P A N I Tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna
La pubblicazione di questo volume è stata resa possibile grazie al sostegno del BANCO DI SARDEGNA S.p.A. e della FONDAZIONE BANCO DI SARDEGNA
Collana di ETNOGRAFIA E CULTURA MATERIALE Coordinamento Paolo Piquereddu Coordinamento redazionale Anna Pau
Grafica e impaginazione Ilisso edizioni Progetto grafico copertina Aurelio Candido Referenze fotografiche Le fotografie sono state appositamente realizzate per questo volume da Pietro Paolo Pinna e fanno parte dell’ARCHIVIO ILISSO, al quale appartengono anche le fotografie di Mario De Biasi, Sebastiano Satta, Salvatore Mura, Max Leopold Wagner e le immagini n. 36, 81, 511. Le seguenti foto appartengono agli archivi: n. 1 ARCHIVI ALINARI; n. 42 AR38, 40, 61, 74-75, 111-116, 581, 635 ARCHIVIO MA24 ARCHIVIO FULVIO ROITER; nn. 469, 472-475 ARCHI-
CHIVIO CONTRASTO; nn. RIANNE SIN-PFÄLTZER; n. VIO ISRE.
È vietata ogni ulteriore riproduzione e duplicazione
Un sentito ringraziamento è rivolto ai panificatori, il cui lavoro ha permesso la pubblicazione di questo volume, e a tutti coloro che hanno collaborato a vario titolo, in particolare: il Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde di Nuoro, negli addetti alla gestione e nella persona del direttore generale dell’ISRE Paolo Piquereddu; le due Soprintendenze per i Beni Archeologici della Sardegna, nelle persone dei soprintendenti Francesco Nicosia e Vincenzo Santoni; il Civico Museo Archeologico “Genna Maria” di Villanovaforru nella persona del curatore Ubaldo Badas; il Civico Museo Archeologico alle Clarisse di Ozieri nella persona del direttore Lucrezia Campus; il Museo Civico “Casa Atzori” di Paulilatino nelle persone dei componenti la Società Cooperativa “Archeotour”; il Museo delle Tradizioni Agroalimentari “Casa Steri” di Siddi nella persona del direttore Anna Maria Steri; il Museo Etnografico di Sant’Antioco nelle persone dei componenti la Società Cooperativa “Archeotour”; il Comune di Muravera nella persona del Sindaco Salvatore Piu; la Pro Loco di Olmedo nella persona del presidente Massimo Meloni; la Pro Loco di Ussassai nella persona del presidente Maria Serrau; la Società Cooperativa “Forum Traiani” di Fordongianus; il Comitato del 2005 per i festeggiamenti di San Marco di Lei; il Priore di San Giovanni Battista di Fonni Roberto Marceddu; Marianne SinPfältzer per la premurosa disponibilità; Salvatore Ferrandu per la fondamentale opera di supporto e consulenza relativamente a Thiesi, Cheremule e Bessude; Anna Maria Cabras, Gianluca Corsi, Bianca Moncelsi, Luisa Monne, Giuseppina Rosa e Antonietta Sanna per la preziosa competenza; Angelo Aste, Giovanni Maria Demartis, Anna Pia e Stefano Demontis, Caterina Dessì, Stefania Farris, Ivo Serafino Fenu, Giuseppe Fogarizzu, Simona Frau, Franco Fresi, Silvana Frongia, Graziella Manconi, Salvatore Novellu, Mena Orrù, Giovanna e Pasqua Palimodde, Vincenzo Palimodde, famiglia Piras, Teresa Piu, Luisa Putzu, la Società Cooperativa Teatro “Fueddu e Gestu”, Maria Spissu Nilson, Fulvio Stellino, Venturino Vargiu e Graziella Matta, per il generoso sostegno; Maria Piliu per la consultazione al corredo fotografico della sua tesi di laurea; Maria Pasqua Carta, Giovanna Chessa, Maria Francesca Cocco, Costantino Corongiu, Giovanna Maria Manca, Vittorina Manca, Mariedda Pes, Santeddu Putzolu per la ricerca relativa a Sedilo; il Mulino Sulis di Samugheo; la Panetteria “Da Graziella” di Nuoro.
