"in Aspromonte" numero 13

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Direttore Antonella Italiano

inAspromonte

Settembre 2014 numero 013

«Sapevamo fin dall’inizio, noi di Anime Nere, che avremmo dovuto vedercela con un uccello, ma pensavamo, come tutti, che fosse Birdman dell’immenso Inarritu»

di GIOACCHINO CRIACO COSIMO SFRAMELI VINCENZO CARROZZA BRUNO S. LUCISANO pag. 22 - 23

Fregati da un piccione! La risposta

Ente Parco e Italia Nostra

Ombre e luci

Ritratti aspromontani

Natura in perfetto equilibrio Rizzu e suriciorbu di Leo Criaco pag. 14

Intervista a Paolo Canale

L’incendio fasullo

Peperoncino, l’intuizione

di Gianni Favasuli

di Bruno Criaco

di G. Bombino e C. De Giacomo pag. 2 - 3

Biodiversità

Tra i boschi

pag. 4

La nostra storia

I cinque Martiri di Gerace

pag. 12 - 13

L’inchiesta

S. Agata e Caraffa del Bianco

Un’Italia da liberare di Pino Macrì

pag. 18- 19

Le logge di Capo Zefirio di Domenico Stranieri

pag. 17

La riflessione

PENSIERI SENZA PAROLE di Antonella Italiano

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ai meno di un anno, ma stai appoggiata sulla spalla del papà, con lo sguardo lontano, sereno, l’espressione immobile. «Chissà a che pensa» «Ma pensa?» «Secondo me sta pensando». Già, ma come fai a pensare senza conoscere le parole, o con quelle poche che pronunci come fossero un suono. Mi sforzo di pensare senza parole, come te, di pensare a sentimenti, immagini, emozioni.

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La risposta - Italia Nostra

inAspromonte Settembre 2014 È un turbine privo di sfumature, quello che mi avvolge. Anche Strati fece un pensiero simile al tuo, lui che, con Tibi, Tascia e la piazzuola di Sant’Agata del Bianco, sentì il desiderio di eternizzare la sua adolescenza, cogliendola nel momento in cui i sogni erano intatti, proiettati in un futuro ancora intatto. Anche i grandi fanno un pensiero simile al tuo, ma sono in pochi e

PENSIERI SENZA PAROLE segue dalla prima di Antonella Italiano

di CARLO DE GIACOMO

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er chi, come me, ha iniziato l’impegno nel campo della tutela del patrimonio culturale durante gli anni 80, anni di disimpegno politico e sociale, la figura di Umberto Zanotti Bianco, conosciuta solo attraverso i suoi scritti, ha rappresentato quel momento ispiratore che ha poi condizionato quasi con una specie di vocazione, sul piano intellettuale e soprattutto morale, la mia vita per tutti gli anni a seguire.

solo a volte. Quando, cioè, arriva l’ora di osare, perché le parole potrebbero inibire, spiegare, frenare, e andare, lo imparerai, è sempre molto difficile. Si è sempre soli, nell’andare. Quando i grandi saranno attorniati da tanta gente, ricorderanno però quei passi coraggiosi, con grande nostalgia. Si chiederanno, riuscirei a rifarlo? Capiranno che hanno vissuto

UMBERTO ZANOTTI BIANCO

IL PROFETA

DISARMATO

Un profeta disarmato, Zanotti Bianco Ha scritto lo storico Alessandro Galante Garrone nella prefazione dei volumi del Carteggio pubblicati da Laterza nel 1987, che il tratto comune che lega la produzione epistolare di Zanotti Bianco pare essere «la necessità - di fronte a qualsiasi soperchieria autoritaria - di rompere il silenzio acquiescente, di gridare, di protestare: ma non per un atto di singola protesta bensì per il continuo, rettilineo insorgere della sua coscienza di fronte a ogni ingiustizia». A distanza di poco più di mezzo secolo dalla sua scomparsa, cosa scriverebbe Umberto Zanotti Bianco. Quali le sue denunce? Villaggi che per secoli avevano saputo crescere conservando l’impronta di una cultura dell’abitare tanto più nobile, quanto più povera sono sempre più spesso assediati da nuovi, anonimi quartieri, che cancellano dall’orizzonte campanili, torri, mura, alberi secolari. Monti, campagne, marine sono sempre meno il tesoro ed il respiro di tutti i cittadini e sempre più facile riserva di caccia di chi calpesta il bene comune per il proprio cieco profitto.

L’appello di Carlo De Giacomo, presidente regionale di Italia Nostra

Qualche numero Tra il 1990 ed il 2005 la superficie agricola utilizzata (SAU) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area più

tanti anni, magari soffrendo, solo perché quel tempo li stava preparando. A loro insaputa. E sarà stato quel coraggio ad aver fatto la differenza tra la loro vita e quella degli altri. E sarà stato sempre quello a cambiare con incredibile velocità il loro destino. Ma è il pensiero senza parole ad averli guidati, un brivido in un momento. Torneranno. Quando il chiasso si

farà troppo assordante, proveranno un’altra volta a pensare senza parole. Come te ora. Guarderanno la nostra montagna. La montagna che, ripulita da i se, i ma, i come, sarà di nuovo semplicemente montagna. E terra, e luce, e pioggia, e vento, e alberi, e uccelli, e fastidiosi ronzanti. Sarà odori. L’odore di diverso, fortissimo appena si scende dal

sottili sistemi che connettono e regolano i sistemi naturali. A questo non è seguita nessuna attività di restauro del territorio, anzi si è proseguito intervenendo per “riparare” a tali scempi con le stesse regole che avevano prodotto quei disastri aumentando l’artificializzazione del territorio.

popolazione che quindi associa al concetto di parco e riserva concetti positivi che determinano flussi turistici verso queste aree di eccellenza.

La policoltura contadina La Calabria, nella sua evoluzione millenaria, ha costituito un modello di grande originalità dove le popolazioni, sulla base dei dati naturali, hanno costruito una notevole varietà di habitat originari, offerti, oltre che dalla specifica configurazione orografica, dal profilo longitudinale che percorre così diversi contesti territoriali. Nel corso dell’età contemporanea lungo i fianchi delle valli, grazie a un’opera sistematica di terrazzamento, sono sorte vaste coltivazioni a vigneto che hanno reso più complesso il nostro paesaggio. Il dato più originale del paesaggio - che assume talora caratteri di superba bellezza nelle campagne è dato dalla policoltura contadina: vale a dire dalla combinazione di seminativi, viti, ulivi, alberi da frutto o ornamentali, siepi, boschi, macchie che formano un tutto armonioso. In queste aree la frantumazione della proprietà fondiaria ha dato luogo alla formazione di agricolture che sono molto più varie di quanto normalmente non si ritenga. Un paesaggio multiforme dominato dagli alberi da frutto, dai fichi, dagli ulivi, dalla vite, alternato dalla campagna, dalle «macchie», di varie dimensioni, dai seminativi nudi, dalle aree adibite a pascolo, dalle superfici a bosco. Insieme all’area della policoltura contadina, tuttavia hanno segnato profondamente il territorio le vaste colture specializzate degli ulivi - molto estese nella Piana di Gioia - e i giardini degli agrumi, soprattutto lungo le valli e le colline costiere dell’estrema Calabria Ultra.

Monti, marine, campagne sono sempre meno il tesoro e il respiro di tutti i cittadini

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Gli impianti eolici danneggiano la biodiversità, e il patrimonio culturale e naturale della regione

è trascurata e « laSi complessità

è « L’impegno continuare

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del nostro territorio, privilegiando solo l’esigenza dell’edilizia vasta della somma di Lazio e Abruzzo. Abbiamo consumato suolo agricolo per il 17% del suolo italico. La Calabria è la seconda, dopo la Liguria, nel triste primato con il 26%. Un dato, questo, che riassume il disastro relativo al consumo di suolo avvenuto, ovvero la progressiva erosione dello spazio agricolo e costiero che per dirla con il mai troppo compianto Antonio Cederna, sta scomparendo “sotto una repellente crosta di cemento e asfalto”. Gravissimi gli effetti sull’ambiente di questa cieca invasione del territorio. Il suolo, al centro degli equilibri ambientali, è luogo primario di garanzia per la biodiversità, per la qualità delle acque superficiali e profonde, per la regolazione di CO2 nell’atmosfera. La cementificazione dei terreni agricoli, per contro, comporta la copertura del suolo (soil sealing) con perdita spesso irreversibile delle funzioni ecologiche. Un solo esempio, il soil sealing accresce la probabilità di frane ed alluvioni, la cui frequenza e impatto crescono quando si alterano i già precari equilibri naturali. Particolarmente vulnerabili sono i nostri litorali già in continua erosione e rischi

Nella foto in primo piano Carlo De Giacomo, dietro l’immagine di Zanotti Bianco allagamento e per di più devastati dalla stolta, insistita distruzione delle dune costiere attraverso la invasiva cementificazione. Uno studio reso pubblico dalla Regione Calabria (giugno 2009) ha registrato 5210 abusi edilizi nei 700 Km di costa, di cui 54 all’interno di Aree Marine Protette, 421 in Siti d’Interesse Comunitario e 130 nelle Zone a Protezione Speciale. Il paesaggio racconta, scriveva qualche tempo fa Eugenio Turri, uno dei più importanti studiosi del paesaggio italiano. Il racconto del paesaggio è, in verità, il nostro racconto, che varia a seconda della nostra memoria, della nostra cultura, della nostra sensibilità nei confronti dei segni e delle tracce di cui è intessuto il territorio. Le immagini fisiche che si rincorrono lungo le nostre coste, sui nostri monti non sono più quelle di un’alternanza di spazi colmi di natura, ne vi è più traccia del colore della terra antica fra “colli digradanti dal balzo dei monti” (C. Alvaro, Memoria e vita, Falzea, R.C., 2001). Politiche ambientali fallimentari Ormai ci si trova di fronte ad un ambiente

in cui si coglie una generale appropriazione: insediamenti datati e databili a tempi recenti, un rincorrersi di difese tanto varie quanto inutili che a tratti hanno cambiato ampie spiagge in coste inaccessibili, una speculazione che ha offuscato dignità di siti e culture. Il paesaggio, oggi, si presenta con le campagne consumate da un incurabile esantema, in larga parte illegale, ed il “bello” resta sostanzialmente racchiuso nei centri storici e nei residui brandelli del paesaggio tradizionale. Queste prime sommarie considerazioni hanno un corollario: il giudizio fallimentare delle politiche ambientali attuate in Italia in quest’ultimo ventennio. Di quelle operate dallo Stato e di quelle operate da piccoli e grandi comuni: il fallimento di queste politiche ha prodotto un peggioramento della qualità della vita nel nostro Paese. Si è trascurata e sottovalutata la complessità del territorio privilegiando esclusivamente l’esigenza dell’attività edilizia. Si è costruito in ogni dove, si sono tagliati boschi, abbandonato colture, devastato spiagge e ignorato natura, sottosuolo ed i

l’opera di Zanotti, nello stesso spirito che la animava L’uso corretto del paesaggio Un paesaggio, quello calabro, che si caratterizza per l’accentuata varietà: dal sublime dello scenario montano alle morbide atmosfere del latifondo tipico delle zone a valle, con una successione estremamente mutevole di configurazioni naturali e impianti insediativi. Imprescindibile, dunque, la conservazione del paesaggio, da Santa Maria delle Armi ai terrazzi del Monte Poro, dalla Costa dei cedri alle antiche pietre della Sibaritide, per consentire alle generazioni future di fruire di un patrimonio di “bellezza”. Tutto ciò sarà possibile grazie ad un uso corretto del paesaggio rurale ed all’istituzione di nuove aree protette utilizzando razionalmente risorse naturali rispettando gli equilibri ecologici. Gestire correttamente sistemi ampi ed integrati di aree protette basati su principi ecologici e non su spinte estetiche ed emotive. A questa necessità, è bene chiarirlo, viene in soccorso anche l’economia. I territori antropizzati della Calabria sono spesso poco attraenti ed a causa delle loro scarse qualità ambientali determinano una richiesta di naturalità elevata tra la

Agire Nell’agosto dello scorso anno le associazioni ambientaliste calabresi hanno presentato le Osservazioni al Quadro Territoriale Regionale Paesaggistico (QTRP), tutt’ora senza risposta. Considerazioni riguardanti la possibilità di fruire delle risorse rinnovabili disponibili sul territorio, con modalità sempre compatibili con le vocazioni ambientali, paesistiche, socio-culturali ed economiche delle aree e dei luoghi della nostra Regione. Considerazioni che riguardano nello specifico i criteri di individuazione delle aree e dei siti non idonei alla costruzione di impianti da fonti rinnovabili. Dannosi impianti eolici Relativamente agli Impianti eolici reputiamo che sia stato sbagliato privilegiare lo sviluppo di energia rinnovabile elettrica intermittente (prodotta da eolico e fotovoltaico) rispetto ai settori della cogenerazione e dell’efficienza energetica, settori assai più vantaggiosi in termini economici, di minor impatto ambientale e di maggior ricaduta sulla nostra economia. In molti Paesi europei sono in corso ripensamenti anche drastici riguardo al sostegno alle rinnovabili elettriche a motivo del loro costo eccessivo in rapporto ai risultati. A ciò si aggiungano gli “effetti collaterali” negativi dei mastodontici impianti eolici che influiscono negativamente sulla qualità di vita di chi è costretto ad abitarci vicino ed è soggetto ad impatto acustico insopportabile (le mega torri arrivano a sforare i 100 decibel), danneggiano la biodiversità, degradano il patrimonio culturale, naturale, paesaggistico, dunque il turismo e l’immagine stessa della nostra regione. In questa ottica si deve procedere ad un radicale ridimensionamento dello sviluppo dell’eolico, insieme a una più rigorosa e restrittiva identificazione dei siti adatti a ospitarne gli impianti. Questa sarebbe una misura coerente considerando l’inaccettabile squilibrio tra costi e benefici della produzione di energia dal vento. Infatti, se da un lato è indubbio che la comparsa, lungo i crinali delle nostre colline o in luoghi adiacenti a monumenti di rilevanza storica e artistica, di enormi aerogeneratori provochi una radicale e irreversibile alterazione dei valori identitari, culturali, estetici del paesaggio italiano, dall’altra il loro contributo alla soluzione del problema energetico rimane e rimarrà irrilevante, (a tal proposito si chiede quale sia il livello di ventosità in Calabria in considerazione delle ore ritenute indispensabili, circa 2000, in Europa per rendere competitivi gli impianti eolici). La Costituzione stabilisce che il paesaggio è un bene primario. Di conseguenza crediamo che le sue alterazioni non dovrebbero essere negoziabili al di fuori di circoscritti motivi di eccezionale gravità e urgenza, nonché di comprovata utilità per l’intera comunità. A partire da Zanotti... Un sogno, forse, quello di “disegnare” il mondo come quello di fra Mauro di James Cowan* che dalla cella del suo monastero ascoltava e raccoglieva le informazioni da viaggiatori: «Ciò che aneliamo perlopiù ci sfugge. Viaggiamo fino all’estremità della Terra solo per scoprire che ciò che volevamo trovare se ne è andato un mese, un giorno, addirittura un minuto fa. Ci resta la sensazione che se solo ci fossimo decisi di agire un po’ prima avremmo scoperto quel che cercavamo». L’impegno è dunque continuare l’opera di Zanotti, nello stesso spirito che l’animava, uno spirito di integrità, di dedizione condizionato dal disinteresse e dal dovere. Uno spirito di amore e d’indignazione.


La risposta - Ente Parco fuoristrada, l’odore di lontano e di casa al contempo. Non mi sono mai spiegata se siano le bestie, le piante, l’umidità a darle questo particolare profumo. È l’insieme, la meravigliosa alchimia, da cui ogni tanto si stacca qualche fragranza insistente, che cambia di stagione in stagione, di ora in ora. Non è il mare, è la voce del vento. La montagna sarà suoni,

come fossero urla strazianti. O alberi che chiedono aiuto. Nel silenzio un passo, due. Ma non c’è nessuno nella strada accanto al bosco: sono ghiande che cadono mature, e divengono cibo per i maiali. La montagna sarà il peso del buio che rallenta i passi, mentre il freddo è tanto pungente che sembra fatto da centinaia di mani.

Torneranno. E tra i boschi verrà steso un tappeto di terra e foglie, si accenderanno le luci del cielo, gridaranno tutti gli aghi di pino. Poi scenderà il silenzio, e sui pensieri senza parole correranno vecchie e nuove emozioni. Pensieri. Come quelli che tu, piccolissima, già ci insegni: intimi, discreti; un susseguirsi di immagini incredibilmente leggere. Realtà. Senza sfumature, quelle

inAspromonte Settembre 2014 noiose alternative che la ragione antepone alle cose affinché la coscienza emetta per forza un giudizio. Nessun giudizio, stavolta, solo il grido degli aghi di pino. «E cosa dovrebbe pensare, poi, che ne sa della vita» «I bimbi dividono con molta attenzione e senza alcuno scrupolo il bello dal brutto, anche lei divide il mondo nella gioia e nel dolore». E serena ti addormenti sul tuo papà.

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SIAMO TERRA DI CONQUISTA di GIUSEPPE BOMBINO* La montagna non vuole più guardare... LA VILTÀ DI CHI RINUNCIA A DIFENDERE LA PROPRIA TERRA onta di una viltà può fare male, soprattutto quando questa arriva a rappresentare una realtà purtroppo tanto amara quanto vera e che per questo lacera lo spirito, dilania l’anima. La viltà in questione risiede nella continua e pesante assenza di carattere nella struttura sociale e politica del nostro territorio, che non riesce evidentemente a generare quel sano movimento di reazione e di riappropriazione della propria identità culturale. Troppe cose stanno accadendo sotto questo cielo d’Aspromonte perché la montagna stessa non s’indigni e cerchi l’astrazione da sé e dal molle peso di quegli uomini che dovrebbero ammirarne il disegno, valorizzarne la sostanza, esaltare il racconto di come Ella appare ed è. Allora sarebbe forse meglio per tutti noi non vedere la miseria di certa umanità, non fiutare l’inganno, non sentire l’infamia, non toccare il vittimismo e inghiottire la mediocrità che contrasta con la grandiosità di questa terra. Si assiste ormai da tempo al paradosso secondo il quale la nostra gente avvolta dal torpore e dall’incoscienza ha deciso di mettersi da parte rispetto alla trama delle sua stessa storia, ha deciso cioè di farsi raccontare da altri, di farsi dire cosa essa sia, cosa è giusto, cosa è sbagliato, cosa può esser conveniente persino per i propri figli.

