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VISIONI 08. GIOVANI STRADE DEL CINEMA INDIPENDENTE AMERICANO 12. INTERVIEW PROJECT A SPASSO PER GLI STATI UNITI 14. CHIUSI IN CASA VALIDE RAGIONI PER NON USCIRE 16. FALSO MOVIMENTO
LIFE 18. IRIS VAN HERPER METAMORFOSI FUTURISTICHE 22. FASHION FACTORY 24. SPIRITO A PEZZI 26. MOMART UN’OFFICINA DELLE ARTI
ARTE 28. EVENTO DGTALES FOTOGRAFIA IN MOSTRA 34. DAEDALUS RISING IL LABIRINTO DI ZAELIA BISHOP 36. CASA DI BAMBOLA
LIBRI 38. LA ROSA E LA CENERE DI GIUSEPPE PALUMBO 46. AEREI DI CARTA 49. LA REALTÀ IN TRASPARENZA L’ULTIMO APPUNTAMENTO DI WALLACE
MUSICA 50. NOW IT’S BLUES ARRIVA IL DEBUT ALBUM DI DAVID LYNCH 54. BROKEN JAZZ GIANLUCA PETRELLA 58. DISFUNZIONI MUSICALI 60. PIANOZONE
HI-TECH 62. LA (RI)EVOLUZIONE DELL’INDUSTRIA VIDEOLUDICA
Editoriale In un mercato della cultura volto ad implodere verso l’impossibilità di sostenersi, l’autoproduzione talvolta segna il limes tra l’attacco e la resa. E naturalmente quest’ultima opzione non è nemmeno da considerare. Sigillato in dinamiche che spesso hanno poco da spartire con l’interesse degli artisti e del pubblico, il mondo professionale dell’intrattenimento vive una situazione di trasformazione che coincide con una totale crisi del modello anni ’90. Acquisto e consumo dei materiali culturali trovano nuove strade e nuovi equilibri, ricostruendo un rapporto assai più diretto fra pubblico e creativi. In questo senso il digitale ed il web rappresentano la via più ovvia alla circolazione di questi beni spesso immateriali, ma a ciò si aggiunge anche una riappropriazione di spazi non soltanto virtuali. Ad una progressiva parcellizzazione e moltiplicazione delle piccole realtà corrisponde anche un fiorire di collettivi artistici quasi carbonari, nuovi spazi espositivi e differenti metodi di distribuzione, con possibilità di mercato che uniscono performance live e marketing dei nuovi media. Ma non si tratta di un fenomeno che
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funziona solo a livello di associazionismo, bensì di un’esperienza che coinvolge a 360° anche il circuito del cinema d’avanguardia, della musica colta e dell’arte contemporanea. Accade così che un cineasta come David Lynch affianchi una selezionatissima produzione cinematografica ad un proliferare di progetti pensati appositamente per la diffusione su internet; oppure che un jazzista come Gianluca Petrella apra una sua etichetta discografica per curare ogni singolo passo del processo artistico ed unire la classica distribuzione nei negozi alla vendita online ed ai concerti. Non fa eccezione il mondo editoriale, ormai tremante sotto la spada di Damocle del passaggio al digitale e non ancora adeguato alle istanze di informazione che provengono direttamente dai lettori. Un universo che tuttora non trova il giusto bilanciamento fra informazione su web e approfondimento su carta, nuovi supporti e multimedialità dei contenuti, costi di realizzazione e prezzo di vendita. Naturalmente il giornalismo sarà il primo ad esser spazzato via nella forma in cui lo conosciamo, e questo anche a causa di un mercato che fino ad ora è rimasto chiuso e intransigente, pigro e satollo. Il ritorno ad un’editoria di selezione (e non più generalista) segnerà una cesura definitiva con la staticità del passato, mentre le realtà che oggi stanno muovendo i primi passi avranno in futuro le competenze ed i mezzi per fare piazza pulita da queste cariatidi mediatiche. C’è solo da augurarsi che questo necessario cambiamento avvenga in tempi veloci, risparmiandoci il penoso confronto con un’informazione noiosa e decrepita. Michele Casella
Photography DUY QUOC VO
REDAZIONE Michele Casella Direttore Responsabile Vincenzo Recchia Creative Director Irene Casulli Fashion Editor Giuseppe Morea Multimedia Developer Annarita Cellamare Redattrice Vincenzo Pietrogiovanni Caporedattore cinema Daniele Raspanti Caporedattore hi-tech COLLABORATORI Simona Ardito, Claudia Attimonelli, Luigia Bottalico, Sergio Bruno, Elisa Caivano, Antonello Daprile, Roberta Fiorito, Alessandra Fossanova, Valeria Giampietro, Enrico Godini, Ambrosia J.S. Imbornone, Paolo Interdonato, Pasquale La Forgia, Ninni Laterza, Giovanna Lenoci, Francesca Limongelli, Paola Merico, Simona Merra, Stefano Milella, Alessandra Recchia, Beppe Recchia, Laura Rizzo, Davide Rufini, Veronica Satalino, Mimma Schirosi, Carlotta Susca. FOTO DI COPERTINA Artwork della foto di Maurizio Cigognetti (un ringraziamento a DgTales) FOTOGRAFI Daniele Raspanti Un particolare ringraziamento a Gianni Cataldi per la sua foto di Gianluca Petrella
Styling SONNY GROO
POOL Registrazione n. 31 del 08/09/2009, presso il Tribunale di Bari www.ipool.it Cercaci su Google+, Facebook, Twitter, Myspace, Issuu. PUBBLICITÀ Imood Via Cristoforo Colombo, 23 - Putignano (BA) Tel. 080.4054243 www.imood.it Stampato presso Sedit – Servizi Editoriali
La riscoperta della strada
di Luigi Abiusi* * Direttore del periodico di cultura cinematografica Uzak.it; critico cinematografico e letterario per le riviste Filmcritica, Cinecritica, Critica Letteraria.
Visioni
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Il cinema indipendente americano, dopo la parziale stagnazione d’epoca reaganiana, negli ultimi dieci anni si è rimesso sulla strada, impolverandosi, infangandosi, immergendosi nell’intrico di risonanze provenienti dalle plaghe del cielo, vaste e grumose, o dai cigli, sterpi delle carreggiate, o dalla ferraglia delle ferrovie, vagoni-merci, vagabondare, ipnotico ruminare dei binari. E ciò – l’aprirsi ai grandi spazi, il predisporsi al viaggio – incarnato in una susseguenza di figure spettrali (cioè pronte a re-incarnarsi ogni volta: gli “spettri” di Derida), giovani-personaggi assopiti, annichiliti eppure pronti a rimettersi in moto e in gioco nel giro delle periferie, delle zone desertiche fuori dalle città (spesso elevate a metafisica, come in Gerry), o verso la riscoperta delle frontiere, o piuttosto l’invenzione di nuove (l’Alaska), lì dove il nomadismo implica scoperta di territorio e del corollario comunitario correlato (sia pure, ad un tratto, diradato), come nell’epopea fordiana protesa verso Occidente. Ma nel bellissimo, quanto
anomalo Meek’s Cutoff (2010), Kelly Reichardt retrodatando di molto lo smarrirsi sulle strade americane, destruttura il classico western, la vena aggregativa che rende rigogliosa anche la brughiera, e inquadra proprio il deserto come nucleo e agnizione di questo andare degli esploratori, mentre esso prende le sembianze di ignoto, di metafisica appunto, nascosta e forse svuotata di senso oltre l’orizzonte. Qui la strada è arida e il cielo slavato, entrambi promessa di una fertilità che forse non arriverà mai; e gli uomini guardinghi, slegati, inquieti di fronte all’idea del cammino, da cui si attende qualcuno (chè la comunità è dispersa) o la semplice ragione dell’altro per cui valga ancora serbarne la vita (quella di un indiano che deve indicare la strada verso l’acqua), il suo avvento e la sua parola. La gioia di Henry Fool Già Simon, straniato protagonista di Henry Fool (1997) – cioè della parentesi gioiosa all’interno del recente cinema indipendente americano, che è appunto questo capolavoro firmato
da Hal Hartley (e distribuito per un breve periodo anche in Italia con il titolo La follia di Henry) – in una delle prime inquadrature aveva poggiato l’orecchio sull’asfalto per sentire la venuta di Henry, il quale arrivava alle sue spalle, camminando al centro della strada, con lo sguardo e l’incesso proprio del profeta. La profezia era la Poesia, che sconvolgeva (e restava scintillante fino alla fine, motivo di fuga) col suo portato di eros, di musica, di sangue, la vita di un’America reazionaria e corrotta. Quella stessa che nel ‘69 aveva abbattuto a colpi di fucile gli istinti nomadi e libertari di Wyatt Capitan America e Billy in Easy Rider, salvo essere ravvivati in seguito, grazie almeno alla scintilla accesa dall’amicizia di Max e Francis, nel vagabondaggio di quello splendido Scarecrow (1973) di Jerry Schatzberg, che pure ammantava di malinconia e inquietudine la tradizione del vagabondaggio, mettendone in discussione la potenzialità di una qualche positiva catarsi. Peraltro, secondo la Reichardt essa non sarebbe neppure questione “storica”,
scomparsa, dispersa col progredire della storia americana, bensì problema metafisico, “mitico”, riguardante non solo l’epos dell’ovest, ma in genere ogni narrazione odeporica.
Nella pagina precedente fotogramma di Easy Rider
Gus Van Sant: la marcia ipnotica di Gerry
A pagina 11 fotogramma di Paranoid park
Che è il piano su cui si dipana un altro capolavoro del cinema recente, quel Gerry (2002) che apre la tetralogia sulla giovinezza di Gus Van Sant, a cui seguiranno quindi Elephant (2003), Last Days (2005), Paranoid Park (2007); tutti film ispirati al procedimento ieratico e profondamente espressivo del regista ungherese Bela Tarr, autore di vere opere d’arte misconosciute qui da noi (se non fosse per Fuori Orario e qualche retrospettiva). In effetti gli enormi spazi, dilatati dai lunghissimi piani-sequenza di derivazione tarriana, sono la sostanza di una sconnessione del particolare contingente legato ai due protagonisti, della loro storia personale, da cui si sgrana una marcia estenuata e ipnotica, nel deserto glabro e ieratico, che è la marcia non
A pagina 10 fotogramma di Wendy and Lucy
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solo di un’umanità disorientata nello sterminio di terra e cielo, ma l’azione diretta, la semovenza degli stessi elementi, corpi, scenari, della loro atmosfera, e quindi dell’immagine cinematografica in sè. Una dimensione mitica che non scompare del tutto neppure dall’impianto (psic)analitico di Paranoid Park, che è il tentativo di riportare il deambulare del giovane all’interno di spazi urbani, mettendo in evidenza ancora quell’alienazione caratterizzante sia Elephant che Last Days. Esperienza emotiva agita dallo scenario (ferroviario), rumori di fondo, di ferraglie, che torna nel solitario e silente, e allo stesso tempo, tenero film di esordio di Kelly Reichardt, Wendy and Lucy (2008), ennesimo tentativo di emancipazione affidato allo spostamento verso la nuova frontiera dell’Alaska, meta, un anno prima anche di Into the Wild di Sean Penn. D’altronde tutto il cinema di Gus Van Sant già dagli esordi della Mala Noche (1985), di Drugstore Cowboy (1989), di My Own Private Idaho (Belli e Dannati, 1991),
è incentrato sulla motilità ed emotività di ragazzi inquieti e avventurosi, puri e selvaggi, scintillanti e autodistruttivi – passando da una scrittura vibrata, “romantica”, soggettivisticamente allucinata, a quella impersonale e fortemente espressiva del pianosequenza, non meno allucinatoria, ma per via di oggetti senzienti –, personaggi simili a quelli coevi e disperatamente “osceni” di Greg Araki, per cui varrebbe la pena di aprire un’altra, vasta parentesi. Dalla strada alla rete: The Social Network Ora, l’opzione concreta del viaggio (per lo più giovanile) anche come metafora di una nazione in via di maturazione e di acquisizione, scoperta, di sé (di quello che era il proprio west) pare essere definitivamente annullata (annientate le impossibilità di liberazione) da The Social Network di David Fincher, che dilegua il referente fattivo, l’appiglio (per quanto gracile) della strada, dei binari e dei treni-merce presi in corsa, per
mostrare in tutta la sua alienazione, le vie fittive, velocissime, dello sterminato reticolo telematico. È in questo contesto di percorsi virtuali che l’”uomo nuovo finanziario” (rampollo di una borghesia visagista, che maneggia cifre e facce) esercita la propria selezione, esalta l’esclusività (il circolo privato, elitario, a cui si accede solo su chiamata di rango, ecc.), laddove l’”uomo nuovo” di John Ford, cercava, mediante il cammino verso occidente, l’inclusione estesa, la collettività (se pure problematica), così come in seguito faranno, con implicito sentimento della sconfitta, i numerosi protagonisti dei road movie più struggenti, oramai privati della cognizione congregante e piuttosto aggrappati a sparuti e fragili compagni di viaggio. Il plusvalore delle facce Il neofascismo, neocapitalismo spaccia e spiaccica le facce per strada telematica (il facemash.com che Zuckerberg organizza all’inizio del
film): è questa realtà, questa corsa fittiziamente finanziaria (il possesso di cose come realizzazione del sè), che Fincher corrode, non il fenomeno dei social network, su cui sembra sospendere il giudizio. È il ragazzo spietatamente, cioè automaticamente selettivo e sedentario (seduto sulla sua sedia mentre fa correre i dati sulla rete), l’obiettivo del racconto, soggetto tanto cinico quanto vile (se si pensa alla figura di Sean Parker), che si pone rispetto all’altro nella prospettiva dello sfruttamento, del plusvalore (sessuale oltre che economico); si identifica nell’abnorme flusso di numeri (server, contatti e soprattutto Denaro) che veicola, sublimazione tecnologica di quella “roba”, quella (esclusiva) ricchezza, a causa della quale, in fin dei conti, già i due avventurieri di Easy Rider venivano uccisi insieme alle potenzialità, all’estasi del viaggio nella varietà degli scorci.