© 2005 ILISSO EDIZIONI - Nuoro www.ilisso.it ISBN 88-89188-54-5
Indice
7 PANI
DI
SARDEGNA
274 SU CRISPÈSU: ARTE POPOLARE FIGURATIVA IN SU PAN’E SA COJA ORROLESE
Alberto Mario Cirese
E PLASTICA
Lucia Marrocu Ortu
19 LA
CULTURA DEL PANE NELLA
SARDEGNA
TRADIZIONALE
Giulio Angioni
280 LA FÉSTA DE IS BAGADÍUS
A
SIURGUS
Giulio Angioni
52 IL
PANE IN SARDEGNA DALLA PREISTORIA ALL’ETÀ ROMANA
60 GRANO
E PANE NELLA
SARDEGNA
GIUDICALE
Barbara Fois
63 L’ETERNA
329 IL
MOLA ASINARIA: UNA COMPLESSA MACCHINA ANIMALE
Maria Gabriella Da Re
DI GHIANDE: UN’INTERVISTA DI VENTI ANNI FA
Maria Teresa Mazzella
SARDEGNA
E FORME DEL PANE IN SICILIA PER UN POSSIBILE CONFRONTO CON I PANI DELLA SARDEGNA
PANE A LIEVITAZIONE NATURALE: UN ALIMENTO DA RISCOPRIRE
Giovanni Antonio Farris, Manuela Sanna, Maria Cristina Dore, Mariella Dettori
Giannetta Murru Corriga
383 L’EVOLUZIONE IN SARDEGNA:
SAN GIOVANNI
DELLA COLTURA DEL GRANO DURO ASPETTI VARIETALI E QUALITATIVI
Marco Dettori, Mario Lendini
Paolo Piquereddu CANDELARÌA DI
357 PAROLE
373 IL
242 PERCHÉ L’ORZO DIVENTI PANE. I SAPERI FEMMINILI PERDUTI
253 LA
LESSICO DEL PANE
Antonino Cusumano
Gerolama Carta Mantiglia
PANE DI
FARINA E PANE NELLA MEDICINA POPOLARE
Nando Cossu Giovanni Lupinu
Margherita Coppola
248 IL
PANE NARRATO DAL POPOLO
340 GRANO, 343 IL
MOLE ASINARIE DECORATE
MAIS IN
PANE RACCONTATO
Chiarella Addari Rapallo
230 LA
239 IL
E CERIMONIALITÀ NEI PANI PER I BAMBINI
Roberto Randaccio
Giannetta Murru Corriga
236 PANE
VILLAURBANA
289 QUOTIDIANITÀ
315 IL
PANI DELLA TRADIZIONE
233 LE
IL PANE A
Anna Lecca
CONTESA DEL GRANO
Francesco Manconi
67 I
285 FARE
Mirella Tatti, Sebastiano Chighini
Tatiana Cossu
391 IL
ORGOSOLO
PANE FRA TRADIZIONE E MERCATO
Sergio Lodde
Paolo Piquereddu
259 IL
PANE DEI POVERI DI
SAN COSTANTINO
Maria José Meloni
262 I
PANI E LA FESTA DI
RIPROPOSTA DELLA TRADIZIONE: CONTINUITÀ E NUOVE PROSPETTIVE
Vladimira Desogus
SAN MARCO
A
LEI
Franca Rosa Contu
270 SU PANE ’E SANTU TILIPPU Gian Franco Farina
402 LA
DI
CUGLIERI
410 INDICE
DELLE LOCALITÀ E DEI PANIFICATORI
412 BIBLIOGRAFIA (a cura di Maria Teresa Mazzella) 418 AVVERTENZE
REDAZIONALI
Pani di Sardegna Alberto Mario Cirese
Felice fu, davvero, quel momento in cui scoprii, scoprimmo, i pani sardi: bellezza, e non soltanto cibo, sia pur prezioso. E di lì nacque lo scritto Per lo studio dell’arte plastica effimera in Sardegna che più oltre si ristampa. Alla fine degli anni Cinquanta, mezzo secolo fa, gli studi sulle tradizioni sarde erano certo già vivi anche in Sardegna, ed anche con frutti egregi. Non c’era ancora però, nell’isola, un insegnamento universitario di Storia delle Tradizioni popolari: il primo venne attivato infatti a Cagliari, facoltà di Lettere e Filosofia, nel dicembre del 1957. Iniziò allora la mia pendolarità sarda, poi durata quindici anni. E subito mi parve che – fermo restando il carattere generale dell’insegnamento: tutte le tradizioni e non quelle sarde soltanto – l’incarico imponesse anche un preciso dovere che dirò isolano: progettare e realizzare rilevamenti e spogli sistematici che, anche con l’impegno degli studenti, dessero basi documentarie più ricche e salde agli studi sulle tradizioni sarde. Venne così configurandosi il progetto che chiamai Repertorio e Atlante Demologico Sardo, e che dal 1964 ebbe nel BRADS il suo Bollettino. Strumento principe del Repertorio furono ovviamente i questionari, avviati fin dal 1960 con naturale varietà di oggetti. Tra gli altri ci fu anche il pane: un tema che all’inizio fu presente per ragioni sistematiche e non per suo proprio spicco o rilevanza; inoltre il questionario – redatto nel 1965 ed intitolato Tipi e le denominazioni del pane – considerò il pane soprattutto in quanto prodotto fabrile e in quanto cibo: tipi di farina e di lievito, modi di preparazione e di cottura, e simili. Tuttavia subito ci si impose, senza però che ce ne avvedessimo, quella che poi ebbi a chiamare la “biplanarità” dei pani, e cioè il loro valere ed agire come segno oltre che come alimento. Nel questionario infatti ci furono anche domande sulle “forme”, passando così all’altra faccia: dal pane che nutre al pane che dice. Ovviamente, per documentare le forme, il questionario chiese che i rilevamenti fornissero anche fotografie e disegni. E furono appunto le fotografie – primissime quelle dei pani di San Sperate procurate da Assunta Schirru e pubblicate in parte nel primo numero del BRADS, 1966 – che dettero alla ricerca una decisiva svolta: in pura levità di forme,
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1. Cottura del pane, Tratalias, 1914-15 (foto Vittorio Alinari).