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LA NOSTRA CULTURA IN MANO A GIULLARI E SALTIMBANCHI i è riusciti, così, nell’impossibile intento di annoverare come arte ciò che universalmente non appare tale; in Italia i manipolatori dell’informazione hanno reso ufficiale l’intellettualismo di un gruppo di irregolari, col rischio di veder finire la cultura come monopolio esclusivo di chi la esercita per diletto e ornamento. Altri ancora, come il signor Vittorio Sgarbi, non sono che urlatori da palcoscenico e avventurieri, abili solo a costruire teorie aggressive e prepotenti tentativi di estorsione di ciò che ci appartiene per cultura e per diritto, snobbando la nostra terra, sciorinando sciocchi sarcasmi e ipotizzando la “sfiga” dei nostri Bronzi nell’essersi trovati a naufragare lungo le nostre coste. Ebbene un motivo deve pur esserci stato se la rotta di quella nave (ammesso che i due guerrieri non siano stati realizzati proprio da noi; sarebbe interessante, a tal proposito, “staccarsi” dalle facili e più comode conclusioni cui si è giunti per spiegare il ritrovamento delle statue e compiere lo sforzo di una ricostruzione dell’intera vicenda su base filologica) si compiva presso quel tracciato e non teneva conto da allora di Rimini o Riccione. Certo il signor Sgarbi conosce fin troppo bene la storia per non testimoniare che fummo in quei secoli culla e centro del sapere, mentre altrove si cominciava solo a sillabare qualche parola e ci si dedicava a muovere la clava. Il rischio è che la cultura nelle mani incerte di questi “agitatori” perda la sua universale utilità e diventi arma di combattimento e di cattiva educazione. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica è in crisi e impegna tutte le forze della società per salvarla da una grave malattia. E noi avremmo chiamato costoro a salvare la nostra cultura? E il dramma della cultura

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italiana, io penso, cominciò proprio da qui …. per non aver compreso che la cultura è forse un’altra cosa, è quel un segno dei tempi, quell’orientamento dell’intelligenza collettiva che attraverso il genio del singolo universalizza il pensiero di molti. Ecco che comici e cabarettisti possono assurgere a modelli culturali da esportazione. Pensate che equivoco! A nessuno è mai venuto in mente che questi personaggi, la cui fortuna gli deriva dall’aver stretto in mano il mestolo delle pubbliche emozioni, non sono che parolieri portati dal tempo e dalle stagioni. Il dilettantismo crede di farla franca in un ambiente che non chiede nulla alla cultura se non qualche pausa, un canzonetta e un sorso d’acqua. E se la civile opinione continuerà ad assoggettarsi a tali parlatori da palcoscenico finiremo col credere che la cultura sia uno spettacolo da oratorio o da fiera, con finti scrittori, finti poeti, finti letterati. L’incultura e il disprezzo della cultura, viene dagli stessi che si pretendono colti. Dare l’idea d’una cultura asservita e spinta dall’ingranaggio di un palinsesto è un fenomeno che potremmo dire di “culturismo intellettuale”, e cioè il bisogno che hanno certi movimenti d’opinione di contraffare le emozioni per ridurle a qualche cosa di pronto e di immediatamente disponibile per l’uso. L’INCAPACITÀ DI ESSERE COSCIENZA LIBERA on vorremmo assistere alla perdita del senso e della ragione delle cose, perché se ciò avvenisse finirebbe anche il pensiero. L’agonia del pensiero uccide le prospettive e il divenire delle cose. Se niente ha un seguito, niente è consequenziale. La logica vitale del pensiero implica lucidità e azione mirata a sostenere, attraverso solide impalcature culturali, ciò che

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ammiriamo. La Montagna preferisce non vedere per alleviare le pene e le piaghe di una società vittima di se stessa, delle proprie limitazioni e della mancata affezione all’unitarietà di quel genio che la compose. La poesia, la grazia, la bellezza sono certo virtù dell’animo umano, ciò che ci unisce ed eleva a Dio, al nostro Redentore. Per questo l’arte si esprime nelle sue diverse forme e per questo è espressione e sostanziazione del pensiero, di quella visione che non s’è ancora realizzata. Quando una società smetterà di cercare, comporre e realizzare il bello, l’opera d’arte, smetterà anche di vivere, perché non avrà pensieri da esprimere e

realizzare attraverso la sua unicità. Ricerchiamo queste doti, promuoviamo l’arte, le nostre opere migliori, esprimiamo quel bello che ci elevò dalla materia all’esser pensiero puro e primordiale. Promuoviamo con azione sistematica i migliori modelli e le migliori prassi educativo-culturali. Sosteniamo il senso civico, prima che una cultura della legalità basata sul virtuosismo idealistico privo di conseguenze, pur se corredato di innumerevoli convegni e simposi. Serve la formazione di coscienze libere, prima che di ideologie, che permetta la crescita di una consapevolezza collettiva. Allora un giorno, forse, sapremo meritare lo sguardo fiero della nostra Montagna. IL GIOCO AL MASSACRO E IL TEATRO DELLA RETORICA erti personaggi, poi, vorrebbero insegnarci, da qualche cattedra, come dovremmo comportarci, come essere retti, onesti, leali. Di qui, poi, l’atroce inganno e la folle e dolorosa teoria secondo la quale saremmo tutti criminali e nessuna salvezza ci spetterebbe; ci dovremmo dunque consegnare nelle mani di chi non ha neanche provato a celare il suo disprezzo per noi. E dovremmo lasciar parlare di noi, far muovere le nostre azioni, guardando a questi tragici avvoltoi e ipocriti saltimbanchi? Verrebbe da pensare che queste siano facili strategie per soggiogare un popolo già represso dal profondo senso di inadeguatezza che l’ha pervaso, senso che, per certi aspetti e certe postume reazioni, potrebbe avere ragion d’essere. Resta però un dubbio: a chi la convenienza di tale feroce gioco? A chi converrebbe mai annientare l’identità di un popolo, dissacrarne lo spirito, deturparne il volto? La risposta è consequenziale. Non è forse più facile sottomettere un popolo stigma-

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tizzandolo, dicendo che nulla di buono gli deriva, privarlo, dunque, della sua cultura o peggio ancora mettendola in ridicolo? Nel tempo ne abbiamo sentite di belle e qualcuno poi ha voluto raggiungere la più alta vetta dell’intelletto, spiegandoci che i nostri beni, opere d’arte d’inestimabile valore, sarebbero giunti a noi per pura casualità. Guardando alle recenti vicende expo-sitive nazionali, ci siamo fatti anche un’idea di tutto questo zelo e di tanto affanno. La svalutazione rende più facile la predazione e la trasformazione, così si diviene il luogo dove prendere ciò che serve, dove posizionare ciò che altrove non si vuole. Ma noi parlammo una lingua assai antica, vedemmo sorgere civiltà e passare i secoli, fummo centro del mediterraneo e, per questo, preziosi alleati dei grandi popoli della storia. Spandemmo saggezza e poesia, facemmo scuola e filosofia, costruimmo il pensiero, elaborammo teoremi matematici e discutemmo sulle prime forme di democrazia. E allora per quanto tempo ancora faremo finta di non saper chi siamo e subiremo l’infamia e la calunnia? La montagna che conserva la memoria dei tempi e lo spirito che compose la storia, Ella, non si riconosce in ciò che avviene, non vuole più guardare lo spettacolo orribile dell’indifferenza, dell’ignoranza e il trionfo della retorica, che s’accosta alle cose quando ormai l’irreparabile è accaduto. La svendita di quel genio che fu principio creatore e regolatore, non può essere mortificato dalla contingenza, non possiamo più rinunciare ai nostri simboli, a noi stessi. La Montagna non vuole più vedere, sentire, ingoiare i facili slogan di protesta, le fiaccolate, i sit-in, per molti solo vetrine smentite da una quotidianità vissuta in un’immobilità avvilente e imbarazzante. La montagna non vuole più vedere, vuole coltivare il suo silenzio, in attesa di ritornare a quel pensiero che il suo talento costruì nei millenni e perfezionò attraverso i suoi giusti figli.

* presidente Ente Parco Nazionale d’Aspromonte


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Ombre e luci

inAspromonte Settembre 2014

L’INCENDIO FASULLO Concetta Labate e l’imbroglio architettato da alcuni compaesani per strapparle le terre in Aspromonte

«Appena mi capita a tiro Agnese Carbone, giuro che me la sbrano! Farò un sol boccone di quella scrofa! Glieli strapperò tutti, uno per uno, i capelli che ha sopra quella diabolica testolina. Neanche se si facesse monaca di clausura riuscirebbe a sfuggire alla mia collera, alla mia vendetta!» di GIANNI FAVASULI

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oncetta Labate, una malconcia, tribolata vecchietta - il cui marito, emigrato in Argentina, a San Miguel de Tucuman, da oltre mezzo secolo, irretito da una perra, da una fascinosa baldracca, non aveva fatto più ritorno a casa strillava come una bagnarota. Come una donna di quelle, cioè, che non di rado, da Bagnara, venivano in paese a vendere, bandendo a squarciagola, la loro merce: lupini salati, stoccafisso e alici in salamoia. «Focu! Focu pemmu vi brùscja! Smaliditti! Smaliditti!» «Santo Iddio! Comare Concetta, cosa vi succede? Perché strillate così tanto?» le domandò, preoccupata, Agata Grillo, affacciandosi da una finestra. «Comare, lasciatemi perdere... oggi ho il dente avvelenato! Appena mi capita a tiro Agnese Carbone, giuro che me la sbrano! Farò un sol boccone di quella scrofa! Glieli strapperò tutti, uno per uno, i capelli che ha sopra quella diabolica testolina. Neanche se si facesse monaca di clausura riuscirebbe a sfuggire alla mia collera, alla mia vendetta!» ringhiò Concetta, mentre raccoglieva, nervosamente, nell’orto, dei panni che aveva steso ad asciugare.

«Santo Iddio! Cosa vi ha potuto combinare di così grave? Nessuno penserebbe mai che quell’orfanella, così mingherlina e così riservata, sia capace di fare del male» le replicò Agata. Dubbiosa. «Anch’io pensavo la stessa cosa! Anch’io ero convinta che quella fosse una santarellina, un angelo di bontà calato dal cielo! Dopo quello che mi ha combinato, dopo quello che ha architettato ai miei danni, però, una vipera, al suo confronto, arrossirebbe dalla vergogna!» le rispose Concetta, mentre sistemava in una bacinella, in una bagnalòra, i panni già raccolti. «Comare, adesso mi avete incuriosita! Vi prego, dunque, di accomodarvi a casa mia e di raccontarmi tutto. Dalla a alla zeta. A questo punto, non potete più tenermi sulle spine» la incitò Agata. Concetta, dal canto suo, anche perché sentiva il bisogno urgente di parlare, di confidarsi con qualcuno, non si fece ripetere l’invito. Lasciò perdere i panni e, con prontezza, andò incontro alla vicina che, nel frattempo, le aveva spalancato la porta. «Dio come sono nervosa! L’ira mi fa fremere tutta quanta. Dalla testa ai piedi!» esordì Concetta. Poi, dopo essersi seduta in un cantuccio, non riuscendo più a contenersi, si sfogò: «Comare, ascoltate cosa mi ha combinato quella crapa zzira

e poi giudicherete se non ho dei buoni motivi per essere così nera, così nervosa. Circa un mese fa, facendo anche finta di essere contrita ed amareggiata, quella puttagnòla venne a trovarmi dicendomi che un furioso incendio scoppiato sull’Aspromonte aveva devastato la terra che io, dopo l’alluvione, avevo concesso alla sua famiglia a mezzadria. Comare, a quel punto, per saperne di più, mandai subito a chiamare quel vecchio scimunito di Peppino Squillaci, il caposquadra della forestale. Il quale, effettivamente, con mia grande pena, mi confermò per filo e per segno tutto ciò che quella rachitica mi aveva raccontato. Figuratevi il mio dolore! Figuratevi come sono rimasta spiantata! Comare, quella terra era la mia gallina dalle uova d’oro! La Famiglia Carbone, annualmente, era tenuta a corrispondermi la metà del raccolto delle ulive, delle noci e delle castagne che quel fondo produceva. Ero rovinata... sul lastrico! Sennonché quella sera stessa, anche il padre di quella

vermitùra, di quella lumaca rinsecchita, con un’aria mesta, da funerale, facci senza scornu, si presentò a casa mia con il cappello in mano. Quel Giuda, dopo le condoglianze, dopo avere cercato inutilmente di consolarmi, poco prima d’andarsene, giurando e spergiurando che lo faceva solo per l’amicizia ed il rispetto che da sempre legano le nostre famiglie; giurando e spergiurando che lo faceva solo per soccorrermi, per non lasciarmi con una mano davanti e l’altra di dietro, disse che era disposto a comprarla quella terra ormai andata in malora. A patto che non pretendessi più di tanto. Quel fondo, gli sarebbe servito come luogo di ricetto per le bestie, per la mandria di capre che ancora accudisce su quelle montagne. Così, qualche settimana dopo, ci recammo dal notaio Pignataro ed io, per un milione di lire, gli cedetti quel mio vasto possedimento» concluse Concetta, bevendo, d’un fiato, il bicchierino di rosolio che Agata, nel frattempo, le aveva offerto. «Comare, a questo punto, francamente, non riesco a capacitarmi; non riesco a capire il motivo per cui vi lamentate. Stando così le cose, secondo me, avete fatto un buon affare. Santo Iddio, a cosa vi sarebbero potuto mai più servire tutti quegli alberi ridotti in cenere?» la rincuorò Agata. Dubbiosa più che mai. «Affare? Ma quale affare? Comare Agata, ancora non avete capito? L’incendio, la mia terra non l’aveva manco sfiorata! Era scoppiato mille miglia più lontano. Stamattina, in chiesa, durante la messa, Gnura Micuzza ‘a Paucciàna mi ha aperto gli occhi! Mi ha raccontato dell’intrallazzo ordito ai miei danni da quei bastàsi! Comare, l’affare l’hanno fatto quei due smaliditti ‘mbrogghjùni! Sapendomi sola, senza figli; sicuri che nessuno dei miei pusillanimi, cacarùni parenti, sarebbe intervenuto in mia difesa; certi che alla mia età, con tutti i malanni che mi porto ncoddu, sul groppone, non sarei stata in grado di recarmi fra quelle timpe per rendermi conto di come stavano realmente le cose, in combutta con quello sciancato, con quel cornutàzzu di Peppino Squillaci, mi hanno buggerata... fricàta! Comare, non avete ancora capito che ho venduto la mia gallina dalle uova d’oro per un piatto di lenticchie? Dio come sono nervosa! Focu! Focu meu!» riprese a strepitare, affranta, Concetta, chiedendo, nel frattempo, un bicchiere d’acqua fresca. Per mitigare, povera tapina, le fiamme di quella fornace, di quella carcàra, che, internamente, le divoravano anche l’anima.


Ombre e luci

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L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri

SAPER PERDERE

Sangue di carabinieri, poliziotti, magistrati, politici, pubblici funzionari, commercianti, imprenditori, operai, medici, sacerdoti, impiegati, pastori, artigiani, contadini; di testimoni e passanti, di donne e bambini, o di nemici eccellenti, come Tripodi, Salsone e Marino di COSIMO SFRAMELI

É

trascurato al dovere dell’obbedifficile stabile se nella stoFINITO IL DOPOGUERRA dienza, amici verso cui è mancata la ria della ‘ndrangheta siano fiducia, amici che non sono serviti stati più i morti e gli arrestati UNA SCIA DI SANGUE E più; sia per punirli per una possibile o gli interrogativi senza risposta. Da NESSUN PRIGIONERO indiretta responsabilità sia perché Santo Scidone di Palmi a ‘Ntoni avrebbero potuto, un domani, penMacrì di Siderno, da Mico Tripodo «I SICARI DELL’ONORATA sare di vendicarsi. di Reggio Calabria a Peppe Nirta di SOCIETÁ, OLTRE AI NEMICI, I sistemi per “regolare i conti” sono San Luca, da Mommo Piromalli della Piana di Gioia Tauro a Paolo HANNO AMMAZZATO GLI AMICI; rimasti pressappoco gli stessi. Meno lupare e più mitragliette, diDe Stefano di Reggio Calabria, il AMICI TRASFORMATI IN sinformazione e delegittimazione, copione che avvolge ogni avveniPOSSIBILI RIVALI, AMICI CHE ma agguati sempre e dovunque, fin mento importante legato alla HANNO TRASCURATO AL dentro le celle del carcere o le ‘ndrangheta non è mai mutato. stanze dell’ospedale. Sono caduti Dietro il sangue e le manette si sono DOVERE DELL’OBBEDIENZA, picciotti, boss e aspiranti boss, e intrecciati legami oscuri, interessi tutta una serie di personaggi proveinconfessabili e un’infinità di va- AMICI VERSO CUI É MANCATA nienti da quel livello delle complirianti del doppio gioco. LA FIDUCIA, AMICI CHE NON cità usurate e andate a male. La ‘ndrangheta, quella armata, a SONO SERVITI PIÚ, SIA PER Complicità regionali, certo, ma furia di omicidi e falsa politica, è molto forti su scala nazionale e instata usata proprio dalla Politica e PUNIRLI PER UNA POSSIBILE ternazionale. Sorge spontanea una favorita dai poteri economici e fi- INDIRETTA RESPONSABILITÁ, domanda, con chi sarebbe stata la nanziari. Dubbi e misteri. E per ad‘ndrangheta in questo mezzo sedentrarci in un ginepraio tanto SIA PERCHÉ, UN DOMANI, SI colo? E chi sarebbe stato con la intricato occorrono competenza e SAREBBERO VENDICATI» ‘ndrangheta? Ed è risaputo che la perseveranza. Nel rivedere la storia vocazione dei “don” è stata per tradizione governativa. organica della ‘ndrangheta con fatti e retroscena, con la summa A fiancheggiare coloro che sono stati detentori delle leve del di documenti, rapporti di carabinieri e polizia, sentenze, relacomando, con scambio di favori e appoggi (per esempio, eletzioni parlamentari, studi, ricerche, articoli di stampa, viene fuori torali contro giudiziari) per ricavare vantaggi patrimoniali una feroce autocritica, di cui soltanto una minoranza dei cala(droga, riciclaggio, affari). bresi è apparentemente capace, che descrive Reggio Calabria, Sono stati i diretti testimoni a parlarne, con la loro voce, le loro e la sua provincia, come una terra infelice, sfruttata, invidiata, passioni e le loro angosce. Hanno detto di ‘ndrangheta in modi minata dall’opportunismo e dalla viltà, percorsa da contiguità diversi. In forma polifonica, orchestrata su più voci, ciascuna e tradimenti, dove rispettare le leggi e il proprio ruolo potrebbe con il suo timbro e la sua verità. Una polifonia, un’eccellenza diventare eroismo. del nostro tempo, che ha riprodotto una sorta di frammentazione A partire dal dopoguerra, è scolata una gran scia di sangue, seproprio dove i diversi punti di vista si sono incrociati e sovrapgnando in maniera ininterrotta un periodo storico nevralgico. posti, scontrati e discostati, in una lotta mai costante, a volte Sangue di carabinieri, poliziotti, magistrati, politici, pubblici energica, altre fiacca e in taluni momenti dormiente, spesso bafunzionari, commercianti, imprenditori, operai, medici, sacersata su una erronea comprensione del fenomeno, rendendone doti, impiegati, pastori, artigiani, contadini; di testimoni e pasinsoliti e intriganti i cedimenti e i sacrifici dei servitori dello santi, di donne e bambini, o di nemici eccellenti, come Tripodi, Stato, nonché di tutte le donne e gli uomini che ogni giorno Salsone e Marino. Con un’incognita in più: il dover distinguere hanno riscattato il proprio onore con il dovere, l’impegno, il sale vittime innocenti da quelle non del tutto o per nulla innocenti. crificio e la dignità del proprio lavoro perché si costruisse una I sicari dell’Onorata società, oltre ai nemici, hanno ammazzato società più giusta. gli amici; amici trasformati in possibili rivali, amici che hanno

IL MISANTROPO

A

fine estate estate, abbiamo deciso: siamo Misantropi, pertanto stiamo per fondare un movimento. Possono iscriversi tutti. Caso unico tra le associazioni, per iscriversi, basta non mandare l’adesione, e non partecipare alla vita di sezione. Infatti si decade se si frequentano assiduamente le riunioni, che riescono quando sono deserte. Perché la nostra non è una associazione ma una dissociazione.

