Nivola. La sintesi delle arti

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Giuliana Altea - Antonella Camarda

NIVOLA La sintesi delle arti



Giuliana Altea - Antonella Camarda

NIVOLA La sintesi delle arti


Con il patrocinio dell’Associazione Archivio Storico Olivetti – Ivrea Coordinamento editoriale Anna Pau Grafica e impaginazione Ilisso Edizioni Stampa Longo Spa È vietata ogni ulteriore riproduzione e duplicazione. Si ringraziano: Claire Nivola; Pietro Nivola; Gus Kiley; Katherine Stahl; Carl Stein. Anna Maria Viotto, Associazione Archivio Storico Olivetti, Ivrea; Isabelle Godineau, Archives de la Fondation Le Corbusier, Paris; Alessandra Ravelli, Biblioteca Nazionale Club Alpino Italiano, Torino; Francesca Pozzi, Biblioteca e Archivi Fondazione e Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca; Andrea Via, Biblioteca “Ferruccio Parri”-INSMLI, Milano; Paolo Cau, Archivio Storico Comune di Sassari, Sassari; Gerd Zillner, Frederick and Lillian Kiesler Private Foundation, Vienna; Amy Schichtel, Willem de Kooning Foundation, New York; Cristina Pérez Bueno, Arxiu Josep Lluís Sert, Fundació Joan Miró, Barcelona; Ingrid Kummer, The Bernard Rudofsky Estate, Vienna; Julianna Monjeau, The Public Design Commission Archive, New York; Loisann Dowd White, Getty Research Institute, Los Angeles; Jessica Shaykett, Archives at American Craft Council Library, Minneapolis; Marisa Bourgoin, Archives of American Art, Smithsonian Institution, Washington D.C. Daniel Abramson; Giorgio Angeli; Richard Bender; Andrea Bocco Guarneri; Lorenzo De Biase; Augusto Fancello; Sergio Flore; Richard Ingersoll; Lauren Kristin; Maria Rosaria Guarini; Mauro Lucentini; Serena Maffioletti; Davide Mariani; Joseph Mazzaferro; Peter McMahon; Angelino Mereu; Kevin McManus; Victoria Munro; Peter Namuth; Nunzio Nivola; Alberto Paba; Sebastiano Piras; Elena Sanna; Giovanna Satta; Pietro Siotto; Jenny Szabo; Rebecca Szabo; Renato Ticca; Sergio Ticca; Cordelia von den Steinen; Loretta Ziranu. Le autrici dedicano un ringraziamento speciale ad Andrea e Marco.

Le ricerche delle autrici per questo volume sono state svolte con il sostegno della Regione Autonoma della Sardegna, L.R. 7/2007 e il contributo del Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali dell’Università degli Studi di Sassari.

© 2015 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 978-88-6202-335-1


INDICE

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PREMESSA

Giuliana Altea

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GLI ANNI DI FORMAZIONE

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QUESTIONI DI IDENTITÀ

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NEL GIARDINO DI SPRINGS

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SCULTURA E ARCHITETTURA

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DALLA SCULTURA ALL’AMBIENTE

Antonella Camarda

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COLLABORARE O COMPETERE

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L’ARTISTA NELLO STUDIO

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PENSIERO RADICALE

389

ANDATA E RITORNO

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CORPI MATERNI

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BIBLIOGRAFIA



PREMESSA

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1. Costantino Nivola, 1953 ca., foto Hans Namuth.

Negli ultimi anni della sua vita, Costantino Nivola pensava insistentemente alla pubblicazione di una monografia che tirasse le somme di oltre cinquant’anni di carriera artistica. La sua ricerca aveva attraversato due continenti e una varietà di ambienti: dalla Milano razionalista fra le due guerre alla New York dell’Espressionismo astratto, dalla Parigi surrealista dei tardi anni Trenta a quel ritrovo di scultori da tutto il mondo che erano le cave della Versilia negli anni Settanta, dalla Berkeley della contestazione studentesca alla Roma degli anni di piombo, passando e ripassando per la Sardegna, luogo reale e mitico intorno al quale si era formata la sua visione di artista. Il suo era stato un itinerario non lineare ma pieno di svolte e di ripensamenti, che lo aveva portato a indossare di volta in volta i panni del grafico, del decoratore e creatore di allestimenti, del pittore, dello scultore e del designer, muovendo dalla scala minima del foglio di carta a quella monumentale dell’intervento architettonico. Quel libro non avrebbe mai visto la luce, ma già alla vigilia della morte di Nivola, nel 1987, si avviava un processo di rivisitazione critica del suo lavoro che, aperto con la pubblicazione di Una piazza per un poeta, studio su piazza Satta a firma di Salvatore Naitza, sarebbe continuato su impulso della fondazione dedicata all’artista. Del 1991 è il primo sguardo d’insieme sull’opera plastica, la raccolta Nivola. Sculture, con prefazione di Henry Geldzahler e testi di Richard Ingersoll, Fred Licht e Antonello Satta. Gli autori, la cui conoscenza dell’opera di Nivola poggiava anche su consolidati rapporti di amicizia, evidenziavano l’eccezionalità della sua vicenda artistica e umana e tracciavano le linee principali del suo percorso in un testo corredato da una vasta bibliografia e da apparati relativi alla storia espositiva e alle commissioni. Quattro anni dopo, la neonata Fondazione Nivola editava un secondo volume dedicato alla grafica e alla pittura, con testi di Alberto Crespi, Fred Licht e Salvatore Naitza presentati da Ugo Collu; nel 2004, a completare la trilogia, veniva pubblicato, sempre a cura della Fondazione, Nivola. Terrecotte di Sylvie Forestier. Il periodo della formazione era stato, l’anno prima, esaminato in Nivola Fancello Pintori. Percorsi del moderno, a cura di Roberto Cassanelli e altri, mentre l’itinerario biografico era stato delineato in un volume del 2001 con testi di Dore Ashton, Diego Mormorio e Raffaella Venturi attraverso una ricca raccolta di ritratti fotografici di Nivola. Nel frattempo era iniziata la valorizzazione dell’artista per mezzo di una serie di mostre, tra cui l’ampia antologica del 1999 al PAC di Milano. Il catalogo curato da Luciano Caramel e Carlo Pirovano forniva ulteriori elementi per ricostruire la carriera di Nivola, accennando anche alla sua fitta rete di relazioni transatlantiche con vari protagonisti dell’arte novecentesca. Unica esposizione di rilievo organizzata fuori d’Italia, Costantino Nivola in Springs, curata nel 2003 al Parrish Museum di Southampton da Micaela Martegani, introduceva la discussione del contesto architettonico e artistico entro cui Nivola aveva operato. Altri apporti venivano dai cataloghi della mostra fiorentina al Forte Belvedere (2003) e di quella al Palazzo Viceregio di Cagliari (2008), entrambi a cura di Pirovano, e dai testi raccolti nel volume dedicato nel 2004 al Museo Nivola. Una prima trattazione unitaria offriva nel 2005 Giuliana Altea in un piccolo libro edito da Ilisso. Infine, a partire dal 2010 altri contributi hanno toccato aspetti particolari dell’opera dell’artista: i cataloghi delle mostre Nivola. L’investigazione dello spazio, di nuovo a cura di Pirovano, e Seguo la traccia nera e sottile. I disegni di Costantino Nivola, di Altea e Camarda, seguiti da un saggio di Maddalena Mameli sul rapporto con Le Corbusier, da una ricognizione di Angelino Mereu sul soggiorno in Toscana (2012) e, di recente, da un libro di Kevin McManus dedicato al Design Workshop di Harvard (2015). 7


Nonostante la relativa abbondanza di contributi monografici, rimaneva l’esigenza di un’indagine critica complessiva fondata sullo scandaglio delle fonti bibliografiche e archivistiche, in primo luogo statunitensi, che permettesse una piena comprensione del ruolo svolto dall’artista nella cultura del Novecento. Le ricerche condotte per questo volume, nonché l’esame di molte opere e progetti inediti, hanno consentito anzitutto di definire il percorso di Nivola rettificandone e precisandone tempi e fasi, incontri e circostanze; in precedenza, la convinzione che fosse «difficile, e probabilmente inutile, sistemare l’opera di Nivola secondo periodi cronologici» (F. Licht 1991, p. 52) ne aveva incoraggiato una visione che cristallizzava la ricerca dello scultore intorno a pochi temi orizzontali, rischiando di farlo percepire come una sorta di “artista naturale”, felicemente avulso dal dialogo culturale contemporaneo. Ascritto romanticamente alla «schiera degli smarriti dello spirito, del tempo e della storia», Nivola è stato visto come una «personalità in fondo semplice e … primitiva», segnata da una precarietà psicologica, emotiva, concettuale che apriva a una totale disponibilità e «duttilità perfino istrionica» (C. Pirovano 2008, pp. 12-13). La mancanza di una ricostruzione puntuale degli eventi e del loro contesto generava così due interpretazioni contrastanti: da una parte un artista in fondo sempre identico a se stesso, univocamente determinato dalla propria appartenenza e dalla nostalgia (regressiva) delle origini; dall’altra, un eclettico preda delle più varie influenze stilistiche a causa di una perenne e invincibile insicurezza. Al contrario, quello di Nivola è stato un itinerario condotto sul filo di un confronto continuo e consapevole con le maggiori voci dell’arte e dell’architettura del suo tempo e sulla spinta di un costante aggiornamento anche teorico. Il suo cosiddetto eclettismo era in effetti una risposta al mutare dell’orizzonte operativo e culturale, un’evoluzione nata dal bisogno di sperimentare, sottraendosi alle pressioni del mercato che impone l’uniformità di una cifra riconoscibile. Al di là del loro interesse biografico, gli ambienti frequentati dall’artista e gli incontri che ne hanno scandito la carriera (con Persico, Pagano, Rudofsky, Sert, Breuer, Saarinen, Kiesler, Steinberg, Pollock, De Kooning… la lista va ben oltre il noto, e per certo determinante, incontro con Le Corbusier) sono importanti perché ne attestano l’attiva partecipazione alle dinamiche culturali e artistiche della contemporaneità. Esplorando questa ricchezza di scambi e scenari, il presente volume indaga attraverso la vicenda di Nivola alcuni snodi cruciali del modernismo novecentesco e della sua crisi. Il primo capitolo considera, ricostruendoli nelle loro articolazioni interne, gli inizi dell’artista tra la Sardegna, Monza e Milano, segnati dalla vicinanza a Giuseppe Pagano e a Edoardo Persico (la cui influenza viene ora esplorata nel concreto riscontro con le opere), dal contatto con l’ambiente italiano delle esposizioni e dal tirocinio svolto nell’Ufficio Pubblicità Olivetti. È a Milano che Nivola si accosta all’idea dell’integrazione tra le arti, sia nella versione totalizzante e spettacolare elaborata nelle Triennali e nelle grandi mostre del regime, sia in quella orientata alla comunicazione del prodotto sperimentata nella ditta di Ivrea, dove artisti, poeti e architetti lavorano fianco a fianco. Con l’esilio negli Stati Uniti, la necessità di ridefinire la propria identità professionale nell’impatto col nuovo ambiente innesca un processo di “riscrittura dell’io”, delineato nel secondo capitolo attraverso l’esame di dipinti e di un gran numero di disegni inediti. Diviso tra il lavoro di grafico, occasionali incarichi di decorazione e una serie di tentativi pittorici, Nivola trova in Le Corbusier il mentore che lo inizia al modernismo e che insieme ne conferma la tendenza a oltrepassare i confini tra le arti. L’inclinazione verso un’“arte di vivere” che abbracci dimensione estetica e quotidianità emerge nel giardino che l’artista si costruisce a Long Island in collaborazione con Bernard Rudofsky, tema del terzo capitolo. La pratica del muralismo e l’approdo alla scultura di cui il giardino è teatro sono per la prima volta osservati nel dettaglio e contestualizzati tanto in rapporto alle posizioni e alla presenza di Le Corbusier, quanto in relazione agli orientamenti diffusi nella Scuola di New York; viene inoltre considerata la ricezione di questa nuova produzione in Italia, alla luce della categoria di “fantasia degli italiani” coniata da Gio Ponti per interpretare la tendenza italiana allo sconfinamento tra le arti. Il quarto capitolo, incentrato sul passaggio alla scultura per l’architettura avviato col rilievo per lo showroom Olivetti di New York, analizza il desiderio di Nivola di “normalizzare” la scultura per integrarla nell’edificio, insieme al suo interesse per il monumento e la dimensione comunitaria e partecipativa. Il tema del monumento, legato alla visione di Josep Lluís Sert (il cui determinante influsso sull’artista non era mai stato rilevato), è affrontato con i Building Blocks (modelli per sculture grandi quanto edifici) ma anche con il Pergola-village, progetto che anticipa elementi dell’arte ambientale e di partecipazione. Il quinto capitolo mostra come entrambe le linee trovino sviluppo alla fine degli anni Cinquanta: quella della scultura a scala di edificio con gli imponenti rilievi della Mutual of Hartford e del McCormick Exposition 8

2. Costantino Nivola accanto a una scultura di Calder, primi anni Cinquanta. 3. Costantino Nivola, prima metà anni Cinquanta, foto Hans Namuth. 4. Con Salvatore Fancello, Milano, 1936-38. 5. Con Alexander Calder e altri amici, con indosso delle maschere di carta disegnate da Saul Steinberg, 1959, foto Gjon Mili. 6. Con Saul Steinberg, New York, anni Quaranta. 7. Con Lee Krasner e Jackson Pollock nello store di Springs, aprile 1949, foto Time inc.