i pani di Sardegna ci abbagliarono, il tema divenne centrale, e prese il via un fervido lavoro collegiale, donne nelle loro case a dar vita all’arte, e studenti e studentesse in esercitazioni e tesi. Così negli angusti armadi a vetri del nostro corridoio, in Facoltà, cominciarono ad allinearsi, prima, ed a stiparsi poi, le trine, i merletti, i trafori, i dischi, i rami, i pastorali, le croci di pane: una raccolta preziosa che, dopo averla per anni curata ed accresciuta, Enrica Delitala ha infine donato al museo dell’ISRE di Nuoro perché, fuori dagli stipi, goda della luce e dello spazio cui ha diritto. Dal fervore della scoperta nacque anche un libro, Plastica effimera in Sardegna: i pani, che Enrica Delitala, Chiarella Rapallo, Giulio Angioni ed io pubblicammo nel 1973 con la cura grafica di Tonino Casula: quasi cinquanta bellissime immagini di pani, splendidi. E per quel libro (ristampato poi nel 1976 ma ormai, credo, introvabile) scrissi una nota, Per lo studio dell’arte plastica effimera in Sardegna, che cronologicamente si trova a coincidere con il chiudersi della mia pendolarità sarda. Ma, in sé e nel mio itinerario di studio, quella nota non chiuse: aprì. Di lì a poco la ristampai – Arte plastica effimera: i pani sardi, 1977 – e in un Poscritto dissi di quella “bivalenza o bifunzionalità o biplanarità” che i pani di Sardegna mi avevano rivelato con il loro “essere per un verso alimento o sussistenza e per l’altro forma e segno”. E furono proprio questi concetti che, riverberandosi sulle considerazioni museografiche, mi portarono ad associare gli “oggetti” e i “segni” fin nel titolo stesso del libro in cui ristampai la nota: Oggetti, segni, musei. Ed in appresso altrettanto avvenne, nei contenuti oltre che nel nome, sia negli scritti dedicati a Segnicità, fabrilità, procreazione, tra il 1979 e il 1984, sia in quelli che, nel 1994, Pier Giorgio Solinas e gli altri amici senesi riunirono in Il dire e il fare nelle opere dell’uomo. Tornando oggi su queste remote cose, mi accade di considerare che la mia parabola sarda, 1957-72, si aprì e si chiuse con l’incontro (anzi la scoperta, per me) di due singolari e affascinanti specializzazioni culturali dell’isola. La prima fu quella del lucido gioco metrico di mutos, muttettus, trintasex, chimbantachimbe ed altro, su cui tanto felice tempo spesi fin dai miei primi giorni sardi. La seconda fu poi quella del nitido svariare dei 7
nel mondo euromediterraneo. Un tempo, sia da dentro che da fuori dell’isola, era ritenuta un luogo di differenza molto spesso, prevalentemente negativa, anche dal punto di vista dei modi locali dell’alimentazione. Da qualche decennio l’isola gode di considerazione positiva, soprattutto in quanto luogo turistico, e in più pensato non di massa, a immagine di luoghi come la Costa Smeralda, che quel vecchio contadino chiamerebbe forse luoghi del companatico. Dal punto di vista delle caratteristiche basilari dell’alimentazione, la Sardegna dunque è abitata “da sempre” da mangiatori di pane. Eppure, anche dal punto di vista dei “fondamenti” dell’alimentazione basata sul pane e su altri derivati del grano, la differenza della Sardegna in Europa è certamente un dato e una constatazione, ancora oggi, oltre che un sentimento soggettivo della maggior parte dei sardi. Vaga diversità, forse soprattutto come luogo di naturalezza o naturalità, genuinità, arcaicità, primitività, preistoria vivente, luogo incontaminato, remotezza ed esotismo; diversità come atemporalità o come temporalità non lineare e non irreversibile bensì ciclica e che si ritrova e si rinnova nella naturalità delle stagioni e delle generazioni; e poi come silenzio, solitudine e sublime dei primordi, nei suoi spazi selvaggi e incontaminati, e dunque come vacanza dall’urbano odierno, in una natura idillica e in una società che appare ancora ricca di colore locale anche per i modi dell’alimentazione, dove per arrivare al pane, e a ciò che serve per farlo coi giusti ingredienti e con le belle forme, si deve abbandonare molto dei miti dell’originalità e dell’arcaicità incontaminata. Anche dal punto di vista della cultura alimentare la Sardegna è stata considerata, fino a pochi decenni addietro, sia in modo molto positivo, sia in modo drasticamente negativo, e i costumi