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003 MARZO 2010 FREE PRESS

MUSICA LALI PUNA - I SOVRANI DELL’INDIETRONICA ISD LAB CENTO ANNI DI SPAZIO VISIONI ALICE IN FASHIONLAND


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REDAZIONE Michele Casella Direttore Responsabile Vincenzo Recchia Creative Director Irene Casulli Fashion Editor Giuseppe Morea Multimedia Developer Giancarlo Berardi Visual Designer

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COLLABORATORI Simona Ardito, Luigia Bottalico, Elisa Caivano, Emma Capruzzi, Annarita Cellamare, Ennio Ciotta, Antonello Daprile, Roberta Fiorito, Valeria Giampietro, Enrico Godini, Paolo Interdonato, Francesca Limongelli, Ilaria Lopez, Paola Merico, Simona Merra, Stefano Milella, Pasquale Napolitano, Vincenzo Pietrogiovanni, Daniele Raspanti, Beppe Recchia, Davide Rufini, Veronica Satalino, Mimma Schirosi.

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MARZO/EDITORIALE

FOTOGRAFI Valeria Giampietro, Daniele Raspanti Stampato presso Tipografia Romana POOL Registrazione n. 31 del 08/09/2009, presso il Trinubale di Bari www.ipool.it Cercaci su Facebook, Twitter, Myspace, Issuu.

EDITORIALE

PUBBLICITÀ Imood Via Cristoforo Colombo, 23 - Putignano (BA) Tel. 080.4054243 www.imood.it

IL SEGMENTO CHE UNISCE DUE PUNTI di Michele Casella

Archetipo dai tratti evanescenti, negli ultimi anni il concetto di ‘spazio’ ha subito evoluzioni semantiche tali da rivoluzionare il concetto stesso delle relazioni collettive. Una nuova consapevolezza ha preso piede nella società contemporanea, quella della possibilità di moltiplicare le proprie identità, di parcellizzare il proprio essere e soprattutto di poter rivendicare il proprio diritto di dar vita a un numero indefinito di Doppelgänger. In questo senso, l’intrico del web si è rivelato propulsore inarrestabile di luoghi virtuali in cui immaginare nuovi stimoli relazionali, ciascuno virtualmente ancorato al proprio “space” ma allo stesso tempo stabilmente legato ad un intreccio di passioni assolutamente reali. In questo numero Pool analizza l’idea di ‘spazio’ con un approccio fluido ed a tratti incantato, puntando l’attenzione sulle infinite possibilità di relazione che un luogo (reale, virtuale o favolosamente immaginario) può offrire. Quel che ne vien fuori è “una nuova condizione di coinvolgimento sensoriale ed estetico tra utente, oggetto e contesto”, come scrive Marco Elia nel suo articolo sull’industria del design; lo ‘spazio’ come elemento di cui riappropriarsi col diritto (come nel caso dei laboratori urbani) o

con la forza (i clamorosi blitz di Untergunther), ma anche come luogo fisico in cui costruire un’esperienza di vita che si amalgami con l’essenza stessa dell’arte. Gli esempi di Fies Factory e dei cantieri Koreja possono di diritto essere ascritti fra le buone pratiche che questa nazione ha saputo offrire, diventando riferimenti extra-territoriali di eventi indimenticabili. Ed inevitabilmente la nostra ricognizione arriva alla pagina bianca, per antonomasia specchio di paure e insicurezze, ma soprattutto spazio da colmare con trame concettuali, narrazioni transmediali, visioni fuori dall’ordinario, memorie dell’invisibile. Rimaniamo rapiti da questa infinita molteplicità di vettori, capaci di mettere in connessione le possibili realtà del contemporaneo.


VISIONI 06

ALICE IN FASHIONLAND INSPIRED BY WONDERLAND STEREOSCOPIA MON AMOUR: IL POST-AVATAR CANTIERI KOREJA: SPAZI DI VITA

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LIFE

SPIRITO A PEZZI 20 SOCIOLOGIA DEL RICAMO 22

ISDLAB 24

L’AURA FUTURISTA CHE SI RESPIRA OGGI CI RIPORTA ‘ALLO SPAZIO’ CENTO ANNI DI LIBERTY, CENT’ANNI DI SPAZIO LO SPAZIO FISICO VIRTUALE TEMPO CONNETTERE LO SPAZIO AUMENTATO DELL’INDUSTRIA DEL DESIGN

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CONTENT ISSUE 003

ARTE 36

L’ARTE SI FA SPAZIO UX - IL PIACERE PERVERSO DELL’ARTE EDWARD HOPPER SCRUTATORE DEL MONDO LE ENERGIE RINNOVATE ESTER GROSSI CREATIVITA’ DIGITALE: I CIBERLAB

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MUSICA MIDIHANDS 44

LA MUSICA DEL CUSCINO LALI PUNA - I SOVRANI DELL’INDIETRONICA LA BIBLIOTECA DESERTA HIS CLANCYNESS

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LIBRI

SCASSATA DENTRO 54 RUM, MESC. & C.: UNA QUESTIONE DI STILE 56

HI-TECH BIOSHOCK 58


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MARZO/VISIONI

ALICE IN FASHIONLAND DAL ROMANZO ALLE PASSERELLE,IL MITO DI ALICE (TORNA) ALLA CONQUISTA DEL GLOBO.

di Annarita Cellamare

Attraverso lo Specchio e Quel che Alice vi Trovò: questo è il titolo del seguito del famosissimo romanzo di Lewis Carroll Alice nel Paese delle Meraviglie, letteralmente (nella lingua originale) Alice’s Adventures in Wonderland, o per brevità Alice in Wonderland.

di aver rubato delle torte che in realtà non ha mai rubato. E alla fine finisce con l’essere, a sua volta, processata e condannata, e proprio prima di essere decapitata… si risveglia.

Dopo più di 150 anni il mito ritorna, più forte che mai, creando quasi fanatismo verso il favoloso personaggio della piccola Alice (ragazzina di appena sette anni nel romanzo) che, durante una calda giornata primaverile, vede un frettoloso bianconiglio scappare via nella sua tana. Piccola curiosa quale è lo segue, cadendo letteralmente in un onirico mondo sotterraneo fatto di personaggi stranissimi, storie paradossali, assurdità e nonsensi, finendo col cacciarsi spesso e volentieri nei guai.

Tutto sommato si può affermare che più o meno tutti conoscano questa storia, grazie soprattutto al film Disney che da bambini abbiamo amato ma che, a quanto pare, sopravvive in tutte le sue rivisitazioni e usi. Sì, perché si può affermare che sulla nostra piccola eroina e sul suo viaggio è stato creato un business da più di sei zeri!

Mangiando cibi che troverà nel suo viaggio cresce magicamente fino a raggiungere dimensioni incredibili, mangiandone altri rimpicciolisce fino a diventare piccola come un moscerino; incontra animali che quasi affogano nelle proprie lacrime a furia di piangere, poi conosce un bruco che fuma una pipa a forma di tubo, si imbatte in bambini che diventano maiali, gatti che ghignano per poi scomparire, partecipa a tè di durata infinita con un cappellaio matto, gioca a cricket con un mazzo di carte, per poi ritrovarsi a dover testimoniare nel processo ingiusto al Fante di Carte, accusato

Sì, è stato tutto un sogno.

Basti pensare che a breve è prevista l’uscita del film in 3D, regia di Tim Burton, cast di stelle hollywoodiane fra le quali Depp, Bonham Carter, Hathaway. Attesissimo da mesi, incassi previsti indefinibili. Ma c’è da dire che gli addetti ai lavori del fashion world ci avevano visto giusto tanto tempo fa, quando lo stesso Vogue America nel numero di dicembre del 2003, per rendere omaggio ad una Alice tutt’altro che piccola e indifesa ci regala uno shooting fotografico d’autore, dove posa una giovane Lolita in abiti di moda ispirati al mito. Il tutto ovviamente firmato da svariati stilisti di fama mondiale, mostri sacri che hanno decisamente apprezzato l’idea, partecipando attivamente, figurando negli scatti, disegnando e fornendo abiti stupendi.


Catturati nel paese delle meraviglie dall’obiettivo impeccabile di Annie Leibovitz, incontriamo una Natalia Vodianova che impersona una “nuova” Alice, più Lolita che bimba. Incontra sul suo cammino il bianconiglio Tom Ford, un Marc Jacob che da buon bruco la dispensa consigli, Jean Paul Gaultier su un albero nei panni dello Stregatto. Vive l’insolita storia della Finta Tartaruga e la compagnia di un Grifone con Donatella Versace e un inedito Rupert Everett. E come non mancare al tè con la lepre marzolina e il Cappellaio Matto (rispettivamente, Christian Lacroix e Stephen Jones). Infine incontra con la regina di Cuori e con il suo re, bizzarramente interpretati dalla coppia Galliano/Roche. Non manca certo lo scatto con Olivier Theyskens nei panni dello stesso Carroll, o un cameo di Helmut Lang in una stanza troppo piccola per la cresciuta Natalia/Alice. Altro da aggiungere? Non direi, ma solo che questo shooting va decisamente gustato. Dove trovare le foto? Direttamente sul flickr della Leibovitz - www.flickr.com/photos/le-bal-masque/ sets/72157616665073597. Una collaborazione magica, proprio come il magico paese delle meraviglie. E questo è niente! Vanno citati svariati brand che hanno dedicato intere collezioni ad Alice e al suo mondo incantato: da Swarovski, con i suoi cristalli da favola, a FixDesign con le sue creazioni

commerciali ma estremamente accattivanti; e poi Monnalisa, PreNatal, una fashion designer come Sue Wong, Nicholas Kirkwood (che ha dedicato creazioni di abiti ispirati al mito), Stella McCartney (che ha disegnato una collezione di gioielli in tema) e infine Furla (che ha firmato una collezione di borse con stampe e lavorazioni tutte ispirate ai personaggi del romanzo). Insomma, poco ma sicuro, si può affermare che il fashion business creatosi intorno al mito di Alice in Wonderland, abbia raggiunto ormai cifre da favola. Tanto da ribattezzarlo: Alice in fashionland!

Da sinistra in senso orario: Immagine promozionale per il film Alice in Wonderland; Borsa di FixDesign; borsa di Furla; gioiello Swarovski


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MARZO/VISIONI

INSPIRED BY WONDERLAND ALICE TRA OGGETTI D’ARREDAMENTO, GIOCHI ED ILLUSTRAZIONI.

di Daniele Raspanti

Come spesso succede, ogni evento particolarmente atteso genera hype e ispirazione intorno a sè. E Tim Burton, in questo, è sempre stato un maestro. (Quasi) ogni suo lavoro diventa motivo di culto, attirando a sè anche altri mondi diversi da quello cinematografico. L’ormai prossimo Alice in Wonderland (contrazione del meno veloce Alice’s Adventures in Wonderland) riprende la storia originale di Lewis Carroll, si discosta dalla trasposizione Disney e aggiunge quel tocco “burtoniano” che rende magica e visionaria una pellicola cinematografica. Quasi come un virus contagioso, la visione di Tim Burton raggiunge anche altri artisti, preparando, come un tappeto rosso, il cammino dei fans prima dell’uscita del film. Uno degli esempi è sicuramente quello del Rosenbach Museum & Library dove, fino al prossimo Giugno, sarà presente una mostra dal titolo Moore Adventures in Wonderland, dedicata (come è facilmente intuibile) alla scrittrice Marianne Moore e ispirata al racconto di Carroll. La mostra di Sue Johnson unisce pittura a mano con stampe a getto d’inchiostro, cercando di cogliere gli inattesi collegamenti LewisMarianne. Per “festeggiare” (è il caso di dirlo) l’uscita del film in contemporanea mondiale il 5 Marzo, il Rosenbach Museum ha preparato una

serata speciale: il Mad Tea Party (3 Marzo, ore 18-20) sarà un momento per riscoprire la prima edizione de Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie prima dell’uscita del film. Non da meno sono le celebrazioni dell’ultima fatica di Burton da parte di tutti i giovani (conosciuti o meno) artisti di fumetti e illustrazioni, che per il debutto del film hanno preparato una serie di tavole chiaramente ispirate ad Alice e alle sue avventure tra la tana del Bianconiglio e il tè con il Cappellaio Matto. Cupe, divertenti, caotiche, a tratti cruenti. In ogni caso, mai scontate ma sempre e solo visionarie. Ma Alice è anche un personaggio per bambini, per quanto la pellicola di Burton sembri più attesa dal pubblico adulto che dai giovanissimi. E così, Furniture Collection, nella sua linea CoolKids dedicata ai bambini, presenta una serie di cassettiere e arredi “bizzarri”. Dalle forme irregolari, curve e assolutamente “da paese delle meraviglie”, questi arredi sono un chiaro esempio di come portare le avventure di Alice anche dentro la stanzetta dei propri figli. Ovviamente, tutta questa “unicità” ha un prezzo (decisamente alto)... la felicità di un bambino, per quanto in una “stanza delle meraviglie”, vale veramente questa originalità? Per quanto ormai sia diventata una caratteristica


Da sinistra in senso orario: Immagine promozionale per il videogioco Alice in Wonderland; complemento d’arredo di Dust Furniture comune a tutte le nuove uscite cinematografiche (almeno quelle di rilievo), anche Alice In Wonderland avrà una trasposizione videoludica (qualcuno ha detto Avatar, Sherlock Holmes o Terminator Salvation?). In puro stile Disney (sezione Interactive) ci ritroveremo infatti a seguire Alice, il Cappellaio Matto e tutti gli incredibili personaggi di Carroll rivisti da Burton. Come succede in questi casi, la realizzazione tecnica cerca sempre di essere sui livelli della versione su celluloide. Ma, come ormai “siamo stati abituati”, il tempi ristretti per poter uscire in contemporanea al film non sempre hanno portato sugli scaffali dei negozi titoli di rilievo.


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STEREOSCOPIA MON AMOUR: IL POST-AVATAR VISIONE, MEMORIA E IDENTITÀ TRAVOLTE DAL BLOCKBUSTER DI JAMES CAMERON

di Daniele Raspanti

Terra, 2009 a.c. (avanti Cameron). In principio, una parola abusata su internet, tra forum e blog. Una parola che identificava, nel senso ormai comune, la piccola immagine degli instant messenger. Poi, dal nulla, tornò lui. Hollywood, 2010 d.c. (dopo Cameron). Avatar. Giornali pieni di speciali, preview, recensioni tecniche e decine di pagine per la “Guida agli effetti speciali”. Avatar. Il film che cambierà per sempre il nostro modo di pensare le pellicole di nuova generazione. Avatar. Le radici della nuova tecnologia 3D. Tutto vero? Ormai non ci si stupisce più di nulla per quanto riguarda attori virtuali e mondi immaginari ricreati al computer. E la storia viene relegata a mero supporto allo spettacolo visivo. Nulla da dire, invece, sull’aspetto (tecnologico) pionieristico del film. Anzi. Cameron diventa pioniere di un trend che si fa prepotentemente spazio tra cinema e nuovi schermi LCD/LED per casa (quel fantomatico “3D” che ormai fa tanta gola a chi deve comprare un televisore nuovo). Ma rispetto al vetusto sistema anaglifo o alle lenti polarizzate usate finora da altri film (vedi UP o A Christmas Carol, anche se in questo caso si tratta di pellicole totalmente create al computer), Cameron ha voluto cambiare il modo di sperimentare il mondo del tridimensionale, ovvero del dare una “profondità” non solo agli oggetti ma anche agli attori.

Ed ecco che, come un bambino sogna il suo giocattolo preferito, Cameron chiede e ottiene quello che potrebbe diventare il nuovo punto di partenza di una nuova era di sperimentazione (per i registi): la telecamera stereoscopica. Tinto Brass sfida Cameron È il genere che ha decretato la vincita del VHS sul Betamax. È il genere che ha permesso a DVD masterizzati e masterizzatori di esser sempre più presenti sul mercato. E ora, grazie alle telecamere stereoscopiche, diventerà il genere che porterà definitivamente il 3D alla portata di tutti? Secondo Tinto Brass, uno dei registi più famosi del cinema erotico da “larghe vedute”, questo è il futuro. Soprattutto nei film porno! E così, mentre era in preparazione il suo nuovo film Chi ha ucciso Caligola, scopre ciò che darà quel tocco di “kolossal” alla sua ultima fatica: il 3D stereoscopico made-in-Cameron. Il film, ribattezzato in onore della pellicola campione di incassi, è ora diventata Chiavatar. E, a detta del suo stesso creatore, aprirà nuove fonti di ispirazione: “Se un’attrice avvicina una mano alla telecamera, hai la sensazione che la infili sotto i tuoi pantaloni. Esperienza magnifica”. No comment.


A fianco, da sinistra : Jeffrey Katzenberg, James Cameron e Steven Spielberg In basso : Fotocamera Real 3D W1 Fujifilm Sorridi! Sarai sul mio album 3D!

Avatar-mania

Fujifilm non si è lasciata scappare l’occasione di sfornare prodotti sempre innovativi. E, in questo caso, ancora una volta cavalca l’onda dell’innovazione della fotografia digitale. Il boom del 3D post-Avatar, l’arrivo di schermi polarizzati, della stampa 3D e del “totalmente digitale” apre a Fujifilm un mercato totalmente inesplorato nel segmento consumer: le compatte stereoscopiche, o 3D (termine quantomai abusato, anche in questo articolo).

Avatar, già da mesi prima della sua uscita, ha attirato su di sé l’attenzione di tutti gli “internauti” più creativi. Ma il boom post-premiere ha scatenato la presenza di “generatori di Avatar” ovunque per la rete. E così, dopo attori, politici e personaggi famosi, è arrivato il momento in cui ognuno può vedere la propria “controparte blu” E cosi, tra speed-painting di giovani artisti o i più automatici (ma meno impressionanti) generatori in stile AvatarizeYourself, scoppia la mania di crearsi o farsi preparare il proprio Avatar da mostrare agli altri… pronti a mostrare il vostro il Na’vi che c’è in voi su Facebook?

La Real 3D W1 di Fujifilm è la prima compatta ad avere 2 ottiche che ricreeranno la foto originale nella macchina, dando però l’informazione della profondità all’immagine. Una cosa impossibile e inutile? Sembrerebbe di no, visti anche i risultati positivi (per quanto sia solo “il principio di una nuova era”). Grazie alle prime cornici con LCD/LED polarizzati, e allo schermo “3D ready” sul dorso, la W1 mostra subito di cosa è capace: provate a fare una foto della vostra vacanza nella savana, e i vostri amici capiranno quanto siete stati effettivamente distanti dal leone sul fondo della vostra foto! Lo sviluppo di queste foto? Anche per loro, un bel foglio 3D! Spostatelo nelle varie direzioni, e la foto si animerà! I puristi della fotografia stanno già alzando i forconi… sarà una nuova caccia alle streghe?


