Dolci

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IN SARDEGNA â?Ś Storia e tradizione



Sommario Dolci in Sardegna. Storia e tradizione

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La storia Dolci in Sardegna dalla preistoria all’età romana: indizi e ipotesi

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Rubens D’Oriano

I dolci nella Sardegna medievale

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Pinuccia F. Simbula, Alessandra Derriu

Dolci e biscotti nei secoli XVI-XVIII in Sardegna

21

Carla Ferrante

A tavola fra sacro e profano: privilegi di status?

27

Assunta Trova

Produzione e consumo di dolci in Sardegna tra Otto e Novecento: tradizione e innovazione

33

Emanuela Usai

Antropologia e tradizioni popolari Le materie prime e gli strumenti nella filiera produttiva del dolce

49

Susanna Paulis

Il dolce come marcatore del tempo e delle identità

73

Susanna Paulis

Pani e dolci: labilità di un confine

95

Susanna Paulis

Simboli, estetica e folklore orale

101

Susanna Paulis

La pasticceria tradizionale sarda: una prospettiva etnostorica e comparativa

121

Alessandra Guigoni

I dolci itineranti: la carapigna, il torrone e gli altri

131

Alessandra Guigoni

I dolci algheresi e tabarchini: due esempi di métissage

139

Alessandra Guigoni

Linguistica e letteratura I dolci sardi nella storia della lingua e della cultura

143

Giulio Paulis

I dolci della tradizione sarda tra descrizione, metafora e immaginazione letteraria

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Anna Saderi DOLCI IN SARDEGNA

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Apparati Indice schede

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I nomi dei dolci. Varianti lessicali

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Indice per località di coloro che hanno realizzato i dolci

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Bibliografia

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Arantzada

Denominazione locale: arantzada e sim., confettura e sim. Area di diffusione: Nuorese, Baronie, Barbagia, Ogliastra. Vitalità dell’uso: uso vivo. Occasione: la produzione del dolce, circoscritta all’ambito familiare, era un tempo legata ai festeggiamenti celebrati durante il battesimo, essendo s’arantzada offerta in dono ai padrini (sos nonnos), al parroco e ai chierici (sos jàcanos). Oggigiorno si prepara per tutte le

Su cunfettu di Baunei.

occasioni di festa. A Lodè sa torradura aveva forma di cuore, a Nuoro e nei paesi limitrofi corrispondeva a una carta de arantzada. Forma e caratteristiche: considerato molto raffinato, il dolce consisteva in strisce di scorza d’arancia candite col miele, unite a mandorle dolci, intere o tagliate a pezzi, e confezionate in passato su foglie di agrumi (arancia o limone), attualmente in pirottini di carta. La consistenza è gommosa, la compattezza variabile a seconda della preparazione e della proporzione degli ingredienti.


Ingredienti: 1 kg* di scorza d’arancia, 1 kg di miele, 100 g di mandorle, 100 g di zucchero (facoltativo) * La scorza (su còrju) va pesata dopo esser stata tagliata.

Famosa è s’arantzada nugoresa, una variante caratterizzata dal fine spessore della scorza d’arancia, tagliata a julienne, e delle mandorle. Dimensioni e peso: ca. 7,5 cm, 36 g. Modalità di preparazione: in un recipiente si mette la scorza dell’arancia a bagno in acqua per 10 giorni circa, per farla rinvenire (pro la torrare in mores), cambiando l’acqua anche 2-3 volte al giorno. Quando la buccia ha raggiunto la morbidezza e la dolcezza desiderata, si scola il contenuto del recipiente e si procede all’eliminazione dell’albedo e al taglio della scorza in striscie sottili di 2 o 3 mm circa Si procede poi risciacquando e, solo dopo aver scolato l’acqua in eccesso, pesando le scorze. In un recipiente largo e non alto, di alluminio o acciaio inossidabile, si fanno sciogliere a fuoco lentissimo approssimativamente due cucchiai di miele. Si unisce la scorza d’arancia a filetti e gradatamente si aggiunge il resto del miele, rimestando con un mestolo di legno (turudda) lentamente e senza interruzione, con un movimento diretto dall’interno verso l’esterno del recipiente. Si cuoce a fuoco bassissimo (focu lenu) per almeno mezzora.

Pochi minuti prima di togliere il composto dal fuoco (de nche la falare), si uniscono le mandorle tagliate a pezzi sottili e passate in forno il tempo necessario per asciugarsi (pro s’assuttare). Per ottenere un effetto lucido (pro la luchidare), è possibile mescolare lo zucchero, amalgamando il tutto per un paio di minuti. Quindi si toglie dal fuoco il composto e lo si dispone in piccole porzioni nelle foglie d’arancio o nei pirottini, lasciando freddare il tempo necessario. Note: la ricetta proposta è quella di s’arantzada nugoresa, che si differenzia dalle altre per la preparazione della scorza d’arancia. In altre località (Posada, Lodè, Orosei, Bitti), difatti, viene tagliata in pezzi più grandi e, una volta cucinata, versata sul piano di lavoro, precedentemente inumidito con acqua per non attaccarsi, quindi stesa (pesada) con il matterello inumidito (su canneddu infustu). Si lascia raffreddare almeno un giorno e si taglia a rombi col coltello, per poi sistemare (assentare) il composto nelle foglie d’arancio o nei pirottini. Un’ulteriore variante (s’arantzada di Dorgali, s’arantzada di

Arantzata di Lodè, caratterizzata dalla presenza delle mandorle intere che emergono dall’impasto. Arantzada nuorese, caratterizzata dal tipico trattamento della scorza d’arancia tagliata a julienne e candita nel miele.


Lula, su cunfettu di Baunei) prevede l’uso di scorza d’arancia tritata. S’arantzada nugoresa fu brevettata da un famoso pasticcere locale, Battista Guiso (fondatore, nel 1886, dell’Antica Fabbrica del Dolce di Nuoro), grazie al quale il dolce ebbe una forte commercializzazione. Confezionato in scatole di legno e cartone, il prodotto oltrepassò i confini dell’Isola estendendo la sua fama anche in Continente. Agli inizi del 1900 la ditta Guiso ottenne numerosi riconoscimenti in esposizioni internazionali; divenne fornitore ufficiale di Casa Savoia e tra i suoi clienti potè annoverare anche la famiglia reale inglese. Nel 1971 il testimone passò alla famiglia Bonamici che ha irlevato la ditta Guiso e ancora oggi continua a proporre questi dolci raffinati e ricercati. Nel Nuorese ancora oggi si dice che un buon

matrimonio si riconosce dalla qualità di s’arantzada. In passato si usava seccare all’aria la scorza d’arancia senza privarla dell’albedo: in questo modo poteva essere conservata a lungo in sacchetti di carta o di tela in un luogo fresco e asciutto fino al momento del suo utilizzo. Le arance utilizzate nel Nuorese provenivano dalla Baronia e si caratterizzavano per la dolcezza e morbidezza della buccia. A Siniscola e Posada, s’arantzata veniva confezionata con la pompia, tagliata a spicchi e svuotata. A Lodè per ovviare alla mancanza delle mandorle, necessarie per la preparazione del dolce, si usavano sos pineddos de s’arantzata: piccoli tocchetti di pasta violada, di 1 cm circa, che si friggevano e si mettevano in mezzo all’amalgama.


Decorazioni: occasionalmente relizzate mediante confetteria minuta (trazea).

Arantzada di Dorgali. La scorza, diversamente da quanto accade a Nuoro, viene macinata e fatta cuocere nel miele a creare un unico conglomerato perfettamente livellato e tagliato a porzioni romboidali, tradizionalmente servite su foglie d’arancio. Arantzata cuoriforme, tradizionalmente utilizzata a Lodè come torradura.