alimentari, insieme con l’insularità, sono stati a volte annoverati tra i mali tipici dell’isola, che quando erano in comune con altre terre di queste latitudini erano (e in parte sono ancora) considerati più gravi e tipici che altrove in Europa: malaria, talassemia, favismo, echinococcosi, arretratezza, analfabetismo, miseria, banditismo, precarietà alimentare… e, a proposito proprio del pane, la Sardegna era il luogo dove si mangiava pane di ghiande, o dove si mangiava pane di terra, insomma dove si panificava impropriamente. A fare un inventario delle lodi e delle detrazioni del pane sardo negli ultimi due o tre secoli, quasi sicuramente prevalgono però le lodi, persino le esaltazioni. E le detrazioni appaiono facilmente esagerazioni o equivoci, come la nomea dei sardi mangiatori di terra, che si usava in effetti nella catena operativa della confezione del “pane” di ghiande, tipico dell’Ogliastra, dove pure rimane più tipico e fondamentale il pane di grano, e secondariamente il pane d’orzo, come nel resto della Sardegna, che se si identifica nei mediterranei mangiatori di pane, si diversifica dai mangiatori di pane di altri cereali che non siano il grano e, al peggio come per guerre e carestie, l’orzo. 20
La storia stessa, tutta la storia della Sardegna se non anche la sua preistoria, può essere riordinata in una sequenza che veda il grano e il pane al centro delle sue vicende, a cominciare dal suo essere “granaio” feniciopunico e romano. Nell’isola il pane resta anche nel presente un elemento basilare della vita materiale, in quanto “base” dell’alimentazione, ma anche della coscienza di sé, o dell’identità, se è vero che il pane, nei suoi tipi e nelle sue forme e occasioni, è sentito come tale sia per i sardi nel loro insieme, sia per singole zone all’interno dell’isola. Infatti la Sardegna, dal punto di vista di questo suo alimento basilare e cibo per antonomasia, si potrebbe non troppo tendenziosamente suddividere nella zona centro-meridionale della pagnotta e nella zona centro-settentrionale del pane a sfoglia più o meno sottile e croccante, che è invalso l’uso di chiamare pane carasau. E anche in fatto di pane, o meglio di pani, come accade per la situazione linguistica e per altri aspetti della vita dei sardi, si possono identificare certe zone “ibride” per lo più intermedie, che magari possono vantare la ricchezza della compresenza dei due modi della panificazione tradizionale sarda, di quella meridionale denominabile del civràxu e coccói e anche di quella centrosettentrionale denominabile del pane carasau. I modi dell’alimentazione sono stati spesso messi in correlazione con l’indole dei popoli, secondo l’adagio che si è ciò che si mangia. Oggi che anche ciò che in Sardegna si è detto a lungo fatalismo sta per diventare cosa del passato, svanito insieme con il suo corollario che il fatalismo fosse retaggio della stirpe, eredità genetica, o anche, con ciò che si è diventati a causa di ciò che si è mangiato, o mangiato in modo insufficiente: i sardi sarebbero allora mangiatori di pane come tutti i mediterranei, ma con le stigmate della carenza, della scarsezza del pane, pur essendo “granaio” dei vari grandi e piccoli imperi mediterranei. Nella mutazione dell’atteggiamento dei sardi verso il mondo e la vita, e dei non sardi verso l’isola, certamente ha avuto la sua parte la fine di mali storici come la povertà, che è prima di tutto e soprattutto scarsità del pane. Il pane a sufficienza per quasi tutti, il pane in senso letterale e non indicante la parte per il tutto perché il pane a sufficienza è già tutto, o quasi, rende difficile oggi la denigrazione indiscriminata del mutamento di questi ultimi decenni, mutamento che se si vuole vedere in positivo è perché anche qui è finita la millenaria generalizzata precarietà alimentare, la miseria materiale tradizionale, il pane scarso in pace e in guerra, le male annate e le carestie ricorrenti e cicliche, rese più tragiche dall’isolamento. Difficile non vedere le conseguenze dell’isolamento lungo millenni di precarietà alimentare, nonostante l’isola sia stata per lo più piuttosto al centro che alla periferia di traffici che in misura importante o addirittura fondamentale sono 19-20. Lavori nell’aia, Nuoro, ante 1908 (foto Sebastiano Satta).