Nutriamo il più assoluto disinteresse, sentiamo di essere asociali, con una voglia pazzesca di fuggire lontano, nel bosco o sulla spiaggia. A stento riusciamo a mantenere un rapporto normale con la gente; godiamo appena si allontanano, ci annoiano i discorsi consueti di lavoro e di dopolavoro, di traffico, di sport, meteorologi e merceologici. Quando non c’è nessuno attorno a noi, ci sentiamo finalmente in buona compagnia. Siamo stanchi di amicizie fondate sul nulla o sulla piccola utilità; siamo stanchi di rapporti superficiali, cerimoniosi e stupidi; siamo stanchi di rapporti di lavoro e di società fondati sulla falsità, le prevaricazioni e la cialtroneria, i pettegolezzi da comare di ballatoio. Vediamo gente che si affanna a scambiarsi favori, a stringere rapporti d’affari. Vediamo piccoli arrivisti, arrampicatori del nulla, che stanno lì a rigurgitare trame per salire sulle spalle del prossimo. Individui in malafede che vivono per fregare il prossimo, boicottare, tagliare le gambe, impedire, per sentirsi potenti. E peggio ancora i loro servetti a strascico. Vediamo persone impiegare metà della loro vita a esercitare l’invidia professionale, a passarsi la voce, contro i colleghi. Il Misantropo non spreca neanche un istante della sua vita per demolire le cose altrui, preferisce costruire per sé o per l’Amico sconosciuto, preferisce creare piuttosto che impegnarsi a demolire le cose altrui. Purtroppo, in società non importa essere né valere ma curare le pubbliche relazioni. Il Misantropo è persona seria,

Girolamo Piromalli

Filippo Salsone

schiena dritta e mani libere; non insegue le persone e alla forza del gruppo preferisce la saldezza della coscienza. Diceva un Misantropo: «Chi ha il suo pensiero veramente rivolto alle cose che sono, non ha neppure il tempo di guardare in basso alle faccende degli uomini e di riempirsi d’invidia e di ostilità litigando con loro». Bravo Platone. Misantropi di tutto il mondo uniamoci. Ma senza avvicinarci. C.S.


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Aspromonte orientale

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Francesco Stilo. Un’intera esistenza trascorsa ad allevare capre e a far laureare i suoi sette figli

IL PASTORE AFRICOTU

Massaro Ciccio è considerato uno degli allevatori più abili, ha costruito i suoi jazzi sempre esposti al sole e al riparo dalla Tramontana. Così insegnavano i nostri avi di VINCENZO STRANIERI*

«

Uno dei pochi ad essere tornato ad Africo vecchio dopo l’alluvione del 1951

«

É un uomo libero solo a contatto con la natura, nel continuo dialogo con essa Nella foto in alto a sinistra la tosatura delle pecore. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia. Nella foto in alto a destra da sinistra: Santoro Criaco, Francesco Stilo e sua moglia Domenica Criaco, Andrea Stilo, figlio di Francesco. Africo vecchio, 13 giugno 1976, altopiano Milia In basso F. Stilo (foto di Enzo Penna)

*

Università della Calabria Cultore di Etnologia E-mail vincenzostranieri@hotmail.com

F

rancesco Stilo, classe 1926, è uno dei pochi pastori di Africo vecchio ad essere tornato a vivere nel luogo d’origine dopo la disastrosa alluvione dell’ottobre 1951. Alluvione che ha comportato la fondazione di Africo nuovo, nei pressi di Capo Bruzzano. É un vero resistente, il nostro pastore di lattare, fiero della sua scelta, affezionato alle sue bestie forse ancor più che agli uomini. Ma non è un uomo isolato, un eremita che intende sfuggire al cosiddetto mutare dei tempi. Egli conosce quanto avviene fuori dal suo raggio d’azione lavorativo, lo sanno i suoi sette figli (tre maschi e quattro femmine, tutti laureati), che ha voluto mandare a scuola a tutti i costi, sacrificandosi assieme alla moglie perché potessero realizzarsi. E dunque, oltre che pastore, il nostro è stato/è un ottimo educatore, una guida sicura, soprattutto sul piano etico, della propria famiglia. Conosco alcuni dei suoi sette figli, che vivono l’essere professionisti con dedizione ed umiltà. Nessuno di loro ha dimenticato il mondo dell’infanzia e, di tanto in tanto, ritornano nei luoghi d’origine, per rivivere, quasi in un processo catartico, il tempo dell’infanzia trascorso sul dorso di una montagna sì aspra ma capace d’infondere valori profondi e sicurezza interiore.

Francesco Stilo è stato un ottimo educatore, ma senza il peso della vendetta sociale, perché egli non maledice il proprio destino, non lo considera ingrato. È una saggezza antica, la sua, che lo posiziona nell’alveo di un equilibrio socio-culturale in grado di proteggerlo dall’invettiva gratuita e dalle facili lamentele.

SAGGEZZA ANTICA Stilo è stato un ottimo educatore, ma senza il peso della vendetta sociale, perché egli non maledice il proprio destino, non lo considera ingrato Occhi e carnagione chiari, lineamenti scolpiti dalla fatica e dal sole, corporatura media ed atletica, quasi una leggerezza dell’essere, oltre che del fisico. Desta meraviglia ed anche un po’ d’invidia quest’uomo che non teme la solitudine ed i rumori della notte che avvolgono le montagne di Africo vecchio e di Casalinuovo, ormai preda di sterpi e rovi. Non è difficile immaginare lo sgomento delle due popolazioni mon-

tane, in quell’ottobre del 1951, quando la devastante alluvione procurò gravi danni ad uomini e cose. Un diluvio universale in cui la chiesa divenne il solo rifugio per combattere la malasorte, nel mentre la preghiera si trasformava in disperata implorazione, riconoscimento del limite umano. In quell’ottobre del 1951 successe mezzo finimondo, piovve incessantemente per alcuni giorni, la montagna franò in più punti portando con sé uomini, animali e case a fondo valle. Questo è il modo più drammatico per ritrovarsi senza alcun bene materiale, senza un tetto dove ripararsi e soprattutto senza un’attività lavorativa né riconoscimento del limite umano. E alla violenza della natura s’aggiunse quella politica, e le due comunità, da secoli abbarbicate sui crinali della montagna, si trovarono, loro malgrado, a vivere prima in baracche di legno e poi in piccole e mal costruite case popolari poste a poche centinaia di metri dal mare Ionio (Capo Bruzzano), detto u Capu. Facile immaginare lo sgomento, intuire la paura per un futuro che appariva lontano ed incerto, ma la violenza era stata perpetrata e bisognava cominciare daccapo. E il passato? Bisognava negarne l’esistenza? Allontanarlo dai pensieri? Violenza su violenza, dunque, e assieme alla cultura di un popolo s’era persa la vasta gamma di mestieri che ne sorreggeva l’economia, pur se povera e fragile. Ed è proprio a questo che Francesco Stilo ha voluto opporsi: alla perdita della sua identità umana e lavorativa, facendo di tutto per rimanere pastore. Alcuni figli di Francesco Stilo vivono con le rispettive famiglie a Reggio Calabria, mentre Costantino, farmacista per circa vent’anni a Caraffa del Bianco, si è da poco trasferito in Puglia. La moglie del nostro pastore, Domenica Criaco, si è stabilita da circa 20 anni a Caraffa del Bianco dove la figlia Annunziata è stata per alcuni anni medico di base. In realtà, il nostro pastore si considera un africotu,

e non ha per niente legato col posto di neo-residenza. Egli è altro da questo luogo, si sente un uomo libero solo a contatto con la sua mandria che bruca per i crinali dell’antica montagna amica. Il suo scopo attuale non è quello economico, la sua ricchezza è il mantenimento della libertà personale, quella di vivere a diretto contatto con la natura, in un

VITA DA CAPRAIO Tornava a casa poche volte al mese, giusto il tempo di rifornirsi di provviste, per poi ritornare a vivere in libertà le sue lunghe giornate in montagna continuo dialogo con le bestie e le cose, dialogo, di tanto in tanto, interrotto da qualche altro resistente pastore o da qualche temerario cacciatore. Torna a casa poche volte al mese, giusto il tempo di rifornirsi di provviste, per poi ritornare a vivere in libertà le sue lunghe giornate trascorse tra le montagne amiche*. Pastori di Africo Vecchio che fino alla fine degli anni ‘80 pascolavano le loro greggi nei territori d’origine: Andrea Stilo, fratello di Francesco, Pietro Stilo, Giovanni Stilo, Pietro Maviglia, Domenico Maviglia, Costa Stilo, Bruno Criaco (quest’ultimi hanno abbandonato la pastorizia da circa vent’anni o scomparsi). L’elenco mi è stato fornito dal medesimo Francesco Stilo.

*La storia di Francesco Stilo è stata scritta alcuni anni addietro. Attualmente il nostro pastore, a malincuore e su insistenza della famiglia, ha smesso di fare il pastore a tempo pieno e vive con la moglie a Caraffa del Bianco. Ma il richiamo ancestrale della pastorizia è rimasto vivo come un tempo. In un appezzamento di terreno di suo figlio Costantino (contrada “Musco” in S. Agata del Bianco), oltre a curare l’uliveto e l’orto, ha realizzato un piccolo Jazzo per pochi ovini. Gli ricordano il suo mondo, la sua infanzia... la sua vita.


Aspromonte orientale

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Settembre 1943. L’inutile scontro aereo tra italiani e inglesi e la morte dei nostri sull’Aspromonte

RAID SUL BONAMICO

Una lotta impari, a guerra finita, in cui persero la vita il Maggiore Cenni e il Tenente Moglia. Fanno da sfondo i cieli della montagna, San Luca, e i giochi politici della Seconda Guerra Mondiale di FORTUNATO NOCERA

«

La resa incondizionata fu firmata, in segreto, il 3 settembre 1943 e resa nota solo l’8 Ne seguì un « duello drammatico per i cieli di San Luca, Platì, Ardore, Bianco

«

Per anni il cimitero di San Luca ha custodito i resti dei due eroi, Cenni e Moglia Nella foto in alto gli Spitfire IX 2 611 Sqn Biggin Hill 1943 utilizzati dagli Inglesi nel secondo conflitto mondiale

L’

armistizio di Cassibile, che poi fu una vera e propria resa incondizionata, fu firmato segretamente il 3 settembre 1943, ma reso pubblico da Badoglio l’8 settembre dello stesso anno. La circostanza che neppure gli stati maggiori delle nostre forze armate fossero al corrente dell’accordo (sulla cessazione delle ostilità) determinò uno scompiglio militare e causò altri versamenti di sangue ed altri bombardamenti, praticamente a guerra finita, e l’inizio degli sbandamenti. La mattina del 4 settembre 1943 venne ordinato al maggiore dell’Aeronautica Giuseppe Cenni, giovane comandante del 5° Stormo di Manduria in Puglia, di soli 28 anni, ma già leggendario per le sue imprese e per le sue sei medaglie d’argento al valor militare, di contrastare sullo stretto di Messina lo sbarco degli alleati anglo-americani, peraltro già in corso da alcuni giorni. Dall’aeroporto di Reggio, già in mano degli alleati (sebbene malridotto dai bombardamenti delle settimane precedenti) si alzò una squadriglia; un elevato numero di Spitfire inglesi si avventò contro gli aerei italiani inseguendoli per le creste dell’Aspromonte. Ne seguì un duello drammatico e di impari lotta per il numero e la qualità dei velivoli, per i cieli di San Luca, Platì, Ardore,

Bianco. Per i tre RE 2002 pilotati dal maggiore Cenni, dal tenente Moglia e dal sergente Banfi non c’è stato scampo e sono stati abbattuti. Cenni e Moglia morirono in combattimento, Banfi si salvò gettandosi con il paracadute. Per cinque anni, dal 1943 al 1948, il cimitero di San Luca ha custodito i miseri resti di questi due eroi (poi

Un elevato numero di Spitfire inglesi si avventò contro gli aerei italiani inseguendoli sulle creste d’Aspromonte

decorati con medaglia d’oro alla memoria) fino a quando i parenti non decisero di traslarli nei cimiteri dei loro paesi. Una testimonianza del drammatico avvenimento a cui avevano assistito due cittadini di San Luca, all’epoca ragazzi, è riportata dal maresciallo in pensione Antonio D’Agostino - anch’egli di San Luca - nell’edizione n° 9/2008 del mensile dell’Aereonautica:

«Ad un tratto poco dopo mezzogiorno, nel cielo del paese è scoppiato l’inferno. Una ventina di aerei si combattevano l’un l’altro; alcuni cercavano di fuggire al pericolo, altri inseguivano: molti i colpi di mitraglia e cannoncino. Ripeto l’inferno! Un aereo inseguito cercò di sottrarsi agli attacchi. Precipitò nella vallata del Pigàro, ai piedi della montagna Pietra Castello, nel letto del fiume Bonamico. Uno degli aerei che lo inseguiva si schiantò contro la montagna. Un altro cercò scampo verso ovest seguendo a bassa quota il fiume Bonamico; giunto nella contrada foresta di Callistro, tra San Luca e Casignana, cadde. Ne seguirono esplosioni e fiamme. Altri due aerei riuscirono a sottrarsi agli avversari che li incalzavano a bassa quota tra le montagne dell’Aspromonte, si allontanarono. Il quinto aereo si diresse verso Bianco, inseguito e colpito, cadde prima di raggiungere il paese. Era da poco trascorso il mezzogiorno di quel tragico 4 settembre 1943, ed era subentrata una certa calma; molti di noi, che avevano assistito alla grande battaglia che si era svolta nei cieli del nostro paese, eravamo accorsi, facendo a gara con i compaesani che vivevano nei poderi vicini ai luoghi dove erano caduti gli aerei, per portare aiuto, ove fosse stato possibile, ai piloti. Autorità lo-

cali, carabinieri, cittadini di ogni età e condizione, cercavano di raggiungere, attraverso gli impervi sentieri dell’Aspromonte, la vallata del Pigàro e la contrada di Callistro, lungo il fiume Bonamico. Poco è stato recuperato. E quel poco, solennemente, è stato ricomposto e traferito nell’obitorio del cimitero di San Luca». Nella stessa giornata (8 set-

Molti di noi, che avevano assistito alla grande battaglia nei cieli del paese, accorremmo per soccorrere, ove possibile, i piloti tembre) in cui Badoglio proclamava la resa delle nostre forze armate e la fine della guerra, poco lontano da San Luca, sui piani dello Zillastro, 400 paracadutisti del 185° battaglione Nembo in ritirata, quasi completamente disarmati, affrontavano e si scontravano con circa 5000 canadesi, armati fino ai denti. Vi fu una carneficina: ancora oggi non si conosce l’esatto numero dei caduti italiani.


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Catu Chorìu

di Salvino Nucera

Aspromonte greco

inAspromonte

QUINTA E SESTA PARTE

UN TEMPORALE IMPERTINENTE

Don Agostino, nelle sue mandrie, aveva un esemplare di caprone unico nella zona per imponenza

Caproni nei pressi del Passo della zita, Bova. Foto di Bruno Criaco

La storia (a puntate) di Salvatore, un giovanotto ribelle

I

n una domenica d’agosto, di buon mattino, dei primi anni del Novecento, don Sarvo Scialàta si svegliò per prepararsi ad andare a Bova, la Chora, per partecipare al matrimonio della figlia di certi suoi amici. La sera prima aveva dato ordine ad un collaboratore familiare di preparargli e portargli sotto casa la giumenta, suo inseparabile mezzo di trasporto, sellato a dovere (a festa). Stava albeggiando e diede una sbirciatina frettolosa fuori dalla finestra guardando il cielo. Stabilì che era un cielo camulùso (coperto di foschia) tipico del tempo di Scirocco. Non ci fece molto caso. Completò accuratamente la pulizia personale ed indossò un vestito leggero adatto per l’occasione. Si fornì di un altro suo compagno inseparabile: un Franchi calibro l6 e relative munizioni. Uscì di casa. All’esterno trovò già legata la giumenta, come convenuto. Salì a cavallo e partì di buon umore, lo aspettava una giornata di quelle che tanto piacevano a lui: mangiare e bere bene, ridere e scherzare con gli amici, ascoltare canti e musiche tradizionali, fare qualche ballata. Lo scalpiccìo dei ferri dell’equino sul selciato delle strade, all’interno del paese, infastidiva gli abitanti dei pollai ed i molti cani liberi lungo la strada che abbaiavano senza sosta.