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Nella doppia pagina seguente: 8. Al tavolo da lavoro, Milano, 1936-38.

Center, quella ambientale-partecipativa con la mostra all’aperto tenuta a Orani nel 1958. Contemporaneamente, l’artista saggia le nuove possibilità espressive offertegli da tecniche come il graffito, che adotta in una serie di murali nel giardino e in alcuni lavori su commissione, e la lamiera ritagliata e modellata, da cui ricava le figure archetipiche degli Antenati. Ormai presenza di spicco nel panorama internazionale della sintesi delle arti, Nivola ne registra tuttavia le contraddizioni nel corso della collaborazione con Eero Saarinen al progetto dei college Morse e Stiles di Yale, dove il protagonismo dell’architettura rischia di ridurre la scultura all’invisibilità. L’approfondirsi di questa tensione e l’accentuarsi della competizione fra artisti e architetti sono analizzati nel sesto capitolo attraverso l’esame della scultura architettonica degli anni Sessanta: è la fine dell’utopia della sintesi delle arti, almeno nei modi in cui era stata elaborata dal modernismo di metà secolo, ma anche l’inizio di un periodo di sperimentazione e ricerca di nuovi spazi di collaborazione. Mentre lo stile di Nivola risponde – in modo tutt’altro che passivo – tanto alle suggestioni del minimalismo che a quelle dell’arte egiziana (nel 1963 sarà in Nubia come consulente dell’UNESCO per il salvataggio dei templi di Abu Simbel), il rapporto con l’architetto Richard Stein, finora mai discusso, si rivela fondamentale nell’orientare l’artista verso la scuola e il playground come nuovi ambiti di attuazione della funzione civica dell’arte e nel guidarlo verso i temi della sostenibilità e del rapporto con l’ambiente. Il settimo capitolo è dedicato alla dimensione intimista dell’arte di Nivola, che si sviluppa all’inizio degli anni Sessanta con la scoperta della terracotta: bassorilievi e sculture a tutto tondo esplorano il tema del letto e della spiaggia, microcosmo e macrocosmo che racchiudono il senso dell’esistenza, il rapporto fra gli esseri umani e tra questi e la natura, caratterizzato da uno spirito al fondo immanente e pagano. Dopo le tappe di Milano e New York, in cui Nivola presenta al pubblico questa produzione, si fa ritorno al giardino di Springs, raccontando per la prima volta due incontri cruciali per comprendere l’evoluzione dello scultore: quello con Frederick Kiesler e quello con Willem de Kooning. Il capitolo seguente dà conto dell’evoluzione del pensiero politico di Nivola e dei modi in cui la sua arte ne è permeata. Riemerge il tema dell’identità dell’artista, polarizzata ora tra una sardità rivendicata con orgoglio e partecipazione emotiva, ma lontana da ogni nostalgia romanticamente acritica, e un’americanità altrettanto meditata e circospetta. Due monumenti non realizzati, a Franklin Delano Roosevelt e ad Antonio Gramsci, esemplificano gli estremi dell’orizzonte politico nivoliano, che negli anni Settanta assume i contorni di una radicale disillusione (la Terra sovrappopolata del 1972 è l’icona, paradossale e apocalittica, di un mondo fuori controllo). Un pessimismo cosmico che però mantiene intatto un fondo di umanesimo, la speranza, se non nella razionalità dell’uomo, nel potere di autoregolamentazione della natura. Nel nono capitolo la vena retrospettiva di Nivola, la rielaborazione di tecniche, forme e temi dei decenni precedenti, sono lette non come momento regressivo bensì come fase portatrice di nuove istanze. Il ritorno alla pittura nei Ritratti di statue (1975) rappresenta l’urgenza di una riflessione teorica sul rapporto tra le arti, sullo spazio e sulla forma – la stessa che caratterizza la serie delle Stanze – anche sulla scorta dello scambio intellettuale con Rudolph Arnheim, mentre i dipinti dedicati a New York esprimono la vertigine di Nivola di fronte ai cambiamenti epocali di cui è testimone, l’inquietudine e l’ebrezza nel vedere un mondo in frantumi e le infinite possibilità che si aprono all’arte, all’architettura e all’umanità stessa: su queste premesse si compie l’approdo consapevole al postmoderno. Parallelamente, Nivola si cimenta con i materiali nobili della scultura, marmo e bronzo, per distillare una serie di sculture incentrate sul tema del femminile, cui è dedicato l’ultimo capitolo. Per la prima volta l’approdo di Nivola alla statuaria non è più visto attraverso un filtro generalizzante ma precisato dal punto di vista formale e concettuale; il carattere archetipico delle Madri è esaminato alla luce del pensiero junghiano, evidenziando permanenze e variazioni della storia personale dello scultore così come della sua capacità di interpretare istanze universali. Ne emerge un artista sostanzialmente nuovo, osservato non solo sotto il profilo stilistico, nelle successive articolazioni del suo discorso multidisciplinare, ma nella pregnanza delle motivazioni culturali. Relegato per decenni ai margini del discorso critico – prima a causa della sua eccentricità rispetto alla visione greenberghiana, quindi, a partire dagli anni Sessanta, per via dell’estraneità tanto generazionale quanto ideologica alla tendenza verso la smaterializzazione dell’arte – Nivola è un artista che merita di essere riscoperto. Non si tratta tanto di includerlo nel canone dell’arte del Novecento allargandone i confini troppo angusti, ma di contribuire, attraverso una nuova considerazione della sua opera, a ripensare quello stesso canone come spazio discorsivo aperto alla molteplicità, come campo culturale dinamico e inclusivo. 9



GLI ANNI DI FORMAZIONE


Prologo Il 26 maggio 1954, il pubblico e gli addetti ai lavori intervenuti in folla all’inaugurazione del nuovo showroom Olivetti a New York, al 564 di Fifth Avenue, si trovarono davanti a uno spettacolo inatteso. Varcata l’altissima porta in legno di noce, oltre la fronte vetrata del negozio progettato dallo studio milanese BBPR, lo sguardo si posava su un interno insolitamente lussuoso e costellato di capricciose invenzioni. Tra l’eccentricità delle strutture, la stravaganza degli arredi, l’abbondanza di materiali pregiati faceva spicco come elemento centrale un rilievo popolato di figure semi-astratte tra l’organico e il geometrico, esteso a rivestire l’intera parete sinistra per la lunghezza di ventitré metri. Lo scenografico pannello, modellato nella sabbia e gettato in gesso di Parigi, trasfigurava l’ambiente facendone una sorta di caverna preistorica abitata da apparizioni vagamente benigne, che il suo autore, lo scultore Costantino Nivola, descriveva come figure ospitali, intente a fare gesti di benvenuto.1 Il progetto dei BBPR era destinato a fare scalpore negli ambienti dell’architettura e del design, negli Stati Uniti e non solo. Lo showroom Olivetti sarebbe diventato in breve un simbolo del made in Italy, sintesi della libertà creativa, dell’originalità di invenzione e dell’alta tradizione artigianale che caratterizzavano la nuova Italia emersa dalla ricostruzione. In questo successo, una parte tutt’altro che secondaria doveva giocare il rilievo di Nivola, prima prova d’impegno di uno scultore all’epoca pressoché sconosciuto. Quando la commissione Olivetti lo lancia come scultore per l’architettura a livello internazionale, Nivola ha infatti già quarantatré anni, un’età in cui la maggior parte degli artisti ha ormai definito da tempo la propria poetica e messo a punto gli strumenti espressivi: conquiste che nel suo caso sono invece piuttosto recenti. Nel 1954 ha al suo attivo lunghi anni di lavoro come grafico e svariati allestimenti, ma relativamente pochi dipinti e ancor meno sculture; alle spalle, un percorso lento e non privo di pause, scandito da una serie di shock culturali: il passaggio da una società poverissima e arretrata, quella della Sardegna contadina del primo Novecento, all’ambiente artistico della Milano tra le due guerre, quindi l’esperienza non meno traumatica dell’esilio e del trapianto negli Stati Uniti, infine l’incontro con Le Corbusier, da lui vissuto come momento di svolta risolutivo. La peculiarità di questi passaggi fa sì che l’iti-

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nerario di Nivola si configuri per almeno un ventennio – ma anche oltre – nei termini di un’ansiosa e incessante ricerca identitaria, condotta tanto sul piano artistico quanto su quello personale. Questo rende difficile, quando si parla di lui, separare il percorso di lavoro dalla vicenda biografica; tanto più che entrambi furono codificati da Nivola in un racconto mitico da assumere a base della propria opera. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, la costruzione della sua immagine di artista si fondò sulla cristallizzazione in una sorta di cammino iniziatico degli eventi dell’infanzia e della giovinezza, dalla vita nel guscio protettivo del villaggio ai primi contatti con l’universo urbano, dalla conversione al modernismo alla definitiva scelta della carriera di scultore. Questa narrazione, cui non manca neppure il luogo canonico della scoperta del talento (l’artista fanciullo, intento a disegnare – novello Giotto – un animale su un muro, sorprende con la sua bravura il pittore Mario Delitala, che lo chiama presso di sé quale apprendista)2 è stata ampiamente recepita dalla letteratura su Nivola, finora in gran parte contraddistinta da uno spiccato taglio biografico che ha posto in primo piano il discorso dell’appartenenza etnica dell’artista. Il tema delle radici sarde e mediterranee – da Nivola costantemente rivendicate – divenne quasi subito un tratto irrinunciabile di ogni presentazione della sua opera. Già al momento della prima affermazione internazionale dello scultore Olga Guelft scriveva su Interiors: «La sua origine è un fatto che egli non permette a nessuno di dimenticare per un istante, né nella sua arte né nella sua stessa presenza. Piccolo e nervoso, domina la stanza con la stessa aria di sfida con cui i sardi dominano l’aspro paesaggio della loro isola, sebbene nel suo caso il mezzo non sia la sottolineatura geometrica del costume tradizionale, ma un’apparenza ugualmente incisiva: capelli di un nero corvino e occhi neri lampeggianti nella bella faccia abbronzata, voce calda e un umorismo lievemente sardonico».3 Il motivo delle origini si legava quasi naturalmente a quello dell’attitudine costruttiva di Nivola, fatta discendere tanto dall’eredità familiare quanto dal legato ancestrale della civiltà nuragica: «Nato in Sardegna, in una cittadina mineraria dove suo padre era muratore, Nivola invoca lo spirito dei suoi antenati che hanno disseminato le loro pianure di misteriose strutture di blocchi di pietra (i nuraghi), incombenti come presenze nella luce sarda, e che dagli scarsi materiali del paese plasmavano alcuni dei più suggestivi oggetti, strutture e opere d’arte della storia. Quei primi sardi hanno trovato un erede in Nivola, che è prima di tutto un uomo che mette insieme le cose».4 E ancora: «È sardo in tutto, nell’aspetto fisico e nel carattere … i suoi erano muratori ed egli dà l’impressione di essere un tale che, per non sentirsi soffocare nel valore delle proprie origini dalla immane mole dei grattacieli, ha deciso di far lì, vicino ai grattacieli, qualche cosa che sia sardo e al tempo stesso più grande, solenne … in tal modo, in America e nel cuore del suo emporio, egli si sente vivo, solido e sardo».5 Una dose di consapevolezza postmoderna rende oggi sensibili al tono artificiale di questo tipo di rappresentazioni e al carattere premeditato degli atteggiamenti che sembravano autorizzarle. Tuttavia nel caso di Nivola l’elaborazione di un piccolo mito individuale, condotta con tenacia per mezzo di racconti orali, memorie scritte, disegni e dipinti, marcia di pari passo con una sofferta ricerca di identità professionale e personale, che doveva impegnare l’artista fino alla soglia dei quarant’anni, condizionandone in buona misura gli sviluppi seguenti. Trascurare questo mito, le circostanze e gli eventi sulla base