Da quel lontano 1966, anno del suo primo cortometraggio Six Figures Getting Six, David Lynch è riuscito a diversificare la sua produzione artistica come pochi. Oltre al cinema, in cui ricopre o ha ricoperto un po’ tutti i ruoli, dal regista allo sceneggiatore, dal montatore, all’attore, dallo scenografo al produttore cinematografico, Lynch si dà anche alla pittura, alle installazioni e, non da ultimo, alla musica. Nel mezzo scorre anche un certo affluente fatto di meditazione trascendentale. Ma questa è un’altra storia, forse. Negli ultimi anni, poi, il suo enorme interesse per internet lo ha portato a costruire il suo sito personale come una vera e propria piattaforma multimediale da cui accedere ad un materiale esclusivo, come Dumbland, una serie di animazioni molto cruenti, e Rabbits, una sitcom di uomini coniglio che ritornerà, a distanza di anni, in Inland Empire.
di Vincenzo Pietrogiovanni
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La cinematografia lynchiana viene solitamente accostata al surrealismo, al subconscio, al sogno. E proprio come nei sogni, nei film di Lynch la trama – irreparabilmente oscura e non lineare – cede il passo alle situazioni filmiche, alle suggestioni visive e sonore. Se si scorre l’elenco delle pellicole firmate da Lynch, questa caratteristica è decisamente una costante, eccetto un solo caso: Una Storia Vera, o, come recita il titolo originale, The Straight Story (che potremmo tradurre esattamente sia La storia di Straight che, per l’appunto, La storia dritta). Questo film del 1999 racconta di una vicenda realmente accaduta: il viaggio di sei settimane del
signor Straight che attraversa l’America rurale in trattore pur di raggiungere suo fratello gravemente malato. Nulla di più lontano dalla poetica e dal linguaggio lynchiano, dissero in molti. Eppure, a distanza di 10 anni (in cui produce due capolavori indecifrabili, Mulholland Drive e il già citato Inland Empire) dà vita ad un progetto che con Un Storia Vera è parecchio assonante: Interview Project. Questo nuovo progetto online è un viaggio sulle strade statunitensi di 30.000 chilometri in 70 giorni, in cui “le persone sono trovate ed intervistate”, come dice lo stesso Lynch nel video di presentazione. È un documentario in 121 episodi, tanti quante le persone intervistate. Ogni episodio è un video che si aggira intorno ai 3/5 minuti di durata, introdotto brevemente da Lynch che presenta il protagonista dell’intervista. Sul sito c’è la mappa del viaggio ed ogni tappa corrisponde al video della persona incontrata ed intervistata in quel luogo. Si crea così una rete di volti, di storie, di vite made in USA. Le domande cui rispondono Alva, Richard, Clara o Lucille sono semplici ma incredibilmente vere: come descriverei me stesso? Qual era il mio sogno da bambino? Qual è la cosa più importante per me? Ho dei rimpianti? Quali sono i miei piani per il futuro? Com’è la mia città? Quando hai avuto a che fare con la morte per la prima volta? Di cosa sono più orgoglioso? Come voglio essere ricordato? Domande rivolte a uomini solo apparentemente senza voce e senza storia perché sono volti che non trovano
mai spazio nel cinema o in tv. Nel vedere questa imponente opera, molte idee mi si affollano nella mente - oltre a quella più banale ed evidente su quel che resta del sogno americano e ruotano intorno a quello che dice sempre Lynch in chiusura di presentazione: “It’s human and you can’t stay away from it”. Si può davvero fare a meno dell’umano? E capisco sempre di più cosa significa il termine lynchiano e realizzo come spesso sia usato a sproposito. Prodotto da Absurda, società di proprietà dello stesso cineasta, il progetto è terminato negli USA l’anno scorso. Da qualche mese è ripartito in Germania. interviewproject.davidlynch.com www.interviewproject.de
di Pasquale La Forgia
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“Quando avevo otto anni, ho fatto vedere il mio pene a una ragazzina down e ancora oggi devo convivere con questa cosa. Certo, paragonarla alla schiavitù in America può sembrare assurdo, ma in effetti sono storie simili. Perché quella merda è il nostro passato”. Letta così, a freddo e fuori contesto, non è altro che una frase di dubbio gusto, messa lì tanto per non farvi girar pagina. Se invece conosceste la persona che l’ha pronunciata, cambiereste idea al volo. Louis C.K. è il migliore comico americano della sua generazione, ha 44 anni, una storia familiare complicata, un divorzio alle spalle, due bambine e un cane scemo. Quando si è reso conto che i suoi problemi erano l’ideale per riempire venti minuti di palinsesto a settimana, ha deciso di riversare tutto in una serie tv che scrive, dirige, produce, interpreta e monta. La serie – inedita in Italia – si chiama Louie, va in onda su Fx e non è altro che una versione in pillole della sua vita di ogni giorno: la routine di un comico newyorchese che si divide fra i suoi doveri di papà e la sua cerchia di amici più o meno famosi.
Gli ingredienti sono quelli che ci si aspetta (l’incapacità di trovare una donna, l’ingrato ruolo del genitore separato, la città che inghiotte), tenuti però insieme da una capacità unica di puntare all’essenziale senza per questo rinunciare alla poesia. Lo so. Poesia è una parola che gli analfabeti usano per evocare cose a cui non sanno dare un nome. Ma giuro che stavolta le cose stanno proprio così. Sì, perché in Louie si trova quella pazzia lunare che trovate in Jim Jarmusch, quella stessa eterna miseria cantata da Tom Waits. Solo che qui si ride. Infatti qualsiasi cosa gli succeda durante il giorno, state sicuri che la sera stessa, non appena salirà sul palco, Louie la sputerà nel microfono e la trasformerà in comicità di altissimo livello. Louie si distingue dalle tante sit-com americane anche per la sua genesi. “Ho detto a Fx versatemi 250.000 dollari e fra un mese vi consegnerò un dvd. E hanno accettato. Per loro era un investimento minimo, per me era l’occasione per tentare una strada diversa”. A quanto pare, se ci si mantiene entro i 250.000 di
investimento, non è necessario avere l’ok del capo supremo (Rupert Murdoch), così Louie ha avuto carta bianca e nel giugno 2010 Fx ha trasmesso la prima puntata. La seconda stagione si è chiusa da poco e ha raccolto due candidature agli Emmy (miglior attore e migliore sceneggiatura nella sezione comedy), che per un prodotto a basso costo come il suo sono un traguardo non da poco. Io il mio spazio l’ho finito. Adesso non vi resta che procurarvi le prime due stagioni di Louie e scoprire che relazione c’è fra la schiavitù in America e il mostrare il proprio pene a una bambina down.
www.louisck.net www.youtube.com/louisck
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di Vincenzo Pietrogiovanni
www.8pm.it
Iris Van Herper Fashion design e metamorfosi futuristiche Photography DUY QUOC VO Styling SONNY GROO Model ELINE at CODE MANAGEMENT Hair/Makeup LISELOTTE VAN SAARLOOS using LAURA MERCIER
di Annarita Cellamare
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Il
progresso tecnologico connesso alla stampa digitale ha aperto le strade a nuove possibilità di creazioni che giocano con la stratificazione, superfici multisfaccettate e strutture. I designer di moda si spingono oltre, sperimentano, cercando di oltrepassare i confini del tessuto, introducendo aspetti come innovazione e progresso tecnologico, scomposizione e costruzione di nuove superfici, il tutto per abbattere sagome predefinite e ricostruire il concept di indumento. Iris Van Herpen, classe 1984, giovane avantgarde designer olandese si è affermata rapidamente in tal senso. Diplomata all’ArtEZ, l’Accademia delle Arti di Arnhem, dopo lo stage presso Alexander Mc Queen e Claudy Jongstra, fonda nel 2007 la sua maison, dove lavora con un ristretto gruppo di collaboratori. Vanta mostre ed esibizioni dei suoi lavori in tutto il mondo, oltre che collaborazioni con artisti del calibro di Björk; per quest’ultima ha creato un abito straordinario che la cantante indossa sulla cover del suo ultimo album
Biophilia e sulla cover del secondo singolo estratto Crystalline, mentre Lady Gaga ha indossato una sua creazione tratta dalla collezione Capriole durante un’apparizione al Nevermind Nightclub di Sidney. In perfetto equilibrio tra artigianato ed innovazione nella tecnica e nei materiali, Iris mixa sapientemente antiche modalità di lavorazione artigianale con la futuristica tecnologia digitale. Mescola tessuti ed oggetti inusuali, creando forme d’arte scultorea da indossare, componendo strutture che esplorano completamente lo spazio dentro e intorno al corpo, utilizzando plastica modellata, pieghe, vortici, spirali ed onde di tessuto e pelli, sfidando la gravità e la conformità delle silhouette. Le sue opere esprimono il carattere e le emozioni di una donna unica, ed estendono la forma del corpo femminile in dettaglio. Difficilmente la Van Herper si basa su un progetto definito. Parte dal materiale, dalle sue caratteristiche, modellandolo liberamente, lasciando che sia esso stesso a prendere una sua forma intrinseca. Concepisce abiti che rinnovano e reinventano le forme, in costante metamorfosi. I
suoi pezzi sono sempre unici, concettuali, futuristici, avvincenti e tridimensionali. Lei stessa afferma: “Quello che creo non è intenzionale. È la traduzione di quello che penso, di quello che accade dentro di me, intorno a me, e globalmente. Per me la moda è un’espressione d’arte molto vicina alla mia persona ed al mio corpo. È espressione della mia identità combinata al desiderio, stati d’animo e impostazione culturale. Si tratta di un mix di realtà combinata con la fantasia e di storia con il futuro. Quindi la moda intesa come espressione artistica, e non solo come strumento funzionale, privo di contenuti o commerciale. Con il mio lavoro intendo dimostrare che la moda può certamente avere un valore aggiunto per il mondo, un valore senza tempo. Scegliere di indossare determinati indumenti può creare una forma imperativa di self-expression”. Mummification, Synesthesia, Crystallization, Escapism, Capriole: sono i nomi delle sue ultime collezioni presentate in questi anni durante le Fashion Week in giro per il globo, capi spettacolari che hanno ammaliato il pubblico oltre che convinto gli addetti ai lavori, che hanno consacrato la giovane designer a degna erede dello stilista scomparso Mc Queen.
