Toyota presenta Nuovo
Rav4
autocritica auto critica
Vi aspettiamo per una prova anche il sabato.
DOPO IL DIVORZIO TRA LA FIAT E LA GENERAL MOTORS. I TEMPI DELLE GRANDE ALLEANZE E QUELLI DELLE INTESE INDUSTRIALI. PERCHÉ OGGI - TRANNE IN CINA - SI PENSA IN PICCOLO. GLI ACCORDI INCROCIATI DEI GRUPPI AUTOMOBILISTICI TRA STORIE DI PASSATO PRESENTE E FUTURO
SCENEDAMATRIMONI Marzo 2005
Supplemento al numero odierno de il manifesto
IN QUESTO NUMERO
[5] MARCHIONNE I CONTI IN TASCA di Luca Ciferri
FRANCESCO PATERNÒ
COSÌFANTUTTI L’INDUSTRIA ADELL’AUTOSTERZA
[7] LA FIAT ALL’ULTIMA PARTITA di Loris Campetti
[10/11] TRA PUBBLICO E PRIVATO IL CASO CINESE di Guglielmo Ragozzino
[15] SAAB VOLVO IL PREZZO DELL’IDENTITÀ di Carmelo Bongiovanni
[17] IL DESTINO DELLE MIGLIORI MATITE di Silvia Baruffaldi
[19] L’IBRIDO CHE AVANZA PER FORZA di Marina Terpolilli
[21] KOLIN ALLEANZA MODELLO di Massimo Tiberi
[22] L’INNOVAZIONE A DUE RUOTE di Luciano Lombardi
[23] MOTO COME CI SI COMPRA di Bruno Di Caprilia
il manifesto direttore responsabile Sandro Medici direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo supplemento a cura di Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia immagine di copertina di Maurizio Ribichini stampa Sigraf srl Via Vailate 14 Calvenzano [BG] chiuso in redazione: 16 marzo 2005
autocritica • il manifesto • [2]
MOTO ALL’ULTIMA ORA
Q
ualcuno in Fiat lo dice senza virgolette: sì, a Sergio Marchionne piacerebbe fare come Carlos Ghosn. Marchionne è l’amministratore delegato del gruppo Fiat e di Fiat Auto. Un doppio incarico che si dà nel febbraio scorso per una missione da molti considerata impossibile: salvare l’auto torinese dopo il divorzio dalla General Motors. Ghosn, tra il 1997 e il 1999 insieme al presidente Louis Schweitzer, porta la Renault da una perdita di 900 milioni di dollari a un profitto di 1,4 miliardi di dollari. Nel giugno del 1999 viene spedito a Tokyo con un’altra missione da molti considerata impossibile: salvare la Nissan, di cui i francesi hanno appena preso il controllo sborsando 5,4 miliardi di dollari per una quota del 36,8 per cento. Il colosso giapponese è sull’orlo della bancarotta, con debiti per 35.000 miliardi delle nostre lire. Fiat Auto ha chiuso il 2004 con debiti per 8 miliardi di euro, più o meno 15.500 miliardi di vecchie lire. All’inizio, Ghosn annuncia il licenziamento di 21.000 dipendenti e la chiusura di cinque fabbriche. Marchionne promette per ora solo cassa integrazione. Ghosn ha alle spalle il governo francese e il placet di quello giapponese, Marchionne non ha dietro nessun governo. Oggi Nissan è tra i produttori di auto che guadagnano di più per auto venduta, la Fiat è tra i produttori di auto che perdono di più per ogni auto venduta. Il prossimo 2 maggio, Ghosn torna a Parigi come Napoleone per essere incoronato presidente unico del gruppo Renault-Nissan, grazie a lui diventato quarto gigante mondiale per vendite automobilistiche. Nello stesso mese, Marchionne dovrebbe essere affiancato al vertice del gruppo non più da Luca Cordero di Montezemolo ma dal giovane Yaki Elkann, rampollo della più nota Famiglia spedito alla presidenza. ***** Alleanze, fusioni, matrimoni di interesse sono parole che hanno perso molto del loro senso nel mondo dell’auto. Appartengono, con l’eccezione di Renault-Nissan a confermare la regola, a un’epoca di gigantismo iniziata nel
La Piaggio, che dall’anno scorso controlla al 100 per cento l’Aprilia, continua a espandersi. La notizia (arrivata in redazione troppo tardi per essere compresa negli articoli dedicati alle moto di pagine 22 e 23) è che Bmw Motorrad e Aprilia hanno concluso un accordo “di cooperazione nel campo della progettazione e della produzione”. Per ora non si parla di modelli specifici. L’intesa riguarda una futura offerta di prodotti, aggiuntivi rispetto ai segmenti in cui opera adesso Bmw. La produzione - un segnale importante per i livelli occupazionali del marchio italiano - avverrà negli stabilimenti Aprilia di Noale e di Scorzè vicino Venezia. Non è la prima volta che Bmw e Aprilia si parlano e si intendono. Tra la il 1993 e il 1999, Aprilia ha prodotto per la Bmw la prima generazione della monocilindrica bavarese F 650, un modello che ebbe una certa fortuna e successivamente trasferito sulle linee della fabbrica berlinese della casa tedesca. Secondo il presidente di Bmw Motorrad, Herbert Diess, “si tratta di un ulteriore ampliamento della gamma di modelli di motociclette Bmw e non riguarda le esistenti monocilindriche (la Serie F). In questa cooperazione vediamo, fra l’altro, un importante contributo al rafforzamento dell’industria europea di motociclette e dei relativi fornitori”.
1998 con la fusione DaimlerChrysler e terminata un mese fa con il divorzio tra la Fiat e la General Motors. Il futuro prevedibile, dicono in coro tutti i top manager dell’auto, è ora fatto di accordi industriali che dimezzino i costi industriali di un nuovo prodotto per trovare al più presto profitti. Oppure, se si va verso il falimento, un momento prima ci si accorda con chi ha i soldi. Oggi soltanto i cinesi. Non c’è più nulla di visionario. Si può tornare alle banali parole di William Lyons, fondatore della Jaguar, da ricordare comunque quando si vendono prodotti: “Costruire macchine belle costa quanto fare auto brutte. Tanto vale farle belle”. Marchionne sta già lavorando a possibili intese industriali, non potendo fare subito auto belle perché, nel caso, sarebbero pronte solo tra due o tre anni. La Toyota si può definire il grande partner mancato dell’auto torinese. Oggi risulta che i due gruppi si stiano di nuovo annusando per tentare un’avventura comune nella produzione di veicoli commerciali in Europa, un buco nero per i giapponesi su cui la Fiat è preparata. Tant’è che una cooperazione con gli italiani in questo settore interessa pubblicamente anche la Renault, a sentire le dichiarazioni di Schweitzer all’ultimo Salone di Ginevra, tre settimane fa. Certo, c’è anche un passato. Nel luglio 2001, la Toyota annuncia una intesa con Psa - Peugeot-Citroen - per la produzione comune di una nuova piccola auto, per un segmento in cui il colosso giapponese è assente in Europa. Nascono Toyota Aygo, Peugeot 107, Citroen C1, sul mercato nei prossimi mesi. La Fiat è sposata dal marzo 2000 con la Ge-
neral Motors e, come dice qualcuno vicino alle trattative di allora, per Torino è stata “una occasione perduta”. Di Toyota si riparla nel pieno della crisi del gruppo italiano, ci sarebbe una loro attrazione fatale in particolare per il marchio Alfa Romeo. Ma la forte sindacalizzazione italiana e il rilancio dei giapponesi del proprio marchio sportivo e di lusso Lexus escludono ogget-
ipotesi bloccata appena l’amministratore delegato del gruppo Fiat Giuseppe Morchio - siamo nel giugno del 2004 - viene costretto a lasciare. In più, oggi la galassia Volkswagen in cui è dentro l’Audi ha guai tali da scoraggiare qualsiasi avventura oltreconfine. Bisogna avere le mani libere per accordi industriali e sinergie. Lo sa bene Jean Martin Folz, presidente di Psa, che dal 1997 predica
cilmente nel 2009 alle nuove regole restrittive delle emissioni. Per un costruttore che ha in listino enormi fuoristrada con grandi motori, la faccenda ha un interesse strategico. Toyota-Psa non è tuttavia un accordo di ferro. Dopo avere svelato in pompa magna le tre piccole insieme al presidente-partner Fujio Cho, Folz ha annunciato a sorpresa un accordo con la Mitsubishi per avere in listino una fuoristrada francese - storicamente assente nelle gamme di Peugeot e Citroen. Non con la Toyota, che pure ha nella trazione integrale una esperienza fortissima. “Noi vogliamo collaborare con tutti - ci spiega Folz con sorriso furbetto - e alla fine abbiamo scelto la Mitsubishi perché in Europa questo marchio vuole crescere molto”. Come dire che gli amici di Toyota avrebbero posto troppi paletti o comunque preteso di più. Tradotto liberamente, l’industria dell’auto che vuole crescere preferisce oggi pensare in piccolo e non pensare in grande. Anche rifuggendo da alleanze ingombranti.
