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Visioni 6. ECLETTICHE VISIONI - RAROVIDEO 10. CHIUSI IN CASA 12. TITOLI DI CODA - IL 2011 AL CINEMA 14. FALSO MOVIMENTO

Life 15. SESTO POTERE - LA RIVOLUZIONE DIGITALE CAMBIA L’EDITORIA 22. FASHION FACTORY 26. THE ART OF PROTEST 28. ATTENTI A QUEI DUE! – PER UNA NUOVA FILOSOFIA DELLA MODA 30. SPIRITO A PEZZI 32. #PUGLIA - NELLA RETE DEGLI EVENTI 36. MY PERSONAL SHOPPER

Arte 38. ANNA DI PROSPERO - L’IMMAGINE PERFORMATIVA 41. QUEEK.IT LIST 42. SISSA MICHELI - INTERVISTA 44. LORENZO MATTOTTI - INTERVISTA

Libri 48. DI CHESTER E DEI SUOI AMICI 49. ANTEPRIMA THE LITTLE MAN 54. FRUIT – RASSEGNA DI MICROEDITORIA AUTOPRODOTTA 56. AEREI DI CARTA 58. THE DARK SIDE OF THE MOON - 1Q84 DI HARUKI MURAKAMI 59. L’UNICO SCRITTORE BUONO È QUELLO MORTO

Hi-Tech 60. CREATORI DI MONDI - L’ARTE E IL GENIO (SOTTOVALUTATO) DEL GAME DESIGNER

Musica 64. DJ-KICKS - THE EXCLUSIVES 66. DISFUNZIONI MUSICALI


Editoriale L’inizio del consapevole commiato parte con Walter Benjamin, mai troppo citato con L’opera d’Arte nell’Epoca della Sua Riproducibilità Tecnica, il saggio che ha anticipato il decadentismo della cultura di massa. Ad un progressivo moltiplicarsi dei media a nostra disposizione è corrisposta una graduale svalutazione dell’opera stessa, frutto di un copia/incolla che pone le basi per una diffusione universale dello scibile umano. Come evidenzia lucidamente Viktor Mayer – Schönberger nel suo libro Delete, il passaggio dall’analogico al digitale ha portato ad una semplicità e ad una precisione straordinarie nella duplicazione di dati, informazioni, testi, suoni, immagini, movimenti. In una parola: opere. Cosa resta dunque, del valore economico di una produzione artistica quando tempo, risorse ed accessibilità della duplicazione diventano immediate ed a costo praticamente nullo? In termini prettamente commerciali quel che importa è la scelta e l’accuratezza utilizzate per il materiale di produzione; nel caso di un

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libro, quindi, l’edizione rilegata vale più della qualità del testo, mentre per un disco conta più il packaging che la musica al suo interno. È il motivo per cui nel 2012 l’acquisto dei cd è in caduta libera mentre il long playing risale lentamente la china, affidandosi alla consapevolezza degli appassionati che 180 grammi di vinile possiedono ancora l’aura della irriproducibilità domestica. A così poco ci siamo adeguati… Se da un lato per il fruitore aumenta la comodità di utilizzo, di portabilità, di costi e di condivisione, dall’altro viene decisamente a sminuirsi la funzione esperienziale dell’opera d’arte, sostituita da una totale evanescenza sensibile. Ma la separazione del disco dalla sua materialità non solo annulla il valore dell’artwork e dell’apparato iconografico, ma soprattutto elimina l’elemento di interattività personale. È in questo modo che viene d’un balzo cancellata l’emozione di un acquisto, magari dell’album del vostro artista preferito. Scompare l’attesa dell’ordine, il consiglio del


Photography DUY QUOC VO

rivenditore, ma scompare anche la passeggiata col vinile sottobraccio, lo strappo del cellophane, il primo ascolto con booklet alla mano. Piccole cose, che spesso contano più della musica stessa o della caratura dell’artista. È per questo che gli operatori culturali devono necessariamente ripensare il loro ruolo nel sistema di consumo contemporaneo. Non basta la semplice presa d’atto della situazione o la cieca difesa di una posizione tradizionalista. Serve invece la volontà di mettersi in gioco, di ripensare il proprio ruolo sociale, di riadattarsi alle necessità di questo tempo. Perché musica, cinema, moda, stile, libri, cibo, viaggi fanno parte di un intreccio inscindibile di esperienze personali, che aumentano di valore se condivise anche nella loro fisicità. Solo da un’intelligente integrazione fra analogico e digitale, infatti, potremo ottenere il massimo livello di soddisfazione emotiva. Michele Casella

Styling SONNY GROO

REDAZIONE Michele Casella Direttore Responsabile Vincenzo Recchia Creative Director Irene Casulli Fashion Editor Giuseppe Morea Multimedia Developer Vincenzo Pietrogiovanni Caporedattore cinema Daniele Raspanti Caporedattore hi-tech Carlotta Susca Caporedattrice libri
 Annarita Cellamare Redattrice
 COLLABORATORI Simona Ardito, Claudia Attimonelli, Luigia Bottalico, Sergio Bruno, Elisa Caivano, Antonello Daprile, Roberta Fiorito, Valeria Giampietro, Enrico Godini, Ambrosia J.S. Imbornone, Paolo Interdonato, Pasquale La Forgia, Ninni Laterza, Giovanna Lenoci, Francesca Limongelli, Paola Merico, Simona Merra, Stefano Milella, Beppe Recchia, Laura Rizzo, Davide Rufini, Veronica Satalino, Mimma Schirosi. Un ringraziamento particolare agli Alieni Metropolitani di www.raccontopostmoderno.com COPERTINA Artwork di un fotogramma tratto da Quarto Potere di Orson Wells
 Stampato presso Sedit – Servizi Editoriali Cercaci su
 Facebook, Twitter, Myspace, Issuu, Google+ POOL Registrazione n. 31 del 08/09/2009, presso il Tribunale di Bari | www.ipool.it PUBBLICITÀ - Imood Via Cristoforo Colombo, 23 - Putignano (BA) | Tel. 080.4054243 | www.imood.it


Un catalogo di grandissimi autori, una selezione che spazia attraverso il globo ed una cura editoriale di altissimo spessore: sono queste le caratteristiche che hanno reso RaroVideo una guida per gli appassionati di cinema d’autore ed un’eccezionale raccolta di titoli. Dai lungometraggi giapponesi all’avanguardia americana, dalla nouvelle vague al suo superamento, dai documentari sulla musica alle metamorfosi del corpo e della mente. Il tutto ponendo una particolare attenzione alle rarità internazionali ed ai maestri dell’underground italiano. Intestatari di questo ambizioso progetto culturale ed imprenditoriale sono Stefano e Gianluca Curti, ed è proprio quest’ultimo a raccontarci il lavoro alla base di RaroVideo.

Un fotogramma tratto da Eraserhead

di Michele Cssella

Visioni

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Come parte il progetto RaroVideo? Tutto nasce nel 1999 per intuizione di Stefano e mia, quando decidiamo di unire l’anima cinefila, quella industriale e quella produttiva. L’inizio coincide con la pubblicazione in vhs di alcuni lavori di Andy Warhol, del quale abbiamo poi editato – primi nel mondo – l’opera omnia in dvd. Warhol e Jodorowsky rappresentano infatti i nostri totem, dei punti di riferimento dai quali si è dipanata un’opera di ricerca e di approfondimento verso titoli che erano stati ingiustamente relegati all’oblio. Li abbiamo restaurati e nobilitati, ma soprattutto abbiamo riproposto degli artisti che erano giudicati minori, dando loro la visibilità che meritavano. La distribuzione è certamente una delle componenti più importanti ed allo stesso tempo problematiche per un gruppo come il vostro; come l’avete affrontata durante questi anni? Abbiamo tenuto conto della distribuzione e risolto questa problematica fin dall’inizio di questa avventura, quando ci hanno detto che avremmo chiuso nel giro di poco tempo. Ciononostante dopo 12 anni siamo ancora qui, anche perché abbiamo sempre dato molta valore alla qualità del cinema che pubblichiamo. Siamo attenti in maniera maniacale ai dettagli dei nostri prodotti editoriali, ma cerchiamo anche di non chiuderci in una nicchia. Abbiamo poi trovato i nostri spazi in Fnac, in Feltrinelli ed in librerie selezionate in tutta Italia, aprendo anche uno spazio dedicato alla vendita online


e su iTunes, Abbiamo insomma instaurato una serie di collaborazioni importanti ed in questo modo abbiamo potuto spaziare da Ciprì e Maresco a Visconti, da Abel Ferrara a Tsukamoto, da Scorsese a Ken Loach.

vasto e produttivo. Per adesso stiamo facendo un lavoro di nicchia, ma abbiamo anche instaurato una proficua collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles.

Come appare in questo momento il mercato italiano in riferimento a questo tipo di cinema d’autore? E cosa sta succedendo rispetto al circuito delle sale? Ci sono anche altri che si impegnano nel nostro stesso settore, ad esempio Mikado, Fandango e Lucky Red. Di sicuro non c’è stagnazione, ma da parte nostra c’è sempre stata un profonda attenzione per un cinema di ricerca e per un lavoro fatto di grandi sacrifici. Il cinema d’autore nelle sale, d’altro canto, sta decisamente arrancando, ma la questione è prevalentemente legata al modo in cui si sta trasformando il mercato. All’interno delle multisala cittadine c’è ancora spazio e modo per fare ricerca, ma nei circuiti più periferici la questione è spesso differente e le logiche sono più legate ai titoli da cassetta. Sarà difficile invertire questa tendenza, soprattutto finché non ci saranno molti luoghi destinati a questo tipo di film. Inoltre si fa sempre più pressante la concorrenza dei dvd e dei video on demand.

Un autore molto caro a Pool è David Lynch, come è stato il lavoro assieme a lui? Di Lynch abbiamo pubblicato alcune opere meno conosciute, dai corti alla sua serie animata, per arrivare ad Eraserhead ed alla sua opera teatrale. Con lui c’è stato un rapporto molto interessante, anche perché è molto attento ai dettagli, forse più di noi. Ci ha affidato delle opere che solitamente vende direttamente dal suo sito, consentendoci di inserirle in un boxset realizzato da RaroVideo. Alla fine Lynch ci ha scritto una lettera, ringraziandoci per la bellezza di questa edizione.

Da qualche mese siete anche sbarcati negli Stati Uniti con un catalogo pensato appositamente per quel mercato, come stanno andando le cose? Dallo scorso marzo siamo partiti con Raro Video Usa e l’accoglienza è stata decisamente buona. Abbiamo ottenuto recensioni entusiastiche da testate blasonate come New York Times, New Yorker, USA Today, e Los Angeles Times. Al momento il cinema è italiano è ancora percepito come qualcosa di esotico, soprattutto quello del periodo che va dal 1950 al 1980. Abbiamo cominciato puntando sui titoli che abbiamo in catalogo e pubblicandoli in un’apposita edizione per gli Stati Uniti. Naturalmente abbiamo scelto di essere coerenti con la nostra linea editoriale e siamo usciti con film action e horror italiani che sono molto apprezzati oltreoceano. Abbiamo pubblicato I Clown di Fellini, la trilogia di Fernando Di Leo, I Vinti di Antonioni ed una manciata di altri titoli. Le differenze fondamentali stanno nei numeri, perché lì il mercato è molto più

Assieme a Enrico Ghezzi avete inaugurato la collana Eccentriche Visioni, come funziona il lavoro tra di voi? Enrico Ghezzi è un intellettuale straordinario, un uomo di grande spessore oltre che un vero amico. Per noi è il padre nobile della divulgazione del cinema in altri luoghi che non siano i cinema. Credo che con noi si sia divertito, abbiamo realizzato delle cose importanti e ora ci stiamo scambiando delle bellissime lettere per decidere cosa fare in futuro. Per il momento abbiamo rarefatto la nostra collaborazione, ma ripartiremo presto con altri progetti. Un elemento che vi ha sempre distinto è la cura per i materiali che pubblicate, con edizioni che spesso vedono approfondimenti critici e splendide sezioni fotografiche… Alcune volte abbiamo legato al dvd la pubblicazioni di veri volumi di quasi 100 pagine e testo in doppia lingua, una scelta che ci ha sempre contraddistinto e che continueremo a portare avanti. I contenuti di approfondimento non sono mai dei semplici testi descrittivi, ma dei veri saggi curati da esperti del settore. L’idea è quella di fornire al pubblico un prodotto ricco e di prestigio, come faremo anche con la pubblicazione di Hamam, il primo film di Ozpetek. Per l’occasione abbiamo coinvolto Alessandro Gassman in un documento che è un vero e proprio film di 60 minuti.