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CANTIERI KOREJA: SPAZI DI VITA LO STABILE DI INNOVAZIONE TEATRALE COMPIE DIECI ANNI di Ennio Ciotta

Capita spesso di raccontare come i Cantieri Teatrali Koreja, Teatro Stabile d’Innovazione con sede a Lecce, siano giunti ad abitare il vecchio mattonificio in abbandono, spinti dal sottile piacere che solo le grandi sfide sanno dare e con l’entusiasmo che ancora oggi li accompagna. Adesso i Cantieri Teatrali Koreja sono una grande scatola nera, una visione nordica, europea. “Il luogo degli arrivi, delle partenze, dell’ospitalità, quella essenziale, della scena, che fa sintesi di vite” come sottolinea Mauro Marino, curatore del libro Graffiare i Muri, Cantieri Koreja, Storia di un Teatro edito da Titivillus in uscita proprio in questi giorni per celebrare e testimoniare questo primo decennio di esperienza. Sono trascorsi dieci anni e ci ritroviamo a fare un bilancio con Franco Ungaro, direttore organizzativo della macchina Koreja. Quali sono state le spinte e le esigenze che hanno condizionato il vostro passaggio da Aradeo a Lecce, organizzando gli spazi come luogo di lavoro e di incontro in cui affiancare al palcoscenico anche uffici e abitazioni? In circa 25 anni di attività abbiamo abitato due spazi molto differenti e allo stesso tempo simili fra loro. Ad Aradeo, il Castello Tre Masserie: tante camere, tante bellissime terrazze, un cortile accogliente... Insomma, una grande casa per fare gruppo, creare comunità, avviarci e formarci alle professioni del teatro. Teatro senza teatro. Teatro senza spazio per il teatro. Teatro che incontrava il pubblico per

strade, piazze, grotte tufacee, campagne, corti e cortili. Con l’entusiasmo e l’energia di ogni status nascendi. Ore e ore per imparare il teatro, ore e ore per sistemare, pulire e abbellire spazi degradati. E soprattutto per creare un ambiente e un linguaggio. Poi a Lecce i Cantieri di Via Dorso, dopo aver inseguito gli amministratori perché ci facessero lavorare in uno dei tanti teatri cittadini. Anche qui ci arriviamo con l’idea di costruire non un teatro con le solite poltroncine rosse, il solito sipario rosso, ordini e sottordini di palco, ma un luogo accogliente e funzionale anzitutto agli artisti e poi al pubblico. Dentro i Cantieri abbiamo coltivato l’idea di una nuova casa con odori familiari e intimi, in una relazione ravvicinata e coinvolgente fra le persone che la abitano. Ma anche e soprattutto di un luogo dove creare e produrre spettacoli per misurarci con un pubblico, con i differenti pubblici. Le nostre giornate le passiamo facendo prove, accogliendo pubblico e artisti, assistendo dal punto di vista amministrativo, organizzativo e tecnico gli artisti e le maestranze, intrecciando relazioni con altri teatri vicini e lontani. Con ritmi a volte infernali ma anche con pause necessarie per riposare, consumare un pasto, scambiare qualche chiacchiera, guardare fuori, festeggiare. I Cantieri assolvono a questo insieme di funzioni. Una casa da cui uscire per partire, per conoscere e incontrare il mondo, per accogliere il mondo. Non riusciamo ad allontanare la vita vera dal teatro.


Da sinistra: Il Calapranzi (foto di Elisa Manta); Doctor Frankenstein (foto di Palma); Paladini di Francia. Koreja presenta anche un interessante dualismo fra il lavoro della compagnia teatrale e quello di organizzazione di eventi; un dualismo che, fra le tante altre cose, segna il passaggio (o meglio ancora la conquista) del ruolo di teatro stabile d’innovazione. Più che di dualismo parlerei di integrazione e complementarietà. Teatro stabile d’innovazione non vuol dire maggiore organizzazione di eventi e minore attenzione alla compagnia. Almeno per Koreja. Alla base del nostro progetto artistico c’è, sin dalle origini, l’idea e la scommessa di creare e radicare sul territorio un centro di cultura teatrale capace di far vivere senza conflitti un rapporto sano fra l’attività di produzione diretta di spettacoli e l’attività di promozione. Sin dai tempi di Aradeo abbiamo investito le nostre migliori energie perché si formassero qui nel Salento le competenze necessarie per creare spettacoli (attori, registi, tecnici, organizzatori, amministratori, etc) e per fare compagnia, consapevoli che questa fosse la sfida più difficile in un territorio che sino ad allora (anni ‘80) non aveva ancora avuto compagnie teatrali professionali. Ma cultura teatrale vuol dire anche misurarsi con altri artisti, formare un pubblico, confrontarsi con la drammaturgia teatrale, vuol dire pensare il teatro: è solo questa la ragione che ci spinge a promuovere ed ospitare spettacoli di altre compagnie e artisti. La nostra ambizione è di avere attori e spettatori colti, preparati, critici. Non ci interessano né i grandi eventi, né la società dello spettacolo né la televisione. Che ruolo e che funzione svolge la musica all’interno dei vostri spettacoli? Per esempio in Acido Fenico o in Brecht’s Dance, fino ad arrivare a La Passione delle Troiane? Potrei parlare dei miei gusti musicali, del mio personale archivio musicale che contiene di tutto, da Verdi a Bach, da Negroamaro a Brian Eno, dagli Osanna a Fela Kuti. Ma Koreja è un caleidoscopio di gusti e tendenze che rinsaldiamo attraverso l’ascolto e i tanti concerti dal vivo, alcuni dei quali organizzati direttamente ai Cantieri. Ma non

c’entra solo il gusto musicale personale nelle nostre produzioni. Posso dire che se non avessimo organizzato ad Aradeo La notte del rimorso quel magico 29 giugno del 1994 con Almamegretta e Raiz, probabilmente non ci sarebbe stato Brecht’s Dance. Se non avessimo ospitato nel campetto adiacente il Castello Tre Masserie di Aradeo uno dei primi rave con Sud Sound System non ci sarebbe stato Acido Fenico. Se Uccio Aloisi e compagni non fossero stati ospiti quasi quotidiani delle Tre Masserie non saremmo mai arrivati alle Troiane. Ci sono sempre degli incontri straordinari con persone straordinarie che indirizzano la nostra storia. Considera inoltre che il lavoro sulla voce, il canto, il ritmo rappresentano i fondamentali del lavoro d’attore, rappresentano il vero punto d’incontro tra la musica e il teatro. Anzi, per noi c’è teatro quando è musica, indipendentemente dal fatto che si metta in scena Pinter o Giancarlo De Cataldo. Qual è lo stato dell’arte nella regione Puglia? Dovremmo usare con più discrezione parole come ‘laboratorio’ e ‘ rinascimento’: temo che si continui a utilizzare lo spettacolo come una grande fabbrica di illusioni per le giovani generazioni. Le pratiche non sono coerenti con le belle idee e perciò incapaci di modificare e migliorare la realtà. Si sprecano ancora fiumi di denaro pubblico per eventi effimeri e insostenibili che non producono lavoro, non tracciano una direzione ben definita e non introducono elementi di innovazione, questi sì necessari per dare fiato in un contesto di competizione globale. Basta vedere com’è crollato miseramente il castello di menzogne e illusioni costruito con la “storica” Notte Bianca. Il futuro del teatro non si costruisce inseguendo modelli e parametri televisivi (il consenso, la comunicazione, il personaggio) ma sul loro rovesciamento. Il teatro per fortuna è ancora l’unica arte di gruppo, poggia sulla comunione piuttosto che sulla comunicazione, è consapevolezza critica dell’esistente e perciò utopia concreta. In questa regione la sfida nel valorizzare le risorse artistiche del territorio deve ancora partire.


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CINEMA RECENSIONI

MARZO/VISIONI

di Vincenzo Pietrogiovanni

INVICTUS - L’INVINCIBILE di Clint Eastwood, Biografico-Drammatico USA, 133’

SHUTTER ISLAND di Martin Scorsese, Drammatico-Thriller USA, 138’

Tratto dal romanzo Ama il Tuo Nemico di John Carlin, l’ultimo film di Clint Eastwood racconta la grande storia di un non vinto: Nelson Mandela. Leader dell’African National Congress, Mandela viene liberato dopo 27 anni di prigionia nel carcere di Robben Island. Nel 1994, alle prime elezioni aperte a tutta la popolazione sudafricana, vince e diventa il Presidente del Sud Africa. Ha un compito difficile: ricostruire una nazione dilaniata dalla segregazione razziale, dall’odio e dal rancore. I neri ed i bianchi sono divisi su tutto, anche nel tifo rugbistico. La minoranza bianca, infatti, tifa per gli Springboks – la nazionale sudafricana per anni fuori dalle competizioni per il boicottaggio anti-apartheid – e la maggioranza di colore tifa per gli avversari. Mandela intuisce che lo sport può essere uno strumento preziosissimo per raggiungere la riconciliazione sperata e si affida a Francois Pienaar, il capitano della nazionale. Clint Eastwood dirige, con il suo solito stile secco, impeccabile e lineare, un film appassionante e compassionevole, che, soprattutto grazie ad un superbo Morgan Freeman nei panni di Mandela, non scade mai nel patetico o nel banale.

Siamo nel 1954 e l’America, che ancora non ha ricucito le ferite del secondo conflitto mondiale, è già nel pieno della Guerra Fredda ed in preda alla paranoia maccartista Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio), ex soldato che ha combattuto in Europa, ha perso sua moglie nell’incendio del loro appartamento. Ora è un agente federale ed insieme al suo collega Chuck Aule (Mark Ruffalo) è inviato all’ospedale psichiatrico Ashecliff a Shutter Island, un’isolafortezza a largo di Boston, per indagare sulla misteriosa fuga di Rachel Solando, ristretta in una cella blindata per aver annegato i suoi tre figli. Comincia così una discesa verso gli inferi della follia e dell’orrore. Tratta dal romanzo L’isola della Paura di Dennis Lehane – lo stesso autore di Mystic River da cui Clint Eastwood trasse l’omonimo film nel 2003 – questa è la prima prova di un grande maestro del cinema come Martin Scorsese con un film di genere. Lo sdoganamento commerciale del thriller psicologico, evidentemente, non conosce limiti. La sapienza e la genialità di Scorsese emergono con pienezza in larghi tratti del film, ma in 138 minuti sembra che ci sia troppa carne al fuoco, anche per lui. Di Caprio si conferma molto bravo nei ruoli borderline ma da apprezzare sono la fotografia decisamente gotica di Robert Richardson e la scenografia assai curata di Dante Ferretti.


QUESTO ARTICOLO VI È OFFERTO DA

L’ITALIA CHE NON STA IN PIEDI di Pasquale La Forgia

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arlare di sport senza inciampare nell’elogio della fatica è davvero complicato. Può capitare però che il caso, che della Storia e i suoi trofei se ne frega, ti metta sotto il naso l’avventura di Dorando Pietri, un garzone di Carpi che un giorno scoprì di avere le gambe e i polmoni di un maratoneta.


D

orando aveva diciannove anni quando a Carpi arrivò il grande podista P e ricle Pagliani. Ad ammirarlo fra il pubblico c’era a n c h e i l g i o v a n e Pietri. La leggenda racconta che, come in un pessimo filmtv, la performance d i Pagliani ispirò Dor a n d o al punto che il rag a z z o , ancora in divisa da garzone, si fece strada fra la folla e prese a correr dietro al campione, tenendogli testa per tutta la gara. Dopo questo exploit, Dorando infilò una sfilza di successi, in Italia e all’estero, che rapidamente lo portò a qualificarsi alle Olimpiadi di Londra del 1908. Nel giro di appena quattro anni questo magro garzone alto un metro e cinquantanove aveva sbaragliato gli avversari più tos t i , f r a n t u m a t o r e cord e conquistato med a g l i e c o m e n e l l a miglior tradizione dei g r a n d i campioni sbucati dal niente.

D

alla piccola Carpi ai fasti di Londra. Fin qui la vita di Dorando Pietri rispettava in pieno le esigenze di un biografo sportivo. Origini modeste, fisico non particolarmente adatto alle competizioni, nessuna preparazione tecnica iniziale: il perfetto mix di normalità e superpoteri che trasformano un uomo in un campione. Ma per fortuna il caso, che delle esigenze romanzesche dei biografi se ne frega, fece sì che a Dorando succedesse qualcosa di incredibile e senza precedenti. Una cosa che lo consegnerà alla Storia degli uomini, strappandolo a quella dello sport.

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luglio 1908. O r e 1 4 . 0 0 . Davanti al Castello di Windsor sono allineati i cinquantasei atleti che prenderanno parte alla maratona, pronti ad affrontare il tragitto che li porterà allo stadio di Londra. Per la prima volta il percorso è di 42,195

chilometri, 352 metri in più rispetto allo standard, perché gli organizzatori hanno piazzato la linea d’arrivo sotto il palco reale. Così le teste coronate potranno godersi meglio il taglio del traguardo.

A

lle 14.33 la principessa del Galles dà il via. Il caldo è insopportabile. La gara inizia bene per il nostro Dorando, che si tiene stabile a metà del gruppo. Sa bene che solo i fessi si sfiancano all’inizio. I primi venti chilometri li percorre di buon passo, ma senza sprecarsi. Meglio aspettare che la temperatura scenda. In testa al gruppo c’è Charles Hefferon, un sudafricano che comincia ad avvertire la stanchezza. Dorando è ancora dietro, ad aspettare che il capofila crolli e che l’aria rinfreschi. Ma Hefferon tiene e il caldo pure. Non resta altro che cominciare a correre. La marcia di Pietri


si fa più secca, la sua progressione è spietata: nel giro di pochi minuti è secondo.

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l pubblico di Londra sta ansimando per l’umidità, ma la scalata dell’italiano tiene svegli i tifosi che fino agli ultimi chilometri assistono a una gara dall’esito incerto. Hefferon è in testa, Pietri lo tallona. Il sudafricano ha sprecato fiato nella prima metà della gara, Dorando invece è un po’ più fresco, anche se il caldo lo sta fiaccando. Con le ultime forze, al trentanovesimo chilometro, Pietri raggiunge e sorpassa Hefferon. Intorno a lui il pubblico è in festa, ma i più attenti si sono accorti che lo sguardo dell’italiano s i sta lentamente spegnendo. Pietri è disidratato e ragiona a fatica, fa il suo ingresso nello stadio, ma sbaglia il senso di marcia. I giudici di gara lo rimettono in pista e Pietri, con la grazia spontanea degli

sconfitti, sviene. Lo stadio ammutolisce. Il piccolo italiano è a terra, sfinito, a soli duecento metri dal traguardo. In un mondo più sereno, più incline ad accettare la sconfitta (nostra e degli altri), la vicenda si sarebbe chiusa qui. Ma la Storia dello sport esige il sacrificio ultimo, si accanisce contro i limiti e spinge l’uomo a superarli, anche controvoglia, anche a costo della barzelletta. E barzelletta sia.

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l 24 luglio del 1908, poco dopo le cinque, nello stadio di Londra sta per accadere qualcosa di imprevedibile. A pochi metri dal traguardo giace esausto Dorand o Pietri. La promessa del podismo internazionale non ha superato la prova del nove. La magia dell’Olimpiade è compromessa. Ma forse non è troppo tardi per sistemare la faccenda e portare a casa un bel ricordo. Attorno all’italiano s v e nuto si forma un grup-

petto composto da medici, assistenti e giudici di gara. Oggi è difficile, se non impossibile, cercare di capire cosa successe di preciso, chi per primo prese l’iniziativa. Forse bastò uno scambio di sguardi, una rapida occhiata, chissà. Certo è che un istante dopo il corpo di Pietri era di nuovo in piedi, trascinato di peso dal dottor Michael Bulger e dal giudice di gara Jack Andrew. La fabbrica delle leggende aveva ripreso miracolosamente a funzionare: l’Olimpiade avrà il suo eroe a ogni costo, il pubblico pagante tornerà a casa con un gran bel ricordo, sotto il palco reale i regnanti ved r a n n o s f i l a r e u n vincitore.

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Dorando fa quello che può per assecondare l’ottusa sete di sacrificio dello sport e dei suoi devoti. Si tiene in piedi a fatica, barcolla per quasi cinque minuti, percorre gli ultimi


metri in stato di trance fino a quando, sfiancato e annebbiato, taglia il traguardo con l’entusiasmo di un moribondo. Un secondo dopo viene portato via in barella. Lo stadio è in tripudio. La Storia dello sport ha aggiunto nei suoi annali una nuova leggenda.

M

a la balla è fin troppo evidente. Siamo nel 1908 e il cinema esiste già da un pezzo. I cinegiornalisti del tempo ripresero l’avvenimento e ancora oggi è possibile rivedere la sequenza in cui Pietri crolla e viene rialzato di peso , c o n t r a v v e n e n d o a l le più elementari regole dell’agonismo. Dorando verrà elimina-

to e il suo trofeo sarà assegnato al secondo arrivato, l’americano Johnny Hayes. Pietri viene sfrattato dalla Storia dello sport, ma per lui il caso, che delle regole del gioco se ne frega, ha in serbo un destino migliore. La notizia della strana vittoria di Pietri fa il giro del mondo. La regina d’Inghilterra gli a s s e g n a u n t r o feo ad honorem, il compos i t o r e Irving Berlin gli dedica una canzone, Arthur Conan Doyle – che quel 24 luglio era cronista della maratona per conto del Daily Mail – lancia una raccolta fondi per regalare a Pietri, garzone di una pasticceria, una panetteria tutta sua. Negli Usa un impresa-

MOSSO 0005 L’ITALIA CHE NON STA IN PIEDI FEBBRAIO 2010 DISEGNI E PROGETTO GRAFICO DI ROBERTO LA FORGIA

MOSSO È CHIARA DATTOLA PAOLO INTERDONATO PASQUALE LA FORGIA ROBERTO LA FORGIA

INFO@RIVISTAMOSSO.COM

rio decide di replicare la sfida fra Pietri e Hayes al Madison Square Garden per ben due volte. Pietri vincerà entrambe le g are, guadagnando cifre mai viste da un maratoneta. Questi successi trasform ano Pietri in un personaggio troppo grande e complesso per un almanacco sportivo. La parabola della sua vita è i n a datta alla pignoleria della Storia dello sport, e così Pietri ricade nella Storia degli uomini, la nostra Storia. Una Storia nella quale non basta tirare u n a l i n e a f r a v i n c i tori e vinti, perché – qualora non l’aveste capito – non ci sono gare da vincere né sfide da superare. Per fortuna.