U

scito dal centro abitato, imboccò la mulattiera che conduceva a Pedimpìso dove si diramava per Africo Vecchio e per la Chora (Bova), proseguiva verso i Campi di Bova, per poi discendere verso il paese. Dei grandi nuvoloni neri si stavano addensando sulla testa di don Sarvo Scialàta, nessuna parvenza di sole. Da Pedimpìso allungò lo sguardo verso il mare, dalla vallata dell’Apòscipo, intravedendo in lontananza la Perdìsca (Pardèsca, Bianco), il cielo gli era apparso soleggiato, limpido. Svoltò a destra verso i Campi di Bova. Dopo meno di mezz’ora il cielo spalancò le sue cateratte. Si scatenò un violento temporale, inopportuno, impertinente. Don Sarvo scese da cavallo per proseguire a piedi. Era giunto vicino alla vetta del monte Lestì. In un tratto del percorso dal lieve pendio, dal terreno argilloso dove si erano formate delle pozzanghere per l’abbondante pioggia caduta giù in pochi minuti, nonno Scialàta scivolò proprio in una pozzanghera, rendendo inguardabile il suo elegante vestito.

A

ccecato dall’ira per l’inopportuno accidente, si alzò di scatto dall’argilla, alzò il fucile verso il cielo, in direzione nel nuvolone nero, e gli sparò due colpi in rapida successione. Forse voleva colpire Giove Pluvio. Fatto sta che dopo un paio di minuti smise di piovere. Giove Pluvio aveva avuto pietà di lui o, forse, più semplicemente aveva avuto paura. Non solo. Era apparso anche un sole scottante lungo il crinale del monte Lestì. Col calore del sole il vestito si asciugò e si ripulì da sé. Fece accelerare il passo alla giumenta e giunse nella Chora con largo anticipo rispetto all’ora della cerimonia. Andò direttamente dalla sorella sposata Misefari a Bova; le raccontò l’accaduto e lei ci mise un po’ di tempo prima di ridiventare seria e sistemare in modo impeccabile il vestito del fratello di cui conosceva bene l’estrosità, l’imprevedibilità, le facezie. Al pranzo di nozze non potette fare a meno di raccontare l’accaduto agli amici di fronte ai tanti bicchieri di vino che avevano tracannato. L’ilarità generale è stata incontrollata per diverso tempo. Come unanime e sintetico è stato il commento: «Hai messo paura perfino al dio del tempo!».

SARVU SCIALÁTA

l’eredità negata

Carmelo vuole iscriversi in Farmacia, ma il padre Agostino si oppone. Scialàta, per aiutare il fratello, prepara un brutto tiro al genitore

D

on Sarvo Scialàta era il primogenito di nove figli, cinque maschi e quattro femmine, di don Agostino, agiato proprietario terriero, e donna Angela Zavettieri. Tra i maschi il secondo in ordine cronologico era Francesco, che diventerà sacerdote e reggerà la parrocchia di Ghorio per molti anni; troverà il tempo di fare anche quattro figli con la perpetua di cui uno era mia madre (sì, sugnu niputi di previti! Direttu!), e il terzo fratello, sempre in ordine cronologico tra i maschi, si chiamava Carmelo. Costui, avendo come esempio il fratello più grande di non molti anni, decise, autonomamente, dopo aver brillantemente frequentato le scuole esistenti in paese, che avrebbe voluto studiare anche lui. Ne fece confidenza al padre, chiedendogli di aiutarlo a continuare gli studi. Quegli rispose seccamente che di figli istruiti in famiglia ne bastava soltanto uno. Carmelo rimase amareggiato e deluso dalla sua risposta, ma non si scoraggiò. Dentro di sé crebbe ancora più forte la convinzione di voler studiare. Chiese consiglio ed aiuto alla madre, al fratello più grande, Sarvo, e naturalmente a Francesco che, dopo aver frequentato il Seminario a Bova, si trasferì a Napoli. Don Sarvo non perse l’occasione per contrastare le rigide regole educative e valoriali del genitore nei confronti dei figli.

I

nsieme, fratelli e madre, decisero di aiutare il ribelle in ogni modo possibile, principalmente economicamente, sfuggendo ai severi controlli di don Agostino. Carmelo decise di andare via di casa supportato dai tre per realizzare il sogno della sua vita. Si privò degli agi della sua casa. Per vivere e mantenersi agli studi a Reggio non bastavano gli aiuti, pur generosi che riceveva. Così si trovò anche dei lavoretti. Frequentò il liceo “Campanella”. Terminato il corso di studi superiori aveva realizzato il suo sogno a metà. Per completarlo aveva in mente di laurearsi in Farmacia. Ma come realizzarlo vista la pervicace ostilità del genitore il quale, a suo tempo, lo aveva informato che lui non avrebbe avuto diritto all’eredità come tutti gli altri fratelli (diseredazione)? Non gli rimaneva che, ancora una volta, rivolgersi ai due fratelli maggiori per reperire la somma necessaria all’iscrizione universitaria nella vicina città di Messina. Come sempre in precedenza i due fratelli, Sarvo e Ciccio, gli manifestarono il loro totale appoggio. Don Sarvo non si lasciò sfuggire una seconda, ghiotta occasione di dare bruciante smacco al genitore, visto che anche nei suoi confronti aveva sempre usato un atteggiamento di estrema rigidità: con la copertura e complicità del fratello Ciccio, all’epoca studente di teologia e pupillo del padre. Don Agostino, in una delle sue mandrie, aveva un esemplare di caprone unico per imponenza nel raggio di centinaia di chilo-

metri. Moltissime erano state le richieste di acquisto dello splendido animale, anche da fuori provincia e perfino dalla vicina Sicilia. Le sue risposte erano state sempre negative, non avendo alcuna necessità economica. Scialàta mise in atto il suo tiro mancino. Decise, con la complicità del fratello, di vendere quella specie di trofeo unico di don Agostino. Sparse la voce in vari paesi, tra i suoi numerosi amici e conoscenti, della possibilità di poter acquistare il famigerato animale. A chi avrebbe offerto di più in una specie di asta estemporanea. Era estate. Molti furono i potenziali acquirenti presentatisi. Il prezzo lo stabilì don Ciccio. Elevatissimo. Il ricavato fu subito recapitato a Carmelo, avvisato in precedenza, che non perse tempo a far rientro immediato a Reggio, per evitare sorprese. Con la somma ricevuta potette iscriversi all’università e gli rimase un consistente gruzzoletto per eventuali tempi di magra. Quando il pastore, a cui era affidata la custodia del caprone, avvisò don Agostino questi sbiancò in volto. Si sentì mancare. Ebbe necessità di sedersi.

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ira era talmente forte che non riusciva ad articolare parole. Se non ci fosse stato di mezzo il futuro prete chissà cosa avrebbe combinato. Rimase leggermente deluso; non se lo sarebbe mai aspettato, anche se era sicuro che l’ideatore ed esecutore materiale era stato sicuramente il suo primogenito. E per favorire un figlio che si era apertamente ribellato alla sua inviolabile autorità di genitore! Cadde nella più profonda depressione. Si chiuse in casa. Non voleva vedere nessuno, non mangiò, non dormì per quasi una settimana. Poi si rassegnò, inghiottì con molta fatica il grosso rospo. Piccola, sottile, grande vendetta di don Sarvo. Negli anni Carmelo riuscì a realizzare il suo sogno adolescenziale laureandosi a pieni voti in Farmacia, sempre con l’aiuto dei due fratelli, ogni qualvolta si rese necessario. Cominciò subito a lavorare, dapprima come tirocinante, presso varie farmacie della città. Certo, se avesse avuto l’approvazione ed il sostegno del padre, senza la diseredazione, avrebbe potuto comperarsi una sua farmacia, invece dovette sempre lavorare alle dipendenze. Al rientro dallo sfortunato viaggio in America, don Sarvo fece sosta da lui, prima di rientrare in paese. Lo rifocillò, lo sostenne materialmente e psicologicamente prima di lasciarlo rientrare in famiglia. Proprio suo fratello Scialàta. Era orgoglioso. Nonostante la diseredazione ed i contatti parentali quasi nulli il dottor Carmelo impose all’unico suo figlio maschio il nome di Agostino. Molto sfortunato perché alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, poco dopo il conseguimento della laurea in medicina, fu aggredito da un male incurabile che gli stroncò la giovane vita.


Aspromonte greco

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MEGALITI D’ ASPROMONTE

Nardodipace

Ghorìo di Roghùdi

Africo antica

L’ANTICA VIA DELLE STELLE

La montagna calabrese è ricca di strutture megalitiche, ciò lascerebbe supporre una forte presenza di insediamenti preistorici. É storia preziosa, la nostra, che le istituzioni dovrebbero approfondire di MIMMO CATANZARITI

scoperte di « Lemegaliti, nella Calabria meridionale, non sono avvenute con clamore grandi pietre « aLeNardodipace, rinvenute nel 2002, costituiscono un unicum in Italia

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I ricercatori associano ad esse lo sviluppo delle riflessioni su materia e spirito Le foto sopra sono di Mimmo Catanzariti, tranne i megaliti di Nardodipace, tratti da internet

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e recenti scoperte di grandi pietre o megaliti, nell’area meridionale calabrese, non sono avvenute con clamore, ma in sordina, come succede spesso per le cose che cambiano la vita e la storia dell’uomo. Gli studi classici ci insegnano che l’evoluzione umana ha avuto un andamento storico abbastanza lineare; i primi uomini, nostri antenati, abitavano nelle caverne, e vivevano con quello che raccoglievano e cacciavano, più o meno dalla comparsa dell’Homo Sapiens (200.000 anni fa) fino alla fine dell’Età della pietra (circa 5000 anni fa). Intorno a 7/8 mila anni fa i nostri antenati hanno cominciato ad erigere maestosi monumenti megalitici denominati Menhir e Dolmen. Distribuiti in Europa, Africa ed Asia, queste opere sono più numerose in Bretagna e nelle isole britanniche. Il termine megaliti deriva dal greco mega, grande, e lithos, pietra, e con esso si identificano tutte quelle strutture costituite da grandi pietre poste verticalmente nel terreno e disposte in modo da creare circoli, allineamenti o costruzioni particolari. Diversi siti si trovano anche in Italia, in Puglia, Liguria, Piemonte, Lombardia e in Sardegna, dove i menhir, ad esempio, prendono il nome di “pedras fittas” (pietre conficcate). Una delle prime domande che ci si pone osservando un monumento megalitico è in che modo degli uomini, che non possedevano conoscenze so-

fisticate di ingegneria, potessero erigere pietre così grandi e trasportarle nei luoghi prescelti per l’edificazione. Le lastre di pietra, del peso di diverse tonnellate, per essere trascinate per chilometri ed essere erette, richiedevano la presenza di centinaia di uomini, per cui è possibile che interi villaggi, se non addirittura abitanti di diversi territori, cooperassero allo scopo. Certo è che, per organiz-

Tra le due fiumare Il sentiero, ricco di monoliti scolpiti che ricordano le stelle, inizia nell’Aposcipo, passa da San Leo e Africo antica e finisce nell’Amendolea zare una simile impresa, si trattava di genti straordinarie, probabilmente spinte da una grande idea religiosa. L’idea di una vita che si prolunga oltre il mistero della morte influenzò tutta la loro attività, e fu il culto dei defunti a mantenerne viva la fede. Il credo di un popolo che riconosceva il carattere sacro del rapporto con la natura, venerata come Madre Terra, che era dedito ai culti riferiti agli elementi dei cicli naturali: il sole, la luna, le stelle. Difatti, all’erezione di queste sorprendenti opere megalitiche, i ricer-

catori associano lo sviluppo delle prime riflessioni sul rapporto tra materia e spirito e sul senso della vita e della morte. I megaliti scoperti recentemente in Calabria, a Nardodipace, nell’agosto del 2002, costituiscono un unicum in terra italiana. Queste pietre, studiate dai dipartimenti di Archeologia e di Astrofisica dell’università di Torino e dalla Commissione per lo studio e la catalogazione del megalitismo, risultano essere astronomicamente allineate con il famoso sito inglese di Stonehenge, e “parlano” per così dire la stessa lingua, utilizzando il medesimo alfabeto fatto di rune e di simboli, comuni a tutti, come rombi, losanghe e spirali. Questa scoperta di un luogo di culto preellenico, e di un santuario monumentale di cui nessuno ipotizzava l’esistenza, ci fa capire che anche i nostri predecessori, già svariate migliaia di anni fa, erano in grado di realizzare opere d’arte e di architettura di grande portata. Chi ha visitato di persona queste pietre a Nardodipace o in posti meno conosciuti come alla “Rocca del Drako” sopra Roghudi, o al borgo abbandonato di Africo antica, si pone degli interrogativi. Qual è la loro provenienza, chi li ha lavorati in modo così meticoloso, chi ha inciso quelle evidenti anomalie? qual è il loro scopo? Le risposte geologiche sono mancanti o incomplete e lasciano grosse perplessità agli studiosi. Purtroppo c’è stata scarsa attenzione da parte

degli organi preposti, e l’origine e il significato dei megaliti diffusi sul territorio calabrese, in cui si evincono tracce notevoli di modellamenti artificiali, sono ancora tutti da scoprire. Con Nardodipace si aprono però nuovi scenari e, grazie alle ultime scoperte, la prospettiva storica ufficiale cambierà. Parlare di civilizzazioni umane, datate più di 10 mila

Nardodipace I cosiddetti megaliti di Nardodipace, sono databili tra il V e il II millennio a.C. La teoria è quella di una civiltà che ha colonizzato il territorio anni fa, non sarà considerata un’eresia. La datazione al radiocarbonio dei reperti fossili calabresi ci potrà dire, aldilà di ogni dubbio, se il complesso è stato edificato, come qualcuno ipotizza, addirittura nel cuore della preistoria! Se così fosse la “storia ufficiale” andrebbe riscritta, non potendo essa ignorare questi indizi. Finalmente si potrà sapere quali forze propulsive si siano manifestate in uno dei momenti più importanti per la storia della civiltà umana anche in terra di Calabria.


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IL RACCONTO

ROBERTO E IL LUPO

di Antonio Perri

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Aspromonte settentrionale

inAspromonte

el vecchio borgo di Podargoni, quando ancora non era un paese “vecchio”, la popolazione contadina arroccata nella montagna, ai piedi dell’Aspromonte, trascorreva tra alterne vicende la sua esistenza. Roberto era un ragazzo quindicenne, figlio di Peppe il fabbro. Il nonno gli aveva regalato un libro sul corpo umano, che trattava di medicina, essendo il nonno farmacista in un paese là vicino. Uno dei problemi del paese erano le scorribande dei lupi del massiccio aspromontano che, costretti dall’inverno rigido del 1924 a cercar cibo, scendevano a valle in cerca di selvaggina. E, proprio in quel febbraio del ‘24, ci fa una notte di confusione e di spari: erano i contadini che avevano sorpreso i lupi in azione. Un lupo ferito all’addome cadde nel cortile della casa di Roberto e il ragazzo, mosso a pietà, portò subito l’animale al riparo. Vista la ferita cominciò a medicarlo, con quello che sapeva di medicina, cercando di fermare la fuoriuscita di sangue con un laccio di tela. Passarono i giorni e il lupo ferito fu nascosto dal suo salvatore in un dirupo dove nessuno l’avrebbe trovato. Il ragazzo gli portava tutti i giorni cibo fresco. Peppe s’era accorto del comportamento strano del figlio e notava negli occhi di lui qualcosa che non aveva mai visto prima. Roberto era in una condizione strana, i suoi sensi erano sovraeccitati dalla compagnia dell’animale, vedeva più lontano, sentiva un forte odore di muschio, come se si trovasse perennemente nel bosco. Quando il lupo, che lui chiamò Rosso per via del pelo fulvo, fu guarito si trovarono tutt’e due in piena notte fuori casa. Roberto fece per cacciarlo, ma sentiva forte il battito del cuore, l’odore di muschio era intenso. Rosso si voltò e fissò con gli occhi l’amico, il cuore sembrava scoppiare, l’odore ora era vento che percuoteva il ragazzo… Basta! Basta col ferro da lavorare, basta con le coccole della madre, era il momento di andare, con Rosso, a vivere e a cacciare cinghiali e lepri. I due si misero a correre, perdendosi in quel bosco che li circondava.