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Avant-garde made in NY
2011.The Eat
threeASFOUR
100 Days Berlin boutique by Henrik Vibskov
Fondata nel 1998 con una formazione allargata, la threeASFOUR ha pianta stabile a New York e conserva ancor oggi lo spirito e l’entusiasmo con cui è stata fondata. Fortemente ispirati dalla City, luogo di incontro fra culture, religioni, lingue e stili, i loro lavori sono mash-up di tessuti e tecniche stilistiche, veri meltin’ pot di generi, capi individuali nonché estensioni delle idee degli stessi designer. Noti per i loro disegni dinamici e per le loro presentazioni non convenzionali, hanno ricevuto molti riconoscimenti nel mondo della moda e nel 2002 hanno vinto il premio Ecco Domani Fashion Foundation. Hanno all’attivo svariate collezioni che hanno riscosso successo in tutto il globo, oltre che esposizioni in musei del calibro del Metropolitan Museum of Art di NY, dove il Costume Institute ha acquisito un quantitativo non indifferente di loro creazioni per la collezione permanente. Ultima collaborazione è con l’artista Bjork, che indossa una cintura-arpa tratta dalla collezione Autunno/Inverno
L’enfat terrible danese, precursore del design di moda scandinavo e famoso per la capacità di creare un microsistema eccentrico e contorto sempre in relazione ad ogni collezione, ha inaugurato il 30 settembre 2011 il suo nuovo temporary shop a Rochstrasse nella città di Berlino, continuando il progetto del retail concept 100 Days. Questa iniziativa fu ospitata come prima tappa allo SPRSPACE di Amsterdam nel dicembre 2010 per poi viaggiare attraverso il mondo con permanenze di 100 giorni in ogni città. Tappa finale è stata Berlino dove è avvenuta la presentazione della collezione Autunno/ Inverso 11/12 intitolata The Eat. “Ispirati dai viaggi e dal non essere legati ad alcun elemento a lungo termine, siamo liberi di sperimentare con lo spazio e con le installazioni, al fine di presentare una collezione ‘globale’, che includa pezzi mai visti prima”. È questa la premessa che lo stesso Vibskov ha fatto in merito al progetto, spiegando che il carattere temporaneo è diventato necessità per sperimentare con spazi e luoghi.
FASHION FACTORY 01. THEM ATELIER 02. AUGUSTIN TEBOUL 03. CO.TE La moda come forma artistica, che declina i suoi intrecci per interpretare i sogni, le sensazioni, le emozioni e le culture di nuovi talenti nel panorama della moda contemporary. Trama e ordito si incrociano per raccontare nuove sperimentazioni, concept diversi che affiancano la sartoria alla passione per la ricerca nello stile e nei materiali. Così, in un momento in cui il fashion system è in subbuglio tra alti e bassi, tra realtà in bilico colpite dalla crisi, affiorano nuovi progetti e nascono factory che diventano vere e proprie fucina di idee.
di Irene Casulli
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È il caso di THEM ATELIER, uno tra i brand emergenti più interessanti del momento. Fondato nel 2009 dai due giovani artisti Brian Kim e Olga Nazarova, il marchio americano si propone con una linea denim concettuale e sofisticata, anticonformista e ribelle quanto basta. La nuova collezione, al confine tra arte e moda, presenta cinque modelli di jeans realizzati con tessuti haute de gamme, trattati con tecniche particolari; si passa dai lavaggi eseguiti con ingredienti naturali ai dettagli couture. Un progetto che vede coinvolti anche artisti contemporary, che hanno contribuito a rendere questo brand stimolante e innovativo.
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Ispirato al surrealismo, il piccolo marchio francotedesco AUGUSTIN TEBOUL nasce nel 2009 dall’unione tra l’artigianato del francese Odely Teboul e le forme avant-garde del tedesco Annelie Augustin. Il brand si fa subito notare grazie al suo primo progetto Cadavre Exquis che ottiene uno straordinario successo ottenendo tre premi in Francia e Germania. Le collezioni, al confine tra prêt-à-porter e Haute Couture, presentano un design sofisticato, volto alla riscoperta della femminilità. La lavorazione impeccabile e la raffinatezza dei materiali si unisce alle maestranze della sartoria, per concepire dei look esclusivi e d’avanguardia davvero strabilianti.
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CO.TE, un brand dall’impronta geometric-couture, è quello dei due giovani italiani Tomaso Anfossi e Francesco Ferrari, che presentano una collezione dalle silhouette rigorose ma seducenti, dal gusto retrò ma sempre molto contemporaneo. Gli abiti dalle perfette forme geometriche si impreziosiscono di un’accurata scelta di tessuti, fondamentale per mantenere i volumi desiderati. L’accostamento di tessuti e pesi diversi crea un gioco di piacevoli e seducenti sovrapposizioni. Una palette cromatica soft, che mixa colori classici ed ultra eleganti come il nero, il grigio, il tortora, il tabacco ad un sensuale colore nude. Una collezione molto cool, tutta incentrata sul corpo femminile, che regala alla donna eleganza e sensualità.
Spirito www.sparidinchiostro.wordpress.com
“È una storia di frustrazione e potenziale irrealizzato, di artisti che non hanno mai avuto la possibilità di realizzare la loro grande opera, di racconti che non sono mai stati realizzati o, peggio, che sono stati censurati e bonificati da editori con poco cervello. È la storia di un medium recluso in un ghetto e ignorato dai molti che avrebbero potuto farlo cantare”.
di Paolo Interdonato
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L’uomo che parla ha il volto cupo e niente affatto divertito. Muove le sue poche parole sgretolando la compostezza donata al suo viso da un mestiere che si avvolge di silenzio: è il guardiano del faro di Hicksville, la città che sta al centro dell’omonimo fumetto di Dylan Horrocks. Quelle poche parole riassumono la lunga storia del fumetto con una precisione che riesce a essere dolorosa, mentre racconta il rapporto succube che, negli anni, si è instaurato tra gli autori e un’industria oppressiva e spesso incompetente.
Diciamocelo: nonostante le ambizioni intellettuali che vorremmo attribuirgli, gli editori di fumetti, da sempre, sono, nella quasi totalità dei casi, degli industriali vocati al profitto e alla redditività. Gente pratica che, potendo, evita il suicidio commerciale. Dall’altra parte ci sono gli autori che sono degli individui fragili con una spiccata predisposizione alla sofferenza e al martirio. A volte, instabilmente alla ricerca del mutevole punto di equilibrio tra felicità e sicurezza, vorrebbero smarcarsi dai vincoli imposti loro dall’industria, ma le sperimentazioni, nei rari casi in cui non sono deprecabili esercizi di stile, rischiano di generare prodotti che, anche quando sono esempi di genio irrinunciabile, diventano un tantino elitari. E l’élite, in genere, è una comunità di acquirenti numericamente più esigua del vasto pubblico sognato dagli editori. Per difendere la loro libertà creativa gli autori di fumetto le hanno provate tutte. Le proteste, gli scioperi, la satira e la rivalsa: storie finite quasi sempre male. A un certo punto, i più svegli, consapevoli e arditi hanno incanalato le proprie ambizioni in movimenti creativi e autoproduzioni. Raccogliendosi attorno a un manifesto e a un’idea di libertà narrativa, gruppi di fumettisti hanno ideato progetti editoriali dall’altissimo livello professionale, così come documentato dalle riviste Garo (Giappone), Metal Hurlant (Francia) o Raw (USA), dal lavoro di autori-editori come Dave Sim (Cerebus), Paul Pope (THB) o Jeff Smith (Bone), e da progetti editoriali come “i cani” in Italia o L’Association in Francia. Ma non prendiamoci in giro: il Do It Yourself, nel fumetto, non è sempre equivalso a prodotti altamente
professionali, come nel caso degli esempi che ho appena enumerato. Ci sono state e, fortunatamente, ci sono ancora le fanzine fotocopiate e zeppe di narrazioni claudicanti e sintassi sghemba. Spazi importanti nei quali gli autori possono confrontarsi con il ritmo di pubblicazione, il canale di presentazione (stampa o web) e il pubblico, guadagnandone in esperienza preziosa che garantisce di presentarsi con un’attrezzatura migliore alla porta degli editori. Nel frattempo, però, gli editori hanno perso la loro anima, per popolare librerie che, a detta di un tipo molto ben informato come André Schiffrin, sono fatte per un’editoria senza editori. Il loro progetto di presenza sul mercato si è fatto via via sempre più esiguo. Oggi spesso non è neanche più un obiettivo di marginalità operativa lorda e si riassume in un claim di poche parole che pare essere uscito dalla mente inaridita di un copywriter in mobilità. Sono sempre di più gli editori che presentano brutti fumetti (gridando – di solito – in copertina “graphic novel”, le parole magiche della vendibilità) con grafiche raccapriccianti e narrazioni approssimative. Nessun confronto con gli autori, niente editing, pochi o niente soldi, cura redazionale inconsistente, refusi a gogò, pagine stampate male su brutti materiali e inconsapevolezza assoluta del fumetto. Tanto varrebbe l’autoproduzione. Ma, anche se l’editore non paga, l’investimento per l’autore è minimizzato e che bello è vedere il proprio libro stampato pronto a infilarsi in libreria, accanto a quelli di tanti sprovveduti colleghi, a farsi largo verso l’oblio.
MOMArt Un’officina delle arti per contrastare le mafie di Francesca Limongelli
Life
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Nel 1988 il Teatro Kismet OperA di Bari, poi definito Stabile d’Innovazione, aprì i battenti alla città con una serie di iniziative che avevano come filo conduttore il fenomeno mafioso e l’impegno della società civile per contrastarlo. Erano gli anni del maxi processo, delle indagini dei giudici Falcone e Borsellino, ma anche anni nei quali il territorio pugliese faticava a riconoscere il fenomeno e soprattutto a parlarne. La città si mobilitò e il Kismet cominciò il suo percorso. È per questa ragione che quando la Regione Puglia e il Tribunale di Bari hanno scelto di assegnare al teatro stabile e all’associazione Libera la gestione di un bene sequestrato alla criminalità organizzata, un ex discoteca (Moma) situata ad Adelfia, a pochi chilometri da Bari, la scelta è risultata a tutti calzante e in linea con la vocazione di partenza. Contrastare la mafia partendo da operazioni culturali e dal dialogo con il territorio sono stati punti di partenza di un progetto ampio che ha coinvolto, e sta coinvolgendo, numerosissimi soggetti e che è diventato capofila del più grande lavoro della Regione Puglia con i laboratori urbani. Il MOMArt di Adelfia, come è stato poi denominato lo spazio, ha preso vita e forma nel segno della musica, del teatro, delle arti visive, dell’impegno a favore dell’infanzia, ma è anche diventato il punto di riferimento per gli altri due laboratori urbani che il Kismet si accinge ad inaugurare. Oltre al MOMArt infatti, da questa stagione, ci saranno gli spazi di Gioia del Colle e Turi, comuni a circa 30 chilometri dal capoluogo, protagonisti del progetto “Bandeapart”, nati sempre sotto l’egida della Regione Puglia nell’ambito del programma Bollenti Spiriti. Obiettivo di “Bandeapart” è quello di realizzare un’officina, sperimentale e innovativa, delle arti
e delle culture, spazio in cui ospitare momenti di progettualità artistica, luogo che permetta l’incontro e la sperimentazione con gli strumenti del teatro, del cinema, del video e della musica. A Gioia del Colle, in una struttura di inizio Ottocento, gli ampi locali saranno quindi dotati di sala registrazione, sala multimediale e si sale per la realizzazione di laboratori teatrali e di lettura, curati dal Kismet insieme con le altre associazioni locali. Discorso analogo, seppur in una struttura un po’ più piccola, sarà portato avanti a Turi, dove il Comune ha destinato a laboratorio urbano l’ex convento di San Giovanni Battista, che tornerà così a nuova vita nel segno della cultura e dello spettacolo. E in questa direzione si muove ormai da tre anni il MOMArt di Adelfia, pronto a inaugurare la stagione 2011/2012 con un vero e proprio calendario di attività. Oltre infatti ai laboratori teatrali, di scrittura e per i bambini, non mancherà qui una programmazione a tutti gli effetti dedicata soprattutto al teatro, alla musica e all’arte. Si comincia con la mostra Rifiutart sui temi del riciclo – realizzata in collaborazione con Legambiente e associazione MOMArt Adelfia – per continuare con una serie di spettacoli rivolti soprattutto ai bambini e con gli appuntamenti musicali, segnati anche quest’anno dall’attenzione verso la scena indipendente pugliese e nazionale (info www. teatrokismet.org). Infine, a sancire ulteriormente e formalmente l’essenza del MOMArt, dal mese di novembre l’ex discoteca diventerà Presidio Libera, a confermare ulteriormente la volontà della città di riappropriarsi di uno spazio in passato più volte violato.