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di Paolo Interdonato sparidinchiostro. splinder.com

SPIRITO A PEZZI Le città parlano. Tutti gli spazi disponibili sono ricoperti da messaggi: graffiti, tag, scritte a pennarello e, soprattutto, cartelloni pubblicitari. Quello dei claim, delle frasette a effetto che richiamano un prodotto, è un linguaggio pervasivo, vocato a toccare nervi scoperti e a modificare il comportamento dei consumatori. In questi giorni, strani poster tappezzano le città italiane, sottraendo spazio prezioso ai faccioni dei candidati alle elezioni regionali. Si tratta del ficcante risultato della campagna pubblicitaria di Diesel, da sempre (da prima che sentissimo parlare di viral e guerrilla marketing) attentissima a comunicazioni ultrapop, capaci di sviluppare culti sotterranei. Grandi scritte, che usano il più semplice dei caratteri tipografici su campo nero, lanciano un ordine perentorio: “BE STUPID”, “sii stupido”. Renzo Rosso, fondatore di Diesel, multinazionale che fattura 1.300 milioni di euro l’anno, sta cercando di trasformare il proprio mercato di riferimento. L’attenta campagna pubblicitaria deve muoversi in spazi commerciali saturi, popolati da individui sempre più attenti alla spesa: la crescita dei ricavi non può essere pianificata incidendo solo sui costi di produzione; il crollo delle vendite è uno spettro che si aggira per il mercato. Gli acquirenti continueranno a garantire la propria preferenza, solo se il prodotto non sarà semplicemente un costoso capo di abbigliamento casual. Il compratore

fidelizzato deve indossare il logo sulla pelle come se fosse un simbolo religioso: sappiamo tutti che lo stile di vita del monaco è riconoscibile, in primo luogo, dal suo abito. Lo stupido secondo Diesel è l’eroe di un dualismo manicheo che fa coincidere l’intelligenza con il male e la stupidità con il bene. Niente di nuovo: l’immaginario è colmo di personaggi positivamente stupidi, come Forrest Gump o il giardiniere Chance (Peter Sellers nel film Oltre il Giardino), capaci di uno sguardo sul mondo tanto ingenuo quanto illuminante. Ma prima di conquistare a fatica questa bellezza vendibile, la stupidità è stata la maschera da vestire, nascondendo il più acuto degli sguardi, per sbeffeggiare il potere: dai giullari al punk, passando per la satira stupida e cattiva (bête et méchant) che dal 1960 ha contraddistinto i settimanali francesi “Hara-Kiri” e “Charlie”. Ma i tempi cambiano e il mercato deve rimanere al passo. Il regista George Romero, nel 1978, ci ha donato una metafora perfetta del consumismo con i suoi zombi che, con sguardo vacuo e braccia ciondoloni, si aggirano tra i corridoi di un supermarket. I morti viventi erano allora (in un mondo con pochissimi centri commerciali) lo specchio della nostra anima di consumatori e ci mettevano in guardia anticipando il messaggio di Alex Zanotelli: voti ogni volta che fai la spesa. Ma anche gli zombi devono accelerare per rimanere contemporanei a loro stessi.


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Gli anni Novanta del ventesimo secolo si sono aperti con un vivo morente, ricoperto di merci e a caccia di carne pulsante, capace di mimetizzarsi in una Manhattan colma di professionisti: la vita di Patrick Bateman, il protagonista di American Psycho di Brett Easton Ellis, scorre tra abiti firmati, compravendita di azioni, palestre esclusive, acque francesi, monogamia anaffettiva e omicidi truculenti. Le carni sanguinolenti delle vittime sono la sola traccia di vita nell’esistenza dello yuppie. “L’intelligente critica, lo stupido crea”, così recita uno degli slogan di Diesel. La profonda verità di questa affermazione mi getta nello sconforto più totale.

01. Il regista George Romero assieme ai suoi zombie 02. Frame dal lungometraggio Dawn of the Dead (1978)


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SOCIOLOGIA DEL RICAMO

LA STORIA DELLA MAISON MILA SCHÖN, NELLE PAROLE DEL DIRETTORE CREATIVO BIANCA MARIA GERVASIO, ORGOGLIOSAMENTE PUGLIESE. di Mimma Schirosi

“D’estate, a Molfetta, negli anni dell’adolescenza, preferivo andare dalla sarta nei pomeriggi, per realizzare, cucire e capire le rifiniture e la tecnica sugli abiti”. A raccontare questa porzione di vissuto è Bianca Maria Gervasio, nata a Molfetta nel 1979 e, dal 2007, Direttore Creativo della Maison Mila Schön “con il benestare della Signora Schön”, per la precisione. Nella storia della moda italiana, il marchio Mila Schön, dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, ha definito un nuovo concetto di lusso, privo di orpelli, intonso e silenziosamente opulento, espressione di certa milanesità di fondo, ben rappresentata dall’invenzione del double, efficiente e preziosa possibilità offerta da un unico abito.

posto così silenzioso ma così ricco di cultura, di passato, di vissuto, di sacrificio, di abiti ricamati d’alta moda, di disegni degli anni ‘50, ‘60. Respiravo questo mondo polveroso dell’archivio come se avesse un profumo speciale”. Nata coutourier, ancor prima che disegnatrice (definendosi “operaia della moda”), Bianca osserva una sorta di corrispondenza tra l’infelice peculiarità del momento storico presente e la tendenza ad una produzione sempre più industriale, piuttosto che impreziosita dal valore aggiunto del lavoro a mano. Tuttavia, a suo avviso, potrebbe verificarsi un’inversione di tendenza: “C’è un cambiamento importante in atto, le ricchezze si sono dimezzate e proprio per questo abbiamo bisogno di più creatività e di una nuova esplosione di idee… sono molto fiduciosa”.

La storia di Bianca Maria Gervasio è biografia di passione e sana abnegazione al talento con cui continua a tessere lo spleen della Maison. Con il diploma in Fashion Design, conseguito presso l’Istituto Marangoni di Milano, e collezionando borse di studio e premi, nel 2003 entra da stagista assistente all’Ufficio Stile di Mila Schön, in Via Montenapoleone. L’esperienza è vissuta con grande entusiasmo ed incanto, disarmante umiltà e voglia di assorbire il più possibile le suggestioni di quel luogo, di cui Bianca racconta: “disegnavo, ricercavo, guardavo gli archivi fino a notte fonda, restavo sola in quel

Affascinata dall’arte e dalla cultura, dal viaggio, dall’esperienza del mondo quanto la Signora Schön, sua méntore, Bianca è circondata in modo naturale “di umanità sensibile, artisti, gente culturalmente illuminata, musicisti, poeti, filmaker” come se vi fosse un’invisibile “calamita ad attirarli”. Lontana, eppur vicina al suo territorio, ha collaborato con il “Gruppo Farfa” di Molfetta, vincitore del concorso indetto da Regione Puglia e Bollenti Spiriti con il corso di alfabetizzazione mediatica (Cinema Sociale Pugliese).


01 e 02. Due momenti delle sfilate di Mila Schön curate da Bianca Maria Gervasio 02

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DAL SILENZIO ALLE ILLUSIONI OTTICHE: LE TAPPE CREATIVE Abbiamo cercato di ripercorrere con lei le tappe concettuali del suo percorso creativo, a partire dalla prima collezione, Silenzio, di cui dice: “Ho immaginato un guscio che circonda l’essere umano e che, colpito dai rumori, si spacca. Da questi frammenti rinasce una donna denudata di qualsiasi stratificazione che ha la consapevolezza di avere il Silenzio nell’anima. Silence is inside me, shhhhhh”. Nel gennaio 2004 è la volta di Compenetrazioni, nata da un testo scritto a quattro mani con l‘amico e poeta Mimmo De Ceglia. Il concept è complesso ed affascinante. La visione ciclica della vita, la naturale evoluzione delle esistenze, dei tratti somatici simili ritrovati dopo secoli su persone completamente diverse, questo mistero e questa bellezza sono incarnati da una “donna che nasce da fiori contemporanei, pannelli di lattice, vive sulla passerella e ritorna nei suoi pannelli di lattice”; una donna che indossa abiti “dai tagli curvi, inserti plissè, forme circolari nella maglieria e sulle spalle, in cui ogni singolo taglio è studiato per trasmettere l’emozione della ciclicità della vita”. Sempre nel 2004, Bianca realizza Favola di mancanza, una collezione di cui a colpire è anzitutto il rigore cromatico trasmesso dalla scelta del nero: “La mancanza è vissuta non come qualcosa di leggero ma come un peso nero”, un’oscurità che, se alimentata dalla nostra sofferenza, tende a diventare progressivo fardello, in una sorta di dinamismo che, dalla leggerezza delle graduali e sempre più cupe sfumature dei 18 outfit neri, conduce al peso quasi collassante costituito dai 13 kg degli abiti che chiudono la sfilata. La collezione del 2005, Labirinto enigmatico delle trasmissioni (possibile trasposizione in un cybermondo minimale e raffinato) lascia salva l’umanità, valorizzata nelle sue potenzialità comunicazionali: “La collezione studia la comunicazione al microscopio, non solo dal punto di vista verbale o visivo in senso stretto, ma come rapporto di scambio di qualsiasi elemento fisico e psicologico fra i soggetti. I capelli che si allungano, gli odori che emaniamo, i suoni che emettiamo, i colori che indossiamo, a nostra insaputa, come una reazione chimica, creano filamenti-bave che si allungano, si intrecciano ed entrano in contatto

con filamenti-bave contenenti DNA di altri esseri. A questo punto, attraverso il contatto fra le bave ed i vari DNA, avviene un’esplosione di energie che porta alla comunicazione totale ed alla trasmissione di dati e sensazioni”. L’Attesa, nel 2006, esplora una dimensione interiore “fuori dalla logica del tempo e dello spazio, fatta di sensazioni ed emozioni come l’ansia, l’aspettativa, l’entusiasmo, la noia, il sonno, la polvere, l’impotenza”, il cui unico ancoramento alla realtà è “il pendolo che, con i suoi rallentati rintocchi, vibra ed ovatta l’aria”. In questa sfilata, Bianca non si limita soltanto a disegnare e realizzare gli outfit, ma ne definisce l’identità arricchendoli con ulteriori dettagli: “L’accessorio in cristallo, da me realizzato, posato sulla fronte come un paraocchi, spiega l’impossibilità di cambiare la dimensione di dilatazione del tempo, e quindi l’impossibilità di accelerare questa fase di attesa interiore così sofferta. Il trucco, per questi attimi lunghissimi, come una sorta di mummificazione con garze e borotalco, esprime assieme ai capelli gonfi, cotonati e, sostenuti da kapok, l’impolverarsi di chi aspetta”. Nel 2007, Reflection, raffinato elogio di una sobrietà per alcuni versi vintage, si accosta alla possibilità di analizzare gli stati d’animo, per una comprensione che conduca ad un possibile equilibrio interiore. Funzionale a questo processo di introspezione è il “riflettersi, specchiarsi, sdoppiarsi”, in cui l’immagine immediatamente tangibile si sfoca, lasciando emergere particelle emozionali in subbuglio. Il marasma è disciplinato dall’Ego, che, cosciente, riordina “la propria immagine superficiale con più consapevolezza di prima”. Chiediamo poi a Bianca di definire, in una manciata di parole, le sue collezioni più recenti, “Illusioni ottiche (A/I 2009-2010): emozione modulare – tensione verso l’alto in moto ascensionale” e “Caleidoscopio (P/E 2010): colorata ebbrezza positiva fluidità”.

03. Bianca Maria Gervasio


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MODA

di Bonizza Giordani

L’AURA FUTURISTA CHE SI RESPIRA OGGI CI RIPORTA ‘ALLO SPAZIO’ L’aura futurista che si respira oggi ci riporta ‘allo spazio’, tema che ritorna costante ogni venti anni. La prima volta in maniera enfatica e gioiosa, il tema era l’uomo e la luna. Tecnologie avanzate e speranze spezzate nella notte del luglio 1969. La moda seguì la ricerca con forme e materie plasticate, attraverso gamme cromatiche argentate e illuminate da un bianco lunare accecante, mentre i colori acquistavano valenze psichedeliche. Ricerca di forme geometriche, per corpi asessuati, filiformi e ‘spaziali’ in una visione fantasiosa dell’immensità atmosferica. Attualmente il bisogno dello ‘spazio’ non desidera conoscere l’universo, il bisogno di spaziare nasce da un’esigenza virtuale, popolata da alieni e umanoidi. Gli abiti che seguono il percorso progettuale agiscono come estensione del sé e del corpo, assumono il potere di comunicare “dalla conoscenza all’esperienza”, dalla mente al corpo; si delinea così una nuova autorità esercitata dallo stile. Oggi è la ‘nostalgia’, è l’ethos che rimanda giorno per giorno a vecchi stilemi alimentando il ‘postmoderno’. Forme futuribili spaziali, tra climi astrali e splendori siderali si alternano ad altre che sono volutamente arcaiche e primordiali, angosciose e cupe in un’enfasi di rimandi tra scienza e tecnologia, tra natura e metafisica. La moda

oltrepassa la comunicazione mettendo in moto ogni forma di seduttività attraverso l’uso dei media. Si serve di organismi diversi alla ricerca di ‘pianeti popolati da replicanti‘ per accedere alla mistificazione dei generi. Significativo è il trend dei colori luminosi, spaziali e argentei. Gli ideali estetici che regolano queste trasformazioni sono diversi da quelli dell’altro secolo. Esse attingono a quel desiderio dell’uomo sempre coinvolto dai temi dati dal ‘futuro’, pronti a rinnovare il linguaggio della moda con ironia. L’uomo inventa, attraverso le nuove tecnologie e i nuovi materiali, ‘desideri‘ che si tramutano in abiti e in accessori emozionali. Un cammino progettuale affascinante dato anche dagli stimoli del postmoderno, che vuole esprimere uno stato d’animo ambivalente in uno scenario urbano dove si celebra l’estinzione della natura. Nella moda i vestiti socializzano con il corpo, l’abito segna il corpo rendendolo visibile attraverso ambientazioni strane ed inusuali; proprio queste ultime sono create dai fotografi dell’artificialità dell’immagine al fine di stimolare nello stile i nuovi comportamenti rispetto agli automatismi imposti dalla società dei consumi. Gli opposti convivono nella libertà della scelta


ITINERARIO Dall’Asia, dall’Europa, dall’Australia, dall’America e soprattutto dalle città campane arrivano gli studenti con: DESTINAZIONE NAPOLI, via Duomo 61, una lunga strada che dal mare arriva alla collina tra Palazzi aristocratici che la costeggiano, tra architetture vetuste come l’antico DUOMO e il museo più discusso d’arte contemporanea, il MADRE; una stratificazione di culture che si perdono nei tempi. Si trova anche un luogo, anzi un portone importante, dove la mattina dei giorni feriali posteggiano giovani di ambo i sessi variamente vestiti. Si nota su di un lato una targa con una signature: ISD, che sta per ISTITUTO SUPERIORE DI DESIGN, ovvero logo di STILE. All’interno dell’edificio si trova la scuola con i suoi diversi indirizzi; ciò che presento a Pool è quella di ‘Fashion’.

DEL COSTUME e la STORIA DELLA MODA, Tecniche di Computer, poi le materie pratiche come il DISEGNO dal vero e l’illustrazione, il PROGETTO con collezioni di pret-a-porter e di alta moda, ma anche per ACCESSORI e moda UOMO… Il fare è documentato dal Laboratorio di modellistica, dove nasce e si costruisce un capo. Dopo tre anni si accede al FINAL WORK. Da un tema dato si deve creare una collezione, disegnata e realizzata per presentare il tutto sulla passerella dell’alta moda a Roma in luglio. E poi gli stage in aziende di settore, per completare l’esperienza triennale e dare inizio ad una professione dove è importante VIVERE LA MODA. Dal backstage delle sfilate all’acceso privilegiato del fare e del conoscere la moda, i vari campi della comunicazione si manifestano fra trend ed iconografia.

Tre anni di studio progettuale, teorico e pratico, in cui la MODA è sovrana. Diventa esperienza vissuta in prima persona, la scuola come un laboratorio di ricerca. Le materie di studio teorico sono: la STORIA estetica. Si dà la preferenza alle matrici simboliche provenienti da culture diverse apparentemente incompatibili, a cavallo tra arcaico e tecnologico, narrate dalle immagini della fashion photography. Oggi si celebra un look aggressivo alternato al romantico degli anni ottanta. Di primaria importanza è l’esercizio della fantasia attraverso una libera ricerca artistica, al di fuori delle ideologie, il rinnovamento per mezzo di una continua sperimentazione. Le manifestazioni creative sono alla base del bisogno giovanile, principale strumento di comunicazione attiva.

Immagine da Paco Rabanne


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BETWEEN HEAVEN AND EARTH. CIELO… TERRA. TERRA… CIELO. DUE DONNE… DUE ENTITÀ. L’INCONTRO. MATERIA, IMPALPABILE, SOFFICE, FREDDO.

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Foto Martina Scorcucchi Modella Valeria Lauria e Livia Lazzari

LONTANO

01.02 abiti di Danilo Borrelli presentati a Luglio a Roma per AltaRoma AltaModa 03. 04 abiti di Flavia de Luca presentati a Luglio a Roma per AltaRoma AltaModa.

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SPAZIO.