dei quali venne costituito, sarebbe dunque altrettanto erroneo che assumerlo acriticamente, come talvolta è stato fatto. Se il trasporto identitario di Nivola – quello che l’amico Saul Steinberg definiva con una punta di cinismo «il desiderio suo fasullo di impersonare un sardo, forse etrusco»6 – può lasciare indifferenti, le conseguenze che ebbe sul suo lavoro non permettono di ignorarlo. Orani, il piccolo paese della Barbagia dove l’artista era nato nel 1911 e dove aveva vissuto fino all’adolescenza, era divenuto per lui un luogo simbolico che racchiudeva gli estremi della deprivazione e dell’appagamento felice: da un lato una quotidianità fatta di miseria e di fame, di lavoro precoce accanto al padre muratore, la sofferenza per la sottrazione dell’amore materno (sesto di dieci figli, da bambino Nivola non si era mai sentito desiderato), dall’altro i piaceri semplici della vita collettiva, la confortante sensazione di essere parte di un nucleo sociale coeso e pressoché autosufficiente, gli uni e gli altri efficacemente narrati negli scritti autobiografici pubblicati postumi sotto il titolo Memorie di Orani.7 I temi chiave della sua opera, la dimensione comunitaria, il dualismo-maschile femminile e la maternità, l’idea di costruzione e il rapporto con l’architettura, la manualità artigiana, trovano tutti origine nell’infanzia trascorsa a Orani, per quanto siano state le esperienze successive dell’artista a dare loro forma e respiro. Attraverso il filtro della memoria e della nostalgia – ma anche di un primitivismo allora diffuso, destinato a condizionare a lungo la percezione della Sardegna come degli altri luoghi del Meridione europeo – la miseria doveva lentamente mutarsi in arcaismo, l’arretratezza sublimarsi in una mitica atemporalità.8

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Il tessitore guatemalteco Il distacco dal microcosmo del villaggio avviene nel 1926, quando Nivola segue a Sassari il pittore Mario Delitala – anche lui originario di Orani e membro di una delle famiglie più influenti del paese –, per diventarne apprendista. Nella Sardegna dell’epoca, isola economicamente depressa e culturalmente periferica, il cui difficile ingresso nella modernità si andava compiendo all’insegna di vivaci fermenti regionalisti, Sassari era il centro artisticamente più attivo, che di lì a poco, con l’organizzazione di due esposizioni di qualche ampiezza (la mostra Caldanzano nel 1928 e la I Biennale d’arte sarda nel 1929) avrebbe assunto un ruolo propulsore nei confronti del fragile movimento figurativo isolano. Di questo ambiente, Delitala era uno degli esponenti di punta, apprezzato dai membri dell’aristocrazia e della borghesia intellettuale, che insieme ai colleghi frequentavano quotidianamente il suo studio.9 Interprete di un novecentismo moderato, ricco di echi rinascimentali, il suo prestigio nell’ambito locale era stato recentemente accresciuto dalla commissione di un ciclo pittorico per l’Aula Magna dell’Università, incarico in vista del quale aveva dovuto necessariamente munirsi di un aiutante. Per il quindicenne Nivola l’ingresso nello studio di Delitala segnò il primo contatto con l’arte, così come l’arrivo a Sassari rappresentò la prima esperienza del contesto urbano e dei suoi usi: due mondi entrambi per lui sconosciuti e misteriosi. In una memoria inedita stesa negli ultimi anni della sua vita, l’artista descrive il periodo del tirocinio sassarese enfatizzando le proprie totali ingenuità e inesperienza e la durezza del confronto con una nuova realtà.10 I cinque anni trascorsi al servizio di Delitala costituiscono un periodo formativo cruciale, sul piano culturale e sociale prima ancora che su quello dell’acquisizione

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9. Ritratto di bambina, fine anni Venti, olio su tela, 32 x 23 cm. 10. Musicisti, 1931, olio su cartone, 30,3 x 22,8 cm. 11. Gesù ed i fanciulli, 1930, xilografia. 12. Bevitore, 1931 ca., xilografia.

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degli strumenti tecnici del lavoro artistico; periodo di caotiche letture («leggevo articoli e libri senza ordine preciso e comprendevo forse il cinque per cento dei loro contenuti»)11 e di avida e ansiosa ricerca di adeguamento all’ambiente cittadino. Nivola passa dagli umilissimi compiti iniziali (tenere pulito lo studio, trasportare il legname per le impalcature del cantiere) al tirocinio sui ponteggi dell’Università, accanto agli stuccatori, dai quali – già forte del lavoro compiuto da bambino accanto al padre muratore – apprende in breve i fondamenti del mestiere. Contemporaneamente, grazie all’esempio del maestro più che tramite un vero e proprio insegnamento, si accosta alla pratica pittorica. Tutto si svolge entro il più tipico orizzonte di bottega: a tal punto che, secondo il suo racconto, il giovane Nivola neppure capisce quando Delitala lo esorta a non copiare la sua pittura e a cercare invece una maniera propria; identificando stile e iconografia, pensa con sgomento che il maestro gli voglia vietare la rappresentazione dei soggetti regionalisti (pastori, donne in abito tradizionale, feste paesane) che formano il repertorio suo e degli altri artisti sardi.12 Sia o meno per effetto di questi ammonimenti, tracce dell’influenza di Delitala si colgono soltanto in rari dipinti e in una serie di xilografie realizzate fra il 1930 e il 1931.13 Sull’onda 14

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del favore riscosso all’epoca in Sardegna dalle tecniche di stampa e del successo del Delitala xilografo – figura trainante di un gruppo che si andava affermando in campo nazionale come “scuola sarda della xilografia”14 –, Nivola si cimenta a sua volta nell’incisione su legno, riprendendo dal maestro non solo temi religiosi e scene di vita rurale ma alcune soluzioni compositive e certe inflessioni espressionistiche, in lui rese più aspre dall’ancora scarsa dimestichezza con il bulino (figg. 11-12).15 Accenti espressionisti e primitivisti emergono con particolare evidenza in un gruppo di opere di soggetto musicale legate alla decorazione del Teatro Verdi eseguita in occasione del Veglione della Stampa (fig. 10).16 I pochi dipinti di questa fase che è stato possibile rintracciare sono ritratti a olio di mano già abbastanza sicura per un principiante, che seguono la ritrattistica di Delitala nell’impianto di sapore novecentista (fig. 9). Queste frammentarie testimonianze danno comunque un’idea solo parziale delle prime esperienze artistiche di Nivola, il cui debutto ufficiale era avvenuto nella primavera 1930 con la partecipazione alla prima Mostra sindacale di Sassari (dove un suo acquarello era stato acquistato dal Re), e che poco dopo, a settembre, si era ripresentato al pubblico cittadino con una serie di opere esposte nella vetrina di un negozio.17


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L’occasione di un lavoro più impegnativo giunge per lui poco dopo, quando nello studio di Delitala fa la sua apparizione l’ingegnere Gianni Ticca,18 dinamico imprenditore edile ed esponente di peso del fascismo sardo, che gli propone di decorare una sua villa appena costruita a Cala Gonone, presso Dorgali. Pur non essendo a rigore una vera commissione (fra i due non intercorrono transazioni di denaro),19 l’incarico offre al giovane artista la possibilità di misurare le proprie forze. Avviata nel 1931, la decorazione viene completata nel corso di due estati successive. Sulle pareti del salone – il primo a essere dipinto – Nivola colloca, tra fregi tardoliberty (per sua ammissione copiati da una rivista inglese di arredamento),20 tre grandi pannelli a olio con scene campestri e marine, concepiti in totale indipendenza dalla cornice architettonica e dagli stessi motivi ornamentali di contorno (figg. 13-15). Accanto a un già spiccato senso della composizione, i tre quadri rivelano la suggestione di esempi contraddittori. L’artista li ricordava dipinti sotto l’influsso di Sironi e di Carrà e del tutto privi di richiami ai pittori sardi:21 tuttavia, mentre il pannello Donne in barca dichiara qualche ambizione novecentista nello sforzo di dare saldezza plastica a formule di sapore déco, Bagnanti e Scena campestre dimostrano un’attenta osservazione dei quadri di Giuseppe Biasi,

caposcuola della pittura sarda del primo Novecento;22 non il Biasi regionalista, autore di scene di vita popolare isolana, ma il pittore che, reduce da un quadriennale soggiorno in Nordafrica, era riapparso proprio nel 1931 alla Mostra Coloniale di Roma in rinnovati panni primitivisti. Da lui (molto più che da Carrà, a dispetto dell’alberello stilizzato che ne cita il Pino sul mare del 1921) vengono le atmosfere stupefatte, i paesaggi solitari in cui gli specchi d’acqua riflettono gli ultimi raggi del tramonto, le sagome asciutte dei nudi nei pannelli del salone. «Avevo imparato a farlo troppo facilmente, potevo fare un quadro di Biasi con molta disinvoltura», avrebbe molto più tardi affermato Nivola:23 «Oggi come allora non riesco a resistere all’attrazione dei suoi dipinti, sapendo bene che difficilmente un centimetro delle sue tele sopravvivrebbe ad una critica oggettiva».24 A parte le xilografie ispirate dai modelli di Delitala, sarà questo comunque l’unico segnale di interesse per gli artisti sardi, il cui orizzonte deve apparirgli fin d’ora troppo limitato.

13-15. Pannelli decorativi, 1931, olio su compensato, rispettivamente: Scena campestre, 156 x 166 cm; Donne in barca, 154 x 112 cm; Bagnanti, 156 x 119 cm, villa Ticca, Cala Gonone.

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Gianni Ticca ha intanto instaurato con Nivola un rapporto da mecenate a protetto destinato a durare alcuni anni. Uomo brusco e autoritario, ma anche provvisto di una sua antiretorica franchezza e di notevole senso pratico, progetta il futuro del giovane artista e in qualche modo ne sostiene l’educazione, mentre con l’ironica nonchalance che dimostra nei confronti del regime gli porge le prime – involontarie – lezioni di antifascismo.25 Non è tuttavia Ticca ma Delitala a dare una svolta decisiva alla vita di Nivola, procurandogli la modesta borsa di studio del Consiglio Provinciale dell’Economia di Nuoro che gli consente di trasferirsi a Monza per frequentarvi l’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche). La partenza, avvenuta nell’autunno 1931, mette fine a un periodo di disorientamento e di inerzia: Sassari non ha più molto da offrirgli, mentre a Orani si sente ormai uno spostato. Un soggiorno nel paese di alcuni mesi, dovuto a una malattia, gli ha permesso di misurare la distanza che lo separa dalla comunità: non ancora artista, non più muratore, è divenuto un corpo estraneo nell’ambiente locale, oggetto di disprezzo e di derisione.26 Ciò nonostante, il trasferimento a Monza avrà ancora una volta qualcosa di traumatico, sarà vissuto come una lacerazione, compensata in parte dalla vicinanza di altri due borsisti sardi dell’ISIA, Giovanni Pintori e Salvatore Fancello, con i quali – soprattutto col secondo – l’artista stabilirà uno stretto sodalizio. «Io venivo da Orani, paese sofisticato, cattivo, gente furba e svelta, Pintori da Nuoro, scontroso, brontolone, un tipo non sociale … Fancello un orientale di Dorgali, tutto sognante, placido».27 Nonostante queste differenze, “i tre giovani sardi”, legati dall’iniziale senso di spaesamento e dalle comuni ristrettezze economiche, diventeranno inseparabili, segnalandosi in breve come presenze di spicco all’interno della scuola.28 Fondata nel 1922 col nome di Università delle Arti Decorative e attiva nel complesso della Villa Reale di Monza, l’ISIA rappresentava un unicum nel panorama italiano dell’insegnamento artistico per l’alto profilo degli insegnanti e la qualità dell’offerta didattica. Questi aspetti, uniti all’adozione di un modello di insegnamento basato sui laboratori, all’apertura internazionale perseguita nel reclutamento di maestri e allievi, al favorevole rapporto numerico docenti-studenti e alla pratica di vita comune resa possibile dal convitto annesso alla scuola, giustificavano il paragone spesso ripetuto con altre istituzioni europee, a cominciare dalla Bauhaus tedesca. Tuttavia, rispetto alla Bauhaus, l’ISIA doveva caratterizzarsi per un approccio molto meno lineare, segnato da ricorrenti tensioni fra modernità e tradizione e dal persistere di richiami all’eredità delle culture locali, mentre il suo rapporto con l’industria non sarebbe mai stato fino in fondo reso esplicito.29 È noto il severo giudizio retrospettivamente formulato da Nivola sulla scuola di Monza e sul genere di formazione che vi era impartita. Malgrado le sue ambizioni europee, l’ISIA gli appariva come un’istituzione provinciale alquanto modesta in cui, in assenza di ogni serio presupposto teorico, il solo metodo vigente era quello antichissimo di incoraggiare gli allievi

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16. Publio Orazio uccide la sorella, 1932, tempera aerografata su carta, 86 x 61 cm. 17. Paradiso terrestre, 1932, tempera aerografata su carta, 86 x 61 cm. 18. Gli amanti, 1933, sanguigna e tempera all’amido su carta, 45 x 35 cm. 19. Figure, 1933, tempera all’amido su carta, 45 x 43 cm. 20. Figure femminili, 1933, tempera all’amido su carta, 39,5 x 47 cm.

