vecchie giacche di carcerati, ritagliate e ricucite a forma di cappe. «Tutti hanno voluto provare queste cappe. La cosa più straordinaria era vedere Maria, questo essere piccolino, coi capelli bianchi bianchi, avvolta e circondata dalle grandi cappe» ricorda Marras.185 Alla fine del 2007 Lai installa sul prato intorno al museo il Monumento a Gramsci. Fiabe intrecciate, dedicato all’uomo politico nel settantesimo anniversario della scomparsa. Il suo è, in realtà, un antimonumento che si riallaccia al concetto di scultura come disegno nell’aria (cioè come linea priva di volume nello spazio), teorizzato da Picasso, Calder, Melotti. È il profilo approssimativo di una montagna, formato da linee di metallo su cui corrono alcuni topolini, mentre a terra, da un libro collocato su una sorta di leggio di pietra, sale verso la sommità un nastro raccolto da una bambina, una reminiscenza di Legarsi alla montagna. L’ope324
ra, come dice il titolo, intreccia quella leggenda con una fiaba scritta in carcere da Gramsci per il figlio Delio. Protagonista del racconto è un topolino che per errore beve il latte di un neonato e tenta invano, tra mille peripezie, di riportargliene una scodella. Finalmente riceve aiuto da una montagna pesantemente disboscata, a cui promette che il bambino, da grande, le restituirà il suo manto verde, piantando nuovamente pini, abeti e castagni. «Ciò che mi aveva colpito molto nelle Lettere di Gramsci era che aveva scritto dei racconti che proponeva come leggende ai suoi figli lontani» confessa Maria. E anche: «Il topo sono io, la montagna è Ulassai, a cui voglio essere legata, in un tutt’uno con tutti quelli che amano la libertà, pensando proprio a Gramsci».186 La scultura è fusa dagli artigiani della Casa del Ferro di Ulassai: una collaborazione apprezzatissima dall’artista, che vi ritrova quella coralità esecutiva e quel rapporto fra arte e artigianato a cui ha sempre aspirato. «Con questo lavoro stiamo tornando, anzi siamo già tornati al Medioevo, quando l’opera d’arte la facevano le maestranze a contatto di gomito con gli autori. L’arte nasce col saper fare artigianale … Gli esecutori [della basilica] di sant’Ambrogio erano artigiani o artisti? E quelli che hanno eretto san Nicola di Ottana o san Pietro di Sorres? Tutt’e due le cose, perché non c’è distinzione. L’uno non esiste senza l’altro. Io non avrei potuto realizzare da sola questo monumento per Antonio Gramsci, non avrei avuto una manualità così duttile. L’ho potuta fare con i miei amici – fabbri – paesani. E questo è il senso corale, coinvolgente, collettivo dell’arte. A Ulassai è avvenuto, si è ripetuto il miracolo medioevale dell’homo faber».187 Pochi mesi dopo, il 10 maggio 2008, inaugura a Orani la mostra Al gigante lassù, un omaggio a Costantino Nivola nel ventesimo anniversario della scomparsa. «Io considero Nivola uno dei miei grandi maestri. Ero destinata a incontrare Nivola perché realizzassi con più chiarezza un rinnovamento in atto nella mia coscienza su ciò che intendevo per arte» dichiara, ripensando a quando nel 1973 aveva visto per la prima volta i Lettini nivoliani.188 Gli dedica, tra l’altro, l’opera che dà il titolo alla mostra: un grande Telaio metallico, un altro disegno nell’aria impostato come il Monumento a Gramsci su una trama di linee. Ormai i giornali considerano Maria «la più grande artista sarda», una definizione cui non ha mai aspirato e che in realtà non le interessa. «Che ne sappiamo noi se siamo artisti? Chi ce lo dice? Solo in futuro lo sapremo» osserva. E quando una volta le chiedono di parlare dei Luoghi dell’arte, risponde: «È una mia opera. Io non dico che è un’opera d’arte, perché non sappiamo mai se è arte. Se quest’opera riesce a scatenare dialoghi, allora ecco che l’opera parla, altrimenti rimane muta». E di sue dichiarazioni simili se ne conoscono molte.189 È in questo clima, dunque, che nasce l’azione ambientale Essere è tessere. La tessitura dà spettacolo di Aggius (figg. 432-433). Anche questa volta, come a Ulassai, l’artista scarta la proposta iniziale che le avevano presentato (una mostra-concorso) e, in un incontro con Maria Teresa Mura e Pietrino Soddu,190 suggerisce invece un nuovo evento ambientale. Vuole tentare, per l’ultima volta, un’opera corale. «Non mi interessa fare un
Nella doppia pagina precedente: 428. Telaio, 2008, Aggius. Nel giugno 2008 sono collocati ad Aggius i 13 telai (14 con quello allestito all’interno del Comune) in forex e ferro verniciato, progettati da Maria Lai e realizzati in collaborazione con artigiani locali. I pannelli in forex che fungono da fondo ai Telai sono tutti di differenti colori. 429. Teatrino (Suighi), 2006, polimaterico, 85 x 65,5 x 6,5 cm.