L’AURA FUTURISTA CHE SI RESPIRA OGGI CI RIPORTA ‘ALLO SPAZIO’. GLI ABITI AGISCONO COME ESTENSIONE DEL SÉ E DEL CORPO, ASSUMONO IL POTERE DI COMUNICARE “DALLA CONOSCENZA ALL’ESPERIENZA”, DALLA MENTE AL CORPO; SI DELINEA UNA NUOVA AUTORITÀ ESERCITATA DALLO STILE. Foto Martina Scorcucchi Modella Emanuela Bea 01. abito di Marni 02. cappa geometrica Jacopo Colimodio 03. maglia di Prada

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MARZO/ISD LAB

COMUNICAZIONE VISIVA

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CENTO ANNI DI LIBERTY CENT’ANNI DI SPAZIO. SULLE ESTETICHE DELL’ORNAMENTO, DAL LIBERTY ALL’ARTE DIGITALE.

di Pasquale Napolitano

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento si assiste ad un singolare fenomeno: all’ideologia dell’arte “autonoma” e “pura” le correnti nuove e, tra queste il Liberty in modo particolare. Per Liberty s’intende il corrispettivo italiano dell’Art Nouveau franco-belga e dello Jugendstil tedesco (ambedue i termini ispirati al concetto di novità e giovinezza); ed è divertente sottolineare come la definizione in uso nell’ area italiana derivi dalla circostanza che a Milano, in Galleria, era stata aperta una filiale della ditta Liberty, londinese; poiché in italiano il termine connotava libertà, fu adottato in un misto di entusiasmo e ironico distacco. Il filone liberty intendeva da un lato respingere l’accademismo, ma dall’altro rifletteva in maniera didascalica sul pericolo che la tecnologia avanzasse a scapito della natura: di qui l’abbondare, nella decorazione, anche quella esterna alle case, del tema floreale. Il Liberty non è un movimento generico, è piuttosto uno stile estremamente caratterizzato. Caratteristica peculiare del Liberty risulta per l’appunto essere l’ampio ricorso all’ornamento come soluzione estetica e progettuale. La riproposizione di forme e ricorrenze mimetiche dell’universo floreale è infatti l’elemento più evidentemente riconoscibile e contemporaneamente dibattuto di questo movimento a cavallo tra arte architettura e design. Il richiamo di tali forme in ambito

seriale serviva infatti come chiave di lettura di un universo progettuale che dalla natura nei fatti si emancipava grazie all’uso della macchina e della serialità. Altrettanto importante all’interno del dibattito analitico sul movimento Liberty fu la polemica scaturita dalle differenti letture date dall’utilizzo di questa categoria, soprattutto nell’ambito degli universi dell’architettura e del design. Celebre infatti la polemica scatenata dal critico Adolf Loos nel suo importante saggio Ornamento e Delitto (del 1908) in cui in sintesi sosteneva che questo strumento non fosse degno di un popolo evoluto, preferendo a tali soluzioni quelle più essenziali e mirate all’abitabilità ed all’ergonomia delle nascenti scuole di “arti applicate” come l’Art und Kraft prima e la Bauhaus poi. Ma l’ornamento fu davvero soltanto un abbellimento vano, oppure può essere inteso anche come una struttura grafica generatrice di senso? Bisognerebbe probabilmente proporre una rivalutazione e reinterpretazione dell’ornamento attraverso una rilettura delle teorie che si sono progressivamente sviluppate tra la metà del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento, periodo nel quale l’ornamento viene gradualmente liberato dalla retorica tradizionale del decorum, riflettendo sul suo significato estetico e filosofico che ancora rappresenta ai giorni nostri. Quello del pattern ornamentale è effettivamente considerato una pratica di seconda categoria ma che in realtà svela all’occhio attento il suo antico lignaggio? In che modo, nell’arte dei nostri giorni, Argument e Ornament, il senso e la decorazione, soggetto e abbellimento, si stemperano e si ricompongono in una temporalità circolare? Probabilmente, conformemente alle riflessioni di grandi studiosi come Rosalind Krauss ed alle sperimentazioni di artisti del calibro di Daniel Buren e Sol Le Witt (per citare due esperienze diametralemente opposte) fanno coincidere proprio con l’ornamento la scelta di senso: un modo cioè di segmentare concettualmente lo spazio attraverso sequenze formali e cromatiche. Tant’è che paradossalmente l’ornamento diventa la caratteristica peculiare di un’area della creatività contemporanea tra le più vitali e significative, quella della cosiddetta arte generativa, che cioè grazie alle tecnologie digitali, non produce degli elaborati chiusi o finiti, ma getta le basi, attraverso processi di programmazione, alla generazione di segni che si sviluppano a seconda delle condizioni dell’ambiente e delle caratteristiche date all’artefatto in chiave di progettazione. Opere aperte e fluide, come istallazioni audiovisive, o esemplari di software art che si comportano, mutatis mutandis, come le strutture ornamentali del liberty, approcciandosi ad una coraggiosa e contemporaneamente gradevolissima forma di neo-liberty digitale. Nelle opere di artisti digitali come Joshua Davis, Casey Reas, Marius Watz e numerosissimi altri l’ornamento floreale si digitalizza, diventando nel suo andamento generativo, visualizzazione di dati numerici e statistici, in una incredibilmente affascinante fusione tra gli universi del computazionale e del decorativo.


02 Joshua Davis

Casey Reas

Davis crea elettronicamente composizioni grafiche di complessità ed individualità quasi inimmaginabile. Ugualmente a suo agio con stampa e media elettronici, Egli costruisce i propri strumenti software in grado di combinare e ricombinare i colori presi in prestito dalla natura, con soluzioni formali organiche, elementi di testo e altri simboli. Il risultato è di una “astrazione dinamica”, come la definisce lo stesso Davis: forme fluide ed intricate, come la struttura di fiocchi di neve.

Casey vive e lavora a Los Angeles. Si concentra sulla definizione dei processi e la loro traduzione in immagini. E’ professore associato e presidente del dipartimento di Design | Media Arts presso la University of California, Los Angeles. Ha esposto a livello internazionale presso istituzioni come il Laboral (Gijon, Spagna), il Cooper-Hewitt Museum (New York), e il Museo Nazionale di Arte, Architettura e Design (Oslo); in sedi indipendenti, compresi Telic Arts Exchange (Los Angeles), TAG (L’Aia) e Ego Park (Oakland); in gallerie tra cui BitForms (New York), Banca (Los Angeles) e [DAM] Berlino; ai festival tra cui Sonar (Barcellona), Ars Electronica (Linz) e microonde (Hong Kong). Ha insegnato presso diverse istituzioni tra cui l’Università di Arti Applicate di Vienna, la Royal Academy of Art (L’Aia), e la Corte penale internazionale NTT (Tokyo). Con Ben Fry, Reas ha messo a punto Processing. org nel 2001, un linguaggio di programmazione open source, l’ambiente per la creazione di immagini, animazioni e l’interazione.

Marius Watz Marius Watz (NO) è un artista che lavora con l’astrazione visiva attraverso sistemi generativi. Autodidatta, ha abbandonato gli studi di Computer Science di proseguire i lavori visivi basati su processi parametrici. E’ conosciuto per il suo uso audace dei colori dai contorni netti strutturati in composizioni geometriche. Nel 2005 fonda Generator.x Watz, una piattaforma curatoriale che ha organizzato una serie di eventi legati all’arte generativa e design. Watz è docente presso la Scuola di Architettura di Oslo e alla Oslo National Academy of the Arts, Dipartimento di design. Ha tenuto numerosi workshop e conferenze su argomenti come l’estetica computazionale, live cinema e produzione digitale.

01. Casey_reas 02. Joshua Davis


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INTERIOR &INDUSTRIAL DESIGN

CONNETTERE LO SPAZIO AUMENTATO DELL’INDUSTRIA DEL DESIGN 01

di Marco Elia

01 Uchronia, Nevada. Progetto Arne Quinze Uchronia è un messaggio dal futuro catturato in una scultura immensa. Vi sono riportate storie nascoste in ogni angolo e fessura, storie che si manifesteranno solo a coloro che vorranno capirle. Rappresenta un regno senza confini che imbriglia tutte le passioni umane. Le sue radici affondano nel qui e ora: Un’utopia scolpita che simboleggia la razza umana; ogni elemento della costruzione rappresenta un individuo. Sviluppato in collaborazione con Jaga, Uchronia è stato creato – e bruciato – durante il Burning Man Festival del 2006 nel Black Rock Desert, Nevada, USA.

Superfici disegnate, scolpite, plasmate, fluide, mutevoli, interattive. Compromesso tra l’architettura dello spazio costruito e la composizione di figure nel piano, la superficie delle cose, la pelle degli artefatti, siano essi oggetti d’uso piuttosto che architetture costruite, rappresenta oggi la nuova frontiera del progetto. Filtro attivo in grado di porsi come medium comunicativo tra ciò che si cela dietro di essa e colui che la osserva, la sfiora e la usa, la superficie è la quarta dimensione, la condizione borderline dell’artefatto. Strumento in grado di generare esperienza sensoriale, tattile e funzionale, la superficie dissolve in sè gli oggetti in un limbo temporale dove uomini e cose si fondono in un sistema globale di comunicazione, di scambi percettivi simultanei. Una nuova condizione di coinvolgimento sensoriale ed estetico tra utente, oggetto e contesto che ci suggerisce l’idea di un prodotto non più durevole, statico e immutabile bensì fluido, dinamico, variabile, adattabile alle mutevoli condizioni del contesto fisico quanto dello spazio psichico. Transitorio, mutevole, immateriale sono, quindi, gli aggettivi che al meglio esprimono la nuova dimensione del progetto la cui pelle si trasforma in un sistema nervoso caratterizzato da entità sensibili con le quali interagire e nutrire

quel che Branzi1 definisce Architectural Link, metropoli genetiche che corrispondono all’idea di sistemi costruttivi reversibili e attraversabili, perennemente incompleti e imperfetti tuttavia adatti a contenere spazi fatti di reti, servizi e relazioni attivabili attraverso impalpabili “recettori” in gradi di trasferire informazioni da e verso l’esterno per adattarsi ininterrottamente al nostro modo di vivere lo spazio esteriore e interiore. È la quarta dimensione del progetto che si apre all’utente sotto forma di uno “spazio aumentato” all’interno del quale relazioni, sensazioni ed emozioni diventano gli elementi di un touch-screen ideale, da attivare attraverso la pelle degli oggetti. Il progetto Aegis Hypo-surface dei dECOi Architects per il teatro Hippodrome di Birmingham, il cui rivestimento in moduli al titanio semovibili collegati in rete a un sintetizzatore digitale in grado di processare suoni per tradurli in movimenti ritmici, esprime al meglio il senso di un architettura intesa quale esperienza percettiva globale che sfrutta la sua pelle per svelare la profondità inedita dei nuovi artefatti, la cui corporeità, quella fisicamente costruita, si dissolve per lasciar spazio a un’immaterialità relazionale tra interno ed esterno, tra oggetto e utente. Una perdita di fisicità che esprime più di ogni altra cosa la ricerca e l’affermarsi di una nuova profondità


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04 delle cose (architetture, oggetti, servizi), di una dimensione quasi onirica che liquefa la struttura fondendola alla superficie per trasformarla in un filtro sensoriale in grado di connettere, mettere in rete e processare messaggi crittografici. La Ikon Tower dello studio australiano Kovac Architecture, la [Un] Plug Building di R&Sie per la Défense di Parigi, la Embryological House di Greg Lynn e i progetti Uchronia e Skytracer del belga Arne Quinze descrivono altrettanto mirabilmente questa soglia mutagenetica della stessa architettura e del design, offrendo al mondo una dimensione instabile del progetto che si connota per l’essere strumento in grado di co-generare un livello superiore di interazione uomo-macchina, elidendo la materialità dei corpi ed enfatizzando la componente immaginaria, mediale, immateriale e ubiqua dell’artefatto postindustriale “che condensa la sua spinta connettiva nel fenomeno della Brand”2. In questi progetti, e in tanti altri in fase sperimentale, si avverte la tensione a definire sistemi connettivi, a intessere trame mutevoli, astratte, alterate per trasmettere messaggi superiori che utilizzano l’approccio visivo quale strumento privilegiati di accesso all’oggetto. Ciò che si offre all’osservatore non è più un

semplice prodotto dell’ingegneria ma un insieme di elementi e strumenti con i quali interagire per definire spazi, luoghi e ambiti non più stabili per dar corpo e vita a scenari innovativi, futuribili, sensoriali da interpretare, collegare, espandere e deformare in un incessante processo di riadattamento sistemico, semiotico, quindi percettivo, sensoriale. “Una visione di coincidenza tra oggetto, soggetto e sistema che “introduce a una nuova definizione della metropoli come grande giacimento genetico”, nel quale l’architettura e il design non sono altro che “deboli sistemi connettivi a un coacervo di presenze umane, di relazioni, di interessi, di scambi che riempiono totalmente lo spazio”3. Alla scala della microarchitettura, in tale direzione si riconducono le ricerche dei fratelli Bouroullec. La collezione Cloud per Kvadrat e Rocce per Brisfelden rappresentano altrettanti casi limite di artefatti le cui potenzialità combinatorie consentono la messa in scena di infinite esperienze sensoriali, visive e tattili, possibili attraverso un processo di decostruzione dello spazio che erode gli elementi delimitanti per dar vita a un’idea di network house aperta, libera, sempre disponibile ad assumere nuove configurazioni per aprirsi a nuovi usi attraverso superfici morbide, che si auto-organizzano secondo

02.03.04 [Un] Plug Building, Parigi. Progetto R&Sie Affascinata dai fenomeni del cambiamento, l’agenzia R&Sie di François Roche e Stéphanie Lavaux da tempo orienta le sue ricerche verso i concetti di distorsione, clonazione, innesto e ibridazione. Il processo di morphing genera le trasformazioni d’un edificio estrapolato dal suo contesto, abolendo i bipolarismi oggetto/soggetto, oggetto/territorio. Questo progetto deforma una struttura generica di uffici in una facciata produttrice d’elettricità con l’ impiego di energie rinnovabili, quali solare ed eolico. Avvolto da rigonfiamenti coperti di cellule fotovoltaiche e di lunghi “peli”, captatori termici, l’involucro dell’architettura si trasforma in membrana reattiva consentendo al tempo stesso il consumo e la produzione d’energia da cedere, affiancando e partecipando al sistema di alimentazione della rete EDF della Défence di Parigi. Questa produzione endogena permette all’edificio di essere connesso (plug) o disconnesso (unplug) alla rete elettrica urbana in funzione delle necessità e dei periodi dell’anno, innescando relazioni sensibili tra naturale e artificiale, tra architettura e territorio, tra uomo e ambiente.


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MARZO/ISD LAB

INTERIOR &INDUSTRIAL DESIGN 05

06 05 Cloud. Progetto Erwan e Ronan Bouroullec, produzione Kvadrat (Danimarca) La collezione Cloud per l’azienda danese Kvadrat nasce da un’idea di spazio aperto, libero, sempre disponibile ad assumere nuove configurazioni per aprirsi a nuovi usi. Il mattone tessile, morbido, si auto-organizza in una superficie continua che determina la sua crescita nello spazio secondo un andamento sensibile al contesto. Il modulo base del mattone non possiede una forma chiaramente percepibile di per sé. Il suo disegno nasce dalle possibilità di relazione contenute all’interno della sua stessa geometria. Una volta aggregato in un insieme stabile, il modulo base tende a perdere la sua identità singola per fondersi in un flusso continuo che ne restituisce una percezione indistinta e mutante. Il modulo è un sandwich di tessuto che contiene al suo interno uno strato morbido di schiuma a struttura cellulare con elevata

un andamento sensibile al contesto. Questi progetti, elaborati in forma di programma per la gestione dati, segnano una tappa nel processo di interconnessione uomo-tempo-spazio nel quale il software si intrufola permettendo di controllare in tempo reale i processi di formazione, trasformazione e crescita dell’architettura e di produrre, altrettanto rapidamente, dati sensibili in grado di generare spazi fluidi, permeabili, mutevoli. Una prassi del design che, in sostanza, si va orientando verso l’ideazione e la fabbricazione di artefatti mutanti “la cui destinazione primaria si allontana dal valore d’uso per abbracciare nuove forme di pratica dell’estetico”4 per le quali il consumatore, il destinatario ultimo dell’azione progettuale co-agisce, in un sistema di connessione a rete a-gerarchica, attraverso la personale interpretazione e segnalazione di bisogni latenti. E ciò che un tempo appariva impossibile, o quanto meno distante dai codici del design, oggi si materializza in prefigurazioni di scenari Distance Manufacturing on Demand e di e-manufacturing. In altre parole, di produzione rapida, flessibile, mutante, direttamente da dati elettronici condivisibili in rete. “Nokia. Connecting people”. È la mission dell’azienda finlandese che racchiude in questo

07 apparentemente semplice, tuttavia complesso slogan il futuro dei nuovi artefatti. Nokia connette le persone, connette stati d’animo, trasferisce emozioni ed esperienze. Piccoli oggetti nati per comunicare vocalmente, i mobile phone rappresentano, quanto le nuove architetture, quella nuova generazione di prodotti tesi a produrre soprattutto esperienze sensoriali. Esili e delicate interfacce spesse poco più di 8 millimetri, racchiudono in se mondi virtuali, ideali, accessibili attraverso sistemi videoguidati che utilizzano la superficie, l’interfaccia, quale mezzo regale di accesso al mondo possibile e impossibile. Seducenti artefatti al limite del palpabile che hanno delegato l’involucro a strumento per generare appartenenza tribale. Un concetto, quest’ultimo, esasperato dalla Apple con i device I-Mac, I-Pod, I-Phone, il cui impiego della prima persona associata all’oggetto pone al centro dell’universo la brand come sistema di appartenenza a una tribù instancabilmente interconnessa in cui si sperimenta la fusione tra la feeling economy (economia delle esperienze) e una “nuova funzionalità” (Carmagnola), un nuovo valore d’uso per il quale l’immaginario è la componente strutturale del prodotto, della sua desiderabilità, del suo essere strumento di connettività.


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Aegis Hypo-surface, Birmingham. Progetto dECOi Architects Testo didascalia: Il progetto Aegis Hypo-surface dei dECOi Architects per il teatro Hippodrome di Birmingham, il cui rivestimento in moduli al titanio semovibili collegati in rete a un sintetizzatore digitale in grado di processare suoni per tradurli in movimenti ritmici, esprime al meglio il senso di un architettura intesa quale esperienza percettiva globale che sfrutta la sua pelle per svelare la profondità inedita dei nuovi artefatti, la cui corporeità, quella fisicamente costruita, si dissolve per lasciar spazio a un’immaterialità relazionale tra interno ed esterno, tra oggetto e utente.

Ikon Tower, San Francisco. Progetto Kovac Architecture Costruita su un lotto di 7 metri per 18 metri in una zona molto urbanizzata di San Francisco, la Ikon Tower, progettata dallo studio australiano, si erge, in una siluette slanciata, tra due costruzioni basse. Concepita a partire dalla combinazione di fattori urbani, spaziali e digitali, la Ikon Tower, icona dell’era informatica, ospita gallerie, atelier, caffè e appartamenti distribuiti in una serie di cellule diverse tra loro per forma tuttavia accomunate da uno stesso concetto spaziale. La sua forma fluida e ondulata, denuncia uno stato potenziale di co-generazione della stessa architettura che si libera nello spazio dando vita a un complesso sistema interconnessioni tra esterno e interno, le cui vibrazioni, divisioni, pieghe e rigonfiamenti espresse dalla e sulla superficie dell’artefatto sono il risultato di variazioni algoritmiche basate su parametri variabili dall’utente finale.

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10 Bibliografia AA.VV., Architectures non standard, Editions du Centre Pompidou, Paris, 2003 Andrea Branzi, Modernità debole e diffusa, Skira, Milano, 2006. Fulvio Carmagnola, La fabbrica del desiderio, Lupetti, Milano, 2009. William Gibson, L’accademia dei sogni, Mondadori, Milano, 2004. Bruce Sterling, Il nuovo materialismo, in Abitare n° 482, Abitare, Milano, maggio 2008.

1 Andrea Branzi, Modernità debole e diffusa, Skira, Milano, 2006, p. 24. 2 A tal proposito, Fulvio Carmagnola, così argomenta: “[…] la ricerca della forma, lo studio della presenza e apparenza degli artefatti sono diventati parti integranti di una sorta di plusvalore immateriale dei prodotti”. Fulvio Carmagnola, La fabbrica del desiderio, Lupetti, Milano, 2009, p. 22. 3 Andrea Branzi, Modernità debole e diffusa, Skira, Milano, 2006, p. 24. 4 Fulvio Carmagnola, La fabbrica del desiderio, Lupetti, Milano, 2009, p. 26

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Rocce. Progetto Erwan e Ronan Bouroullec, produzione Brisfelden (Svizzera) Le Rocce descrivono un caso di architettura on demand dove la costruzione dello spazio rincorre le trasformazioni sempre più rapide dell’ambiente di lavoro e di vita. Il progetto funziona come un software: idealmente ciascuno è messo in grado di svolgere a proprio piacere le infinite elaborazioni di un sistema per costruire micro-architetture personalizzate che sembrano rifarsi una geologia contemporanea. Il software permette così di controllare i processi di formazione di questi elementi “marcatori” dello spazio alludendo – nei colori e nelle forme – ai processi di formazione delle rocce, ai movimenti e alle increspature della superficie terrestre. Il ricorso alle tecniche del controllo numerico permette di utilizzare le macchine come stampanti tridimensionali e costruire così forme con una presenza virtualmente già definita dello spazio.