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estivo, e quindi un po’ di vitamine; qualche uliveto, e quindi un po’ di grassi vegetali dall’olio d’oliva. L’abbondanza di pascoli permanenti e della pastorizia soprattutto ovina non deve però ingannare sul fatto che la consumazione della carne (d’agnello, di maiale, di pecora) era piuttosto secondaria, per lo più festiva, così come secondaria, rispetto al pane, era pure a volte, a parte i periodi di grande penuria, in una terra di pastori, la consumazione del formaggio e di altri latticini; e nell’interno non era frequente il pesce, in un’isola con scarse tradizioni pescherecce e marinare, se non nelle peschiere delle lagune costiere intorno a Cagliari e a Oristano. Fino a qualche decennio fa, pane e formaggio e un bicchiere di vino erano proverbialmente il pasto ideale di un giorno feriale in campagna, per il contadino e per il pastore, pane e minestra la cena ideale casalinga, seduti a tavola, minestra di brodo di carne e carne bollita o arrosto erano il pasto tipico della domenica con tutta la famiglia riunita a tavola imbandita, e tanto meglio imbandita per le feste: sempre però con grande abbondanza di pane, senza il quale il pasto non era normale. Non per nulla in tutta la Sardegna la confezione del pane è stata anche un’arte plastica di notevole interesse estetico,17 di grande e puntigliosa specializzazione femminile. Certamente il formaggio, per lo più secco e stagionato, è “da sempre” uno dei principali companatici, se
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non il principale, insieme con la salsiccia, col lardo e secondariamente col prosciutto del maiale allevato in casa. Se il sistema sardo di coltivazione, allevamento e alimentazione di tipo prettamente mediterraneo prevede il grano al centro di tutto, pone il formaggio in posizione preminente anche come aspirazione alla normalità alimentare non solo in tempi di penuria. Abbiamo visto che erano importanti anche le leguminose, le carni, i grassi vegetali e i pochi grassi animali. Bisogna insistere sulla sapienza alimentare e dietetica del contadino e del pastore mediterraneo che in Sardegna si è specializzata in modi che presentano forme collaudate di funzionamento con margini di tolleranza. Il tutto costituiva più in generale un sistema complesso di uso sagace della scarsità, specialmente alimentare, basato anche sul riciclaggio puntiglioso dei residui di ogni tipo di uso e consumo. La funzione del formaggio, del latte e dei latticini si capisce solo all’interno di un sistema siffatto. Come già accennato, nell’immaginario tradizionale pane e formaggio e un bicchiere di vino sono il pasto ideale campestre dei giorni di lavoro, ma non solo. Come per la salsiccia, ai bambini si insegnava a mangiare il formaggio lentamente, a piccoli pezzi con grandi pezzi di pane. E i maschi imparavano presto la tecnica del taglio contemporaneo del pane e del formaggio con il coltello a serramanico, senza altro supporto o posata (a fitta
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39. La lavorazione della pasta, Campidano (foto Clifton Adams in National geographic, gennaio 1923). 40. La lavorazione della pasta, Barisardo, anni Cinquanta (foto Marianne Sin-Pfältzer). A differenza dei paesi dell’interno, l’impasto, qui come in Campidano, avviene su un apposito tavolo, stretto e non troppo alto, sa mesa po fairi su pani, nel centro Sardegna chiamato sa mesa ’e suíghere. 41. La cottura del pane, Tonara, 1955 (foto Mario De Biasi).
in gorteddu, a fetta in coltello), non solo in campagna ma anche in casa o in trattoria. Se il pane è la base, il formaggio è il companatico più usuale, anche più della salsiccia e molto più del prosciutto, mentre il lardo oggi è scaduto molto. Si nota che mentre nuove tradizioni, insieme a nuove varietà di formaggio, si stanno imponendo, così che per esempio una scelta di formaggi tende oggi a chiudere i pasti alla francese, negli spuntini di vario tipo e occasione, anche se il pane può mancare, il formaggio non manca, anzi si moltiplica in tipi e qualità, e anche in forme, a volte quasi a imitazione delle mille forme del pane. 43
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270. Pane ’e gherda, 26 cm, Budoni. In tutta la Sardegna si realizza il pane con i ciccioli di maiale, solitamente durante i mesi invernali in occasione della macellazione del suino domestico e quindi della lavorazione delle carni. 271. Prazidedda cun cipudda, 20 cm, Muravera. 272. Stripiddi o civargiu ’i patata, 19 cm, Ussassai. 273. Stripiddi o civargiu ’i cipudda, 21 cm, Ussassai. 274. Pani cun ghedras, 15 cm, Tramatza. Si prepara per la notte di Natale. 275. Prazidedda cun gedra, 22 cm, Muravera. 276. Stripiddi o civargiu ’i erba, 19 cm, Ussassai.
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467-468. Cohone ’e vrores, h 38 cm, Ø 32 cm, Fonni. 469. Cohone ’e vrores, fine anni Venti (foto Guido Costa). Questa fotografia è stata pubblicata da Salvatore Cambosu in Miele amaro.
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Su pane ’e Santu Tilippu di Cuglieri Gian Franco Farina
Il connubio, sempre strettissimo in Sardegna, fra religiosità e panificazione, offre degli esiti particolari nel piccolo paese di Cuglieri, che ha sempre unito la sacralità delle sue tradizioni alla produzione e benedizione del pane. Durante la rievocazione dell’Ultima Cena nel Giovedì Santo, la festività di Sant’Antonio da Padova o di Sant’Agata è usanza secolare benedire il pane, donato il più delle volte da fedeli e devoti che hanno ottenuto una grazia o intendono sciogliere una promessa. Diverso è invece il caso di una solennità che conserva ancora intatto l’antico legame, biblico e cristiano, del pane con la sua arcaica simbologia di alimento divino: si tratta della ricorrenza di San Filippo Benizi, un frate vissuto nel Duecento in Toscana ed appartenente all’Ordine dei Servi di Maria. Fu per mezzo dell’opera di proselitismo condotta dai Serviti, intorno alla prima metà del Cinquecento, che il culto di San Filippo giunse a Cuglieri, grazie al tramite di una fervente Marchesa del paese, Donna Lucia Zatrillas, alla quale si deve la fondazione del Convento di Cuglieri – oggi in disuso e riutilizzato per l’insediamento di uffici pubblici – e forse del santuario noto con il nome di Chiesa della Madonna delle Grazie. Se è vero, come ci restituiscono i resoconti del periodo, che già fin dopo la morte di Filippo Benizi si cominciò a benedire il pane e l’acqua, si deve supporre che il rito della panificazione legato al nome del Benizi risalga a Cuglieri proprio al periodo di insediamento della prima comunità dei Serviti, avvenuto dopo il 1540. I testi più antichi che parlano del santo – in primis la Legenda de origine Ordinis e la Legenda beati Philippi – riportano, fra i numerosi miracoli, il cosiddetto “Miracolo del Convento di Arezzo”, che potrebbe ricondurre alla tipologia di pane prodotta a Cuglieri per la festività del 23 agosto: «Durante la visita del convento di Arezzo (in quel momento la città era in lotta con Firenze), Filippo trovò i frati che, a corto di viveri, potevano a stento sostenersi. Durante una particolare preghiera del santo, si sentì bussare alla porta del convento: davanti all’uscio si trovarono – senza sapere chi le avesse recate – due ceste di pane bianchissimo».1