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quadro da appendere, ma lasciare un segno» dice.191 Aggius le sembra il luogo più adatto sia per la tradizione ancora viva della tessitura, sia per l’amicizia della gente. Essere è tessere diventa allora una dichiarazione di poetica e insieme un assioma filosofico: non c’è opera d’arte che non sia tessitura di relazioni, come non c’è esistenza che non sia creazione di legami e non c’è conoscenza che non sia costruzione di nessi logici e intellettuali. La tessitura, insomma, è una metafora della cultura e della storia dell’uomo.
430. Progetto per ordito, 2004, polimaterico, 123 x 62 x 5 cm, courtesy Olnick Spanu Collection, New York. 431. Su dolu, 2007, polimaterico, 77 x 55 x 5 cm.
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Preparata da incontri e conferenze, per essere comprensibile e coinvolgere l’intero paese, l’azione si svolge il 26 luglio 2008. Già due mesi prima Maria aveva installato sulla facciata delle case del centro storico tredici Telai: incroci di linee geometriche vicini ai disegni di Vantongerloo, ma anche alle architetture giapponesi (un riferimento non peregrino come potrebbe sembrare, se pensiamo che nel dicembre 2005 l’artista, per nulla intimorita dai suoi ottantasei anni, aveva compiuto un viaggio a Tokyo e nell’Hokkaido, nell’ambito del progetto “Barbagia meet Tokyo”). Altre sue opere, poi, come greggi di caprette, lettere dell’alfabeto, arazzi sono disseminate nel museo, nel municipio, per le vie del paese (fig. 428). All’inizio dell’evento viene proiettato il video di Tonino Casula Legarsi alla montagna, per stabilire un ideale collegamento con l’opera relazionale di venticinque anni prima. L’azione si snoda poi lungo dieci “stazioni” venate di significati simbolici, accompagnate da musiche e danze, da testi di Maria letti dall’attrice polacca Marta Gabriel, e soprattutto da opere, scritte, disegni dell’artista. Ne riassumiamo qui i momenti principali e per così dire l’ossatura, cercando per quanto ci riesce di non soffocare nella pedanteria descrittiva quella che è stata una pagina di vita corale e una festa, anche se carica di cadenze liriche e significati filosofici. «Aggius oggi diventa nastro, sassolino, pezzo di stoffa, che io ho voglia di dare perché mi apra la possibilità di un sogno, di un gioco» dichiara con semplicità l’artista.192 L’azione muove da piazza Alvinu, dove è disegnato sul terreno Il volo del gioco dell’oca che allude al balbettio, al grado zero del linguaggio, mentre poco sotto la piazza sono disposti su una lunga tavola i Libri di pane, metafora della conoscenza. Protagonisti di questa parte dell’evento sono i bambini. Un angelo e una Fata Turchina, simbolo dell’arte, li guidano verso la grande scacchiera del Volo, dove giocano e recitano la filastrocca dell’oca. In un’altra stazione cantano una ninna-nanna ritmati dai battiti del telaio, mentre poco lontano una ragazza modula il Cantu a chiterra della corsicana sui gradini di una vecchia casa. Più oltre un attore, il francese Michel Rocher, legge su un balcone il Canto di me stesso di Walt Whitman, che inneggia panteisticamente al vitalismo e all’unione tra gli uomini («Ogni atomo di me stesso appartiene anche a voi … tutti gli uomini sono anche miei fratelli … Tutto continua e si estende, niente si annienta / E morire non è come crediamo, è un evento più felice»). La stazione successiva infine, ornata di arazzi, marionette e dei libri Curiosape e Pastorello con capretta, è dedicata alla fiaba, simbolo – come la poesia – della pienezza della comunicazione. L’itinerario, insomma, porta dal balbettio alla pienezza di significato del linguaggio artistico. Al percorso dei bambini fa intanto da contrappunto quello delle donne, che in un altro angolo del paese, accanto all’immagine di un Gregge di caprette, insegnano alle bambine l’arte del filare, mentre poco lontano una nevicata di fiocchi di lana cade da un balcone. Un gruppo di tessitrici mostrano poi l’importanza dell’ordito che, col suo intreccio rigoroso, rimanda anche al rigore dell’arte. Il percorso si conclude con la lettura dei versi di Una via per le Indie di Whitman che vede nel poeta “il vero figlio di Dio”, l’emblema della civiltà e dell’armonia fra uomo e natura. Al di là dell’enfasi che contraddistingue lo scrittore americano, la metafora è chiara: la vita, come tessitura di relazioni, giunge con l’arte alla sua espressione più completa. «Ho un sogno: poter far comprendere l’arte, specie l’arte contemporanea, spesso di difficile lettura, a tutte le persone. Perché l’arte deve essere per tutti» dichiara Lai il giorno prima dell’azione ambientale.193 Utopia? In ogni caso, come testimonia