Embryological Hous, concept. Progetto Greg Lynn FORM Testo didascalia: La Embryological House di Greg Lynn rappresenta una riflessione sul design e i sistemi genetici mutanti. È un ibrido che simula e si interroga, attraverso simulazioni algoritmiche, i processi di mutazione dello spazio domestico. Greg Lynn sviluppa un concetto di casa prefabbricata industriale ma evolutiva, fondata su una strategia di crescita biologica piuttosto che sull’impostazione costruttiva; una condizione che consente di modificare, per accumulo o per sottrazione, le connotazioni spaziali dell’artefatto in funzione dei desideri del cliente. Tutti gli elementi, i métablobs della casa, appartengono allo stesso morpho-spazio e qualsiasi loro modifica influisce su tutto l’insieme.

Alessi Teapot Il servizio da tè progettato dallo studio Kovac Architecture spazza via ogni possibile legame degli oggetti ai loro archetipi tipologici approdando a una sintesi formale che rasenta equilibrismi artistici per affermare la dimensione estetica dell’oggetto quale componente di connettività tra brand aziendale e cluster di consumatori.


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MARZO/ARTE

L’ARTE SI FA SPAZIO

ARCHITETTURE AL SERVIZIO DELLA CREATIVITA’ di Vincenzo Pietrogiovanni

Wave Ufo di Mariko Mori Progetto Marco Della Torre Dati dimensionali lunghezza 11.345 mm; larghezza 5.280 mm; altezza 4.930 mm

L’arte si fa spazio è stato un appuntamento fisso ogni martedì dello scorso novembre dopo il tramonto. Il ciclo di conferenze – presentato nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e curato da Davide Fabio Colaci e Angela Rui – ha avuto come obiettivo l’avvicinamento e la comprensione della dimensione progettuale che caratterizza l’arte contemporanea, grazie alla presenza, alla passione e al racconto di quattro giovani artisti italiani di fama internazionale: Marco Della Torre, Loris Cecchini, Paolo Rigamonti e Luca Pancrazzi. Non propriamente tutti artisti, ma architetti a servizio dell’arte, ricercatori liberi e instancabili, progettisti dell’immaginario che, attraverso la specificità del proprio lavoro, hanno descritto l’universo del fare arte attraverso il fare progetto. Sciogliere l’arcano delle modalità di contaminazione tra arte, progetto e architettura non è affare semplice, ma soprattutto non è affar nostro. Il territorio immaginifico dell’arte è, infatti, oggi un territorio troppo complesso per essere indagato in termini disciplinari, soprattutto perché strutturato da un carattere programmatico di alta complessità, capace di saldarsi in un’unità strategica autonoma del fare progetto. L’arte, nella sua universalità, è sempre più a suo agio nel confronto serrato con l’ambiente, con lo spazio che la accoglie e con quello che essa genera, maturando un’aurea prodotta dal codice comunicativo che iscrive nella cultura visuale contemporanea.

La sua natura, progettuale e oggettuale, si trasforma in un sistema che supera l’idea di pura visibilità dell’opera, e trasforma l’individuo in un “soggetto abitatore” che intercetta, elabora, conforma e interpreta lo spazio. Gli incontri si sono aperti con Marco della Torre e le cronache degli arte-fatti, da intendersi come amichevoli racconti delle sue esperienze con artisti del calibro di Claes Oldenburg, Mariko Mori, Carsten Höller, Vanessa Beecroft, Anish Kapoor, Marc Quinn, Giuseppe Penone. La sinergica collaborazione con ognuno di loro ha rivelato un modus operandi in cui l’architettura entra a servizio dell’arte riuscendo a costruire (mai termine è stato più preciso) una simbiotica trama narrativa con l’artista. Poi Loris Cecchini, con le narrazioni evanescenti della materia destrutturata, che attiva un universo immaginifico di altissimo valore estetizzante, ridisegnando i confini di una spazialità onirica e matericamente presente. Eccezione fatta per Paolo Rigamonti, con i sottili racconti dei dati in fibrillazione: architetto puro, ma votato a traslare tutte le strutture condivise del progetto nel ridisegno di mondi virtuali (e quindi reali) ad alto contenuto tecnologico, liberando la propria densità progettuale tra le pieghe di un universo costituito da flussi, informazioni e servizi. Infine l’ultimo incontro ha visto protagonista Luca Pancrazzi, con le lucide osservazioni di passaggi e paesaggi, sconfinati silenzi. Artista riflessivo, misurato, storico braccio destro di Alighiero Boetti, Luca lavora sullo sguardo come strumento d’indagine di un particolare stato di percezione della realtà: l’essere di passaggio. Ricostruisce modelli indeterminati di porzioni di città, interroga gli spazi interni e gli oggetti quotidiani che li compongono, sperimenta tecniche, mezzi e materiali e allestisce le proprie mostre in nome di una restituzione retinica e incerta della realtà contemporanea. Linguaggi di certo differenti i loro, che però intercettano all’unanimità la dimensione contemporanea attraverso la realtà spaziale. Con la curiosità, la nostra, di indagare quei caratteri della cultura del progetto che agendo liberata dai propri confini disciplinari, attinge all’universo artistico per rinnovarsi ed espandere il proprio patrimonio conoscitivo.


UX

01. Un’immagine del Panthéon parigino

IL PIACERE PERVERSO DELL’ARTE I francesi sono fatti un po’ così, se una cosa non va si rimboccano le maniche e la sistemano. È più o meno sulla base di questo principio che è nata l’UX, Urban Xperiment, organizzazione clandestina il cui scopo è riappropriarsi di luoghi storici e artistici di Parigi che l’amministrazione centrale ha trascurato, per farci le cose più improbabili. Dell’UX non si sa molto, se non che comprende tra le sue fila architetti, geologi, storici e restauratori professionisti, divisi in dipartimenti specializzati ed organizzati in sottoprogetti con obiettivi specifici. La Mexicaine de Perforation, per esempio, sfruttando i cunicoli e le catacombe della città, ha costruito nel sottosuolo parigino Les Arenes de Chaillot, un cinema di 400 mq con tanto di maxischermo, cucina e bar; lì per tutto il 2004 ha organizzato spettacoli teatrali, eventi e soprattutto le proiezioni della seconda edizione di Session Comoda, festival di cinema underground nel senso più letterale del termine (la prima edizione aveva avuto luogo, nell’estate 2003, direttamente nella sala della Cinémathèque Française, dove la Mexicaine si era introdotta con l’aiuto di un altro dipartimento dell’UX, la Mouse House, squadra tutta al femminile specializzata in infiltrazioni). Les Arenes de Chaillot sarebbe ancora operativo, se non fosse stato scoperto del tutto casualmente dalle autorità parigine, durante un’esercitazione nel sottosuolo della capitale. Il giorno stesso del sopralluogo, la Mexicaine smantellerà tutto, e Les Arenes de Chaillot scomparirà senza lasciare traccia. Dietro di loro, solo un biglietto: “non provate a cercarci”. Il più grande trionfo dell’UX si deve tuttavia agli Untergunther, la sezione che ha come scopo la ristrutturazione clandestina di beni artistici in rovina. È a loro che Parigi deve la rimessa in funzione

02. L’orologio clandestinamente rimesso in funzione dell’orologio Wagner del XIX secolo situato nella cupola del Panthéon, il cui meccanismo era stato sabotato negli anni Sessanta da un dipendente stufo di doverlo regolare ogni settimana. Per ripararlo, gli Untergunther hanno lavorato in clandestinità per un anno con un orologiaio professionista, Jean-Baptiste Viot, intrufolandosi nel Panthéon attraverso le fogne al calar della notte e uscendone all’alba, dopo aver nascosto gli attrezzi nel tunnel che corre lungo la cupola; con un clamoroso coup de théatre, rimetteranno in funzione l’orologio la notte del 24 dicembre 2006. Il loro gesto, smascherando l’incuria in cui l’orologio era stato tenuto, metterà in grave imbarazzo la direzione del Panthéon, che per tutta risposta trascinerà il gruppo in tribunale, accusandolo di aver “danneggiato” il patrimonio museale nazionale; poi, come se non bastasse, rimetterà l’orologio “a posto”, chiedendo ad un orologiaio di sabotarlo nuovamente. Inutile dire che, messo di fronte alla scelta tra un orologio legalmente tenuto in stato di semi abbandono e uno restaurato illegalmente ma funzionante, il tribunale opterà senza pensarci per la seconda ipotesi, scagionando gli Untergunther da ogni accusa e creando un precedente storico. Per celebrare i 25 anni di attività, lo scorso aprile il portavoce dell’UX Lazar Kunstmann ha pubblicato La Culture en clandestins. L’UX, con cui rompe il silenzio raccontando la genesi e le imprese del gruppo. Il principio di base è che, fintanto che l’organizzazione è l’unica fonte di informazione su se stessa, nascondersi non è necessario; l’arte resta un lusso per pochi, ma per quei pochi che sanno guadagnarselo e preservarlo. Un piacere perverso, da coltivare lontano da occhi indiscreti. Simona Ardito


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MARZO/ARTE

EDWARD HOPPER SCRUTATORE DEL MONDO LA LUCE E L’AMERICAN LIFE

EDWARD HOPPER FONDAZIONE ROMA MUSEO 16 FEBBRAIO / 13 GIUGNO 2010 Promossa dalla Fondazione Roma, cui si deve l’impulso iniziale alla realizzazione dell’evento, grazie all’iniziativa del Presidente Emmanuele Francesco Maria Emanuele, la mostra è prodotta con il Comune di Milano e Arthemisia Group (a cui si deve la grande campagna di comunicazione che ha coinvolto tutta la città). Il curatore è Carter Foster, conservatore del Whitney Museum, che ospitò varie mostre dell’artista dal 1920.

di Simona Merra

Morning Sun (Sole del mattino), 1952 Olio su tela, 71,44 x 101,93 cm Columbus Museum of Art, Ohio; acquisizione dal Howald Fund Study for Morning Sun (Studio per Sole del mattino), 1952 Conté crayon nera e grafite su carta; foglio 30,5 x 48,3 cm Whitney Museum of American Art, New York; lascito Josephine N. Hopper

“Quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa”. (E.H.) L’Italia lo aspettava da tempo e Roma, dopo Milano, ha deciso di celebrarlo degnamente con più di centossessanta opere. Ad accoglierci in mostra il foyer, con un allestimento scenografico in scala reale del bar di Nighthawks (Nottambuli, 1942), un’idea per esplorare ed essere protagonisti di una delle opere più famose di E. Hopper (1882-1967), di cui ne ritroviamo in mostra per la prima volta assoluta solo i disegni preparatori. “Calmi, silenti, stoici, luminosi, classici”. Così li definiva lo scrittore John Updike in un saggio del 1995, colpendo perfettamente il segno. Isolato nel suo mondo laconico e individualista, non aderì a nessuna corrente artistica, nonostante la sua lunga carriera abbia attraversato tutte le avanguardie più importanti fino alla pop art. Ripose nel lavoro tutte le sue risorse artistiche e intellettuali. La sua ricerca era improntata in “un lungo processo di gestazione mentale” come la definiva lui stesso. Le sette sezioni dedicate a Hopper, sono scandite cronologicamente e partono dalla formazione sino alla sala dedicata all’erotismo, il tutto differenziato da diversi colori e suoni che si sprigionano per le sale e

che rievocano la frenetica città di New York degli anni ‘20. Dedicatosi ampiamente all’acquaforte nei primi anni dieci, raggiunse la maturità artistica solo verso i quarant’anni quando decise di sposarsi con la pittrice Josephine Nivison, la quale diventò la sola musa ispiratrice per tutte le donne dei suoi quadri. Ma fu il viaggio in Europa e soprattutto a Parigi che Hopper finalizzò la sua arte divenendo il pittore della luce, andando in giro da vero voyeur, disegnava tutto ciò che lo colpiva, soprattutto uomini e donne parigine. Tornato a Ney York, cominciò ad indagare la città in interni di uffici, hall di alberghi, teatri e case fissando un tema a lui caro, quello della figura femminile nuda in stanze vuote. Anche qui, come negli esterni, la luce ha un ruolo fondamentale. L’inquietudine costante si riflette negli stati contemplativi dei soggetti, dove non è raccontata mai la fine di una storia, quello che importa è lo spazio che circonda il soggetto, il suo stato d’animo, come in Morning Sun del ‘52. Per la prima volta accanto a questo capolavoro vengono affiancati i disegni preparatori, testimoni del lungo processo di studio che Hopper eseguiva prima di arrivare all’opera definitiva. Questi bozzetti possono essere sfogliati grazie alla riproduzione in forma interattiva del suo taccuino, dove venivano


elencati in modo minuzioso, tutti gli appunti relativi alle tecniche e ai colori da utilizzare. Questo denota il motivo per il quale per lui dipingere costituisse una “dura fatica”. Lo sguardo di Hopper somiglia a una cinepresa che scruta un mondo che sta fuori e che non interagisce con chi lo osserva. I forti contrasti tra luce e ombra, cari al cinema in bianco e nero di quegli anni, lo aiutarono a divenire un’icona per molti registi come A. Hitchcock (Psyco, 1960). Il realismo malinconico e silenzioso di Hopper analizza la vita alienante della città, con i suoi riti e le sue abitudini, in un atteggiamento oscillante tra la più aspra critica e un’ottimistica celebrazione della quotidianità. Scrive nel ‘33: “La mia aspirazione in pittura è sempre stata la più esatta trascrizione possibile della mia più intima impressione della natura”. La sensazione di solitudine e di tristezza che pervade le sue opere, conferisce loro un valore universale e senza tempo. Scorrono capolavori come Summer Interior (1909), Second Story Sunlight (1960) o Girlie Show (1941), quest’ultimo mai esposto prima d’ora. Hopper non si spaccia per un narratore, si guarda attorno e si ferma quando una serie di elementi, che sono soprattutto legati alla fisicità degli oggetti colpiti dalla luce, gli rivela il tema su cui concentrare la propria attenzione. La luce del sole diventa

amica dei soggetti, l’unica in grado di dare risalto a quei volti spenti, tanto assopiti nei loro pensieri, da isolarsi completamente dal resto del mondo. L’arte di Hopper è espressione dell’esperienza umana. Di fronte all’imponente corpus di opere di questo grande pittore, lo spettatore ne rimane sempre e costantemente stregato. La mostra ha dato inoltre allo spettatore la possibilità di sperimentare in prima persona il tratto dell’artista: nella sala dedicata al processo creativo, vengono proiettati su dei fogli carta, alcuni dei disegni più famosi, in modo da disegnarci sopra. Anche la mostra a Milano ha seguito lo stesso intento. Per la prima volta l’Italia ha ospitato un’installazione interattiva e multimediale di Gustav Deutsch, noto film-maker e video artista austriaco (Vienna 1952). Voluta da Arthemisia, l’installazione dal titolo “Friday, 29 August 1952, 6 a.m., New York” ha dato la possibilità ai visitatori di immergersi nel mondo di Hopper grazie alla ricostruzione della scenografia raffigurata nel dipinto Morning Sun, entrando sul “set” e muovendosi a piacimento come attori di brevi rappresentazioni, filmate da una telecamera e proiettate su uno schermo.

Second Story Sunlight (Secondo piano al sole), 1960 Olio su tela, 101,92 x 127,48 cm Whitney Museum of American Art, New York; acquisito grazie ai fondi dei Friends of the Whitney Museum of American Art Self-Portrait (Autoritratto), 1925-1930 Olio su tela, 64,14 x 52,39 cm New York, Whitney Museum of American Art Lascito di Josephine Nivison Hopper


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LE ENERGIE RINNOVATE

CENTRALE FIES FACTORY, UNO SPAZIO DEMOCRATICAMENTE APERTO ALLE ARTI CONTEMPORANEE di Francesca Limongelli

Un processo creativo che nasce nel segno della democrazia. Una democrazia dello spazio, delle economie, dell’attenzione e della cura che il sistema produzione vi dedica. Sembra una sorta di isola felice quella della Centrale Fies Factory di Dro (Trento), luogo dedicato alla creazione e produzione delle arti contemporanee come performing art, exhibit, site specific, video e ogni forma di spettacolo dal vivo. La dirigono da circa otto anni in cinque e in cinque hanno creato una macchina funzionante capace di prendere energia tanto dalle giovani leve artistiche che la abitano tanto dallo stesso luogo: Centrale Fies Factory ha infatti casa proprio in una centrale idroelettrica sempre funzionante. La direzione artistica dell’intero progetto è affidata a Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi: tocca a loro scegliere gli artisti ai quali sono affidati in maniera triennale progetti produttivi in un’ottica appunto tutta democratica e ragionata a seconda di reali esigenze. Ciascun gruppo (al momento ne sostengono quattro) ha a disposizione diecimila euro all’anno, ma se per ragioni varie uno dei quattro un anno ha bisogno di 15mila, l’anno successivo ne avrà cinque. In un primo momento l’origine dei finanziamenti era tutta ministeriale, ma “con l’avvento del nuovo governo Berlusconi e con il blocco del patto Stato Regioni, abbiamo dovuto rinunciare a quel denaro. Sono quindi venuti in soccorso gli stanziamenti di Regione, Provincia e del Festival Drodesera”

ci spiega la Boninsegna. Gli artisti poi oltre al sostegno economico hanno a disposizione materiale d’attrezzeria, sala prove, una foresteria e un conto aperto alla Coop, dove poter quindi fare la spesa per poi cucinare. Una volta prodotto il lavoro – che sia uno spettacolo, una performance, una video installazione o altro – il supporto della Factory riguarda anche la comunicazione, la promozione e la vendita nei canali sia nazionali sia europei, con un attenzione specifica rivolta soprattutto ai festival. Ed è sempre Barbara Boninsegna a spiegarci le ragioni della loro impresa: “Il progetto è nato dalla voglia di dare una mossa al modello residenza in Italia. Solitamente sono intense: vieni a casa mia, ti do lo spazio, stai qui e poi mi fai lo spettacolo solitamente al mio festival, dopo il quale io non so più molto di te e del tuo lavoro. Volevamo quindi staccarci da questo. La nostra idea era quella di garantire agli artisti una piccola parte di produzione, accanto alla distribuzione e alla promozione e con la speranza di arrivare nel tempo a sostenere anche produzioni più grandi”.