495. Marca per il pane ’e Santu Tilippu, piombo, 4 cm, Cuglieri.
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496. Pane ’e Santu Tilippu, 4 cm ciascuno, Cuglieri. I piccoli pani, benedetti il 22 agosto, il giorno seguente sono distribuiti alla popolazione di Cuglieri dai soci del Comitato di San Filippo Benizi.
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in tanto ella coglieva un pretesto per uscire nell’orto … Invece dovette rientrare e riprendere a gramolare la pasta, e quando il pane fu cotto dovette pulirlo e raschiarlo con una spazzola ed un coltello. Ad un tratto avvicinò il coltello caldo alle labbra e sentì un brivido, sembrandole che Priamo la baciasse: chiuse gli occhi ed ebbe il desiderio di ritentare la prova, ma subito s’accorse che peccava, e per punirsi lasciò a lungo il coltello sul pane caldo e poi lo fissò così scottante sulle labbra.6
GIUSEPPE DESSÌ (Cagliari 1909-Roma 1977) Laureatosi in lettere a Pisa, per molti anni è stato provveditore agli studi e ha lavorato presso l’Accademia dei Lincei a Roma. Fin dagli esordi i suoi racconti e i suoi romanzi hanno ricevuto l’apprezzamento della critica e del pubblico. Nel 1939 furono pubblicati i racconti La sposa in città, a cui seguirono Michele Boschino (1942), I passeri (1955), L’isola dell’angelo e altri racconti (1957). Nel 1962 vince il Premio Bagutta con il romanzo Il disertore. Nel 1972 con Paese d’ombre vince il Premio Strega.
da La via del male (1896-1916) Sabina aveva lasciato il servizio, e aiutava le sue ricche parenti a fare il pane e i dolci di pasta, sapa e uva passa, che ogni buona massaia nuorese non manca di preparare per la festa di Tutti i Santi. Fin dall’alba Maria accese il forno, preparò la farina lievitata, le mandorle, la sapa e il miele; poi venne Sabina e tutte insieme, le due cugine e zia Luisa, gramolarono la pasta inginocchiate per terra intorno ad una tavola bassa. Zia Luisa sudava per lo sforzo, le due cugine chiacchieravano e ridevano, ma non risparmiavano i loro polsi, dimenandosi avanti e indietro, con le cocche dei fazzoletti rigettate al sommo della testa.7
da Paese d’ombre (1972) … lei si era chiusa nella “stanza della farina”. Separava la crusca dal cruschello e dalla semola, facendo scorrere lo staccio sui lunghi staggi di castagno ben levigati. Lo riempiva di farina grezza con la paletta di legno, poi afferrava saldamente lo staccio con le sue mani forti e agili, lo attirava a sé, lo respingeva imprimendogli un moto rotatorio, e lo staccio, quasi animato di vita propria, appena sfiorato dalle sue dita che mantenevano attivo il movimento iniziale, andava avanti e indietro, frullava come una trottola con un trepestio ritmato e veloce, vuotandosi rapidamente.9
da Canne al vento (1913) Donna Ester lavava il grano, prima di mandarlo alla mola, immergendolo entro un vaglio nell’acqua d’un paiuolo: le pietruzze rimanevano tutte in un angolo, ed ella dava un balzo al vaglio per cacciarle via tutte assieme. Era molto polveroso e pietroso, il grano; era l’ultimo del sacco che loro rimaneva.8
PARIDE ROMBI (Calasetta 1921-Napoli 1997) Magistrato ad Iglesias, Sondrio e Roma; ha lavorato all’Ufficio legale della Presidenza della Repubblica. Ha vinto, nel 1952, con il romanzo Perdu, la prima edizione del Premio Grazia Deledda. Ha tradotto in campidanese l’Antigone di Sofocle (1983) ed è autore di numerosi racconti sulla Sardegna.
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594. Francesco Ciusa, Il pane, 1907, bronzo, 68,8 x 49 x 105 cm.