Stefania Sandrelli in Il conformista

IL CATTIVO TENENTE Di Abel Ferrara

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Uno dei registi più allucinati e visionari della storia del cinema in uno dei suoi film più affascinanti. Costruito attorno ad una magistrale interpretazione di Harvey Keitel, Abel Ferrara stordisce lo spettatore immergendolo in un film di rara intensità, che ci pone davanti ad interrogativi come il peccato e la redenzione. Passione, crudeltà, religione e violenza si incrociano in una storia di straordinaria umanità e sconvolgente pathos. Un capolavoro.

MATISSE – L’ODIO – ASSASSIN(S) Di Mathieu Kassovitz Un cofanetto dedicato ad una delle figure più interessanti del cinema francese degli ultimi anni, con tre film che hanno rappresentato la sua consacrazione prima della svolta mainstream. Fra tutti, L’Odio resta un’opera visionaria, che anticipa di 10 anni le rivolte nelle banlieue francesi e coinvolge lo spettatore in una caduta libera verso l’inevitabile. Uno straordinario bianco e nero per una storia ricca di tensione e forti scosse emotive.


IL CONFORMISTA Di Bernardo Bertolucci Un film di grande portata innovatrice, in cui gli elementi postmoderni si intrecciano ad un’eleganza retrò e ad una prospettiva cosmopolita. Surreale, fantastico, a tratti perfino onirico, questa splendida trasposizione dell’omonimo romanzo di Alberto Moravia ritrova la forza di analisi dello scrittore e vi unisce le suggestioni dello sguardo cinematografico. Bertolucci, appena ventinovenne, dirige un’ammaliante Stefania Sandrelli ed un inquieto Jean-Louis Trintignant in un film che ha fatto epoca.

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA Di Marco Bellocchio

ALL’ARMI SIAM FASCISTI! Di Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Lino Miccichè

HAMAM – IL BAGNO TURCO Di Ferzan Ozpetek

Precursore di una realtà editoriale attualissima ed allo stesso tempo spaventosamente realistica, Sbatti Il Mostro In Prima Pagina è una riflessione sui temi dell’informazione che non lascia scampo ai servi del potere. Un film dai forti risvolti politici, girato in un periodo storico già “incendiario” e ripensato nella sceneggiatura dallo stesso Bellocchio. A completare il quadro c’è un grande Gian Maria Volontè che ricorda un po’ il commissario di Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto.

Un documento dichiaratamente antifascista, presentato alla Mostra di Venezia del 1961 e oggetto di aperti contrasti soprattutto a causa delle implicazioni che coinvolgevano Chiesa e vertici del partito. Un film che utilizza solo materiali di repertorio e che si avvale del commento di Franco Fortini, capace di destabilizzare gli animi e di sfiorare la censura. All’Armi Siam Fascisti! è un lungometraggio marcatamente legato al periodo della sua creazione ma allo stesso tempo assolutamente contemporaneo negli interrogativi che solleva.

Opera d’esordio del regista italo-turco Ferzan Ozpetek, questa edizione viene arricchita di uno speciale di 50 minuti con interviste esclusive a Alessandro Gassman, Marco Risi, Francesca D’Aloja ed allo stesso cineasta. Un lungometraggio sull’eros ma anche sulla ricerca di nuovi valori, presentato al Festival di Cannes del 1997 e capace di lanciare Ozpetek verso il successo commerciale. Decisamente il suo film più riuscito, in antitesi con titoli come La Finestra Di Fronte e Un Giorno Perfetto.


di Pasquale La Forgia

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Sarà che sono rimasto lo stesso ragazzetto puzzone che ti giudicava in base ai libri che avevi sul comodino, sarà che l’arte non è affatto una questione di gusti, certo è che se ti mostro una puntata di Arrested Development e alla fine mi dici «Non mi piace», per me sei un uomo morto. «E adesso la storia di una famiglia benestante che ha perso tutto, e dell’unico figlio che non ha avuto altra scelta, se non quella di tenerla insieme». Con queste parole una voce narrante apre (quasi) ogni episodio di Arrested Development. La stessa voce la ritroviamo in tutte le puntate, sempre pronta a contraddire e smentire i personaggi, a svelare il loro folle autolesionismo. Un palazzinaro in fuga, un prestigiatore fallito che gira in segway, un ansioso cocco di mamma, una madre manipolatrice con la mania dei travestimenti, un chiosco di banane al cioccolato, un analista che sogna Hollywood, un amore incestuoso (più di uno, a dire il vero)... Impossibile riassumere la trama o dedicare un quadretto a ciascuno dei protagonisti (nove più un’infinità di indispensabili comprimari): vi basti sapere che si assiste allo spettacolo delirante di una famiglia spendacciona e disonesta in rovina, realizzato con tecniche narrative e di montaggio


che ancora oggi fanno scuola e con uno stile di scrittura che intreccia una quantità esorbitante di citazioni che va da Happy Days alla Cappella Sistina. Insomma, adesso che il postmoderno è morto (o no?), possiamo sotterrarlo godendoci una delle sue massime espressioni: Arrested Development. Nata nel 2003 da un’idea di Mitchell Hurwitz per la Fox, questa commedia senza precedenti, un incrocio fra I Tenenbaum e un documentario, ha avuto l’incredibile capacità di sfruttare al massimo le capacità di ognuno dei suoi partecipanti. Nessuno dei membri del cast (Jason Bateman, Michael Cera, Will Arnett, Portia De Rossi...) è più riuscito a trovare un ruolo migliore e lo stesso Hurwitz sembra aver prosciugato la vena creativa. In appena tre anni di faticoso vivacchiare, Arrested Development ha raccolto degli ascolti miserabili, nonostante la slavina di premi ricevuti. L’insuccesso è stato tale da spingere Fox a tagliare la durata delle ultime due stagioni, scelta a cui gli autori della serie hanno risposto infilando nella trama una serie di prese per il culo – più o meno sottili – al network. Ma perché è necessario vederla? C’è una generazione

di trentenni (la mia) che da pochi anni si è riconciliata con la televisione: un po’ perché stiamo invecchiando, un po’ perché la Bbc e i network americani hanno standard sempre più alti. Ormai la tv è più facile godersela che subirla. Tutti seguono qualcosa, ognuno ha le sue preferenze, ma alla fine a tutti piacciono le stesse cose. Se volete smarcarvi, Arrested Development è quello che fa per voi. In sole tre stagioni questa serie è riuscita a segnare per sempre la carriera di chi vi ha preso parte, a conquistare gli onori della critica, a farsi ignorare dal grande pubblico e a insultare il network che l’ha mandata in onda. E perché parlarne ora, a sei anni dalla chiusura? Perché quest’anno dovrebbe finalmente vedere la luce la quarta e ultima stagione di Arrested Development, nove puntate (una per personaggio) che apriranno la strada al film che uscirà – si spera – entro il 2012. Avete tutto il tempo per mettervi in pari e per fare un piccolo esperimento. Se siete stanchi di avere troppa gente intorno e cercate qualcosa che vi aiuti a scremare le vostre conoscenze, procuratevi le tre stagioni di Arrested Development e fatele girare fra gli amici. Il giorno dopo depennate chi non vi chiamerà per dire «Grazie».


Questo è tempo di bilanci, top ten e paragoni rispetto agli anni scorsi. Non mi sottraggo ma sarò immediato: l’anno che si è appena chiuso certamente non si è contraddistinto per la produzione di indiscussi capolavori cinematografici ma non credo che la qualità media dei film sia peggiore dell’anno precedente. Non mancano le isole felici, sebbene quest’arcipelago del cinema di qualità sembra subire lo stesso destino degli atolli del Pacifico in preda ai cambiamenti climatici.

di Vincenzo Pietrogiovanni

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Innanzitutto va detto che il 2011 ha visto il consolidarsi del cinema in 3D, che ha ormai incontrato il gradimento di un pubblico vastissimo. Tra i titoli per cui è stato necessario utilizzare gli occhialetti, vi sono stati film per cui il 3D non è stato un mero orpello pressoché inutile dal punto di vista semantico, e mi riferisco in modo particolare a Le Avventure di Tintin – Il Segreto dell’Unicorno di Spielberg e a Sex and Zen 3D di Cristopher Sun Lap Key. Con Cave of Forgotten Dreams e Pina 3D inoltre, hanno esordito alla tridimensionalità nientepopodimeno che Werner Herzog e Wim Wenders, maestri del cinema tedesco sempre pronti alla sperimentazione. Un comparto che non conosce crisi è indubbiamente quello delle saghe, che a volte acquistano i toni tristi e sconsolati delle sagre. Così non è stato per i nomi di grosso calibro come Harry Potter e i Doni della Morte - Parte II, The Twilight Saga: Breaking Dawn o Pirati dei Caraibi - Oltre i Confini del Mare. Se l’Italia ha persistito con Manuale d’amore 3, dagli Stati Uniti sono arrivati Final Destination 5 3D e Scream 4, in attesa che arrivi a febbraio Millennium - Uomini che


odiano le donne con David Fincher dietro la macchina da presa. E se il 2011 si è chiuso con l’enorme successo di incassi di Sherlock Holmes - Gioco di ombre, questo si è aperto con un film sensazionale ma sottovalutato, Herafter di Clint Eastwood, ed un film deludente e sopravvalutato, La versione di Barney di Richard J. Lewis. Sempre a gennaio era abbastanza chiaro che le sorprese maggiori, almeno in termini di incassi, sarebbero arrivate dalla commedia italiana. Proprio di questo mese, infatti, sono le uscite di Che Bella Giornata di Checco Zalone e Qualunquemente di Antonio Albanese (in film di questo tipo il regista non se lo ricorda nessuno ma trattasi rispettivamente di Gennaro Nunziante e Giulio Manfredonia), che hanno anticipato il successo, tra gli altri, di Boris - Il Film, I Soliti Idioti e Scialla! (Stai Sereno). Tra le pellicole indipendenti del cinema italiano, segnalo tre titoli tra tutti: lo splendido Le Quattro Volte di Michelangelo Frammartino, e due opere prime, L’ultimo terrestre di Gianni Pacinotti alias Gipi, e Il Paese delle Spose Infelici di Pippo Mezzapesa, promettenti per le potenzialità espresse o meno. Il cinema d’autore ha visto, sostanzialmente, l’incoronazione di un re assoluto - The Tree of Life di Terrence Malick –, di un re relativo – Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki –, la realizzazione di un capolavoro mancato – Melancholia di Lars Von Trier – e di un capolavoro riuscitissimo – Faust di Aleksander Sokurov. Per il resto, il 2011 è stato l’anno dello sbarco negli USA di Paolo Sorrentino con This Must Be the Place e il definitivo approdo di Woody Allen al

cinepanettone con Midnight in Paris. Le pellicole che hanno appassionato la critica, divisa tra lodi e mezze stroncature: A Dangerous Method di David Cronenberg, Carnage di Roman Polanski, La Pelle che Abito di Pedro Almodovar, Habemus Papam di Nanni Moretti, Le Idi di Marzo di George Clooney, Terraferma di Emanuele Crialese, L’amore che Resta di Gus Van Sant e Una Separazione di Asghar Farhadi. Animali ibridi ed affascinanti: Drive di Nicolas Winding Refn, Contagion di Steven Soderbergh e Super 8 di J. J. Abrams. Due perle, assai diverse tra loro, ma accomunate da raffinatezza ed eleganza: The Artist di Michel Hazanavicius e Tomboy di Céline Sciamma. Infine, mi (s)piace ricordarvi che nel 2011 sono stati prodotti i seguenti film, tra cui sicuramente qualcuno verrà distribuito in Italia nel 2012 mentre qualcun altro non arriverà mai: Pollo alle Prugne di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi, Kotoko di Shinya Tsukamoto, Cut di Amir Naderi, ...E Ora Parliamo di Kevin di Lynne Ramsay, Twixt di Francis Ford Coppola, 50/50 di Jonathan Levin, Mothers di Milcho Manchevski, Once Upon a Time in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan, Hesher di Spencer Susser, General Orders No. 9 di Robert Persons, Submarine di Richard Ayoade, The Descendants di Alexander Payne, Carlos di Olivier Assayas, A Torinòi Lò (The Turin Horse) di Tarr Béla, Killer Joe di William Friedkin, 4: 44 Last Day on Earth di Abel Ferrara ed Essential Killing di Jerzy Skolimowski.