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Più che dal profilo composto e quasi ufficiale dell’associazione di Salvemini, però, Nivola sembra attratto da un’idea immaginativa di politica. È così che subisce il fascino di Veniero Spinelli, fratello del federalista Altiero e membro di Giustizia e Libertà: «Un tipo molto espressivo e convincente», dalle cui argomentazioni suggestive si lascia coinvolgere nel tentativo di fondare un movimento «di autonomisti a New York».28 L’obiettivo è la creazione di una federazione di regioni autonome rette da un governo decentralizzato ed estremamente libertario; un progetto che lo stesso artista definirà retrospettivamente «una cosa abbastanza fantastica», nel quale le teorie federaliste (che verranno sviluppate da Spinelli in Italia nel dopoguerra)29 si

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combinano con l’evocazione del ruolo risolutore dei condottieri e dei capi carismatici. Novizio in campo politico, Nivola tende a sovrapporre alle analisi realistiche una considerazione estetica dei problemi. In questo orizzonte rientra la sua proposta, formulata mentre discute con Lussu di cosa fare in Sardegna dopo la guerra, di «imbiancare tutte le case con lo zoccolo azzurro da una casa all’altra»: un progetto dettato da un sentire analogo a quello già espresso in Veduta di Orani e che, come vedremo, verrà ripreso anni dopo nel contesto di una raggiunta consapevolezza artistica.30 Il mito del villaggio come microcosmo profondamente coeso e solidale, visualizzato dall’uniformità del rivestimento delle case e dello zoccolo che le unisce, nasce dal bisogno di arginare il senso di disorientamento e di incertezza dell’emigrato che, esposto allo shock del trapianto culturale, vede sfumare i contorni della propria identità. «A me sono successe tante cose in tutto questo tempo – scrive Nivola in quella che sembra la sua prima lettera a Fancello dopo la partenza –, sono andato avanti e indietro, avanti nel senso che sono diventato più buono, indietro nel senso che sono ridiventato magro. Ho cambiato la mia pittura, ma porto sempre gli stessi vestiti. Penso in quattro lingue differenti, quando penso a mia madre penso in sardo, se penso a voi in italiano, a Mr John in inglese, a monsieur Dupont in francese. Faccio gli stessi errori d’ortografia in tutte quattro le lingue».31 Alla sovrapposizione di una pluralità di lingue fa riscontro il moltiplicarsi dei ruoli e dei contesti sociali. Nei primi tempi dopo l’arrivo in America, e per alcuni anni in seguito, Nivola si muove al crocevia di vari ambienti: quello dell’antifascismo italiano (un piccolo gruppo abbastanza chiuso, avido di ogni notizia che giunga dall’Europa e invece privo di curiosità per gli Stati Uniti, visti come un luogo di soggiorno temporaneo)32 e quello raccolto intorno alle redazioni delle riviste e alle agenzie pubblicitarie, la cerchia degli architetti e infine quella degli artisti, degli émigrés come degli esponenti della nascente avanguardia newyorkese. Le sue eccezionali qualità umane e la sua intelligenza gli consentiranno di conciliare fruttuosamente queste esperienze e di mettere in comunicazione gli scenari con cui viene di volta in volta in contatto; più lunghi e impegnativi saranno il lavoro di scandaglio di sé e la successiva costruzione della propria identità personale e artistica, innescati dal trauma dell’esilio. Quando descrive a Fancello le proprie reazioni di fronte al nuovo ambiente, Nivola si trova a New York da circa sei mesi. Nella fase iniziale della carriera, senza notorietà e senza conoscenze influenti all’estero, è stato costretto ad affrontare la fuga dall’Europa e la vita in un paese ancora sotto l’effetto della Grande Depressione in condizioni simili a quelle proprie della maggior parte dei rifugiati, con scarse protezioni e ancor meno denaro.33 I suoi tentativi di trovare impiego come grafico si sono scontrati con il conservatorismo dilagante, a partire dagli anni Trenta, nella cultura visiva americana; in un momento in cui la pressione della crisi economica spinge i clienti delle agenzie pubblicitarie e le redazioni delle riviste verso stili facilmente comprensibili, la cartella di disegni che aveva portato con sé dall’Italia si è rivelata troppo moderna per le redazioni delle riviste e le aziende di New York.34 Ha dovuto constatare come Milano, dove gli ambienti della grafica e dell’architettura erano aperti agli esempi delle avanguardie europee e alla lezione della Bauhaus, fosse al paragone della metropoli statunitense decisamente più avanzata. «Scrivimi qualcosa sulla Triennale – chiede per lettera a Fancello nel 1940 –,


qui non si fa nulla di simile, il gusto è più tosto a terra. Bisogna saper disegnare belle donne, per qualsiasi argomento la solita donna col sorriso».35 È quindi con un certo sollievo che l’artista ritrova uno dei protagonisti del contesto milanese, Xanti Schawinsky, stabilitosi a New York nel 1938 dopo un periodo trascorso a insegnare al Black Mountain College, nel North Carolina.36 Renata ne informa subito Fancello: «Titino ha trovato qui, sai chi? Xanti, quello che ha fatto tanti lavori per l’Olivetti. È molto simpatico e in gamba e ora stanno facendo insieme qualche lavoretto, ed hanno anche fatto un bozzetto per un pavilione all’Esposizione mondiale – ora sta a vedere se l’accettano. Quello sarebbe un lavoro piuttosto grande, con tanti quattrini».37 Commissione e quattrini non si sarebbero però materializzati. Dei “lavoretti” citati da Renata non si conosce alcuna documentazione e così del progetto per la New York World Fair, che apparentemente non andò in porto, anche se Schawinsky aveva in effetti lavorato a due padiglioni della Fiera, quello del North Carolina e quello della Pennsylvania disegnato da Walter Gropius e Marcel Breuer, introducendovi soluzioni scenografiche con l’uso, nuovo per gli Stati Uniti, di grandi murali fotografici e di figure maggiori del vero. Nivola ricordava di aver realizzato una sola commissione al principio del soggiorno americano; si trattava di un intervento di decorazione in un night club, «un piccolo pannello dipinto nella zona dell’orchestra», per il quale aveva ricevuto un compenso di venti dollari.38 L’incarico era frutto di contatti avuti prima della partenza da Emilio Lussu. Il leader di Giustizia e Libertà lo aveva indirizzato verso i sindacati dei sarti, roccaforti del radicalismo tra gli immigrati italiani: l’International Ladies Garment Workers Union (ILGWU) e l’Amalgamated Clothing Workers of America (ACWA), i cui dirigenti più in vista erano rispettivamente Luigi Antonini e Augusto Bellanca.39 Era stato Antonini a raccomandarlo al proprietario del night club: «E questo – commentava l’artista – è tutto l’aiuto materiale che ho ricevuto».40 Ancor più deludente doveva risultare l’incontro con Bellanca. Questi, atteggiandosi a mecenate, offre ospitalità ai Nivola nella sua residenza di campagna di Highland Mills, a circa un’ora di macchina da New York, ma in realtà intende servirsene come domestici: lo capiscono quando Bellanca, dopo aver trascorso i weekend nella casa insieme a comitive di amici, comincia a riportare con sé in città i viveri, senza lasciare loro niente da mangiare.41 La coppia si adatta quindi per tre mesi a lavorare in un’industria di abbigliamento a Red Bank nel New Jersey, lui come manovale, lei nel reparto imballaggi, finché, messi insieme i soldi per il viaggio, fanno ritorno a New York. Le lettere di Renata registrano il loro stato d’animo: «Qui siamo diventati un po’ tristi e scoraggiati – non si riesce a far nulla perché sembra di cose belle e intelligenti qui non si sappia nemmeno dove stiano di casa! E Titino è continuamente in cerca di lavoro e non salta mai fuori nulla – questa è una cosa che dopo un po’ ti fa diventare scemo e anche un po’ cattivo e cominciamo a parlare male di questi americani tanto gentili e fessi».42 Le cose iniziano ad andar meglio quando Nivola si mette a dipingere cartoline di auguri natalizi e a proporle alle riviste, ai negozi, a grandi magazzini come Bonwit Teller e Lord & Taylor. Ordinate sulla base di un campionario, le cartoline sono eseguite a mano con piccole variazioni per ogni singolo esemplare e vendute a 25 centesimi l’una, cifra più che modica per la piazza newyorkese, tant’è che ogni tanto qualche cliente si commuove e in uno slancio di generosità offre di pagarle il doppio.43 Schawinsky dà una mano a diffonderle presso cono-

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scenti come l’architetto viennese Frederick Kiesler: «Ho chiesto al pittore sardo Tino Nivola di farle vedere i biglietti di Natale fatti a mano che vende a un quarto di dollaro l’uno, che ho pensato potrebbero piacerle per il loro grande charme, e anche a sua moglie. Vogue sta per fare degli annunci pubblicitari per i biglietti in novembre quindi investiamo i nostri due dollari prima che sia troppo tardi».44 Nulla è rimasto di questa produzione, ma è da credere che, riconosciuta l’inadeguatezza delle strategie grafiche utilizzate alla Olivetti, decisamente troppo raffinate per il mercato americano, l’artista avesse ripiegato su una formula più facile e gradevole. L’appellativo di “piccolo Bérard” con cui diventa popolare tra gli art director («loro trovavano che avevo questo charme francese») suggerisce uno stile rapido e frizzante, una versione alleggerita della sua maniera anni Trenta ispirata a Dufy.45 Art director a New York È attraverso la notorietà guadagnata nelle redazioni e nei negozi per mezzo delle cartoline che Nivola riesce a ottenere il suo primo impiego in America. Grazie a una segnalazione avuta tramite House & Garden, nel novembre 1940 viene assunto da Charles Whitney, che aveva appena acquistato una rivista di arredamento ed era in cerca di un art director.46 Il periodico

101-102. E. Taddei, Parole collettive, New York, S.E.A., 1941, copertina e tavola interna. 103. Caricatura di Gaetano Salvemini, primi anni Quaranta, inchiostro acquerellato su carta, 15 x 10 cm. Nella doppia pagina seguente: 104-111. Copertine di Interiors: dicembre 1941; febbraio, luglio, agosto 1942; febbraio, settembre, ottobre 1943; marzo 1944.