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chi era presente, il paese si è identificato nella performance collettiva, a cui ha partecipato coralmente. Due mesi dopo Aggius giunge a Maria una sorta, se non di consacrazione, di riconoscimento emblematico, e da parte della critica militante più ufficiale: Francesco Bonami inserisce un suo telaio, Oggetto-paesaggio 1967, in Italics. Arte italiana fra tradizione e rivoluzione, 1968-2008, la discussa ma osservatissima mostra che si apre in settembre a Palazzo Grassi a Venezia. Lai è una dei cento artisti invitati: non molti, a ben vedere, se si pensa a quanti pittori e scultori hanno lavorato nelle varie città del nostro paese in quei quarant’anni. È l’inizio di un’attenzione senza precedenti verso Maria che, abituata a un silenzio critico rotto solo da poche voci, negli ultimi anni della sua vita si trova al centro di studi, saggi, interviste, video, documentari, film (del 2009 è Ansia d’infinito di Clarita Di Giovanni), come pochi altri artisti viventi. L’autrice dei Telai continua intanto il suo lavoro, senza curarsi del clamore critico, ma senza sottrarsi all’impegno di parlare dell’arte e delle sue opere tutte le volte che glielo chiedono. La sua grazia di bambina novantenne, le sue parole lente, semplici, che sembrano sempre il racconto di una fiaba o di un apologo zen anche quando affrontano i concetti più ardui, esercitano una singolare suggestione e sono una testimonianza imprescindibile per qualunque indagine sulla sua ricerca. Sempre nel 2008 progetta un’altra Via Crucis, in legno e pietra, per la chiesa di San Paolo a Cardedu, dove le stazioni sono scritte in lingua sarda dell’Ogliastra e Cristo è simboleggiato da una forma bianca rotonda, come un pane. Ancora nel 2008 colloca i pannelli delle Cinque esse sulla facciata dell’ex distilleria a Pirri, municipalità di Cagliari.194 Nel 2009 progetta invece La cattura dell’ala del vento all’ingresso del parco eolico di Larenzu a Ulassai (fig. 446). L’artista si schiera subito a favore delle gigantesche pale mosse dal vento («Mi erano sembrate grandi fiori in un giardino, stelle che portavano oltre la terra. Mi chiamano le lontananze, diceva Pessoa») e, per il parco, realizza ancora un Disegno nell’aria. Imposta la scultura sul profilo di un gruppo di prismi geometrici di ascendenza minimalista, a cui sovrappone piccole figure che fanno pensare a certe silhouette senza corpo di Guernica, ma che in realtà, come confessa lei stessa, si ispirano alla maschera pellerossa del dio del vento, vista in Canada nel 1968. «Da alcuni anni avevo intenzione di realizzare un’opera che celebrasse uno degli elementi atmosferici tipici del nostro paese. Un inno al vento … Mi sono principalmente ispirata ad una maschera che possiedo da oltre mezzo secolo [da 41 anni] e alla quale sono molto affezionata» dichiara.195 Lontananze alla Pessoa sono anche quelle che disegna nel 2010, nell’opera monumentale Cucire e ricucire sul diritto e sul rovescio per la nuova Aula Magna della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari (figg. 443-444). È il suo muro cucito più significativo: una traiettoria insieme misteriosa e limpida che procede verso l’infinito. Maria gioca con le parole: il diritto, inteso come legge, diventa il diritto della tessitura, il luogo di un cucito che va eseguito pazientemente sul recto e sul verso, in ogni condizione e a ogni condizione. L’opera è un’altra pittura murale, anzi una tessitura murale, a disposizione di tutti. «Sono partita da un quaderno di Gramsci: mi ha dato un’immagine, e da lì sono partita: aveva detto che l’arte deve arrivare all’uomo della strada. Quando un operaio per andare a lavorare fa sempre la stessa strada, non si accorge che il suo sguardo tocca le opere architettoniche che vede. Ma in questo modo lo sguardo acquista un ritmo».196 328