Evento DgTales Fotografia in mostra Sarà una location d’eccezione quale il castello Carlo V di Monopoli (Ba) ad ospitare l’annuale evento fotografico dedicato a professionisti, fotoamatori e a chiunque voglia avvicinarsi alla fotografia digitale professionale. Leitmotiv delle due giornate: il ritratto Ospite fisso e gradito dell’evento DGTales, Antonio Manta, stampatore Fine Art. Dando vita al progetto BAM (Bottega Antonio Manta), vuole riaffermare l’importanza essenziale del lavorare in gruppo, puntando sulla sinergia piuttosto che sulla competizione. Durante l’evento sarà allestita una mostra fotografica. Per tutte le informazioni
>>> www.dgtales.it
Racconti Digitali Intervista a Giuseppe Friuli
Arte
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Coniugare strategia aziendale e attenzione per la cultura si rivela obiettivo spesso difficile da perseguire, ma che può portare a grandi risultati e particolari soddisfazioni. È questo il caso di DgTales, l’azienda dedicata alla fotografia (con sede a Martina Franca, Ta) fondata dieci anni fa sulla base di una lunga esperienza maturata nel settore. Proprio questo team di professionisti si cela dietro l’evento dell’11 e 12 novembre, un’occasione di incontro e confronto sui temi delle tecniche fotografiche assieme ad alcuni dei protagonisti nazionali di questo universo artistico. A parlarcene è Giuseppe Friuli, leader della Dgtales e profondo conoscitore del panorama italiano. “Il nostro obiettivo primario” – spiega – “è quello di essere punto di riferimento per il mercato della fotografia professionale, selezionando esclusivamente prodotti di qualità e mettendo a completa disposizione le nostre competenze. Con lo stesso spirito abbiamo fatto nascere questa manifestazione, un’opportunità per analizzare differenti tematiche e punti di vista al
Venerdi 11 e Sabato 12 workshop di Monica Silva “L’io dentro Me” “Un scatto diventa un’opera d’arte dal momento che prende forma d’espressione visiva. Per arrivare a questo livello, il fotografo deve prima passare per un’introspezione con se stesso per indagare l’animo umano. Monica Silva, fotografa ritrattista, svolgerà un workshop intenso ed emozionante con il supporto di attrezzatura Hasselblad”. Evento Dgtales In una sala posa allestita per l’occasione sarà possibile utilizzare attrezzature Hasselblad, Profoto, Eizo, Canson, Epson e Digigraphie . Quest’anno i fotografi Joseph Cardo e Mimmo Basile saranno ospiti DgTales e metteranno a disposizione la loro esperienza. Parteciperà inoltre all’evento Daniele Barraco, il fotografo Hasselblad che ha anche meritato la menzione d’onore all’IPA2010. La sua specializzazione per il ritratto e la fotografia di celebrità è anche centro della sua idea di lavoro, con la quale crea immagini moderne strutturate per il mercato editoriale e pubblicitario.
Sabato 12 novembre
WET di Tomás Arthuzzi
servizio di coloro che amano la fotografia”. L’evento DgTales arriva alla sua V edizione e sceglie una location d’eccezione, il Castello Carlo V di Monopoli, una splendida struttura che si presta alle esigenze di spazio e di versatilità adatte alla manifestazione. Le due giornate si svilupperanno attraverso workshop, seminari, incontri e mostre, un intreccio fra momenti di apprendimento ed esperienza sul campo. “Si partirà da Monica Silva” – spiega Friuli scendendo nel particolare – “con un suo workshop dal titolo L’Io Dentro Di Me, un lavoro di introspezione per indagare l’animo umano. La ricerca dell’intima essenza di un soggetto da ritrarre è mutata nel corso degli anni; se prima si tendeva a sottolineare solo l’aspetto estetico o la particolarità del volto, ora si tende a farne emergere l’aspetto più intimo. La bravura del fotografo sta nel rappresentare uno stato d’animo, un’emozione che risulti naturale. La vera sfida consiste nel mostrare i lati più reconditi attraverso il ritratto. Il giorno successivo sarà il turno di Maurizio Cicognetti,
workshop di Maurizio Cigognetti “Fotografi e Pubblicità” Questo incontro sul mestiere di fotografo in pubblicità nasce dall’esperienza personale di Cicognetti, maturata in circa vent’anni di professione e prima ancora da dieci anni di art direction in agenzie internazionali. Il workshop è dedicato a tutti i fotografi curiosi di approfondire quale sia “la porta di accesso” a questo mercato e quali siano i codici di comportamento
in un workshop riguardante Fotografi e Pubblicità. Si tratterà certamente di un’occasione per approfondire quale sia il percorso più adatto ad entrare nel mondo del mercato pubblicitario”. Un altro aspetto essenziale della due giorni sarà legato all’interazione fra tecnica, tecnologia e talento del fotografo. Un set fotografico sarà infatti allestito all’interno del castello per permettere agli interessati di cimentarsi con i materiali più innovativi. “Gli strumenti cambiano e ci rendono il lavoro più interessante e ricco di possibilità. Devo però dire che il passaggio dall’analogico al digitale ha cambiato il mondo della fotografia, ma ciò che non ha subìto cambiamenti con il passare degli anni è la modalità di maturazione del talento. C’è sempre la possibilità di progredire, e questo miglioramento passa anche dall’utilizzo degli strumenti più adatti a quel che vogliamo creare o rappresentare”.
I protagonisti dell’evento DgTales Per tutte le informazioni
>>> www.dgtales.it In questa pagina foto di Daniele Barraco Nella pagina successiva foto di Mimmo Basile DANIELE BARRACO Il ritratto è l’origine e l’essenza della fotografia, in bianco e nero rende la realtà con colori differenti che non siamo abituati a vedere nel quotidiano. Prediligo il ritratto perché amo le persone, amo la capacità di trasmettere emozioni che appartiene ad ogni essere umano. Le persone sono per me sempre protagoniste indiscusse. La mia idea di portrait prende spunto dalla ritrattistica classica ma supportata dalla tecnica e dall’alta tecnologia con l’intento di seguire le orme di fotografi come Nadar e Sender. Non esiste tecnica senza cuore ma senza un’adeguata preparazione il solo istinto non basta per arrivare lontano, l’equilibrio vince nella fotografia così come nella vita. www.danielebarraco.com
MONICA SILVA
MIMMO BASILE Sin da bambino sono stato attratto da un mondo affascinante grazie al quale è possibile fissare nel tempo i ricordi della nostra vita. Questa è una meraviglia che racchiude passione tecnica e creatività in un’unica professione. Essere fotografo significa avere pratica, conoscere bene il mezzo con cui si realizzano le istantanee e possedere una buona tecnica per affrontare situazioni difficili da riprodurre correttamente in fotografia. Nel mondo digitale in cui viviamo è necessario avere una buona competenza perché tutto non si ferma alla sola ripresa ma continua in un vastissimo mondo che si chiama postproduzione. È raro oggi veder apparire un’immagine in una bacinella illuminata di rosso. www.mimmobasilefotografo.com
Il mio rapporto con il ritratto parte da molto lontano. Sin da piccola mi soffermavo sui volti delle persone, le osservavo mentre non si accorgevano di me e a volte una luce colpiva il loro viso creando un’immagine indimenticabile. Da qui nasce la passione per la gente e la fotografia. La tecnica è solo un mezzo. Se poi il mezzo in questione si chiama Hasselblad tanto meglio. Oggi nei miei ritratti cerco la naturalezza e qualcosa di speciale. Per ottenerli entro in sintonia con le persone in un modo tutto mio. Quello che succede resta dentro lo studio ma in qualche modo viene impresso nell’obiettivo, rivelando l’essenza di chi ho ritratto. Per me questa è la piccola magia della fotografia. www.monicasilva.it
JOSEPH CARDO Ho cominciato ad avvicinarmi alla fotografia giovanissimo, affascinato dalla moda, dagli istanti riflessi in immagini che sembravano inarrivabili agli occhi di un ragazzino. In seguito ho iniziato a fare le mie prime foto per istinto, senza nessuna guida, osservando ciò che mi circondava, unico ausilio la luce naturale, stampando manualmente. Insomma sperimentando. Mi ritengo fortunato per essermi formato professionalmente a cavallo tra lera analogica e quella digitale, lavorando tutt’oggi alla ricerca di una immagine che sfrutta tutte le tecnologie
attuali ma conservando le movenze e le tecniche analogiche. Trovo esaltante poter sfruttare la modernità fondendola con le mie conoscenze passate. Oggi i software tendono a restituirci fotografie troppo precise e plastiche, secondo me il fascino che rende importante un`opera sta anche nella sua natura imprecisa. www.josephcardo.com
Nella pagina precedente foto di Joseph Cardo A sinistra foto di Antonio Manta MAURIZIO CIGOGNETTI
ANTONIO MANTA Chiedo sempre agli autori di portare tutto il loro materiale, anche quello che hanno valutato non idoneo, perché molte volte insieme riusciamo a vedere le potenzialità di un lavoro. È necessario confrontarsi con l’autore e fare una serie di provinature per impostare tutto al meglio. Conoscere i segreti della stampa, sia essa digitale o analogica, è un aspetto essenziale per produrre delle buone fotografie ancora prima di scattarle. È importante avere i giusti strumenti e le conoscenze adeguate per riuscire a pre-visualizzare anche la fase di stampa al momento dello scatto; solo così si può impostare correttamente il lavoro, dato che in stampa un lavoro fotografico può cambiare totalmente. Si deve sempre avere chiara la direzione verso la quale procedere. www.antoniomanta.com
In fotografia pubblicitaria, saper vedere e saper raccontare con le immagini è un’arte. La tecnica è lo strumento, che conoscendolo, ne esalta gli aspetti comunicativi. La luce, la composizione, il mezzo tecnico. Conoscerli e dimenticarli per ridurli ad un gesto acquisito, interiore, che lascia spazio libero alla nascita dell’immagine. Ma questo non basta, serve conoscere anche l’universo nel quale orbiteremo, i meccanismi e i ruoli di ciascun operatore. Occorre saper interpretare e restituire immagini che parlino un linguaggio conforme ai nostri tempi. Occorre aggiornare la nostra conoscenza tecnica e dirimere il superfluo dell’essenziale. E occorre essere consapevoli di un mercato che vuole trarre sempre il massimo vantaggio dalle innovazioni tecnologiche anche a discapito delle professioni. Non solo gli operai sono a rischio identitario, anche i fotografi. Come vedete le sfide sono molte e molto più complesse ed articolate di un tempo. Saper fare clic non basta oggi come non bastava ieri, anche se per ragioni molto diverse. www.cigognetti.com
Daedalus Rising Smarrirsi nel labirinto sognante di Zaelia Bishop Zaelia Bishop è un cantore solitario di un sentimento titanico, i suoi lavori sono affascinanti assemblage onirici, materici, sospesi in equilibrio sulle regioni selvatiche della memoria e del sogno.
di R.R.