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aveva un’impronta molto tradizionale: fondato a Philadelphia nel 1888 col titolo – di per sé indicativo del suo taglio conservatore – The Upholsterer (il tappezziere), ribattezzato The Upholsterer and Interior Decorator nel 1916 e The Interior Decorator nel 1935,47 ancora nel 1940 era «una piccola rivista promozionale di decorazioni di interni», in un periodo in cui l’interior design non godeva in America dello status culturale che avrebbe di lì a poco acquisito ed era, come osservava Nivola, appannaggio di «signore che facevano l’arredamento mettendo i mobili in un certo modo, mettendo le lampade nell’angolo, poi un pendant nell’altro angolo, poi le loro fotografie da matrone».48 Al tono delle scelte editoriali corrispondeva un’immagine grafica altrettanto antiquata, che all’artista, abituato agli standard italiani di Casabella e Domus, non fu difficile trasformare in breve tempo. Lanciato in quello stesso mese di novembre con una nuova veste e un nome nuovo, Interiors, il mensile era destinato a diventare una delle testate di riferimento del settore. Per i primi numeri Nivola adottò una copertina bipartita in due bande longitudinali – la banda sinistra in un colore ogni mese diverso – e una fotografia centrale; il lettering allungato del titolo, allineato a sinistra e attraversato dalla data, enfatizzava la verticalità del formato (figg. 104-105).49 Già nell’aprile 1942 questa gabbia viene abbandonata, mantenendo identico solo il carattere del titolo, mentre la copertina, stampata in nero con l’aggiunta di un colore, si avvale di composizioni fotografiche piuttosto semplici, con un’immagine di base (tipicamente un motivo grafico o una planimetria stampata in negativo sul fondo colorato) e una o due foto sovrapposte. Più raramente l’artista ricorre a sintetici disegni e a iconografie talvolta echeggianti le formule usate all’Olivetti (un esempio ne è la copertina dell’agosto 1942 (fig. 107), in cui appare una mano che regge un cono, un cilindro e una sfera). L’impaginato interno è ugualmente lineare e chiaramente strutturato, con ampi spazi bianchi a controbilanciare l’inserimento di foto al vivo; la concezione unitaria della doppia pagina, spesso col titolo dell’articolo corrente da un foglio all’altro, rimanda agli insegnamenti di Persico (figg. 112-114). I ricordi della formazione italiana di Nivola emergono all’inizio anche in alcune tavole interne, nelle quali si mescolano giocosamente richiami alla cultura milanese delle esposizioni, elementi surrealisti e spunti metafisici, nella combinazione di arredi “in stile” con gessi classici, ritagli di motivi di tappezzerie Ottocento, forme organiche ed elementi geometrici; più tardi, gli interventi grafici si limiteranno a veloci vignette di commento agli editoriali del direttore, Francis N. De Schroeder. Oltre a ridisegnare l’immagine della rivista, Nivola si sforza per quanto può di influire sui contenuti, introducendo i maestri europei dell’architettura modernista. Per effetto della politica hitleriana, i maggiori tra questi si trovavano già da qualche tempo negli Stati Uniti: Gropius era arrivato nel 1937 da Londra per dirigere la Graduate School of Design a Harvard; nel 1938 lo aveva raggiunto Breuer, nominato research associate; Ludwig Mies van der Rohe, lasciata la Germania nel 1937, si era stabilito a Chicago come capo dell’Armour Institute of Technology (poi Illinois Institute of Technology);50 Josep Lluís

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112-114. Pagine interne di Interiors: dicembre 1941, pp. 36-37; settembre 1943, pp. 18-19; ottobre 1943, pp. 42-43. 115-118. Copertine di American Cookery: settembre 1943; febbraio, marzo, aprile 1944. 114

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Sert, chiamato negli Stati Uniti da Joseph Hudnut e James Johnson Sweeney per un ciclo di conferenze a Harvard, Yale, Columbia, Princeton e altre università della East Coast, risiedeva dal 1939 a New York.51 Prima ancora del trasferimento degli architetti, le loro opere erano state rese note in America dalla mostra Modern Architecture – International Exhibition curata nel 1932 al MoMA di New York da Henry-Russell Hitchcock e Philip Johnson e dalla rassegna sulla Bauhaus organizzata dallo stesso museo e allestita da Herbert Bayer in collaborazione con Gropius nel 1938.52 Nonostante ciò, il modernismo non era ancora entrato a far parte del mainstream dell’architettura statunitense; a promuoverne potentemente l’affermazione sarebbe stata, dopo l’8 dicembre 1941, la guerra. Lo sforzo bellico comportò in America una proiezione in avanti della visione collettiva, in anticipazione dei nuovi scenari che si sarebbero aperti nel paese dopo il conflitto; con il moltiplicarsi dei discorsi su cosa si sarebbe fatto una volta ristabilita la pace, il tema della pianificazione acquistò una inedita importanza.53 La rivalutazione della cultura progettuale da un lato rafforzò il ruolo sociale degli architetti (che fino allora avevano rappresentato una corporazione piuttosto debole, anche perché considerati più come artisti che come tecnici), dall’altro diede un deciso impulso alla divulgazione del linguaggio modernista. Un contributo di rilievo venne proprio dalle riviste, per le quali la guerra costituì un’occasione di trasformazione e di crescita anche economica: le imprese, rimesse in moto dalle esigenze belliche, cominciarono a comprare spazi pubblicitari per preparare la propria riconversione produttiva a guerra finita,54 approfittando di norme legislative varate nel 1942 che lasciavano loro ampi margini per reinvestire in réclame una generosa quota dei profitti ottenuti grazie ai contratti di guerra.55 Mentre i direttori dei periodici di architettura modificavano tirature, grafica e talvolta anche titoli delle testate per rispondere al dinamismo del nuovo contesto operativo, agli architetti modernisti furono date visibilità e commesse in termini di paper architecture (progetti creati espressamente a fini editoriali). Ai lettori veniva così offerta una visione in anteprima di quella che sarebbe stata la nuova America nata dalla vittoria: un radioso panorama di città, edifici e oggetti “moderni”. L’ingresso di Nivola nel mondo editoriale americano non poteva insomma avvenire in un momento più favorevole. Giunto nella redazione di Interiors proprio quando iniziava quella che può essere definita l’età d’oro dei rapporti tra architettura e stampa negli Stati Uniti, l’artista seppe cogliere l’occasione per entrare in contatto con i protagonisti del modernismo europeo. L’ex Bauhausler Schawinsky gli servì da tramite verso questo ambiente: attraverso di lui conobbe Sert, attraverso Sert, Gropius e Breuer, che nel 1941 andò a visitare a Harvard;56 quindi seguirono gli altri. Gradualmente aggiornata nel taglio editoriale,57 la rivista conobbe un rapido successo e un’altrettanto rapida prosperità economica: in sei mesi gli uffici si spostarono dai modesti locali nel basement di un palazzo della 47a Strada al primo piano dello stesso edificio, nell’anno seguente si estesero al secondo piano e in breve tempo giunsero a occupare quasi tutto lo stabile.58 La vicenda di Interiors è da questo punto di vista esemplare, ma lo stesso si può dire per un’altra testata della quale Nivola avrebbe assunto poco dopo la direzione artistica, Pencil Points.59

119-124. Copertine di Pencil Points: aprile, maggio, giugno, luglio, settembre, ottobre 1944.

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125. Pagine interne di You, inverno 1941. 126-127. Copertine di You, inverno 1941 ed estate 1942. 128. The people on the march, 1942, bozzetto del manifesto premiato alla National War Poster Competition indetta dal MoMA nel 1942.

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Il mensile, apparso nel 1920 come “A Journal for the drafting Room”, nel 1942 lanciava un concorso per cambiare il sottotitolo; abbandonata l’idea di chiamarlo Plan (in sintonia con il recente clima di interesse per la pianificazione),60 l’aggiunta al titolo dell’aggettivo “new” valse a segnalarne il mutato orientamento, preludendo alla definitiva trasformazione in Progressive Architecture. Nel suo passaggio in redazione, dall’aprile al novembre 1944, Nivola raccoglie il testimone dal precedente direttore artistico, Bernard Rudofsky, col quale il periodico aveva inaugurato nel 1943 la propria stagione modernista. Anche

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qui come a Interiors il suo intervento si distingue per la sobrietà dell’impianto grafico e per una serie di copertine asciutte nella concezione ed efficaci nella comunicazione (figg. 119124). In quella di maggio, ad esempio, l’espediente di incorniciare la foto di una villa entro un robusto muro di pietra, evocativo dei nuraghi e delle recinzioni a secco delle campagne sarde, riesce a rendere interessante un edificio non particolarmente innovativo sul piano architettonico (si tratta della casa di Willis N. Mills a New Canaan, che innesta parchi elementi modernisti su uno schema tradizionale) (fig. 120). In giugno,

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la copertina dedicata a promuovere il prestito di guerra contrappone la vecchia architettura ormai in crisi alla nuova cultura urbanistica favorita dal clima bellico, sovrapponendo alla foto di un anonimo caseggiato ridotta in frammenti la planimetria di un nuovo insediamento abitativo e l’immagine di un’obbligazione di guerra (fig. 121); in luglio, la copertina è risolta con una composizione a griglia che vede al centro la bandiera americana e nei riquadri circostanti un dipinto di Degas, la sala di un teatro, la fotografia di una rosa, il disegno di un ufficio e l’immagine di un interno domestico, a prefigurare il ruolo egemone che gli Stati Uniti si apprestano a svolgere in tutte le arti al termine del conflitto (fig. 122). L’incarico di art director di Pencil Points non è il solo che Nivola assume in aggiunta a quello svolto presso Interiors. Come già al tempo dell’Olivetti, l’artista sceglie la posizione di free lance, che gli permette di muoversi agevolmente tra diverse redazioni, agenzie pubblicitarie e occasionali commissioni; moltiplicare gli incarichi si rendeva d’altronde necessario perché lo stipendio passatogli da Whitney era davvero esiguo (cinquanta dollari alla settimana), anche se sufficiente a consentirgli di condurre lo stile di vita semplice e frugale cui era abituato. Nel luglio 1941 accetta di dirigere una rivista di moda, You: edita da James Spadea e rivolta a un pubblico femminile emancipato e moderno, è una elegante pubblicazione bimestrale di formato quadrato, che gli offre l’opportunità di dar fondo a un repertorio meno austero di quello destinato ai periodici di architettura.61 L’artista punta in questo caso su impaginati liberi e soluzioni grafiche fantasiose, con il frequente impiego di titoli in diagonale, vignette di forma organica a incorniciare le immagini, combinazioni di foto con dettagli disegnati e scritte sovraimpresse. Nivola ricordava You come una rivista “French style”,62 e in effetti i richiami alla Francia vi abbondano, tanto nell’uso delle nervose grafie alla Dufy, a lui care e qui adottate saltuariamente nelle pagine illustrate, quanto nelle ricorrenti atmosfere surrealiste create attraverso montaggi fotografici; si veda la tavola vagamente inquietante pubblicata a corredo di un articolo sulle operazioni chirurgiche, col viso di una donna addormentata che sembra lentamente svanire nel bianco della pagina, insieme alle cifre da uno a dieci ad esso sovrapposte, a evocare il sonno indotto dall’anestesia (fig. 125);63 o quella che accosta la foto ingigantita di un orecchio al disegno di una tavola imbandita, per illustrare il tema delle diete seguite in segreto.64 Le copertine, tradizionalmente contrassegnate dal primo piano di un volto femminile, offrono minore campo alla sperimentazione; tuttavia Nivola non manca di introdurvi elementi originali. Nel numero dell’inverno 1941 sostituisce alla solita foto un collage di quadratini di carta che richiama la tradizione italiana del mosaico e al tempo stesso le sculture degli anni Trenta di Lucio Fontana; solo le labbra della figura – intesa come pubblicità di un rossetto – sono rese con un dettaglio fotografico integro (fig. 126). La doppia allusione all’italianità, ribadita dal tricolore utilizzato nel titolo, acquista particolare significato in relazione al momento dell’uscita della rivista, andata in stampa nei giorni dell’attacco a Pearl Harbor e dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. Nel numero dell’estate 1942 l’artista si serve invece della classica foto, stampata su fondo nero, di un’avvenente modella; ma la formula è solo in apparenza convenzionale (fig. 127). La composizione lievemente asimmetrica lascia spazio a sinistra a un fascio di luci colorate che, proiettate verso l’alto, tingono di riflessi gialli il viso della donna, la cui acconciatura ricorda la corona della Statua della Libertà. L’accostamento tra l’elegante immagine femminile e la suggestione di