Ugualmente monumentale è il successivo Orme di leggi, 2011, a cui una giuria presieduta da Gino Agnese, allora presidente della Quadriennale di Roma, assegna nel novembre dello stesso anno il premio della Camera dei Deputati, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia (fig. 445). Come ricorda la nipote dell’artista Maria Sofia Pisu, Maria era ormai malata ma aveva progettato con entusiasmo il nuovo lavoro, disponendo su un grande pannello una fila di pagine di tessuto, vergate dalla sua scrittura illeggibile e più nere sulla sinistra, come per evocare le tragedie del Risorgimento. Una notte però una folata di vento scompiglia tutta la composizione e l’artista decide di lasciarla com’è, perché pensa che anche quel disordine involontario abbia un significato. Nell’esito finale dell’opera la zona più bianca al centro simboleggia la Costituzione, mentre le tracce di rosso sulla destra alludono alle inquietudini del presente. «L’artista è colui che assume su di sé le inquietudini del mondo e le trasforma in progetto» aveva detto una volta. Il grande pannello doveva avere come titolo Norma ma, per evitare equivoci, il nome è mutato in Orme, a significare le tracce lasciate dalle leggi.197 Nonostante la salute compromessa, l’artista continua a lavorare. L’ultima grande opera a cui si dedica è il Omaggio a Grazia Deledda, che si trova a Nuoro accanto alla chiesetta della Solitudine, dove è sepolta la scrittrice (figg. 447-448). Per una singolare coincidenza è ancora un lavoro dedicato a un’artista, a una delle tante Janas che ha evocato nella sua ricerca. È una delle sue installazioni più metafisiche: undici pilastri bianchi di travertino, su cui le parole di poche frasi si alternano a profili di donne sarde e di greggi in ferro battuto nero. All’ingresso di quello spazio della memoria colloca una cornice anch’essa bianca su cui disegna una delle sue geometrie visionarie, culminante in un triangolo che indica una meta lontana. L’opera doveva essere intitolata Andando via,198 un’espressione che tradisce un’idea di congedo. Purtroppo anche l’inaugurazione, annunciata per il marzo 2012, viene rimandata per varie ragioni. Maria non farà in tempo ad assistervi. In luglio l’artista perde l’amatissima sorella Giuliana, compagna di vita, collaboratrice e complice di tante sue opere. Nonostante il lutto non si allontana dalla scena artistica e in dicembre è presente con uno spazio individuale alla Pulse Contemporary Art Fair di Miami, invitata dal giovane gallerista Diego Viapiana. Un critico la paragona a Louise Bourgeois, un accostamento insostenibile ma lusinghiero. Due mesi dopo inaugura la sua prima personale milanese alla Nuova Galleria Morone, diretta sempre da Viapiana.199 Non ne vedrà la fine. Il 13 aprile 2013 Maria Lai muove per sempre verso quell’infinito che aveva cercato nelle sue opere. «Ormai sono convinta che la morte, che noi temiamo per tutta la vita, sia in realtà una cosa bellissima, il passaggio verso altri luoghi» aveva confessato anni prima. Non temeva la fine, dunque. Del resto, come per tutti i veri artisti, vale per la sua figura il “non omnis moriar” delle Odi di Orazio. E forse lo sapeva anche lei, quando diceva: «L’assenza dell’autore è una presenza più forte».200
432-433. Essere è tessere, luglio 2016, Aggius, foto Mario Saragato. L’azione ambientale Essere è tessere. La tessitura dà spettacolo è l’ultima operazione collettiva condotta dall’artista, quasi il suo testamento spirituale. Preparata da incontri e conferenze, per essere comprensibile e coinvolgere l’intero paese, l’azione si svolge il 26 luglio 2008. Già due mesi prima Maria aveva installato sulla facciata delle case del centro storico 13 Telai. Altre sue opere, poi, come greggi di caprette, lettere dell’alfabeto, arazzi sono disseminate nel museo MEOC, nel municipio e per le vie del paese.