Arte
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01. Scatola cm. 35x55x15 2007
02. Io muoio di Inchiostro cm. 23x27x11 2007
03. Macchina del Cuore Penitente I cm. 20x34x10 2009
È nel segno del labirinto la nuova mostra personale di Zaelia Bishop Daedalus Rising presentata presso gli spazi della Fabrica Fluxus Art Gallery di Bari. Sepolto da sedimenti di rimembranze e stratificazioni di desideri e patimenti di stagioni mai del tutto disabitate, il labirinto risorge sulla spinta di un irrefrenabile movimento tellurico, come luogo di fantasmagoria, architettura impossibile in cui riconnettere ipotesi di storie, frammenti di narrazioni disparate, filiazioni letterarie, echi di possibilità, mesmerismo di citazioni e voracità di collezioni. È lo scenario ideale in cui ambientare l’affaccendarsi di un’adolescenza eterna, popolata dalla filigrana di figure care, appassionate, screpolate dal tempo che non perdona, sgretolate dagli urti di una immane catastrofe del quotidiano che si fa concrezione, escrescenza, infiorescenza umbratile protesa verso lo spettatore, come per un abbraccio di riconoscenza. Dal labirinto parte la sfida titanica dell’artista, lo strenuo tentativo di trovare l’uscita del dedalo, nonostante la consapevolezza del possibile fallimento. Daedalus Rising raccoglie due cicli di lavori realizzati da Zaelia Bishop nell’ultimo anno accompagnati da un’installazione. I Portraits After Great Pain nascono sotto il segno del Naufragio, metafora di frantumazione. Sono ritratti di uomini, donne e bambini smarriti nel tempo che tornano, nella labile traccia fotografica centenaria sopravvissuta fino ai giorni nostri, a bussare alla porta del presente portando in dono i segni di una trasformazione. Ciascuno dei protagonisti dei ritratti porta infatti su di sé la memoria di un urto antico. Gli elementi che ne trasfigurano corpi e volti sono la traccia ultima del ricordo della loro collisione, una ricerca tra le
04. Due Favole, Una Trappola cm. 14x20x6 2008
pagine scomposte di biografie immaginarie. Ciascuna biografia addensa un ricordo inesorabilmente sfigurato dal tempo e attualmente non intellegibile. I Diari dal Dedalo rappresentano una tappa all’interno di un lungo percorso parzialmente autobiografico che si dipana in modo labirintico e senza destinazione, attraverso la memoria stessa dell’autore. Le piccole wunderkammern apparecchiate in vecchie scatole di legno sono un tentativo di ricomporre frammenti e simboli disseminati lungo la linea d’ombra che separa la fanciullezza dall’età adulta. All’ingresso della galleria, inoltre, lo spettatore è accolto da un’installazione. Dal soffitto dello spazio espositivo Zaelia Bishop sceglie di fa calare una serie di elementi sospesi per mezzo di fili sottili intrecciati, simili a capelli. Altri reperti ingemmano pavimento e pareti. Elementi naturali, vegetali o animali, armati di disidratata pericolosità, concrezioni fossilizzate di un tempo immemore, nodi di parole per carteggi afasici, argini in cui è stato lasciato scorrere il fiume della memoria fino a non trattenere più l’eco di un’acqua, memoria che si sclerotizza in un lacerto fotografico, in una congettura biografica, nello sbiadire di una passione, ansito di un futuro passato. BOX INFO Fabrica Fluxus Art Gallery via Marcello Celentano 39, 70121 Bari www.fabricafluxus.com In mostra dal 22 ottobre al 22 novembre 2011 Orari: lunedì 17.30/20.30; dal martedì al sabato dalle 11.30 alle 13.30 e dalle 17.30 alle 20.30. domenica chiuso.
Non esistono bambole viventi: non era dunque diventata Una bambola vivente, ma l’avevano ridotta a un balocco concepito per non far vergognare i vecchi impotenti: no, non si trattava di un balocco: per quei vecchi era forse la vita stessa (Kawabata, La casa delle belle addormentate). L’hai ordinata. La desideri e sai che sta arrivando. Arriverà a casa tua, oggi. Non resisti più, sta crescendo la voglia di averla, è un fremito che ti percorre e percuote alla sola idea di accogliere questa strana forma di vita nella tua casa. Suonano. È lei. Apri, vedi una scatola enorme, alta più di te, un uomo la spinge verso la soglia. Ti consegna una busta con dei documenti. Firmi. L’uomo attende. Ma tu vuoi rimanere solo. Da solo con lei. Lo congedi in fretta. Ormai sei eccitatissimo. Gonfio di desiderio. Apri il legno della porta e… oh, indietreggi di fronte a lei. Una donna, una bambola, una creatura. È lì, che ti guarda, come nervosamente intimidita, sospesa e trattenuta nell’atto di muovere un passo fuori dal loculo che la contiene. Ha una brutta borsetta a tracolla dove sono conservati i suoi effetti personali. Cristo! È arrivata, è lei. In equilibrio tra le gambe per terra c’è una busta di plastica verde con qualche vestito e delle cartelle. Sei sconvolto dal desiderio di possederla. Ormai sai che è tua. Che vivrà con te. Che non ti lascerà mai. Le prendi
la mano, le dita sono lunghe e morbide, si piegano liberamente alla tua presa, hai già voglia di prendere in bocca quelle dita e di morderle. L’apparente rigidità del silicone inizia a produrre quella strana crescente arresa. Benvenuta a casa mia, Feodora V., da Toledo, Ohio. È il 20 ottobre 20xx. Le bambole di lusso in silicone hanno fatto la loro comparsa sulla scena americana negli anni Novanta, pubblicizzate come le bambole più realistiche al mondo, spesso vengono chiamate Love dolls piuttosto che Sex dolls per differenziarle dalle comuni bambole gonfiabili. I collezionisti le adoperano in modi molto diversi: come manichini da vestire-svestire-rivestire, come soggetti fotografici o come compagne di vita. Azusa Itagaki (Tokyo-Stoccolma), fotografa, filmmaker e performance artist, ha rivelato l’universo delle Love dolls intrecciando con esso una relazione sempre più insistente che investe non solamente l’esorbitante fenomeno fotografico ma ne esplora i vischiosi confini che separano le due realtà, quella dell’owner e quella della bambola. Il processo feticistico è qui reversibile: al cospetto delle sue fotografie non si assiste unicamente alla reificazione del corpo femminile, di per sé nato già oggetto-bambola, bensì alla frankensteiniana transumanizzazione della cosa assemblata a cui dare il soffio vitale. Lo sguardo si sposta dalla bambola al fremito che serpeggia nel corpo del proprietario – spesso protagonista degli scatti accanto alla sua amata, mentre la trucca, la sistema, le serra la cintura di sicurezza in auto. Le fotografie di Itagaki, infatti, restituiscono al mondo l’intimità ludica, pornoerotica e al contempo tragica e mortifera della contaminazione fra l’umano e l’inorganico. La bellezza cadaverica di queste creature esplode e prende forma nel sussulto della carne di chi le adora e le dona, così, tracce, frammenti, odori, umori vivi. Azusa Itagaki Casa di Bambola a cura di Claudia Attimonelli Vernissage: 25 Nnovembre Fabrica Fluxus Via Celentano, Bari.
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La Rosa e La Cenere
G. P.
I disegni che compongono la storia sono stati realizzati in due occasioni, il Comicon di Napoli (le prime 4 pagine) e il Locus Festival di Locorotondo (le restanti), in cui fumetto e jazz, in performance live differenti per modalità e contenuti, hanno sposato le loro migliori energie.
Le tavole che state per leggere sono parte di una storia più ampia, dal titolo La Rosa e La Cenere apparsa a puntate sul sito www.nicolaconte.it; in particolare, fanno parte dell’ultimo episodio ancora inedito sulle pagine del sito. Il narrato evanescente è dovuto al fatto che, all’interno dell’architettura narrativa di La Rosa e La Cenere, queste pagine costituiscono una sequenza allucinatoria, il processo alchemico culmine di tutta la vicenda.
di Giuseppe Palumbo
Libri
Aerei di carta
ERNEST CLINE PLAYER ONE
SIMON REYNOLDS RETROMANIA
Isbn Edizioni 640 PAGINE | 19,90 EURO
Isbn Edizioni 480 pagine | 26.90 euro
Proprio come la frase che compare sui vecchi videogiochi quando inizi una “partita”, Player One ci catapulta in un mondo in cui si rivivono le atmosfere e le emozioni che hanno caratterizzato gli anni ‘80. Dall’Atari 2006 a Casa Keaton, dall’X-Wing a Ultraman, da Dungeons & Dragon a Golden Axe. In un futuro non troppo lontano, il mondo è ormai alla rovina. Droga e povertà la fanno da padrone. L’unica isola felice è OASIS, un mondo virtuale e utopico in cui ognuno può vestire i panni del proprio avatar e condurre una vita normale. La morte del ricchissimo creatore di questo universo artificiale dà il via ad una caccia al tesoro digitale che avrà come premio un vero impero finanziario. Al contest partecipa anche Wade Watts, un diciottenne orfano che vive con la zia tossicodipendente in un parcheggio di case mobili nella periferia di Oklahoma City. E proprio il suo nome, l’11 febbraio 2045, compare sul segnapunti. Infatti Wade ha scoperto il primo indizio: la “chiave di rame”...
Reynolds è autore di almeno due testi capitali sulla musica pop: Energy Flash e Post-Punk, veri mattoni di circa 700 pagine che ben esprimono la vera natura del loro autore: non un giornalista da rivista patinata ma un vero topo di biblioteca, un nerd appassionato, un ricercatore illuminato. Soprattutto, come tutti i grandi narratori, un osservatore ubiquo, uno che sa guardare il mondo da lontano pur essendone personalmente invischiato, riuscendo a precorrere i normali tempi di assorbimento e definizione di un fenomeno. Questo rende i suoi lavori qualcosa di più di un saggio, un articolo, un commento: quando li leggi ti senti sempre risucchiato dentro una storia, un’avventura, un viaggio.
Quello di Ernest Cline non è solo un romanzo per trentenni nostalgici. Leggere di un ipotetico futuro dove si rivisita “il decennio pop” è un po’ come mandare i Goonies ad esplorare Matrix; ci si ritrova immersi in una successione di avventure da cui si viene rapiti, quasi ipnotizzati, proprio come quando da piccoli leggevamo sulla scritta “Insert Coin”. di Giuseppe Morea
Con Retromania Reynolds, ancora una volta anticipando tutti, individua e analizza un fenomeno inedito ben espresso dalla formula “postmernismo+internet”: per la prima volta, la curiosità per il passato prossimo, il revivalismo, grazie alla immediata e quasi inesauribile disponibilità hic et nunc dei prodotti culturali del passato permessa dalla digitalizzazione e dalla globalizzazione, si è radicalizzata in forza di attrazione gravitazionale totalizzante e imprigionante, se non proprio in ossessione: “Sembra che nulla appassisca e muoia più, e questo intralcia l’emergere delle novità”. L’innovazione oggi è solo tecnologica, non più culturale: la creatività ha assunto la forma del “super-ibridismo”, la voglia di evasione dalla quotidianità non si esprime più con la ricerca dell’inaudito rivoluzionario, ma con l’abbandono in un accomodante e ovattato passato, “un banchetto atemporale di suoni di ogni epoca”. di Gennaro Azzollini
LUIGI ABIUSI PER GLI OCCHI MAGNETICI
CARLO MAZZA LUPI DI FRONTE AL MARE
Caratterimobili 96 pagine | 10 euro
edizioni e/o 19,50 euro
Lo sguardo tridimensionale di Luigi Abiusi nel suo Per Gli Occhi Magnetici indaga la forma dell’immagine cinematografica da una prospettiva fuoricampo, dilata la profondità della visione con un linguaggio lirico e analitico a un tempo, compendia la brevità di contenuto dei saggi con la vastità degli argomenti affrontati. I salti mortali dalla poesia al cinema sono ciò che rende questo libro non soltanto un utile supporto critico, ma soprattutto un indispensabile strumento di percezione immaginifica del reale. Il linguaggio stesso si contorce nel tentativo di avvolgere il fantasma che vuole afferrare, per svelare infine il senso della scelta dei quattro autori presi in esame: la poesia lunare di Erice si riflette capovolta nella paralogia pop di Tarantino; la cinematografia sentimentale di Dino Campana anticipa il corso del tempo sospeso nelle immagini di Pasolini. Abiusi conferma che lo sguardo fuoricampo del critico serve a consentire di vedere tutto in una sola volta ma, per il sopraggiungere di un ricordo d’infanzia, il dettaglio diventa fondatore e, mentre il resto si dissolve, non restano che gli occhi. Buona Visione.