Beginners

J. Edgar

Los Angeles. Oliver (Ewan McGregor) è un artista che disegna copertine per album musicali, la cui malinconia cronica lo porta a trovate artistiche “molto personali” e poco commerciali. Ha perso da poco suo padre (Christopher Plummer), che solo pochi mesi prima gli aveva rivelato la propria malattia e la propria omosessualità celata per decenni. Oliver incontra Anna (Mélanie Laurent), attrice francese che vive tra New York e Los Angeles, ed è subito amore. Ma lo stato di confusione in cui versa non gli permette di vivere a pieno la propria relazione sentimentale, sino a quando non sarà compiuto in maniera autentica il viaggio interiore, alla ricerca di sé, attraverso i suoi ricordi d’infanzia e del suo rapporto con la madre e con il padre. Dopo una carriera tra illustrazioni e videoclip per mostri sacri della musica (Blonde Redhead, Sonic Youth, Moby, Beastie Boys o Air), e l’esordio al cinema con Il Succhiapollice nel 2005, Mike Mills regala un piccolo capolavoro la cui costruzione filmica, fatta di sbalzi in avanti ed indietro nel tempo, avvolge lo spettatore con un soffice velluto di leggerezza tra ironia, dramma e sentimento. È arrivato in Italia direttamente in home video, e sarebbe bello sapere perché.

Clint Eastwood ritorna con J. Edgar, biografia di un personaggio politicamente complesso: J. Edgar Hoover, appunto, capo dell’FBI per circa cinquantanni, sotto ben otto presidenti statunitensi, capace di influenzare orientamenti politici abusando spesso del suo ruolo.

Vincenzo Pietrogiovanni

Domizio Di Nicolantonio

Regia e scenenggiatura: Mike Mills Interpreti: Ewan McGregor, Christopher Plummer, Mélanie Laurent, Goran Visnjic, Kai Lennox, Mary Page Keller Drammatico, 104’, USA, 2010

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Regia: Clint Eastwood Sceneggiatura: Dustin Lance Black Interpreti: Leonardo DiCaprio, Armie Hammer, Naomi Watts, Judi Dench, Ed Westwick Biografico, 137’, USA, 2011

L’abile sceneggiatore Dustin Lance Black, già premio oscar per Milk, ha evitato di approfondire i rapporti di potere e le controverse dinamiche sociali di quegli anni, soffermandosi, come dà modo di capire il titolo, prevalentemente sulla sfera più intima del personaggio, di cui non si dà un giudizio morale. La scenografia e i costumi riprendono il precedente Changeling, anche per vicinanza d’ambientazione temporale, con predominanza di spazi interni ancora più cupi a sottolineare l’ombrosità interiore del personaggio, chiuso nella sua personale idea di giustizia, segregato volontariamente nei suoi uffici, privo di una sfera privata e morbosamente interessato a quella altrui. Nonostante qualche caduta di ritmo, J. Edgar è nel complesso un film intenso, a tratti malinconico, ma onesto e di facile fruibilità grazie a un montaggio classico. Perchè i “grandi” registi sanno come raggiungere il cuore e la mente di un vasto pubblico con semplicità.



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Fashion Factory Quando la cura è nel dettaglio di Irene Casulli

L’unione fa la forza… direbbe un vecchio detto. Ed è proprio questo il fil rouge che lega tra loro questi tre brand della moda contemporary. Giovani, creativi e con una grande attenzione alla qualità, dall’unione delle loro menti pensanti nascono progetti comuni, pur avendo nel loro trascorso attitudini ed esperienze diverse. Indipendenti, svincolati dai dettami e dalle regole del fashion system, si distinguono per curiosità e ricerca, per linee e materiali nuovi, inseguendo un sogno: cambiare la concezione stessa del vestire.

COMEFORBREAKFAST Creato nel settembre 2009, mese in cui acquista notorietà grazie alla rassegna Vogue Talents, COMEFORBREAKFAST, si distingue per la sperimentazione di silhouette versatili, dal fit moderno. Un fashionwear sofisticato e raffinato, dalle linee pulite, fatto di geometrie e sovrapposizioni dal gusto contemporaneo e cosmopolita. Elemento chiave del brand sono le grafiche, che rimarcano una forte connotazione artistica ed espressiva per tutte le collezioni. Nella prossima stagione estiva, motivi all-over e stampe digitali evocano cortecce arse, la natura brulla ispira la palette cromatica che si tinge di tutte le sfumature del grigio, dal light gray all’asfalto, miscelati a punte di giallo intenso. I fit risultano dinamici, accentuati dall’alternanza delle lunghezze e dei volumi avvolgenti. Una perfetta sintesi stilistica riassunta in uno styling code in bilico tra classico e postmoderno.



MINIMAL_TO Nato poco più di un anno fa dall’humus dell’underground torinese, MINIMAL_TO si ispira alla rapida e frenetica evoluzione della società per la creazione delle sue collezioni. Una filosofia e uno stile ben definito contraddistinguono da subito questo giovane brand, che punta ad una ristretta nicchia di mercato che si riconosca nel suo mood, ragion per cui molti dei capi prodotti diventano pezzi unici, da collezione, rigorosamente tutto Made in Italy. Il design dai tagli essenziali, ma mai scontati, disegna silhouette morbide, crea geometrie insolite e versatili. La neutralità e l’essenzialità di questi capi si denota anche nei colori rigorosamente neutri: bianchi e neri, accompagnati da svariate nuances di grigi. Una forte impronta stilistica è data dall’accostamento di fibre naturali – leggere ed impalpabili – a materiali più tecnici, rendendo questo prodotto unico e senza tempo.

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COVHERLAB Forte senso per l’estetica e passione artistica, caratterizzano COVHERLAB, brand giunto alla sua sesta collezione. Un processo creativo che parte dalla quotidianità, dalla naturalezza e dallo studio delle forme per trasformarsi in estro artistico. Una naturale propensione allo studio delle forme e dei colori e una creatività istintiva che lo accompagna da sempre, hanno permesso a Marco Grisola di rendere questo brand riconoscibile per stile e personalità. Ed è la luce, abbagliante ed etera, nelle sue molteplici sfaccettature, l’ispirazione della nuova collezione. Una luce che si scompone e si apre ad un ventaglio di colori impalpabili, che partono dal bianco opale, per arrivare a sfumature delicatissime del grigio come il light e il balena. Una tavolozza che si tinge di nuances come il rosa salino, il corallo, l’aragosta, il giallo, il turchese, il blu inchiostro fino ad arrivare al fango. Tessuti impalpabili come l’organza tripla, il lino, il satin si accostano a materiali che assumono corposità e fluidità diverse nei tessuti tecnici e nella seta-acciaio. Un mood fatto di piccoli pezzi interscambiabili e di capi unici, che descrivono forme e superfici ora fluide e zuccherose, ora rigide e mosse, dando quasi un senso di non finito, di sospeso nel vuoto.


in questa pagina Banksy in Stop and Search nell’altra pagina In alto I’m desperate, scatto di Gillian Wearing In basso Una t-shirt a di Katharine Hamnett

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The art of protest Noise festival di Annarita Cellamare Il 2011 si è concluso con una proclamazione inaspettata da parte del Time Magazine: il personaggio dell’anno è “The Protester”, il manifestante, un indignato senza nome e senza identità definita, che rappresenta tutte quelle persone che hanno esternato pubblicamente il loro dissenso relativo ai fatti politici e sociali accaduti negli ultimi tempi. La foto simbolica ritrae una giovane 25enne americana arrestata il 17 novembre a Los Angeles, durante una delle manifestazioni di Occupy Wall Street da parte degli indignati. Lo scatto è opera di Ted Soqui, finito nelle mani di Shephard Fairey, l’autore del poster «Hope» di Obama ed infine utilizzato per la cover del Time.


Il produttore esecutivo Noise Festival e curatrice della mostra, Denise Proctor, ha affermato “Si può protestare in maniera creativa ed efficace senza ricorrere alla violenza”, sottolineando l’importanza per i giovani di poter esercitare il diritto di protesta e i modi più efficaci per stimolare il cambiamento. “Lavoriamo con le persone under 30 per creare l’opportunità di mostrare il loro lavoro ed aiutarli a guadagnare un reddito dalla loro creatività. La mostra “the Art of Protest” è un’estensione del NOISElab.co.uk, progetto che portiamo avanti dal 2010 come “Libera Impresa d’Arti” in un negozio, il più trafficato di Manchester. È un luogo dove i giovani artisti possano incontrare i loro idoli creativi e confrontarsi con essi. Nonostante i tagli a progetti come questo e nonostante le nuove disposizioni in materia, NOISE si propone come spazio per giovani creativi per sviluppare una risposta positiva a questi tagli e alle problematiche odierne”.

Il reportage del Time va ben oltre la dedica della cover ai protagonisti assoluti delle vicende ben note. A differenza del ’68 e dell’89, quest’anno è stato percorso da “movimenti più straordinari, più globali e più drastici”, afferma il giornalista che ha curato l’articolo. “Le manifestazioni” sottolinea “sono sproporzionalmente giovani, borghesi ed istruite. Quasi tutte le proteste di quest’anno sono nate spontaneamente”. Inoltre viene evidenziato il ruolo fondamentale che hanno avuto i social network ed internet, che hanno dato ai manifestanti la possibilità di incontrarsi e di condividere le proprie idee. Ed è proprio sul web che è cominciato il progetto The Art of Protest a cura di NOISE, il festival che si svolge interamente su internet e che celebra il talento e la creatività degli under 30 per quanto concerne illustrazioni, fotografia, prosa, film, musica, moda, architettura, design, arte classica e quant’altro. La mostra, durata solo due settimane, si è svolta in un negozio vuoto in Stephenson Square nel Northem Quarter di Manchester, luogo distrutto durante gli scontri che la scorsa estate hanno devastato molte città inglesi. Al suo interno è stato ospitato il più grande progetto di “popup” presentato dalla NOISE arts charity, allo scopo di dimostrare che il saccheggio, la distruzione e la violenza non sono così efficaci come la protesta positiva e pacifica. Sono state raccolte foto di giovani a Berlino, Madrid e Manchester, intenti a mostrate cartelli di protesta fra i più ovvi e disparati, e sono state esposte insieme alla foto scattata nel 1992 dalla vincitrice del Turner Prize, Gillian Wearing, scatto che ritrae uno yuppie con in mano un cartello con la scritta “I’m desperate” (tratto dal lavoro “Signs that say what you want them to say and not signs that say what someone else wants you to say”). Inoltre sono stati esposti pezzi iconici come alcune opere di Bansky, Stella Vine, l’immagine di un bed-in di John Lennon e Yoko Ono, la t-shirt antimissili di Katharine Hamnett, una scultura di Joseph Beuys e Thomas Peiter.

Nata sei anni fa, la NOISE arts charity contribuisce quindi ad aumentare la mobilità sociale dei giovani talenti. Attraverso il sito web NOISEfestival.com si può infatti costruire un portfolio online, sviluppare le competenze, avere opportunità di accesso alle reti di tutti i progetti per supportare il loro percorso. È uno spazio web dove il visitatore, navigando, viene tempestato di idee nuove e alquanto bizzarre – un esempio è lo spray GPS incorporato che “sporca” digitalmente i muri di Google Street View – al fine di stimolare il giovane artista a mostrare la propria idea. Il fine ultimo è quello di fornire un “palcoscenico” virtuale dove dimostrare di cosa si è capaci e dove trasformare il malcontento ed il “rumore” in qualcosa di positivo, efficace ed altamente artistico. E allora spazio alla celebrazione dell’arte, della protesta pacifica e dei protagonisti indiscussi di questo 2011, con l’augurio di trasformare davvero il rumore in melodia.