Santa Cristina d’Aspromonte, l’ineguagliabile maestrìa di un vecchio contadino

‘NTONI ‘ILL’ORTU

«Il mestiere di tutta la vita gli piegò la schiena. Non riusciva più a stare dritto, ma rifiutò il bastone, segno manifesto della sua vecchiaia» di GIUSEPPE GANGEMI*

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e lo ricordo basso, magro, brutto, vecchio e stortillato. Coltivava, in affitto, l’orto di Mallomo. Per tutti era ‘Ntoni ‘ill’ortu. Mai soprannome fu più appropriato. Il mestiere che aveva fatto tutta la vita lo aveva modellato nel corpo. Giunta la vecchiaia, la schiena non lo reggeva più dritto, e gli imponeva un perenne inchino. Rifiutava però il bastone, segno manifesto della vecchiaia. Aveva muscoli ancora agili e scattanti, ben allenato dalla continua pratica dell’orto. Vederlo muoversi e saltare nella prima rasula, attento a calpestare il meno possibile e nei punti giusti le celle di orto da lui stesso scavate, separate da soffice terra di altezza uguale e livellate per favorire lo scorrere dell’acqua, era uno spettacolo. Rimanevo a guardarlo a lungo, davanti a casa mia, con le braccia appoggiate alla balaustra, oltre la quale cominciava subito l’orto. Nel punto più lontano dalla mia vista, dove la strada curvava prendendo un rapido avvio verso l’alto, c’era una gebbia, annualmente lavata e pulita da ‘Ntoni, piena dell’acqua che proveniva dalla fontanella nella piazzetta. Un palo, conficcato con stracci nella base, impediva che l’acqua si perdesse scorrendo verso il fondo della valle. ‘Ntoni toglieva il tappo della gebbia e correva con salti a serpentina precedendo l’acqua: il piede sinistro saltava fino a poggiarsi sulla base dell’armacera che sosteneva la strada, il destro alla base del tumu-

letto di terra che separava le celle dell’orto, attento a non disfare il minuzioso lavoro di costruzione e livellatura delle aiuole. Quando l’acqua riempiva tutta la cella, con un solo preciso colpo di zappa, ‘Ntoni apriva un’altra aiuola, precludendo l’accesso dell’acqua a quella già piena. Un altro colpo e chiudeva l’accesso a quest’ultima. E così via. La chiusura finale delle celle vicine al foro di uscita guidava l’acqua alla rasula più in basso, dove ricominciava il lavoro di irrigazione. E si riprendeva identicamente nelle

zappa, se la poneva sulla spalla destra e piegava le ginocchia per riuscire a tenere verticale la schiena. Pochi passi e spariva rapidamente alla mia vista. Il giorno in cui si rese conto che non poteva camminare senza l’aiuto di un bastone, si mise a letto e lentamente si spense. Fu sostituito, ma non subito, da un più giovane agricoltore. Per un paio di anni, l’orto restò incolto. Erbacce si formarono subito su tutte le rasule. Esse rimasero per sempre nella prima, la migliore, la più produttiva,

Vederlo muoversi e saltare nella prima rasula, attento a calpestare il meno possibile e nei punti giusti le celle da lui stesso scavate, separate da soffice terra di altezza uguale e livellate per far scorrere l’acqua, era uno spettacolo rasule successive. L’irrigazione dell’orto veniva fatta due volte al giorno, tutti i santi giorni, domenica compresa. Guardavo con attenzione quello che veniva fatto nella rasula più in alto, dove avevo ‘Ntoni a poche decine di centimetri dai miei occhi. Poi, quando passava alla rasula successiva, ritornavo ai miei giochi. Tornavo a guardarlo la sera quando, al tramonto, terminava la sua giornata. Apriva il cancelletto vicino alla gebbia, risaliva i tre scalini, appariva sulla via piegato nel suo profondo inchino. Solo pochi attimi. Alzava la

la più curata da ‘Ntoni. Perché il livello, della rasula più alta, era appena più in basso, di poche decine di centimetri, rispetto al foro di uscita dell’acqua della gebbia. Lo stretto pezzo di terra, sotto il cancelletto d’ingresso, veniva colpito dal veloce getto d’acqua che usciva dalla gebbia, più forte quando questa era piena. Bisognava continuamente curare quello stretto passaggio per impedire che venisse frantumato dal getto d’acqua. Ci voleva tanto lavoro e tanta fatica. Ma soprattutto maestria, che ‘Ntoni aveva in abbondanza, mentre difettava nel nuovo

arrivato. Quest’ultimo rinunciò subito a tenere a orto la rasula più in alto. Infine, rinunciò a tutto l’orto che fu abbandonato. Una tristezza. L’orto di Mallomo è diventato terreno edificabile. Qualche anno dopo, una mattina, mentre mi impigrivo nel letto, sentii provenire da fuori, molto vicino, il rantolo con cui i contadini accompagnano il movimento della zappa che finisce affondando nel terreno. Proveniva dalla parte della mia casa che dà sul Borgo. Mi affacciai e vidi i fratelli Speranza tentare di ricostruire un orto anch’esso ormai da tempo abbandonato. Restai a guardarli per qualche minuto. Fin quando non mi resi conto che si riposavano quasi ad ogni colpo di zappa. Con una smorfia di scetticismo, chiusi la finestra e scesi a fare colazione. Qualche settimana dopo, sentii provenire dalla mia finestra le urla di un forte litigio. Mi affacciai e mi accorsi che i due fratelli avevano costruito le celle dell’orto e avevano aperto la gebbia per irrigare. L’acqua aveva riempito solo metà della prima aiuola: era stato sbagliato il livellamento. I due fratelli litigavano attribuendosi reciprocamente la colpa. ‘Ntoni era basso, magro, brutto, vecchio e stortillato, ma nel suo mestiere era un gigante.

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Università di Padova Docente di Scienza dell’Amministrazione E-mail

giuseppe.gangemi@unipd.it


Approfondimenti

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Bova. Il Capo di San Giovanni d’Avalos e la sua Madonna del mare, laddove sorse il tempio di Venere

COSÍ NACQUE DAL MARE

Una storia che ha origini pagane, che si trasforma in credo cristiano, che passa da un ritrovamento fortuito, che narra il forte legame tra Bova e Delianuova. Una storia che muta e sopravvive ai secoli di FRANCESCO VIOLI

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Un elicottero militare collocò la Madonna sulla sommità di Capo San Giovanni L’originale « calco in gesso della statua venne donato alla città di Delianuova

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l prossimo 30 aprile 2015 non verrà festeggiato solamente il 50° anniversario della collocazione della statua bronzea della Madonna del mare di Bova Marina sul Capo San Giovanni d’Avalos ma, attraverso una serie di eventi, si vuole ricordare le origini e la storia, risalenti fino alla notte dei tempi, che hanno caratterizzato questo culto e questa tradizione. In una testimonianza storica del 27 febbraio 1964 lo scrittore e storico Antonino Catanea racconta che, nel 1587, un uomo scendendo da Bova e diretto a Reggio trovò lungo la strada un quadretto di pietra nera: negli angoli erano intagliati quattro Tritoni i quali a loro volta sorreggevano sulle spalle una conchiglia ed una donna nuda. Sia la conchiglia che la donna erano di marmo bianco e, secondo il Politi nella Cronica di Reggio del 1619, l’opera rappresentava la na-

scita in mare della dea Venere e portata a terra dai quattro tritoni. Il vescovo di Bova, Tolomeo Corfinio, consegnò l’opera ai superiori di Roma facendone perdere le tracce. Gli storici si domandano tutt’oggi quale tempio della zona avesse custodito la rappresentazione prima della rinvenuta, sicuramente uno dei tre templi dedicati rispettivamente a Giove, Ercole e Venere e che, secondo alcune ipotesi, sorgevano intorno alla zona di Deri (l’antica Delia). Si ipotizza che il tempio dedicato alla dea dell’amore, che sorgeva su Capo San Giovanni, poteva offrire la migliore custodia per un opera così importante. Ad alimentare l’ipotesi, concorrevano i numerosi raduni delle feste afrodisiache durante il mese di maggio, dove numerose ragazze provenienti dai paesi interni si recavano al mare per festeggiare la primavera.

Le immagini del 30 aprile 1965

Con l’avvento del Cristianesimo la consuetudine divenne un vero e proprio festeggiamento: nel giorno dell’Ascensione le ragazze, subito dopo la celebrazione della messa, vestite con abiti decorati da fiori, davano inizio alla festa con balli e canti dell’epoca. A causa dei continui attacchi dei pirati, le popolazioni abbandonarono la costa per trovare rifugio lungo i pendii dell’Aspro-

Era il 1587... Un uomo, scendendo da Bova, trovò lungo la strada un quadretto di pietra nera: negli angoli erano intagliati quattro Tritoni, che sorreggevano Venere monte; alcuni nuclei familiari, addirittura, si spinsero fino all’altopiano su cui oggi sorge Delianuova. Non dimenticarono, però, le origini e le tradizioni. Ogni anno, infatti, continuarono a recarsi in pellegrinaggio al Capo San Giovanni per celebrare il giorno dell’Ascensione e la Madonna Assunta. Nel 1677 una forte mareggiata distrusse il borgo dei pescatori, divorando la spiaggia e tutto ciò che era attorno. Si salvò solamente una tela del 1400 raffigurante la deposizione, ritrovata da alcuni pescatori. Si gridò al miracolo e conseguentemente si costruì un tempio alla Beata Vergine del mare. Continuarono così, negli anni, i pellegrinaggi e i festeggiamenti alla Madonna durante il periodo di agosto. Il 14 marzo del 1964 S.E. Monsignor Sorrentino avviò il progetto di collo-

cazione di una statua bronzea, alta 3,5 metri e pesante circa 8 quintali, sulla sommità del Capo San Giovanni. Nella prima pagina dell’albo vescovile si legge «approviamo di cuore l’iniziativa di cui si è reso promotore il dott. Michele Nesci pro erigenda statua della Madonna del mare in Bova Marina, benediciamo quanti contribuiranno con offerte alla realizzazione dell’opera e impetriamo la materna protezione della Madonna su quanti La invocheranno Ave, Maris Stella, iter para tutum». Un anno dopo, il 30 aprile 1965, il progetto si realizzò: con una spettacolare manovra il Maggiore pilota, Aristide Degli Esposti, a bordo di un elicottero militare del 31° Stormo di pratica di mare collocò l’imponente statua bronzea, realizzata dallo scultore Celestino Petrone, su un piedistallo di cemento armato realizzato sulla sommità del Capo San Giovanni. L’originale calco in gesso della statua venne donato al popolo di Delianuova a simbolo dell’antica origine comune. Seguirono tre giorni di celebrazioni e di feste in onore e nel ricordo della tradizione che, riportandoci ai giorni nostri, si vuole ancora rivivere e tramandare. Per questi motivi, nel prossimo mese di ottobre, la parrocchia salesiana dell’Immacolata, in collaborazione con l’Associazione culturale “Bovesi di Roma”, con l’Associazione “Devoti della Madonna del mare” e con il patrocinio dell’Amministrazione comunale, porterà il quadro della Madonna del mare in pellegrinaggio da papa Francesco a conferma della dinamicità e della devozione dei bovesi e di quanti si riconoscono nel culto della Madonna del mare. Si darà avvio, pertanto, ai festeggiamenti nel ricordo di quel 30 aprile di 50 anni fa.


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Tra i boschi d’Aspromonte

Peperoncino, una grand

Da un’esperienza lunga più di cinquant’anni, dai semi migliori esistenti in commercio, dall’intuito che fa sempre la differenza, nasce in Calabria la piantagione di peperoncino più ambìta dai mercati del Sud Italia

Paolo Canale, noto imprenditore agricolo, è riuscito senza “incentivi” statali a creare numerosi posti di lavoro proprio ai piedi dell’Aspromonte. Il segreto? Competenza, passione, e le migliori varietà di Capsicum esistenti al mondo

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di BRUNO CRIACO

l peperoncino, nome latino Capsicum, appartiene alla famiglia delle Solonacee, vegeta su quasi tutto il territorio italiano, e particolarmente bene nella zona jonica reggina per via dell’esposizione a Mezzogiorno e della temperatura mite. Condizioni che consentono una raccolta che si protrae per più di sei mesi l’anno. Il peperoncino è una delle tante produzioni possibili, in realtà, perché i nostri territori si prestano bene alla coltivazione di uliveti, agrumeti, vigneti e ortaggi in genere. Vantiamo l’esclusiva, inoltre, di prodotti ambiti dal mercato mondiale, come il bergamotto, l’uva del vino greco e del mantonico, il gelsomino. Ricchezze che, se sfruttate, darebbero prestigio alla Calabria, e posti di lavoro ai calabresi. Politiche agricole miopi, promosse da inesperti nel settore, impediscono che le nostre potenzialità si tramutino in prospettive reali. E in questa apatia collettiva ci si adagia, in attesa di non si sa quali soluzioni. La novità, stavolta, è un’intuizione, per questo ve la raccontiamo. Il peperoncino. Nella vallata del Careri, proprio ai piedi dell’Aspromonte, si estende una vasta piantagione, suddivisa in lunghi filari di verde intenso, macchiati da accesi frutti di grossa pezzatura e aspetto importante. Abbiamo incontrato, per saperne di più, l’imprenditore Paolo Canale, noto produttore agricolo. Per lui la cura e lo studio della terra sono frutto di un’esperienza lunga più di cinquant’anni. Da questa conoscenza, dai semi migliori esistenti in commercio, dall’intuito che fa sempre la differenza, nasce in Calabria la piantagione di peperoncino più ambita dai mercati del Sud Italia. A Paolo rivolgiamo qualche domanda.

QUALCHE CURIOSITÁ

Fasi della raccolta

UN LAVORO MANUALE

Le colture di peperoncino richiedono molta manodopera, sia nella fase dell’impianto sia nella fase della raccolta e selezione. Alcune industrie lo richiedono già separato dal gambo.

Da qualche anno aveva interrotto la produzione di questa coltura, il motivo? «La concorrenza straniera (dell’area Sud mediterranea) che per anni ha introdotto, a prezzi stracciati, un prodotto qualitativamente discutibile nei nostri mercati». E il ritorno a questa grande “passione”? «È dovuto ad una telefonata, a primavera ormai inoltrata, e quindi quasi fuori tempo utile per la semina, di un mio vecchio cliente ed amico. Non mi sono fatto pregare, ma è stato una sorta di conto alla rovescia. In tempo record ho individuato il terreno con le caratteristiche necessarie, grazie all’aiuto dell’amico Alberto Aurelio». Ci dà un po’ di dati? «Quattro ettari di terreno, vergine, che non era stato coltivato con piante della stessa famiglia. Poi il via: 120 mila piantine, 12 giorni di piantagione, irrigazione a goccia, prodotti biologici come fertilizzanti. Partendo da questi dati, e tenendo conto che ogni piantina produce circa 2 kg di peperoncino, abbiamo stimato un raccolto totale di circa 2 mila quintali». E in termini di giornate lavorative offerte? «Un operaio può raccogliere al giorno 1-1,5 ql, ciò significa che si è creata occupazione per circa 1500 giornate lavorative. La raccolta, infatti, va fatta obbligatoriamente a mano. A questa si aggiungono le operazioni di selezione e imballaggio personalizzato per ogni cliente a seconda dell’utilizzo che si deve fare del prodotto, e quindi è necessario altro personale». In una terra assetata di occupazione la sua scommessa è stata una ventata di positività che ha contagiato tutte le per-

Parametri di qualità

PEZZATURA E COLORE

Tra le caratteristiche che definiscono un “buon” prodotto, a parte la piccantezza, ce ne stanno due meno note: il rosso “intenso” per garantire colore alle salse, la pezzatura alta per agevolarne la raccolta.

sone coinvolte. Aiuti regionali o statali? «Nessuno». Zero aiuti e una scommessa, la corsa contro il tempo azzardando la semina a maggio. Chi non è esperto, chi vive nelle alture, quali regole dovrebbe seguire? «Il peperoncino andrebbe piantato all’inizio della primavera (se si utilizzano le piantine già pronte), dopo sessanta giorni si può raccogliere il peperoncino ancora verde, dopo novanta si raccoglie pienamente maturo. È una pianta che si adatta bene anche alla montagna, dove è meno soggetta all’attacco d’insetti e funghi. Soffre infatti degli stessi disturbi e delle stesse malattie di specie appartenenti alla famiglia delle Solonaceee (melanzane, pomodori e peperoni ad esempio)». Il peperoncino in Calabria si usa ormai da diversi secoli, sia in cucina che nella medicina popolare, in Aspromonte e in Sila viene impiegato come aromatizzante e conservante nella produzione degli insaccati. Paolo Canale è soddisfatto dai riscontri che il suo prodotto sta avendo sul mercato calabrese. Da settimane i suoi camion fanno la spola con i centri più importanti della Regione, che non hanno nascosto il loro apprezzamento dopo averne tastato la qualità: il colore rosso intenso, la pezzatura dei frutti elevata e la piccantezza molto alta (secondo la misurazione fatta con la scala Scoville). Ma anche da fuori regione arrivano giornalmente richieste importanti e ad alcune a malincuore purtroppo ha dovuto dire di no. Il nostro imprenditore comunque rifornisce le industrie conserviere più importanti di Puglia e Campania, dove la maggior parte dei suoi peperoncini vengono trasformati in salse.

Riproduzione

ESSICCAMENTO DEI SEMI

É difficile, asportando i semi di peperoncino e lasciandoli essiccare, riprodurre un frutto con le caratteristiche di partenza. Qualcuna delle proprietà andrà sempre persa.


Tra i boschi d’Aspromonte

de intuizione

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LA SCHEDA

QUEI FRUTTI CHE INGANNANO I SENSI

Capsicum L. è un genere di piante della famiglia delle Solanacee, originario delle Americhe ma attualmente coltivato in tutto il mondo. Oltre al noto peperone, il genere comprende varie specie di peperoncini piccanti, ornamentali e dolci.

Coltivazione

Tutte le specie possono essere coltivate in Italia, seminando verso febbraio al Centro e al Sud e marzo al Nord, mentre i frutti si possono raccogliere in estate e in autunno. Questi andrebbero usati subito dopo la raccolta affinché non perdano le loro proprietà, ma si possono conservare anche sott’olio o in polvere (dopo averli fatti seccare al sole), oppure congelandoli. Al contrario di quanto si pensa, il peperoncino ha bisogno di molta acqua durante la coltivazione, senza però creare ristagni. Per aumentare il gusto piccante dei frutti, basta diminuire le innaffiature, anche azzerandole, nelle 48-72 ore precedenti la raccolta, stando attenti a non far morire la pianta. Per favorire la maturazione dei frutti, si può aumentare il tenore di potassio del terreno, ad esempio con del solfato di potassio. La raccolta va effettuata quando le bacche sono completamente mature asportando i frutti per mezzo di una piccola cesoia per non danneggiare le piante. Essa va effettuata da giugno-luglio a settembre.

Piccantezza

La sensazione di bruciore (misurata in scala Scoville) che percepiamo, tanto più intensa e persistente quanto più il peperoncino è piccante, in realtà non esiste: non si ha un aumento di temperatura nella nostra bocca. La capsaicina interagisce semplicemente con alcuni termorecettori presenti nella bocca, che mandano un segnale al cervello come se la nostra bocca o il nostro stomaco “bruciassero”.

In medicina

I peperoncini sono ricchi in vitamina C e si ritiene abbiano molti effetti benefici sulla salute umana, purché usati con moderazione ed in assenza di problemi gastrointestinali. Il peperoncino ha un forte potere antiossidante, e questo gli è valso la fama di antitumorale. Inoltre, il peperoncino si è dimostrato utile nella cura di malattie da raffreddamento come raffreddore, sinusite e bronchite, e nel favorire la digestione.

In cucina

Il frutto viene consumato fresco, essiccato, affumicato, cotto o crudo. Oltre alla sua capacità di bruciare il palato, si utilizza anche per aromatizzare, nonché per fare salse piccanti. In Calabria è noto l’uso nella preparazione di sardella e nduja.