«Una collana dedicata alle storie che il nostro Paese non ha più il coraggio di raccontare»: così Massimo Carlotto definisce Sabot/Age, la collana di e/o che raccoglie gialli, noir e altra letteratura di genere con lo scopo di parlare dell’attualità italiana. Il secondo testo, Lupi Di Fronte Al Mare, è dell’esordiente barese Carlo Mazza, bancario. E di banche, e di traffici loschi, di favori e assunzioni, di collusioni con la malavita e transazioni poco pulite parla questo libro. Un ‘romanzo’, dunque non una cronaca né un reportage, ma una lettura paradigmatica della vita parallela, delle logiche che regolano gli scambi economici a Bari e in Italia. ‘Sabot/Age’ come sabotaggio di ciò che si considera realtà ma non lo è, sabotaggio della concezione edulcorata del mondo, e anche Epoca di sabotaggi, perché la vita quotidiana è minata dalle logiche nascoste che influiscono sui singoli inconsapevoli. Leggere Lupi Di Fronte Al Mare consente di sbirciare nelle ‘stanze dei bottoni’, di capire a quali sabotaggi la nostra vita quotidiana sia sottoposta, di interrogarsi su quanto gli squarci di realtà che ci si aprono con le notizie di cronaca (intercettazioni, scandali) siano molto più che transitori, ma rappresentativi della realtà.
di Gemma Adesso
di Carlotta Susca
ALEXANDER MAKSIK NON TI MERITI NULLA
NICOLAI LILIN IL RESPIRO DEL BUIO
edizioni e/o 318 pagine | 18 euro
Einaudi 240 pagine | 19,50 euro
Grandi pretese nell’esordio di Alexander Maksik che abusa di nobile materia - Sartre, Camus, Thoreau - per una storia di debolezza e delusione, in una scontata Ville Lumiere di tram e cafè. Racconto affidato a tre voci e ad una scrittura più incalzante della stessa trama, con cui il 38enne dell’Iowa imposta un romanzo di formazione senza però dargli vita. La scuola internazionale a Parigi è un non luogo per ottimi allievi di cattivi maestri. Will, insegnante adorato dagli studenti come una rock star, propina domande esistenziali che lo fanno apparire un eroe. Ma alla prova del coraggio incespica, gira i tacchi, resta indifferente al perbenismo di chi lo accusa, dissolve le illusioni dei suoi fan. Solo un errore vincerà la staticità della sua vita, perché a volte bisogna fare qualcosa di irrimediabile per andare avanti. Gilad, studente senza radici, si strugge d’amore per il maestro, di cui brama l’ammirazione offrendogli continue prove di acume. Tra i massimi sistemi si insinua la terrena passione della naive Marie, corpo burroso che riempie solo uno spazio, allieva modesta e volenterosa. Sarà l’unica ad agire, tradendo con coraggio i propri desideri. Inserti riusciti per le comparse: l’alunna dissacrante che liquida il Mito di Sisifo e il tema del suicidio come una stronzata, il teppistello mancato investito da un’epifania; il credente sfidato dal dilemma dell’essere o non essere; la madre disillusa che testimonia al figlio - rapito dal culto di un uomo - come seguire la vita di un altro sia un tipo di coraggio molto limitato; l’intuitiva Lily, che con un’immagine poetica evoca la straordinaria virtù della lettura. Quella di estraniarci dal mondo per provare a trovargli un senso.
Arriva in libreria la terza opera di Nicolai Lilin, scrittore italiano dai natali siberiani. Dopo L’educazione Siberiana (aprile 2009) e Caduta Libera (2011), tutti editi da Einaudi, l’autore torna a raccontarsi attraverso le parole del protagonista (anche lui Nicolai), un soldato dei corpi speciali (specnaz) di ritorno dalla guerra Cecena che vive il dramma, tipico di tutti i reduci, di essere emarginati dalla società civile. L’unico modo per non perdere la testa e per ritrovare l’anima persa in guerra è intraprendere un cammino: il respiro del buio, l’uomo della foresta, l’esercito dei pochi, la guerra dentro e la cenere delle nostre anime. Vi fanno da sfondo i ricordi sanguinosi della Cecenia, le battute di caccia nella Taiga siberiana e la vita a San Pietroburgo. Istantanee di un Paese corrotto e violento in cui è estremamente difficile vivere ma troppo facile morire. Quella Russia degli oligarchi che Anna Politkovskaja ha raccontato pagando il prezzo più alto. Non mancano i riferimenti alla “stirpe guerriera” degli Urka siberiani da cui Lilin discende e di cui conserva il passato scritto sulla propria pelle. Attraverso la sua scrittura asciutta ed essenziale l’autore miscela i tre elementi inscritti nel suo DNA: freddo, sangue e silenzio. Quello stesso silenzio che accompagna il cacciatore nella taiga e il cecchino in guerra sino a quando il colpo del fucile li ridesta dagli unici momenti di eternità che ogni uomo può permettersi prima di capire che non vi altra vita all’infuori di quella che viviamo. di Antonello V. Daprile
di Paola Merico
LA REALTÀ IN TRASPARENZA L’ultimo appuntamento con David Foster Wallace di Kevin Arnold Un diamante grezzo. È in questa forma che Michael Pietsch – editor della casa editrice Little, Brown ed intimo collaboratore di Wallace – ha trovato l’ultima stesura di Il Re Pallido alcuni mesi dopo il suicidio dello scrittore. Un manoscritto parziale, mai spedito, ed affiancato da centinaia di pagine dattiloscritte che rappresentano la cristallizzazione di un work in progress lungo ed intricato. Quel che arriva oggi nelle librerie italiane è dunque il risultato di un intreccio fra due lavori, quello di D.F.W. realizzato nel garage della sua casa di Claremont e quello affrontato da Pietsch nella riorganizzazione di un materiale dai tratti geniali ed allo stesso tempo complicati. I pochi appunti, le striminzite indicazioni sulla direzione della storia e la mancanza di un prospetto sull’ordine dei capitoli non hanno però bloccato questo encomiabile lavoro che ci offre la possibilità di conoscere l’ultimo mondo narrativo immaginato da Wallace. Come già in Infinite Jest, il plot del volume è solo una delle componenti fondanti del romanzo, elemento affabulatorio che fa da fil rouge ad un testo ipnotico e ammaliante come un frattale. Quasi si trattasse della funhouse di John Barth, Il Re Pallido possiede una struttura nella quale è opportuno perdersi senza timori, abbandonandosi all’intrico di digressioni e descrizioni che ci accompagnano attraverso queste 700 pagine. Continuando la sua ricerca riguardante l’entertainment e le sue utopiche sembianze, Wallace esplora il mondo lavorativo legato alle tasse ed a coloro che vi lavorano. Un’elaborazione testuale che parte dal tedio e dalla monotonia per raccontare un’America dai contorni immaginari eppure realistici. Un ritorno al passato (il 1985 di Reagan) per un libro
visionario in cui ironia, amicizia e surrealismo si intrecciano con folgorante efficacia. Il tema dell’autenticità è anche al centro di Come Diventare Se Stessi, il volume scritto da David Lipsky in cui è racchiusa una lunga intervista (circa 450 pagine) che il giornalista del Rolling Stone ha realizzato con Wallace durante il tour promozionale di Infinite Jest. Una fedele trasposizione testuale in cui vengono analizzati i dubbi, le paure, le speranze e le passioni di uno scrittore sensibile e introverso, innamorato del suo lavoro (e di una stabilità allora ritrovata) tanto da obbligarsi a non essere trasportato dal successo commerciale. Un libro che approfondisce il metodo di lavoro di Wallace così come le sue esperienze, le dipendenze (in primis la fascinazione per la televisione) e la vita di tutti i giorni. Un ultimo appuntamento con lo scrittore più sorprendente e geniale che l’America abbia conosciuto negli ultimi anni. Come Diventare Se Stessi Minimum Fax 442 pagine | 18,50 euro Il Re Pallido Einaudi 714 pagine | 21,00 euro
Now It’s Blues I
Arriva il primo album solista di David Lynch
di Michele Casella
Musica
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ntimamente affascinato dal suono e dalle sue infinite possibilità, David Lynch ha curato con estrema attenzione ogni singolo brano ed elemento sonoro comparso nelle sue opere per il grande ed il piccolo schermo. Fin dai cortometraggi degli esordi risulta infatti evidente la profonda connessione fra ambiente, personaggi e musica, elementi che hanno dato vita a colonne sonore ormai entrate nella storia del cinema. Con Crazy Clown Time il regista statunitense raggiunge però un nuovo traguardo e pubblica il suo primo disco da solista, dando libero sfogo ad una poetica maturata nel corso degli anni grazie alle collaborazioni con personaggi del calibro di Angelo Badalamenti, Marek Zebrowski, Sparklehorse e Danger Mouse. L’album si apre sulle note della notturna Pinky’s Dream, una corsa sulle strade di Mulholland Drive con Karen O a fare da guidatrice e a districarsi attraverso i riferimenti new wave e post-punk. È proprio la vocalist degli Yeah Yeah Yeahs ad interpretare le inquietudini e la sensualità dell’album di Lynch, perfetta musa dal temperamento appassionato e dalla carica romanticamente sanguigna. Con Good Day Today si passa ad un ambito decisamente apposto, insistendo sulla ritmica e sulla ballabilità del pezzo grazie all’interazione con Dean Hurley. L’ingegnere del suono (già al lavoro con Lynch durante le ultime prove filmiche) trasforma le liriche del brano attraverso alterazioni digitali e synth, ma fornisce un importante contributo anche in So Glad nella messa a punto delle chitarre e delle incalzanti percussioni. L’oscurità prende possesso della successiva Noah’s Arc, un trip-hop ossessivo e irrequieto che sembrerebbe ideato per una delle scene domestiche di Eraserhead, mentre la gelosia assillante è al centro della splendida Football Game, un blues corrotto e acidissimo che vibra grazie alle chitarre elettriche di Lynch. Amore e abbandono restano al centro di
I Know, sbilenca come la camminata di un ubriaco e allucinata come uno dei video digitali di Inland Empire, subito sostituiti dalla lunga declamazione alterata digitalmente che ci conduce attraverso le speculazioni meditative di Strange And Unproductive Thinking. I riferimenti a Kafka di The Night Bell With Lightning ci riportano al blues straniante di Twin Peaks ed alle meraviglie a cui ci aveva abituato Badalamenti, mentre con la ballata These Are My Friends Lynch si mostra in tutta la sua naturalezza compositiva, proponendo un quadretto decisamente americano di amicizia e quotidianitĂ . Una parentesi prima della parte finale del disco, in cui gli ultimi accecanti flash
notturni ci fanno nuovamente affrontare le ombre diafane di un artista visionario, perfettamente sintetizzate nel turbamento oppiaceo della title track. Ipnotico e destabilizzante, Crazy Clown Time è un disco seducente ed obliquo, capace di sorprendere e soprattutto di convincere.
In A Town Like Twin Peaks No One Is Innocent La colonna sonora che ha segnato un’epoca Sono davvero pochissime le colonne sonore della storia del cinema capaci di entrare nell’immaginario collettivo con la forza suggestiva di Twin Peaks, il serial capolavoro nato dalla mente di David Lynch e Mark Frost. Composta nel 1989 da Angelo Badalamenti grazie alla complicità del cineasta americano, questa soundtrack non solo ha saputo perfettamente condensare l’intero mood del mondo in cui gravita Laura Palmer, ma è divenuto emblema di un’estetica, sintesi di un periodo d’oro della televisione occidentale. Nella musica di Badalamenti converge il mistero, la sensualità, il terrore e la tensione, l’erotismo e l’incubo, la dolcezza e l’amicizia di una piccola/grande società. Ascoltare Audrey’s Dance e ammirare la voluttà di Sherilyn Fenn significa semplicemente assistere ad una delle migliori introspezioni psicologiche della storia cinema, perché in quella danza ed in quella musica c’è tutto il personaggio immaginato da Lynch. Il tema sonoro di Twin Peaks, con la sua dolcezza e con la sua portata onirica, ha poi marchiato a fuoco un’intera generazione, colonna sonora di un evento mediatico che ha unito cultura pop e perfezione della regia, voyeurismo e genio visionario. La voce di Julee Cruise è diventa emblema di un dream pop che non ha epigoni, così elegante e rarefatta quando attraversa le notti nebbiose ed oscure di una comune cittadina americana al confine canadese.