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www.sparidinchiostro.wordpress.com

di Paolo Interdonato

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Con meno di quaranta minuti di riprese degne di quel nome, Game of Death di Bruce Lee ha segnato indelebilmente l’immaginario di noi tutti. Quel frantume di cinema a lungo perduto, rimasticato malamente per finire in un filmaccio postumo, intitolato L’ultimo combattimento di Chen (1978), si è incistato profondamente nelle storie in cui viviamo. Abbiamo visto spesso quella tuta gialla con le bande nere (l’ultima volta indosso a Uma Thurman in Kill Bill) e, ancora più spesso, abbiamo giocato a risalire la pagoda, combattendo contro avversari sempre più forti. In cima,


game over e bisognava inserire un altro gettone nella fessura della macchina da bar o da sala giochi. Poi, le nostre console domestiche hanno ammesso comandi sempre più articolati. E il nostro punto di vista di giocatori è diventato quello del combattente. Le cuffie nelle orecchie, il microfono vicino alla bocca e le nostre mani, spesso armate, bene in vista: si può finalmente far evolvere il punto di vista del gioco dalla terza alla prima persona. L’evoluzione del nostro intrattenimento ha preteso un tributo in realismo e coinvolgimento. Funziona così. Sempre. L’intrattenimento tende a una partecipazione sempre maggiore dei suoi utenti, che rifiutano, per quanto possibile, il ruolo dello spettatore. Sono passati più di trent’anni da quando il futurologo Alvin Toffler ha messo al centro dell’evoluzione delle interazioni l’emergere del prosumer, incrocio meticcio tra produttore e consumatore, e il mondo, senza grande fatica, si è adattato a quella previsione. Si pensi ai reality show. Quando, nel 2000, il Grande Fratello ha iniziato a riversarsi nella casa degli italiani dalla vitrea tetta televisiva, gli spettatori hanno subito capito che stava succedendo qualcosa, pur non capendo cosa fosse: sullo schermo, in tempo reale, c’era gente costretta alla convivenza obbligata in un ambiente ristretto. Violenze psicologiche, tentativi di seduzione, piccole e grandi scorrettezze, misere performance sessuali e lotta di classe. Il tutto per quei cinque minuti di notorietà cui tutti dovremmo avere diritto.

dopo una lotta senza esclusione di colpi con nemici dalle capacità marziali sempre più sviluppate, si raggiunge una crescita spirituale (nella visione ingenuamente new age del Jeet Kune Do di Lee) o si sconfigge il nemico (nell’osceno rimontaggio postumo da spaghetti western). I videogiochi con cui giocavamo, nei primi tempi, avevano un joystick e due bottoni e ci si muoveva su un piano bidimensionale da sinistra verso destra: il gioco della morte prevedeva il confronto frontale con avversario che tentava di impedirci il passaggio al livello successivo; quando non si riusciva a sconfiggere il nemico, era

Poi il Grande Fratello non ci è più bastato e l’azione, dalla casa Ikea con piscina da sogno di mediocrità italica, si è spostata in luoghi sempre più impervi: la sala d’incisione, la pista da ballo, il campo da calcio, la fattoria, l’isola semideserta... E, ogni volta, i partecipanti allo show, per garantirsi l’attenzione di spettatori che hanno per le mani sempre più telecomandi con sempre più tasti, devono sottoporsi a privazioni sempre più grandi: la convivenza ancora più coatta, l’astinenza, la fatica, il lavoro manuale, la scomodità, la fame, lo schifo, le ristrettezze, … Quando, poi, diventa proprio difficile trovare nuovi format televisivi capaci di assecondare l’escalation di sacrifici richiesta ai concorrenti, la volontà di intrattenimento ha la meglio. E noi, gli spettatori, chiediamo il nostro tributo in coinvolgimento diretto: vogliamo essere prosumer; vogliamo giocare in prima persona. Sono quelli i momenti in cui riescono meglio i governi tecnici e le manovre finanziarie.


di Francesca Limongelli

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Da sempre identificata con le bellezze del territorio e le attrattive legate ad arte ed enogastronomia, di recente la Puglia ha visto un moltiplicarsi di eventi culturali ed un forte aumento del suo livello di attrattività. In poco tempo la regione è diventata cool, soprattutto per merito di una strategia di marketing e comunicazione che ha puntato sul turismo come esperienza sociale e di cultura. Fra i protagonisti di questo cambiamento c’è Puglia Events, il progetto per la promozione e la comunicazione delle manifestazioni di questa terra. Una piattaforma multimediale che funge da attrattore turistico basato sugli eventi, proponendosi di divulgarli a livello planetario e di creare una community sia telematica che offline. Ne abbiamo parlato con la responsabile del progetto, Viviana Neglia, e con due membri dello staff specializzati nelle strategie di comunicazione online: Marzia Stano e Carlo Caroppo. Tutti convinti che l’obiettivo della rete non si basi esclusivamente sulla diffusione di informazione, ma che abbia il suo scopo nella condivisione di idee, riflessioni ed emozioni. Che tipologie di eventi vengono pubblicizzati sul portale di Puglia Events? Abbiamo creato nove categorie di eventi, perché è abbastanza facile avere accesso ad informazioni inerenti al teatro e alla musica, ma è necessario spingere anche quel che avviene nell’ambito dello sport e dell’ambiente. Perciò, sul portale Puglia Events si trovano tutti gli eventi di ogni categoria che, organizzatori, utenti, istituzioni, promotori nazionali e locali decidono di inserire, mentre sui nostri canali social come Facebook e Twitter, diamo delle indicazioni destinate a target differenti di pubblico, in modo da suggerire modalità diverse per impiegare il proprio tempo libero, facendo una selezione degli eventi ad alta attrattività turistica, ma anche eventi più piccoli che hanno bisogno di un supporto promozionale. Siamo consapevoli, ad esempio, che in estate vi è un boom dell’enogastronomia e della musica, ma in inverno la tradizione va decisamente forte, soprattutto nei mesi tra novembre e dicembre. Cerchiamo quindi di dare supporto a tutti gli eventi, sia a quelli che hanno alla base una strategia di comunicazione più forte, sia a quelle chicche che non sempre vengono sorrette da una promozione efficace. La selezione avviene anche in base al territorio ed all’attrattività della specifica manifestazione. Quindi se ci approcciamo al panorama nazionale puntiamo soprattutto sui grossi eventi, mentre diamo tutte le informazioni possibili su quelli più piccoli come servizio per il pubblico regionale.

Come avviene, dunque, la selezione delle manifestazioni di maggior richiamo? Abbiamo dei parametri abbastanza specifici e mirati che servono proprio a dare una valutazione oggettiva di quel che accade sul panorama regionale. Innanzi tutto viene data priorità a quei progetti che sono stati patrocinati o finanziati dalla Regione Puglia, anche perché Puglia Events ha un legame diretto con l’Ente Pubblico. Quindi facciamo attenzione alla storicità dell’evento ed alla sua durata, nonché a ciò che possiede una forte valenza territoriale. Un altro elemento di valutazione si riferisce alla notorietà di coloro che sono coinvolti nella manifestazione, sia nella veste di protagonisti che in quella di organizzatori. Infine facciamo riferimento all’innovatività del progetto, alla copertura che può avere sul territorio ed agli strumenti di promozione che si possono utilizzare per pubblicizzarlo. Il portale ha anche degli elementi di novità sia rispetto alla fruizione degli utenti che alla creazione dei contenuti. In che modo lo fate funzionare? Tutti i contenuti presenti su Puglia Events vengono generati dagli utenti, i quali si registrano e creano delle schede in cui indicano le location di riferimento e le rassegne che stanno curando. Il tutto avviene in un sistema di completa autonomia, grazie a cui ciascun organizzatore può arricchire la presentazione con foto e link, selezionando la categoria di riferimento e fornendo tutte le informazioni che si possono immaginare. Lo step successivo riguarda il controllo da parte della redazione dei dati immessi nel sistema, a cui segue la pubblicazione online.


E cosa accade se un organizzatore non ha molta dimestichezza con internet e con le sue tecniche di utilizzo attivo? Naturalmente coloro che hanno meno familiarità col computer possono contattare il nostro staff per avere un aiuto al momento dell’inserimento. Sono quindi disponibili un numero verde ed una mail alla quale viene data celere risposta, ma anche i social network si sono talvolta dimostrati un utile strumento di supporto tecnico. Molto spesso ci siamo interfacciati con operatori che hanno anche 70 anni e che si ritrovano ad approcciarsi ad uno strumento nuovo, ma di cui comprendono il forte valore. Il fatto di doversi avvicinare alla tecnologia ha permesso di accorciare il digital divide generazionale, facendo loro acquisire le cognizioni necessarie e permettendo di autopromuovere gli eventi attraverso una vetrina nazionale. Per andare incontro a questi operatori stiamo anche approntando dei tutorial, con schermate, frasi e suggerimenti che scandiscono i passaggi chiave del caricamento. Quali sono invece i vantaggi per gli utenti? Visitando il portale si possono condividere tutti gli eventi tramite social network, indicare link e lasciare commenti, il che è uno stimolo attivo per l’interazione con le manifestazioni. Il sito è inoltre fornito di un servizio di geotagging, che localizza il luogo di connessione dell’utente e personalizza la proposta di eventi anche in

base ai riferimenti di carattere territoriale. Di conseguenza, se un turista si connette da un albergo salentino, il portale selezionerà immediatamente gli eventi che si terranno in quella zona. Resta naturalmente attivo il motore di ricerca interno, con campi personalizzabili in riferimento al tipo di manifestazione desiderata, alla data dell’evento, alla tipologia di fruitore, etc. Infine è possibile servirsi di una mailing list che manda direttamente nella mailbox dell’utente un messaggio per ricordargli l’avvicinarsi della data di un determinato evento. Puglia Events interagisce con il pubblico anche attraverso gli strumenti “sociali” della rete, che tipo di canali avete attivato? Assieme alla newsletter, siamo presenti con i nostri profili su Facebook e Twitter, in modo da arrivare direttamente agli utenti e far conoscere quello che succede in Puglia. Vengono proposti sia dei post quotidiani che delle note settimanali ed in queste ultime consigliamo cinque eventi distribuiti sul territorio regionale. Su Facebook cerchiamo anche un coinvolgimento attivo della community, provando a far reagire chi ci segue con quiz e post interattivi, ma anche monitorando gli interessi dei nostri “contatti”. Cerchiamo insomma di fungere da collettore e distributore di istanze ed esperienze. Twitter ha invece un ruolo più informativo, poiché diamo ogni giorno consigli sugli eventi, ma in questo caso diventa molto importante il lavoro di ascolto della rete. Cerchiamo di conoscere chi parla della Puglia, in modo da ampliare il numero di follower interessati a questa terra ed a promuovere il suo turismo culturale. Abbiamo inoltre attivato un profilo su Flickr per dar spazio anche alle foto scattate dagli utenti. Al momento c’è una fidelizzazione che sta crescendo e che permette di attraversare tutta la Puglia grazie alle immagini catturate durante gli eventi.


A pagina 30 Alcune foto tratte dal UGC Wall allestito da Puglia Events per il Medimex In queste pagine da sinistra Lou Reed all’Italia Wave Lecce Notte della Taranta a Melpignano Bacco nelle Gnostre a Noci

Avete anche aperto un live blogging… Sì, e si sta rivelando utilissimo soprattutto per le nostre “incursioni” agli eventi. Siamo infatti sempre più attivi durante le manifestazioni pugliesi e spesso pubblichiamo foto, curiosità e anteprime sui nostri canali social, ma stiamo pensando ad un unico contenitore di questo tipo di attività, che abbiamo identificato nel blog, piattaforma ideale per andare più a fondo a ciò che accade in Puglia. I risultati migliori li otteniamo quando riusciamo a coinvolgere delle grandi community, alle quali facciamo vivere l’evento anche in via telematica. Su Youtube abbiamo inoltre iniziato ad elaborare dei micro-video, in modo da realizzare un’attività di reportage che promuova gli eventi attraverso interviste e spezzoni della manifestazione. Puntiamo su un format di stampo “amatoriale” in modo che l’utente senta una vicinanza di linguaggio con l’esperienza vissuta e l’organizzatore avverta la nostra presenza come soggetto di fruizione dell’evento. Altro punto cardine del live blogging è il tempo di pubblicazione breve, che sfrutta la scia emotiva della partecipazione da parte dell’utente, innescando un processo di forte condivisione e di passa parola fra i propri contatti. Ma se una persona non ama utilizzare internet o ne è momentaneamente sprovvisto, cosa avete pensato per fornirgli informazioni? Naturalmente diffondiamo notizie tramite riviste di settore e carta stampata in genere, ma abbiamo anche deciso di creare What’s On in Puglia, un magazine che nasce dall’esigenza di quella comunicazione che denominiamo “dell’ultimo miglio”. Via via che ci si avvicina alla Puglia, infatti, il pubblico ha bisogno di informazioni più dettagliate possibili e più consone alla sua personale esperienza. Così abbiamo pensato di fornire una sorta di

benvenuto grazie a cui far sapere cosa c’è in giro. Abbiamo poi capitalizzato questa idea e l’abbiamo recapitata in porti e aeroporti, hotel e pro loco, nonché in tutti i luoghi in cui c’è transito di turismo. Ma alla fine, è proprio vero che la Puglia è ormai di moda? È proprio così, si tratta di una percezione che riceviamo dai feedback dei nostri utenti e che arriva anche dall’ottima attività di marketing realizzata sugli eventi. Negli ultimi anni sono venute fuori le realtà che prima lavoravano nel sotterraneo ed è stata data un’amplificazione a quelle eccellenze che da sempre sono proprie di questa meravigliosa regione.


di Queek.it

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Arte

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Anna Di Prospero L’immagine performativa di Roberta Fiorito


Fotografa giovanissima, classe ‘87, la sua passione per le arti visive nasce già dagli anni del liceo, poi arrivano internet e il social network Flickr (vetrina globale per appassionati di fotografia, vivace fucina di talenti), la borsa di studio presso l’Istituto Europeo di Design di Roma, la School of Visual Art di New York. Nel 2008 è tra gli artisti invitati a FotoGrafia, Festival Internazionale di Roma, con una mostra personale presso la Galleria Gallerati. Nel 2009 partecipa alla quinta edizione di FotoLeggendo e vince il Prix Exchange Boutographies che le vale la partecipazione al Festival Boutographies Rencontres Photographiques de Montpellier 10ème édition. Nel 2010 viene selezionata per il seminario internazionale di fotografia Reflexions-Masterclass, tenuto da Giorgia Fiorio e Gabriel Bauret. Nel 2011 riceve il premio Discovery of the Year ai Lucie Awards di New York. Un fitto curriculum che racconta di una ragazza determinata e talentuosa, dai primi scatti più surreali e sognanti al ciclo Urban Self-Portrait e Self-Portrait With My Family… Quali sono le tue fonti d’ispirazione? Il cinema, la pittura e le arti performative. Ma sempre più spesso sono ispirata dalla vita in generale, dalle piccole cose che ne fanno parte e dalle persone che mi circondano. Se dovessi scegliere album musicali, film e libri che porteresti con te su un’isola deserta? Quali sarebbero gli imprescindibili? Il pensiero di essere intrappolata su un’isola deserta mi deprime, quindi porterei con me solo cose che mi fanno viaggiare con la mente. Un film, La Lunga Estate Calda. Un libro, Lettere a Lucilio. Un album musicale, tutto Chopin.