Da Ghosn a Marchionne, da Cho a Folz, la danza delle strategie. Il nuovo interesse Toyota per Fiat, i giri di valzer di Psa, la stretta finale tra Mg Rover e i cinesi della Saic tivamente un nuovo interesse verso Torino. “Oggi non si compra più, questa è la verità”, dice un top manager di un grande gruppo straniero. Del resto, l’Alfa è stata adesso accorpata da Marchionne con la Maserati, alla ricerca di sinergie e soprattutto di nuovo lustro per il marchio di Arese, destinato nei piani a tornare in Nordamerica nel 2007. Un passo che escluderebbe anche uno sbarco dei tedeschi dell’’Audi in Maserati, dopo la timida “cooperazione commerciale” tra i due marchi annunciata nel 2003 e lo studio in segreto di qualcosa di molto più impegnativo. Una
e razzola bene, con fidanzamenti ad hoc per motori benzina e diesel, auto piccole e monovolumi. Una scelta che spinge il gruppo francese tra i campioni di redditività in Europa. Kolin, nella Repubblica Ceca, la fabbrica che produce le tre piccole con i marchi Toyota, Citroen e Peugeot, è l’ultimo suo colpo. D’immagine più che di bilancio (almeno per ora), in attesa di vendere i due terzi delle 300.000 auto prodotte lì annualmente e sapendo che bassi prezzi significano bassi guadagni. Ai giapponesi, l’Aygo servirà soprattutto per abbassare il livello medio delle emissioni della sua intera gamma, per allinearlo più fa-
occidente e in Giappone. Sono i costruttori cinesi, che prima hanno accolto gli stranieri in patria per joint venture paritetiche allo scopo di imparare e a uso delle esigenze del mercato interno, e che ora vogliono uscire per realizzare la loro missione. Cioè vendere macchine, possibilmente più degli altri. Così la seconda metà di questo decennio vedrà lo sbarco di vetture made in China sia in Nordamerica che in Europa, una storia che per alcuni versi ricorda la battaglia dell’export giapponese degli anni Settanta e Ottanta. Negli Stati uniti, nel 2007 la cinese Chery porterà cinque suoi modelli grazie all’accordo con il distributore locale Malcom Bricklin’s Visionary Vehicle (un nome che la dice lunga), mentre in Europa sono in corso - scrive Automotive News, bibbia informata del settore - diversi contatti con altri importatori. Molto prima, entro il prossimo mese di aprile, la Saic di Shangai - il costruttore più importante - annuncerà di avere preso il controllo della Mg Rover, marchi nobili oggi accorpati in una sola società e appartenenti a imprenditori inglesi in cattive acque. L’intesa sarà la prima del genere - i cinesi si prenderanno ben il 75 per cento del gruppo inglese, secondo fonti vicine all’imminente accordo - e assicurerà loro una rete distributiva in Europa, oltre all’accesso a tecnologia. Tutto in cambio di soldi. Argomento forse prosaico, ma che disegna nuovi scenari per l’auto mondiale. Quasi una visione.
***** C’è però un altro pezzo di industria automobilistica, già oggi da terzo posto a livello mondiale, che per suoi problemi di crescita ragiona in termini apparentemente “sorpassati” in
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Toyota presenta nuovo Rav4
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MARCHIONNE ICONTIINTASCA
Marchionne ha ragione a prendere per le corna il toro Fiat Auto, ma deve stare attento a non esserne travolto. La scelta del doppio incarico è stata annunciata quattro giorni dopo la conclusione della battaglia con la General Motors, che ha visto arrivare a Torino 1,55 miliardi di euro purché gli italiani rinunciassero al diritto della put, l’obbligo di forzare Gm a compare Fiat Auto. Superata l’euforia della vittoria nella lunga battaglia con gli americani, gli analisti finanziari hanno cominciato a fare un po’ di conti e hanno perso buona parte del sorriso. E’ vero, a Torino è già arrivato un miliardo di euro e gli altri 550 milioni affluiranno in cassa entro metà maggio, ma dallo scioglimento delle joint-venture per motori e cambi ed acquisti, tornano a casa anche metà dei debiti delle due società comuni, stimati dallo stesso Marchionne in 400 milioni per Fiat. Inoltre, il mega assegno di 1,55 miliardi pagato dall’ex alleato americano equivale a una plusvalenza di oltre un miliardo di euro, sulla quale si pagheranno imposte salate. Contando quindi i debiti che si sono dovuti riconsolidare, le parcelle dei molti avvocati schierati in difesa dei propri diritti e le imposte che si dovranno pagare, una parte consistente di questa liquidità sarà già spesa prima che sia fisicamente entrata tutta in cassa. Così Marchionne, per raddrizzare la Fiat Auto, più che sulle risorse aggiuntive, deve contare sul mestiere che conosce meglio: tagliare costi e teste. Alla comunità finanziaria Marchionne ha infatti promesso una perdita operativa sul
Il super amministratore delegato di Fiat e di Fiat Auto, l’uomo che “ha sempre mantenuto le promesse” alla prova del nove. Un’analisi di bilanci, ricavi e investimenti equazione caratteristica di ogni nuovo amministratore delegato di Fiat Auto è ormai ben nota: quest’anno dimezzeremo le perdite. Negli ultimi 38 mesi, l’hanno promesso quattro amministratori delegati, tre dei quali non ce l’hanno fatta e sono quindi stati mandati a casa. Ora tocca a Sergio Marchionne, che il 17 febbraio ha defenestrato Herbert Demel e si è aggiunto ai galloni di amministratore delegato del Gruppo Fiat anche quelli della Fiat Auto. Ma perché mai il prode Marchionne ha deciso di buttarsi in prima persona in una sfida titanica dove manager dalla notevole esperienza del settore automotive hanno fallito miseramente? Il ragionamento di Marchionne è semplice e persino lineare: tutti gli altri settori del Gruppo Fiat sono in salute e guadagnano, la grande malata è l’Auto ed è quindi qui che il top management del Gruppo deve concentrare i propri sforzi. Dal punto di vista contabile, il teorema Marchionne è indiscutibile: senza Fiat Auto, il Gruppo Fiat lo scorso anno avrebbe registrato un utile operativo di 862 milioni di euro su 26 miliardi di fatturato, pari a un ROS del 3,3%, valore non eccelso, ma neanche disprezzabile. Purtroppo però l’Auto è parte integrante del Gruppo e da sola ha praticamente divorato tutto il guadagno realizzato l’anno scorso dagli altri settori, portando il preconsuntivo a chiudere con soli 22 milioni di euro di utile operativo e una perdita prima delle tasse persino peggiore di quella del 2003: 1.577 milioni rispetto ai 1.501 del 2003. Solo l’aver pagato meno imposte rispetto all’anno prima, un credito di 29 milioni rispetto a un debito di 541 milioni, ha permesso di contenere la perdita netta a 1.548 milioni dai 2.042 del 2003.
fatturato dell’1,5% nel 2005 rispetto al 4,1% del 2004. In numeri, l’anno scorso si sono persi 840 milioni di euro, quest’anno il fatturato dovrebbe scendere appena sotto i 20 miliardi, quindi la speranza è perdere qualcosa di meno di 300 milioni. A un primo sguardo, la sfida di Marchionne sarebbe quella di tagliare mezzo miliardo di costi, sfida più che titanica in un anno cruciale poiché il passaggio da Alfa 156 a 159 e dalla seconda alla terza generazione della Fiat Punto significa volumi in discesa, costi promozionali in aumento e investimenti elevati. E sul tema investimenti, va aggiunta anche la nuova Croma. Marchionne ha già identificato questo mezzo miliardo di tagli: 200 milioni di costi industriali – compresa un’altra tosata al numero di colletti bianchi - e 300 milioni di costi commerciali, di cui la metà da un taglio secco del budget di pubblicità, soprattutto all’estero. Ma questo, già difficile, non basta ancora: è lo stesso Marchionne ad annunciare agli analisti finanziari che l’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto l’acciaio, rappresenterà 200 milioni di maggiori costi per Fiat Auto, “di cui solo una parte potrà essere ribaltata sul cliente”. E tra i maggiori costi che Fiat Auto dovrà sostenere ci sono anche quelli per adeguare i motori alle normative di emissione Euro 4: “Da 25 a 150 euro per unità”, a seconda del tipo di motore, ha spiegato Marchionne. Qui sarà il mercato a dire quando dei maggiori costi dell’Euro 4 potrà essere ribaltato sul cliente ma, ipotizzando una media di 100 euro per il milione di unità che Fiat Auto vende in Europa Occidentale, la cifra in gioco è nell’ordine di altri 100 milioni di euro. Insomma, oltre che dimezzare le perdite di Fiat Auto quest’anno è una sfida che sulla carta pare quasi impossibile da realizzare. Eppure la comunità finanziaria guarda all’impresa con fiducia: sinora Marchionne ha mantenuto tutto quanto aveva promesso. “E se è stato così categorico nell’annunciare questo target, vuol dire che è ben certo di raggiungerlo”, spiega un analista finanziario che preferisce non essere menzionato. Indubbiamente sull’accelerazione del risanamento di Fiat Auto Marchionne non gioca soltanto la partita del futuro del Gruppo Fiat, ma anche quella della propria credibilità personale. “Se non raggiungerò i risultati prefissati per il 2007, me ne andrò”, aveva detto nel luglio scorso. Davanti a sé ha ancora quasi tre anni per confermare un utile netto 2007 tra 1,4 e 1,8 miliardi e una tappa intermedia di oltre 500 milioni per il 2006, ma meno di dodici mesi per il preconsutivo 2005 della Fiat Auto. Cercando un parallelo ciclistico, è come essersi aggiunti un gran premio della montagna su strade innevate in una corsa collinare già sotto pioggia battente. Auguri. * chief correspondent, Automotive News Europe
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LORIS CAMPETTI
LAFIATALL’ULTIMA PARTITA
F
inalmente la Fiat è tornata in mani italiane e il tricolore svetta sulla pista di prova del Lingotto. Gli americani della General Motors hanno mollato l’osso sborsando 1,55 milioni di euro per liberarsi dall’obbligo di acquistare l’intera produzione automobilistica italiana. Ora la Fiat è libera di cercarsi nuove alleanze e riprendere a volteggiare nel libero mercato globale delle quattro ruote. E’ questa, press’a poco, l’immagine che la multinazionale torinese cerca di dare di sé attraverso i messaggi pubblicitari e nelle relazioni con i suoi interlocutori, con il governo e la politica e, indirettamente, con i sindacati verso cui peraltro presta molto rispetto ma ben poca attenzione. Il capo supremo del management del Lingotto, Sergio Marchionne, forte del buon esito della trattativa con gli americani, ha avocato a sé tutti i poteri liquidando in quattro e quattr’otto l’amministratore delegato dell’auto, Herbert Demel. E dice: abbiamo un unico settore in difficoltà, l’automobile, tutto il resto è venduto come la Rinascente o va bene, dunque concentriamo le nostre forze sul figlio malato. Sarà vero, ma in molti sollevano dei dubbi (e in pochi credono che i soldi guadagnati con la vendita della Rinascente finiscano all’auto). Non tanto perché fino a poche settimane prima dell’accordo-rottura con Gm la presenza americana era presentata come un valore, un investimento: tanto la prima che la seconda posizione attengono alla propaganda. Il dubbio vero riguarda il futuro, più che il passato o il presente. Riguarda cioè le reali intenzioni di Marchionne. Che approssimativamente, almeno secondo i sindacati, si potrebbe semplificare così: l’obiettivo dell’ad del Lingotto è il risanamento del bilancio, costi quel che costi e paghi chi deve pagare, cioè lo stato attraverso l’uso sempre più massiccio degli ammortizzatori sociali. Se questo fosse davvero il fine ultimo, le conseguenze industriali,