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raid notturni dimostra con quanta abilità Nivola sapesse conciliare l’emergenza patriottica con la dose di frivolezza richiesta dal carattere della testata; anche se all’occorrenza il tema bellico poteva spingerlo ad adottare un tono decisamente più severo e perfino drammatico, come quando scelse di illustrare un articolo sul ruolo delle donne durante il conflitto con un ritratto fotografico della propria madre, scattato da lui stesso a Orani qualche anno prima.65 Fissato nella ripresa frontale e scolpito dalla luce, il viso di contadina, precocemente invecchiato, di Giovanna Nivola era un’immagine davvero insolita – e per qualche verso sconvolgente – per la stampa americana dell’epoca; figurarsi poi per una rivista di moda. Le rughe duramente incise, l’assenza di ogni segno di femminilità erano tracce di una vita difficile, indizi di una realtà di miseria e di arretratezza, ma l’espressione ferma e lo sguardo impenetrabile parlavano di una forza e saldezza morale non comuni. Non stupisce che Nivola associasse l’immagine della madre all’idea della guerra; per un esule come lui i tragici eventi europei erano inscindibili dal pensiero della famiglia e degli affetti lasciati sull’altra sponda dell’Atlantico. Ma la guerra restava anche e soprattutto guerra contro la dittatura: è questo l’aspetto che emerge dal disegno con cui l’artista partecipa nel 1942 alla National War Poster Competition, un concorso indetto dal MoMA per un manifesto di propaganda bellica (fig. 128). Premiato da una giuria che aveva tra i suoi membri James Thrall Soby, Monroe Wheeler e Stuart Davis, il suo bozzetto, intitolato The people on the march, era stato ispirato dalle parole di Henry A. Wallace.66 L’8 maggio 1942, a New York, il vicepresidente aveva 75


pronunciato quello che sarebbe rimasto famoso come il discorso del “secolo dell’uomo comune”, in cui aveva auspicato il trionfo degli ideali democratici dell’America in un mondo finalmente pacificato.67 Con la rappresentazione di una moltitudine di volti affioranti dal fondo nero, tra i quali spiccava – unico rivolto verso l’osservatore – quello di una ragazza intenta a parlare o a gridare, Nivola aveva messo l’accento sul concetto, centrale nel discorso di Wallace, del nesso tra dimensione collettiva e individuale, tra democrazia e dignità umana del singolo. La guerra, onnipresente anche nelle pagine di You, non avrebbe avuto per il giornale le stesse conseguenze positive che ebbe per Interiors e i periodici di architettura in genere: l’editore Spadea, non cogliendo le possibilità insite nella situazione e paventando invece una prossima crisi, ne cessò la pubblicazione.68 Nivola comunque aveva altre corde al suo arco. I primi anni Quaranta continuano a vederlo impegnato nell’attività di illustratore e disegnatore pubblicitario, che lo porta a collaborare tra l’altro con la Container Corporation of America di Walter Paepcke, azienda il cui contributo fu determinante per la diffusione del linguaggio modernista nella grafica commerciale statunitense. A questo si aggiungono gli occasionali lavori di decorazione,69 e, nel 1943, un ulteriore incarico di art director, questa volta presso una rivista di cucina, American Cookery, per la quale disegna copertine rassicuranti con garbate donnine ai fornelli e appetitose nature morte, pensate per assecondare i gusti di un pubblico tradizionale (figg. 115-118). Il segreto della città

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L’esperienza dell’esilio, ha osservato Linda Nochlin, è meno traumatica per gli artisti visivi che per gli scrittori e i poeti; per questi ultimi la separazione dalla lingua madre ha effetti laceranti, mentre l’ampia base comunicativa del linguaggio visuale agevola l’approccio a una nuova realtà.70 Nel caso di Nivola, il disorientamento provocato dal vedere recisi i legami col proprio passato e con la propria storia si dimostra inseparabile dall’eccitazione dell’incontro con l’ambiente americano. L’entusiasmo per il paesaggio di New York era di prammatica tra gli artisti émigrés, invariabilmente colpiti dallo scenario di Manhattan, il «più colossale spettacolo del mondo» per Léger, una «Atlantide del subconscio» per Salvador Dalì, e così via. Il vitalismo della città e la sua inconfondibile skyline lasciano il segno anche su Nivola, che nel 1940 ne scrive a Fancello: «Questo paese è davvero molto interessante per un europeo che lo guardi da europeo e non si lascia trasportare dalla enorme corren-

129. Saul Steinberg, tavola da All in line, New York, Duell, Sloan and Pierce, 1945. 130. Parata, 1943, inchiostro su carta, 80 x 48 cm. 131. Drugstore, 1944, china e tempera su carta, 48 x 80 cm. 129

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te di abitudini e di costumi completamente diversi. Qualche volta chiudo gli occhi e mi dico, sono a New York, se è notte vado a spasso sotto i grattacieli, ed è davvero uno spettacolo fantastico. Se viceversa è giorno vado a spasso lungo il porto. Lo spettacolo non è meno affascinante con i piroscafi che arrugginiscono, le casse da imballo, gli scheletri di camion, il mercato dei polli».71 È uno spettacolo che osserva con la matita in pugno: l’esercizio grafico è per lui uno strumento per prendere possesso della realtà urbana. «A quel tempo – scriverà in seguito – pensavo che se avessi fatto dei precisi disegni degli edifici, delle automobili e della gen (fig. 96)te, avrei capito che cosa allora sembrava incomprensibile e misterioso – il segreto della città».72 I primi disegni di New York, datati 1943, mettono da parte il segno rapido e vibrante delle prove grafiche precedenti, così come le vedute ampie e rarefatte che le caratterizzavano. Oggetti, figure e architetture, compressi entro spazi aperti ma tanto affollati da risultare claustrofobici, sono ora definiti da un tratto continuo, di uguale spessore e senza ombre, in una ossessiva accumulazione di dettagli che restituisce il senso di una percezione accelerata e convulsa (figg. 130-136). La gente che si accalca sui marciapiedi è un ammasso caotico e vagamente picassiano di corpi disarticolati e membra aggrovigliate; i passanti fanno tutt’uno con la segnaletica stradale, le insegne dei negozi, gli elementi di arredo urbano, i cartelloni pubblicitari, le merci che traboccano dalle vetrine fin sulla carreggiata. Stormi di bandierine a stelle e strisce, all’interno dei drugstore colmi fino all’inverosimile, celebrano l’opulenza americana (fig. 131). Le immagini allucinate, colorate da una sfumatura di surreale umorismo, colgono al tempo stesso la latente disumanizzazione di una cultura dominata dal consumo e l’energia trasmessa dal fluire incessante della vita urbana.


Il cambiamento stilistico rispecchiato dai disegni di New York nasce dall’impatto con uno scenario metropolitano e con ritmi quotidiani diversi da quelli europei, ma è anche il frutto di stimoli grafici assorbiti di recente. Nel 1942 Nivola ha incontrato a New York Saul Steinberg, eccentrico talento di disegnatore, già noto in Italia come vignettista di fogli satirici quali Bertoldo e Settebello. I due si erano conosciuti negli anni Trenta a Milano, dove l’artista rumeno si era stabilito per frequentarvi il Politecnico.73 Arrivato in America a seguito delle leggi razziali e dopo una serie di fortunose peripezie, Steinberg si era subito rimesso in contatto con Nivola, che risiedeva poco lontano dal suo albergo, in un caseggiato all’incrocio tra la Quinta Strada e la Quattordicesima. Tra loro era nata in breve un’amicizia che, sebbene non priva di tensioni dovute alla diversità dei rispettivi caratteri, sarebbe durata per molti anni.74 Personaggio carismatico quanto umorale e fondamentalmente introverso, Steinberg trovava nella vitalità dell’amico e nella sua personalità positiva e solare, «piena di gusto della vita», dei necessari correttivi al proprio temperamento.75 È al fianco di Steinberg che Nivola con-

duce la sua esplorazione di New York: taccuino alla mano, i due artisti non si stancano di registrare l’inesauribile varietà di immagini che la città offre loro, a volte incorrendo anche in qualche imprevisto, come quando, sorpresi a fare schizzi delle navi da battaglia ancorate ai moli della Lower Manhattan, rischiano di essere arrestati per spionaggio e vengono rilasciati solo grazie all’intervento di un militare estimatore delle illustrazioni di Steinberg per il New Yorker.76 La messa a fuoco precisa, la nitidezza del tratto, la densità del tessuto segnico bilanciata dal senso sicuro degli spazi sono conquiste recenti che Nivola deve all’esempio di Steinberg; di quest’ultimo non condivide invece lo spirito arguto e pungente, né la disposizione riflessiva applicata tanto all’oggetto della rappresentazione quanto alla natura del mezzo impiegato. Dal lavoro di entrambi trapela il sentimento di estraneità caratteristico dell’immigrato, che genera però in ciascuno un approccio differente all’universo urbano. Mentre la visione di Steinberg è lucida fino all’assurdo (fig. 129), nei disegni di Nivola prevalgono sconcerto e meraviglia; la ressa di oggetti e figure

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Pensare in grande L’aspirazione di Nivola a fare sculture “grandi quanto edifici” arrivò almeno in parte a realizzarsi nella seconda metà degli anni Cinquanta. Una prima occasione di mettere in atto il suo desiderio gli venne offerta nel 1957, attraverso l’incarico per la decorazione del quartier generale di una compagnia di assicurazioni di Hartford nel Connecticut, la Mutual of Hartford Insurance Company.1 Fondata nel 1920, l’azienda (nota anche come Covenant Mutual Insurance Co.) attraversava un momento di espansione sotto la guida del dinamico figlio del fondatore, John deKoven Alsop, influente membro del partito repubblicano la cui attività imprenditoriale marciava in sinergia con la carriera politica.2 Unendo praticità della struttura e prestigio culturale dell’arte in un’opera che richiedeva un cospicuo investimento finanziario, la nuova sede della Mutual of Hartford avrebbe dovuto rappresentare una testimonianza tangibile dell’ascesa della compagnia. La fortunata combinazione tra un cliente avventuroso, intenzionato a legare il proprio nome a un edificio che lasciasse il segno, e un gruppo di architetti competenti e capaci, ma non di tale fama da poter imporre il proprio controllo assoluto sulle decisioni (Sherwood, Mills & Smith, uno dei più grossi studi attivi nel Connecticut), permise a Nivola di assumere un ruolo centrale nel progetto. Invece di essere coinvolto a lavori già avviati, lo scultore venne consultato fin dalle prime fasi, fu chiamato a discutere con lo studio i successivi passaggi e nel complesso godette di un considerevole grado di autonomia.3 Dopo aver esaminato in alcuni bozzetti la possibilità di realizzare un intervento analogo a quelli contemplati per l’Union Carbide Building e la Carnegie Hall (decorazione a rilievo nella lobby sotto la fronte vetrata del palazzo, con l’aggiunta nello spiazzo d’ingresso di una versione della “fontana musicale”), e dopo aver pensato di adottare un partito di motivi plastici distribuiti a scacchiera sulla facciata (come nell’Intermediate School 33 di Brooklyn) (fig. 334), Nivola finì per orientarsi su una soluzione più ardita: trasformare la facciata stessa in un gigantesco rilievo, composto di 132 pannelli sandcast ancorati alle travi d’acciaio della costruzione, ciascuno di 3 metri per 80 centimetri circa, per una superficie totale di 315 metri quadri. Un’impresa di notevole impegno, specie se si pensa che, scartata l’idea di affidare l’esecuzione dei pannelli a una ditta specializzata,4 lo scultore scelse di occuparsene personalmente nel suo laboratorio all’aperto di East Hampton, con l’aiuto del giovane Peter Chermayeff, figlio del suo amico Serge, del tredicenne Pietro e di due manovali assunti per le mansioni più pesanti.5 I lavori, cominciati il primo agosto 1957, si svolsero nello spiazzo dietro la casa, ricoperto di sabbia per l’occasione, in un’atmosfera di cordialità e di semplicità. Il clima di collaborazione amichevole instaurato da Nivola tra i partecipanti rinnovava quello che ave-

Nella doppia pagina precedente: 333. Con Eero Saarinen davanti al modello dei college Morse e Stiles della Yale University, 1960, foto Richard Gamble Knight, Yale University, Eero Saarinen Collection, Manuscripts and Archives. 334. Schizzi per la facciata della Mutual of Hartford Insurance Company, 1957. Varianti progettuali. 335. Bozzetto per i pannelli della facciata della Mutual of Hartford Insurance Company, 1957, sandcast, gesso, sabbia, anima in rete metallica, telaio in legno, 80,2 x 290,2 cm, Orani, Museo Nivola.