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Antologia. Scritti di Maria Lai
1. L’isola (da Il Convegno, IX, n. 7, luglio 1956).
Il fascino di quest’isola, sin dal primo incontro di chi arriva dal mare, nasce dai sassi: i primi scogli che si presentano sono tali che non ci si stupirebbe di vederne uscire Polifemo o un corteo di mostri marini. Ma nessun ricordo letterario vale a popolare queste solitudini assolute, quasi assurde. L’uomo è di fronte ad una natura primordiale, che potrebbe essere emersa in quel momento dalle acque o, come in realtà, in attesa da millenni di qualcuno che la comprenda e ne carpisca il segreto. Un amico “continentale” che cercavo di guidare a cogliere il fascino di questo paesaggio concludeva con garbata ironia, non scevra da compatimento: “Già, ognuno ama i sassi del proprio paese”. Ma al suo paese le rocce sono vinte dalla vegetazione e dall’uomo, rivelano una civiltà che seppe modellare la natura. In quest’isola invece il tempo sembra essere passato senza mutare granché dal giorno della creazione, né l’uomo ha osato sovrapporsi alla natura, si è lasciato anzi avvincere da questi affascinanti silenzi, in pensosa contemplazione. Le sue donne si sostituiscono ai fiori troppo rari nell’arido paesaggio: con la smagliante tavolozza, le sapienti acconciature, gli splendidi gioielli dei loro costumi. Ma anche questi, suggeriscono più che rivelare. L’eterno femminino si difende dietro tanta meravigliosa varietà di forme e di colori, dà segreta vita al paesaggio e alle rustiche case, la cui solenne nudità domina per contrasto e si fa più attraente. Non nelle ormai celebri adunate di costumi di Cagliari e di Sassari si può cogliere il significato di questo fascino, ma solo nell’intimità delle povere case di Ollolai, Orgosolo, Desulo; nella vita, quasi rituale, che scandisce lentamente il tempo. Chi vi è nato, sente – in questa natura e in questa vita – riflesso e quasi chiarito se stesso; a chi viene da fuori, ecco lo scioglimento dell’enigma: a questa fatica, non vale cultura, né esperienza ma solo una sensibilità che possa intendere il linguaggio di queste rocce. Arturo Martini ci diceva: bisognerebbe far parlare i sassi. Da questa assurda immobilità, che non è solo geografico isolamento, ma atavica tendenza degli uomini a rassegnarsi alla fatalità, soltanto l’arte credo possa aprire la strada per ricollegare quest’isola al mondo.
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449. Maria Lai, 1955, foto Marianne Sin-Pfältzer.
2. L’insegnamento di Arturo Martini, rivissuto dalla sua ultima allieva, l’artista Maria Lai (in Pandora. Laboratori dell’arte applicata, I, 1992; estratto dell’incontro con Maria Lai avvenuto nella sede dello Studio Pandora a Torino nel 1990).
Martini modellava la creta componendo vuoti; questa è stata una scoperta degli ultimi anni della sua vita che pochi conoscono. Il problema di Martini in quel periodo era quello di distogliere l’attenzione dalla statuaria (in quegli anni, 1943-45, stava scrivendo il libro Scultura lingua morta). Lui non si preoccupava molto che noi lo capissimo, io immagazzinavo parole che ho capito solo dopo molti anni. Avevo fatto il Liceo Artistico a Roma e mi avevano insegnato che la pittura costruiva spazi su un piano, l’architettura spazi per il cammino dell’uomo, la scultura costruiva dei pieni che dovevano essere collocati negli spazi creati dall’architettura: si trattava di presenze piene con tutto il loro peso. Martini cominciò a dirci che tutto questo non era vero, ma che la scultura, come l’architettura doveva costruire dei vuoti, doveva poter indicare silenzi e vuoti, non perché l’uomo ci camminasse, li occupasse, ma perché sentisse la scultura come un corpo che respira, come un pane che lievita: di qui il suo modo di lavorare la creta spingendola dal di dentro e non schiacciandola dal di fuori. Questo metodo lo applicò anche alle grandi sculture: lui costruiva qualsiasi forma come se si trattasse di una casa, iniziando dai muri maestri. Era come se mettesse su un sistema di scatole vuote, come fosse un castello di carte. Bisognava rimanere col fiato sospeso, e questo era per lui come una condizione primaria, imprescindibile. Aveva orrore di chi manipolava la creta chiudendola, e poi la lavorava togliendola; diceva che questo era ammazzare la materia, non farla vivere. Per costruire una testa, ad esempio, iniziava costruendo uno scheletro a croce (i muri maestri) che doveva fungere da struttura portante e quindi sagomava i due profili, quello laterale e quello frontale; quando la struttura era abbastanza solida stabiliva dei piani orizzontali (i pavimenti), che potevano coincidere ad esempio con le scapole e con la mandibola. Su questa struttura, realizzata con estremo rigore costruttivo, venivano appoggiate delle sfoglie di creta, lasciando dei buchi in cui inserire le mani per poterla lavorare e modellare dall’interno. C’era poi un’operazione finale e decisiva che consisteva nel tagliare la scultura in diverse parti e ricomporla poi sistemandole in posizioni diverse da quelle originali, in modo da cambiare l’espressione della figura (lui la chiamava “darle la scoppola”). 351