GLI ARTISTI Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi, insieme con Virginia Sommadossi (responsabile della comunicazione e dell’ufficio stampa per la Centrale), scelgono gli artisti della loro Fies Factory attingendo al mondo della danza, del teatro o delle arti performative. Si tratta di “giovani conosciuti negli anni, seguiti nei festival o nelle loro attività. Solitamente provengono dalla Stoa, la Scuola per il movimento ritmico di Cesena o dalle selezioni del Premio Scenario o dal premio La Performance, come nel caso di Francesca Grilli” ci spiega sempre la direzione artistica, che tiene anche a precisare un altro punto: “Scegliamo in certi casi, per interesse verso il loro lavoro, di supportare anche altri gruppi che non appartengono alla Factory, ma che comunque seguiamo per la promozione e la comunicazione. Mediamente provengono dal Nord Est”. Venendo agli artisti, nel progetto in corso gli abitanti della Centrale sono i Dewey Dell, il Teatro Sotterraneo, i Pathosformel e la singola Francesca Grilli. I Dewey Dell, il cui nome è un omaggio a Faulkner, sono nati nel 2007 dall’unione fra i fratelli di casa Castellucci (i figli di Romeo tanto per intenderci ovvero i figli della Societas Raffaello Sanzio), Teodora, Agata, Demetrio, e i loro amico Eugenio Resta. Ciascuno ha propensioni e attitudini diverse: ci sono la danza, lo studio sul suono, il disegno luci e c’è Agata che fa la modella ed è esempio ideale della presenza scenica che la compagnia in questo momento ricerca. Ad oggi tra le loro produzioni ci sono À Elle Vide, Kin Keen King e Cinquanta Urlanti Quaranta Ruggenti Sessanta Stridenti.

Discorso diverso per i toscani del Teatro Sotterraneo (Sara Bonaventura, Iacopo Braca, Matteo Ceccarelli, Claudio Cirri). Il loro lavoro si muove nel segno dell’ironia e dell’impegno, con un’attenzione specifica tanto alla pratica attorale tanto alla scrittura. A dimostrarlo ci sono spettacoli e performance come Uno – Il Corpo del Condannato, lavoro di un solo performer sul tema della detenzione, o Se Hai Un Dubbio Chiama il 113, esito del workshop Legalità: Disinteresse e Partecipazione, inserito all’interno del progetto Piazza Libera organizzato dall’Associazione Libera di Don Ciotti con la Provincia di Firenze. Accanto a queste esperienze troviamo poi il gioco e la leggerezza di Post-it, de La cosa 1 o di Dies Irae_5 Episodi Intorno alla Fine della Specie. Sintesi di uno studio approfondito sullo spazio, sul corpo e sugli stessi materiali di scena, l’attività dei veneti Pathosformel si è resa manifesta al Premio Scenario 2007. Qui la formazione ha presentato il bellissimo La timidezza delle Ossa, spettacolo performance di poco più di quaranta minuti la cui “scenografia” è data da un unico telone bianco (che tanto ricorda le tele di Fontana) dietro il quale si muove un corpo umano, rivelando timidamente le sue ossa e il loro incontro “d’amore” con altre ossa. Infine Francesca Grilli, unica singola della Factory. Di formazione prettamente artistica, lavora principalmente su fotografia e video, attingendo alla memoria. La sua, quella della sua famiglia, quelle legata al suo vissuto, il tutto riletto fuori dalla quotidianità e in un tempo alternativo a quello reale.


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ESTER GROSSI

…AND WHEN THE DARKNESS COMES AROUND… di Roberta Fiorito

Occhioni grossi e brillanti, vocina suadente, piccoletta e determinata, questa è Ester Grossi, pittrice abruzzese residente a Bologna da parecchi anni, già dal 2008 promossa in Italia e all’estero dal MUSAE (museo urbano sperimentale d’arte emergente) e da ARTEINGENUA. Il suo lavoro? una sorta di work in progress intitolato Funeral. Le sue tele, attualmente in mostra fra Bari (presso la galleria Fabrica Fluxus) e Bologna (presso la galleria Galleria Spazio Gianni Testoni LA 2000+45) si dipanano come un racconto, una storia in cui le figure sono protagoniste. Ci si trova, come in uno specchio, faccia a faccia con sguardi persi, contriti nel dolore, distratti, rassegnati o malinconici, di fronte ad un caleidoscopio di espressioni umane congelate in un istante. Come protagonisti anonimi di un immaginato funerale, protagonisti alieni di una realtà provvisoria e fragile, questi figurini sfilano, si affiancano, su fasce di colori pieni che dividono orizzonti, linee essenziali che individuano spazi sospesi e surreali. Poi tutto ad un tratto il racconto si interrompe, si fa frammentato. Delle tele di un nero profondo alternano i ritratti diventando pause visive, somma di tutti i ricordi, di tutti i pensieri, spazio per la riflessione intima, umana e profonda di colui che guarda dal di qua, o dall’aldilà. Nel lavoro di Ester Grossi c’è la percezione di uno spazio “altro” che non è visivamente percepibile, c’è un forte potere di astrazione, c’è un elemento vagamente metafisico nel quale prevale la

solitudine, l’estraneità ma al tempo

stesso l’empatia, c’è un certo humor nero alternato ad elementi surreali, c’è l’eleganza delle linee e la sensualità. Un mix di contaminazioni e suggestioni provenienti dal cinema di David Lynch, dalle atmosfere del Realismo Magico e del gotico americano, che si fondono e diventano un tutt’uno con l’atmosfera sognante delle musiche che accompagnano le opere, composte ad hoc da His Clancyness, artista italo/canadese fra i più promettenti del panorama nazionale, ben presto raccolte in un LP.


ART/SERENA ZITO

CREATIVITÀ DIGITALE: I CIBERLAB LA RIAPPROPRIAZIONE DEGLI SPAZI URBANI ATTRAVERSO LE TECNOLIGIE INFORMATICHE

Immobili in disuso o palazzi abbandonati recuperati e adibiti ad attività socio-culturali. È questa la sfida della Regione Puglia che nell’ambito del programma “Bollenti Spiriti” ha cofinanziato tali ristrutturazioni. E questo è anche il caso del CiberLab, Laboratori Urbani di musica, arte e video di Valenzano, Cellamare e Capurso. Luoghi fisici e al contempo simbolici che coniugano la trasformazione degli spazi con il rinnovamento sociale e culturale. Spazi attraversati e tenuti insieme dal filo delle nuove tecnologie digitali. A parlarne per noi è Luigi Barberini, responsabile del CiberLab. Cosa sono i CiberLab? Sono luoghi in cui i giovani possono esprimere la propria creatività con il supporto delle tecnologie informatiche. Quali sono le finalità? Il progetto si articola su tre temi fondamentali (musica, arte e video) ai quali saranno applicate le tecnologie digitali. Per ognuno di questi temi sono stati strutturati dei laboratori nei comuni di Valenzano, Cellamare e Capurso dotati di attrezzature specifiche. I tre spazi saranno messi in rete, così come saranno create delle sinergie con gli altri Laboratori Urbani presenti sul territorio. Si tratta di un’iniziativa che potrà creare fermento culturale e far emergere il lato artistico e creativo presente nell’informatica. Qual è l’elemento che differenzia e caratterizza CiberLab rispetto agli altri Laboratori Urbani?

L’innovazione è soprattutto nel processo di coinvolgimento dei giovani e nella loro partecipazione alle attività creative. Importante, a tal riguardo, è l’incontro tra gli enti, le associazioni, le istituzioni locali e i giovani stessi. Sono stati pensati infatti dei forum aperti al territorio che daranno luogo a un processo di progettazione condivisa. In questo modo potranno essere strutturati dei servizi che rispondano alle reali esigenze del tessuto sociale indagato. Quali attività sono previste all’interno dei CiberLab? CiberLab è un progetto che coniuga attività formative, informative e ricreative. Questo significa che oltre a diffondere conoscenze e competenze in campo informatico e artistico, le attività prevedono servizi di orientamento, inserimento occupazionale e imprenditorialità, realizzazione di eventi, concorsi e mostre. Tra le attività a carattere formativo si segnalano corsi relativi alle information and communication tecnology, alla manipolazione digitale dei suoni, al montaggio video ed elaborazione di immagini, alle tecnologie applicate alle arti grafiche e laboratori pratici. I corsi di formazione prevedono la stesura di un project work e il coinvolgimento delle aziende. A livello informativo è prevista l’apertura di sportelli Informagiovani e, sul versante ricreativo, manifestazioni dettate dall’idea di offrire momenti di socializzazione e collaborazione tra giovani e mondo professionale. Quali corsi saranno avviati a breve? Sono in partenza i corsi di web design, web marketing, ECDL e CiberPlus. Particolarità di quest’ultimo è l’essere rivolto a ragazzi diversamente abili. L’obiettivo è trasmettere pratiche e competenze legate alle nuove tecnologie abbattendo le barriere digitali. Veronica Satalino

Il 26 Febbraio 2010 verranno inaugurati i tre nuovi Laboratori Urbani denominati Ciberlab (CiberMusica, CiberArte, CiberVideo) nati nei Comuni di Cellamare, Capurso e Valenzano grazie al finanziamento del Programma Bollenti Spiriti della Regione Puglia per le politiche giovanili. L’evento, che si terrà a partire dalle 21 nella sede di CiberMusica a Valenzano, proporrà un ritmo incalzante di performance artistiche ed esibizioni live tra cui: live-set e installazione interattiva dei MidiHands, live dei Modaxì, street-art e writing (Mestmove), visual (Monnox), happening fotografico. Info: www.ciberlab.it


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MIDIHANDS ADVANCED MUSIC INTERACTION

di Luigia Bottalico

In scena creatività e tecnologia. Le performance dei MidiHands creano la loro unicità nell’interazione diffusa tra suoni, pubblico e performer. In bilico tra tecnologia nell’epoca della sua riproducibilità artistica e tecnologia mediata dalla fisicità dell’artista. L’innovativo progetto nasce dalla creatività di menti e mani di un gruppo di artisti pugliesi che hanno implementato un’intrigante interfaccia: uno strumento musicale visivo ed elettroacustico, capace di contaminare diverse modalità di espressione e di coinvolgere attivamente gli spettatori nella realizzazione della performance. Più in dettaglio, la tecnologia MidiHands ha assunto la forma di tavoli interattivi e multimediali costituiti da superfici sensibili in grado di creare infinite sequenze di suoni e immagini attraverso il solo movimento delle mani nell’aria. Le “mani midi” producono un flusso integrato di synth, beat e visual, generando un immediato impatto estetico ed emotivo in chi osserva. MidiHands ibrida controlli digitali e analogici, connota in termini inevitabilmente liminari il confine tra fisicità e tecnologia, riporta il sound al suo significato primordiale di onda sonora. In un’epoca in cui il rapporto tra tecnologia e fruizione viene talvolta interpretato all’insegna del determinismo tecnologico da una parte e della dimensione umana dall’altra, un’interfaccia di questo tipo mette in scena il superamento di tale dualismo

esprimendosi nella polisensorialità digitalizzata delle espressioni creative, sonore, visive e fisiche del performer. Se l’artista diviene suono e ascolto, la performance esplode in tutte le sue potenzialità creative e comunicative nel momento in cui innesca un’interazione diretta fra artista e pubblico, opera d’arte e fruitore, uomo e macchina, generando un sentire condiviso fra i presenti. Il progetto aderisce alla filosofia della condivisione dei saperi e del social networking, implementando costantemente la propria tecnologia per ulteriori intenti artistici e non, ponendo al centro del proprio sviluppo l’ascolto dell’altro e delle sue sonorità. LIVE-SET MIDIHANDS Lo show MidiHands suggerisce un nuovo concept del live-set rivoluzionando le posizioni canoniche del palcoscenico nel momento in cui offre al producer la possibilità di diventare protagonista attivo dello spettacolo, autore-attore della propria arte. Parallelamente all’aspetto musicale e d’intrattenimento, il live esprime l’interazione corporea del performer con la tecnologia, rendendo la sua presenza fisica parte integrante del flusso di immagini ed onde sonore. Musicalmente il loro poliedrico sound mescola sonorità hip-hop, jazz, d’n’b ed elettroniche, alternando atmosfere mistiche a ritmi incalzanti. Il risultato è uno show multimediale coinvolgente sin dalla sua presentazione, sempre mutevole nelle forme e in grado di attivare un’esperienza unica per il pubblico


01 che, incredulo, vede, associa, sente e condivide l’energia della performance. INSTALL-AZIONE MIDIHANDS L’install-azione mette in scena la condivisione dell’interfaccia, generando un’esperienza di fruizione totale da parte del pubblico. Gli astanti diventano attori, parte integrante dello show, dell’ambiente sonoro e visivo che essi stessi contribuiscono a creare interagendo fisicamente con la tecnologia. Le istallazioni MidiHands, customizzabili ad hoc, prendono vita in contesti molteplici, dall’entertainment al marketing (viral, interactive e ambient), dall’edutainment alle mostre d’arte. DJ-SET Dj e Vj dalle mani midi: il dj-set dei MidiHands utilizza l’innovativa tecnologia del fingerofono come consolle per lanciare e mixare tracks, synth, beat. Il controller può inoltre inviare, contemporaneamente, immagini, video e luci, attivando ambienti comunicativi polisensoriali e sinestetici. BIO I MidiHands sono Gianfranco Fuso e Francesco Navach (producers e performers), Fernando Fatelli (project manager); al progetto partecipano Miriam Neglia (singer), Giulio Russo (MC). Hanno portato i loro live, dj-set ed install-azioni in numerosi eventi di particolare rilievo nazionale ed internazionale,

02 tra cui: Estate Romana all’Università La Sapienza di Roma, LPM 2007 (LivePerfomingMeeting), FestArte, Elettrowave Night, e, ancora, in un incredibile featuring con Mc Spex degli Asian Dub Foundation, MUV Festival, Creative Camp XIII Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, Plug’n’Play Reload – Festival Internazionale di Musica Elettronica (affiancando artisti del calibro di Jeff Mills, Carl Graig, Magda, AlexUnder, Shinedoe), sono stati headliner di CoopCorp Festival “Muestra de cultura digital y electrónica” (Girona-Barcellona), MArtelive Puglia, gruppo spalla nella tappa bolognese del tour degli Antipop Consortium. Reactable_CUBONATORE A partire dal Reactable (sviluppato dai ricercatori dell’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona) i MidiHands hanno realizzato un’interfaccia in grado di reagire allo spostamento di oggetti sulla sua superficie generando serie complessi di suoni e immagini. Il cubonatore permette l’interazione simultanea di più utenti. MidiHands_FINGEROFONO Ispirati dal più antico strumento elettronico, il Theremin, i MidiHands hanno implementato il progetto del Reactable costruendo un nuovo ed originale prototipo che, superando il touch-screen, permette di creare un’interazione audio-video attraverso il solo movimento delle “mani midi” nell’aria.

01. Reactable_ CUBONATORE 02. Midihands al festival “Muestra de cultura digital y electrónica” (Girona-Barcellona)


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LA MUSICA DEL CUSCINO

QUANDO L’INTIMITA’ DELLA CAMERETTA PUO’ RACCHIUDERE UN INTERO MONDO SONORO

di Beppe Recchia

I feel like I’m caught in the middle of time And this constant feeling of nostalgia for an age yet to come (Pete Shelley, Nostalgia, 1978) Dai primi accordi strimpellati su una chitarra alla spazzola come microfono immaginario per un pubblico al di là dello specchio, tutto in fondo comincia in una camera da letto. Ma quando un computer rende superfluo cercare compagnia per mettere su un gruppo, e quando uno strumento di informazione e propaganda anarchico come internet permette di invitare l’universo mondo a prestare orecchio, da quella camera non è più necessario uscire. A praticare l’arte di questa nuova musica da camera sono in molti e nel giro di poco più di un anno, alcuni di loro – quasi tutti americani - sembrano ritrovarsi in un sentire comune. Si chiamano Ducktails, Memory Tapes, Nite Jewel, Washed Out, Toro Y Moi, Neon Indian, Future Trends ma, come spesso accade, è il (sotto)genere che la critica attribuisce a fare maggiore fortuna. Sono due le etichette che sembrano meglio attagliarsi: la prima – coniata dal critico Dave Keenan di The Wire – è “hypnagogic pop”, a indicare una musica che, per quanto indubitabilmente melodica, conosce un modo di scrittura che assomiglia più allo stato di costante sorpresa e quasi allucinato del passaggio dalla

veglia al sonno; la seconda – frutto della riflessione più sociologica che musicale di Kev Kharas di The Quietus – è quella di glo-fi, a testimoniare non solo il livello quasi amatoriale delle produzioni, ma prima ancora il calore discreto che emanano. In entrambi casi, e seppur con qualche dovuta differenza, le definizioni colgono i tratti caratterizzanti dell’opera di questo manipolo di giovani sognatori. Innanzitutto, l’atteggiamento schivo – se non antisociale – dei protagonisti: sono rare le interviste come le uscite dal vivo (che senso avrebbe del resto?), al punto che le copertine dei loro dischi – polaroid sbiadite o sovraesposte, simbolismi popart interpretati con voluta imperizia, acquarelli acquatici - diventano i veri e propri manifesti della loro poetica. Non è forse una novità per la musica elettronica, ma sono i punti di riferimento musicale a cambiare questa volta: si parte dagli anni ’80, ripescando i suoni dei Korg e degli Akai ma anche le melodie eternamente adolescenziali dei New Order; complice però la giovane età di questi artisti, la prospettiva non è ironica nè didascalica. Il synthpop (e gli albori di quella che sarebbe diventata l’house music) è la nuova età dell’acquario, pura ed innocente come l’infanzia di chi oggi la reinventa svuotando i cassetti della memoria. A questo, infine, deve poi aggiungersi lo stile


02 volutamente naïf delle incisioni che nella qualità delle registrazioni sembra fare a meno tanto delle monocordi compressioni digitali della musica pop da alta classifica quanto dei robusti ma flessuosi toni bassi della musica elettronica. Qualcuno ha scritto che si tratta di musica che nasce dai laptop per essere suonata solo sui laptop. Bassa fedeltà, insomma, ma come sinonimo di dolcezza narcotica piuttosto che di rumore. Neon Indian – al secolo Alan Palomo – rappresenta sicuramente il lato più estroverso del movimento: a partire dalla gioiosa infantilità della copertina del suo album di debutto Psychic Chasms (Lefse 2009), le canzoni alternano l’intermezzo da carosello ad una dance più giocosa, da ballare rigorosamente in solitudine, fatta di suoni allucinati e incredibilmente fuori di moda che gigioneggiano sotto passaggi vocali quasi mormorati. L’effetto è insieme quello di un pomeriggio da tv dei ragazzi, immaginando i colori che l’apparecchio non trasmette, e lo shock visivo e sonoro dei primi videogiochi. È una memoria fatta meno di immagini e più di sensazioni quella di Ernest Greene, in arte Washed Out, che dopo aver tentato la strada dell’hip-hop, ha trovato finalmente la misura con i due e.p. Life Of Leisure (Mexican Summer, 2009) e High Times (Mirror Universe, 2009). A colpire in entrambi è un tappeto sonoro di derivazione un po’ electro e un

po’ funk svuotata però della tensione del primo e della carnalità del secondo. Il ricordo è qui statico, quasi contemplativo, come i pomeriggi passaggi davanti al sole ad occhi chiusi. Non è un caso che un altro eccellente critico, Simon Reynolds, abbia dovuto rispolverare l’abusata (e oggi quasi sgradevole) etichetta di new age. Una spanna sopra tutti però si pone Dayve Hawk, che sotto i diversi nomi di Memory Tapes, Memory Cassette e Weird Tapes, pone solide basi alla durevolezza del genere eppure già lo trascende. Il “ventottenne del New Jersey che preferisce fare il papà casalingo” (così recitano le scarne note bibliografiche) condivide dei colleghi la sensibilità fortemente nostalgica, rinunciando però al pressapochismo in sede di registrazione: Seek Magic (Something In Construction, 2009), uscito sotto il moniker di Memory Tapes, è un’opera complessa, meticolosamente stratificata – ogni canzone supera abbondantemente i quattro minuti ed è caldamente consigliato l’ascolto in cuffia eppure brillantemente leggera, che mette insieme i Beach Boys con Brian Eno, la psichedelia con il jangle pop; dove gli altri fanno schizzi, Hawk prepara mosaici su vetro. Le ultime parole che il disco consegna sono “it was a beautiful dream”, i quaranta minuti che lo hanno preceduto un documento in presa diretta di come il nostro cervello fabbrica quei sogni.