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va portato qualche anno prima alla creazione del giardino. Chermayeff ricorda l’esperienza come «un processo creativo, orchestrato da Tino, idilliaco», che «si integrava alla perfezione con la piacevolezza della vita familiare che si svolgeva parallelamente al lavoro».6 Nonostante l’esiguità numerica della squadra, l’opera fu portata a termine in un tempo sorprendentemente breve, cinque settimane. Già alla fine dell’estate i 132 elementi erano pronti; trasportati a Hartford e sistemati in deposito, vennero montati e rifiniti l’anno seguente in febbraio; il palazzo fu inaugurato nell’ottobre 1958.7 Le foto scattate a Springs durante la preparazione dei rilievi dovevano contribuire non poco alla definitiva costruzione della figura pubblica di Nivola. Le immagini che lo ritraggono abbronzato e a torso nudo, davanti alle sconfinate distese di sabbia in attesa di essere modellate e all’interminabile serie dei pannelli nelle loro cassaforme di legno, evocano in modo suggestivo tutta un’epica del cantiere (figg. 336-341). Il topos dell’artista-lavoratore aveva in sé un innegabile potenziale simbolico; come emblema dello spirito industrioso della nazione, si sposava bene a un’altra figura ricorrente dell’immaginario collettivo americano, quella dell’imprenditore determinato e


coraggioso. In uno scatto pubblicato da un quotidiano di Hartford e in seguito riproposto nella brochure edita in coincidenza con l’inaugurazione dell’edificio, artista-operaio e capitano d’azienda appaiono intenti a discutere il modello dell’opera: Alsop, disinvolto e autorevole nel suo completo grigio, parla con ampio gesto dominatore, Nivola, chino accanto a lui, scalzo e in maniche di camicia – a scanso di ambiguità sulla gerarchia dei rispettivi ruoli – ascolta in atteggiamento riflessivo (fig. 344).8 A dispetto di ciò che la foto poteva lasciare intendere, comunque, il dialogo tra i due sembra essere stato tutt’altro che unidirezionale, tant’è che l’artista si prese la libertà di dare consigli per l’arredo interno dell’edificio, suggerendo ad Alsop di ordinare un grande arazzo di Le Corbusier.9 La commissione non sembra essere andata in porto a causa dell’esigenza – legittima – espressa dal cliente di vedere un esemplare della produzione di arazzi del maestro,10 ma il rapporto con Nivola non ne risentì. La fiducia che Alsop riponeva in lui giustificava probabilmente la speranza, confidata da Nivola a un giornalista, di veder arrivare il giorno in cui sarebbe stato il cliente («l’uomo, dopotutto, che ha il cuore e il denaro») a decidere delle sorti della relazione arte-architettura.11 Quanto all’imprenditore, il

risultato della commissione non deluse le sue aspettative: come ebbe a dichiarare, «la nuova sede dei nostri uffici sarà molte cose per molte persone, ma non crediamo che qualcuno la chiamerà mai insulsa».12 Non c’è dubbio che la facciata scolpita, poggiante su quattro pilastri che la proiettano in avanti rispetto al corpo centrale della lobby, costituisse di gran lunga l’elemento di maggiore spicco in un edificio che si segnalava soprattutto per semplicità e funzionalità (fig. 345).13 Per riempire l’enorme superficie del rilievo, Nivola convocò pressoché al completo i temi e i motivi che popolavano il suo mondo di immagini: figure femminili e maschili, personificazioni mitiche, animali, architetture, oggetti domestici, utensili (figg. 346-347). Benché l’iconografia sia, come quasi sempre nell’artista, impossibile da interpretare con precisione, l’effetto è quello di una grande e animata scena di vita collettiva. Secondo l’evocativa descrizione datane da Licht, la facciata appare come «una sorta di specchio magico capace di trasfigurare l’Hartford di ogni giorno in una città immaginaria, sintesi di molteplici villaggi sardi», in cui, al di sopra dei piccoli personaggi nei registri più bassi, si scorgono «una serie di forme più grandi … strane, ibride configurazioni con reminiscenze 211


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delle sottostanti figure antropomorfe e degli sterminati complessi architettonici. Disseminate in questa stirpe di giganti compaiono forme architettoniche riconoscibili: muri, fughe di scale che nessuno può dire se conducano dentro, fuori o sopra la composizione. Qua e là, finestre con le imposte spalancate rivelano altre figure … che sembrano guardare dritto nella nostra direzione, come se noi fossimo dei vicini che guardano in su per parlare con loro. Le zone superiori sfumano in un paesaggio vagamente suggerito, dove modesti edifici si vanno facendo sempre più piccoli contro un indeterminato orizzonte di cielo e nuvole».14 È sintomatico che subito dopo la sua esecuzione l’opera divenisse nota come The Family of Man, dal titolo della popolare mostra fotografica curata da Edward Steichen al MoMA nel 1955. Attraverso oltre 500 immagini distribuite in un allestimento coinvolgente, Steichen aveva puntato a dimostrare «la fondamentale unità del genere umano in tutto il mondo».15 La rassegna – ancora impegnata, all’epoca dell’inaugurazione di Hartford, nel tour planetario che l’avrebbe portata a essere vista

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da nove milioni di persone16 – era espressione di un ethos umanista e comunitario in larga misura collimante con quello di Nivola. La coesistenza tra coralità e presenze individuali, caratteristica saliente della mostra di Steichen, si ritrova mutatis mutandis nel rilievo di Hartford, in cui la varietà e ricchezza dell’insieme non pregiudicano la vitalità dei singoli episodi e figure, né se ne lasciano soverchiare. Proprio per salvaguardare l’equilibrio del rapporto fra il totale e le parti, Nivola aveva dedicato grande cura alla composizione. Densa e intricata nella fascia bassa della rappresentazione, più vicina all’occhio dell’osservatore, questa si dilata nel registro sovrastante, compensando la riduzione proporzionale dovuta alla prospettiva e conferendo unità al rilievo a dispetto della moltiplicazione dei particolari. Il rarefarsi delle immagini nella zona alta crea, insieme alla ridotta profondità del rilievo e alla delicatezza dei trapassi di piani, un’impressione di leggerezza che contrasta con la ruvida e terrestre consistenza della materia impiegata. Per quanto ricco e pieno di incidenti visivi ne sia il disegno, la parete scolpita si offre alla percezione come una estesa superficie mossa dall’alternarsi di cavità e rigonfiamenti, un enorme velario ondulato sul quale la luce trascorre incessantemente.17 Quando Nivola illustrò il progetto di Hartford nel maggio 1958, in un discorso tenuto in occasione dei festeggiamenti per il 75° compleanno di Gropius, mise l’accento sui concetti di “ritmo” e “variazione”. La divisione, segnata dalle giunture dei pannelli, in tre file orizzontali e undici verticali stabiliva «una griglia precisa, un ritmo statico permanente della struttura. Il disegno salta e si muove attraverso le giunture per stabilire un suo libero contrappunto ritmico, usando i ritmi rigidi delle giunture come fattore unificante. La monotonia del ritmo viene evitata per mezzo della variazione di ricchezza del disegno, dato che la caratteristica principale della composizione è l’uso di un’intensa attività di forme figurative nella parte bassa del muro, che gradualmente diventa più espansiva e generosa verso l’alto. Attraverso questa variazione di ricchezza e proporzioni si ottiene un senso di monumentalità appropriato all’effettiva dimensione monumentale del lavoro».18 Il contrappunto tra la griglia strutturale creata dalla disposizione dei pannelli e le linee del rilievo – fra dimensione statica e dinamica – si coglie bene nel bozzetto in gesso conservato al Museo Nivola (fig. 335), in cui le giunture verticali e orizzontali sono accuratamente riprodotte; la folla di forme e figure presenti nella facciata stempera qui i propri contorni nella morbidezza di masse plastiche studiate nei loro effetti chiaroscurali. La priorità data ai valori della composizione, oltre che la differenza di scala rispetto all’opera realizzata, determina la mancanza di dettaglio del bozzetto. Con ogni evidenza un bozzetto definitivo (come indicano le foto in cui lo si vede collocato nel cantiere di Springs accanto ai pannelli in preparazione), questo aveva il compito di guidare l’intervento dell’artista nelle sue linee generali, lasciando ampio spazio all’improvvisazione nello sviluppo dei singoli episodi.19 Come già era avvenuto nel caso dello showroom Olivetti, studi e disegni preliminari funzionavano come una traccia nei confronti della quale lo scultore si muoveva con grande libertà. Agli occhi del suo autore, l’impatto visivo e l’appeal estetico del rilievo non dovevano portare a ritenerlo un’aggiunta ornamentale. L’artista lo presentò orgogliosamente come «un tentativo insolitamente ambizioso di incorporare … la scultura nell’architettura, non come ornamento decorativo applicato ma come concetto strutturale alla scala della stessa architettura istituzionale … un tentativo di combinare arte e artigianato con precisione industriale, struttura e produzione».20 A suggello della


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336, 338-340. Al lavoro sui rilievi della facciata della Mutual of Hartford Insurance Company, Springs, East Hampton, estate 1957.

337. La squadra dei collaboratori alla realizzazione dei pannelli per la facciata della Mutual of Hartford Insurance Company: da sinistra, Pietro e Claire Nivola, i due muratori Charles Johns e Giuseppe Zlovecera, Nivola e Peter Chermayeff, Springs, East Hampton, estate 1957.

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raggiunta integrazione tra arte e industria, Nivola incise su uno dei pannelli nomi e compiti dei suoi collaboratori, accanto al proprio nome, inscritto senza speciale risalto e accompagnato dalla qualifica di «scultore» (fig. 342).21 Nel suo spirito egualitario l’epigrafe includeva, accanto ad assistenti, muratori e carpentieri, anche la moglie e la figlia dell’artista (rispettivamente nel ruolo di «nutrice» e apportatrice di «rinfreschi e sostegno morale») e perfino il cane Rudi, «fedele guardiano». È caratteristico di Nivola il fatto di inserire così, nel bel mezzo di una monumentale opera pubblica, un riferimento al microcosmo domestico di Springs, alla casa-giardino e all’esistenza creativa di cui era teatro, della quale la realizzazione del rilievo era stata un episodio. Anche il testo dell’iscrizione intrecciava pubblico e privato: dedicava la scultura ai costruttori dei nuraghi, con un omaggio alle origini sarde dell’autore, e al tempo stesso ricordava come fosse stata eseguita in «un anno di violenza e turbolenza diffusa, di rivolta e di repressione sfrenata, di pregiudizio, di compiacenza e di speranza, di dolorosa decisione nel contesto di un nuovo mondo atomico».22 Nivola riuniva quindi, nella stessa frase e nel segno del costruire, evocazione del passato e richiamo al presente, mito identitario e consapevolezza di una realtà internazionale carica di minacce e di tensioni. L’edificio, oggi trasformato in ospedale, ha ormai cessato di essere considerato uno dei landmark urbani di Hartford, ma all’epoca la sua fronte istoriata destò sensazione. Premiato dall’AIA (American Institute of Architects)23 e dalla New York State Association of Architects, fu accolto dalla stampa a suon di superlativi: Time definì l’opera di Nivola «il più grande bassorilievo della storia», scomodando il nome di Dario re dei Medi e di altri regnanti dell’antichità, Architectural Forum lo presentò come «uno dei più monumentali bassorilievi dei tempi moderni», Tempo Presente ci vide «una delle più grandiose opere della scultura contemporanea», di tale monumentalità che «soltanto il trasporto di tanti blocchi di sabbia e di cemento pare, al pensarlo, una pazzia».24 La scala dell’opera – la cui estensione di oltre 310 metri quadri, calcolava Nivola, era «equivalente allo spazio occupato da 438 uomini modulor sdraiati comodamente sulla schiena»25 – bastava in effetti da sola a colpire l’immaginazione.