numeri è previsto in autunno, la nuova Punto. Nell’anno in corso l’unica altra vettura importante è l’Alfa 159, a cui si aggiungono la Croma e il coupé disegnato da Giugiaro - la Brera. Il ritardo dei nuovi modelli spinge il Lingotto e il suo top management non a intraprendere con coraggio un cambiamento di passo, di strategie e di piano bensì a ridurre sprechi, spese e perdite per portare al minimo il rosso nel bilancio 2005 e annullarlo nel 2006. Operazione sensata che però, fatta a bocce ferme, otterrebbe l’unico risultato di conquistare il break-even in un’azienda drasticamente ridimensionata. Basta chilometri zero, basta vendite “a perdere” per tenere faticosamente la quota di mercato in Italia vicino al 30%. Dunque, vendiamo di meno ma guadagnando e non buttando soldi per ogni nuova vettura immessa sul mercato. L’urgenza di Marchionne è proprio questa, il pareggio di bilancio entro il 2006. Di conseguenza, prendendo per buona l’intenzione di non mettere mano (nell’immediato) ai licenziamenti e alla chiusura di stabilimenti in Italia, non resta che aumentare progressivamente le ore di cassa integrazione e la quantità di manodopera interessata. Presto non saranno più soltanto gli operai a pagare con una riduzione di salario e di aspettativa di lavoro il costo della crisi, toccherà anche ai colletti bianchi. In parole povere, lo stato aumenterà il suo intervento in Fiat ma non per consentirne il rilancio, bensì per accompagnarne il declino. E non è mai stato smentito completamente il presunto documento indirizzato dal Lingotto alle banche creditrici in cui si annuncerebbe la chiusura a medio termine di due stabilimenti,
Finita la relazione pericolosa con General Motors, la strada del gruppo torinese è a un bivio. Il suo futuro e dei suoi stabilimenti automobilistici in Italia oduttive e sociali sarebbero molto pesanti. à oggi lo stabilimento Alfa di Arese è, se non orto, agonizzante; a Mirafiori la produzione cupa sì e no un terzo dell’intero perimetro lla fabbrica; Termini Imerese ha un futuro oduttivo solo a brevissimo termine e i salari i lavoratori si chiamano cassa integrazione; assino si sta rinsecchendo di mese in mese domani chissà; gli unici stabilimenti non lpiti duramente dalla crisi e dalle scelte tonesi sono quelli di Melfi, Pomigliano d’Arco a Sevel in Val di Sangro che produce per Fiat Peugeot-Citroen. a è lo stesso Marchionne a legittimare una tura non propriamente ottimistica. Non un mistero per nessuno che le prospettive vendite per la Fiat nel primo semestre del 05 sono pessime, dato che il primo nuovo odello importante dal punto di vista dei
quello di Termini Imerese e quello di Cassino. Non ha torto la Fiom, quando dice che per invertire la tendenza al declino della Fiat servono subito un bel po’ di soldi da destinare alla ricerca e all’innovazione del prodotto in chiave ambientalista e un vero piano industriale. Obiettivi difficili da raggiungere senza un intervento dello stato nella proprietà del Lingotto, di segno opposto a quello in atto e che prosegue una tradizione secolare. Anche perché è difficile prevedere un’improvvisa esplosione della domanda di automobili tradizionali, tanto in Italia che in Europa. E fuori dal vecchio continente, a parte il Brasile, i luoghi di insediamento storico della Fiat non godono certo di buona salute. In Polonia, con l’ingresso nell’Unione europea la domanda è crollata così come le aspettative di sicurezza dei suoi abitanti e anche in Turchia la domanda ristagna, nonostante nello stabilimento di Bursa la produzione sia in crescita, vuoi per prodotti destinati all’esportazione e vuoi per la decisione di Fiat e Peugeot-Citroen di costruire insieme una nuova vettura cargo qui, e non in Francia o in Val di Sangro. Dicevano al Lingotto che il divorzio con Gm avrebbe finalmente aperto la strada a nuove alleanze internazionali, se non strategiche, tecniche. Ora Marchionne sembra non avere una gran fretta, essendo che la durata dei modelli garantisce un periodo di un anno-un anno e mezzo di relativa tranquillità per guardarsi meglio intorno. Si fanno molti nomi ma di concreto c’è poco, e non è detto che le voci ricorrenti su pour parler con la Saic - la più importante società automobilistica cinese, di Shangai - si trasformino in fatti. Così come resta astratto il progetto - una volta tirata fuori la Ferrari perché possa essere collocata in borsa - che riguarda il cosiddetto polo sportivo, Alfa Romeo più Maserati. Il nuovo capo del polo, Karl Heinz Kalbfell, forte di una lunga esperienza nel settore e in Bmw, ha già i suoi problemi a ricollocare il marchio Alfa, prima di porsi il problema non da poco del rapporto con il marchio del tridente. In conclusione, il divorzio con la General Motors non ha risolto i problemi della Fiat, semmai li ha messi in evidenza. La partita comincia adesso.
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ice Xie Chen, analista e saggio, che “c’è una breve frase illuminante” nel X Piano quinquennale di sviluppo economico e sociale, elaborato nel 2000 dal Comitato centrale del partito comunista cinese. “Incoraggiare le famiglie ad acquistare l’automobile”. Forse la scelta era obbligata, forse le poche parole illuminanti sono rimaste nel documento per qualche burocratica dimenticanza, o forse ancora sono il risultato di lunghe e defatiganti mediazioni; quel che è certo è che resteranno nella breve storia del secolo. In passato, sempre per citare il nostro analista e saggio: “In Cina l’uso dell’automobile era riservato solo alle autorità governative e alle imprese statali. Per ridurre le spese relative, lo Stato aveva preso una serie di misure di controllo nella produzione e nel consumo, separando la produzione dal mercato, limitando così anche il consumo privato”. La Cina è un partner talmente richiesto che gli “occidentali” che ora vogliono a tutti i costi partecipare alla motorizzazione cinese, trascurano il dichiarato comunismo che dà l’impronta al potere e la conseguente presenza dello stato nella vita economica e nelle sue scelte principali. A ben vedere sarebbe una grave forma di ipocrisia fingere di dimenticare che tutte le case automobilistiche maggiori hanno goduto e godono tuttora dell’appoggio di uno o più stati. Commesse belliche, aiuti all’esportazione, dazi e ostacoli di ogni genere per proteggere il mercato interno dalla concorrenza di autovetture del paese vicino. In alcuni casi - Alfa Romeo, Renault, Volkswagen - la proprietà era pubblica e il tentativo, più o meno riuscito, era quello di rendere più realizzabile per le classi lavoratrici il sogno dell’auto. In altri casi, la proprietà era rigidamente
privata – Fiat, Psa, Daimler Benz - e lo stato di appartenenza dava il suo largo aiuto con leggi e autostrade, con commesse e sostegni di varia natura. Le case Usa (Gm, Ford, Chrysler) sono apparentemente indipendenti dal loro governo, ma possiamo dire lo stesso del governo nei loro confronti? La famosa frase del presidente Wilson (Charlie Wilson, presidente della Gm, non Woodrow, il 28º presidente
il risultato di non licenziare – in Germania – e di garantire a tutti i lavoratori un salario corrispondente a un orario ridotto. Nel caso di Renault, oggi Louis Schweitzer, il presidente uscente, intervistato da Michele Calcaterra per Il Sole 24 Ore è in grado di ammettere: “Se venti fa lo stato non fosse intervenuto, Renault sarebbe morta”. Ma torniamo alla piccola frase del comitato centrale cinese. Viene interpretata come un
Come tutte le case automobilistiche piu’ importanti del mondo hanno beneficiato dell’intervento dello stato. E perché in Cina il pubblico è una regola di ferro
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degli Usa) “What’s good for General Motors is good for the rest of America”, farebbe pensare il contrario, visto che è opinione corrente: quel che è buono per la Gm e buono per il resto d’America. In ogni caso, possiamo ricordare tre fasi recenti di un intreccio molto stretto: il finanziamento a fondo perduto alle tre case nazionali per le ricerche sull’auto a motore ibrido; il prezzo della benzina tenuto forzatamente basso per favorire le auto sempre maggiorate e il rifiuto di ratificare il protocollo di Kyoto. Due tra le maggiori imprese europee, Volkswagen e Renault, hanno un’importante presenza di capitale pubblico, regionale nel primo caso, statale nella compagine azionaria. 21% per Vw, 15, 7 per Renault. Nel caso di Vw, la presenza pubblica ha ottenuto
semaforo scattato finalmente al verde; e le automobili si muovono. Sempre nel 2000 si riunisce a Pechino un gruppo di esperti per fare il punto. Ne nasce il programma di rinnovamento automobilistico nazionale. C’è un fotografia della situazione. In Cina una persona su 355 possiede un’auto privata, il che significa che ce ne sono 3,66 milioni, tenendo conto che è nato a Pechino (e pesa tre chili) il cinesino milletrecentomilionesimo; e si nota che la media nel pianeta è 32 volte superiore. Il programma è quello di riportare la Cina sui livelli mondiali di automobilismo privato. Un obiettivo imbarazzante, soprattutto quando è coniugato con un piano quinquennale, anzi con sei o dieci piani quinquennali consecutivi. Si dà per certo infatti, da parte degli esperti riuniti al
LA FIAT E VOCI CINESI Le voci secondo cui la Fiat starebbe trattando l’ingresso di un costruttore cinese nel suo capitale sono tornate la settimana scorsa. Questa volta provenienti dalla Germania. La Fiat avrebbe in corso colloqui esplorativi con i cinesi della Saic (Shangai Automotive Industry Corp.), il più importante costruttore di automobili in Cina. Lo ha scritto il sito Internet del settimanale tedesco WirtschaftsWoche, secondo il quale Hu Maoyuan, presidente di Saic, vorrebbe rilevare una quota il più possibile elevata di Fiat. Il gruppo italiano, scrive sempre WirtschaftsWoche senza citare fonti, sarebbe molto favorevole all’intesa dopo il divorzio dalla General Motors che ha portato nelle casse torinesi 1,55 miliardi di euro. La Saic, si ricorda nell’articolo, ha già stretto i primi legami con la Fiat firmando nel dicembre scorso un accordo quadro per sviluppare una collaborazione a lungo termine nei veicoli commerciali in Cina. I cinesi controllano la sucoreana SsangYong al 49 per cento, stanno per acquistare l’inglese MgRover e hanno due joint venture con il gruppo Volkswagen e con la General Motors.