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Il pane fra tradizione e mercato Sergio Lodde
Prodotti tradizionali agroalimentari e sviluppo locale Negli anni recenti la consapevolezza del ruolo delle risorse locali sia nel senso materiale che cognitivo del termine è cresciuta considerevolmente fra gli studiosi che si occupano dei processi di sviluppo locale ma anche fra i policy makers. Non è difficile trovare tracce di questa consapevolezza (almeno sul piano dei proclami) in vari programmi di sviluppo locale come il Leader, nelle misure dei programmi operativi regionali o nei piani di sviluppo delle Comunità Montane. La valorizzazione delle produzioni tipiche, anche grazie alle sinergie sviluppabili con il settore turistico, è divenuta una parola d’ordine molto diffusa. Ciò si deve in parte ai deludenti risultati delle politiche di industrializzazione nel Mezzogiorno e all’esigenza di trovare soluzioni diverse dalla grande industria di provenienza esterna, ma anche alla convinzione che le produzioni locali possano giocare un ruolo centrale in un modello di sviluppo alternativo. C’è del vero in tutto ciò, le potenzialità di sviluppo delle produzioni tipiche sono oggi indubbiamente superiori che in passato per diversi motivi. In primo luogo negli anni recenti l’attenzione dei consumatori non locali per questo tipo di prodotti è aumentata considerevolmente. I prodotti tipici soddisfano bisogni di diversificazione e personalizzazione dei consumi, soprattutto alimentari, nonché di genuinità e qualità. Con la standardizzazione dei modelli di vita e dei prodotti di massa, unita ai timori dei consumatori per le sofisticazioni introdotte in alcuni di essi, sono emerse esigenze di riconoscibilità dei prodotti e di informazione sulla loro origine. Inoltre la crescita del reddito e la maggiore disponibilità a pagare per consumi alimentari raffinati e per soddisfare bisogni differenziati hanno attenuato l’incidenza di quello che ha rappresentato finora il principale problema di competitività dei prodotti tipici: il prezzo elevato, dovuto alle tecnologie produttive prevalentemente artigianali e alle piccole dimensioni delle imprese. Il fattore di competitività più importante diventa quindi non tanto la riduzione dei costi, bensì la capacità di soddisfare bisogni differenziati e qualitativamente sofisticati. 653
653. Vetrina di una panetteria, Nuoro.
Hanno avuto importanza anche la maggiore mobilità della popolazione e lo sviluppo del turismo, stimolando l’interesse per culture diverse e per i prodotti ad esse legati. L’interesse del consumatore-turista si rivolge soprattutto all’identità e tipicità dei beni. Vanno considerate inoltre la rivalutazione delle tradizioni locali, collegata alla rinascita del localismo in molti aspetti della vita culturale, che ha favorito la riappropriazione della tradizione di appartenenza ma anche di tradizioni diverse dalla propria, e lo sviluppo di una coscienza ecologica che accresce la preferenza per il prodotto artigianale più naturale e genuino. Il principale effetto di questi mutamenti è l’apertura di nuovi spazi di mercato per i prodotti tipici, che sono ritornati sul mercato dopo essere scomparsi nei primi decenni del dopoguerra, soppiantati dalla produzione di massa a basso costo. Si tratta di cambiamenti molto importanti. Da un lato sono cresciute le possibilità di superare i confini del mercato locale, troppo piccolo per sostenere un significativo processo di espansione di queste produzioni. Dall’altro le caratteristiche della domanda dei mercati esterni (e non solo di quelli ma anche del segmento turistico della domanda locale) sono cambiate in senso favorevole, privilegiando la tipicità e la qualità dei prodotti rispetto al prezzo. Ciò non deve indurre, tuttavia, a ritenere che la soluzione dei problemi dello sviluppo regionale stia tutta qui e nemmeno prevalentemente qui. Esistono casi di prodotti tipici che hanno avuto un ruolo molto rilevante nello sviluppo di un’area (pensiamo per esempio al parmigiano reggiano o ai vini di Bordeaux) ma si tratta di esperienze abbastanza particolari. Ciononostante le produzioni radicate nella cultura locale possono rappresentare un tassello non marginale dello sviluppo socio-economico regionale a condizione che si affronti il problema con una conoscenza adeguata degli aspetti rilevanti e senza aspettative miracolistiche. Gli aspetti più importanti che caratterizzano questi settori sono due: l’ampliamento dei mercati e l’innovazione tecnologica (nonché l’interazione fra di essi). Il mercato locale è troppo limitato per sostenere la crescita di queste produzioni, è necessario quindi superarne i confini e aprire sbocchi su mercati più ampi, nazionali 391