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Copulettas di Ittireddu Denominazione locale: copulettas. Adattamento della parola sarda all’italiano regionale: copulette. Area di diffusione: Ittireddu. Vitalità dell’uso: uso vivo. Occasione: Natale, Pasqua. Forma e caratteristiche: le copulettas di Ittireddu sono realizzate nella forma a fiore, comune alle altre tipologie diffuse nella Sardegna centrale, e hanno un ripieno, denominato pistiddu, caratterizzato dalla presenza della sapa. Dimensioni e peso: ca. ø 6,6 cm, 13 g. Modalità di preparazione: per la farcia si tritano le mandorle, precedentemente tostate. In un tegame a fondo spesso si versa la sapa, con due dita d’acqua circa e il miele, e si fa cuocere a fuoco basso. Quando il composto inizia a sobbollire si uniscono lentamente il pane grattugiato (o la semola), le mandorle tritate, l’uva passa, la scorza d’arancia grattugiata, facoltativamente il caffè, facendo cuocere il tutto finché su pistiddu non si stacca dalle pareti del tegame. A questo punto si toglie dal fuoco e si lascia raffreddare. Per la pasta si lavora la semola con acqua tiepida salata e si unisce lo strutto fino a ottenere un impasto morbido ed elastico. Col matterello si stende una sfoglia sottile, sulla quale si sistema il ripieno precedentemente ottenuto; si copre con un’altra sfoglia e si sigillano le estremità con un apposito strumento denominato peincheddu, costituito da

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un’impugnatura in legno e una parte terminale a “U” dentellata, per modellare i petali della tipica forma a fiore. Si infornano le copulattas a temperatura moderata finché non saranno dorate. Una volta freddate, si prepara la glassa, lavorando gli albumi e lo zucchero, e la si stende sulla superficie; infine si decorano con la trazea e si lasciano ad asciugare.

Ingredienti: per la sfoglia: 1 kg di semola, 300 g di strutto, acqua e sale; per il ripieno: 1 l di sapa (di vino o fichi d’India), 200 g di miele, 250 g di pane grattugiato o semola, scorza grattugiata di due arance, una tazzina di caffè (facoltativo), 250 g di mandorle, 100 g di uva passa; per la glassa: albume, zucchero.

Decorazioni: la superficie centrale del “fiore” viene ricoperta con la glassa e, prima che il rivestimento zuccheroso si asciughi, cosparsa di trazea.

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Casadinas Denominazione locale: casadinas, casatinas, gasadinas. Adattamento della parola sarda all’italiano regionale: non esiste una denominazione italiana corrispondente; diffusa è l’italianizzazione “casadine”. Area di diffusione: Sardegna centrale. Vitalità dell’uso: uso vivo. Occasione: Pasqua (Pasca de aprile). Forma e caratteristiche: dolce di forma rotonda, dalla consistenza soffice, composto di un cestino di pasta violada (lavorata con lo strutto) ripieno di formaggio fresco, generalmente di pecora, aromatizzato con scorza di limone e/o arancia grattugiata e/o zafferano.

Ingredienti: per il rivestimento: 1 kg di semola, 200 g di strutto, acqua; per il ripieno: 1 kg di formaggio fresco di pecora, 200 g di zucchero, scorza grattugiata di 1 arancia e/o limone, 5 tuorli, zafferano a piacere, 100 g farina.

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Dimensioni e peso: ca. ø 7 cm, 68 g. Modalità di preparazione: per realizzare il rivestimento occorre impastare (inturtare) la semola con lo strutto, aggiungendo acqua tiepida quanto basta a creare un composto omogeneo. Si lavorano bene gli ingredienti fino a ottenere un impasto morbido, liscio ed elastico, che successivamente viene avvolto in un telo da cucina e lasciato riposare. Per il ripieno il formaggio va lasciato inacidire leggermente (imbischidare). Una volta pronto si grattugia e lo si mette in una conca (tianu) aggiungendo i tuorli, lo zucchero, la scorza grattugiata d’arancia e/o di limone, lo zafferano e la farina, necessaria a non far gonfiare (unfrare) troppo il composto, che rischierebbe così di debordare dalla pasta. Si stende la pasta con il matterello (su canneddu) e se ne ricavano sfoglie dalle quali ritagliare forme circolari, utilizzando un piattino


da dessert o una rotella tagliapasta (rosinita) o uno stampo del diametro di 8-10 cm. Al centro di ciascuna di esse si dispone un cucchiaio di ripieno; si procede quindi a formare un cestinetto di pasta, pizzicandone i bordi così da ottenere una corona dentata. Si infornano le casadinas a fuoco moderato, facendo attenzione che la pasta rimanga chiara e la superficie leggermente dorata. Note: nella maggior parte dei paesi della Barbagia, le casadinas erano salate e venivano insaporite con prezzemolo o menta. Inoltre erano molto più grandi, “grandi quanto un piatto” (mannas cantu unu pratu) e, riscaldate nella graticola (sa cradica), costituivano un pasto unico. A Orosei si aggiungeva la menta anche al ripieno di formaggio dolce. La variante col ripieno di ricotta è molto più recente rispetto a quella a base di formaggio. In tutta la Sardegna le casadinas si preparano per Pasqua (Pasca de aprile). Grazia Deledda, in Tradizioni popolari di Nuoro, descrive l’usanza di regalarle in occasione di questa festività: «Ed in ogni casa si fanno sas casadinas (schiacciate di pasta), dentellate, con gli orli rivoltati e contenenti del formaggio fresco impastato con sale e zafferano … Per Pasqua si usano regalare, oltre le casadinas agnelli e carne. Ed al sacerdote che va a benedire le case si getta una moneta d’argento entro il secchiello dell’acqua santa, e un pane e casadinas nella bisaccia recata appositamente dal sagrestano» (DELEDDA 2010, P. 182).

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Orillettas e affini

Denominazione locale: Origliettas (Alà dei Sardi, Bitti, Pattada), Orulettas (Benetutti), Orilletas (Nuoro, Posada), uriglietti (Gallura), Lorighettas (Ovodda); Montegadas (Bolotana), Montecadas (Orune), Montogadas (Bonorva), ritzas (Nule). Area di diffusione: il dolce è diffuso con alcune varianti di forma e denominazione in tutto il territorio regionale. Vitalità dell’uso: uso vivo. Occasione: dolce tipico del periodo di Carnevale, nel contesto tradizionale veniva preparato anche per le cerimonie (matrimoni, battesimi). Forma e caratteristiche: il dolce è costituito da una striscia di pasta, molto sottile, larga circa 2 cm. La sfoglia viene tagliata con l’ausilio di una rotella e lavorata in modo tale da ottenere la forma desiderata. La superficie del dolce in seguito alla cottura assume un colore dorato reso più intenso dopo l’immersione nel miele bollente. La forma più ricorrente è quella con la sfoglia ripiegata su se stessa (“a fisarmonica”) e fatta combaciare ad ogni piega, ma esiste anche la variante chiusa “a ruota”, come quella di Orune in cui sono inscritti 5 cerchi (uno al centro e quattro intorno). Infine, mette conto ricordare la versione gallurese che conserva una variante (uriglietti) del nome più diffuso, ma si presenta prevalentemente a strisce distese e non ripiegate. Dimensioni e peso: tonde: ca. ???? g, diametro xxx cm, spessore xxx cm; a pieghe: ca. ??? g, lunghezza xxx cm, spessore xxx

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cm; piatte: ca. ??? g, lunghezza xxx cm; spessore xxx cm. Modalità di preparazione: si impastano lungamente le uova e la farina; se previsti dalla ricetta si uniscono, a piccole dosi, lo strutto (se la pasta risultasse troppo dura aggiungere un po’ d’acqua) e gli altri ingredienti. La consistenza dell’impasto deve risultare liscia e omogenea. Si stendono quindi delle sfoglie sottilissime, da cui vengono ritagliate, con una rotella dentata, delle strisce dì circa 20 cm di lunghezza e 2 cm di larghezza. Si procede quindi alla creazione delle varie forme, arrotolando o ripiegando la pasta fino a ottenere la forma desiderata. Le orillettas si friggono nell’olio ben caldo fino a quando la superficie risulta dorata (deve


rimanere comunque chiara); quindi si ritirano con un mestolo forato e si lasciano a scolare su un foglio di carta straccia per eliminare l’olio in eccesso. In un tegame si porta a ebollizione il miele, talvolta aromatizzato con scorza tagliata a filetti o succo di limone o di arancia, e vi si immerge il dolce, rigirandolo con attenzione affinché non si frantumi. Quindi si fanno raffreddare le orillettas su un vassoio, disposte solitamente “a torre”. Note: la frittura avveniva tradizionalmente nello strutto, oggi più spesso sostituito in tutto o in parte dall’olio di oliva, mentre in alcune famiglie si era soliti friggerle con ozu casu (grasso ottenuto dalla preparazione del formaggio). Con nomi differenti è indicata la stessa tipologia di dolce che presenta alcune varianti nel modo di modellare le strisce di pasta. Sull’origine del nome orilletta dal catalano vd. G. Paulis a pag. ???. L’orelleta è un dolce tradizionale ancora in uso nella provincia di Lleida e Tarragona, conosciuto a Ibiza e Formentera con il nome di orejon per la caratteristica forma che ricorda quella di un orecchio, mentre nella provincia di Valencia lo stesso dolce assume fogge floreali. Gli ingredienti delle orelletes spagnole sono: ½ kg di farina, 4 uova, 250 grammi di zucchero, la scorza grattugiata di un limone, anice.