semaforo di Pechino che la domanda cinese di auto private sarà di 7,8 milioni di autovetture nel 2010, raggiungendo in sostanza la domanda presente negli Stati uniti in un anno tranquillo dell’ultimo decennio. Ma la domanda scandita nei piani quinquennali non si arresterà: al semaforo del 2020 la richiesta di autovetture sarà di 16,8 milioni; con ulteriore ripresa si raggiungerà al prossimo incrocio spazio-temporale, il 2030, una domanda di 45 milioni di autovetture, che sono più di quanto siano mai state costruite finora in tutto il mondo dall’intera industria automobilistica in un solo anno. A occhio, ritoccando un po’ i criteri di longevità automobilistica media corrente oggi nel mondo, e quindi attribuendo 12 anni di vita alle automobili, nel 2030 potrebbero circolare in Cina tra 300 e 350 milioni di automobili, con un’auto ogni quattro-cinque abitanti, ciò che significa un numero assai basso nei confronti del modello italiano di oggi che vanta un’auto ogni due abitanti, o della capitale italiana, con 3 auto ogni 2 persone, ma di certo un numero esorbitante per la stessa salute del pianeta. In ogni caso, auguri. Possono servire altre due cifre per delimitare il campo della crescita automobilistica privata cinese. I depositi bancari sono ormai prossimi ormai ai mille miliardi di dollari, mentre il pil cinese pro capite calcolato nel 2002 è di 989 dollari, corrispondenti però a un potere d’acquisto di 4.580. Basta per comprare? Ci sono differenze sostanziose dall’una all’altra zona del paese; è probabile che a Shangai il pil sia tre volte quello medio; ed è appunto a Shangai che le auto sono richieste, sono comprate e sono anche fabbricate. Sono condizioni sufficienti per orientare e costruire il grande paradiso automobilistico cinese? Di certo sarebbero condizioni sufficienti per imporre uno standard sobrio ai modelli che saranno messi in vendita nel mondo e probabilmente anche qualche novità nel sistema propulsivo e nell’evoluzione dei carburanti.
Nel primo trimestre del 2004 sono stati venduti in Cina 1.280.000 automezzi. Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente c’è stato un aumento del 29%, meno di quello che si sarebbe potuto ottenere, se le autorità non avessero ridotti i crediti, raffreddando la corsa agli acquisti. Calcolando in cinque milioni gli automezzi venduti nell’anno, la crescita per gli anni successivi, fino al 2008, dovrebbe rallentare, dal momento che per quel anno sono previsti 7 milioni di automezzi, quindi un aumento del 40% in 4 anni, con 4,7 milioni di autovetture private. In Cina, nel 2008, si svolgeranno le Olimpiadi e la Cina vorrà mostrare i muscoli e fare bella figura. Chi fabbricherà tutto questo parco automobilistico e motoristico? Chi pagherà? Chi costruirà le strade, le autostrade, le reti dei servizi, chi gestirà il mercato dell’usato (per ora escluso dalle autorità di governo)? E ancora: dove si troverà il petrolio per animare trecento e passa milioni di vetture cinesi? E a che prezzo al barile? L’ambiente comune reggerà? Tutte queste domande, tranne l’ultima, richiedono risposte dal gruppo dirigente, dal partito, dal governo cinese. L’interesse per l’auto, o meglio, senza dirlo troppo ad alta voce, per l’auto privata, ha origine da una ventina d’anni, forse da un quarto di secolo. Il 2005 è l’ultimo anno di un ennesimo piano quinquennale, per lo sviluppo dell’industria automobilistica, e preparato dalla solita commissione statale cinese per l’economia e il commercio. In un passo, tradotto dal mensile americano Forbes, e quindi ritenuto di rilievo per le case auto Usa è scritto: “Nel 2005 vi saranno due o tre grandi gruppi automobilistici, capaci di competere sul
piano internazionale. Prenderanno forma un mercato dell’auto e servizi post-vendita conformi agli standard internazionali e la produzione riguarderà per il 70% almeno il mercato interno, lasciando qualcosa all’esportazione. Verranno impiantate da cinque a dieci imprese competitive sul piano internazionale per la produzione di componenti. I tre gruppi più forti copriranno il 70% del mercato domestico e vendite all’estero di parti ed accessori saranno autorizzate fino al 20% del valore della produzione”. Un programma del genere, più o meno osservato nel corso degli anni, indica che i capitalisti euroamericani e giapponesi si adattano a costruire auto in un ambiente in cui un governo prevede regole impegnative; ma basta loro una forza lavoro con pochi diritti e scarso salario. Su tutto il resto, non ci sono troppi problemi. Il governo cinese ha deciso di puntare sulla risorsa dell’auto privata come alternativa ad altre libertà, politiche, sulle quali non ha intenzione di transigere. Per intanto l’auto è una proposta assai forte per la parte della popolazione cinese che ha risparmi, conto in banca e credito. I costi di produzione che le case automobilistiche straniere possono spuntare in Cina sono fantasticamente
bassi, sempre che le auto prodotte possano essere esportate sui mercati ricchi; molto meno se la parte preponderante della produzione deve rimanere in Cina. D’altro canto, nessuno può chiamarsi fuori e tutti i principali fabbricanti hanno concluso affari con le parti cinesi. In passato le joint ventures dovevano essere contrattate con il ministero dell’industria aerospaziale, che sovrintendeva all’industria dello spazio e a quella militare. Forse solo quel ministero aveva funzionari capaci di trattare con gli stranieri senza troppi rischi di imbrogli; forse si era già capito che l’auto era un’arma micidiale, come si è visto nelle guerre seguenti; o forse semplicemente si trattava di una ripartizione dei poteri, interna alla Cina: auto sì, come vuoi tu, ma nell’ambito di una programmazione sotto controllo mio. A spingere sul pedale dell’auto è stato certamente il presidente Jiang Zemin, che negli anni ’50 dirigeva una fabbrica del gruppo Faw, ancor oggi principale fabbricante di auto in Cina, con una serie di joint ventures, al 50%, con case europee e americane. In seguito Jiang si sarebbe servito dell’alleanza con l’industria manifatturiera, e in particolare con quella nascente, dell’auto, per prendere il potere.
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A Ginevra abbiamo rinchiuso o 200 cavalli in quasi 5 metri.