01. La cover di Sick Magic, debut album di Memory Tapes 02. Neon Indian


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LALI PUNA I SOVRANI DELL’INDIETRONICA DOPO SEI ANNI ARRIVA IL NUOVO ALBUM DELLA BAND DI VALERIE TREBELJAHR E MARKUS ACHER

di Michele Casella

LALI PUNA OUR INVENTIONS Morr Music Aprile 2010

Punto di riferimento primario per coloro che hanno assaporato le strade del pop nel nuovo millennio, i Lali Puna hanno rappresentato la sintesi perfetta del suono indie contaminato dalle intromissioni digitali. Intestataria di uno stile talmente personale da conquistare pletore di ascoltatori e schiere di giornalisti, la band tedesca è diventata l’emblema di quel necessario passo evolutivo verso l’inevitabile metamorfosi del suono alternative. Per anni, parlare di indietronica ha significato fare i conti con i pattern sonori di Scary World Theory, con la calda voce di Valerie Trebeljahr e con l’affascinante saudade di brani indimenticabili. Poi il silenzio, sei anni di attesa, rumors, interrogativi e tanti progetti paralleli. I Lali Puna scompaiono quando sono al vertice del loro percorso artistico, quando il successo sembra a portata di mano ed i festival di tutto il mondo li reclamano a gran voce. Bisogna aspettare l’aprile del 2010 per annunciare ufficialmente la pubblicazione del quarto album della band, un disco attesissimo e dunque ancor più complicato nella sua gestazione. Chiariamo subito, Our Inventions non rivoluziona il mondo sonoro dei Lali Puna, bensì ne calibra con ancor maggiore consapevolezza l’appartenenza al mondo dell’indie, riappropriandosi di quell’identità popular e mettendola a disposizione di una forma canzone

assolutamente indentitaria e personalissima. Il tutto anche a discapito di una facile fruizione o del singolo di grande impatto radiofonico. Our Inventions non è un album da ascoltare con una semplice radio a transistor, troppa attenzione ai micro-intrecci sonori, ai tiny-sound, ai tremori glitch; serve tempo per apprezzarne gli intarsi sonori, conoscerne le progressioni emotive, farsi ammaliare dalle coinvolgenti melodie. Remember possiede quello spirito di malinconica dolcezza tipico dei Lali Puna, fatto di pause e ripartenze, loop irresistibili e attese agrodolci. Col la title-track vengono in mente i tappeti sonori dei cLOUDDEAD, in un brano che insiste sulle rarefazioni ed i suoni cristallini, mentre Move On ha una partenza di chiara matrice tedesca che poi muta nella sognante liricità della Trebeljahr. Ancora una volta è proprio la voce della straordinaria interprete a marchiare queste dieci composizioni, non solo per il suo distintivo timbro chiaroscuro, ma soprattutto grazie alla capacità di passare da nenie carezzevoli (Hostile To Me) a momenti di intima serenità. Our Inventions non aggiunge molto al percorso artistico della band di Monaco, rinunciando alle digressioni più elettriche, alle chitarre alla Sonic Youth ed alle sperimentazioni più ardite, ma ci riconsegna una band di eccezionale eleganza e raffinatissimo songwriting.


GLI ALTRI ALBUM

a cura di Stefano Milella

Tridecoder (Morr Music, 1999) Sono gli anni della Berlino Est e della nascita della Morr Music, etichetta divenuta col tempo storica esponente dell’indiepop tedesco. Corre il 1999 ed esce Tridecoder, primo lavoro di Valerie Trebeljahr che, insieme al suo compagno di vita Markus Acher (Notwist), immerge l’ascoltatore in un percorso musicale dall’animo multiforme, tra le dolci melodie vocali e l’ensemble puramente elettronico pieno di pattern sincopati, glitch e pad atmosferici. Scary World Theory (Morr Music, 2001) Acclamato dalla critica quanto da Colin Greenwood (Radiohead), questo secondo capitolo segna nel 2001 l’esplosione della band nel panorama mondiale: organetti, glockespiel, batterie electrominimal e voci frammentate si uniscono ad una perfetta forma canzone squisitamente pop. Inoltre la title track e Satur-nine sono presenti nella colonna sonora del film Le Conseguenze dell’Amore. Faking the Books (Morr Music, 2004) Evoluzione. È questa la parola chiave di ciò che probabilmente è uno dei loro migliori album. Chitarre dal retrogusto indie-rock, bassi distorti e batterie serrate si sposano perfettamente con quella che è da sempre la formula dei Lali Puna.

I PROGETTI PARALLELI

a cura di Stefano Milella

13&God Ovvero Notwist & Themselves. Quest’album è una pietra miliare passata in sordina dove l’incontro tra l’elettronica melanconica della band di Monaco ed il duo californiano hip-hop alternativo di casa Anticon sembra così naturale da chiedersi perché non accadano più spesso matrimoni del genere. Brillante, irrequieto ed emozionante come pochi, l’album raggiunge vertici altissimi grazie all’animo irriverente di Doseone, rapper dal flow più unico che raro con picchi quasi “gremliniani”, che enfatizza e rende instabile il cantato di Markus Acher. Li rivedremo quest’anno con una nuova release.

Notwist Come può una band in 22 anni di solida ed inarrestabile carriera passare dal post-punk-grungemetal del primo album a pionieri dell’indietronica glitch, superando se stessi ad ogni prova con ben 6 album, numerosi Ep e ben 2 colonne sonore? Bene, l’ex quartetto, ormai trio, formato dai fratelli Acher e Martin Gretschmann (Console, Acid Pauli) inventano, sperimentano e costruiscono in ogni brano un nuovo capitolo fondamentale della musica indie europea, non ultima la prova con l’Andromeda Mega Express Orchestra con la quale hanno pubblicato l’ultimo The Devil, You & Me.

Tied & Tickled Trio Progetto parallelo dalla formazione in continua evoluzione, vede all’attivo ben 4 album e ormai 15 anni di carriera. Nato dall’incontro di Christoph Brandner (Lali Puna) e Markus Acher al cui seguito si sono uniti il fratello Micha Acher (Notwist) e vari musicisti membri di band targate Morr Music, il progetto si è sviluppato seguendo le vie strumentali del jazz contaminate da ritmiche dub, elettronica minimale e sezioni fiati di grande impatto musicale, elementi che spesso li hanno fatti accostare ai ben più noti Cinematic Orchestra (Ninja Tunes).

Ms. John Soda Micha Acher (Notwist) e la cantante Stefanie Böhm formano nel 2002 questo duo che per certi versi può esser accostato facilmente ai Lali Puna. In realtà, nonostante l’impronta tipicamente indietronica di casa Morr Music, questo progetto nasconde nei suoi 3 album all’attivo una sua vera identità: piena di un differente tipo di emozione si avvicina a passo felpato alla corrente “elettronica da cameretta”, ricca di momenti dal forte impatto emotivo e melodie fortemente pop.

Subtle Nonostante sia formato dai maggiori esponenti della storica etichetta alt. hip-hop Anticon, questo collettivo ha pubblicato 3 album e 4 Ep (uno per ogni stagione) per la Lex Records, branca della Warp. Dal genere indecifrabile (avant hip-hop, post-hop ecc) i Subtle sono caratterizzati da un continuo evolversi delle sonorità tra ritmi nervosi e flow scatenati, a volte in contrapposizione con cantati sulla falsariga del pop e melodie inquietanti. Da scoprire.


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LA BIBLIOTECA DESERTA DILATAZIONI SONORE E PAESAGGI ELETTRIFICATI

In una parola…“spaziale”. Ma i viaggi nello spazio non sono proprio a portata di chiunque, purtroppo. Con Travelling Without Gravity è questo che vi siete proposti di fare, portare un pezzettino di spazio sulla Terra? Nel nostro genere musicale il tema del viaggio ricorre spontaneamente. Sarà anche merito degli influssi di cui risentiamo: basti pensare a Young Team dei Mogwai che si apre con una composizione stupenda dal titolo Yes! I Am a Long Way From Home, ma anche alle ben più longeve sonorità di Music For Airports di Brian Eno. Fin dall’antichità l’uomo è stato spinto a costruire navi per viaggiare e per scoprire le bellezze del mondo. Lo Juggernaut è la nostra nave e Travelling Without Gravity è il nostro primo viaggio.

di Ilaria Lopez

Se amate lasciarvi trasportare da atmosfere cariche ed evocative, se volete capirci qualcosa di più sul nascente panorama musicale indipendente, allora La Biblioteca Deserta è quello che fa per voi. I componenti della band? Francesco Frediano Muolo (chitarra), Francesco Palmitessa (batteria), Adriano Petrosillo (basso e synth), Fabrizio Corbacio (chitarra e synth) e Massimo Nicosia (chitarra acustica, synth e basso). Noi di Pool li abbiamo intervistati per conoscerli un po’ meglio. Se doveste definire la vostra musica con tre aggettivi, quali usereste? Più che usare aggettivi, mi piace usare definizioni. Un paio di anni fa ne lessi una nella recensione dell’album degli Archive, You All Look The Same To Me, che mi colpì moltissimo e a cui mi sono sempre ispirato. Recitava: “Canzoni lunghissime, spazi immensi, e si ha la sensazione di assistere a qualcosa di eterno”. Nelle nostre composizioni ritroviamo questo tipo di approccio: si comincia a descrivere un luogo, un’inclinazione emotiva e si continua fino ad esaurirla completamente, senza curarsi molto del tempo che scorre. Ogni brano nasce, cresce e muore quando è il momento giusto. Potendo scegliere tre aggettivi per le vostre sonorità, userei “fluttuante”, “onirica” e un po’ “malinconica”.

Le vostre canzoni sono state definite anche simili a dei racconti, per come sono costruite. Magari al fondo di questa affermazione c’è una grande verità e c’è qualche scrittore che vi influenza particolarmente con i suoi contenuti e le sue tecniche narrative… Leggere un racconto è come percorrere una lunga strada, i cui scenari sono ben descritti e ricreati dalla nostra mente. La musica a nostro avviso è qualcosa di molto più ampio: ci si può ritrovare a passeggiare per deserti immensi, aspettare che il sole scenda dietro le dune e vagare persi fra i propri pensieri fino a realizzare la compiutezza del sogno quando ormai il sole dell’alba cresce enorme alle nostre spalle. Tutto questo per dire che raramente “scriviamo” a parole quello che poi verrà trasformato in musica e altrettanto difficilmente prendiamo spunto da qualcosa di già scritto. Prendiamo, per esempio, il brano Verso Casa. È lì che vorreste portare chi vi ascolta o in qualche altro luogo imprecisato? Beh, no. Verso Casa è un vero e proprio “altro” che dovrebbe ricondurre l’ascoltatore alla realtà ma con il ricordo di quel che è stato partire e viaggiare. Non a caso la melodia con cui si chiude l’album è una particolare trasposizione da pianoforte a chitarra classica di quello che è il tema d’apertura dell’album. Se doveste invece essere voi ad allontanarvi dai vostri luoghi cari, dove andreste? Destinazione da qualche parte sulla Terra o “verso l’infinito e oltre”? Viaggiare per il nord-europa potrebbe essere molto stimolante per aiutarci a comprendere quelle melodie che ci hanno spinto a intraprendere questo bellissimo viaggio e sicuramente darebbe a tutti noi nuovi spunti per future composizioni.


HIS CLANCYNESS DALLE CASSETTE A FUNERAL, IL CANTANTE DEI SETTLEFISH SI RACCONTA ATTRAVERSO LE SUE NUOVE IDENTITÀ SONORE. His Clancyness è l’ennesima incarnazione, questa volta in solitario, del canadese-bolognese Jonathan Clancy, che, nel (poco) tempo libero che gli rimane - dopo essere stato nei Settlefish, è ora il cantante degli ottimi A Classic Education -, incide canzoni dall’immaginario malinconico e suggestivo. Il suo primo lavoro, pubblicato in sole 50 copie nell’inconsueto formato cassetta dalla neonata Secret Furry Hole, si chiama “Hissometer Cassette”, ma la blogosfera (il sito americano Pitchfork in testa) si è accorta già da un po’ di lui. Ne abbiamo parlato con Jonathan. Può sembrare banale chiedertelo, ma come distingui ciò che può andare bene per il progetto solista His Clancyness da quello che invece può andare bene per A Classic Education? So che può sembrare tutto molto confuso, a volte vicino e pieno di incroci, però per me le cose sono molto chiare sin da subito. Sento benissimo quando un brano è per His Clancyness e allo stesso modo capisco bene quando una canzone voglio portarla agli A Classic Education. In questo caso non vedo l’ora di collaborare con gli altri del gruppo; è una sensazione bellissima portare le canzoni agli altri, vedere come si trasformano, prendon forza e vie diverse. Quando registro tutto da solo è un processo completamente diverso, molto intimo, vado un po’ in trans, i pezzi son sempre registrati in pochissimo tempo, un giorno al massimo. Non per poca cura, anzi, ma perchè me li immagino già finiti da subito in testa. La tua prolificità compositiva si accompagna anche a un modo quasi anarchico di distribuire la tua musica (mp3, cassette, ecc.). É una scelta?

Chiarisco subito, io amo il formato “album”. Rimane per me sempre l’oggetto con più fascino. I tempi sono però cambiati, le attese minori. Devo dire che con His Clancyness non ho voglia di vivere con costrizioni e ansie. Finisco un pezzo, bene, lo mando in giro, lo passo agli amici, e così via. Non voglio professionalizzare troppo la cosa, tanto ci sarà sempre, sono io da solo. Per la raccolta di dipinti di Ester Grossi, Funeral, hai composto per l’occasione le musiche. Come è nata questa collaborazione? Siamo molto amici e c’è una grande stima reciproca, Ester ha realizzato le copertine del mio altro gruppo A Classic Education. Credo che quando Ester ha pensato al progetto Funeral, uno dei suoi intenti fosse quello di “arrivare” alle persone attraverso vari livelli emotivi e artistici; la mia musica forse (spero) si presta. Trovo che i brani composti siano una estensione dei quadri, ho immaginato le tracce guardando le immagini, i testi raccontano dal mio punto di vista quello che succede. Ovviamente la musica è composta anche pensando alla sua fruizione e quindi all’uso nelle gallerie, in modo non troppo invadente ma con un senso di sospensione. Quali sono i tuoi prossimi progetti? A marzo uscirà una nuova cassetta che raccoglie un po’ di canzoni per la label americana Mirror Universe Tapes (Toro Y Moi, Washed Out), e sempre in primavera Secret Furry Hole dovrebbe far uscire un LP che raccoglie le canzoni scritte per il progetto con Ester Grossi. Poi spero anche un paio di split, uno con Wolther Goes Stranger sarebbe super! Beppe Recchia


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DISFUNZIONI MUSICALI PERCORSI SONORI FRA VINILE E DIGITALE

di Beppe Recchia e Michele Casella

FOUR TET There Is Love In You

BEACH HOUSE Teen Dream

(Domino)

(Bella Union)

Voto: 9/10

Voto: 8/10

Che cinque anni in musica (e specialmente per la musica di elettronica) siano una enormità lo dimostra il fatto che quando nel 2005 Kieran Hebden firmava il suo – sino a ieri – ultimo album (Everything Ecstatic) le espressioni IDM e folktronica avevano ancora il sapore della novità. Il ritorno con There Is Love In You dimostra altresì che il tempo non è passato invano e chi aveva già avuto modo lo scorso anno di apprezzare la collaborazione con il maestro del dubstep Burial noterà quanto attuali queste nove tracce suonano. La trasformazione – quasi banale, almeno sulla carta – è la (ri) scoperta del più semplice dei ritmi, il 4/4, che, applicato all’onnipresente gusto per la melodia un po’ malinconica, conferisce una urgenza ed una fisicità sinora quasi del tutto assente nella produzione Four Tet. I risultati sono eccellenti: l’accoppiata di Angel Echoes e Love Cry gioca, a colori e luminosità contrastanti, con i campionamenti la cui ripetizione stratifica, costruisce e distende l’andamento sempre più intenso delle due partiture; This Unfolds rilassa un ritmo quasi jazz con intarsi di chitarre e synth ipnotici prima di spiazzare con un ciabattare quasi electro; Plastic People è un dubstep carnale ma dal sorriso largo. Are you scared to get happy? (B.R.)

Ultimi esponenti di un rock americano inquieto e romantico che affonda le proprie radici nei Velvet Underground per passare attraverso le lezioni di Mazzy Star e Galaxy 500, i Beach House, giunti al terzo capitolo della loro discografia, aprono le finestre e lasciano entrare l’aria del pop. I canoni estetici del precedente “Devotion” – le tastiere avvolgenti e la voce densa di Victoria Legrand che si fanno ritmare dalle languide e liquide chitarre di Alex Scally – rimangono inalterati, ma le dinamiche si fanno più coraggiose (Zebra), addirittura solari (Walk In the Park), pescando tanto nel soul (Norway) quanto nel dreampop (10 Mile Stereo). Liberandosi finalmente dei pesanti paragoni, Teen Dream è, come il titolo suggerisce, l’inizio di una crescita che si annuncia di vero interesse. (B.R.)


DUM DUM GIRLS I Will Be

HAPPY BIRTHDAY Happy Birthday

(Sub Pop)

(Sub Pop)

Voto: 7/10

Voto: 6/10

Ammaliate dal rock anni ‘90 e molto vicine alle prime prove dei Raveonettes, le Dum Dum Girls mischiano fascinazioni anni ’60, appetibilità pop ed una fortissima impronta indie. Ruvide ed allo stesso tempo sensuali, le quattro ragazze di San Diego richiamano le melodie delle Veruca Salt costruendole su ritmiche ora concitate ed ora più romantiche. Immaginario vintage per una nuova girl gang. (M.C.)

Acidi e straordinariamente indie, gli Happy Birthday giocano con il pop, le voci in falsetto, le chitarre sbilenche ed il rock di un decennio fa. Perfino classici in Subliminal Message, i brani della band del Vermont mostrano un inaspettato retrogusto dolciastro che si incrocia con voci alla Royal Trux ed elettricità alla Pavement. Un viaggio indietro nel tempo che talvolta cede al deja-vu. (M.C.)

