IL MURO 17

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il muro

LETTERA A KAFKA di Daniele Fiacco

A chi è destinata una lettera? Non di certo a chi si suppone sia rivolta. No, è destinata a chi la scrive. Io non avrò l’ingenuità di mettere nero su bianco neanche una riga per Kafka. Così comincio dalla fine, dall’impossibilità della lettera stessa, tirando fuori le parole dal vuoto enigmatico che mi separa dalle risposte che da Kafka non sarebbero mai arrivate, neanche se fosse ancora vivo. Comincio dall’unica conclusione possibile: chi pretende un mittente dall’altro lato del suo soliloquio non sta scrivendo a nessuno, sta piegando la parola a un doppio fine, quello di essere “compreso”. Ma è un’indebita voglia di comprensione che ti spinge a scrivere una lettera o il bisogno, altrettanto egoistico, di un testimone che assista impassibile al tuo chiassoso raccontartela? Quindi perché Kafka? Io so perché, perché metto in conto di sbagliarmi. Perché forse Kafka non è morto, continua a scrivere con le penne che i turisti gli lasciano sulla tomba e appare a volte tra i doppi vetri delle finestre e mi sta leggendo nei pensieri proprio ora, sbirciando tra i rampicanti del Nuovo Cimitero Ebraico, mentre pagina dopo pagina riscrivo a mente i suoi libri, in quella peripezia che è anche il respiro della mente e che, proprio come il respiro, non sai mai quando si fermerà: la lettura, quel miracolo misconosciuto. Dopotutto, gli scrittori non muoiono. Chissà cosa vedono i turisti, quando stazionano di fronte a questa tomba sempre dietro a un obiettivo meccanico. Cosa fotografa chi non vede mai niente? È feticismo, feticismo puro. Lui è Kafka, loro no. Il coraggio di mettersi a occhi nudi contro quella tomba non ce l’hanno. Ed è come accendere un monitor e vederci una stella di silicone che fa sentire bello chi si immedesima in quell’orrore. Una fantasia masturbatoria è sempre meglio, quando non si vede nient’altro. Perché poi, a trovarlo uno che abbia non dico appreso dell’esistenza di Kafka su un banco di scuola, ma almeno letto e compulsato le sue opere, da cima a fondo, perché qualcosa che non fosse il dovere scolastico di ripeterlo a pappagallo e dimenticarselo lo portava tra quelle pagine. Io non avevo molta scelta, da ragazzo. Crescere a Latina non offre molto, o ti droghi o leggi. E siccome a drogarsi erano capaci tutti, io ho letto. Il che non significava far scorrere gli occhi su righe d’inchiostro da un inizio a una fine, ma trasfigurare la pagina stessa, ribellarsi alle convenzioni tipografiche, affinché tra le righe si aprisse un baratro. Ovviamente, dovevi cascarci dentro. Se poi cadendo ti inventavi un paio di ali per non romperti la testa, meglio ancora. Ma a volte cascavo in piedi e le gambe si spezzavano e dovevo rimettere insieme i pezzi per rialzarmi. Non ho rubato neanche un centimetro, ho ricostruito solo le mie piccole gambe, ma erano più forti di prima. Avendo letto Kafka, so che Kafka, come ogni scrittore, sta solo nei libri che ci ha dato. E quindi la sua tomba mi appare ora nel decoroso anonimato della sua bruttezza. E se Kafka stesse veramente spiando tra i rampicanti, mentre anch’io sto in piedi davanti a questa tomba come uno stupido turista? Gli chiederei se sente il peso delle cose che le persone lasciano sui ciottoli di fronte al suo nome. Tutte le volte che ho visto una penna sulla sua tomba, ho pianto. Scrivi ancora, Kafka. Scrivi. Ovunque tu sia. Tanto, non sarai mai del tutto qui. Sarai sempre dall’altra parte della fessura, tra due vetri trasparenti, a lanciarci parole contro, come coriandoli dai bordi taglienti. Questa è stata la tua opera, puntare il dito contro l’apparenza di un ordine chiamato normalità, dire quanto poco fosse inoffensivo. Coriandoli che uccidono come pugnali, questo erano le tue frasi. Riesco a dire l’eco che hanno fatto nella mia psiche solo con un’altra metafora.

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