Faceva ad esempio tre o quattro figurette, generalmente le disponeva come se si parlassero tra loro: si creava tra esse quasi un contatto che diventava come uno spazio intimo; portava in mezzo alla sala queste figure e sotto i nostri occhi terrorizzati le tagliava a pezzi, questa era la lezione più importante. Poi le ricomponeva scambiando le parti. Immediatamente nasceva il senso del paesaggio intorno. Ogni figura, con questo spostamento, anziché storpia sembrava acquistare movimento, come cercasse dei vuoti, dell’aria da respirare. Spesso bastava un taglio da nulla per far “cantare” un’opera: Martini non diceva: “un’opera è bella” o “mi piace”, diceva solo “i canta” oppure “no i canta” (parlava sempre in dialetto). Lui amava più i bozzetti o quelle statue tutte dinoccolate che non facevano fissare l’attenzione sulla statua, ma facevano sì che lo sguardo cambiasse direzione, non si fermasse sull’opera: questa non doveva più essere un punto pieno ma la partenza verso un vuoto. Anche i ritratti rappresentano figure che sembrano in ascolto: di un silenzio o di una voce che non capiscono. C’è sempre questa attenzione, questo stupore, come per esempio quando rappresentava persone appena svegliate o dormienti; poteva così rappresentare il sogno, in cui c’è questo spazio immenso, questo grande silenzio. Ricordo che una volta non voleva più che facessimo il corpo umano ma solo dei sassi, e noi non capivamo perché. Fece addirittura una specie di concorso con un premio in denaro, una busta che aveva messo lì sopra; ci disse che avevamo tre mesi di tempo. E noi facemmo sassi a non finire, poi lui venne e non gliene andava bene uno, li pigliava, li metteva su un trespolo, li guardava da tutte le parti e poi li scaraventava al muro (era un tipo irascibile…), e se ne andò arrabbiatissimo dicendo che non lo avevamo capito: diceva che avevamo fatto dei sassi sensibili, ma non costruiti. Ecco il problema della costruzione che ho capito molto dopo. Tutti noi volevamo vedere i suoi sassi ma lui non ci dava il permesso. Io in particolare, come unica donna, piccola per giunta, ero quella cui dava meno credito di tutti. E siccome io ero un po’ testarda, una volta decisi di farmi chiudere dentro il mio studio (perché allora ogni studente aveva il suo studio personale), attesi che tutti nell’Accademia se ne fossero andati, cercai le chiavi dello studio di Martini ed ebbi così cinque ore di tempo per contemplare finalmente tutto in perfetta solitudine: al centro della stanza c’erano tre enormi sassi in bronzo, uno sull’altro come un dolmen. Sul momento non capii, poi cominciai a toccarli e capii che erano corpi umani raggomitolati: ci ho sentito il respiro dentro. Quell’opera era La morte di Saffo (che secondo la leggenda si gettò dalla rupe sui sassi). Allora io trassi una conclusione assurda, pensai: “Lui vuole che noi dimentichiamo il corpo umano ma lui lo cerca anche nei sassi; allora ci vuole confondere, è in malafede”. Ce n’è voluto prima che capissi che lui voleva veramente farci ritrovare l’umano, non nella figura della statuaria ma nel sasso. Lui raccontava che il primo scultore che lo colpì quando iniziò fu Medardo Rosso, che all’epoca era considerato un anti-scultore, uno da non prendere seriamente. Per questa sua predilezione fu molto contestato dai suoi maestri e così abbandonò gli studi. C’era quindi in lui sin dall’inizio un rifiuto della statuaria. A noi allievi diceva spesso: “Ma che siete venuti a fare scultura, la scultura è finita, non ha avvenire”. Io sono stata l’unica di quei pochi allievi che resistettero con lui a continuare in questa strada. Molte cose le ho capite tornando in Sardegna, dove ho trovato i sassi scavati dal vento, dove c’era tutta l’esperienza della lavorazione del pane, fatto a sfoglie. Se allora avessi saputo fare uno di 352
quei sassi sono sicura che sarebbe stato entusiasta: lui voleva i sassi con i vuoti dentro, e noi non si era assolutamente capito. Spesso si crede che i rapporti umani siano importanti per imparare l’arte; si, ma devono essere difficili altrimenti l’arte non si impara. A Roma ero stata troppo coccolata e non avevo imparato nulla. Martini mi ha messo alle strette: solo da lui ho imparato qualcosa; quello che mi ha insegnato è stato come un seme che ha dato i suoi frutti molto tempo dopo.