LIARS Sisterworld

MASSIVE ATTACK Heligoland

(Mute)

(Virgin)

Voto: 7/10

Voto: 6/10

Abituati a disfarsi di una idea con la stessa velocità con cui essa può diventare di moda, la reinvenzione in casa Liars, più che una necessità, è uno stile di vita. È così che il quinto album del trio capitanato da Angus Andrew – il primo interamente registrato negli States dai tempi dell’esordio – è un concept sul (soprav) vivere a Los Angeles, che aggiunge alla già ampia tavolozza musicale, anche il piano, gli archi e gli strumenti acustici, in ottima mostra tanto nei pezzi più d’atmosfera (Too Much Too Much) quanto in quelli più esplosivi (Scissor). Equidistante tanto dalla pura sperimentazione di Drum’s Not Dead, ma anche dall’accessibilità di Liars, Sisterworld mostra i Liars in fuga dal mondo, e anche un po’ da se stessi; ma ci regala il pezzo migliore che abbiano scritto in anni (Proud Evolution), e tanto almeno per ora può bastare. (B.R.)

A distanza di sette anni da 100th Window e - se si considera quel lavoro come a conti fatti un disco solista di Robert Del Naja – a undici da Mezzanine, il gruppo di Bristol ritorna con un lavoro che si farà sicuramente apprezzare per le atmosfere e la cura nei suoni, oltre che per la lunga di lista di collaborazioni. C’è la prevedibile (anche nel risultato) Martina TopleyBird ma anche l’inaspettato Guy Gurvey degli Elbow. I toni sono quasi ovunque sommessi e malinconici, anche gli episodi ragga (Splitting The Atom) sono un po’ pallida memoria dei Massive Attack che furono: reggono bene il confronto solo Pray For Rain, con Tunde Adebimpe dei Tv On The Radio, e la finale Atlas Air. Il disco si fa ascoltare per intero, e questo non è un male, ma è la personalità dei collaboratori che questa volta sopravanza la scrittura dei titolari del progetto. (B.R.)


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MARZO/LIBRI

SCASSATA DENTRO

POESIA ELETTRIFICATA PER INCROCI SENSORIALI di Michele Casella

Enzo Mansueto (Bari 1965), poeta, saggista, critico letterario e musicale, insegnante, nonché voce, agli inizi degli anni Ottanta della band post-punk The Skizo, ha mandato in libreria un oggetto poetico non identificato, un libro/cd da leggere/ascoltare, realizzato per la parte sonora da La Zona Braille, collettivo che impegna, con lo stesso Mansueto, il musicista Davide Viterbo e il cantautore Angelo Ruggiero, sodali di vecchia data. Umanità alienata, orizzonti metropolitani, televisione, squallori notturni, algido lirismo, per un libro poetico dall’impatto forte, riflessivo, disturbante, a tratti, e sin dal titolo, scabroso. Una sintesi estetica, che mette un punto provvisorio ad una lunga esperienza artistica e al contempo rimanda a nuove prospettive. Abbiamo incontrato l’autore. Scassata dentro rappresenta un punto di conclusione e di ripartenza in un lungo percorso artistico, un viaggio dai tratti visionari e interiori che poco risente delle metamorfosi socio-politiche, ma che si nutre di ossessioni ed esperienze molto personali. Come sei arrivato alla selezione dei testi per il volume? Trattandosi di un oggetto ibrido, da leggere/ ascoltare, la selezione dei testi ha obbedito innanzitutto al criterio della loro vocazione al sonoro. Alcuni componimenti erano già concepiti a monte per l’esecuzione multimediale, altri si prestavano ad essa. Alla fine è divenuta una sorta di microantologia di trent’anni di lirica performata,

dalla mia adolescenza post-punk con gli Skizo alle cose recenti. Ricuciti in un nuovo flusso, sonorizzati e incorniciati dalla prosa introduttiva, a cui tengo molto, quei testi risultano variati, re-mixati, ricreati. Tornando alla tua domanda, non direi che Scassata Dentro non risenta delle metamorfosi socio-politiche: anzi, interpreta chirurgicamente la mutazione antropologica in atto, sbattendoci in faccia, con violenza anarchica, il disastro. Il tuo immaginario si nutre di elementi artistici eterogenei altamente suggestivi, di torbide visioni e folgoranti epifanie, un intreccio di cultura pop, letteratura contemporanea, concettismo manierista e asciutto minimalismo. Quanto sei aperto alle contaminazioni provenienti dal panorama quotidiano? Totalmente: ogni espressione estetica non può che essere assolutamente contemporanea, non può che alimentarsi del “qui e adesso”. Persino quando, come capita nella mia scrittura, fa risuonare il canone della tradizione. In una logica da postproduzione, mi piace risemantizzare i diversi materiali che mi attraversano nel quotidiano, indipendentemente dalla loro presunta provenienza alta o bassa. Da quando, ragazzino, lessi il Finnegans Wake di Joyce ad alta voce, non sono più capace di fare altrimenti. Le tue liriche mostrano momenti di potente intimità introspettiva – spesso immersi in un


Si chiama Scassata Dentro il nuovo libro/ cd di Enzo Mansueto con La Zona Braille (Edizioni d’if, Napoli 2010, pp. 52 + cd, euro 16). Voce della band post-punk The Skizo (la loro avventura dei primi anni Ottanta è raccontata in Lumi di Punk, a cura di Philopat), Mansueto ha già pubblicato i libri poetici Descrizione di una Battaglia (Scheiwiller 1995) e Ultracorpi (Edizioni d’if, 2006).

che ha firmato la nota introduttiva al cd, è risultato determinante, soprattutto per quella speculazione che ausculta l’invadenza del massmediatico e la persistenza dell’emozione bellica nella società contemporanea. Un vero leit-motiv, da Ultracorpi a Scassata Dentro.

deflagrante rumore bianco – e squallidi scorci di vita quotidiana. Tutto ha il sapore della caducità e una vibrante tensione emotiva sembra sottendere all’intero impianto poetico. Quanto sopravvive di quella tensione da fine millennio, che i tuoi versi hanno attraversato? Sì, certi scenari millenaristici, apocalittici, da dopo bomba mi appartengono. Non so cosa sopravviva alla luce di quel paesaggio di rovine: ma il fatto stesso di mettersi a poetare, svelato il deserto del reale, è un segnale di oltrepassamento. La poesia, questa mia poesia elettrificata, è come un sondino spinto nel buio disorganico del mondo, alla ricerca delle tracce, mutate, di umanità nuova. Miti contemporanei sembrano esserti molto vicini in alcune liriche folgoranti: da Philip Dick a William Burroughs per arrivare a Carmelo Bene. Quanto conta nella tua carriera l’incontro (non solo letterario) con questi maestri? Dick e Bene sono riferimenti costanti della mia indagine. Come Beckett e Wittgenstein e, ovviamente, tantissimi altri. Per questo lavoro, poi, fondamentali sono state le opere di Ballard e di Iain Sinclair e in generale di una certa koinè della psicogeografia britannica. Ma anche alcuni film, come Stalker di Tarkovskij o The Last of England di Jarman o il mitico L’invasione degli Ultracorpi, o ancora, restando alla sci-fi delle origini, la prima serie televisiva The Quatermass Experiment. Tra gli amici di percorso, lo scambio con Gabriele Frasca,

Se nella scrittura mi sembra vi sia poco rock e ancor meno cultura indie, il lavoro con La Zona Braille si inserisce nella scena post-rock pur mantenendo una propria identità elettrica (postpunk?) e forse no wave. In che modo è nata la commistione fra i tuoi testi e le musiche del cd? In molteplici modi, tentando comunque di preservare la centralità strutturante del dettato poetico. L’idea di fondo era quella di riportare il poetare alle sue origini romanze, o arcaiche, quando la poesia era appunto un fatto sonoro e musicato. Gli incroci sensoriali prodotti dall’impatto dei new media sulla parola tipografata consentono oggi questo canale, futuribilmente remoto. Ad un livello più superficiale, alcune soluzioni sonore rimandano, grazie all’antico sodalizio con Davide Viterbo e Angelo Ruggiero, ad atmosfere postpunk. Mi piacerebbe ricordare che il disco che mi ha cambiato la vita, che mi ha riposizionato, a quattordici anni, l’impianto percettivo, è stato il Metal Box dei PiL. E quelle sensazioni le ho ritrovate nei Mogwai, negli Arab Strap, in certo dubstep oscuro e urbano o altro. Il nostro lavoro musicale è però più complesso, centrifugo, non riducibile a quelle suggestioni. L’evoluzione artistica di Davide Viterbo e la maestria cantautoriale di Angelo Ruggiero sono stati determinanti nel progetto di sonorizzazione della parola, ma immagino che la performance live sia ancora più congeniale al concept di Scassata dentro: come si evolverà adesso la collaborazione? Il live-set non sarà una mera trasposizione dal vivo delle tracce registrate. Non potrebbe esserlo. L’elemento visivo e gestuale del live impongono una ulteriore transcodificazione dei materiali, nonché l’aggregazione mobile dei contributi degli artisti e musicisti ospiti. Insomma, se questo è un libro da leggere con le orecchie, il live sarà una lettura da ascoltare col tatto. Mettiamola così.


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MARZO/LIBRI

RUM, MESC. & C.: UNA QUESTIONE DI STILE

HUNTER S. THOMPSON, IL CAVALIERE ISPIRATO E SELVAGGIO, TORNA SUGLI SCHERMI CON THE RUM DIARY DI BRUCE ROBINSON di Paola Merico

Una foto in bianco e nero datata 1960 mostra il profilo di un bravo ragazzo, capello corto, magliettina e shorts, pipa in bocca, sguardo concentrato sulla macchina da scrivere; in un’altra coeva lo stesso giovane appare in piedi accanto ad una Fiat 500 decapottabile. È Hunter Stockton Thompson, giornalista scrittore, reporter sportivo e politico, free lance e storico collaboratore di Rolling Stone. Nelle immagini ha poco più di vent’anni e non è ancora il beffardo fustigatore del potere, nè l’amaro e pirotecnico cronista del sogno americano, ma lavora al San Juan Daily News (Portorico), coltivando la segreta aspirazione di eguagliare Hemingway e Scott Fitzgerald. A tale epoca risale The Rum Diary primo romanzo edito, apertamente autobiografico, dal quale è tratto l’omonimo film di Bruce Robinson, previsto in uscita per il 2010 (con Jonny Depp, Giovanni Ribisi, Amber Heard, Aaron Eckhart, Richard Jenkins). La storia del giornalista Paul Kemp, ambientata a San Juan in una scalcinata redazione di incalliti bevitori, evoca il soggiorno caraibico in cui randagiava il giovane Thompson, inseguendo la sua vera ispirazione col sospetto che fosse altrove. Diviso tra la certezza di far carriera e l’oscuro presentimento che la vita sia una causa persa, Kemp ciondola con l’incarico di “capire

l’andazzo” nell’ultimo paradiso terrestre, di cui racconta la fine imminente per mano di affaristi senza scrupoli, nell’inconsapevolezza di una Portorico depressa. Vagando da una spiaggia incontaminata ad una festa di carnevale, si imbatte in qualche rissa e in un arresto. Guida a tavoletta una Fiat decapottabile, si lascia tentare dalla bionda focosa e disinibita fidanzata dell’amico, si sbraca sino all’alba con i compagni di sbronza, senza mai perdere il senso del disastro di cui è testimone. Nel contempo, scioglie nel rum i timori di un fallimento professionale. Guarda con distacco il direttore esaurito e i colleghi imbrattacarte, avidi del colpo grosso. Il colpo arriva per Kemp come un ricatto della sorte, con l’occasione di scrivere un depliant turistico destinato alla svendita del paradiso. Accetta l’offerta dietro congruo compenso, sebbene qualcosa gli sussurri nell’intimo che “un uomo può condurre una vita decente anche senza sputtanarsi”. La redazione chiude, i giornalisti si rivoltano, il direttore le prende di santa ragione. Fine della storia con rissa, morto e fuga verso l’aeroporto, in un passaggio che pare anticipare la rocambolesca corsa di Raoul Duke e Oscar Acosta in Fear and Loathing in Las Vegas (filmato da Terry Gilliam nel 1998). Kemp raccoglie i frutti della sua magra odissea


e si appresta a partire, dopo un ultimo bicchiere ed una amara riflessione sull’età. Thompson ha vent’anni, ma si dipinge come un trentenne al giro di boa, perché guardare avanti illude di avere ancora tempo per dribblare l’insuccesso. Hunter S. Thompson non ha eguagliato Hemingway né Scott Fitzgerald, ma ha segnato una nicchia nel New Journalism, inventando il giornalismo gonzo. Abile mix di fiction e vissuto, opinioni personali, partigianeria più contro che per. Con uno stile serrato e pirotecnico è diventato un autore cult, che Tom Wolfe ha definito il più grande autore comico di lingua inglese e che, a parere di taluni, trova un epigono in David Forster Wallace. Primo successo gonzo è Hell’s Angels del 1966, frutto di un anno tra l’elite dei motociclisti fuorilegge, chiuso con un pesante pestaggio dello stesso Thompson. Saggio-racconto di perdenti dediti ad un culto distruttivo perché incapaci di ribellione. Felice ispirazione in Fear and Loathing in Las Vegas, apparso in due puntate su Rolling Stones nel novembre 1971, e filmato nel 1998 da Terry Gilliam. Resoconto alterato dell’annuale corsa di moto fuoristrada e dune-buggy nel deserto, e della disturbante partecipazione alla conferenza nazionale antidroga, in cui i gonzi Duke ed Acosta si aggirano assumendo ogni droga possibile, per esigenze di stile e di dovere: rappresentare la Minaccia al summit indetto per combatterla. Paura e disgusto perché è l’era di Nixon, in cui il lungo bellissimo lampo degli anni ’60 si dissolve contro le illusioni mistiche della cultura lisergica, per scivolare nella tranquillante eroina, che mette fuori uso un’intera generazione. Better Than Sex. Confession of a Political Junkie del 1994 sublima la teoria del gonzismo che, in politica, è l’arte di schiacciare la gente giusta. Memorabile chiusura con He was a crow, necrologio per la morte di Nixon di cui H.S.T. sintetizza la figura personale e politica con termini invisi al Giornalismo Oggettivo: “swine of a man and jabbering dupe for a President”. Sino alle elezioni presidenziali del 2004 Thompson racconta trent’anni di storia sociale e politica USA con rabbia e disgusto, perché da

Altamont e dall’omicidio di Kennedy l’attacco al sogno americano è sempre dietro l’angolo e nel sogno stesso. La sottile linea rossa è anticipata in The Rum Diary (Cronache del Rum, Baldini Castoldi 2007), in cui il sogno si proietta nella sua declinazione rapace contro l’immobilismo indigeno. L’odissea di H.S.T., tutt’altro che magra, si chiude nel 2005 con un colpo di scena e di pistola nella casa di Wood Creek. Thompson ha quasi 70 ed è ancora un treno in corsa (circola un’inconsistente ipotesi di omicidio, mai verificata). In una spettacolare festa di congedo, curata dall’amico Jonny Depp, le ceneri del dr. Duke vengono sparate in cielo da una torre a forma di pugno, con due pollici che stringono un peyote. Ironico che l’avesse progettata lo stesso gonzo già nel 1978, forse proprio per l’ultima delle sue beffe. Read Beckett, Sartre, Camus, Genet and Kafka and you’ll say: “Life is absurd, the world is meaningless, and all of creation is insane. Read Hunter S. Thompson and you’ll say: “Life is absurd, the world is meaningless, and all of creation is insane -- cool.” (P.J. O’ Rourke , Rolling Stone, novembre 1996)


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MARZO/HI-TECH

BIOSHOCK 2 (PS3/X360/PC) LO SHOT-EM UP DAl RITMI JAZZ

ALLA CONSOLE di Daniele Raspanti

Può sembrare banale, ma non è facile giocare davanti ad un monitor (specie se grande e con un buon impianto audio) a giochi come Bioshock 2. Non perchè potrebbe portare ad alienazione, non perchè lascia a bocca aperta per la sua realizzazione tecnica, e neanche per la sola voglia di seguire tutto d’un fiato una trama ben studiata. Semplicemente (e scusate se può risultare riduttivo) per il continuo senso di angoscia e terrore che vi seguirà in ogni momento di questa esperienza videoludica. Non importa quale armamento possiate utilizzare o vi potreste procurare durante il gioco: continuerete ad andare avanti, tra una stanza e l’altra, semplicemente chiedendovi “cosa ci sarà dietro questa/o porta/ angolo?”, pronti a premere il tasto di fuoco o semplicemente a cercare rifugio. Un rumore che proviene alle vostre spalle, un continuo scrosciare dell’acqua che non vi fa capire da che parte arrivino i suoni che sentite: giocare a volume basso vi toglierà quella sensazione che solo un titolo ben fatto vi può dare, e solo quel “salto sulla sedia” che l’apparizione improvvisa di un abitante di Rapture o le urla che si avvicinano vi possono far fare. Con quel look anni ‘50 (riuscito e ben realizzato) che riprendono lo stile del primo capitolo, Bioshock 2 vi racconterà le vicende di Rapture, la città sott’acqua, 10 anni dopo il primo episodio. Questa volta nei panni del “robot” Big Daddy. Non ci sono più gli abitanti assueffatti dall’Adam (la preziosa “droga”

che permetteva di ricombinare e plasmare il proprio corpo e le proprie capacità), ormai disintossicati ma ancor più ostili e pazzi. Le “sorelline” (coloro che detengono le ultime gocce di Adam) ormai sono diventate poche e non è facile trovarle. E Rapture, dopo la morte del suo fondatore, è destinata a cadere. Atteso con impazienza dai fan e dalla stampa specializzata, il titolo 2K non smentisce le promesse. Un lavoro ottimo è stata fatto dagli oltre 400 “addetti ai lavori”, mostrando come i titoli di qualità esistono ancora. Visivamente accattivante e ben realizzato, mantiene gli ambienti cupi del primo capitolo, utilizzando giochi di luci ed ombre per rendere l’esperienza di gioco quanto più suggestiva. Il tutto “condito” con una colonna sonora di tutto rispetto, seguendo appunto l’impostazione da metà ‘900 che contraddistingue lo stile grafico: artisti come Django Reinhardt, Putney Dandridge, Fred Astaire, Billy Holiday e la sua orchestra (solo per citarne alcuni) vi accompagneranno nel passaggio tra un edificio e l’altro, come uscissero da impianti di filodiffusione. Da citare, per la cura maniacale, l’edizione per collezionisti di Bioshock 2, forse una delle migliori di tutti i tempi: in una scatola dalle generose dimensioni, troverete, oltre al gioco originale, anche un curatissimo artbook da 164 pagine, 2 poster in stile vintage con la grafica tipica di Rapture, un CD con la colonna sonora e (udite, udite) un vinile con i migliori pezzi jazz della colonna sonora!



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