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Ingredienti: 1 kg di farina di semola (attualmente sostituita spesso dalla farina 00), 8/9 uova, strutto (non previsto nell’impasto nella variante di Benetutti e Nule), scorza di arancia grattugiata (o di limone), succo di arancia, anice o grappa (opzionali), miele (per ricoprire completamente il dolce una volta cotto).

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Pinos e affini

Denominazione locale: gattò/cuffittura agreste (Orani), menduleddas (Sarule), mendulinos (Bolotana), pinos (Benetutti, Nule), pinu tesu (Lula, Torpè), pistoccheddu (o pirichittu) de santu Brai (Campidano di Cagliari, e in forme simili in altre aree dell’Isola). Traduzione italiana: gattò rustico, mandorline, pinoli, biscottini di san Biagio. Area di diffusione: tutto il territorio regionale. Vitalità dell’uso: uso vivo. Occasione: solitamente realizzati nel periodo di Carnevale, a Benetutti, Nule e Sarule facevano parte dei dolci preparati in occasione di un matrimonio. La stessa tipologia di dolce, definita piricchittu o pistoccheddu de santu Brai, nel Cagliaritano si realizza per la festa di san Biagio il 3 febbraio e trova diffusione con piccole varianti nel nome e nella forma anche in altre zone dell’Isola. Forma e caratteristiche: il dolce è composto da piccoli tocchetti di pasta legati con la cottura nel miele. Si possono modellare, ancora caldi, con le mani per far assumere loro l’aspetto di piccole pigne (Benetutti, Nule, Cagliaritano) o ritagliare a rombi dopo aver steso il composto sul piano di lavoro e livellato la superficie. Dimensioni e peso: ca. 5-6 cm, 26 g. Modalità di preparazione: si amalgama la farina con le uova (a cui si unisce la scorza grattugiata di limone e lo strutto in base alle varianti) e si lavora lungamente il composto fino a ottenere una pasta morbida e omogenea (se l’impasto risultasse troppo duro si può aggiungere poca acqua). A partire da alcuni pezzetti di pasta si realizzano dei cordoncini dello spessore di una matita e si tagliano (in senso obliquo) con un coltello per ottenere dei tocchetti di pasta non più grandi di 1 cm (che ricordano nella forma le

Ingredienti: 1 kg di farina di grano duro, 8-9 uova, acqua, scorza grattugiata di limone (facoltativo), 100 g di strutto (facoltativo). Per legare i tocchetti di pasta: miele, zucchero (facoltativo), acqua di fiori d’arancio (facoltativo). Decorazione: in alcuni casi si decorano con i confettini colorati. mandole o i pinoli da cui prende il nome il dolce). Si procede quindi alla cottura dei tocchetti di pasta che vengono solitamente fritti ma anche tostati al forno; infine si immergono nel miele bollente (a cui si aggiunge, in base alle varianti, lo zucchero). Con le mani bagnate nell’acqua (o nell’acqua di fiori d’arancio) si modella il composto per formare delle pigne; in alternativa lo si stende sul piano di lavoro, si livella la superficie, si lascia raffreddare per far compattare il miele con la pasta, e si ritagliano delle forme a rombo che possono essere servite su foglie di limone o arancio. Note: oggi i tocchetti di pasta vengono fritti nell’olio di oliva o di semi, l’uso del burro è piuttosto recente; in passato veniva utilizzato anche s’ozu casu, il grasso ottenuto dalla preparazione del formaggio. Una variante di Sarule e Orani prevede l’aggiunta di scorze d’arancia a filetti poste a caramellare nel miele insieme ai tocchetti di pasta. Tale preparazione è definita a Orani cuffittura agreste per l’evidente somiglianza con sa cuffittura o aranzada (vd. scheda) in cui i tocchetti di pasta sono sostituiti dalle mandorle tostate. La denominazione che il dolce assume a Torpè, pinu tesu, è dovuta al fatto che il procedimento di preparazione è lo stesso di quello del gattò (vd. scheda), del quale, in assenza di mandorle, costituiva la variante povera.


Pirichittus

otto il nome di piricchittus, in Sardegna, sono comprese fondamentalmente due categorie di dolci, differenti fra loro ma accomunate dalla presenza di una copertura di glassa che interessa la superficie esterna (circa la connessione fra tale rivestimento zuccheroso e i significati del nome del dolce, vd. qui a p. ???). La prima categoria, dalla consistenza per lo piĂš semidura,

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presenta forma tondeggiante e piccole dimensioni (il diametro non supera i 5 cm). La seconda, invece, include dolci dalle dimensioni maggiori, forma irregolare e vuoti all’interno, donde le varie denominazioni che alludono a tale caratteristica: p. es. piricchittu de bentu; picchirillu/pricchittu bolanti. Appartengono a questa seconda tipologia sos piricchittos di Ittiri, dalla tipica forma di mezzaluna.



Piricchittus Denominazione/i locale/i: piricchittus Area di diffusione: Ittiri (Coros, regione storica del Logudoro) Vitalità dell’uso: uso vivo Occasione: Commemorazione dei Defunti, Natale, Pasqua, Assunzione (Ferragosto), tutte le occasioni da cerimonia Forma e caratteristiche: i piricchittus di Ittiri si distinguono dal resto della produzione isolana per la particolare conformazione ad arco e la decorazione realizzata, ancora oggi, a mano. Dimensioni e peso: ??? ca.; ??? ca. Modalità di preparazione: in una conca di terracotta (su lebreri) si frullano 4 uova insieme a un bicchiere di olio e al lievito

Ingredienti: 12 uova, 5 bicchieri d’olio extravergine d’oliva, 1/2 kg di farina di grano duro, lievito chimico

(la ricetta originale prevedeva l’uso del lievito madre) e si aggiunge la farina a pioggia. Disposto l’impasto sul piano di lavoro, si continua a lavorarlo (suìghere). In un altro recipiente si frullano 8 uova con 4 bicchieri d’olio ottenendo un composto liquido, che dovrà essere gradatamente incorporato al precedente, continuando a lavorare fino a raggiungere la consistenza desiderata (la pasta dovrà risultare estremamente duttile). Quando l’impasto è pronto si procede alla messa in forma dei piricchittus: sul tavolo unto con olio si modellano piccoli cilindri di pasta dando


la forma con le mani anch’esse ben intinte nell’olio. Quindi si dispongono i dolci sulle teglie (sas lamas), ancora una volta unte o ricoperte con carta oleata, curvandoli leggermente in modo da conferire il tipico profilo ad arco. Si cuoce in forno a 250° per 30 minuti. Tradizionalmente la cottura avveniva nel forno a legna e la temperatura era misurata in base al colore che assumevano le pietre sul fondo; all’imboccatura si disponevano rametti di legna fine, necessari a produrre fiamma fino a che i piricchittus fossero cresciuti nello spessore. Attualmente questo risultato si ottiene facendo ricorso al grill nella cottura in forno a gas o elettrico.

Decorazioni: la superficie è ricoperta da una griglia di glassa di zucchero realizzata a mano.

Una volta cotti, i dolci vanno lasciati raffreddare sopra la carta straccia per far assorbire l’olio in eccesso (la glassatura avviene successivamente proprio per evitare che l’eccedenza d’olio ingiallisca la glassa). A parte si montano a neve gli albumi e lentamente si incorpora uno sciroppo ottenuto dalla cottura dello zucchero con poca acqua. Si procede quindi alla decorazione passando

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velocemente sulla superficie di ciascun dolce un dito su cui si è raccolta una piccola quantità di glassa. Note: fino al secolo scorso l’asciugatura della glassa (oggi ottenuta al forno con l’ausilio del grill) si svolgeva all’esterno, disponendo i dolci sopra un’incannicciata e lasciandoli asciugare al sole. Immancabili nella giornata della Commemorazione dei Defunti (donde deriva la denominazione di ossus de mortu con la quale si allude ai pirichittus nei paesi del circondario), i pirichittus di Ittiri erano sempre presenti nelle più importanti ricorrenze, sia religiose che civili. I cesti (paneris) confezionati dalla madre dello sposo, e destinati a raccogliere i doni offerti alla futura nuora la sera in cui si andava a chiedere la sua mano, non mancavano mai di contenere i pirichittus decorati con confetti colorati (sas confetturas).