Nella foto sopra Paolo Canale nella sua piantagione, nella foto in alto alcuni momenti della raccolta


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Tra i boschi d’Aspromonte

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Biodiversità. Il riccio, la talpa e l’uomo: il perfetto equilibrio di madre natura

RIZZU E SURICIORBU

Alcuni animali risultano particolarmente utili all’agricoltura, perché si cibano di specie dannose per le piante. Le credenze popolari, supportate dall’ignoranza, favoriscono invece la loro estinzione di LEO CRIACO

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Il riccio è l’unico mammifero che nei nostri territori affronta, e spesso uccide, la vipera

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La talpa vive sottoterra dove scava gallerie alla ricerca di cibo: larve, insetti, vermi

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egli ultimi decenni, l’uomo nella sua lucida “follia” ha attuato, sul nostro pianeta, politiche di sviluppo distruttive ed inquinanti che, oltre a produrre enormi profitti per pochi e fame e miseria per molti, hanno alterato, in modo irreversibile, l’equilibrio biologico della madre natura con la conseguente diminuzione ed estinzione di migliaia di specie vegetali e animali. L’uomo, inoltre, in base ai suoi interessi ha diviso gli animali in utili, dannosi e indifferenti. Tra i primi ricordiamo il riccio e la talpa che in questi ultimi anni, nei territori aspromontani, purtroppo, sono in forte e preoccupante diminuzione. Entrambi appartengono alla classe dei mammiferi e all’ordine degli insettivori; sono importantissimi per l’economia agricola, e quindi all’uomo, in quanto ottimi distruttori di insetti, lumache, limacce, arvicole e topi che tanti danni provocano alle colture erbacee ed arboree. Prima di passare a una breve descrizione di questi due insettivori, ricordiamo che sono animali e protetti quindi per

M

Montagne

Le Serre

di FRANCESCO TASSONE

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nche se alle latitudini serresi la pianta non alligna, il suo frutto é molto amato da queste parti, e proprio in questo periodo i ficandianari con fiscine e cofani stracolmi, giravano per i paesi barattando il succulento frutto con patate e fagioli. Due parti di fichi d’India e una di patate. Quando l’annata era buona, e il raccolto delle patate era abbondante, il cambio era alla pari, solo con i fagioli la posta era più alta. La pianta del fico d’India è originaria del Messico, é diffusa lungo tutto il bacino del Mediterraneo e in particolare in Calabria. Il nome botanico Opuntia ficus-indica, fu attribuito da Miller nel 1768, questa denominazione, tuttora attuale,

nessun motivo devono essere catturati o uccisi. Il riccio (erinaceus europaeus) è così chiamato perché è rivestito, sul dorso e sui fianchi, da numerosi, circa 16 mila aculei lunghi circa 2-3 cm. Ha un corpo tozzo, lungo circa 25-30 cm, munito di una minuscola coda (3 cm), di un muso appuntito, di orecchie molto piccole e di zampe corte provviste di cinque dita con unghie molto potenti. Si alimenta di insetti, limacce, lumache, arvicole, topi e nidiacei di uccelli, e arricchisce la sua dieta con frutta (mele, pere, more ecc.), radici e funghi. Il riccio (nome locale: rizza, rizzu) è diffuso in tutti i paesi europei; in Italia è presente con le due sottospecie italicus e meridionalis. Ama vivere e riprodursi nei boschi e nelle campagne ma si adatta facilmente in tutti gli altri ambienti tranne quelli molto umidi; sul nostro massiccio montano lo troviamo a tutte le altitudini. Ha abitudini notturne, caccia le sue prede subito dopo il tramonto fino a poco prima dell’alba; di giorno rimane nascosto nelle sue tane situate normalmente nelle buche delle rocce e delle vecchie case, e sotto la legna.

In caso di pericolo si arrotola, e diventa una “palla” ricoperta di aculei che formano una barriera insormontabile per i suoi predatori. Nei nostri territori è l’unico mammifero che affronta e, spesso, uccide la vipera. I nemici più pericolosi del riccio sono: la volpe, il cane, il tasso e l’uomo. La furba volpe quando lo caccia riesce a farlo “svolgere” (aprire) buttandolo in acqua o urinandogli addosso, poi lo uccide azzannandolo sul muso. I contadini aspromontani, ancora oggi, hanno l’abitudine di catturarlo e di mangiarne le carni (usanza che fortunatamente va scomparendo). Ogni anno sulle nostre strade, purtroppo, rimangono vittime degli automezzi centinaia di esemplari. Con l’arrivo dei primi freddi invernali il riccio si ritira in tana, si arrotola, e va in letargo fino all’arrivo della primavera. La talpa (talpa europaea) vive sottoterra dove scava lunghe gallerie alla ricerca di cibo, rappresentato da larve di insetti, insetti e vermi. Tutta la struttura del suo corpo è adattata a questo genere di vita. Ha corpo piccolo, lungo circa 20 cm, muso ap-

puntito a forma di proboscide, padiglioni auricolari assenti, occhi piccolissimi quasi sempre ricoperti completamente dalle palpebre, la sua pregiata pelliccia, di colore nero, ha i peli senza un verso particolare tanto da permettergli di spostarsi facilmente anche all’indietro, dentro le più strette gallerie (non ha il problema del contropelo). Gli arti anteriori sono muniti di zampe molto grandi, ruotate lateralmente e dotati di robusti unghioni per scavare i cunicoli. Il tatto e l’olfatto sono molto sviluppati. La talpa (nome locale: suriciorbu), come erroneamente si pensa, non è vegetariana e quindi non si ciba delle radici che incontra nelle gallerie, il danno che procura è dovuto alle sue attività di scavo. Purtroppo i nostri contadini e agricoltori uccidono questo mammifero utilizzando tutti i mezzi disponibili. Per scacciare la talpa dall’orto e dai tappeti erbosi basta utilizzare apposite “cartucce” fumiganti, in vendita nei negozi di agricoltura e giardinaggio, che una volta accese e inserite nelle gallerie liberano un fumo che la costringe ad allontanarsi verso altri luoghi.

OPUNTIA ficus indica con ogni probabilità è stata ereditata da Cristoforo Colombo, che nel 1493 credette di essere sbarcato proprio in India. La pianta può raggiungere i 5 metri di altezza. Il suo fusto è composto da cladodi, dette anche pale, in calabrese pitte, dei fusti modificati, di forma ovale e appiattita, lunghi 30-40 cm, larghi 15-20 cm e con uno spessore di 2-3 cm. L’unione di due o più pale formano le ramificazioni. I cladodi provvedono alla fotosintesi clorofilliana, funzione che normalmente nelle altre piante viene svolta dalle foglie. Le foglie, quelle vere, sono a forma di cono, lunghe qualche millimetro appena, nascono sui cladodi giovani e sono temporanee. Le spine propriamente dette sono biancastre, solidamente impiantate, lunghe 1-2 cm. I glochidi sono invece spine sottili lunghe appena qualche millimetro, di colore brunastro, si staccano facilmente dalla pianta al contatto, si infilzano nella cute e diventa difficile toglierli poichè si rompono facilmente. Il frutto è una bacca carnosa con numerosi semi, il cui peso può variare da 150 a 400 g. Il colore dipende dalle varietà: giallo-arancione nella varietà “sulfarina”, rosso porpora nella varietà “sanguigna” e bianco nella “muscaredda”. La forma dipende non solo dalle varietà ma anche dall’epoca di formazione: i primi frutti sono tondeggianti, quelli più tardivi hanno una forma allungata. Questo frutto spinoso è in grado di saziare velocemente e a lungo, aiutando a controllare gli attacchi di fame. Svolge un’azione rimineralizzante ed è particolarmente indicato nelle diete per via del contenuto alto di fibre. Inoltre, consente di eliminare più facilmente il grasso addomi-

nale e i liquidi in eccesso. Alcune ricerche hanno messo in evidenza come questo frutto sia in grado di tenere sotto controllo la glicemia, poiché interviene sull’assorbimento degli zuccheri. Sarebbe quindi indicato non soltanto per chi ha livelli alti di glicemia, ma anche per chi è già affetto dal diabete. Altra proprietà importante dei fichi d’India è la capacità di controllare il colesterolo e di evitare i gonfiori addominali; infatti, le sue fibre sono benefiche per mantenere in salute la flora batterica. I frutti freschi, oltre che di fibre snellenti, sono ricchi di vitamina C, potassio e magnesio.


Tra i boschi d’Aspromonte

Settembre 2014

In cammino con l’associazione... Club Alpino Italiano 21 settembre

Fiumara Castunia (PnA) P. Nava - A. Barca E/E (Escursionisti Esperti)

28 settembre

5 ottobre

15

inAspromonte

escursioni

12 ottobre

L’autunno di Donna, Mosorrofa (RC) P. Gattuso - E. Pangallo E (Escursionistico)

Nardello - Bocca del Lupo (PnA) R. Tripodo (ASE) - P. Garofalo con Alpinismo Giovanile, T (Turistico)

Vallata del Tuccio

Monte Nardello

Bagaladi - San Lorenzo A. Picone con Associazione "Facimu" e Alpinismo Giovanile, T (Turistico)

28 settembre

info

Da San Luca a Polsi (Pna) G. Marino con CAI Castrovillari e CAI Linguaglossa, E (Escursionistico)

escursione

C.A.I. - Club Alpino Italiano Sezione Aspromonte via San Francesco da Paola, 106 89127 Reggio Calabria Tel. 333 5354074 www.caireggio.it Aperto il giovedì dalle ore 21.00

Gruppo Escursionisti d’Aspromonte 28 settembre

Bova M.-Palizzi S. impegno tecnico: medio percorrenza: 16 km tempo: 6 ore quote: 10 - 500 - 10 difficoltà: E rientro: ore 19.00

Seguiremo i sentieri che salgono verso Monte S. Giorgio prima di dirigerci verso la rocca di Palizzi Superiore che, con il suo castello, domina il caratteristico borgo. Imboccheremo quindi il sentiero che si snoda lungo il crinale di Monterotondo per scendere a valle nei pressi del parco archeologico.

escursione

12 ottobre

Rocca di Lupo Gallicianò-Amendolea

Castello Canovai dell’Amendolea

impegno tecnico: E percorrenza: 13 km tempo: 5 ore quote: 149 – 611 - 200 difficoltà: E rientro: ore 19.00

Partiremo dalla fiumara di Condofuri, imboccheremo il sentiero che ha origine alla penisola Rocca di Lupo, spartiacque tra la fiumara di Condofuri e l’Amendolea. Il sentiero ci condurrà al pittoresco paese di Gallicianò in cui si parla ancora il grecanico. Da qui, lungo una comoda strada sterrata, raggiungeremo il Borgo Amendolea.

Palizzi S.

o G. E. A. infGruppo Escursionisti

d’Aspromonte via Castello, 2 89127 Reggio Calabria Tel. 0965 332822 www.gea-aspromonte.it info@gea-aspromonte.it

Gente In Aspromonte

info

Associazione escursionistica Gente in Aspromonte via Fontanella, 2 89030 Careri (RC) Tel. 348 8134091

28 settembre

Tempo: ore 5.30 Dislivello: 850 slm 630 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Monte Limina di Mammola Comuni int.: Mammola

www.genteinaspromonte.it info@genteinaspromonte.it

I

Affresco di Sant’Anastasia, Fossato

Mammola

n un classico percorso, semplice e per lo più in pianura, sull’altopiano della Limina, accompagnati da panorami d’incredibile bellezza, si arriva al santuario bizantino di San Nicodemo con alle spalle il monte Kellerrana. Il verde tenue della pianura circostante è in contrasto con quello più cupo dei rigogliosi boschi di leccio. L’antico monastero di San Nicodemo fu meta ambita di pellegrinaggio.

5 ottobre

Tempo: ore 5.30 Dislivello: 552 slm 750 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Fossato Comuni int.: Montebello dello Jonio

S

Fossato

i cammina in un’ampia vallata che si allarga a ventaglio alla confluenza dei tre fiumi. Le colline coperte di folta vegetazione, costituita da piante di ulivo e querce, ci accompagnano lungo il percorso, con tratti scoperti che danno la possibilità di ammirare il paesaggio circostante. L’osservazione dei manufatti è la viva testimonianza della sapienza costruttiva dei popoli che lo abitavano.



L’inchiesta

inAspromonte Settembre 2014

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Sant’Agata e Caraffa, due paesi che nel periodo estivo si “trasferivano” a Capo Bruzzano

LE LOGGE DI ZEFIRIO

Nelle estati degli anni ‘60 i popoli dell’entroterra si spostavano sulla spiaggia per difendersi dalla calura e dalle malattie. Capanne di canne e felci gli fecero da dimora VIVERE DOVE SOFFIA LO ZÉFIRO

di DOMENICO STRANIERI

U

n mio amico mi ha sconsigliato di pubblicare un pezzo riguardante le logge di Capo Bruzzano, ovvero quelle costruzioni di legno e felci realizzate sulla spiaggia, d’estate. Il problema, sempre secondo il mio amico, consiste nell’impossibilità di rievocare attraverso la scrittura profumi, rumori ed emozioni di chi ha vissuto l’esperienza di “accamparsi al mare” negli anni ‘60. Sicuramente ha ragione. Eviterò, quindi, di inseguire le parole giuste per riattivare l’olfatto e l’udito e proverò a concepire, con esse, unicamente delle scene. Cerchiamo, per prima cosa, di immaginare come si spostavano uomini, donne e bambini su quella rientranza della costa difesa a ponente da un promontorio (u Capu), dove soffia la brezza dello Zèfiro che, come diceva Petrarca, “torna, e ‘l bel tempo rimena”.

Come gli antichi greci

Da luglio ad agosto, alcune famiglie di Sant’Agata e buona parte di quelle di Caraffa del Bianco si trasferivano a fianco della scogliera di Capo Bruzzano (un tempo Capo Zefirio) nella zona in cui, secondo Strabone, sbarcarono i Locresi (VII sec. a.C) e vi abitarono per tre o quattro anni accampandosi vicino a una fonte chiamata “Locria”. Probabilmente in maniera non dissimile dagli antichi greci, santagatesi e caraffesi congegnavano delle dimore, le logge, messe in piedi con quattro pilastri di legno (le forche) e rifinite con pareti e tetti di canne e felci.Tali strutture, che da lontano si presentavano come un allineamento di carrozzoni fermi, avevano due porte: una rivolta verso il mare ed una retrostante, verso i rilievi di terra bianca. Più lunghe delle porte erano le pezzare appese ad esse, le cui estremità, di notte, venivano riempite di sabbia per mantenere chiuso l’ingresso contro possibili raffiche di vento. L’insidia tangibile, chiaramente, era il pericolo degli incendi (rimane ancora vivo nei ricordi quello del 1967).

Un rifugio dal mondo

Tuttavia, si stava sempre dinanzi alla riva, in un’essenzialità ancestrale senza tempo, con i “vicini di ruga” che venivano sostituiti dai “vicini di loggia” (chiunque, difatti, ogni anno preservava il suo posto). Era come rifugiarsi dal grande mondo, che dalla collina si abbracciava facilmente con lo sguardo, nel piccolo mondo di un’insenatura marina, fatto di rocce, sabbia rovente ed un continuo contatto con l’acqua salata. Alla fine, inevitabilmente, giochi, acrobazie, corse, volti e sorrisi diventavano parte del paesaggio, di un nuovo habitat capace di soddisfare le necessità dell’epoca. Ci si avvaleva della battigia, ad esempio, come luogo refrigerante (soprattutto per mantenere piacevolmente fresche le angurie) o si saliva su un’altura per dissetarsi presso una sorgente naturale (la “Locria” dei greci?).

Una famiglia di Caraffa davanti alla propria loggia (Foto di A. Condemi) Qualcuno, addirittura, portava con sé, in spiaggia, gli animali (galline, maiali, pecore e asini) senza, però, abbandonare in nessun momento le campagne. Da Capo Bruzzano, infatti, prima della comparsa del sole, gli uomini si recavano nei propri terreni come pazienti viandanti. Per fare la spesa, invece, si camminava fino ad Africo nuovo che, giusto nei primi anni ‘60, stava prendendo forma sul litorale (dopo la terribile alluvione del 1951 che produsse conseguenze devastanti per il Comune situato in montagna).

Natura inviolata

Ma per quale ragione ci si allontanava per due mesi dai centri abitati? Innanzitutto perché soltanto due o tre famiglie, in paese, possedevano un’automobile. Oltre a ciò, la permanenza al mare era raccomandata dai medici per prevenire o curare vari malanni. L’acqua dello Jonio, in effetti, era limpidissima. Se ne servivano i pastori, per fare la ricotta, e veniva adoperata persino come purificante naturale per naso e gola. Inutile precisare che non esistevano i servizi igienici. Ognuno si riparava o sotto un ponte (le donne sempre con una “sentinella” al seguito) o dietro una pianta erbacea. Pochissimi disponevano di una latrina ricavata nella sabbia e circoscritta dentro una capanna. Un’altra caratteristica del posto erano (e sono) delle rocce scavate dai flutti e dal tempo, delle vere e proprie piscine, i cardarelli, dove i più piccoli amavano fare il bagno. Diversamente, i ragazzi maturi erano sempre in competizione per stabilire chi aveva eseguito il tuffo più spettacolare da una rupe denominata “Salto della vecchia” (alta una quindicina di metri). Nei paraggi, inoltre, si intravedevano scogli particolari nei quali non era difficile riconoscere fattezze di astronavi, cammelli o dinosauri. Un po’ come si vagheggia con i lineamenti delle nuvole.

Il tramonto

Appena sopraggiungeva l’ombra della sera si degustavano formaggi, olive, salami, peperoni alla brace e quanto di buono offriva la nostra tradizione gastronomia. E non mancava il pesce che, solitamente, i contadini barattavano con l’olio d’oliva. Subito dopo, per svagarsi o discutere, ci si raggruppava di fronte al mare, scuro come una realtà inconoscibile. E attorno agli anziani, che somigliavano a vecchi cantori, si ritrovavano in tanti pronti a cogliere, nelle loro storie, degli insegnamenti di vita. Solo a fine agosto si scorgevano le prime persone che iniziavano a disfare la loggia per rincasare in collina. Così, i bambini si appropriavano dello spazio vuoto, e delle fronde rimaste, per costruire la loro piccola fortezza. Si sentivano grandi e indipendenti quando si svegliavano conquistati dalla luce dell’alba che, improvvisa, filtrava tra i rami delle felci. E forse, per loro, nessuno schermo in HD varrà mai la bellezza di quella luce. Malgrado ciò, qualche giovane aveva fretta di rientrare in paese. I mitici Don Ciccillo e Don Carlo Rossi, di Sant’Agata, avevano organizzato una sala giochi con delle novità straordinarie: biliardo e calcio balilla. E agli inizi degli anni ‘70 arrivarono anche i flipper. Pertanto, passare dai giochi semplici della spiaggia al lampeggiare dei flipper era, per molti, quasi come viaggiare nello spazio.