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Michelangelo col bulldozer Mentre a Hartford il gigantismo della scultura era funzionale alla definizione della corporate identity della compagnia, nel caso di una successiva commissione di Nivola, quella per il McCormick Exposition Center di Chicago, il suo scopo sarebbe stato consolidare l’immagine di un’intera città.26 Grazie alla sua posizione centrale negli Stati Uniti e a una buona rete di trasporti, Chicago aveva frequentemente ospitato congressi ed esposizioni fin dalla metà dell’Ottocento; un secolo dopo, tuttavia, la sua affermazione come prima convention city d’America era ancora ostacolata dalla mancanza di edifici adeguati ad accogliere grandi riunioni. Il piano di costruire un enorme centro congressi nell’area prospiciente il lago Michigan risaliva al

341. Al lavoro sui rilievi della facciata della Mutual of Hartford Insurance Company, Springs, East Hampton, estate 1957. 342. Ruth Nivola incide su uno dei pannelli per la facciata della Mutual of Hartford Insurance Company i nomi della squadra dei collaboratori, Springs, East Hampton, estate 1957. 341

343. Al cantiere di Hartford, Connecticut, febbraio 1958. 343

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1927, quando Robert R. McCormick, editore del Chicago Tribune e membro di una importante famiglia cittadina, se ne era fatto promotore. Nel secondo dopoguerra l’idea venne ripresa (coinvolgendo anche Mies van der Rohe, il cui progetto del 1953 per un’ardita hall a tralicci metallici fu poi lasciato cadere)27 e nel 1955, non senza difficoltà, lo Stato approvò la costruzione, istituendo nel contempo un organismo per la gestione delle attività, la Metropolitan Fair and Exposition Authority. Nel 1958 arrivarono i fondi per varare il progetto, che venne affidato a Shaw, Metz e Dolio, un prolifico studio di Chicago. Con più di 97.000 metri quadri di spazio espositivo (un’area sufficiente a contenere sei campi di calcio, o, stando al Chicago Tribune, quasi tutto l’Empire State Building),28 il nuovo centro congressi si presentava come una mastodontica struttura rettangolare, priva di finestre per facilitare il controllo dell’illuminazione nelle sale ai fini dell’allestimento delle mostre. A Nivola – chiamato, come già a Hartford, fin dai primi stadi della progettazione – toccò il compito di interrompere con dei rilievi la monotonia delle pareti esterne cieche. La soluzione proposta dall’artista e approvata dagli architetti fu di scandire la cortina muraria per mezzo di un gruppo di cinque bassorilievi alti quindici metri e larghi sei circa, alternati a pannelli lisci, da ripetere per cinque volte lungo il perimetro dell’edificio (fig. 348). Data la mole del lavoro, questa volta Nivola decise di non assumersi l’onere dell’esecuzione finale dei rilievi. In un primo momento pensò di rivolgersi a una delle tante associazioni amatoriali dedicate alla pratica del sandcasting, sorte un po’ dappertutto in America in seguito alla popolarità raggiunta dalla tecnica, ma dovette fare i conti con l’inesperienza dei membri: «Pensavo: potranno aiutarmi … Non avevano capito niente. Buttavano questo cemento sulle forme e distruggevano le forme, [con] il peso», ricordava l’artista.29 Alla fine fu l’American Marietta Company, una ditta di Franklin Park, Illinois, a ottenere l’incarico. Sotto la guida e supervisione dell’autore, 344. Brochure stampata per l’inaugurazione della sede della Mutual of Hartford Insurance Company, 1958. In basso a sinistra, Nivola con Alsop mentre questi ispeziona i pannelli in corso di lavorazione nel giardino di Springs, East Hampton. 345. Mutual of Hartford Insurance Company, Hartford, Connecticut, 1957. Architetti Sherwood, Mills e Smith.

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ogni pannello venne gettato in undici sezioni orizzontali e poi montato; per la gettata si utilizzarono stampi di cemento in negativo, tratti a loro volta dagli originali calchi in positivo fatti da Nivola dalle matrici in sabbia; un procedimento richiesto dalle dimensioni delle sculture e dalla necessità di ripetere più volte le composizioni.30 Come prevedibile, il fatto di doversi muovere in un contesto industriale, all’interno di una fabbrica, era lungi dal costituire un problema per Nivola. Al contrario, era visto da lui come un passo utile a superare la separazione dal pubblico propria dell’esperienza creativa moderna. L’esclusione dai processi tecnologici – spiegava – aveva spinto gli artisti a ritirarsi nello studio e a continuare a lavorare con i «metodi primitivi» trasmessi dalla tradizione: «È di importanza fondamentale, perciò, se l’arte monumentale deve riaffermarsi nella vita moderna, che essa raggiunga mezzi di realizzazione coerenti con quelli impiegati in una moderna società industriale. Mi piace pensare che se Michelangelo 344

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vivesse oggi i suoi strumenti non sarebbero la mazza e il cesello, ma un bulldozer e un candelotto di dinamite».31 Per Nivola, Michelangelo moderno, i tempi di esecuzione furono ancora una volta molto rapidi: per contratto si era impegnato a cominciare i lavori prima del 20 marzo 1959, a consegnare modelli e disegni entro il 15 aprile e tutte le sculture entro il 20 giugno.32 I materiali preparatori furono poi esposti al McCormick nella mostra inaugurale dell’Art Gallery – uno degli spazi del complesso – insieme a una dozzina di altri pezzi a tutto tondo, a una serie di fotografie e a una «giocosa costruzione metallica» fatta per l’architetto Alfred Shaw, opere che avevano già figurato in una doppia personale allestita all’Art Club di Chicago insieme al pittore surrealista Enrico Donati (figg. 350-351).33 L’inaugurazione del McCormick Center, avvenuta il 18 novembre 1960, fu accolta come la conclusione di una vicenda epica. Il Chicago Tribune salutò l’evento con un numero speciale in cui si ripercorrevano tutte le tappe della «battaglia per il progresso»

che aveva portato alla realizzazione del centro, se ne celebravano i protagonisti, si esaltava il ruolo di Chicago, «regina dei congressi della nazione».34 Quanto a Nivola, nelle settanta pagine della rivista il suo contributo al successo dell’edificio venne citato solo una volta, in un annuncio pubblicitario della Portland Cement Association che prendeva spunto dagli «intriganti» rilievi esterni per propagandare l’uso del cemento nell’architettura moderna («pratico e bello, ogni pannello prefabbricato in cemento è un “sandwich” di sei pollici contenente rinforzi d’acciaio e materia isolante, offrendo superfici murarie sia esterne che interne. McCormick Place è una eccezionale illustrazione del bel modo in cui disegno immaginativo e solida praticità vanno di pari passo col cemento moderno»).35 Per il Chicago Tribune, sponsor dell’impresa fin dai suoi lontani inizi, così come per il resto della stampa generalista, la mera scala dell’intervento contava apparentemente più del fattore estetico. Senza far cenno della qualità delle sculture o del loro 217


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CORPI MATERNI


Fame di marmo e bronzo Gli anni Settanta vedono l’approfondirsi dell’interesse per la scultura in bronzo. Già dal principio degli anni Sessanta le terrecotte avevano trovato una traduzione nel più classico dei materiali della tradizione plastica, in una dimensione limitata, intima. Ma è più di dieci anni dopo che il rapporto ambivalente di Nivola con l’arte pura, la dimensione monumentale e in generale ogni tipo di espressione creativa volta ad affermare l’ego e la personalità dell’artista arriva in qualche modo ad una risoluzione, come se lo scultore avesse trovato, nel settimo decennio della sua vita, un nuovo equilibrio e una nuova consapevolezza di sé. I testi degli anni Settanta parlano a più riprese di potenzialità inespresse, di progetti da realizzare, di ambizioni abbracciate a tratti con convinzione, a tratti osservate con distacco ironico, sardonico. «Se volessi festeggiare, tra non molto, il mio settantesimo compleanno – affermava presentando una mostra in Sardegna, realizzata in collaborazione con il ceramista Luigi Nioi1 – lo farei ancora brindando alle mie potenzialità inespresse, alla mia inesauribile capacità umana di autoillusione, alla mia costante inadeguatezza ancora più umana, e anche alla mia vulnerabilità e capacità di sbagliare».

Come abbiamo già visto, lungo il decennio si assiste alla progressiva scomparsa del sandcasting e al diradarsi dell’uso del cement carving e del graffito. Contestualmente lo scultore intensificava l’uso della terracotta, ritornava al gesso e introduceva altri materiali duttili (il legno, il compensato, il polistirolo), funzionali alla realizzazione di sculture in marmo e bronzo di cui affidava l’esecuzione a fonditori e scalpellini, riservandosi però di seguirli passo per passo e di apportarvi i ritocchi finali. A ben vedere è la stessa teoria estetica di Nivola a subire un ribaltamento: se gli anni Cinquanta e Sessanta erano stati all’insegna dell’arte in funzione civica, dell’integrazione dell’architettura, insomma dell’utilità dell’arte, strumento di benessere per le persone, ora Nivola assumeva un atteggiamento quasi kantiano: «L’uomo può vedere le cose che lo circondano senza pretendere da esse un utile … È soltanto allora che l’uomo vede e capisce la forma, il materiale e il colore … la fantasia apre la porta dei miracoli e qui tutte le scoperte dello spirito – l’arte, la poesia, la scienza – sono riunite come conquiste sublimi».2 Svincolare la propria produzione artistica dall’auto-assegnata funzione civica e sociale libera in un certo senso Nivola dalla trappola del contesto e gli permette di concentrarsi sul medium e sulla propria interiorità. All’espressione dei bisogni della comunità si sostituisce quella delle pulsioni dell’artista. Non si tratta di un percorso limpido: per tutto il decennio si intrecciano diverse linee di ricerca, ci sono momenti di ripensamento e la progressiva presa di coscienza di un cambiamento a un tempo radicale e perfettamente coerente. Alcuni progetti dei primi anni Settanta mostrano un progressivo distaccarsi delle figure dal loro contesto architettonico e ambientale e un loro autonomo proporsi nello spazio. A Philadelphia, nel 1970, Nivola esegue un grande sandcast per la lobby del Continental Building,3 un edificio di undici piani dal severo aspetto neo-déco, nella centralissima Market Street, progettato dallo studio Berger Caltabiano & Ascione per la nota compagnia produttrice di pneumatici. Il sandcast all’interno del palazzo, dallo stile lineare e geometrizzante, simile a quello realizzato poco dopo ad Albany, ma con dettagli decorativi su alcune delle figure della composizione, aveva un contenuto piuttosto generico, funzionando semplicemente come un grande schermo, alto tre metri e lungo dodici, diviso in tredici pannelli, per accompagnare impiegati e clienti nella sede dell’azienda. L’intervento di Nivola era introdotto e completato, all’esterno dell’edificio, da una scultura a tutto tondo che condivideva con il sandcast molte caratteristiche formali,4 tanto da apparire quasi come se fosse fuoriuscita dal muro e fosse andata a prendere il fresco all’aperto. La figura, formalmente compatta come uno

Nella doppia pagina precedente: 687. La madre sarda e la speranza del figlio meraviglioso, 1986, particolare della fig. 725. 688. Bozzetto per il Monumento alla Segretaria Americana (Monumento a Grazia Deledda), 1970 ca., cemento, 50,7 x 47 x 23 cm. 689. Bozzetto per una delle sculture del gruppo La famiglia, Beach Channel High School, Queens, New York, 1973-74, cemento policromato, 48,2 x 22,8 x 7,7 cm. 690. Modello per il gruppo scultoreo La famiglia, Beach Channel High School, Queens, New York, 1973-74, © New York Design Commission Archives.

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691. Studenti in posa di fronte al gruppo scultoreo La famiglia, Beach Channel High School, Queens, New York, 1973-74.

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stemma e non propriamente aggraziata, era un omaggio a una categoria di lavoratrici che, secondo Nivola, costituivano il vero pilastro della società americana: le segretarie (fig. 688). A loro l’artista avrebbe dedicato anche, nel 1973, una poesia piena a un tempo di umorismo e sincera ammirazione: «Le segretarie della Madison Avenue / C / A / D / O / N / O / A / F / F / R / A / N / T / E / Il venerdì sera / Sulla spiaggia di Amagansett. / Promiscue e urbane, / Offrono rassegnate / I loro corpi, / Luccicanti di Sun Tan / Al frivolo sole del week-end. / Le nuvole imitano esagerandole / Le loro forme patetiche / Effimere, / FANTASTICHE / Più forti e più bianchi / I denti, / Sorrideranno al capo / Il lunedì, / Le cariatidi dei grattacieli di Manhattan / Queste moderne cariatidi / Che sostengono le crollanti istituzioni».5 Degli schizzi a penna tracciati con rapidità, conservati nell’archivio dell’artista, mostrano come le due protuberanze nella

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parte alta della scultura fossero la rielaborazione dei bottoni d’oro o d’argento, accessori indispensabili per impreziosire gli abiti festivi tradizionali indossati dalle donne nei paesi della Sardegna. Non era però bizzarro ritrovarli nella camicetta di una segretaria americana, se si considera quanto Nivola tendesse a universalizzare la tematica del femminile. La forma dei monili tipici dell’artigianato sardo aveva del resto un chiaro riferimento propiziatorio al seno. Tutto tornava nella mente di Nivola, e non stupisce di trovare un’identica scultura di qualche anno successiva, questa volta in bronzo, esposta a Oslo e Copenaghen come Omaggio a Grazia Deledda.6 L’idea di un monumento alla scrittrice sarda, Nobel per la letteratura nel 1926, altra incarnazione dell’eterno femminino, lucida e costante ossessione nivoliana, risaliva almeno al 19737 e avrebbe dovuto comprendere più sculture simboleggianti la romanziera di Nuoro, una sorta di versione aggiornata e corretta 433


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