Musica
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Ma la cifra stilista di Badalamenti è tutta nelle meraviglie jazz di Freshly Squeezed, retta dall’incedere lento delle spazzole sulla batteria, dal piacevole vibrafono e dallo schioccare di dita che richiama alla mente gli abitanti della loggia nera. Una musica straordinariamente calata nel mistero, sia quando scandita dal contrabbasso di The Bookhouse Boys, sia quando addolcita dalle tastiere di Into The Night, che non a caso si apre con il sussurro delle parole “now it’s dark”. Eppure in questa musica è presente una grande vena di romanticismo, tema parallelo alle tracce scelte da Lynch per caratterizzare alcune delle migliori scene dei suoi lungometraggi come Song To The Siren dei This Mortal Coil o This Magic Moment di Lou Reed. La colonna sonora di Twin Peaks così come il lavoro realizzato con Badalamenti e la Cruise è poi alla base di Industrial Simphony No. 1: The Dream Of The Brokenhearted, lo spettacolo teatrale che Lynch ha presentato sul palco della Brooklyn Academy of Music di New York nel 1989 come parte del New Music America Festival. La performance rappresenta un punto di incontro fra il mondo onirico di Laura Palmer e lo spaventoso incanto di Wild At Heart, dato che la scena di apertura vede proprio Nicolas Cage e Laura Dern in una struggente scena di addio fatta di primissimi piani e meravigliosi giochi d’ombra. I 50 minuti dello spettacolo rappresentano dunque il sogno della protagonista dal cuore spezzato, un musical dall’immaginario allucinato e postindustriale, dove la voce della Cruise si incrocia con la sinistra figura Michael J. Anderson (il nano della serie TV) ed una serie di suggestive apparizioni. Tornano le luci stroboscopiche che ritroveremo in tanti film di Lynch fino ad Inland Empire, ma soprattutto torna la musica inserita nei primi due album di Julee Cruise, con quel misto di dolcezza e pulsione erotica alla quale si lega il candido pop in stile ember sixties.
A completare la trilogia sonora legata a Twin Peaks ed ai suoi abitanti vi è poi la colonna sonora di Fire Walk With Me, il prequel del serial televisivo che Lynch presentò a Cannes nel 1992 e che venne generalmente non compreso da una critica disattenta e decisamente poco informata. Ben più drammatica ed oscura di quanto ascoltato in precedenza, la soundtrack rappresenta l’excursus sonoro degli ultimi giorni di vita di Laura Palmer, un incubo ad occhi aperti in cui vita sociale, tensioni domestiche ed elementi soprannaturali convergono in una discesa agli inferi di straordinaria intensità. Il jazz torna in primissimo piano grazie ad un Badalamenti elegante e perfettamente sciolto, anche quando la forma narrativa di A Real Indication trascina il nervosismo metropolitano nei sogni di una cittadina rurale. L’inquietudine musicale raggiunge il culmine nell’eccezionale Sycamore Trees, dove il pianoforte di Badalamenti, le liriche di Lynch e soprattutto la voce di Jimmy Scott ci trasportano nel pieno dell’oscurità del film, una mescolanza di solitudine e vibrante ossessione. La voce della Cruise torna in Questions In World Of Blue, angelica ballata dai tratti spirituali in cui lo spaesamento di un’adolescente crea angoscianti mostri della mente. Dal blues-rock di The Pink Room alla follia nera di The Black Dog Runs At Night, la colonna sonora mantiene sempre uno stretto legame con la tradizione statunitense, con le chitare elettriche e col jazz di inizio secolo. Una raccolta di assoluta intensità, in cui confluiscono le emozioni e le passioni di un mondo di fiction che ha senza dubbio condizionato intere generazioni di spettatori ed ascoltatori.
Due o tre cose su David Lynch È nato a Missoula, nel Montana Eagle Scout Ha ottenuto 3 nomination all’Oscar per The Elephant Man, Blue Velvet e Mulholland Drive Ha vinto la Palma d’Oro al Festival del Cinema di Cannes per Wild At Heart Leone D’oro alla carriera al Festival del Cinema di Venezia Eccellente pittore, una delle sue mostre intitolata The Air Is on Fire è stata ospitata a Parigi negli spazi della Fondation Cartier Nel 2005 ha creato la David Lynch Foundation For Consciousness-Based Education and Peace.
Ha da poco contribuito all’apertura del Club Silencio, un nightclub parigino che ha preso il nome dal thriller psicologico Mulholland Drive. Lynch ha progettato gli interni del club e molte parti dell’arredamento Ha collaborato a Dark Night of the Soul, l’album di Sparklehorse e Danger Mouse per il quale ha anche realizzato un intero book fotografico Pratica quotidianamente la meditazione trascendentale e la promuove in tutto il mondo con seminari specifici. Ha anche scritto il libro In Acque Profonde in cui analizza il rapporto fra meditazione e creatività.
di Michele Casella
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In un mercato discografico costantemente saturato, le esperienze offerte dalle nuove frontiere dell’autoproduzione si pongono come baluardo di una libertà espressiva e di una chiarezza di intenti artistici. Avviene così che la via più semplice e proficua sia quella di mettere la propria esperienza all’interno di un gioco più grande in cui anche i musicisti si riappropriano di una totale autonomia. Gianluca Petrella, trombonista capace di valicare le frontiere del jazz grazie ad una naturale predisposizione verso la contaminazione e l’inaudito, apre la Spacebone Records nel 2009 e pubblica due suoi progetti confrontandosi direttamente con la filiera del disco. Ne nasce un concept di eccellente coerenza artistica.
Come nasce il progetto di creare una tua etichetta indipendente? L’idea parte dal divorzio con la Blue Note, con cui ho interrotto il rapporto lavorativo dopo un contratto completato e due dischi all’attivo. Quando mi sono trovato senza un’etichetta a supportarmi, l’idea migliore che mi è venuta in mente è stata quella di aprire una mia label, così da avere il controllo sul mio prodotto musicale in maniera molto più diretta. Molto spesso, infatti, non c’è un rapporto chiaro col produttore nella gestione delle informazioni riguardanti il disco. Aprire la Spacebone ha significato avere libertà assoluta e decidere tutto personalmente, dalla musica all’artwork. Ovviamente questo occupa del tempo che si va ad aggiungere a quello del musicista, ma è un lavoro per molti versi anche divertente.
GIANLUCA PETRELLA COSMIC BAND Coming Tomorrow Part One
GIANLUCA PETRELLA TUBOLIBRE Slaves
Omaggio rispettoso ma allo stesso tempo personalissimo ad una delle figure leggendarie del jazz mondiale, Coming Tomorrow rappresenta un risultato assolutamente positivo sia nell’equilibrio formale sia nella dinamicità compositiva e di interpretazione. La partenza con il classico Space Is The Place rappresenta il primo elemento di commistione fra approccio tipicamente jazz e irruenza alternative, a cui fa eco la straordinaria esecuzione del caleidoscopio lisergico di Saturn, nella quale si alternano visioni cristalline e fantastica fluidità jazz. Il trombonista italiano crea un proprio affresco musicale in cui far confluire le inquietanti cadenze marziali di A Little Beat Waltz con le intromissioni digitali di Orbital Perc., le trascinanti accelerazioni di Three Undisciplined Satellites e la leziosa eleganza di The Second Star To The Right. Una prova eccellente.
Il viaggio onirico di Slaves parte con una lunga ed inquieta introduzione, apertura propedeutica alla materia ossessiva e psicotropa che è alla base di questo strabiliante esperimento sonoro. Nelle sette tracce qui raccolte è l’anima del blues ad essere scomposta e destrutturata, mischiandosi con la tromba di Mauro Ottolini, le chitarre heavy di Gabrio Baldacci e le percussioni rutilanti di Cristiano Calcagnile. Il trombone di Gianluca Petrella indica la rotta e va a comporre una materia sonora in cui la collisione fra i singoli elementi infonde entropia e sorpresa. Si deve però attendere la title track per arrivare al fulcro dell’opera, pronti a farsi sollecitare da intromissioni elettroniche, passaggi riflessivi, suoni cristallini, assalti sonori, elementi orientali e molto altro ancora. Un album in cui le suggestioni dominano sull’ascolto razionale e nel quale è opportuno perdersi in stato di completo abbandono.
Con la Spacebone pubblicherai anche opere di altri artisti? Ho pensato di partire dalla mia musica, ma in questo periodo mi sto guardando intorno. Ovviamente la selezione è molto rigida, soprattutto in questo momento in cui i dischi vengon fuori come funghi ed è molto facile pubblicare un album che vada a saturare un mercato già sofferente. Non è facile vendere e gli scaffali sono sempre più pieni di registrazione spesso discutibili.
Hai pubblicato due album ricercati, coinvolgenti e differenti fra loro: come li hai concepiti e cosa realizzerai in futuro su Spacebone? Sono partito con un bel Coming Tomorrow, un titolo che aveva anche un filo di polemica nei confronti della Blue Note; ho aspettato, ho aspettato tanto che questo disco vedesse la pubblicazione e l’ho voluto rendere un tributo a Sun Ra, un artista che propongo anche dal vivo con la mia Cosmic Band. Ho fatto uscire un altro disco dopo due anni, questo perché non registro in continuazione. Un album lo porto con me per sempre e quindi devo scegliere il momento in cui la musica è chiara e i meccanismi della band sono fluidi. Slaves l’ho impostato decisamente su un blues molto personale, attualizzato, tinto di varie sfaccettature con colori prodotti anche da apparecchiature elettroniche. Un personalissimo e attualissimo tributo al blues, mentre la prossima pubblicazione sarà la seconda parte di Coming Tomorrow e uscirà a gennaio, in modo da non incrociarsi con i dischi che escono nel periodo natalizio e che riempiono gli scaffali con un sacco di fuffa.
Sei soddisfatto del lavoro svolto e dei risultati ottenuti? Parliamoci chiaro, oggi si va verso la vendita dei dischi e dei singoli brani online, e ovviamente si perde il gusto di avere il cd fisico. Oggi i musicisti son “costretti” a suonare per poter guadagnare, anche se per il jazz e la musica colta l’album fisico continua ad essere venduto. Per esempio io riesco a divulgare i miei prodotti discografici anche attraverso i concerti, dove c’è sempre un flusso di acquirenti interessati.
disfunzioni musicali
di Giuseppe Panunzio
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LOS CAMPESINOS! Hello Sadness Arts & Crafts/Self
TRENTEMØLLER Reworked / Remixed In My Room
Arrangiamenti ottimamente amalgamati ed una capacità di accelerazione di altissimo livello sono gli elementi caratterizzanti di Hello Sadness, il quarto disco dei Los Campesinos!. Fondamentalmente basata su un’accattivante sovrapposizione di chitarre, la band di Cardiff si muove su territori sempre più vicini a quelli degli Arcade Fire ma puntando in maniera decisa sull’accezione melodica dei dieci brani raccolti. Partendo da una proposta pop-rock, i sette membri della band sviluppano un percorso sonoro che passa dal folk all’indie, portando alla ribalta il brit-beat più concitato degli anni ‘90/’00 e dandogli nuovo smalto. Non mancano gli attacchi decisamente elettrici, gli intrecci vocali, i muri di suono e la dolce malinconia di un cantato romantico e determinato, scandito da tappeti ritmici sempre coinvolgenti. Un disco corale ed espansivo, capace di entrare facilmente in testa, eppure maturo nella capacità di scrittura e nella coerente produzione.
In un gioco di rimandi e citazioni, colpi di genio e deja-vu, eleganza e fragore, Trentemøller ci guida attraverso 22 tracce raccolte fra remix e versioni alternative. Un doppio album in cui gli oscuri romanticismi del postpunk si aprono ad un’elettronica spesso delicata, talvolta giocosa e dall’impronta decisamente indie, nei migliori casi dotata di un tappeto ritmico coinvolgente e dai tratti ballabili. Notevoli i nomi che si alternano all’interno dei credits, da Unkle a Weatherall, dai Franz Ferdinand agli Efterklang, per una compilazione ben equilibrata e perfino omogenea. Trentemøller si mostra ancora una volta perfetto interprete del contemporaneo, interprete di quei suoni e quelle suggestioni che attraversano la scena europea.