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CARMELO BONGIOVANNI
SAABVOLVOILPREZZO DELL’IDENTITÀ
C’
era una volta l’industria automobilistica svedese. Volvo e Saab le belle protagoniste di una storia che continua oggi in casa d’altri, nel gruppo Ford per ciò che riguarda la prima, in ambito General Motors per la seconda. Storie parallele, che ne ricordano altre: quelle di molti costruttori inglesi, confluiti in grandi gruppi stranieri, privando, di fatto, il Regno Unito di una industria di casa. Se si fa eccezione per la Mg-Rover, unica erede del patrimonio automobilistico britannico - prima ceduta alla Bmw e poi tornata in mani di imprenditori inglesi - ora prossima a passare sotto il
tato” sotto il cofano della 9-3. Appare evidente che ormai General Motors punti solo a trarre il massimo vantaggio da questa acquisizione, dando in cambio poco o nulla. Il che avvalorerebbe pure le voci su una sua concreta intenzione di vendere il marchio svedese al miglior offerente entro diciotto mesi. Ma come era iniziata con Saab? Nel 1989 GM ne acquista una quota del 50%, soffiandola per altro alla Fiat. Sette anni più tardi acquisisce il diritto di calI sul restante 50% detenuto da Investor da esercitarsi entro il 2000 e, come conseguenza, Investor acquisice un diritto di put nel confronti di Gm. Nel 2000, Gm esercita l’opzione di acquisto, ottenendo il controllo totale di Saab, a condizioni che ne mantengono pressoché integro l’assetto produttivo. La cooperazione fra le due case automobilistiche prevede una collaborazione estesa su vari fronti: attività di ricerca in campo automotive, sviluppo di automobili e assemblaggio vetture. Le cose però non vanno per il verso giusto e nel 2003, per contrastare il declino delle vendite e le perdite degli ultimi 12 anni, Gm lancia un piano di ristrutturazione su Saab che prevede una più stretta alleanza con Gm Europe. Arriviamo ad oggi, con una produzione Saab pari a circa 140.000 vetture all’anno, un conto economico preoccupante e gran parte dei presupposti di quella cooperazione disattesi. Saab non è più quell’azienda capace di stupire, come fece nel 1947 col prototipo della 92, forte di una carrozzeria dal coefficiente di penetrazione aerodinamico più basso di molte vetture contemporanee. E come non
Storie parallele e non convergenti dei due marchi svedesi comprati da Gm e da Ford. Al primo è stata tolta la sua filosofia, al secondo no. Ecco i risultati controllo del principale costruttore cinese. C’è anche un destino parallelo nel cammino delle due nobili svedesi, il cui epilogo è però diverso se si considera lo stato attuale dei due marchi. E’ la solita vecchia storia dell’identità di marca, mai così vera nel caso delle scandinave, entrambe dotate di tratti somatici d’origine tanto decisi quanto vulnerabili di fronte alle più moderne sinergie di scala. Alla Saab, infatti, di svedese ormai è rimasto ben poco visto che tutto, dall’engineering al design, è controllato dalla Gm Europa in Germania o in Svizzera e che i nuovi prodotti già annunciati sono una specie di cloni di pianali e motori già esistenti dentro al gruppo americano. Ne sono un esempio la futura 9-2X, che nascerà da una costola della Subaru - controllata giapponese - come pure il nuovo diesel MultiJet Fiat da poco “trapian-
ricordare il modello 99, grazie al quale dalla fine degli anni Sessanta la Saab comincia a rivolgersi anche a un pubblico medio-alto. Oppure ancora le 900, che per gran parte degli anni Ottanta dominano la scena mondiale, inventando, con l’introduzione del turbo per l’alimentazione, il concetto di berlina ad elevate prestazioni. Il look è sempre quello, caratteristico, che fin dalle origini denota chiaramente le radici aeronautiche della casa svedese. L’abitacolo di una Saab ricorda sempre la cabina di un aereo, all’esterno con la particolare curvatura delle superfici vetrate, internamente con un posto di guida degno del cockpit di un caccia. E sarà anche per questo motivo che per la casa svedese la sicurezza è sempre stata una priorità. Al punto che, per prima al mondo, adotta nel 1958 le cinture di sicurezza nell’equipaggiamento di serie delle sue vetture, mentre dieci anni dopo sposta l’unità della chiave di accensione, che poteva causare lesioni al ginocchio in caso di incidente, tra i sedili anteriori, in posizione adiacente all’aggancio delle cinture, al freno di stazionamento e alla leva del cambio. Questa particolare posizione della chiave d’accensione rappresenta ancora oggi un elemento caratteristico delle vetture Saab. Sul fronte della sicurezza, tuttavia, si è sempre mossa molto bene anche l’altra casa svedese, la Volvo, creando in campo automobilistico un autentico riferimento mondiale in materia nel polo svedese. Storie parallele, dicevamo, ma con risultati oggi assai diversi, dovuti essenzialmente a una più corretta interpretazione dei valori del marchio da parte del gruppo Ford. Parte da lontano la storia della Volvo, esattamente dal 1927, anno in cui i suoi fondatori, Assar Gabrielsson e Gustaf Larson, affermarono: “Le automobili sono guidate da esseri umani – perciò il principio che deve indirizzare il nostro lavoro è, e deve rimanere, la sicurezza”. Così, da quel momento, il percorso industriale della Volvo è stato sempre influenzato da questo presupposto. “Per Volvo, ogni anno è l’Anno della sicurezza stradale”. recitava un vecchio slogan, tanto che, ad oggi, la casa svedese può fregiarsi di un’ottantina di innovazioni assolute mondiali sul tema della sicurezza. La cellula di sicurezza che irrobustisce l’abitacolo e il parabrezza laminato, entrambi introdotti nella Volvo PV 444, negli anni 40, sono soltanto fra i primi esempi. Ma quella che probabilmente rimarrà come la più importante delle novità Volvo in questo settore, è l’introduzione della cintura di sicurezza a tre punti di ancoraggio, nel 1959, considerata una delle invenzioni che hanno salvato più vite umane in tutta la storia della civiltà. E altri due esempi famosi sono il seggiolino per bambini rivolto all’indietro, progettato e provato nel 1964, introdotto poi nel 1972 e il SIPS (Side Impact Protection System) per la protezione dagli impatti laterali, del 1991. Oggi Volvo, come la sua concorrente di casa, è confluita in un grande gruppo americano, conservando tuttavia, contrariamente a Saab, quel po’ di DNA scandinavo che ne ha sempre caratterizzato i modelli. Dal 1999 di proprietà Ford, Volvo ha infatti registrato annate assai positive sul piano dei risultati, per giungere a un 2004 da primato per ciò che riguarda vendite e profitti: 456mila vettura vendute nel mondo sono infatti un record storico per la casa svedese, che superano nettamente anche quelle 415mila vendute nel 2003, che pur avevano rappresentato un primato. Poche case automobilistiche hanno saputo fare altrettanto ultimamente e, nell’ambito del gruppo Ford, soltanto Mazda cerca di produrre risultati analoghi. Anche da noi i dati confermano questo successo: incremento del 14 per cento nel 2004 sull’anno precedente, che diventa addirittura un 17 per cento in più nei primi due mesi del 2005. Allo stesso modo, il mercato italiano ribadisce lo stato di difficoltà dell’altra svedese, registrando un calo del 24 per cento di immatricolazioni nel bimestre gennaio-febbraio 2005. Due storie parallele, due finali opposti. Almeno per il momento.
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I
designer dell’automobile sono una razza nomade. Nascono in un paese ma spesso vanno a studiare altrove, quindi iniziano a lavorare in un’azienda che in rarissimi casi resta la stessa per tutta la vita, cambiando stati e continenti di residenza con estrema facilità. Gente con le valigie pronte, insomma, naturalmente portata a far parte di gruppi di lavoro molto variegati in quanto a numero di nazionalità e culture. A questa spontanea “mobilità creativa” partecipano inoltre molti fattori concomitanti, non ultime alleanze, acquisizioni di marchi e fusioni di gruppi industriali. Se non nell’immediato – occorrono infatti diversi anni per rinnovare una gamma di prodotti – quanto meno a medio termine questi eventi possono influire in maniera determinante sull’aspetto estetico delle vetture, se non addirittura sulle sorti del marchio stesso. Saab e Volvo rappresentano l’esempio forse più evidente di due destini praticamente opposti. Entrambi apprezzati marchi svedesi, entrambi acquisiti da un grande gruppo americano, si trovano oggi in situazioni assai distanti non solo dal punto di vista economico-finanziario, ma anche sotto l’aspetto creativo. Saab ha visto negli ultimi anni ridursi sempre di più le speranze di ampliare la sua gamma di prodotti e, insieme a queste, anche l’importanza del suo centro stile. I designer Saab non sono rimasti per questo disoccupati. Sono stati infatti incorporati nella struttura dell’Advanced Design General Motors, dove però si occupano più di progetti Gm che di vetture Saab, tanto che lo scorso anno il loro direttore Michael Mauer, dopo essere riuscito a creare nuove concept car che mostravano interessanti sviluppi potenziali per il marchio, li ha lasciati per andare a guidare il design Porsche. Le soddisfazioni non mancano invece in casa Volvo. Rimasta indipendente più a lungo di Saab, con l’acquisizione da parte di Ford Motor Company non ha perso la sua originalità stilistica. L’opera di rinnovamento estetico condotta dall’inglese Peter Horbury e dal suo team di design ha potuto proseguire ed evolversi in una serie di progetti – di ricerca così come finalizzati alla produzione di serie – che hanno ulteriormente rafforzato i valori tipici del marchio: sicurezza e atteggiamento “user friendly”, non senza una certa esclusività priva però di qualunque arroganza. Ford ha voluto fare tesoro non solo dei prodotti, ma anche degli uomini. Peter Horbury è stato ben presto promosso alla direzione del design di tutti i marchi di Premier Automotive Group (di cui fanno parte, oltre a Volvo, Jaguar, Aston Martin e Land Rover) e quindi, dal 2004, è stato chiamato a Detroit quale nuovo responsabile del design di tutti i veicoli Ford per il Nord America. Un incarico impegnativo e delicato,
che il pragmatico e capace Horbury intende perseguire con determinazione staccandosi dal trend retrò tanto caro J Mays, il chief creative officer responsabile del design dell’intera Ford Motor Compnay. Come spesso avviene un po’ in tutti i settori aziendali, un “matrimonio” può determinare, anche nel design, cambi al vertice significativi. La nomina del giapponese Shiro Nakamura a direttore dello stile Nissan, ad esempio, è stato voluto dal patron del design Renault, Patrick Le Quément, che lo ha scelto personalmente non appena firmato l’accordo tra le due aziende. Una scelta che sinora si rivela azzeccata, sia per il mantenimento dell’identità nipponica di Nissan, sia per l’esperienza in ambito internazionale che Nakamura ha saputo apportare alla marca.
I designer, una razza nomade con il pallino di guardare avanti. Come gli accordi e le fusioni tra i grandi gruppi automobilistici intersecano il loro lavoro
I destini vengono però spesso decisi anche di divorzi e separazioni. Emblematico in proposito il caso di Olivier Boulay, francese con ampio curriculum cui è stato affidato l’incarico di fondare, nei primi anni Novanta, il centro di Advanced Design Mercedes-Benz. In seguito all’accordo sottoscritto da DaimlerChrysler con Mitsubishi, Boulay era passato a dirigere il design del marchio dei tre diamanti, per il quale ha realizzato in poco più di tre anni una quantità impressionante di progetti: oltre una dozzina di concept car e quasi altrettanti prodotti di serie (tra cui la nuova Colt in tutte le sue versioni), molti dei quali non ancora lanciati sul mercato. Dopo tanto lavoro, l’improvvisa fine della partnership tra Mitsubishi e DaimlerChrysler ha bruscamente riportato Boulay alla guida del centro stile Mercedes di Yokohama, lasciando però alle vetture Mitsubishi un’immagine formale rivisitata e rafforzata, specie sul frontale. Anche al design Fiat ci sono state novità susseguenti a un caso di divorzio, quello tra Ferrari e Maserati. Il coordinatore del design di queste due marche, Frank Stephenson, non ha seguito il Tridente, deputato a formare il “polo sportivo” con Alfa Romeo, né è rimasto a Maranello con il Cavallino, ma è stato incaricato di assumere un ruolo nuovo nell’organigramma di Fiat Auto. Dalla fine del febbraio scorso è supervisore del design di Fiat, Lancia e Veicoli Commerciali, posizione in cui risponde direttamente all’ad Sergio Marchionne. E’ ancora presto per prevedere se altri movimenti di designer seguiranno, ma di certo il compito di Stephenson risulta particolarmente impegnativo, soprattutto se confrontato con quello svolto dal 2002 al febbraio di quest’anno. Il precedente ruolo di responsabile del Concept Design di Ferrari e Maserati lo vedeva infatti come interlocutore ed interfaccia con gli studi esterni - Pininfarina e Italdesign Giugiaro - autori del design delle vetture. Ora Stephenson deve dimostrare una capacità manageriale ancora maggiore di quella maturata negli undici anni trascorsi alla Bmw, dove gli era stata riconosciuta la paternità del progetto Mini. Per chi utilizzi ancora la vecchia rubrica cartacea, quindi, un suggerimento: i recapiti dei designer conviene scriverli a matita. E’ un mondo in movimento, fatto di persone che vivono proiettate nel futuro, quello delle auto che usciranno tra qualche anno, spesso dopo che gli autori saranno già migrati altrove. Ogni volta, però, con la stessa capacità di intendersi e integrarsi con colleghi molto diverse tra loro per passaporto, razza ed esperienza professionale. Anche in questo, il design è molto più avanti.