“L’autoritratto” è un genere fotografico che mi fa venire in mente il lavoro di Francesca Woodman, Cindy Shermann e tante altre artiste che si sono confrontate con il loro corpo, fotografato, messo in posa, esplorato … cosa ti ha spinto a rivolgere l’obiettivo verso di te? L’autoritratto è grande strumento d’indagine interiore, sono cresciuta molto grazie alle mie fotografie. Ogni volta che rivedo i miei primi lavori è come sfogliare le pagine di un diario. Oggi il mio approccio con l’autoritratto è diverso. Non è solo una rappresentazione di me stessa ma un atto performativo che racconto tramite immagini. E, forse, più che l’immagine finale, è proprio questa la parte del mio lavoro alla quale sono più legata. Credi ci sia continuità fra la serie Self-Portrait With My Family, il ciclo di lavori Urban self-portrait e i più vecchi autoritratti, sognanti e surreali? Quali pensi che sia il filo rosso che unisce il tuo percorso di ricerca? Sono dei lavori molto diversi tra loro ma fortemente legati l’uno all’altro da un percorso di crescita personale. In fondo sono tutti lavori autobiografici. Come lavori solitamente? I set, le pose nascono da lunghe riflessioni? Fulminee intuizioni? E quanto ha peso la casualità, l’imprevisto? Dopo lo scatto? Come avviene la fase di post-produzione? Una volta il mio lavoro era molto più veloce e istintivo, oggi tutto nasce da lunghe riflessioni. Scelgo attentamente i set e cerco di curare ogni minimo dettaglio, almeno dove mi è permesso. Ad esempio nella serie Urban Self-Portrait, dove le scenografie sono principalmente grandi opere architettoniche in spazi deserti, non potevo gestire più di tanto la scena. Mi sono semplicemente armata di tanta pazienza per


aspettare che il luogo fosse deserto. Anche le pose nascono da lunghe riflessioni, anche se molto spesso nel momento dello scatto più che pensare mi lascio trasportare dalle emozioni di quell’istante. La fase di post-produzione è una parte molto importante del mio lavoro. Passo molto ore a ritoccare e rivedere le mie immagini. Mi dedico principalmente alla correzione di luci e colori. Non c’è un motivo in particolare se le mie foto sono caratterizzate da determinate atmosfere, è semplicemente il mio modo di vedere e interpretare ciò che mi circonda. Tuttavia, il mio intento è sempre quello di ottenere un risultato finale più naturale possibile, senza abusare nell’utilizzo di Photoshop.

A pagina 36 Self-portrait with my mother (2011) A pagina 37 Self-portrait, Vallecas 51 social Housing, Madrid (2010)

Arte

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In questa pagina In alto Self-portrait in my hometown, Latina (2009) In basso Self-portrait, Bibliothèque François-Mitternad, Parigi (2010)

Progetti, desideri per il futuro, imminenti e a lungo termine? Il mio unico desiderio è quello di continuare a dedicarmi a tempo pieno ai miei progetti personali. Per il 2012 ho in programma diverse esposizioni e spero di riuscire a pubblicare il mio primo libro.

Marzo 2012: mostra personale di Anna di Prospero @ F.project Bari Link: www.flickr.com/photos/dipanna annadiprospero.tumblr.com


CAT SCRATCH

LAMPADA

Se il vostro gatto è un tipo della Down Town sicuramente l’adorerà. È un finto giradischi, realizzato in cartone assemblabile, e servirà al vostro amico a quattro zampe per farsi le unghie a suon di Hip-Hop.

L’ispirazione per queste originalissime lampade arriva da un omaggio alla storia brittanica del XIX secolo. Il cappello a cilindro o la classica bombetta sono realizzate in feltro e rivestite in alluminio per aumentarne la luminosità. Un’idea davvero cool per la vostra casa.

PILLOWMOB Mettici la faccia… e divertiti. Una simpatica idea per poter essere sempre presente in casa. Bastano pochi click e potrete avere un simpatico cuscino con la foto del vostro viso o quella del vostro cane. Il must to have per il tuo divano.

CASSETTIERA SCOMPONIBILE Si chiama Oturakast e puoi scegliere il suo uso a seconda delle tue esigenze. Nasce come una cassettiera, ma se hai ospiti a casa puoi scomporla e far diventare i suoi scomparti degli originali sgabelli.

LITTLE PRINTER Minuta e graziosa, sempre con il sorriso sulle labbra. È una ministampante ideata da uno studio londinese, customizzabile grazie ad un’app. Diventa così possibile scegliere le notizie, i messaggi o i giochi che verranno poi stampati su uno scontrino da portare sempre con sé.

HORN STAND Forme minimali per l’amplificatore per iPad2 che è costruito in poliuretano termoplastico e non ha bisogno di energia elettrica. L’Horn Stand amplifica il suono di 15 decibel e si adatta perfettamente alla silhouette del vostro dispositivo, proteggendolo dai graffi.


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Sissa Micheli

Voglio rivelare “ciò che tiene insieme intimamente il mondo” Artista d’origine italiana che vive e lavora tra Vienna e Parigi, Sissa Micheli (1975) alias Silvia Micheli, da oltre dieci anni utilizza il mezzo fotografico non solo per esplorare le sue potenzialità documentarie ed illustrative, ma anche per condurci, mano nella mano, nel suo mondo privato, messo in scena con sapiente attenzione ed assoluta verità. I suoi lavori si concretizzano in un assemblaggio simultaneo di installazioni, foto, video e suoni. Essa stessa protagonista dei suoi scatti e dei videotape, riesce a immedesimarsi perfettamente in tutte le giovani donne, vittime e carnefici, eroine di una realtà fugace e sfuggente. Proiettata su se stessa, la realtà diventa l’espressione più intima dei sentimenti e della psiche della protagonista. Le sue fotografie sono “storie”, raccontano delle sensazioni assolutamente personali che prendono forma in luoghi indipendenti, separati dall’implacabile velocità del mondo. Sono luoghi della memoria divisi dal tempo e dallo spazio per la durata di un’esposizione. Macchina fotografica e occhio umano si fanno una cosa sola e rilasciano immagini/specchio della precarietà e delle certezze esistenziali.

Cioè che tiene insieme intimamente il mondo artistico di Sissa Micheli è proprio se stessa, la sua storia, il suo passato, le tradizioni, l’invecchiamento, la morte, l’intimità dei luoghi e degli oggetti che, attraverso un passato felice, ci fanno attraversare il presente e ci conducono verso un futuro incerto. Non è un caso che per la sua prima ampia monografia, l’artista abbia scelto il titolo One For All (una per tutte), cioè “una” come rappresentante X per donne, per vittime e carnefici, per osservatori oppure per voyeur. In quest’ampio volume, Sissa Micheli presenta i grandi cicli di opere degli ultimi dieci anni, in uno sviluppo che va dalla fotografia al video fino al disegno ed all’installazione. Le azioni performative, di solito ricostruzioni di vicende realmente accadute o eventi filmati del passato, costituiscono la base narrativa delle sue foto messe in scena e impressionate con assoluta maestria attraverso uno sguardo privato sul mondo. Giovanna Lenoci


Lorenzo Mattotti

Intervista | Torna dopo 12 anni Chimera, il viaggio onirico nel cuore del fumetto Chimera sembra uno stream of consciousness, un piano sequenza cinematografico, ma molto più fantasioso… Chimera è una sorta di poema grafico, immaginato perché fossi libero di sviluppare linee e disegni senza schemi, ma solo attraverso il ritmo e il lavoro di impaginazione. Non volevo una sceneggiatura, solo lo sviluppo delle immagini. Si è trattato piuttosto di un flusso grafico, per molti versi legato alla musica. Uno spazio libero, che mi desse la possibilità di sviluppare la narrazione in maniera onirica e grafica. ampliare si trattava di 15 pagine, poi se ne sono aggiunte altre 10 e adesso è diventata un’opera aperta, che forse continuerà in futuro con un altro volume.

di Michele Casella

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In Chimera c’è inquietudine e meraviglia, sogno e incubo; si tratta di un’opera che ha per soggetto le diverse sfaccettature dell’animo umano? Certamente sì, perché è venuto fuori in maniera inconscia, ma non sento di poterlo davvero decodificare. Di sicuro c’è angoscia, ma anche inquietudine, sentimenti che portano a scavare dentro sé negli anfratti più oscuri. Naturalmente tutto è allegorico, una metafora. Le ultime frasi, per certi versi, sono un po’ un concentrato di disperazione. Nel volume ho trovato alcuni riferimenti al fantasy, era quel che desiderava mostrare? Ci sono chiaramente dei riferimenti che vengono da lontano, dall’avventura, specialmente nelle tavole in cui compaiono quegli strani indigeni e quei rituali antichi. In Chimera si mescolano varie vocazioni fra loro completamente diverse, ma credo che questa sia proprio l’essenza del fumetto, fatta di rimandi e di passaggi. Il gioco sta nel mantenere una grande tensione, come si trattasse di una corda sempre tesa, che tenesse unite le tante immagini che venivano fuori durante la lavorazione.



In Chimera c’è un tocco di sensualità, con forme anche giunoniche e richiami diretti al mito… Certo, ci sono fauni e ninfe, ma è da anni che mi piacerebbe realizzare una storia arcaica. Il mito, d’altra parte, è metafora, sono simboli, ed io mi nutro tanto di queste cose. Rimane anche una base di erotismo, di energia vitale. Credo sia tutto pervaso da questa energia – che poi è il segno – che muta e si sviluppa continuamente diventando eros, violenza, aria. Questa può essere una concreta chiave di lettura, il continuo evolversi di energia passa dalla nascita, alla vita ed alla morte. Il segno si trasforma continuamente, c’è spazio per la metamorfosi, ma c’è un’idea molto forte legata al panteismo ed alla natura. Dal punto di vista tecnico, cosa ha voluto sperimentare? Nella storia c’è un’evoluzione del tratto, che da flebile e mellifluo diventa molto più oscuro, tagliente e dinamico… Questo di sicuro, c’è un’alternanza fra gli elementi e ci sono anche momenti di grande dolcezza. Ad esempio quando vediamo le due creature nel giardino paradisiaco, con sprazzi di delicatezza, leggerezza. La riflessione finale è invece segno di perdita di direzione, perché dietro a momenti di estremo amore e istanti magici di armonia, vi è l’improvvisa distruzione di questo equilibrio. Ho tentato di trasportare il lettore in una dimensione musicale, in cui vi sia spazio ed equilibrio nell’alternanza fra chiarore e oscurità. È un libro che cerca un ritmo naturale, questo è il termine giusto.

Qual è a suo parere lo stato del fumetto in Italia? Io posso parlare soprattutto dello stato del fumetto in Francia, dove vi sono enormi possibilità di sviluppo: dal reportage all’autobiografia dallo storico al poetico. Qui c’è spazio per il grande mercato, mentre in Italia si sta sviluppando una nicchia di fumetto autorale che a mio parere è allo stesso livello della produzione mondiale. Due nomi a cui prestare attenzione sono ad esempio Manuele Fior e Gipi, entrambi premiati ad Angoulême. Il livello è molto alto, ma la mia paura è che il mercato italiano sia ancora monolitico e legato prevalentemente alla produzione bonelliana. Ho il timore che ci sia una domanda limitata per questi libri. Manca un lavoro di divulgazione verso la base, perché la gente non sa nemmeno che esiste questo tipo di fumetto, così fra la produzione e il mercato c’è una distanza talvolta incolmabile. A cosa sta lavorando in questo periodo? Sto lavorando da tanto tempo con Kramsky ad una lunghissima storia in bianco e nero, che segue lo stile di Chimera ma con la presenza di testi. Vorremo riuscire a finirla in un anno e mezzo, ma forse sono troppo ottimista. Sto inoltre realizzando una nuova storia per la rivista La Lettura, un’esperienza che mi interessa per sperimentare lo sviluppo dei tempi narrativi su un giornale. Sta anche andando avanti nella produzione di Pinocchio, del regista Enzo D’Alò, e credo che sarà terminata verso maggio.