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Pistiddu Denominazione/i locale/i: pistiddu; coccone de pistiddu Area di diffusione: Dorgali (Barbagia di Nuoro) Vitalità dell’uso: uso vivo Occasione: festività di Sant’Antonio abate e San Sebastiano (rispettivamente 17 e 20 gennaio) Forma e caratteristiche: il dolce consta di due sfoglie di pasta (coccones) circolari tra le quali è compresa la farcia, su pistiddu. Le sfoglie possono essere realizzate in pasta suitta (‘pasta di semola accuratamente lavorata con lo strutto’). Per questa operazione, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, le donne dorgalesi cominciarono a utilizzare sa macchinedda de suìhere, una sorta d’impastatrice ante litteram. Più semplici e veloci da preparare, invece, sono le sfoglie in pasta frolla (pasta de tzambella), che risultano meno chiare e lisce rispetto a quelle realizzate in pasta suitta. L’azienda dorgalese Esca Dolciaria ha fatto di su pistiddu il proprio cavallo di battaglia, rendendolo disponibile per i clienti in tutte le stagioni dell’anno nella versione in pasta frolla, ma si riserva di confezionare il dolce nella versione in pasta suitta durante l’originaria occasione di fruizione del dolce medesimo. Quanto alla farcia la stessa azienda produce su

Ingredienti: per le sfoglie di pasta de tzambella: 1 kg di farina 00, 250-300 g di zucchero, 5 uova, 200 g di strutto, 2 bustine di lievito, scorza grattugiata di 1-2 limoni; per su pistiddu: 1 l di vincotto, 1 l d’acqua, 1 scodella di semola grossa di grano duro, 1 scodella di scorza grattugiata d’arancia, 250-300 g di zucchero

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pistiddu a partire da un mix di sapa di mosto d’uva e sapa di fichi. Nel contesto tradizionale dorgalese su pistiddu in assoluto più pregiato era quello fatto col vincotto d’uva (chin su binihottu de àhina), seguiva quello a base di fichi (de ihu). Surrogati umili erano le farce ottenute da frutti selvatici, accessibili anche ai meno abbienti, come il fico d’india (sa ihu murisca) o il corbezzolo (sa mela de lidone). Dimensioni e peso: il dolce, di forma circolare, presenta un diametro di 20 cm ca. Un tempo, riferiscono gli informatori, specie i dolci preparati per voto dai singoli fedeli, avevano dimensioni maggiori. Il peso si aggira intorno ai ???. Modalità di preparazione: per la preparazione della farcia si procede nel modo seguente: si mettono l’acqua e il vincotto in un paiolo di rame (lapiolu) e si fa cuocere il tutto a fuoco lento (fohu brandu). Una volta raggiunto il punto di ebollizione, si aggiunge la buccia d’arancia (su pizu ’e arantzu) e la semola grossa (sìmula grussa), versando quest’ultima a pioggia. Si mescola il tutto costantemente con una spatola (mùriha) di legno, sinché non si ottiene un composto omogeneo dalla consistenza né eccessivamente liquida, né eccessivamente densa. Per la realizzazione delle sfoglie, invece, occorre mettere in una terrina la farina, aggiungervi le uova e lo strutto precedentemente sciolto in un po’ d’acqua tiepida, il limone, lo zucchero e, per ultimo, il lievito. Dopo aver steso la sfoglia si fanno due dischi di 20 cm ca. di diametro: nel primo viene steso uno strato di pistiddu (la farcia dalla quale mutua il nome per un processo metonimico l’intero dolce) di 1 cm ca., l’altro viene inciso con la rotella tagliapasta (chin sa rosinitta) a formare dei disegni per lo più a motivi floreali. Questo secondo disco di pasta viene sovrapposto al primo sul quale era stato precedentemente spalmato su pistiddu. Le due sfoglie di pasta circolari, vengono sigillate e ritagliate con l’ausilio di una rotella tagliapasta dentata, più spessa rispetto a quella utilizzata per le decorazioni. Attraverso le decorazioni eseguite sulla sfoglia superiore, consistenti in una sorta di traforo, s’intravede la farcia, che, dotata di un colore scuro, spicca rispetto al colore più chiaro della sfoglia. Il dolce così confezionato si fa cuocere in forno (180° per 40 minuti ca.), sino a che la pasta non diventa dorata.


Note: la vigilia della festa di Sant’Antonio (il 16 sera) e di San Sebastiano (il 19 sera) a Dorgali si bruciano i falò di rosmarino (romasinu) a forma di cono rovesciato, sulla cui sommità svetta una croce fatta di arance. I fuochi cerimoniali in tali occasioni vengono accesi, rispettivamente, in piazza Sant’Antonio e in piazza Santa Caterina. Sovrintendono all’operazione i priori dei Santi, cui compete l’organizzazione della festa. Ai priori, in particolare, spetta il compito di far preparare grandi quantità di pistiddu da distribuire a tutti i fedeli. I priori compiono tre giri (tres inghiros) intorno al fuoco recando in mano alcune coccones de pistiddu, le cui dimensioni sono più grandi del solito per rappresentare simbolicamente tutte le coccones de pistiddu che verranno distribuite di lì a poco. Poi il prete benedice il fuoco e i dolci. A questo punto avviene la grande distribuzione di su pistiddu. Anche le cantine restano aperte per l’occasione, affinché chi lo desideri possa accompagnare una fetta di pistiddu con un bicchiere di vino. Specie in occasione della festività intitolata a sant’Antonio, anche nelle singole famiglie in passato si preparava su pistiddu, e oggi si continua a prepararlo, ove non se ne sia persa la capacità. Lo si fa fondamentalmente per il consumo interno alla famiglia o, al massimo, per farne omaggio a parenti e ad amici. Fino a circa

un cinquantennio fa, in molte case, oltre alle consuete coccones de pistiddu da consumare in ambito familiare e da regalare alle persone care, vigeva la consuetudine di confezionarne qualcuna più grande, da distribuire ai bambini, oppure ai più bisognosi come voto o in segno di omaggio al Santo.

Decorazioni: la odierne decorazioni sono eseguite con la rotella tagliapasta (sa rosinitta) e constano, principalmente motivi fitomorfi. Lo schema decorativo più arcaico consisteva in una croce, sa ruhe ’e sant’Antoni, con le lettere “S” e “A” (le iniziali del nome del Santo) dislocate, rispettivamente, sopra il braccio destro e sopra quello sinistro della croce stessa. Su pistiddu è il dolce tipico di sant’Antonio, ma si prepara altresì per san Sebastiano (festeggiato a pochi giorni di distanza). Anche per san Sebastiano la decorazione più arcaica prevedeva una croce e le lettere “S” “S” (le iniziali di san Sebastiano) ubicate in questo caso nelle due campiture inferiori di sa coccone de pistiddu, rispettivamente sotto il braccio destro e sotto il braccio sinistro della croce. Un’altra modalità di decorazione, oggi in disuso, era quella realizzata per impressione mediante timbri di legno, successivamente sostituiti da timbri in ottone. Oggi si preferisce la sola decorazione eseguita mediante la rotella tagliapasta. Un ultimo intervento, volto a rendere più lucida la superficie del dolce, consiste nello spennellare quest’ultima, prima della cottura, con un po’ di albume o col rosso d’uovo.

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Pompia

Denominazione/i locale/i: pompia Area di diffusione: Siniscola, Posada (Baronie). Il dolce si confeziona, pur con minore frequenza, anche a Oliena (PAULIS S. 2011, pp. 252, 366). Vitalità dell’uso: uso vivo; la ricetta ancora si tramanda di madre in figlia Occasione: accompagna tutte le ricorrenze più importanti della vita del paese; in occasione di feste, matrimoni, cresime, battesimi, è donata a padrini o testimoni; è offerta a personaggi illustri come medici, notai, parroci. Era considerato il dolce “nobile” di Siniscola.

Ingredienti: pompia, miele

Forma e caratteristiche: il dolce consiste nell’albedo (intero o tagliato a fette) candito di un frutto denominato pompia (Citrus monstruosa): un ecotipo locale di antica origine e di difficile inquadramento tassonomico. Da molti ritenuto un cedro, si differenzia dalla specie Citrus medica L. per diversi caratteri sia dell’albero sia del frutto; mentre è più probabile che si tratti di un ibrido naturale originatosi nel contesto della popolazione agrumicola locale (AGABBIO 1994, p. 357).