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MARINA TERPOLILLI
L’IBRIDOCHEAVANZA PERFORZA
L’
idrogeno può attendere. Come d’altronde il metano nel sud dell’Italia, e pensare che il metanodotto arriva dalla Sicilia… E intanto continuiamo a bruciare petrolio, una materia prima che costa sempre di più e potrebbe essere impiegata per motivi più nobili della combustione.Tutto questo mentre la data della diffusione delle automobili alimentate ad idrogeno si sposta inesorabilmente sempre più avanti 2008, 2010, 2015. I motivi sono diversi: le infrastrutture tardano ad arrivare, e nello stesso tempo i costruttori hanno impiegato fin troppe risorse per l’evoluzione dei motori a combustione interna. Per ottimizzarne il rendimento e ridurre i consumi senza però penalizzare le prestazioni, grazie ad un vasto impiego dell’elettronica. Risorse indirizzate negli ultimi anni in particolare allo sviluppo dei motori turbodiesel. E dunque ora l’imperativo è vendere diesel, in tutti i segmenti, anche per le utilitarie da città, con il risultato di portare la quota di questa motorizzazione in Europa vicina al 50%. Qualcuno tuttavia è stato più lungimirante. I soliti giapponesi hanno tirato fuori dal cilindro una “non soluzione” al problema che sta per diventare però l’unica strada percorribile: quella dell’ibrido. In netto anticipo su tutti gli altri, il gruppo Toyota nel 1997 ha commercializzato l’innovativa Prius Hybrid, finanziariamente un bagno di sangue poiché il prezzo di listino non copriva i costi di produzione. Alla Toyota, poi, si sono aggiunte la Honda, inizialmente con la Insight e poi con la Civic IMA (Integrated Motor Assist), sostituita dallo scorso dicembre dalla Accord IMA, e la Nissan, con la Tino Hybrid che però non è uscita dai confini nazionali. Per lo meno a breve, il futuro è nell’ibrido, se non altro finché i costruttori non si riterranno appagati dei ritorni economici a fronte degli investimenti fatti sui motori convenzionali. Secondo un’analisi della JD Power, infatti, le
Perché l’idrogeno può attendere. Le risorse bruciate dai costruttori per l’evoluzione dei motori a combustione interna dietro la forte spinta a vendere diesel vendite di veicoli ibridi aumenteranno rapidamente nei prossimi anni. Negli Stati Uniti quest’anno dovrebbero superare le 200mila unità, partendo dalle 47mila vendute nel 2003. Per arrivare nel 2009 fino a 500mila unità, il 2,9% del consistente mercato americano. E c’è da aspettarsi un’analoga crescita in Europa, dove, prima o poi, la crescita smodata del diesel è destinata a rallentare, e in Giappone, dove i vari Toyota, Honda e Nissan giocano in casa. Sempre secondo la JD Power anche il numero dei modelli ibridi che si inseriranno nei listini è destinato decuplicare fino arrivare ad una trentina nel 2008. E qui un ruolo determinante lo giocano le alleanze che i maggiori “players” mondiali stanno tessendo. Ad esempio il gruppo Ford, il secondo costruttore americano (e terzo mondiale dopo Toyota) ha acquistato proprio dalla Toyota la tecnologia ibrida e l’ha già utilizzata sul Suv Escape Hybrid
lanciato nel corso del 2004. Inoltre ha inserito nella propria “pipe line” produttiva la Mercury Mariner Hybrid, che inizierà ad essere costruita verso la fine di quest’anno, la Ford Fusion Hybrid che sarà inserita nella produzione nel 2008, assieme alla Mercury Milan Hybrid e la Mazda Tribute Hybrid (il marchio giapponese è sotto il controllo degli americani). La pioniere Toyota sta aumentando la posta in gioco proponendo due nuovi modelli già a partire da quest’anno. Ad aprile lancerà il Suv di lusso Lexus RX400h (da settembre anche in Italia) che adotta la medesima tecnologia della Prius sebbene con due motori elettrici per gestire al meglio la trazione integrale, e prossimamente l’ammiraglia Lexus GS450h negli Usa. DaimlerChysler ha presentato ad inizio anno la propria generazione di ibridi sulla ammiraglia Mercedes Classe S. Il sistema, chiamato P1/2 trasmission, è una combinazione tra il motore
diesel a combustione interna e due motori elettrici abbinati in serie, che offre al guidatore la ragguardevole potenza massima di 340 Cv, un record assoluto per i veicoli a propulsione ibrida. Lo stesso sistema è presente sulla Opel Astra Diesel Hybrid ma il motore convenzionale è un 1700 a gasolio da 125 Cv. Il sistema propulsivo anche in questo caso è abbinato ad una trasmissione automatica controllata elettronicamente che consente all’Astra di consumare meno di 4 litri per 100 chilometri. Per rimanere nel gruppo Gm anche il Suv GMC Graphyte avrà la propulsione ibrida, ma essendo destinato al mercato americano il motore a combustione interna sarà il Vortec 5.300 V-8 da 300 Cv. Inoltre a partire dal 2007 la propulsione ibrida della Gm sarà disponibile per il Suv Chevrolet Tahoe e la GMC Yukon, mentre la DaimlerChrysler potrebbe sfruttarla per la grande Dodge Durango. I costruttori europei, in testa Psa Peugeot Citroën, devono invece fare i conti con un mercato dove i numeri maggiori sono rappresentati da automobili medie e medio-piccole, pertanto la scelta è rivolta principalmente a sistemi ibridi di primo livello del tipo “stop and go”, dove il motore elettrico ha prevalentemente il ruolo di riavviare il motore e accumulare l’energia che andrebbe persa in frenata. Per questo il gruppo Psa ha messo in vendita in Europa la Citroën C3 Stop & Go Sensodrive (in vendita in Italia a 14.300 euro da gennaio). E la nostra Fiat? È in ritardo. Tramite il proprio Centro Ricerche, il gruppo italiano sta mettendo a punto lo “Stop & Go”, un sistema ibrido minimo che potrebbe essere proposto verosimilmente sulla nuova Croma e ancora più facilmente sulla prossima Punto. Questo sistema si basa sul concetto di “ecodriver”: in pratica un motore elettrico montato parallelamente e interconnesso al tradizionale propulsore a combustione interna (che può essere alimentato a benzina, gasolio o gas naturale, dipende dal progetto finale) e ad un cambio meccanico robotizzato. Per l’ibrido non sono solo i grandi gruppi. La francese Heuliez, nota nel settore delle auto elettriche, ha realizzato un prototipo con la Dassault, la Cleanova III, che può essere considerata un ibrido elementare o un’elettrica con un propulsore che ne aumenta l’autonomia ricaricando le batterie. Insomma, ecco perché l’idrogeno può attendere.