JEKYLL & HYDE Lorenzo Mattotti e Jerry Kramsky sono anche autori di una strabiliante opera per iPad, intitolata Jekyll & Hide e basata sull’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson. Edita da Einaudi e scaricabile gratuitamente, questa app presenta il graphic novel completamente a colori ed una lunga serie di eccezionali contenuti interattivi:

una colonna sonora di accompagnamento alla visione, 2 ore di filmati, oltre 200 note di lettura, 40 bozzetti originali e inediti, 50 minuti di lettura teatrale, l’ebook del libro e tanto altro ancora. Un’occasione imperdibile (ed a costo zero) per vivere un’esperienza multimediale comodamente stesi sul proprio divano. (M.C.)

Dopo averci abituati a paesaggi visionari e colori iridescenti, Lorenzo Mattotti torna nel suo viaggio onirico, un universo in cui il lettore viene letteralmente fatto fluttuare fra le tavole. Chimera è un volume in cui il nostro occhio viene irretito da dettagli e movimenti, quasi un piano sequenza che padroneggia perfettamente il linguaggio del videoclip, con passaggi veloci e dinamiche ricchissime di inventiva. In queste tavole c’è un flusso di coscienza che ci conduce attraverso l’inconscio dell’autore, testimoni di una formidabile evoluzione delle linee. Nella prima parte del volume, a conquistare è la delicata sensualità dei disegni, in cui la contrapposizione fra le forme giunoniche dei personaggi e le linee sottili del pennino crea pagine di docile desiderio, visioni fanciullesche che hanno la potenza di un uragano di fantasia. Ma pian piano sono le ombre a conquistare maggiore spazio, riempiendo la pagina di oscure inquietudini e trasportandoci in luoghi in cui trova sempre più spazio l’avventura. Inquietudine e istintività prendono le forme di animali e vegetazione, facendoci perdere nell’intrico dei rami di un bosco, dove si mimetizzano strani viandanti e creature fiabesche.

CHIMERA | Coconino Press 56 pagine | 22 euro Formato: cm 21,5 x 29, cartonato con dorso telato

Una narrazione in cui mito, erotismo e poesia vengono intrecciati dal tratto leggero e sinuoso di Mattotti in tavole di solitaria tristezza ed estrema gioia. Ma a reggere il flusso narrativo è soprattutto il climax del racconto, capace di raggiunge vertici di tensione che richiamano i temi della morte e della latente aggressività umana. Un viaggio che raggiunge i più intimi sotterranei del nostro inconscio, dove risiedono la paura e la violenza, ma dove è anche possibile riscoprire la straordinaria intensità dei nostri istinti più puri. (M.C.)


Di Chester e dei suoi amici

Esce in Italia The Little Man, la raccolta del fumettista canadese di Paolo Interdonato Ci sono tre amici, come nelle barzellette: uno statunitense e due canadesi, che trascorrono molto tempo insieme. Joe Matt è un pornofilo con l’hobby di editare videocassette per ottenere il film perfetto per le sue ossessioni autoerotiche; Seth indossa abiti sempre elegantissimi, ma il suo vestiario e le sue pose sono immobili, come insetti imprigionati nell’ambra, nei primi decenni del secolo scorso; Chester Brown ha l’aspetto poco rassicurante del nerd attempato e una strana teoria sull’amore e sul sesso. Nonostante le differenze caratteriali e la vasta gamma di ossessioni eterogenee, i tre coltivano una laida perversione che li accomuna e giustifica le lunghe ore trascorse a discutere nei bar: disegnano fumetti – tutti lievemente permeati di autobiografismi – pubblicati dalla casa editrice canadese Drawn & Quarterly. L’autobiografia è uno dei modi più usati dai fumettisti che si muovono nel mercato del graphic novel. La volontà di presentare narrazioni adulte, allontana gli autori dalle venature fantastiche e avventurose e il racconto delle proprie esperienze di uomini fa credere ai meno dotati tra loro (che purtroppo, come in tutte le forme del racconto, sono la maggioranza) di affrontare temi universali, capaci di scostare il velo che cela il vero e di parlare a tutti. La triste realtà è che le vite degli individui raramente meritano di essere raccontate: viviamo vite quasi sempre piuttosto noiose. Questi tre amici, però, hanno cartucce da sparare. Quando parlano di sé, si ritrovano costretti a rovistare in un mare di ossessioni dilanianti, elementi che si traducono in oscena sofferenza. E il loro dolore è un’ottima merce di scambio al mercato del racconto.

Libri

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Chester Brown, in modo particolare, è capace di mettere in pagina la propria formazione sentimentale, costruita con pazienza certosina sulle carni di carta delle conigliette del paginone centrale (The Playboy, inedito in Italia), di parlare dell’impossibilità di comunicare nella vita di coppia (Non Mi Sei Mai Piaciuto, Black Velvet), di dire con dettagli minuziosi la vita di un eroe nazionale (Louis Riel, Coconino / Black Velvet), di descrivere analiticamente e con enorme onestà il proprio rapporto con le donne dopo aver deciso di avere una vita sessuale regolare frequentando solo prostitute (Io Le Pago, Coconino). Negli anni, Chester Brown ha lavorato molto sul proprio racconto, arrivando a costruire pagine regolarissime, composte di quadretti tutti uguali, capaci di gestire compiutamente la messa in pagina. Disegnare una tavola a fumetti prevede due distinti livelli di scelta: quella del riquadro (quale punto di vista inserire nella vignetta) e quella della giustapposizione (quali vignette accostare). Il lavoro di analisi e sintesi di Brown è arrivato alla costruzione di immagini di dimensioni regolari, disegnate su quadretti distinti, scelti e disposti sulla pagina in una successiva fase di montaggio del racconto. Un approccio diametralmente opposto a quello, molto più diffuso, che prevede che la storia nasca per approfondimenti successivi della pagina: prima la storia, poi la divisione in vignette e la descrizione di ciascuna di esse, poi le matite, quindi gli inchiostri e il lettering nei balloon. Anche il segno, così sintetico e freddo negli ultimi lavori, è il traguardo raggiunto da un disegnatore consapevole, preparato tecnicamente e dotato naturalmente. Il breve fumetto presentato nelle pagine seguenti proviene da The Little Man, raccolta di storie di prossima pubblicazione in Italia, per la casa editrice Coconino. Sono fumetti di poche pagine, originariamente apparsi su Yummy Fur, l’albo spillato - inizialmente autoprodotto - su cui Chester Brown ha pubblicato gran parte dei suoi lavori. Una raccolta che, oltre a rendere nuovamente accessibili fumetti brevi che lo meritano, documenta le origini segrete di uno degli autori più interessanti del fumetto nordamericano, prima che il formato graphic novel lo conquistasse definitivamente.







LA PRIMA RASSEGNA DI MICROEDITORIA AUTOPRODOTTA Apre a Bologna Fruit, la prima rassegna dedicata alla microeditoria, alla cartotecnica artigianale ed alla stampe d’arte che darà l’opportunità a chi si confronta con l’oggetto editoriale di mettere in mostra il proprio lavoro. Un’occasione per ammirare edizioni a tiratura limitata, dalla forte componente artigianale, espressione delle tensioni artistiche contemporanee legate al mondo underground, dell’illustrazione e della grafica sperimentali. Gli espositori di Fruit saranno microeditori, ovvero realtà imprenditoriali in cui il processo di progettazione e produzione viene preso in carico da un gruppo ristretto di persone con un’attitudine indipendente sia da un punto di vista espressivo che di mercato e perciò non oppressa dai meccanismi di produzione seriali indirizzati al pubblico di massa.

Libri

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La scelta dell’utilizzo del termine oggetto editoriale anziché libro è dovuta al fatto che questi tipi di produzione caratterizzati da una forte componente artigianale, offrono una notevole ricchezza di formati non riconducibile al semplice libro. Questa caratteristica che spesso non permette una produzione in grande scala, fa sì che ogni pezzo prodotto sia in qualche modo un unico nato dalla passione di chi ancora crede nella qualità del prodotto al di là del suo potenziale remunerativo. “Con Fruit vogliamo mettere in luce il libro come opera di design, non solo come mezzo funzionale alla lettura o alla fruizione di contenuti”, specifica Anna Ferraro, ideatrice e responsabile per progetto. Fruit aprirà le porte martedì 20 marzo in concomitanza con la grande fiera di editoria per ragazzi, Children Book Fair e si pone come principale obiettivo quello di portare il pubblico della fiera direttamente al quadriportico cinquecentesco di Vicolo Bolognetti che quest’anno ospiterà la rassegna, attraversando la città con una serie


di tappe inconsuete. È stato, infatti, pensato un tour che con una navetta descriverà un itinerario che dalla fiera porterà in visita i grandi editori nelle micro case editrici e studi di autoproduttori di Bologna per concludersi nel Quadriportico dove insieme alle micro produzioni editoriali si potrà degustare un calice di vino di micro produzioni vinicole, in linea con l’idea di tutto il progetto di promuovere un tipo di consumo lento di immagini e parole, in controtendenza con la generalizzata rapidità di fruizione. Un altro obiettivo che si pone la rassegna è quello di mettere in luce le opportunità lavorative nel settore della microeditoria per i giovani, che si traduce nell’applicazione delle loro capacità creative a un prodotto che, nell’attuale contesto di crescita di un tipo di economia definita del terzo millennio, rappresenta un’occasione con grandi potenzialità di sviluppo. Numerose le attività e gli eventi collegati alla rassegna: dai

laboratori sulle tecniche di stampa per ragazzi e bambini delle scuole, ai convegni sulle nuove frontiere dell’editoria, dai concerti e le letture fino alla raccolta di materiale editoriale finalizzata alla costituzione della prima biblioteca di microeditoria d’arte ed editoria autoprodotta.

FRUIT Bologna - 20/24 marzo 2012 L’inaugurazione della rassegna, è prevista per martedì 20 marzo alle ore 18. Per ulteriori informazioni e per scaricare il bando di partecipazione: www.fruitexhibition.com/ info@fruitexhibition.com tel. +39 347 9109417


Aerei di carta

A.M. HOMES MUSICA PER UN INCENDIO Feltrinelli 384 pagine | 19 euro

JEFFREY EUGENIDES LA TRAMA DEL MATRIMONIO Mondadori 480 pagine | 20 euro

Pensate ad un gessetto nuovo che traccia un segno sulla lavagna: produce quel fischio stridulo, insopportabile ai più quanto un improvviso mal di denti. É precisamente questo l’effetto che fa la scrittura della Homes, finalmente in libreria anche in Italia con il romanzo Musica Per Un Incendio. In questa nuova storia tornano, dieci anni dopo, Paul ed Elaine, i due Adulti Soli della precedente raccolta di racconti La Sicurezza Degli Oggetti. Li ritroviamo esattamente dove li avevamo lasciati, nel loro grottesco gioco di società fatto di regole di buon vicinato, barbecue con gli amici e sorrisi dietro cui si (mal)celano perversioni, insicurezze e invidie. Un tratto continuo di gesso nuovo sulla lavagna a descrivere situazioni, gesti e dialoghi che l’autrice stessa definisce “americani” ma che, in qualche modo, sentiamo sempre più appartenere al nostro quotidiano. Non sperate che, ad un certo punto, la Homes rompa quel gessetto e faccia cessare lo stridio. Non lo farà. Ma è proprio per questo che non potrete fare a meno di leggere, fino alla fine, questo spietato e intenso romanzo.