Mastro Rocco Cidoni, l’ultimo grande costruttore di logge (Foto di R. Alecci)

Profumi, rumori, emozioni

Eppure, alla fine, è sempre la suggestione poetica che vince. Di quel periodo, infatti, ciascuno descrive la medesima sensazione, tenendo gli occhi socchiusi, in modo magico. Ovvero quella di assopirsi restando tutta la notte con il sonno legato al ritmo delle onde. Ma questo, come dice il mio amico, è impossibile descriverlo con le parole.

Alla scogliera negli anni ‘60 (Foto di E. Bartolo)


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La nostra storia

inAspromonte Settembre 2014

MORIRE DA EROI

I

l 2 settembre del 1847 scoppiò a Reggio Calabria un’insurrezione mazziniana, che portò alla nascita di un governo provvisorio. Verduci fu nominato comandante militare della rivolta per il distretto di Gerace, mentre Bello, Salvadori e Ruffo furono incaricati di estendervi l’insurrezione. Michele Bello, partito con alcuni compagni su una barca al comando di Giovanni Rosetti, un marinaio che fece da corriere per gli insorti, sorprese e catturò a capo Spartivento una nave doganale, con cui sbarcò a Bianco. Qui lo raggiunsero Do-

Salvadori e Verduci, che avevano radunato delle squadre presso Sant’Agata. Gli insorti distrussero gli stemmi reali, bruciarono le carte della polizia e raccolsero contribuzioni volontarie. Occuparono inoltre i comuni di Caraffa e di Bovalino, dove vennero accolti dai rivoltosi guidati da Gaetano Ruffo, insieme a Giuseppe Lenini e Filippo Calfapietra. Il 4 settembre catturarono il sottintendente del distretto di Gerace, Antonio Bonafede, insieme ad alcune guardie. Salvarono la vita al funzionario borbonico, già responsabile della fucilazione

Una coraggiosa analisi storica che ridà al Sud il giusto posto nella conquista della Repubblica

Cinque giovani calabresi e un’Italia da liberare di PINO MACRÍ

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pronto ad offrirgli i propri servigi ed leggere molti dei libri NEL 1997 LA CHIESA FA UN abiurando in tal modo la lotta e scritti sulla storia dell’inl’idea stessa sino ad allora fermasurrezione calabrese del PASSO INDIETRO VERSO I 1847 che infiammò i GIOVANI MARTIRI DI GERACE mente perseguita. Al contrario, invece, di quanto le cuori degli italiani ai prodromi del Risorgimento nazionale, spesso si IN UNA MEMORABILE OMELIA agiografie risorgimentali ad usum delphini tuttora scrivono, i sentiha come la netta sensazione che i re- TENUTA NELLA menti del popolo italiano, quello lativi resoconti storici siano stati spontaneo, non etichettabile con “buttati giù” più sulla scorta dei ri- CATTEDRALE DI GERACE “ismi” di comodo e protagonista cordi (personali, familiari o altro, DAL VESCOVO BREGANTINI, vero delle rivolte contro lo strama pur sempre ricordi), che dei doFU UFFICIALMENTE niero, dovevano essere state ben cumenti ufficiali. fortemente impressionate dai fatti Se ciò fosse vero, si avvalorereb- RICONOSCIUTA calabresi, se è vero, come è vero, bero le due componenti che magche il 12 ed il 15 febbraio 1848, a giormente, in tutti questi anni, LA VALENZA EDUCATIVA Milano, nel profondo Nord, i giohanno impedito che la vicenda rive- (IN SENSO STORICO) vani dimostranti adottarono il “capstisse il ruolo che senz’altro merita pello alla calabrese” come simbolo nella storiografia risorgimentale ita- DELL’INSURREZIONE distintivo del sentimento antiauliana: da una parte l’improvvisastriaco, tanto da costringere le autorità ad emanare un provvezione narrativa, ancorché spesso ammantata di passione, ma non dimento a mezzo del quale “si vietava rigorosamente il portare sufficientemente corroborata da elementi “incontrovertibili” a pubblica vista il cappello che sia della forma così detta alla quali i dati estrapolabili per tabulas; dall’altra, una pubblicistica calabrese [...] pena l’immediato arresto” (determinazione della negativa, talora portata avanti in maniera aprioristica e zavorrata delegazione provinciale di polizia austriaca nº 1207, Bergamo, da pregiudiziali di tipo ideologico. 16 febbraio 1848). Cosicché, a fianco o in contrapposizione alle narrazioni passionali dei “sostenitori”, fra cui spiccano quelle figliate dagli adeL’influenza del ‘47 calabrese in Italia renti a vario titolo alle logge massoniche anche ufficiali, hanno E quanto, ancora, il ‘47 calabrese abbia avuto influenza nell’imfatto spesso da contraltare i colpevoli “silenzi” dei critici storici maginario collettivo del movimento risorgimentale italiano, è delle più svariate estrazioni politico-ideologiche. infine testimoniato da un altro provvedimento di polizia austriaca, stavolta a Milano, che il 27 aprile 1859, cioè alla vigilia Le interpretazioni di questi anni della 2º Guerra d’indipendenza, e, soprattutto, ben 11 anni e Sicché, «l’azione dei Cinque giovani è da considerarsi improvmezzo dopo i fatti di Gerace e Reggio, emana un’apposita orvida in quanto ebbe l’unico effetto di mettere in pericolo le sorti dinanza per confiscare “pipe in radica o gesso che rappresendelle masse proletarie, magari per soddisfare le velleità borghesi tassero il cappello alla calabrese”. di origine di tutti i capi dell’insurrezione» (è grosso modo la Da subito, i fatti del ‘47 destarono in tutta Italia sentimenti di posizione per lunghissimo tempo tenuta dai marxisti). commozione e di sentita solidarietà, e l’orrore per la barbara fuOppure trattavasi di «giovani “sconsigliati”, forse anche atei, cilazione di quei giovani fu oggetto di ampi resoconti in tutti i in quanto dichiaratamente appartenenti alla Carboneria» (e giornali liberali dell’epoca: quindi massoni: è la posizione del revisionismo neo-borbonico, Le gazzette di Roma, di Toscana, di Piemonte, confutavano con imperniata quasi esclusivamente sui proclami di Civiltà Cattolica e dello storico ufficiale borbonico Giacinto De Sivo; in UCCISI IL 2 OTTOBRE 1847 parte è stata anche la posizione ufficiale degli storici cattolici e della Chiesa, almeno di quella locale, almeno fino al 1997, allorquando in una memorabile omelia tenuta nella Cattedrale di Gerace dal vescovo Bregantini, fu ufficialmente riconosciuta la valenza educativa, in senso storico, dell’Insurrezione (anche se, poi, l’accorato appello del presule fu alquanto ammorbidito nella versione ufficiale, scritta, dell’omelia stessa). Ma anche, infine, l’impostazione dell’imperante critica liberale ha sempre propeso verso l’idea che il Risorgimento italiano sia esclusivamente da considerarsi come un “regalo” del Nord liberatore fatto nei confronti del Sud, oppresso sì, ma pur sempre incapace di qualsiasi azione autodeterminante. E alla conta dei critici “silenti” non debbono sfuggire nemmeno i “mazziniani”, per i quali, quasi come si trattasse di un volgare tifo di tipo calcistico, c’era da aver riguardo solo per le azioni poste in essere dai loro affiliati: non si spiegherebbe altrimenti come mai fatti storici eclatanti ed eroici quanto si vuole, come gli episodi dei Fratelli Bandiera o di Carlo Pisacane, trovano amplissimo riscontro nell’agiografia risorgimentale (ed in tutti DA SIDERNO (CLASSE 1822) i più diffusi manuali di storia), pur non avendo avuto alcuna Figlio di un ricco gentiluomo di Siderno, Domenico Bello, e di conseguenza nei processi rivoluzionari italiani, mentre, di epiMaddalena Marando, originaria di Ardore. Aveva studiato con lo sodi come l’insurrezione calabra, non si trova alcuna traccia nei zio arciprete, Francesco Bello, e quindi presso il liceo di Vibo Vapiù diffusi libri di storia. lentia (allora Monteleone). Si era quindi spostato a Napoli per Eppure, a ben vedere ed a voler essere freddamente critici, l’epistudiarvi giurisprudenza e durante il soggiorno napoletano aveva sodio dei Fratelli Bandiera non fu completamente edificante, se composto inni, lodi, elegie e due drammi teatrali (il Cieco e l’Ugo è vero che uno dei due fratelli, nell’imminenza della fucilazione, di Parma) rappresentato nel febbraio del 1842 presso il Teatro forse dietro consiglio del suo avvocato, scrisse al Re Borbone dei Fiorentini. In seguito ritornò a Siderno, dove fu cassiere del una lettera piena di elogi per la sua regal figura, dichiarandosi comune fino al 1846 e aderì alla Giovine Italia mazziniana.

MICHELE BELLO

ALLA LIBERTÁ Sola speranza che mi reggi in terra solo conforto dello spirto mio solo pensiero che mi elevi a Dio, pace e ristoro alla mia lunga guerra. Quando a te penso, il cuor si disserra a pure gioie, ad ogni altro desio e quando dormirò l’eterno oblio di te ricorderommi anche sotterra. Cometa errante, che col tuo splendore abbelli la natura decaduta dimmi: tu brillerai sul mio dolore? Io non dispero della tua venuta e non rinnego al tuo tardar, ma il cuor s’attrista e piange ché tua luce è muta. Gaetano Ruffo

NOTE AL TESTO

1) V. Visalli, Lotta e martirio…, op. cit., p. 259; 2) Cfr. F. Michitelli, Storia degli ultimi fatti di Napoli…, op. cit., p. 54 e segg.; 3) Da Il lume a gas, giornale pubblicato in Napoli, Anno 1º, nº 151, del 9 maggio 1848, p. 2; rubrica Dizionario Universale, voce “Cappelli”; 4) Cfr. G. Gherpelli - C.M.Badini, L’opera nei teatri di Modena, Artioli, 1988, riportato anche in A. Gandini, Cronistoria dei Teatri di Modena, Modena, 1873, pp. 382-385

PIETRO MAZZONI

DA ROCCELLA (CLASSE 1819)

Nato a Roccella Ionica il 21 febbraio 1819, era figlio di un proprietario terriero, Giuseppe Mazzoni, e di una nobildonna di Catanzaro, Marianna Barba. Seguito dapprima da precettori ecclesiastici, si appassionò alla letteratura del Romanticismo. Nel 1823 fu inviato a studiare a Napoli, alla facoltà di giurisprudenza. Qui Mazzoni aderì alle idee liberali e fece parte del comitato rivoluzionario diretto dal patriota Carlo Poerio, ma a causa dei sospetti della polizia fu obbligato a ritornare al paese natio. Era fidanzato con Eleonora del Riso, alla quale scrisse una lettera che si è conservata.


La nostra storia dei fratelli Bandiera, sottraendolo al linciaggio. Da Bovalino gli insorti pubblicarono un manifesto rivoluzionario e un’ordinanza, con la quale veniva dimezzato il costo del sale e dei tabacchi, veniva abolito il divieto di attingere acqua di mare (allora utilizzata come rimedio medico) e veniva soppresso il dazio governativo. Il 5 settembre li raggiunse a Siderno la banda armata di cinquanta uomini raccolta da Pietro Mazzoni a Roccella. Il 6 settembre, non potendo raggiungere Gerace per l’ostilità della popolazione, si

trasferirono a Roccella, dove il quartier generale fu stabilito nel palazzo paterno di Mazzoni. Il 4 settembre Reggio era stata nuovamente occupata dalle truppe borboniche, guidate del generale Nuziante, provenienti da Monteleone, costringendo alla fuga il governo provvisorio. Ingannati dall’avvistamento al largo di un mercantile, scambiato per una nave da guerra, il 6 settembre i ribelli confluiti a Roccella si sbandarono e Michele Bello, Rocco Verduci, Domenico Salvatori e Stefano Gemelli furono costretti alla fuga, na-

inAspromonte Settembre 2014

scondendosi nei monti presso Caulonia, dove furono arrestati il 15 settembre per il tradimento della loro guida, Nicola Ciccarello. Ruffo fu arrestato il 21 settembre e Mazzoni si consegnò il giorno dopo. I congiurati furono processati a Gerace per alto tradimento da una corte militare presieduta da Francesco Rosaroll (fratello del patriota Giuseppe Rosaroll), che li condannò alla fucilazione. La sentenza venne eseguita il 2 ottobre presso il convento dei Cappuccini di Gerace e i corpi furono gettati in una fossa comune (chiamata “la lupa”).

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minuti ragguagli le calunnie della stampa napoletana contro i liberali, ed il più sdegnoso linguaggio adoperavano L’Alba di Firenze, ed il Corriere Livornese: in Livorno anzi furono celebrate esequie solenni ai morti di Gerace, e rotte le insegne del consolato napoletano. […] I comitati di Palermo e di Napoli, già tendenti ad azione conciliativa, divennero deliberatamente rivoluzionari. Ed in Napoli alcuni giovani si diedero a tramare un colpo temerario, una disperata follia: assalire la carrozza reale, sequestrare o uccidere Ferdinando, e ricominciare in tal modo l’insurrezione” (nota 1). A Napoli, da quel momento, il motto della rivolta calabrese, «Viva l’Italia, viva la Costituzione, viva Pio IX», divenne il motto dei liberali napoletani (nota 2), e perdurò incessantemente fino a quando, appena tre mesi dopo (gennaio 1848), Ferdinando II, sulla fortissima pressione del popolo, non fu costretto a concedere la Costituzione, che, a sua volta, fu salutata con grande entusiasmo non solo a Napoli ma in tutta Italia. In particolare, nel Lombardo-Veneto la circostanza incoraggiò i patrioti che, in omaggio ai Martiri del Jonio (così erano detti allora) ripresero a portare il cappello alla calabrese come segno distintivo di fratellanza rivoluzionaria. Il simbolo rivoluzionario, è opportuno sottolinearlo, era già stato adottato dai patrioti napoletani prima del 27 gennaio 1848 (data della concessione della Costituzione): Varie son le fogge dei cappelli. I governi assoluti si occupavano

Ripartire dalla Calabria Alla luce di questi documenti riteniamo ben difficile continuare a sostenere che il ‘47 calabrese possa continuare ad essere considerato un fatto minore che, tutto sommato, non ebbe influenza nel Risorgimento Italiano: al contrario, ne segnò concretamente l’inizio e lo accompagnò fino all’esito vittorioso dell’Unità d’Italia, salvo poi ad essere fraudolentemente messo in disparte per non intralciare il processo di espansione capitalistica del Nord, magari svilendolo attraverso la rappresentazione di un Sud caratterizzato dalla barbarie brigantesca: ma questa è un’altra storia...

In questa sede preme invece riflettere, come si diceva all’inizio, sull’esposizione dei fatti storici troppo spesso disgiunta dal necessario supporto dell’analisi dei dati. A questo proposito, è da rimarcare con una certa dose di rammarico come taluni sedicenti storici odierni si avventurino abbastanza avventatamente in un esercizio di demolizione dell’opera di Visalli, Lotta e martirio del popolo calabrese, con una protervia che in alcune espressioni scade addirittura in una sorta di “furia iconoclasta” assolutamente ingiustificata, e, perciò, alquanto sospetta. Se, infatti, qualche critica può anche accettabilmente essere mossa sullo “stile” narrativo un po’ datato e sull’enfasi che qua e là traspare, anche se in misura mai stucchevole, non si può non attribuirne la cause allo stesso “brodo di cultura” entro cui il ponderoso volume è maturato, ed, anzi, non si può non apprezzarne il tentativo di distacco scientifico, nonostante i rapporti affettivi dell’autore con alcuni partecipanti all’insurrezione. Basterebbe al riguardo leggere con la dovuta serenità le pagine dedicate alla delicata vicenda della posizione tenuta dal Vescovo Perrone: mai Visalli si fa attrarre dalle facili sirene della polemica, ma si limita ad esporre il parere dello storico, strettamente vincolato alla mancanza di documenti o prove ufficiali in grado di assolvere o condannare il presule geracese. Ma il vero “tesoro” storico dell’opera di Visalli risiede nella seconda parte del tomo: laddove, cioè, viene minuziosamente trascritta un’enorme mole di documenti che l’autore rintracciò in decenni di minuziosa ricerca e che costituisce il corpus dell’archivio Visalli, senz’altro la più documentata fonte di informazioni sull’insurrezione del 1847. Vi si trova di tutto: dalle informative che segnalavano alla polizia “movimenti” sospetti nel territorio al concitato scambio di messaggi telegrafici con la Capitale nei giorni dell’insurrezione; dal testo del proclama degli insorti alle ordinanze di fuorbando contro gli insorti sconfitti e fuggiaschi; dai rapporti di polizia sugli arresti effettuati agli estratti di svariati interrogatori delle persone incriminate per la partecipazione ai fatti. Premesso, però, che nonostante la considerevole mole documentaria prodotta, molto altro esiste in archivi cui Visalli forse non fece in tempo ad arrivare (altri documenti originali sono consultabili, per esempio, in I moti del ’47 a Reggio e nella Locride di A. Lozza, Ardore, A.G.E. 1992 ed in Cospirazioni, economia e società nel Distretto di Gerace e nella Calabria Ultra dal 1847 all’Unità d’Italia di V. Cataldo, Ardore, A.G.E. 2000) e altro ancora non è stato ancora rinvenuto (per esempio: i verbali degli interrogatori di quattro dei Cinque Martiri, presumibilmente sottratti e distrutti da quello che ancora oggi alcuni si ostinano a definire “l’onesto” difensore dello Stato Napoletano Antonio Bonafede), purtuttavia, tanto per ritornare all’incipit di questo scritto, un’analisi di tipo statistico - storico - sociologica appena abbozzata dei documenti visalliani fa emergere una serie impressionante di considerazioni che, addirittura, in taluni casi fanno giustizia di tanti accostamenti superficiali ai fatti e di tante narrazioni che, come si diceva, sono spesso falsate da afflati retorici tanto fra i “sostenitori” quanto, soprattutto, fra i denigratori dei fatti del ’47 calabrese (continua).