Il frutto, di colore giallo, presenta una superficie rugosa e bitorzoluta (donde la qualificazione “monstruosa”, cui allude la denominazione scientifica). Le dimensioni sono variabili: alcuni frutti possono raggiungere i 70 cm di circonferenza. L’albedo, la parte bianca sotto la scorza, viene utilizzato nella preparazione del candito omonimo, mentre dalla scorza, opportunamente lavorata, si ottengono liquori; diversamente il succo, piuttosto acido, non ha trovato finora nessun campo d’impiego. La raccolta si fa a mano da novembre a marzo. Dimensioni e peso: 12-13 cm; 180-230 g Modalità di preparazione: dopo aver lavato accuratamente e asciugato il frutto, si asporta la parte superficiale della scorza, con un coltello o con una grattugia, in modo che rimanga solo l’albedo. Dopo aver praticato un piccolo foro in corrispondenza del picciolo, si estrae la polpa con l’aiuto delle dita o di un cucchiaino, facendo attenzione a non danneggiare o rompere l’involucro che contiene gli spicchi. Eseguita questa operazione, la pompia, che ha

assunto l’aspetto di una sfera bianca vuota, viene fatta sbollentare per 10 minuti ca., per eliminare l’eccesso di acidità, quindi è messa a sgocciolare e asciugare su un canovaccio per almeno 12-15 ore. A questo punto può avere inizio la fase di canditura. I frutti, sistemati in un tegame dove, in precedenza, è stato fatto scaldare il miele, in quantità necessaria a ricoprirli interamente, vengono cucinati a fuoco lento per almeno 5-6 ore, girandoli di tanto in tanto e riempiendo costantemente di miele l’interno della pompia fino a quando non assumerà il tipico colore rosso ambrato (colore de marengo). Il frutto viene poi fatto raffreddare e confezionato in barattoli di vetro o terracotta, ricoperto con la gelatina di cottura o con del miele nuovo che funge da conservante naturale. Così confezionato, il dolce dovrà essere tenuto al riparo da fonti di luce e di calore in modo da mantenerne inalterate le caratteristiche organolettiche. Note: a Siniscola la pompia era ed è ritenuta fra i dolci il più prelibato e raffinato. Proprio per questo è sempre riservata alle grandi occasioni. Nonostante l’impiego di materie prime tutto sommato comuni e a buon mercato, la lunga e minuziosa confezione del dolce da sempre ha fatto sì che la sua preparazione venisse considerata sofisticata e costosa, quasi un bene di lusso accessibile a pochi. La ricetta si è tramandata immutata nel tempo (alcune differenze si rilevano nella preparazione dello sciroppo di canditura, per il quale può essere impiegato anche lo zucchero unito al miele). Invariato è rimasto anche il suo sistema di vendita: anziché a peso, a dozzine. Sa pompia non si consuma fresca: la polpa

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e il succo sono troppo acidi. La sua trasformazione, in particolare la canditura con il miele che ne smorza l’acidità, fa sì che il frutto candito sia una vera prelibatezza dal sapore dolce con un particolare retrogusto amarognolo. Le parti di scarto, la scorza e la polpa, trovano impiego in preparazioni alternative. La scorza eliminata nella fase iniziale della preparazione del dolce viene utilizzata per fare il liquore di pompia: lasciata macerare nell’alcool per almeno 40 giorni, costituisce la base cui addizionare uno sciroppo preparato con acqua e zucchero prima di filtrare il tutto. Il liquore così ottenuto è un ottimo digestivo, da servire

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ghiacciato per assaporarne appieno il gusto. La polpa, a causa dell’acidità del succo, veniva utilizzata per lucidare il rame, l’ottone e l’oro, ma anche come detergente per le mani. È recente il ricorso all’olio essenziale, di cui è ricco il frutto, nel campo della cosmesi e in erboristeria: difatti, la pompia è un ricostituente e un ottimo rimedio per la tosse, il mal di gola, il raffreddore. Sempre più diffusa è la sua presenza tra gli ingredienti delle preparazioni alimentari: panna cotta, granite, gelati, sorbetti, marmellate. Ma non manca neanche come antipasto, assieme a formaggi, bottarga, verdure (belga, radicchio); come accompagnamento di bolliti e cacciagione.


Le prime attestazioni letterarie della pompia rimandano ad una statistica del 1760, che, redatta per ordine del Vicerè, registra alcune coltivazioni dell’agrume a Milis, nell’Oristanese: l’indagine fu pubblicata nel saggio Agricoltura di Sardegna (1780) di Andrea Manca Dell’Arca (2000, p. 185). Ne fa menzione anche Grazia Deledda nell’opera giovanile intitolata Tradizioni poplari di Nuoro, dove accenna al «pomo di Adamo cucinato col miele» (DELEDDA 2010, p. 194). La produzione della pompia oggi è soggetta a una precisa regolamentazione. Nel 2004 il Comune di Siniscola ha chiesto e ottenuto la concessione di un presidio Slow food con lo

scopo di preservare e valorizzare un prodotto di alta qualità, radicato nella cultura del territorio. A tal fine è stato approvato un disciplinare di produzione che regolamenta le attività di raccolta, trasformazione e confezionamento del prodotto, assicurando qualità e tipicità in base a standard europei e nazionali. Nella variante nota come pompia intrea prena il frutto candito viene farcito con un ripieno di mandorle tritate e miele (lo stesso impasto dei guelfos: vd. scheda) e decorato con confettini di zucchero colorati (trazea). In occasione dei matrimoni veniva offerto bomboniera degli sposi.

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Puzoneddos de su Cossolu

Denominazione/i locale/i: puzoneddos de su Cossolu Traduzione italiana: uccellini della Madonna Consolata Area di diffusione: Orune (Nuorese) Vitalità dell’uso: uso vivo Occasione: festa della Consolata, su Cossolu, che, preceduta dalla Ingredienti: 1 kg relativa novena, si svolge ogni anno di semola, 20 g di il primo lunedì di agosto in una lievito chimico, 1 kg chiesetta campestre poco distante e 300 g di semolato da Orune. (1 kg di semola Forma e caratteristiche: la forma è + 300 g di farina 00), quella di un uccellino assimilabile ad 300 g di zucchero, altri pani aviformi della tradizione acqua tiepida, anice sarda. a piacere. In particolare sos puzoneddos de su Cossolu sono pani dolci votivi, classificati dagli informatori più come dolci che come pani. Vengono preparati in grande quantità in

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concomitanza della festa di su Cossolu per essere distribuiti ai fedeli dopo la benedizione. L’onere della preparazione dei puzoneddos grava su sos de sa trìppide: le cinque famiglie che detengono la titolarità esclusiva dell’organizzazione della festa. Ma durante la novena, ogni giorno dopo la messa, quanti, fra i comuni fedeli, ne abbiano fatto voto alla Madonna distribuiscono ai presenti sos puzoneddos. La “leggenda di fondazione” relativa all’usanza di questo pane dolce votivo narra che la Madonna Consolata apparve a Pasca Chessa, una pia donna orunese, chiedendole di celebrare ogni anno una festa in suo onore e di confezionare dei pani rituali ispirati al pettirosso che nella statua della Consolata tiene in mano Gesù Bambino. La presenza del pettirosso associata a Gesù costituisce un topos iconografico, motivato dal fatto che, nell’ambito della cristianità, attorno al pettirosso (Erithacus rubecola) gravitano


numerose leggende. Secondo la più diffusa, l’animaletto, mosso a compassione dalle sofferenze del Cristo crocifisso, si sarebbe bagnato le piume del petto col sangue divino, mentre cercava di estrarre i chiodi della croce dalle mani e dai piedi di Nostro Signore, oppure le spine della derisoria corona impostagli sul capo. Dimensioni e peso: 10 x 10 cm ca. Modalità di preparazione: per prima cosa occorre lavorare il semolato con il lievito sciolto nell’acqua, fino a ottenere un composto omogeneo e liscio. Oggi ci si avvale dell’ausilio d’impastatrici e sfogliatrici, ma un tempo la lavorazione si eseguiva interamente a mano, utilizzando soltanto il matterello (canneddu) per la stesura dell’impasto. Dalla sfoglia così realizzata si ricavava la sagoma di un uccellino mediante l’utilizzo di un coltellino (lepedda). Il lavoro, però, in questa maniera richiedeva tempi eccessivamente lunghi, scarsamente conciliabili con le grandi quantità di puzoneddos da preparare in occasione della festa di su Cossolu. Così, oggi si sceglie di utilizzare uno stampo in alluminio a forma di uccellino per ricavare le sagome da pintare (‘decorare’) successivamente, secondo il sistema tradizionalmente invalso nel trattamento decorativo dei pani della tradizione sarda. La fase della pintadura ha inizio eseguendo tre tagli nella sagoma ricavata dallo stampo: uno per dividere il becco in due parti, uno per creare l’ala e uno per bipartire la coda. A partire da questi tre tagli principali, sempre con la punta