Il Premio Pulizer per la narrativa 2003, il celebrato autore de Il Giardino delle Vergini Suicide e di Middelsex, il professore di scrittura creativa dell’Università di Princeton, Jeffrey Eugenides, non poteva deludere e non ha deluso. Il suo nuovo romanzo, La Trama Del Matrimonio, è un libro estremamente leggibile, divertente e sincero. Sono gli anni 80 e Madeleine Hanna, laureanda della Brown University, inguaribile romantica affezionata a Jane Austin, sembra l’unica della sua generazione a non volersi arrendere alle nuove teorie di quegli anni, che predicano l’impossibilità dell’amore e la (conseguente) superfluità del genere romanzesco. In questo perfetto romanzo, Eugenides riflette sull’Amore e sulla Letteratura, e su quanto il destino dell’uno appaia indissolubilmente legato all’altra, e viceversa, in un magico intreccio molto ben costruito e privo di scontati pregiudizi. Ci si innamora anche nell’epoca postmoderna, sembra dire Eugenides. Molto bene. Come uscirne illesi, poi, è tutto un altro problema.

di Raffaella Foresti foresti@raccontopostmoderno.com

di Raffaella Foresti foresti@raccontopostmoderno.com


SOPHIE DIVRY LA CUSTODE DEI LIBRI Einaudi 90 pagine | 10 euro

SANDRO VERONESI BACI SCAGLIATI ALTROVE Fandango Libri 184 pagine | 13 euro

Questo libro non racconta di una bibliotecaria sconsolata, persa nelle sue isterie, nei suoi drammi esistenziali. Ve lo potranno raccontare così ma non fidatevi. Questo testo è molto di più. È un monologo colto e tagliente, disilluso ma ancora vibrante, sulla ghettizzazione della Cultura (quella con la “C” maiuscola) nella società contemporanea. La trentenne Sophie Divry ha la capacità di intrappolare il lettore nelle sue granitiche convinzioni fin dalle prime pagine. Una presa di posizione sincera, scanzonata, che non potrà non vedervi partecipi sostenitori, se vi considerate amanti della letteratura. Vi riesce tratteggiando una situazione leggera e surreale al contempo: l’incontro di una bibliotecaria di provincia con un lettore addormentato. Bloccati nel seminterrato di una biblioteca pubblica francese, i lettori avranno l’opportunità di attraversare drammi e virtù dimenticate delle vicende che hanno segnato la diffusione del sapere. Grazie alla coerente leggerezza che solo un personaggio bizzarro può conferire ad un eloquio denso di significati, la Divry riesce a proporre con successo un monologo grandioso, che ha la capacità di scuotere l’animo del lettore senza ferirlo. Un esercizio di consapevolezza intellettuale consigliato a tutti coloro che si reputano amanti e cultori del libro, nelle sue più ampie accezioni.

Fandango propone al grande pubblico un testo dallo stile tagliente e profondo. Stiamo parlando di Baci Scagliati Altrove di Sandro Veronesi. Una raccolta di quattordici racconti che sembrano avere l’ambizione di scavare nella memoria e nelle emozioni di ogni lettore. Un’operazione per certi versi chirurgica, che affonda la penna a mo’ di bisturi nella condizione umana, considerata olisticamente, nei suoi lati di luce e di ombra, di aspirazione e di rinuncia. Sandro Veronesi si propone ancora una volta al lettore obbligandolo ad una riflessione sulle proprie debolezze e sulla proprie ambizioni terrene, turbamenti e gioie incluse. Lo fa senza moralismi, ripercorrendo con cinica leggerezza le vibrazioni profuse da accadimenti assolutamente quotidiani; scovandone al contempo una profondità di significati che rendono l’opera di un’attualità spiazzante. Il testo può essere acquistato in versione cartacea, oppure scaricato gratuitamente in formato iPhone o iPad (una novità attesa nel panorama editoriale italiano). Un invito alla lettura, e alla letteratura, impreziosito da un racconto del grande David Foster Wallace: “Amore”.

di Giorgio Michelangelo Fabbrucci fabbrucci@raccontopostmoderno.com

di Giorgio Michelangelo Fabbrucci fabbrucci@raccontopostmoderno.com


The dark side of the moon Con 1Q84 Aruki Murakami cita Orwell e pubblica uno dei suoi romanzi più riusciti di Antonello Daprile Il titolo del libro non tragga in inganno. Al di là delle consumate assonanze letterarie con l’opera di Orwell, 1Q84 di Murakami (in giapponese il numero 9 si pronuncia «ku» come la lettera Q) se ne distacca per la notevole complessità di un tessuto narrativo che si sviluppa in maniera alternata attraverso la voce dei due protagonisti: Aomame, è una giovane serial killer affascinata dalla testa degli uomini di mezza età con calvizie incipiente (Sean Connery è il modello inarrivabile); Tengo, invece, è un insegnante di matematica e aspirante romanziere, succube di un editor senza scrupoli che gli affida il compito di riscrivere il libro (La Crisalide d’Aria) presentato ad un concorso letterario da una ragazzina-prodigio dislessica. Due trentenni le cui vite, solo in apparenza parallele, si intersecano nel corso di una narrazione fluida che attraversa vent’anni di storie in un mondo con progressivi segni di scollamento dalla realtà conosciuta. I buchi neri della memoria ed i flashback che affliggono i protagonisti, sono solo la punta di un iceberg che galleggia in un oceano percettivo che si fa sempre più ambiguo. 1984 è l’anno della presa di coscienza di una realtà sdoppiata (1984-1Q84) dove l’unico discrimine è rappresentato da una Q. Come Jonathan Lethem in Chronic City (edito negli Usa, anch’esso nel 2009), l’autore giapponese trascina il lettore in un mondo costantemente in bilico tra il plausibile e l’assurdo, tra l’ordinario e l’inammissibile,

limando i confini della realtà, lasciandola defluire nel sogno ad occhi aperti, distorcendola e storpiandone la percezione. Si tratta di un irrealismo che riflette la convinzione ed il desiderio di un’intera generazione letteraria, per la quale il mondo ereditato non è altro che un duplicato sbiadito o una copia mal riuscita di un’altra realtà più vera ed autentica, comunque migliore di quella in cui ci si ritrova a vivere. Del resto, come afferma un personaggio del libro: “Tutti hanno bisogno di qualche tipo di fantasia per continuare a vivere, non credi?”. Pubblicato nel 2009, il libro ha venduto ben 2,24 milioni di copie, diventando il best seller dell’anno in Giappone. Un successo che si è esteso in maniera osmotica alla Sinfonietta del compositore ceco Leos Janacek (sottofondo ricorrente nelle vicende dei personaggi) nonché all’omonimo romanzo di George Orwell, che, sulla scia di 1Q84, hanno entrambi registrato un’impennata di vendite nel Paese del sol levante.

Haruki Murakami, 1Q84 - Libro I e II Einaudi, pp. 724, traduzione a cura di Giorgio Amitrano. (Il libro III uscirà ad Ottobre del 2012)


Marco Rossari

L’UNICO SCRITTORE BUONO È QUELLO MORTO Aforismi e siparietti di letteratura e di editoria. di Carlotta Susca Pensateci. State leggendo un articolo che parla di un libro. La carta inchiostrata del volume fresco di tipografia sta generando in questo momento – sotto i vostri occhi, e per tutte le volte in cui qualcuno leggerà queste righe – una propaggine testuale. Ieri il libro di Rossari non esisteva e oggi – e da oggi in poi – altri ne scrivono e ne scriveranno, aggiungendo frasi a frasi, glosse e citazioni. Commenti. Giudizi, pareri. Teorie, perché no. Questo è ciò che succede con le parole, finisce sempre che prendono una strada propria, svincolandosi dall’autore. Questo è quello su cui riflette Rossari. E sull’editoria come sistema dagli aspetti paradossali e a volte buffi.

essere osannato dalla critica nonostante i tentativi di autosabotaggio, lo scrittore invitato a un surreale reading di poesia, l’esordiente molestato dalla prima lettrice, il traduttore in crisi da intraducibilità, vittima del démone della perfezione. E il reporter sulle tracce della generazione beat, e il viaggiatore piombato in un incubo in Kafkania.

Tolstoj invitato in una trasmissione radio italiana ai giorni nostri non potrebbe che essere in contrasto con la superficialità dei tempi attuali, con un intrattenimento culturale raccogliticcio e frettoloso; Dante affronterebbe un editor cauto, che gli consiglierebbe di uniformare il tono delle tre parti del suo manoscritto e di evitare di fare troppi nomi: non si sa mai, meglio non esporsi, di questi tempi. Joyce morirebbe inedito. Perché l’editoria sarà anche il campo degli esperti, sottintende Rossari, ma non è detto che questi pontifichino sempre per il meglio.

Il testo di Rossari, pubblicato da e/o, può essere letto in ordine sparso, a seconda del tempo a disposizione e dell’ispirazione, ma il quadro che se ne ricava è molto chiaro e unitario: non viviamo in tempi che facilitino l’espressione del genio letterario (verrebbe da dire, con John Barth, «Letteratura, ah! Bei tempi, quelli!»). D’altra parte, fra tanta carta e tanto inchiostro (e tanti pixel, e tanto html), sorge il dubbio che neanche gli addetti ai lavori leggano poi tantissimo, quindi non è la letteratura a essere in crisi, ma la competenza, spesso.

Accanto alle scene che vedono dei mostri sacri della letteratura alle prese con i saccenti editor odierni Rossari ci propone svariati esempi di abulia da letteratura: lo scrittore che risale involontariamente al linguaggio primitivo – con conseguente incapacità di acquisto in panetteria –, quello condannato a

L’unico Scrittore Buono È Quello Morto è l’opera colta e ironica di un addetto ai lavori ancora capace di (auto)ironia, il libro sui libri di chi sa distinguere fra letteratura e fuffa ma deve districarsi fra le due per lavoro, oscillando fra il disincanto e un ineliminabile nucleo di amore profondo per i libri.

Sicché, se qualcuno grida alla morte della letteratura, si potrebbe rispondere, citando Rossari, «C’era uno scrittore che considerava la letteratura finita, anche perché non leggeva mai un libro». Leggete (libri) e moltiplicateli.


L’arte e il genio (sottovalutato) del Game Designer di Daniele Raspanti

Hi-Tech

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Professione ben remunerata negli Stati Uniti e personalità di spicco nei paesi orientali, il game designer è una figura che nel resto del mondo rimane “avvolta nel mistero” (e in molti casi, sottovalutata e sottopagata). Molti si immaginano queste persone associate al tipico stereotipo del ragazzone-nerd amante dei videogiochi, di tecnologia e degli hobby più strani. Eppure, questi professionisti del gioco muovono un mercato che oggi compete a mani basse con quello del cinema, mostrando ogni anno al pubblico progetti multimilionari. Chiamarli solo “progettisti di giochi” sarebbe riduttivo: i grandi nomi che trovate spesso sulle scatole dei vostri titoli preferiti o nei credits dei giochi sono artisti completi a 360 gradi. Alcuni di loro hanno un passato da regista, scenografo, scrittore, esperto di giochi (da tavolo, per ragazzi, etc. etc.). Sono stati studiosi di storia o compositori (dilettanti o professionisti). Ma è grazie al loro essere poliedrici che riescono (quasi) sempre a tirar fuori grandi capolavori. Ovviamente, non tutti i game designer riescono nel loro intento. Ma alcuni, sono riusciti a lasciare un segno indelebile nelle menti dei giocatori di vecchia e nuova generazione.

Hideo Kojima, un regista nel corpo di un game designer Quando la società giapponese Konami “reclutò” nelle sue fila il giovane Kojima, non sapeva ancora le importanti novità che avrebbe portato nel settore videoludico. Già nel 1987, sulla sfortunata console MSX, Hideo Kojima progettò il primo gioco Stealth, nel quale il giocatore poteva evitare gli scontri a fuoco: nasceva Metal Gear. Il talento da regista amatoriale di Kojima si facevano sentire man mano che lo sviluppo tecnologico avanzava. Metal Gear Solid, sulla prima Playstation, fu un vero capolavoro! Inquadrature in perfetto stile cinematografico con una storia coinvolgente e piena di colpi di scena… quasi meglio di molte produzioni dell’epoca destinate alle sale! Ciò che colpì fu l’impegno di Kojima e del suo team nello sfruttare fino all’ultima le potenzialità di una console come la prima Playstation per rendere reali le “visioni” del giovane designer. A completare il quadro c’è poi un personaggio che ricorda molto Iena Pliskin di Fuga da New York. Le versioni successive del titolo completavano una serie che faceva della spettacolarità narrativa il proprio punto di forza. L’influenza cinematografica di Kojima si riflette su quasi ogni titolo che produce. A parte la somiglianza di Snake con Iena Pliskin, il personaggio di Big Boss (il “cattivo” della serie Metal Gear) assomiglia molto a Sean Connery. Inoltre, molti dei nomi associati a personaggi secondari vengono “presi in prestito” da titoli cinematografici di origine americana. Sarà un caso, ma nel momento in cui si è vociferato di un possibile film ispirato alla serie Metal Gear, il nome di Kojima associato al ruolo di aiuto regista o produttore è subito comparso in giro per la rete.