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del panificatore: «La pasta, la sentiamo con le mani! Molte cose le facciamo a mano, i panifici industriali invece no! … Non è più come una volta, adattiamo la tradizione ai macchinari, e manteniamo la lavorazione artigianale. Ma se non adoperassimo il legno, in inverno, la lievitazione si potrebbe fermare, e se non adoperassimo i teli di cotone e lino, la pasta posta su qualsiasi altro materiale si appiccicherebbe». Anche il lessico dei panificatori conserva, in parte, un sapore di arcaicità: quotidianamente, infatti, si prepara sa mardighe per il giorno seguente, e ci si dedica a lavori quali quello dell’inturtare (impastare), incannedare (stendere), infurriare e còere (infornare e cuocere), fresare (aprire). Pertanto, abilità e segreti del mestiere acquistano valore economico e culturale, ed anche la figura del panificatore acquista prestigio: prestigio sociale, quando sentiamo parlare di maestri panificatori; prestigio nel mercato se ricordiamo quanto è ricercata la figura dell’artigiano panificatore che può vantare “conoscenze e abilità di matrice tradizionale”. Così, accanto alla specificità di un pane e ai saperi che lo plasmano, oggi si tende a dare importanza anche ai custodi di quest’arte. Le loro abilità e conoscenze, apprezzate e ricercate nel mercato, fanno dei panificatori dei veri e propri maestri, individuabili in quelle che potremmo definire “nicchie di reclutamento”. Sono famose le zone dell’hinterland cagliaritano (Quartu Sant’Elena, Sin-
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nai e Settimo San Pietro ne sono esempio) e del nuorese, area che conta un cospicuo numero di panifici rinomati tra i quali ricordiamo quelli di Fonni, Bitti, Oliena, Ollolai e Dorgali. A queste “nicchie” attingono anche i grossi ipermercati isolani che vi riconoscono personale competente, di consolidata esperienza, cui affidare l’organizzazione e la gestione del comparto panetteria, destinato all’attività di produzione oltre che di vendita. Si tratta di una produzione variegata che tiene conto della tradizione isolana, nelle sue diverse specificità, e che si mostra sempre più sensibile all’offerta di prodotti standard, così che alle peculiarità locali si affiancano ricette convenzionali su scala nazionale. Se anche nella grande distribuzione le conoscenze dei panificatori si aprono a forti innovazioni di carattere “globale”, queste non prevalgono su quelle tradizionali. È un globale dal profumo antico, si potrebbe dire paradossalmente. Un globale anche locale, quindi, considerato che molte delle peculiarità enogastronomiche isolane trovano spazio in un concentrato spazio espositivo e di vendita come quello degli ipermercati. A chi si reca, infatti, nella panetteria di un Centro commerciale appare un’ampia gamma di scelta, uno “scenario di sensazioni e 663-664. Fasi di lavorazione del pane carasau in un panificio di Ollolai (foto Vladimira Desogus).
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percezioni” fatto di commistioni. Odori, colori, forme e sapori rimandano a tempi e culture differenti: al tempo passato, è il caso del pane civraxu o del pane coccoi, e a tradizioni altre, come nel caso del pane baguette, del pane arabo e del pane condito. I grandi e medi panifici si adeguano ai tempi “moderni” anche nell’offrire diverse pezzature del prodotto, cercando di coniugare gusti antichi, come quello del civraxu, con pani facilmente consumabili e quindi di piccole dimensioni, come il pane bocconcino, che, confezionato secondo la ricetta del famoso pane Sanluri è molto apprezzato nella ristorazione ed è conveniente per un genere di clientela come quella dei single. L’ipermercato, luogo di contaminazioni, è anche, in un certo senso, luogo della “deterritorializzazione delle tipicità”; come suggerisce il fatto che il pane del tipo Sanluri è prodotto e venduto nell’ipermercato Carrefour di Quartu Sant’Elena, o, ancora, che in Marmilla si produce carasau (cosa che non manca di suscitare malcontento e sentimenti di espropriazione fra i panificatori del nuorese). Gli ipermercati, quotidianamente, si riforniscono dai panifici artigianali per alcuni tipi di pane di semola e pasta dura, la cui produzione in proprio richiederebbe tempi di lavoro troppo lunghi. In certi periodi dell’anno, inoltre, poiché l’offerta non soddisfa la domanda, acquistano dagli stessi panifici artigianali
una più ampia varietà di pani, che, imbustati negli ipermercati, sono tuttavia accompagnati da etichette che ne indicano il luogo di produzione. La grande distribuzione si serve di macchine, le più avanzate tecnologicamente. Alla forza delle mani e delle nocche che lavoravano l’impasto, spongendi e ciuexendi, subentrano macchine che ne imitano i movimenti: le cosiddette impastatrici a spirale (per impasti morbidi) e quelle a braccia tuffanti (per impasti più duri). I forni avviati durante le prime ore del mattino trovano sosta la sera, mentre le celle di fermalievitazione conservano durante la notte i pani da portare in cottura il giorno seguente, con l’avvio del primo turno. Interessante è l’organizzazione degli spazi operativi, di esposizione e vendita. I laboratori di produzione, realizzati nel pieno rispetto di ferree norme d’igiene, sembrano voler ridurre la distanza dai clienti: progettati in “trasparenza”, realizzati con pareti di vetro che lasciano diffondere profumi appetitosi, trasmettono senso di “chiarezza” e “pulizia”, caratteristiche che devono concorrere alla creazione di un “buon prodotto”. Il cliente “acquista fiducia” perché può assistere alle diverse fasi di lavoro, dall’impasto alla cottura, dalla pesatura alla messa in vendita. La trasparenza degli spazi e del lavoro funziona dunque come ulteriore garanzia per la vendita di un buon prodotto. Negli ipermercati, dicono i responsabili di settore, «i costi sono leggermente più bassi della
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