del coltellino vengono sfrangiate la coda e l’ala, sì da suggerire l’idea delle piume. Sforbiciando con la punta delle forbicine sul resto del corpo si ottiene un effetto decorativo aggiuntivo, volto, anche stavolta, a evocare l’impressione del piumaggio. Decorazioni ulteriori o sostitutive rispetto a quella or ora descritta possono essere ottenute con l’ausilio di timbri di legno, in vero sempre meno diffusi. In passato i timbri maggiormente utilizzati erano quelli che imprimevano l’acrostico B.V.C.: Beata Vergine Consolata. Oggi vengono impiegati a mo’ di timbro tappi di pennarelli che una volta impressi sulla superficie lasciano sulla pasta un disegno dalla foggia di piccola stella. Con un ditale si possono ricavare da un’altra sfoglia di pasta tre o più cerchietti, che assemblati sulla superficie di su puzoneddu creano l’effetto di una corolla floreale. La complessità e il grado di elaborazione della decorazione finale è strettamente legata alla fantasia e all’esperienza di chi la esegue. Una volta decorati, sos puzoneddos vengono lasciati lievitare per alcune ore. Poi vengono infornati a 180-200° ca. È possibile ottenere un ulteriore effetto

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decorativo a cottura quasi ultimata per mezzo della tecnica di s’iscaddadura, operazione consistente nel fatto che sos puzoneddos, appena estratti dal forno, e dunque caldissimi, vengono spennellati con acqua fredda ed eventualmente introdotti nuovamente nel forno. Quale risultato, la superficie dell’alimento acquisterà un aspetto particolarmente lucido. In passato sos puzoneddos erano fortemente aromatizzati all’anice, oggi i più non includono l’anice fra gli ingredienti.

Decorazioni: le decorazioni di questo pane dolce consistono in sfrangiature ottenute con forbici e coltellini; timbrature; applicazioni di elementi di pasta (p. es. fiori) forgiati col medesimo impasto impiegato per la messa in forma dei puzoneddos.

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Note: con lo stesso impasto dei puzoneddos viene confezionato anche su pane modde: un pane dolce decorato, la cui consumazione è invalsa tradizionalmente in occasione dei matrimoni (sos isposonzos). La forma di base del pane modde è circolare. Si effettuano otto tagli, in modo da ottenere quattro listarelle di pasta che poi vengono ripiegate verso l’interno, quasi a fungere da base d’appoggio. Tutta la superficie di questo pane dolce, poi, viene pintada (‘decorata’) con timbrature e intagli, trecce e fiori realizzati con il medesimo impasto.


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Tliccas, caschettas e affini

e tiliccas e sim. sono rettangoli di pasta violada in cui si dispone un piccolo cilindro di pistiddu: sapa o miele condensati attraverso la cottura, l’aggiunta di semola e/o di frutta secca. Il dolce viene messo in forma sollevando i bordi della sfoglia, saldando quelli dei lati minori e avvicinando, senza farli combaciare, i bordi dei lati maggiori, in maniera tale che rimanga un’apertura rivolta verso l’alto, attraverso la quale è possibile vedere il ripieno di pistiddu. La forma conferita alla struttura portante di pasta violada è variabile: può essere ripiegata a guisa di ferro di cavallo, di spirale, di cuore, ecc. Talora la si lascia dritta, come accade a Esporlatu, ove in passato, a fronte dei 15 cm ca. odierni, il dolce poteva raggiungere i 50 cm di lunghezza e veniva tagliato in sezioni. Le tiliccas possono assumere nomi (p. es. seddines a Nule, cucciuleddi in Gallura, ecc.) e forme differenti. Per esempio, a Sorso i cosiddetti còtzuli altro non sono che tiliccas, chiuse ad anello o a forma di numero 6, la cui struttura di pasta violada avvolge completamente su pistiddu, nascondendolo alla vista. Come il tipo tiliccas, con cui condivide le principali caratteristiche strutturali, il tipo caschettas è un dolce costituito da una sfoglia disposta, a seconda delle varianti, a mo’ di spirale, semicerchio o ferro di cavallo, ecc., all’interno della quale è contenuto un ripieno che risulta visibile, dal momento che, come nel caso delle tiliccas, i due lati maggiori del rettangolo di pasta atto a contenere la farcia non vengono sigillati ma semplicemente accostati. Sebbene la notorietà di is caschettes della Barbagia di Belvì, in virtù del relativo pregio estetico della realizzazione, caratterizzata da una sfoglia disposta a guisa di spirale, tanto sottile da risultare traslucida, tuttavia, pur in forme più semplici, il tipo caschettas è diffuso anche altrove nell’Isola. Troviamo le caschettas, ad esempio, nel Campidano di Cagliari (Monastir, San Sperate, Sestu, ecc.), in Marmilla (Ales, Mogoro, ecc., pur non più vitali), con varianti nel nome nell’Oristanese (Bauladu,

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San Vero Milis, ecc.), ove sono denominate tziddi(n)as. Anche in Barbagia, a Mamoiada, esistono le caschettas, ripiene di miele e che gli informatori locali chiamano in italiano “tilicche”. Altrettanto avviene a Tertenia in Ogliastra, a dimostrazione dell’intima relazione fra tiliccas e caschettas, messa in luce anche dall’analisi storico-linguistica, che dimostra la maggiore antichità delle tiliccas rispetto alle caschettas (vd. qui a p. ???). La differenza sostanziale fra tutte le altre caschettas, tziddia(n)as e tiliccas rispetto a is caschettes di Belvì consiste nello spessore della pasta, che a Belvì diviene tanto sottile (fine comente su papperi ’e seda, ‘fine come la carta velina’) e trasparente da giustificarne accanto al nome italiano di “dolce della sposa” anche quello di “velo della sposa”. Nel caso delle caschettas del Campidano e delle tziddi(n)as dell’Oristanese lo spessore di su pillu, la sfoglia di pasta di semola lavorata con lo strutto, è assimilabile per qualità a su pillu de is pàrdulas (‘alla sfoglia che fa da supporto al ripieno delle formaggelle’) e nel caso delle caschettas di Mamoiada e di Tertenia la sfoglia è a tal punto simile anche morfologicamente a quella delle tiliccas da portare a una sovrapposizione fra i due dolci. Il tipo lessicale tziddin(a)s, attestato nell’Oristanese (Bauladu, San Vero Milis, ecc.), è accostabile al termine seddines, siddines che in alcuni centri del Goceano (Nule e Benetutti) designa il tipo tiliccas.

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Caschettes di Belvì Denominazione locale: caschettes. Area di diffusione: Belvì. Vitalità dell’uso: uso vivo. Occasione: tutte le occasioni da cerimonia. Forme e caratteristiche: dolce ripieno la cui superficie esterna è costituita da una sottile striscia di pasta violada (ben lavorata con lo strutto), di semola, tagliata con rotelle dai bordi variamente frastagliati, farcita con un ripieno di miele e nocciole, aromatizzato con scorza d’arancia grattugiata. La caratteristica di is caschettes è lo spessore quasi impalpabile della sfoglia, traslucida, che una volta cotta assume una consistenza croccante. Modalità di preparazione: per la farcia si scalda il miele, lo si porta ad ebollizione e vi si aggiungono a poco a poco le nocciole macinate e la scorza d’arancia, leggermente tostate e tritate in precedenza, tenendo il fuoco basso. Quando il conglomerato raggiunge una consistenza omogenea si spegne il fuoco e si lascia raffreddare il tutto.