3. Tra una sponda e l’altra (da Al gigante lassù. Omaggio a Nivola 1988-2008. I Telai-Teatrini di Maria Lai, catalogo della mostra (Orani, 10 maggio-luglio 2008), a cura di A. Grilletti, testo di G. Murtas, Cagliari-Orani, Arte Duchamp-Fondazione Costantino Nivola, 2008).
… Le mie radici sarde penetrano nelle profondità di un terreno ricco e duro, che alimenta la mia pianta. Ma per natura ogni pianta dirige i suoi rami lontano dalle radici… La mia prima partenza dall’isola fu nel Trentanove. A vent’anni non sentivo solo un inesauribile bisogno di libertà, ero anche cosciente di rispondere alla voce di un’altra me stessa ancora lontana e sconosciuta, ma capace di condizionare le mie ansie. Gli anni di guerra, vissuti prima a Roma e poi a Venezia, mi tennero lontana dagli affetti familiari e dalla mia isola. Ero doppiamente straniera, sia per essere sarda, selvatica, primitiva, sia per essere l’unica donna tra gli allievi di Arturo Martini all’Accademia di Venezia. Arturo Martini era pur sempre di quella generazione che non dava spazio alle donne nell’arte. Qui si fa sul serio, diceva; la mia presenza era per lui un ingombro. Ma io non dubitavo di essere al posto giusto, anche se pensavo alla Sardegna e alla mia famiglia con il rimorso di un tradimento. Erano gli anni dei bombardamenti, sia sulle città che sulle certezze che la storia, e in particolare la storia dell’arte del vicino passato, ci aveva lasciato. Si andava incontro alla scoperta dell’inconscio e del primitivo. Era già in atto la messa in discussione di molti dei valori che avevamo acquisito. Arturo Martini scriveva il libro Scultura lingua morta. Quando nel Quarantacinque da Venezia tornai in Sardegna ero piena di dubbi sul ruolo dell’arte nel mondo, e più che mai combattuta tra il bisogno di continuare il percorso che avevo intrapreso e il desiderio di non deludere i miei familiari, che avevano vissuto in grande ansia i tre anni di guerra per la mancanza di mie notizie. Loro mi prospettavano di diventare adulta, e mi rendevo conto di quale alto prezzo comportava la mia libertà, quando a pagarlo erano le persone che amavo. Per una futura partenza non c’era un motivo convincente: sembrava improponibile. Mio padre, veterinario in un paese di pastori e di capre, che io amavo con passione, non mi aveva mai imposto la sua volontà. Non mi negava il suo aiuto, ma era sempre preoccupato: Ti passerà. Per mia madre l’idea di emancipazione significava scandalo, una sofferenza silenziosa. La domanda di tutti i miei familiari era: Cosa pensi di fare? Semplicemente, io non pensavo, come quando disegno su una pagina bianca e so che solo alla fine potrò vedere l’immagine. Quella partenza era la mia pagina bianca.
4. Al gigante lassù (da Al gigante lassù. Omaggio a Nivola 1988-2008. I Telai-Teatrini di Maria Lai, catalogo della mostra (Orani, 10 maggio-luglio 2008), a cura di A. Grilletti, testo di G. Murtas, Cagliari-Orani, Arte Duchamp-Fondazione Costantino Nivola, 2008).
Entrambi allievi del grande Arturo Martini [in realtà Nivola non era stato allievo di Martini, ma si era iscritto all’ISIA di Monza quando lo scultore aveva appena lasciato la scuola], anche se in tempi e luoghi diversi, ero destinata a incontrare Nivola perché realizzassi con più chiarezza un rinnovamento in atto della mia coscienza su ciò che intendevo per arte. Eravamo lontani e sconosciuti, ma coinvolti negli stessi grandi fermenti che il mondo dell’arte viveva tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Fu allora che vidi i lettini di Nivola esposti a Roma nella Galleria Marlborough: le piccole sculture in terracotta, a misura di mano, sembravano sassi sparsi tra l’erba di un campo di grano. Sul piano di un grande tavolo era germogliato artificialmente un tappeto di erba tenera. I lettini raccontavano storie di vita privata nel buio della notte: intimità dell’amore, della solitudine, della presenza e dell’assenza, tra lenzuola scomposte. Un rito pasquale della nostra isola coltiva in ogni casa piatti di grano fatto germogliare al buio per circa venti giorni, non sulla fredda terra, ma su fiocchi di lana dipanata. Su nenneri, erba che il buio impallidisce e rende bianca; come purificata dal dolore, sostenuta dai nastri festosi della resurrezione, viene esposta per terra intorno a una croce orizzontale che ogni chiesa prepara. È una sacra rappresentazione costruita su ritmi di ripetizioni di gesti e di preghiere di una comunità che cerca nel mistero il senso della vita, mistero che la logica non può spiegare, come non può spiegare il gioco, l’amore e ogni forma d’arte, nel suo rapporto con l’infinito. I lettini di Nivola esposti a Roma furono l’occasione di un riconoscimento, di una nuova e imprevedibile guida su ciò che dovevo intendere per arte; anche se, forse, era solo la mia inquietudine.