Shigeru Miyamoto, non solo Super Mario Per molti un mito, un “dio” del mondo videoludico. E forse, il padre di TUTTI i videogiochi dell’era moderna. Entrato giovanissimo a far parte di Nintendo come artista (all’epoca un’azienda di giochi e giocattoli), poco dopo aver preso il diploma di disegno industriale nel lontano 1980, mostrò subito il suo genio e la sua inventiva. Creò l’idea e il design per un nuovo gioco (Miyamoto non sapeva programmare), dal quale nacquero i personaggi di Donkey Kong, Mario e Pauline. Era il primo coin-op da sala giochi Nintendo e… beh, ciò che successe dopo è storia! Da quel momento, la sua ascesa nell’olimpo dei più grandi artisti videoludici non si è mai concluso. Ad oggi, giochi come Super Mario Galaxy, Zelda o Donkey Kong sono pietre miliari del divertimento mondiale. Giochi dalla meccanica semplice, ma al tempo stesso una calamita del divertimento. La creatività di Miyamoto non si è fermata solo ai classici ormai consolidati (Super Mario Bros. ha quasi 30 anni). Un nuovo e divertente modo di concepire uno strategico (Pikmin), un’avventura in prima persona con enigmi ed elementi da “platform” (Metroid Prime), un nuovo modo di far interagire il giocatore con una console (Wii Fit). Miyamoto, ora direttore generale di Nintendo Entertainment Analisys and Development, è considerato attualmente il più grande designer del settore videoludico. Artisti e programmatori di tutto il mondo vorrebbero seguire i suoi passi, e le sue parole alla varie conferenze in tutto il mondo sono sempre attese con gran fermento.

Eric Chai e Paul Cuisset, quando la Delphine Software faceva paura ai concorrenti 1991. Sono passati 20 anni, eppure la bellezza di alcuni titoli rimane ancora oggi inarrivabile per le attuali produzioni (grafica fotorealistica a parte). Eppure, la ricerca della semplicità, di qualcosa di nuovo, di particolare rispetto al resto del mercato era una delle principali prerogative della Delphine, software house alla continua ricerca di un’esperienza ludica assimilabile al cinema (sarà per questo che uno dei tanti loghi che ha avuto la società era una macchina da presa?). Ad oggi, solo i videogiocatori “anni 80” possono ricordare e apprezzare un titolo come Another World. Una pietra miliare, per semplicità, atmosfera, senso di continuo disagio e tensione e contemporaneamente di curiosità e voglia di arrivare alla fine. Un gioiello che un giovane Eric Chai ci ha regalato 20 anni or sono. E che ora viene riproposto sui vari servizi online da rigiocare sulle console di nuova generazione (senza alcun taglio o aggiornamento grafico). Una storia coinvolgente, degna delle migliori produzioni cinematografiche. Grafica poligonale per tutto il gioco (impensabile per la potenza dei pc da casa dell’epoca). Quasi un miracolo “ludico”, eppure Eric Chai (produttore e sviluppatore del gioco) ci è riuscito. Un successo replicato un anno dopo con Flashback dal “collega” Paul Cuisset. Una storia intricata e avvincente si sposa perfettamente con una meccanica riuscitissima e una realizzazione tecnica incredibile per quegli anni. Movimenti fluidi, grafica a mano digitalizzata. Erano gli anni del boom videoludico. I designer non avevano a disposizione console o personal computer dalle specifiche particolarmente potenti, ma sfruttavano tutto il possibile (grafica, musica, atmosfera, storia) per rendere l’esperienza di gioco unica.


Will Wright, il re della simulazione

La storia è un gioco, parola di Sid Meier

Aprite il browser del vostro PC. Andate sul marketplace del vostro vostro smartphone/tablet. Cercate la parole Sims. Vi uscirà uno dei giochi più famosi e utilizzati degli ultimi anni.

Entrato nella Hall Of Fame del Academy of Interactive Arts and Sciences, Sid Meier può essere considerato come uno dei più grandi designer di giochi a livello mondiale, secondo solo a Shigeru Miyamoto di Nintendo. I suoi capolavori non presentano spettacolari effetti visivi, nessun taglio cinematografico, nessuna scena di azione che porta l’adrenalina a livelli altissimi. Ma la profondità di gioco è innegabile!

Nel lontano 1989, Will Wright presentò un semplice ma alquanto geniale e ben complicato gioco si simulazione cittadina: Sim City. Usato anche in studi urbanistici per la sua complessità e le centinaia di variabili contenute nel gioco, Sim City permetteva di gestire una città dalle basi (una strada, un isolato, un quartiere e così via). Il lato gestionale si complicava man mano che aumentavano gli anni, le richieste dei cittadini e le tasse da pagare. Questo 20 anni fa. I titoli della serie Sim si sono evoluti negli anni, portando la complessità di gioco a livelli sempre più alti (nuove richieste dei cittadini, interventi “alieni” e i soliti problemi urbani). La serie ha acquisito nuove fette di mercato quando, nel 2000, è stato presentato The Sims, successo mondiale che fino alla sua terza incarnazione uscito nel 2010 ha venduto milioni di copie. Un simulatore di vita dove la liberta d’azione (ovviamente, limitata ad alcune scelte imposte dai programmatori) permette di poter creare e gestire la vita di una famiglia o di un singolo individuo in tutte le azioni della giornata. Will Wright ha ottenuto nel 2007 il premio British Academy of Film and Television Arts (BAFTA), la prima volta ad essere assegnare ad un game designer. Il suo nome è stato anche indicato da magazine come Entertainment Weekly e Time fra i personaggi più influenti e importanti del panorama tecnologico, ludico e dell’intrattenimento.

Titoli come Civilization o Pirates sono giochi di strategia e gestione che possono durare anche mesi, senza mai annoiare (le cose che si scoprono ad ogni partita sembrano quasi infinite). La possibilità di controllare diversi aspetti, diverse caratteristiche della propria strategia, di scontrarsi contro un’intelligenza artificiale che simula la presenza di altri giocatori. La serie Civilization (arrivata al V capitolo) è attesa dai fan nella sua incarnazione “social”: dalle parole dello stesso Sid Meier, sarà qualcosa di mai visto prima, “un’integrazione tra la comunicazione con gli amici e la storia che nessun gioco attualmente disponibile sui social network può vantare”. Se lo dice lui, perché non crederci?


Cosa pensi della creazione, ormai 17 anni fa, della serie DJ Kicks, grazie alla quel tanti artisti essenziali si sono potuti esprimere? Credo sia stata una grande idea, ma ormai posso parlare solo del lavoro che ho realizzato personalmente negli ultimi due anni, quelli che seguito personalmente. A tuo parere perché questa compilation è così importante per la scena dance mondiale? Credo che si tratti di una grande serie, una delle più importanti, e le persone la seguono per sapere chi abbiamo ingaggiato per il prossimo “Kick”. E c’è anche una fan-base ed una storia alle spalle, perciò c’è un pedigree che è da considerare. Credo anche che si tratti della miglior combinazione di tutti questi elementi. La serie della Fabric è ottima, ma non c’è stata fin dall’inizio, perciò credo che DJ Kicks sia la madre delle compilation. Cos’è cambiato radicalmente nel music business negli ultimi anni? Be’, in breve, le persone comprano meno musica e in rete c’è circa un milione di mix. Restare importanti in questo periodo significa essere svegli. Credo che i Kicks che abbiamo pubblicato siano davvero unici, specialmente per i contenuti inediti che abbiamo inserito. Si tratta di un vero ibrido fra un mix album e un disco di un artista, perché c’è un mucchio di canzoni che non saranno disponibili da nessuna altra parte. È quello che stiamo facendo con The Exclusives, il disco dove saranno incluse tutte le tracce realizzate appositamente per la serie negli ultimi anni.

Musica

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C’è un volume della serie che preferisci? Secondo te qual è il più influente artista della DJ Kicks? Non so se dovrei dirtelo, ma posso solo ricordarti che sotto la mia supervisione abbiamo pubblicato Apparat, Soul Clap + Wolf And Lamb, Motor City Drum Ensemble, Scusa e Gold panda. Come si può scegliere fra di loro? sono così eccezionali! Qual è il futuro della serie? Realizzerete qualcosa di nuovo? In tutta onestà il grande cambiamento è già avvenuto, perché i Kicks hanno più contenuti esclusivi. Questo aspetto continuerà ad evolversi e forse a crescere, ma resteranno sempre album mix, probabilmente con una lunghezza fra i 65 e i 75 minuti.


VARIOUS ARTISTS DJ-Kicks The Exclusives !K7 Records Dei DJ Kicks si è ormai scritto tutto, pietra miliare della scena ballabile (ma non solo) internazionale e punto di riferimento per ascoltatori ed operatori. Arriva oggi una nuova collezione di brani, che ripesca gli inediti che ciascun compilatore dei vecchi volumi ha incluso nella propria raccolta: ne vien fuori un mix eterogeneo e intrigante, che ha nel ritmo il suo vero DNA. La partenza è affidata a uno dei guru dell’elettronica contemporanea, un Four Tet in versione assimilabile all’ultimo There Is Love In You, capace di insistere su mutazioni digitali e scintillio della batteria. Si passa poi all’elettronica suonata di Henrik Schwarz, che in Imagination Limitation strizza l’occhio alla commerciale ed alla scena di fine anni 70 newyorchese. Gli Hot Chip mantengono la loro aria spensierata e divertita anche nella coinvolgente My Piano, mentre Chromeo ci riporta indietro nel tempo con una cover soul sporcata da vocoder di I Can’t Tell You Why. The Juan MacLean porta il suo standard di ballabilità à la DFA in Feel So Good, un crescendo di tech-house con vocal femminile per una delle migliori tracce della raccolta.

I toni tornano poi più soffusi con gli Holden, la cui minimal ci accompagna delicatamente verso il brano composto da uno dei nomi in ascesa dell’ultimo periodo: Kode9. Lo scozzese prepara una pezzo basato sul loop e sull’interazione con campionamenti digitali, mentre Apparat vira verso soluzioni più eteree che richiamano alla mente lo shoegaze e la rarefazione sonora. La palla passa poi a Soul Clap, deliziosamente ubriaco in un’eccellente traccia da club che presenta anche il featuring di Charles Levine. Con i Motor City Drum Ensemble si torna alla battuta dritta ed alle atmosfere metropolitane, un brano un po’ datato ma di sicuro appeal discotecaro a cui si contrappone la tech-house multiforme di Scuba. Arriva in chiusura l’incursione di Gold Panda – onirico e cristallino con il suo intreccio elettroacustico, algido eppure trascinante grazie al beat elegantissimo – a cui segue la traccia finale della compilazione affidata al padrino Photek, sempre tagliente e ricco di tensione nelle sue intense evoluzioni.


disfunzioni musicali

THEE OH SEES Carrion Crawler/The Dream In The Red

di Enrico Godini

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Secondo disco in un anno, ed ennesimo centro. Forse il migliore di una produzione fittissima, figlio di un gruppo iperprolifico colto nel suo massimo splendore; e sebbene si tenda a diffidare dei gruppi dalla produzione costante, giacché un filtro spesso s’imporrebbe all’incontinenza di alcuni, nel caso della band di San Francisco – punta ideale di una scena sfavillante che ricomprende autentici fuoriclasse come Ty Segall, Fresh & Onlys, Sic Alps e Kelley Stoltz solo per citarne alcuni – non v’è che da augurarsi di sentirne ancora. E al più presto, poiché questo Carrion Crawler/The Dream mostra meglio di ogni altro quello che Thee Oh Sees riescono a fare su di un palco, e cioè proporre una micidiale, eccitante idea di rock’n’roll nelle sue varianti più carnali e ossessive. Garage punk d’assalto si direbbe, con le vocine ebeti di John Dwyer e Brigid Dawson che si rincorrono su groove incessanti, irresistibili, come (tanto per dare due coordinate) se a percorrere l’highway 61 dylaniana fossero

le asprezze della no wave unite ad una robustezza ritmica e strutturale davvero poco comune. Sarà anche per l’inserimento in pianta stabile di Lars Finberg, già noto (?) per il suo presente in formazioni come A Frames e The Intelligence. L’ascolto – tanto per continuare nell’inevitabile gioco dei riferimenti – riporta ai Ramones alle prese col repertorio dei Can di Ege Bamyasi (vedi l’ottima ChemFarmer), arrivando poi al passo svelto di Opposition (With Maracas), un vero trademark del gruppo assieme all’ossessività di Wrong Idea ed ai cambi di tempo (e di umore) della straordinaria The Dream. Un disco che è un capolavoro di sintesi delle visioni soniche di questi quattro irresistibili, schizofrenici, sbracatissimi californiani, poiché mai quest’anno è capitato d’esaltarsi come per questa sferragliante, anfetaminica corsa verso il nulla che Carrion Crawler/The Dream ti fa vagheggiare. Niente di “inaudito” (c’è qualcosa di “inaudito” in giro?), ma c’è di che godere, e parecchio anche.




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