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Per la sfoglia si impasta la semola con l’acqua e si lavora molto bene, introducendo a poco a poco lo strutto, finché l’impasto non risulta elastico e si lascia allargare e distendere tanto da diventare trasparente, senza rompersi. Dopo averlo lasciato riposare, si procede a stirare la pasta in sfoglie sottilissime, quasi impalpabili, e a ritagliarle con la rotella tagliapasta doppia in strisce lunghe circa 20 cm e larghe 4. Si sistema il ripieno, modellato a guisa di grissino, al centro della sfoglia e si procede, dopo aver chiuso le due estremità, ad arricciarla formando una sorta di girandola a volute. Si decora il dolce così ottenuto con la trazea (‘confettini colorati’) e si inforna a calore basso per alcuni minuti, il tempo necessario alla cottura della sfoglia sottilissima, che deve però rimanere bianchissima. Note: in passato erano i dolci che lo sposo offriva alla sposa, donde la locuzione “dolci della sposa” con riferimento a is caschettes. La sfoglia sottilissima, quasi impalpabile, veniva


Ingredienti: per la sfoglia: 500 gr di semola (granito), 100 gr di strutto, acqua; per la farcia: 1 kg di nocciole tostate e macinate, 1 kg di miele, scorza d’arancia tostata e macinata, essenza di fiori d’arancio, trazea.

tirata a mano con su canneddu (‘matterello’) e fatta essiccare al sole. Ancora oggi nei laboratori specializzati che preparano il dolce quest’ultima operazione viene fatta a mano. A Ovodda troviamo un dolce ripieno di pasta di nocciole e miele, ma nell’aspetto piuttosto diverso rispetto a is caschettes di Belvì. Di probabile provenienza esogena, stando a quanto riferito dagli informatori ovoddesi, il dolce, denominato pistiddu (al plurale pistiddi), presenta, per quanto concerne lo spessore della pasta e per la forma circolare, maggiori affinità col tipo tiliccas. La sfoglia, però, sigilla il ripieno, evitando che risulti visibile all’esterno.

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Tiliccas Denominazione locale: tiliccas, tiriccas, tericcas, thiliccas, tziliccas (Sardegna centrale); cucciuleddi e meli, cucciuleddi e sapa (Gallura); caschettas (Mamoiada, Tertenia); còtzuli (Sorso); còtzulos (Sennori); fraones (Silanus); seddines (Benetutti), siddines (Nule); panigheddos (Luras). Adattamento della parola sarda all’italiano regionale: tilicche. Area di diffusione: tutto il territorio regionale con varianti di forma e denominazione. Vitalità dell’uso: uso vivo.

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Occasione: Ognissanti; Commemorazione dei Defunti; Sant’Antonio abate (17 gennaio); Natale; Pasqua. Forme e caratteristiche: dolce ripieno dalle forme più svariate (ferro di cavallo, ellisse, mezzaluna, cuore, lettere, spirale), la cui superficie esterna è costituita da una sottile striscia di pasta violada (una pasta ben lavorata con lo strutto), di semola, tagliata con rotelle dai bordi variamente frastagliati, farcita con un ripieno di mandorle e miele o sapa. La sfoglia viene poi richiusa a mano, in foggia di coroncina.


Ingredienti*: per la sfoglia: 1 kg di farina semolata di tipo granito, 250 g di strutto; per la farcia: 250 g semola, 150 g di mandorle dolci sgusciate, 1 litro di sapa, scorza grattugiata di due arance, trazea per la decorazione. *la sapa può essere sostituita dal miele e il ripieno arricchito da ulteriori qualità di frutta secca. Decorazioni: confettini colorati (trazea e sim.).

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Dimensioni e peso: Modalità di preparazione: per il ripieno si spellano le mandorle dopo averle sbollentate; si lavano e si lasciano asciugare per poter procedere alla loro macinazione. In un tegame si versa la sapa (mosto cotto) e si incorpora lo zucchero, la scorza d’arancia grattugiata e le mandorle macinate. Si amalgama il tutto e si fa cuocere a fuoco lento. Quando inizia l’ebollizione si versa a pioggia la semola e si mescola con cura, lasciando proseguire la cottura a fuoco bassissimo fino a quando il composto si addensa e tende a staccarsi dalle pareti del tegame. Terminata la cottura si lascia raffreddare il conglomerato. Per la sfoglia si mescolano la farina e lo strutto con acqua tiepida, lavorandoli fino ad ottenere un composto sodo e omogeneo. Si tira la pasta sottilissima con un matterello per ricavarne, con la rotella tagliapasta (sa rosinitta e sim.), strisce rettangolari di circa 12-15 cm, larghe 5 cm. Nelle strisce si posiziona un po’ di ripieno, disponendolo in lunghezza; si sollevano i bordi della sfoglia avvicinandoli, ma non unendoli a formare una sorta di canale aperto ripieno, dandogli la forma desiderata. Si dispongono le tiliccas in una teglia e si mettono in forno

moderatamente caldo, lasciandoli cuocere fino a quando la sfoglia avrà assunto una colorazione dorata. Una volta sfornate, si spennella la parte superiore del ripieno con la sapa e si decora a piacimento con confettini colorati. Note: le tiliccas sono un dolce largamente diffuso nella Sardegna centrale e settentrionale e ciascun paese lo confeziona con molteplici varianti, soprattutto nella preparazione della farcia. A Luras, dove si chiamano panigheddos, su pistiddu è di miele, noci e scorza d’arancia. A Benetutti le mandorle del ripieno di sos siddines sono per il 10 per cento amare; in alcuni casi si aggiungeva anche marmellata di mele cotogne (mela chidonza). Nei cucciuleddi de meli in alcuni casi il pane grattugiato viene usato al posto della semola. Non mancano varianti con l’aggiunta di spezie (anice stellato, cannella). Anche la pasta poteva contenere, in aggiunta agli ingredienti di base (semola e strutto), zucchero o uova. Il dolce condivide la relativa struttura (supporto di pasta più un ripieno di pistiddu) con il tipo caschettas (vd. scheda). Circa l’etimologia del nome tilicca e sim. vd. qui a pag. ???.

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Torroni

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Denominazione/i locale/i: torroni Denominazione italiana: torrone Area di diffusione: tutto il territorio regionale. Negli anni ’50, i paesi nei quali il dolce risultava maggiormente diffuso erano Aritzo, Tonara, Guspini e Ales. Attualmente il grosso della produzione si concentra tra il Medio Campidano e le Barbagie. Vitalità dell’uso: uso vivo Occasione: il dolce è consumato in tutte le stagioni dell’anno, ma è particolarmente presente nelle sagre e feste patronali che si svolgono da primavera all’autunno. Forma e caratteristiche: torrone di mandorle, o

Ingredienti: miele, albume, mandorle (o noci o nocciole)

nocciole, o noci. La forma, solitamente quadrangolare, varia a seconda delle pezzature disponibili. Decorazioni: a parte l’ostia che costituisce il rivestimento dei lati superiore ed inferiore del dolce, la decorazione consiste nella porzione di frutta secca (mandorle o noci o nocciole), che, messa da parte durante la preparazione, viene da ultimo posizionata sulla superficie del prodotto (placcatura). Dimensioni e peso: variabili a seconda della pezzatura; i formati più grandi raggiungono gli 8, 10, 15 kg, gli intermedi – solitamente


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confezionati in scatole di cartone – pesano intorno ai 5 kg, i più piccoli, infine, comprendono le barrette (dai 50 ai 250 gr), le scatoline in cartone o in legno (dai 400 gr sino al chilogrammo) e i cosiddetti torroncini (10-11 g). Modalità di preparazione: in un calderone di rame (a Tonara, su cheddàrgiu) si mette a riscaldare a fuoco lento il miele. Una volta completamente sciolto, si aggiunge l’albume d’uovo e, con una pala di legno (sa mòriga), si lo si mescola velocemente fino a che non monta,

rimestando, a fuoco alto ma in modo che non si bruci, dalla parte bassa del calderone. Una volta montato l’albume, il composto viene mescolato più lentamente e si abbassa il fuoco (spargendo la brace, se alimentato a legna, riducendo manualmente l’intensità della fiamma, se prodotto mediante fornello a gas). Quando la consistenza è ottimale (approssimativamente dopo 2 ore, 2 ore e mezza), si aggiunge la frutta secca tostata (eccetto le noci che non occorre tostare). Questa la prepazione manuale. Quando invece


essa prevede il ricorso ad un’apparecchiatura meccanica (sa mòriga oppure sa màchina de is turrones), con la caldaia in rame e intercapedine di acqua o olio, il prodotto viene cotto a bagnomaria, la temperatura è meglio distribuita, ma la durata del processo è superiore (dalle 5 ore e mezza alle 6 ore e mezza a seconda del periodo). A piacere il torrone è aromatizzato con la vaniglia e/o la scorza del limone grattugiata. Una volta cotto, il torrone si estrae con palette di legno, e s’inserisce in teglie o in astucci di legno o nelle cassette di legno, le pareti vengono coperte con carta pergamena fine e ostia per tutti i lati e il composto viene steso all’interno in modo perfettamente omogeneo, a raffreddare. Una volta cotto, il composto viene estratto con palette di legno, quindi steso in modo perfettamente omogeneo all’interno di teglie ovvero astucci o cassette di legno, le pareti dei quali sono già state rivestite con carta pergamena fine e ostia per tutti i lati. Da ultimo, si lascia raffreddare. Note: il primo documento sardo sul torrone risale al XVII secolo, ma è assai probabile che il dolce, di origine iberica (alcuni vogliono sia catalano), fosse diffuso sull’Isola sin dal tardo Medioevo. Nelle fiere i torronai erano soliti accompagnare la vendita del prodotto con il grido “turrone,