Pianozone Torna a novembre a Bari “Time Zones – Sulla via delle musiche possibili”, la rassegna che da ventisei anni si segnala come uno degli appuntamenti più innovativi del panorama italiano. Un palcoscenico di debutto per il nostro Paese di molti grandi maestri della musica del 900, ma anche un costante laboratorio per produzioni originali. Facciamo il punto sull’odierna situazione musicale assieme a Gianluigi Trevisi, direttore artistico del festival che quest’anno è incentrato su uno strumento musicale senza tempo: il pianoforte.
di Annarita Annarita Cellamare Cellamare
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Esiste un fil rouge che ha legato fra loro tutte le 26 edizioni? Sono gli artisti stessi a fare da collante fra ogni edizione, con la loro attitudine da uomini curiosi. Abbiamo sempre cercato artisti che lavorano con la musica immaginandola come un fenomeno in perenne evoluzione. Spesso la musica è un gioco di bricolage, di assemblaggio di materiale preesistente, tecnica importante laddove il risultato proponga strade nuove. Purtroppo oggi i musicisti tendono spesso a riproporre materiale scontato, piatto. Siamo nella “cover age”. Da Kurt Cobain in poi è tutta roba già vista. Forse lui è stato l’ultimo a sperimentare, era un personaggio che aveva molto da dire. L’elettronica è un campo che si è prestato molto più alla manipolazione di suoni e frequenze. Il campionamento è dichiarato, ma la frequenza e l’effetto sono sempre diversi sull’ascoltatore. Quest’anno il protagonista assoluto è il piano, strumento musicale che rievoca compositori senza tempo, ma che per sua “conformazione” strumentale risulta un mezzo ancora valido per sperimentare… Fra tutti gli strumenti, il piano è l’unico che ancora (e meglio d’altri) riesce a cogliere ed interpretare il senso di disagio e malinconia che connotano il nostro tempo. Inoltre c’è una generazione di pianisti che proviene da esperienze molto forti del rock indipendente, gente che ha studiato al conservatorio ma poi è stata affascinata dall’hardcore, dal rock o dal
A sinistra Vladislav Delay In basso Agnes Obel
punk. Sono questi artisti che riescono a rimarginare lo strappo tra musica colta e popolare, tramite un processo di riappacificazione portato avanti da personaggi come Bollani, Einaudi o Allevi. Una sorta di “pianismo classico contemporaneo”, un ossimoro che esplica al meglio ciò che stanno realizzando. Fra gli artisti in programma ci sono Yann Tiersen, Nils Frahm, Dustin O’Halloran e Agnes Obel, un corollario di giovani e grandi compositori di fama mondiale. C’è un compositore in particolare che siete soddisfatti di ospitare? Personalmente mi piace molto Nils Frahm, ma abbiamo cercato di declinare questo uso del piano in ogni direzione: ci sono artisti legati all’immagine e ai suoni evocativi, ma c’è anche il progetto straordinario di Bugge Wesseltoft (punto di riferimento dell’electrojazz norvegese) ed Henrik Schwarz (nome di punta dell’house berlinese). La loro è una contaminazione suggestiva ed estremamente moderna, e mostra come i due estremi possano convivere senza risultare stridenti. C’è ancora qualche artista che speri di portare nei prossimi anni a Time Zones? Direi Max Richter, talentuoso compositore tedesco. Molti lo hanno apprezzato per le canzoni della colonna sonora di Shutter Island, il film di Scorsese, e siamo già in contatto con lui per farlo suonare a Time Zones.
PROGRAMMA NOVEMBRE 04 PIANO CIRCUS 12 AZITA + VLADISLAV DELAY 13 VALERIO VIGLIAR + BETAM SOUL 15 YANN TIERSEN band 17 DIEGO MORGA + AGNES OBOEL 18 SYNUSONDE + BUGGE WESSELTOFT & HENRIK SCHWARZ 19 NILS FRAHM + DUSTIN O’HALLORAN www.timezones.it
Etichette indipendenti insegnano alle major come divertirsi di Daniele Raspanti
Hi-Tech
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Machinarium (Windows, Mac) Uscito quasi in sordina, mentre sul web spopolavano i “Flash games”, Machinarium è l’esempio di come uno sviluppatore indipendente può creare un’idea vincente e innovativa senza troppe pretese. Sviluppato come un “Flash game” più complesso, Machinarium è un’affascinante avventura grafica, arricchita da una trama piacevole da seguire, da numerosi puzzle e da uno stile grafico molto particolare. Tutti i componenti del gioco, dai personaggi principali ai fondali, e persino i menu, sono fantastici disegni a mano riportati su computer. Bastano pochi secondi di gioco e si rimane incollati allo schermo per ore, seguendo le avventure del robot protagonista con continua curiosità. Volendo cercare un punto debole in questa produzione, si può dire che il prodotto di Amanita Design, una volta finito, è difficile dal poter essere rigiocato una volta portato a termine. Gli enigmi possono essere risolti sempre e solo nello stesso modo, e non ci sono storie o percorsi alternativi.
Promozione a scuola. Compleanno. Natale. O solo voglia di farsi un regalo. I motivi per acquistare un gioco possono essere tanti … talvolta anche la noia! Entriamo, guardiamo gli scaffali con gli ultimi titoli. Lanciamo anche una rapida occhiata alle offerte. Ma poi la nostra mano cade su uno dei titoli di punta, sulla grande produzione, quella che vediamo nelle pubblicità in TV o sui giornali, o semplicemente ne sentiamo il nome durante una chiacchera con amici. Torniamo a casa, eccitati e curiosi, scartiamo il cofanetto, inseriamo il CD/DVD/Bluray. Istanti memorabili. I personaggi ci sembrano veri, e l’atmosfera ci trasporta nel gioco immediatamente. Primo pensiero: SOLDI SPESI BENE. Sei ore dopo (se siamo fortunati): gioco finito. L’emozione era già svanita dopo la prima mezz’ora. E ora che abbiamo visto la sequenza finale, non abbiamo voglia di rigiocare. Quel cofanetto rimarrà a prendere polvere… Dopo generazioni di continua evoluzione tecnica, il “videogame” si è avvicinato sempre più ad un film, diventando un prodotto da “guardare”. Grazie ai social network (Facebook su tutti), ai nuovi smartphone e ai casual-games online, la tendenza sta cambiando, per somma gioia dei giocatori. Giochi gratuiti o previo pagamento di piccole somme spopolano sulla rete. Non possono competere con i grandi colossi, è vero, ma dalla loro parte hanno una caratteristica di tutto riguardo: fanno divertire
il giocatore! Piccoli sviluppatori indipendenti danno lezioni di divertimento ai colossi dell’industria videoludica. Solo una bella favola? Provare per credere, e magari divertirsi un po’! Titoli come Machinarium (forse uno dei principali esponenti del filone “indie”), Bastion, The Dream Machine o The Witness sono l’essenza del gioco stesso, fatto per divertire e stupire. Sono state e saranno le possibilità di numerosi artisti per proporre il loro stile rimanendo liberi da regole del mercato. Evoluzione? Rivoluzione? Non mancano. Supebrothers Sword & Sworcery EP è un mix perfetto di generi e sperimentazioni, che unisce ad una grafica “pixel” in stile anni 80 una colonna sonora di tutto rispetto (ovviamente, indipendente). Non ci sono quindi solo grandi case e produzioni milionarie nell’industria videoludica. Le etichette indipendenti esistono, sviluppano e fanno sentire la loro voce con prepotenza. E, a giudicare dall’ultimo IndieCade (International Festival of Independent Games), le idee per altri futuri capolavori non mancano. State ancora guardando la scatola dell’ultimo best seller acquistato e che avete finito in 4 ore? Immaginate cosa potevate aver per lo stesso costo: molti titoli diversi, molte ore in più di gioco e tanto divertimento.
Superbrothers Sword & Sworcery EP (iPad, iPhone, iPod Touch)
Hi-Tech
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Le cose più belle sono le più semplici. Una filosofia ben nota al team composto da Superbrothers, Capy e Jim Guthrie. Una collaborazione che ha prodotto il superbo Superbrothers Sword & Sworcery EP, gioco profondo, semplice, innovativo e dalla forte personalità. Se gli utenti dei touchscreen Apple erano alla ricerca di qualcosa di veramente unico da usare nel tempo libero o da mostrare agli amici, questo è IL TITOLO per eccellenza, da avere e custodire gelosamente. Definito come “... an unlikely mix of Zelda and art house cinema. The game is equal parts Robert E. Howard, Shigeru Miyamoto, Tim Schafer, with some David Lynch thrown in for good measure — but there is more to SS&S than these inspirations”, SS&S riprende uno stile pixel-art ormai abbandonato in favore del fotorealismo a tutti i costi. Stile che i ragazzi di Superbrothers hanno definito “I/O Cinema”. Il tutto accompagnato da una colonna sonora “confezionata” per l’occasione da Jim Guthrie, compositore e musicista già conosciuto nell’ambito gaming. Un accoppiata tra SS&S e Guthrie che definisce il gioco come il suo “videogames EP” (disponibile su iTunes l’album completo, o su vinile dal titolo Jim Guthrie’s Sword & Sworcery LP: The Ballad of the Space Babies). Descrivere SS&S è difficile. Ma è certo che vale ogni centesimo del suo costo su AppStore. Non a caso, è vincitore del premio Achievement in Art all’IGF Mobile 2010 (per quanto, all’epoca, fosse ancora in fase di sviluppo).
Bastion (Window, Xbox LIVE Arcade)
The Dream Machine (Windows, Mac, Linux)
Guardandolo per la prima volta, si stenta a credere che sia una produzione di una piccola casa indipendente (la Supergiant Games, di ben 7 componenti). Eppure, i fondali disegnati a mano (ad alta risoluzione), la trama e una colonna sonora che si sposa perfettamente con tutto il gioco, sono di altissimo livello! Bastion narra le vicende di Kid e dei pochi superstiti di un mondo andato distrutto. Il Bastion (da qui il nome del gioco) è l’unico luogo capace di riportare in vita tutto ciò che si è perduto. Una trama che dalle prime battute sembra essere scontata, ma che man mano attrae e trasporta fino al bellissimo finale. Un titolo che sviluppa ogni singolo componente, dalla gestione del personaggio fino alle missioni alternative, con una maestria difficile da immaginare per un team così giovane e piccolo. Le note della splendida colonna sonora vi culleranno durante tutto il viaggio di Kid. Si rimarrà spesso incantanti nell’ammirare lo splendido lavoro fatto dai grafici su sfondi e personaggi, ma ricordatevi che il gioco deve continuare! Per fortuna, i momenti di azione saranno interrotti da brevi cutscene, che ci permetteranno di gustare trama e disegni senza preoccuparci di ciò che dobbiamo fare sullo schermo. E se lo avete finito… provate a ricominciarlo!
Finalista all’Indipendent Games Festival 2011, Finalista al Develop 2011, Finalista INDIECADE Festival 2011, vincitore del concorso IntoThePixel 2011 (vicino a nomi di software house più blasonate), Best Art Award all’Indiepub’s third indipendent developers competition. Se però i premi non vi interessano, provate e guardate voi stessi. The Dream Machine è un classico gioco di avventura vecchio stile e… no, qui non ci sono nemici a cui sparare o tombe antiche da profanare. Ma a parte la semplicità (per niente a sfavore del giudizio finale), la bellezza di The Dream Machine risiede nell’immenso lavoro svolto dagli sviluppatori. Ogni location, ogni personaggio e oggetto che incontrerete durante la vostra avventura non è stato generato al computer, ma dalle abili mani degli artisti che con argilla, pittura, modellini e cartone hanno creato tutto il mondo di The Dream Machine. Giocabile online sul sito ufficiale o scaricabile previo pagamento (meritato) per chi vuole provarlo anche senza connettersi, lo sforzo (è proprio il caso di dirlo) dei ragazzi della Cockroach Inc. è un chiaro esempio della presenza di artisti e sviluppatori indipendenti che alimentano il mercato video ludico ormai a corto di idee.
ITALSERVICES S.p.A.
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