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VOLVO 3CC esce da uno studio sulle possibili soluzioni di mobilità sostenibile per il futuro ed è stata sviluppata in California dal Volvo Monitoring and Concept Center. Da metà degli anni Novanta,
Volvo3CC
S
ono trascorsi quasi quarant’anni dalla prima introduzione del convertitore catalitico a tre vie con sonda Lambda su una automobile. Era il 1976 e si trattava di una VOLVO. Il costruttore svedese ha una lunga tradizione di rispetto per l’ambiente, avendo fornito innumerevoli soluzioni tecnologiche per ridurre l’impatto ambientale e continuando con immutato impegno quest’opera anche per il futuro. Perché già oggi il 30 per VolvoECC cento dei clienti VOLVO associa il marchio all’espressione “prevenzione dell’inquinamento” e perché la mobilità sostenibile resta la vera sfida del futuro a quattro ruote. Nel 1992 la VOLVO ECC – Environmental Concept Car, prototipo che anticipò nel design la successiva S80 – aprì la strada ad alcune soluzioni innovative. Oggi la VOLVO Car Corporation lavora molto sui bio-caburanti e le alternative ibride. Al recente Salone di Ginevra, il costruttore ha presentato al pubblico europeo un’altra concept car, la VOLVO 3CC, un modello attraente e molto ecocompatibile che aveva suscitato un grande interesse alla sua prima apparizione al Salone di Pechino nel 2004. La
VolvoECC
la VOLVO monta sulla maggior parte dei suoi modelli un radiatore denominato PremAir®. Il PremAir® è uno speciale rivestimento catalitico che si applica al radiatore e che converte l’ozono degli strati bassi dell’atmosfera in ossigeno puro, mentre l’auto è in marcia. Recenti studi hanno mostrato che fino al 75% dell’ozono che passa attraverso un radiatore di questo tipo viene convertito in ossigeno. La VOLVO ha poi sviluppato il concetto di alimentazione a gas metano, portandolo a livelli di efficienza elevati. Le emissioni di anidride carbonica di una VOLVO Bi-Fuel alimentata a gas metano di origine estrattiva (CNG) sono circa il 25% inferiori rispetto a un motore a benzina. Se poi l’alimentazione avviene con l’altro tipo di metano, quello di origine biologica, l’apporto netto di anidride carbonica al ciclo naturale è praticamente
nullo. Le auto Bi-Fuel possono essere anche alimentate a benzina, come soluzione di riserva. Una strada che la VOLVO ha intrapreso giusto dieci anni fa. Anche nello standard PZEV (Partial Zero Emission Vehicles), il costruttore svedese è molto avanti. Questo standard è uno dei più severi al mondo in fatto di controllo delle emissioni ed è già in vigore in alcuni stati degli Usa. Sebbene siano alimentate a benzina, le auto azionate da motori PZEV presentano emissioni di idrocarburi e ossido d’azoto estremamente basse. Le nuove S40, V50, S60 e V70 sono tutte disponibili con motori PZEV in questi stati americani. Certo, costruire auto pulite è uno dei compiti che spettano all’industria automobilistica. Ma per costruire una società più rispettosa dell’ambiente c’è bisogno del contributo di tutti. Come parte di questo impegno, la VOLVO partecipa a numerosi partenariati e progetti di natura sociale, tra cui BIOGAS CITIES, un progetto coopeCC rativo fra Volvo Cars, vo3 l o V AB Volvo, comunità locali e industrie petrolifere per incoraggiare l’uso di biogas e gas naturale; VOLVO ADVENTURE, una competizione educativa per i giovani, promossa in collaborazione con l’UNEP, il programma ambientale delle Nazioni Unite; VOLVO ENVIRONMENT PRIZE, con oltre 200.000 dollari in palio, diretta ad individui che forniscono contributivi significativi alla ricerca e sviluppo di soluzioni tecnologiche per la salvaguardia ambientale. Vedere per credere. Volvo Environmental Product Information è un’esclusiva banca dati che, a beneficio dell’automobilista, descrive l’impatto ambientale complessivo, lungo l’intero arco di vita dell’auto, facendo raffronti fra i vari modelli Volvo. Per ulteriori informazioni visitate il sito: www.volvocars.com/EPI
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KOLINALLEANZA MODELLO
S
e qualcuno, soltanto qualche anno fa, avesse detto ai dirigenti del gruppo francese Psa - Peugeot-Citroen - che presto avrebbero fatto un accordo alla pari con un costruttore giapponese per produrre insieme nuove vetture, sarebbe stato subito preso per pazzo. Lo stesso matrimonio tra Renault e Nissan, d’altra parte, aveva visto la casa transalpina in posizione di acquirente e quindi nettamente dominante. Invece, miracoli della globalizzazione, oggi l’incontro tra la ex sciovinista, ed ex agitatrice del “pericolo giallo”, Peugeot-Citroen e la Toyota è un dato di fatto e la prole ha già compiuto i primi passi all’ultimo Salone di Ginevra, presentata in simultanea dalle tre marche e con tutti gli onori di un battesimo in pompa magna. I tempi cambiano, e ormai nessuno si può
più permettere atteggiamenti protezionistici e di agire in totale autonomia, neppure chi si ammantava orgogliosamente di grandeur. Farcela da soli, nella sempre più difficile situazione di un mondo automobilistico accerchiato dalle emergenze ecologiche e dal lievitare dei costi, è diventata un’ipotesi utopistica e, tra l’altro, il futuro positivo può soltanto guardare ad est, sia allo straordinario potenziale di fresca clientela che alle opportunità industriali offerti dai paesi dell’Europa orientale e dell’Asia. Qui si può trovare un antidoto, anche per le case occidentali, ad un mercato altrimenti costretto nei limiti della “sostituzione” e con indici di sviluppo troppo contenuti per compensare la crescita delle spese. Del resto, gli intrecci est-ovest sono sempre più frequenti e a fare scalpore, quasi quanto quello suscitato da francesi e giapponesi, è l’annunciato e imminente accordo tra la MgRover e la cinese Saic di Shanghai, estrema ancora di salvezza per l’azienda britannica che segue di poco il connubio con l’indiana Tata per realizzare la piccola CityRover (cosa penserebbe la regina Vittoria!). Per non parlare delle coreane Daewoo, che adesso si chiamano Chevrolet come i macchinoni yankee, o della stessa futura Suv Fiat di taglia media, che sarà costruita in Ungheria assieme ad un praticamente analogo modello Suzuki. Intanto, a Kolin, cittadina della Repubblica Ceca non troppo lontana da Praga, da pochi giorni è stata avviata la produzione del terzetto di piccole auto Peugeot-Citroen-
La joint venture tra Psa, Peugeot-Citroen, e Toyota per costruire tre macchine condivise al 90 per cento in una fabbrica della Repubblica ceca. Un solo costo diviso per tre
Toyota, in una fabbrica moderna, molto influenzata dai redditizi sistemi nipponici in materia di qualità e razionalità costruttive, che ha comportato un investimento intorno ai 500 milioni di euro. Da qui, ogni anno, dovrebbero uscire almeno 300 mila unità, equamente ripartite fra i diversi marchi, ma la flessibilità degli impianti consente massima elasticità nelle quote. Il complesso di Kolin garantirà così ai nuovi alleati un ingresso in forze in un settore, quello delle super compatte di segmento A, che sta diventando sempre più importante per il mercato europeo e, in particolare, proprio per quello degli emergenti paesi dell’est. Nel 2004, nel settore, la crescita è stata consistente (in Italia, ad esempio, si è passati dal 7,6 al 9,4 per cento del totale) e, a fronte delle circa 800 mila unità vendute complessivamente a livello continentale, già si parla di superare il milione nel 2005. Un piatto ricco in prospettiva, che vede in posizione leader in questo momento la Fiat Panda, ma dove si muovono giapponesi e coreane, oltre alle non più giovanissime Ford Ka e Renault Twingo, mentre la Smart Fortwo continua a restare un caso a parte. Una domanda in crescita, che lascia dunque spazio ad un aumento dell’offerta, soprattutto se questa proviene da soggetti assai sperimentati ed apprezzati nel campo delle utilitarie di rango. Per Psa, le debuttanti Citroen C1 e Peugeot 107 andranno a completare verso il basso, dall’estate prossima, una gamma già ricca di proposte, che va dalle Citroen C2 e C3 alla originalissima Peugeot 1007, con porte laterali scorrevoli. La Toyota, invece, con la Aygo si posizionerà dall’autunno, scendendo un gradino, in previsione dell’arrivo della seconda generazione Yaris, che sarà più generosa nelle dimensioni e più completa negli allestimenti del modello attuale. Sfruttando la stessa piattaforma e tutte le componenti fondamentali della carrozzeria, lunga intorno ai 3,50 metri e disponibile subito sia a tre che a cinque porte, le cugine franco-giapponesi si differenziano all’esterno soltanto nel disegno della mascherina anteriore e in particolari secondari. All’interno, cambiano i rivestimenti ma l’impostazione è analoga, con spazio sufficiente per quattro persone e bagagliaio ridotto se non si ribaltano i sedili posteriori. Identica anche la meccanica, con la Toyota che ha messo a disposizione un tre cilindri a benzina di 1.000 cc da 67 Cv e Psa il suo ben noto quattro cilindri turbodiesel common-rail 1.400 da 68 Cv. Non saranno del tutto identiche le strategie di marketing, con la Aygo che potrebbe puntare più alla clientela giovanile e trendy, mentre le C1 e 107 potrebbero rappresentare un vero e proprio accesso alla gamma dei rispettivi marchi per non sovrapporsi alle sorelle maggiori. Sul fronte dei prezzi, si parla di una base oscillante tra 8 e 9 mila euro, a conferma di una competitività che, appunto, ormai soltanto le sinergie sono in grado di garantire.
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I
nnovare richiede capacità creative, è fuori di dubbio. Ed è una cosa che mai – nella storia – ha potuto fare a meno di una conoscenza millimetrica del mercato. Ma soprattutto è quanto di più avido di denaro vi sia all’interno dei processi produttivi. Un cocktail indigesto, nsomma, spesso micidiale. Che contiene in sé anche un paradosso vecchio come l’industria tessa: chi avrebbe i mezzi per farlo – cioè i grandi produttori, quelli con maggiore disponibilità per finanziare ricerca e sviluppo – innova meno di quanto potrebbe. Spesso per loro vige nvece la regola dello spremere il più possibile evoluzione di uno stesso modello sfruttando il uccesso del suo marchio. Sull’altro ramo, invece, stanno gli operatori di dimensioni più contenute e i nuovi entranti, ioè gli operatori che fisiologicamente hanno meno risorse da impiegare. Sono loro quelli he osano di più sul fronte dell’innovazione. Trovandosi poi magari con un rischio ripagato on gli interessi. La nostra panoramica parte proprio da questi
tradizione ma che è uno dei più apprezzati e promette margini di guadagno interessanti se viene percorso nella giusta maniera. La scommessa di Ktm si chiama SuperDuke, una moto nuda aggressiva e tecnicamente molto raffinata che ancora prima di debuttare ha saputo guadagnarsi riscontri di critica eccellenti, poi confermati in pieno dal verdetto della strada. Passando ai produttori di primo piano, non può che essere sospeso il voto all’innovatività complessiva di Yamaha, il produttore nipponico che ricopre la terza posizione per moli di venduto nel nostro paese. Galvanizzata dai successi in ambito sportivo e alle prese con la capitalizzazione del ritorno di immagine del Valentino nazionale, la società di Iwata oscilla tra il limitare le sue novità mediante semplici ritocchi all’esistente e il proporre progetti radicalmente nuovi. Rientra nel primo filone la popolarissima R6 che nell’ultima versione in vendita risulta soltanto svecchiata e ottimizzata rispetto a quella che l’ha preceduta, mentre da ascrivere nell’area del coraggio di innovare c’è il progetto MT-01, due ruote nuda ancora più muscolosa della parigrado appena vista dalle parti di Ktm, e ancora prima la rivisitazione della Fazer, moto stradale multipurpouse, risultata più radicale delle aspettative. La conclusione spetta di diritto agli innovatori meno coraggiosi, proprio i grandi e i grandissimi. Parliamo di Suzuki – che per vendite in Italia è subito alle spalle di Yamaha – che rimane ancorata all’esistente proponendo un ennesimo ritocco dei modelli, certo intelligenti, certo apprezzatissimi, ma comunque ormai datati della serie Bandit, e finisce per concentrare lo stato dell’arte della sua produzione sul miglioramento di alcuni modelli, trascurandone altri che invece dovrebbero soltanto essere cancellati dal listino e sostituiti da progetti freschi. E sul finire, il mondo si capovolge e l’ultima di questa nostra personale interpretazione sui modi scelti dalle varie case per affrontare le sfide del mercato risulta essere la prima casa produttrice nel mondo. Honda merita il nostro pollice verso per l’approccio conservatore e conservativo utilizzato per il suo best seller del nostro mercato, la vendutissima, la più venduta in assoluto, cioè la Hornet. Vero è che quest’ultima, presentata nell’ormai lontano 1998, pare aver finalmente raggiunto oggi il suo equilibrio complessivo lasciando via via per strada i difetti che hanno afflitto le precedenti rivisitazioni. Ma avremmo voluto di più da una motocicletta che da sola è riuscita a plasmare dal nulla un comparto prima sconosciuto, quello delle naked appunto. Le svolte epocali come quella che, a partire dalla Hornet, ha radicalmente cambiato la pelle al mondo delle due ruote non solo in Italia ma anche altrove in Europa, non sono cose da tutti i giorni, di questo siamo ben consapevoli. Tuttavia, pensiamo anche che soltanto con una mossa perentoria, radicale, Honda potrebbe in un sol colpo scrollarsi di dosso l’agguerrita concorrenza di cui continua a sentire il fiato alle spalle e, allo stesso tempo, riconquistare parte del terreno perso tra i cordoli a favore della rivale di sempre Yamaha.