turrone, unu soddu su muntone!”: infatti dal taglio dei blocchi avanzavano molti frammenti che, alla lunga, finivano per costituire un mucchio più o meno consistente venduto, specie ai bambini, appunto per un soldo. Ingrediente essenziale per la preparazione, l’ostia moderna è stata introdotta in Sardegna dai i genovesi. In particolare, è l’azienda Tavi, attiva fin dal 1898, a commercializzare ancora oggi le ostie da torrone in tutta l’Isola, vendendole direttamente o tramite grossisti ai torronai sardi. Interessante confrontare, specialmente rilevando l’identità degli ingredienti, la ricetta sarda con quella settecentesca riportata nel Confetturiere piemontese: «Tagliate in piccole fette ben sottili sei oncie di mandorle nettate con acqua calda, poi mettetele in un bacino sopra il fuoco, con un poco di cedro verde grattugiato, e con zuccaro fino; fatele disteccare, rivoltandole sempre con una spatola, quando saran ben disteccate levatele dal fuoco, ed essendo raffreddate, mettetele nel bianco di tre uova, bene sbattuti con zuccaro fino, per far colle mandorle una pasta maneggiabile, e ne farete colle mani delle palle, che metterete di mano in mano sopra dei fogli di carta per farle cuocere nel forno a lento calore. Se avete delle nocciuole potrete mettere tre oncie solamente di mandorle ed altrettanto di nocciole nettate con acqua calda …» (1790, p. 48).

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Zeppole

Denominazione/i locale/i: burte pesadu (Orune), bubusones (Orosei), busones (Posada), cattas (Nuoro, Orotelli, Silanus), catzas (Oniferi), gathas (Lodè, Sarule), gatzas (Ottana), frisgjioli (Sassarese), frisgjioli longhi (Gallura), tzìppulas (Barbagia di Belvì, Barbagia di Ollolai, Mandrolisai, Campidano di Cagliari e Oristano). Denominazione/i italiana/i: zeppole. Area di diffusione: il dolce è diffuso con alcune varianti di forma e denominazione in tutta l’isola. Vitalità dell’uso: uso vivo. Occasione: attualmente questa tipologia di dolce è prodotta quasi esclusivamente durante i festeggiamenti del Carnevale, di cui sono ormai considerate il dolce per antonomasia, tuttavia le ricerche sul campo hanno rivelato l’esistenza di altre circostanze d’uso come le

feste di Natale, Pasqua (Torpè), e in suffragio dei defunti dopo 8 giorni dalla morte o al trigesimo (Lodè). Forma e caratteristiche: se preparate con l’ausilio di un imbuto o un sacchetto si presentano a forma di spirale cilindrica di estensioni e diametro variabili. La lunghezza dipende dall’abilità nel distribuire l’impasto al momento della cottura che, in particolari condizioni, consente di raggiungere quasi 2 metri di estensione. Altre forme sono realizzate in presenza di un impasto più elastico: in questo caso la pasta viene lavorata con le mani e gettata direttamente nell’olio per realizzare sia semplici cordoni rettilinei sia la conformazione a ciambella, di ampiezza variabile (diffusa specialmente nella Sardegna centrale). La consistenza è soffice al tatto mentre la superficie del dolce appena cotto risulta leggermente croccante.

Ingredienti: ½ kg di farina di grano duro, 2 uova, 250 ml di latte, 250 ml di acqua, 25 g lievito di birra, la scorza di 1 limone grattugiata, acquavite (o anice), patate o zucca (opzionale), zafferano (opzionale), zucchero (opzionale), scorza e succo d’arancia (opzionale); zucchero o miele per ricoprire la superficie del dolce già cotto.


Dimensioni e peso: ca. Modalità di preparazione: si amalgamano le uova con la farina, le scorze grattugiate di limone o arancia e l’acquavite, quindi si aggiunge il lievito sciolto nell’acqua o nel latte tiepido. Una variante dell’impasto prevede l’aggiunta di patate (lessate e schiacchiate) e lo zafferano. Dopo aver ben lavorato gli ingredienti si lascia lievitare il composto in un ambiente caldo (solitamente vicino a fonti di calore), coperto con un tessuto di lana per mantenere la temperatura costante. Al raggiungimento del giusto grado di lievitazione l’impasto viene fritto nell’olio bollente a cui, in alcuni casi, si aggiunge una piccola quantità di strutto. La tipica forma a spirale è ottenuta

prevalentemente con l’utilizzo di imbuti o sacchetti di stoffa (in rari casi è possibile trovare chi riesce a modellare le spirali solo con le mani), mentre la variante a forma di ciambella si realizza plasmando il composto prima di immergerlo nell’olio con le mani bagnate nell’acqua o nel latte. In seguito alla frittura il dolce diventa di un colore giallo dorato scuro. Una volta cotte, le frittelle si dispongono sulla carta straccia per eliminare l’olio in eccesso e, infine, si ricoprono con zucchero o si passano nel miele bollente. Si tratta di un prodotto destinato al consumo immediato. Note: prima dell’avvento delle cucine a gas, le zeppole venivano cotte nel camino in grandi padelle disposte sul treppiedi; questa

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operazione richiedeva la presenza di due persone: mentre una, con l’imbuto o con le mani, modellava l’impasto gettandolo nell’olio, l’altra si occupava di tenere il fuoco vivo e aiutava a rigirare la frittella, con l’ausilio di due bastoncini di legno. Per alimentare il fuoco si utilizzavano rametti di cespugli e frasche appositamente raccolti. Alcune intervistate riferiscono l’uso dell’olio di lentischio come alternativa all’olio di oliva (considerato bene prezioso e quindi da risparmiare) o allo strutto. Dopo la raccolta le bacche venivano pestate e bollite con acqua fino a quando tutto l’olio saliva in superficie per poter essere così raccolto con un cucchiaio.

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Questo tipo di lavorazione comportava una seppur minima quantità d’acqua nell’olio che causava schizzi durante la frittura. Per la realizzazione della caratteristica forma a spirale, in mancanza dell’imbuto, tradizionalmente si utilizzava una federa di cuscino su cui si realizzava un foro il cui diametro determinava quello della frittella finale come nelle moderne tasche da pasticcere (sac à poches). Solitamente quando si realizzavano le frittelle se ne produceva una grande quantità per sfamare tutta la famiglia e per donarle ai vicini e parenti. L’abbondante produzione raggiungeva in molti casi una quantità


talmente elevata che non sempre si riusciva a consumare in un sola giornata: perciò nei giorni seguenti, per renderle nuovamente appetibili, venivano infilzate con uno spiedo e riscaldate al fuoco del camino o passate nuovamente nel miele bollente (pistiddare). A Lodè era consuetudine preparare le frittelle in occasione della prima uscita di una puerpera che si recava in chiesa per ottenere la benedizione (incresiare): «Cantu una partoriat prima de sas 40 dies non podiat essire, deviat istare in su lettu ca su partu cheriat fattu, ca sa Madonna est istata 40 dies a s’incresiaret. Essinde dae dommo sua sos genitores li poniant

sos ispitos a ruche in janna e issa nd’essiat chin su pitzinnu. Andaiat a cresia, si firmaiat in sa janna, su priteru beneichiat su pitzinnu e a issa, alluiat sa candela e nde la artzaiat a supra a s’artare e li daiat sa benedissione».1 Con il termine bulthe, burte, catas, gatas, sono indicate in generale le frittelle non lievitate e che non presentano un dolcificante nel composto (consumate abitualmente come pasto), ma che, in funzione delle occasioni, possono divenire un vero e proprio dolce con l’inclusione di lievito e aromi o semplicemente con l’aggiunta, a fine cottura, del miele o dello zucchero sulla superficie.

1

. “Quando una donna partoriva non poteva uscire prima di 40 giorni, doveva rimanere a leto perché il parto voleva fatto, perché la Madonna ha aspettato 40 giorni per ottenere la benedizione. Uscendo di casa i genitori mettevano gli spiedi in croce davanti alla porta e lei usciva col bambino. Andava in chiesa, si fermava davanti alla porta, il prete impartiva la benedizione al bambino e a lei, accedendeva la candela, la portava sull’altare e la benediva”.

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