5. Maria Pietra (da F. Di Castro, M. Lai, La pietra e la paura, Cagliari, Arte Duchamp, 2006).
Maria Pietra è il personaggio del racconto di Salvatore Cambosu, Cuore mio: una madre che accetta di diventare pietra per strappare il suo bambino alla morte. In questa interpretazione diventa una popolana che, prima di essere madre, è dotata di poteri sconosciuti e proibiti. Ne ha paura, come ogni poeta. I poteri di Maria Pietra non potevano essere usati per fini pratici, nemmeno per un grande amore come quello di una madre per il suo bambino ammalato. Maria Pietra è artigiana del pane e con le parole può affascinare e catturare tutte le creature, ma deve imparare a usare i suoi poteri. Quando il suo bambino nel delirio della febbre chiede di giocare con gli animali del bosco, la madre sfida la paura e strappa
al bosco lontano, una per volta, cerbiatte, lepri e tortorelle che arrivano e muoiono. Maria Pietra, coinvolta nel delirio del suo bambino, lo vedrà morire, ma, pazza di dolore, ritrova la sua creatività. L’arte che nasce fuori da ogni logica realizza il miracolo: impastando la farina con le sue lacrime e facendo tanti bambini di pane riporta il suo bambino alla vita, a giocare con gli animali del bosco risuscitati. Il bambino moltiplicato incontra i tanti – io – della sua crescita affidata al gioco, alle favole, alle opere d’arte. Immagini metaforiche Maria Pietra: l’artista Paura: genera creatività Pietra: è l’arte Bambino: il malessere del mondo Gli animali del bosco: i giochi per i bambini, le opere d’arte per gli adulti.
6. Legarsi alla montagna (in E. De Cecco, “Maria Lai. Le fila del racconto”, in Flash Art, a. XXIX, n. 199, estate 1996).
Io avevo un problema col mio paese, non andavo lì da decine di anni – abitavo a Roma – ed ero convinta che non ci avrei più messo piede. Avevo un conto aperto perché uno dei miei fratelli era stato ucciso e io non volevo per nessuna ragione sapere chi fosse il colpevole. Un giorno il sindaco mi mandò a chiamare e io mi sono presentata con un gruppo di amici incaricati di fermare il discorso se lui avesse accennato alla questione. Era riunita la giunta comunale e sono così venuta a sapere che volevano affidarmi la realizzazione di un monumento ai caduti. Allora ho iniziato a ridere, ero completamente scettica, ma il sindaco insisteva dicendo che avevano raccolto una somma di denaro apposta e sarebbero stati disposti ad incrementarla… “Questa opera io proprio non ve la faccio” dicevo io “perché è una cosa nella quale non credo. Perché pensate al monumento ai caduti che ce l’hanno tutti i paesi di Italia e per la maggior parte tra l’altro sono brutti?”. Sembravano avere una sorta di complesso di inferiorità perché il nome del paese non appariva in tutte le carte geografiche, la maggior parte di abitanti sono pastori di capre, è un paese un po’ dimenticato che non arriva a duemila persone… Ma a tutti i costi volevano essere nella Storia, si sa che essere nella carta geografica vuol dire essere nella storia e un monumento può aiutare. Allora io ho detto che per essere nella storia bisogna fare storia, non fare ciò che hanno fatto tutti gli altri, bisogna fare qualcosa che non sia mai stato fatto da nessuna parte del mondo e su queste parole si è chiuso il nostro incontro. Dopo un anno e mezzo si sono fatti risentire, mi hanno chiesto che cosa proponevo. Io ho incominciato a guardarmi intorno e ho verificato che tutti, vecchi e bambini, conoscevano la seguente fiaba. Che è la storia di una bambina che va a portare da mangiare ai pastori, li trova nascosti nella grotta per un temporale in arrivo ma a un certo punto vede passare un nastro celeste. Dallo stupore lei esce all’aperto e in quel mentre frana la grotta con gregge e pastori. Questa storia la conoscevano veramente tutti e appartiene profondamente alla cultura del paese, è una storia bellissima, molto poetica, così ho deciso di usarla. Con un mio amico abbiamo ricostruito che sono circa 400 anni 353