BRUNO DI CAPRILIA
MOTOCOMECISI COMPRA
Chi osa e chi no sul fronte della ricerca nel settore delle moto e degli scooter, chi spreme il più possibile l’evoluzione dello stesso modello. Una pagella ultimi. Da Ducati, per esempio, che tanto piccola non è, ma che in Italia ha una quota di presenza inferiore al 10 per cento di quella della leader (da noi e nel mondo) Honda. Eppure, dal basso della sua quota, la Ferrari delle due ruote è stata negli ultimi anni la più coraggiosa. Al suo management va infatti riconosciuto l’ardire di aver interrotto la continuità pur di grande successo delle sue superbike stradali stravolgendone l’anima e l’identità con modelli di radicale rottura – nel design come nella sostanza – con il passato. L’audacia fa da leitmotiv anche nell’aver scelto di costruire un mezzo tanto particolare come la Multistrada. Un mezzo che non c’era, nelle corde Ducati, prima ancora che in assoluto. E anche in questo caso, pur con ritmi pacati, il gesto ha trovato adeguata compensazione del mercato. Da Borgo Panigale a Hinkley, Regno Unito, ma anche regno del marchio motociclistico rimasto solo a rappresentare i grandi numeri delle produzione britannica delle due ruote. Da qui, la leggendaria Triumph ha lanciato la sfida agli Stati Uniti proprio sul loro terreno favorito, quello delle cruiser tutto cromo e coppia da trattore. Per farlo ha dovuto accantonare per un po’ il suo filone di riferimento fatto di mezzi retrò fuori e all’avanguardia tecnologica dentro per dedicarsi allo sviluppo della moto che tuttora si aggiudica tutti i record di capienza volumetrica del motore. Recentemente ha fatto poi la sua comparsa anche la versione 2005 della Speed Triple, un modello entrato di prepotenza nell storia recente del marchio inglese e che, dopo una serie di rivisitazioni, si è presentato in una veste tutta nuova, in cui il valore del brand è stato subordinato a quello della componentistica, e non viceversa. Ancora più estrema la vicenda che ha come protagonista l’austriaca Ktm. Che ha deciso di mettere un’ipoteca sul suo futuro industriale provando a cimentarsi in un settore, come quello delle moto stradali di tipo naked, senza carena, che non è mai appartenuto alla sua
LUCIANO LOMBARDI
L’INNOVAZIONE ADUE RUOTE
iaggio ha annunciato non senza soddisfazione di aver chiuso il 2004 con un bilancio positivo, cosa che non si verificava da quattro anni. Questo grazie anche all’aumento delle vendite, ma soprattutto all’aumento dell’efficienza poiché le immatricolazioni Piaggio sono cresciute meno di quanto ci si attendesse. Per dare delle dimensioni, il bilancio 2004 si concretizza in ricavi per 1.084,2 milioni di euro, in 68 milioni di euro di risultato operativo e 4,1 milioni di euro di utili netti. Agli operai di Pontedera, che l’anno corso avevano accettato un accordo sindacale che lega la retribuzione al livello di soddisfazione dei clienti, verrà riconosciuto un integrativo medio di 1.350 euro. Il primo bimestre del
euro e immatricolazioni in contrazione di oltre il 30%. I primi due mesi del 2005, invece, regalano un incremento delle vendite del 20% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Diversa la situazione di Moto Guzzi, acqusita sempre dalla Piaggio, che attende uno svecchiamento della gamma atteso ormai da tempo e che sembra ormai pronto ad avere inizio. Dopo la Breva 750, infatti, è in dirittura d’arrivo anche la versione da 1100 centimetri cubici, una proposta interessante a cavallo fra naked e turismo. Questa ed altre novità dovrebbero risollevare una situazione delicata. Quanti speravano in un rilancio immediato del marchio Gilera (che la Piaggio aveva già in casa) nel settore delle moto vere e proprie, invece, potrebbero restare delusi. Pur se carico di storia, il nome Gilera è ormai da troppi anni legato alla produzione di scooter per poter contare su un facile ed economico riposizionamento. Negli ultimi quindici anni, fatta eccezione per un prototipo di media cilindrata dotato di motore Suzuki, non si è visto un modello di motocicletta Gilera. In compenso, con diversi prodotti ben riusciti, il marchio ha un buon livello di notorietà come produttore di scooter originali e dinamici e potrebbe affiancare Aprilia in questo settore. Infine, Derbi, la marca spagnola entrata nell’orbita del Gruppo Piaggio. La produzione di scooter sportivi destinati a un pubblico molto giovane prosegue con successo grazie al dinamismo nel proporre continua innova-
La sfida della Piaggio - primo bilancio positivo nel 2004 dopo quattro anni di perdite e la battaglia con i suoi tanti marchi. La gestione dell’Aprilia 2005 ha confermato la buona prestazione commerciale del Gruppo, con un fatturato in crescita, malgrado un mercato dei veicoli a due ruote che ha fatto segnare un segno negativo consistente. Questo il quadro generale, ma al suo interno la situazione presenta più di qualche sfaccettatura. I singoli marchi del Gruppo Piaggio hanno avuto prestazioni diverse, in particolare la situazione dell’Aprilia - acquisita sempre l’anno scorso - merita una riflessione. Il bilancio 2004 del marchio di Noale è negativo, con una perdita netta di 151,7 milioni di
zione in termini di design. Di recente è stata anche presentata una moto di media cilindrata che reinventa il concetto di scrambler. Si tratta della Mulhacen, che ha riscosso un grande successo di critica in tutte le occasioni in cui è stata presentata. In un’ottica di sinergia, quand’anche il prodotto non dovesse avere seguito commerciale con il marchio Derbi, non è detto che non possa arrivare una nuova naked – magari da Aprilia – che tragga ispirazione proprio dalla Mulhacen. Dato il contesto, ci si può chiedere cosa sia in grado di esprimere il gruppo Piaggio nato dall’alleanza di più marchi. I numeri danno conforto alla strategia, poiché, a parità di strutture e perimetro industriale, il primo bimestre 2005 segna un incremento di quasi l’8% rispetto al primo bimestre 2004, quindi non è stato necessario perseguire una politica di tagli. I margini di perfettibilità e di sfruttamento delle sinergie, però, non sono eterni, quindi i prossimi passi riguarderanno il consolidamento in Europa per poter sostenere lo sforzo economico dell’espansione sui mercati emergenti dalle due teste di ponte in India e in Cina. Probabilmente si punterà su Aprilia prima e, successivamente su Guzzi per quel che riguarda le moto di media e grossa cilindrata. Aprilia può contare su diversi prodotti interessanti e un circolante di discrete dimensioni. Guzzi può crescere molto in termini percentuali, ma parte da una base decisamente sfavorevole (2.232 il totale immatricolazioni dell’anno scorso). La nomina di Leo Mercanti, che ha fatto ben parlare di sé alla guida della Derbi, a direttore del prodotto Aprilia, lascia intendere una focalizzazione a breve termine. Tra i problemi principali dello sviluppo del marchio veneto va menzionato la redditività del prodotto moto, che utilizza propulsori forniti dall’esterno. La Piaggio ha una notevole esperienza nella progettazione dei motori e ne ha già sviluppati alcuni di media e grossa cilindrata. La disponibilità di motori propri, consente dei notevoli risparmi in termini di costo produttivo e quindi di profittabilità del prodotto. In questo caso la fusione con Piaggio può comportare dei notevoli benefici. Le moto che è possibile aspettarsi da Aprilia dovranno contenere gli effetti nocivi di una concorrenza “intragruppo” e porsi come alternativa in termini stilistici e prestazionali rispetto alla maggior parte dei costruttori ben radicati in Europa. Guzzi ha contro la sua stessa tradizione: per troppi anni ha puntato tutto sul bicilindrico a V trasversale e oggi si trova nell’impossibilità di tradire questa architettura con facilità. Lo sviluppo tecnologico e del design sono quindi pesantemente vincolati da alcune scelte che paiono irrinunciabili. Sul fronte scooter, invece, il gruppo presenta un certo grado di sovrapposizione in termini di varietà di prodotto. La sfida dei prossimi anni sarà quella di diversificare per fasce d’età e profilo d’utenza l’offerta dei singoli marchi. Piaggio avrà un duplice ruolo, marchio “premium” con la Vespa, e marchio “funzionalista”, con una linea di prodotto finalizzata a soddisfare una domanda basilare di mobilità. Aprilia potrà puntare sul design e sui materiali per realizzare prodotti destinati a una clientela attenta all’originalità. Derbi e Gilera, si rivolgeranno con lo scooter sportivo a clienti di fasce d’età sostanzialmente diverse. Le opportunità di sfruttare le sinergie sono quindi più larghe di quanto non accada con le motociclette vere e proprie.
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