GAETANO RUFFO

DOMENICO SALVADORI

ROCCO VERDUCI

Era figlio di Ferdinando Ruffo, originario di Bovalino, e di Felicia De Maria, di Ardore. A nove anni fu inviato a studiare a Napoli, presso il collegio di Caravaggio dei Barnabiti e fu allievo del poeta e drammaturgo Giovanni Emanuele Bidera. Fu membro della massoneria e della società mazziniana I figlioli della Giovine Italia, guidata dal patriota calabrese Musolino. Scoperta la sua attività clandestina dalla polizia, fu espulso da Napoli. Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Messina dove si laureò. Continuò nelle sue attività clandestine e nel 1845 affisse per le vie di Reggio dei cartelli inneggianti alla repubblica.

Era figlio di un agiato possidente, Vincenzo Salvadori, e di Concetta Marzano. Alla sua famiglia, di sentimenti liberali, appartenevano sacerdoti e avvocati. Il suo primo tutore fu Pellegrino Varicchio, vicario del vescovo di Bova e carbonaro. Frequentò il liceo di Reggio Calabria sotto la guida del canonico Pellegrino, che dirigeva la rivista liberale Fata Morgana. A Reggio divenne inoltre amico del carbonaro Pietro Mileti. Si iscrisse quindi a Napoli alla facoltà di giurisprudenza, ma, a causa della sua partecipazione al movimento clandestino liberale, fu costretto al domicilio coatto a Bianco e dovette interrompere gli studi.

Era figlio di un possidente terriero, Antonio Verduci, e di Elisabetta Mezzatesta. Compì i suoi primi studi nel seminario di Gerace, passando poi alle scuole dei Filippini a Reggio Calabria. Studiò giurisprudenza a Napoli, ma nel 1844 fu espulso dalla polizia borbonica, in quanto sospettato di cospirazione antigovernativa. Nel 1847 fu denunciato alla polizia come facinoroso e detentore di armi (esercitava il commercio di armi e munizioni, con il patriota calabrese, Domenico Romeo, originario di Santo Stefano, che avrebbe guidato l’insurrezione a Reggio.

DA ARDORE (CLASSE 1822)

molto della lor forma. […] In Napoli, prima del 27 gennaio, chi portava il Cappello alla Calabrese o all’Ernani, andava a respirare l’aria di S. Maria Apparente [una delle carceri di Napoli, ndR]. Ora vi è completa libertà di cappelli di qualunque forma [...](nota 3). Si ha anche notizia che l’esibizione del cappello alla calabrese si ebbe pure a Treviso, Venezia, Roma, Palermo; a Modena (nota 4), durante le rappresentazioni teatrali, riscosse addirittura un successo tale da indurre ai “soliti” provvedimenti di polizia, in seguito ai quali, esso fu sostituito dal “cappello alla Ernani” (ma, pare, riscuotendo minor successo). Nel tempo, quel simbolo ebbe una tale diffusione fra i liberali che anche Garibaldi ne fece uno dei propri emblemi di battaglia.

DA BIANCO (CLASSE 1822)

DA CARAFFA (CLASSE 1824)


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Libri e scrittori

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L’anno

Alla mia terra. Alla sua paziente attesa...

dei

limoni Quarta parte

«Un insieme di storie di uomini e donne d’Aspromonte. Protagonista della maggior parte delle storie è Fante Francesco, che è esempio d’esistenza cristallina, uguale all’esistenza di milioni di miei conterranei»

I

di VINCENZO CARROZZA

l medico prescrisse le sue medicine in terapia e i tempi dell’assunzione: limonata al pomeriggio con mezzo cucchiaino di miele; suffumigi di braciere con scorze di limoni la sera prima di andare a letto; insalata di limoni e arance con olio di prime olive, ancora verdi, raccolte sulle piante e aceto di vino rosso, almeno due volte a settimana. Queste prescrizioni avevano sostituito i soliti farmaci nel suo ricettario. NE STUDIAVA gli effetti, riportando con scrupolo, settimanalmente, sopra un quaderno, i parametri vitali dei pazienti: pressione, temperatura, atti del respiro e frequenza cardiaca. Mensilmente le analisi del sangue fatte in città confermavano che la cura migliorava costantemente la salute dei pazienti. A volte gli sembrava di avere trovato, senza ombra di dubbio, la prova che portava ai limoni come “causa prima e sola” di quell’assenza di sofferenze. Ma poi, la certezza crollava perché, anche in chi non seguiva le sue prescrizioni, riscontrava parametri ottimali e una salute di ferro. Non ci dormiva la notte. E in alcune di quelle notti, quando il dubbio lo possedeva totalmente come un demonio, pregava rivolgendosi ai santi del paradiso che non lo abbandonassero, che lo sostenessero e lo illuminassero in quel mare magnum di incertezze e solitudine scientifica. «Forse - pensava, affamato di sonno, al mattino - è sufficiente l’odore dei limoni a sortire l’effetto che io vedo negli altri pazienti, ma bisognerebbe avere a disposizione laboratori e scienziati, per capire davvero se tutto è un caso oppure il merito è dei limoni». Così affrontava il nuovo giorno ragionando su ipotesi assurde o fondate, non lasciando mai riposare la mente. Che i limoni potessero essere la causa dell’assenza di morte era il dubbio che frullava nella testa di molti abitanti delle valli. IL DUBBIO, seguito da qualche pettegolezzo sugli studi in corso del dottor Profazio, divenne quasi certezza. La quasi certezza divenne desiderio che i limoni si conservassero più a lungo possibile per salvaguardare la

salute degli anziani genitori, dei figli e dei nipoti, oltre alla propria; per conservare la salute e la vita di tutti il più a lungo possibile. La questione fu messa in mano ai santi e alla Madonna di Polsi con le preghiere della sera e del mattino. Fu posta al dottor Profazio dai suoi pazienti. E qualcuno la girò anche a Don Pepè, il boss del paese, perché si sapeva che era in contatto con amici dell’America. E l’America, era cosa nota, anche se lontana migliaia di chilometri, era raggiungibile con facilità. E poi l’America era avanti, la prima in tutti i campi, anche in quello della scienza e della speranza. L’America era la seconda casa degli

ALLORA CATA ricordò, a proposito dei capricci della morte, di quando fu chiamata tre volte per piangere lo stesso morto. «Ricordate - disse - il vecchio Salvatore Ippoliti, u nigru (il nero)? Tre volte morto, tre volte resuscitato, che anche l’anziano dottor Profazio, Dio lo abbia in gloria, arrivò a farsi il segno della croce prima di entrare in quella casa ogni volta che lo chiamavano. “La scienza è scienza”, ripeteva, ma di fronte a certi fenomeni “è meglio chinare la testa, è meglio ammettere di non capirci niente piuttosto che far finta di capire, e poi mostrare una faccia che dice tutto il contrario”. Il povero Salvatore era morto stecchito, più nero del solito. Anche le labbra e le un-

Per i bambini d’Aspromonte l’anno dei limoni fu un anno come gli altri, solo senza raffreddori e senza l’irritante febbre che li costringeva a casa, nei giorni in cui avrebbero voluto giocare agli indiani con le frecce di legno d’acacia

aspromontani. Qualcuno interpellò anche Carmelo che ne aveva viste tante di cose strane e bizzarre nei porti per il mondo e, certamente, poteva suggerire una qualche soluzione per conservare i limoni il più a lungo possibile, visto che era anche suo interesse. Non era forse tornato anche per questo, si diceva in paese? «Ci vuole il freddo, tanto freddo quanto in Russia per conservare i limoni a lungo» disse Fante Francesco a zio Carmelo mentre aspettavano che fosse pronta la cena. Era la fine di ottobre. «Ci voleva il freddo come nella Terra del Fuoco, come al Polo Nord» ribadì zio Carmelo, «Hai ragione, continuò - ma qui non esiste questo freddo. Ammesso poi che tutto dipenda dai limoni e non da un capriccio della morte. Perché la morte è molto capricciosa. Più capricciosa di una bella donna: un momento si interessa a te, corrisponde ai tuoi sguardi, ti illude, il momento dopo non ti guarda in faccia, semplicemente non esisti più per lei» concluse.

ghie aveva nere. Morto vi dico, che lo piangevamo da due giorni. Rischiò invece di farci morire tutti d’infarto quando, già sistemato nella bara per la definitiva chiusura, mise la mano sopra la testa della moglie che le si era avvicinata per baciarlo un’ultima volta. Sentita quella mano sulla testa la poveretta cacciò un urlo di terrore che si sentì in tutta la vallata. E noi, lì vicine, ci facemmo addosso di pipì per lo stesso spavento». Sì, tutti nella valle ricordavano lo strano caso del povero Ippoliti. Anche gli emigranti lo ricordavano, anche Carmelo. Era stata così strana e ripetuta quella storia che era giunta per lettera, colorita di particolari veri e allo stesso tempo inventati di sana pianta, ad ogni emigrante di quelle zone, a qualsiasi latitudine si trovasse. Si! ripeté ancora Carmelo, la morte è davvero capricciosa.

IN ATTESA dell’arrivo della migliore soluzione possibile su come conservarli, la gente lasciò i limoni sulle piante, tanto non cadevano, ed era la stessa pianta il posto più adatto

dove lasciare dei frutti che non marcivano, e non avevano intenzione di venire giù. Per i bambini d’Aspromonte l’anno dei limoni fu un anno come gli altri, solo senza i raffreddori che facevano colare in modo irrefrenabile e dispettoso il naso, senza l’irritante febbre che li costringeva a letto nei giorni in cui avrebbero voluto giocare agli indiani con le frecce di legno d’acacia che infilzavano arance, mele e anche i benedetti limoni, che gli adulti proteggevano come un reliquia santa in chiesa. Tanino, Peppe Cacaserpe e Mimmo saltavano i terrazzamenti dei terreni inseguendosi a colpi d’arance e zolle di terra. Raccoglievano le erbe aromatiche e le fragole di bosco. Facevano il bagno nella fiumara e frugavano ogni dove per scovare i nidi dei merli. A sera si raccoglievano intorno a Zio Carmelo per i racconti del mare e delle balene. Ascoltarono favole sconosciute e storie vere. Seppero di Moby Dick e del capitano Achab, delle baleniere di legno che solcavano mari sconosciuti ai confini del mondo. Seppero dei cannibali del Sellers e di quelli dei mari tropicali, della traversata oceanica di Fondacaro su una scialuppa da baleniera, con solo una piccola vela per affrontare un immenso mare d’acqua e vento. Ascoltarono i racconti dei pirati dei mari del sud, i racconti più belli che gli oceani avessero mai conosciuto. La sera sognavano la Tortuga e vascelli audaci pieni di tesori che solcavano mari tempestosi. Sognavano il sole brillante dei Caraibi e gli squali in attesa dei prigionieri condannati, buttati giù dal ponte della nave dell’Olandese volante. Sognavano il calar del sole nelle insenatura colorate e selvagge della foresta tropicale, con migliaia di fenicotteri rosa che si posavano come nuvole sui rami più alti degli alberi di mango. Maracaibo e La Guaira, erano entrate così in fondo al cuore dei bambini che erano divenute città delle valli d’Aspromonte, città da tenere d’occhio la notte perché potevano arrivare, inattesi, i pirati del Corsaro Nero. Questa volta toccava a Tanino essere

lanciato in aria e ripreso con un “Olè” di soddisfazione dal vecchio zio Carmelo al termine di ogni racconto. ZIO CARMELO si accorgeva, così, di essere ancora abbastanza forte da poter fare molte cose ancora nella vita, ed allora sorrideva più forte e lanciava più in alto Tanino. E quando sentiva che il suo corpo aveva ancora tanto vigore dentro pensava a Marianna, e si riprometteva di andare a trovarla per confessargli che era tornato per lei, solo per lei. Il primo novembre, appena fatta sera, Don Calarco ricevette la visita del dottor Profazio. Gli incontri tra i due proseguivano intensi man mano che passavano i mesi, i giorni, le ore senza una risposta al mistero. «La verità! La verità! - esordì il dottore appena varcata la soglia della canonica - La verità sta venendo meno, caro Don Calarco. É come se l’assenza della morte rendesse inutile, superflua la verità». Dette queste parole si sedette sulla solita poltrona di velluto blu viennese, accanto alla finestra e guardò, pensoso, la piazza del paese che era sotto i suoi occhi. Tolse il fazzoletto bianco dalla tasca della giacca e lo passò sulla fronte bagnata di sudore, con l’altra mano si slacciò il colletto della camicia e sospirò profondo. Il prete lo guardò con aria corrucciata e abbassò la testa in segno di assenso e rassegnazione. «Mi sono accorto anch’io di questa novità» rispose. «Pensavo di sbagliarmi, ma le tue parole danno conferma ai miei sospetti. Sai, il dubbio che la verità stia venendo meno, ha cominciato ad assalirmi da qualche settimana. Nelle confessioni dei fedeli ho notato prima reticenza, ecco posso dirti, fino ad agosto. Chi prima si confessava con un mare di parole, piano piano ha iniziato a dire sempre di meno, poi, solo qualche parola con lunghi silenzi. Poi il peccato era sparito dalle confessioni. Nessuno più peccava, almeno nessuno più mi ha confessato di peccare. Nemmeno una bestemmia, capisci? Impossibile, matematicamente impossibile come diresti tu, che un figlio di Eva non bestemmi» (continua).


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Di torri e di pirati

«In questo corposo volume di 406 pagine Cataldo ricostruisce finalmente, e con eccezionale dovizia di informazioni, la storia spesso dimenticata di una tragedia che vide il popolo calabrese per secoli inerme ed indifesa vittima di sanguinose devastazioni»

S

e appena si provasse ad unire anche idealmente, come nel noto giochino della Settimana Enigmistica - tutti i punti rappresentanti le torri disseminate lungo la fascia costiera dell’antico Regno di Napoli, si otterrebbe una catena lunga diverse migliaia di chilometri: sarebbe il secondo manufatto (dopo la Grande Muraglia cinese), probabilmente visibile dalla luna. Il giochino tenta di dare l’idea di uno dei tanti - l’ennesimo! - patrimoni storico/architettonici di cui è titolare, (spesso anche immeritatamente, per l’incuria che li denota) il Meridione del Bel Paese. Esso, noto sotto il nome di “Sistema Vicereale di difesa costiera” fu costituito a partire dal 1550, mettendo assieme impianti in massima parte di nuova costruzione, e, in qualche raro caso (come la nostra Torre di Pagliapoli, oggi meglio come Torre di Portigliola, trecentesca) adattando alla bisogna strutture erette in precedenza con sole funzioni di avvistamento. Il risultato fu una enorme, lunghissima, frontiera, cui fu demandato l’ingrato compito di avvistare e fronteggiare le invasioni di pirati turchi, berberi, saraceni, che, partendo dalle basi tunisine, algerine e greco-cipriote, devastavano con impressio-

nante regolarità ed efficienza le coste dell’Italia meridionale. Ben appropriato, quindi, è il titolo che lo storico geracese Enzo Cataldo ha apposto alla sua ultima fatica libraria, La frontiera di pietra, per i tipi di una delle più prestigiose Case Editrici del settore, la salernitana ESI (Edizioni Scientifiche Italiane). In questo corposo volume di 406 pagine, peraltro dedicato alle torri costiere della sola Calabria, Ultra e Citra, Cataldo ricostruisce finalmente, e con eccezionale dovizia di informazioni (tutte, com’è suo uso, rigorosamente d’archivio), la storia spesso dimenticata di una tragedia che vide il popolo calabrese per secoli inerme ed indifesa vittima di sanguinose devastazioni. Contrariamente ad altri volumi che in precedenza hanno trattato l’argomento in maniera incompleta o sotto forma di mera catalogazione, il racconto di Cataldo qui si snoda a partire dalla tragedia delle deportazioni umane con conseguente riduzione in schiavitù che indussero all’edificazioni delle torri, alle numerose difficoltà burocratiche che spesso le accompagnarono, alla descrizione dell’organizzazione del sistema di vigilanza, sempre e soltanto basandosi, come uno storico serio do-

vrebbe fare (e come invece sempre meno fa una certa storiografia d’accatto oggi molto in auge), su documenti d’archivio pazientemente scovati, spesso fra migliaia di carte polverose. Non mancano, poi, un inedito sguardo ad alcune strutture ausiliarie ingiustamente trascurate dagli storici (le casette per il corpo di guardia, tutte appartenenti ad una seconda fase dell’apprestamento difensivo), ed un corposo corredo fotografico in cui l’accostamento di immagini di qualche decennio fa alla situazione attuale delle non molte torri ancora esistenti, rende in pieno il senso dell’affermazione iniziale in merito alla trascuratezza di una terra (la Calabria), che poco o nulla fa per il recupero di questa sua formidabile memoria storica, spesso, per la posizione stessa delle torri, accompagnate da panorami mozzafiato (si pensi alla torre di Capo d’Armi, con le sue visioni dello Stretto e della fascia jonica, ambedue di incomparabile bellezza) che ne dovrebbero, al contrario, suggerire una forte azione di recupero, prima che il tempo concorra a portare a dolorosa conclusione quanto già i numerosi terremoti, e l’ignoranza umana, hanno pesantemente compromesso. Pino Macrì

La bella Reghium

«Nocera trasforma la malinconica vita di Giulia in un’icona, per questo viene definita una femminista ante litteram. E, con la pietà dello scrittore che cancella un triste finale, le addolcisce persino la morte»

G

iulia, figlia dell’imperatore Ottaviano Augusto, trascorse gli ultimi anni della sua vita rinchiusa in una torre, proprio davanti alla stretto di Reggio e di Messina. Una punizione esemplare per chi, come la figlia di Cesare, condusse una vita all’insegna dell’infedeltà coniugale e del piacere. Una punizione doppiamente esemplare considerando che, a pagare, fu persino il sangue dell’imperatore. Il contesto storico è forte, ampiamente documentato; anche Reghium è forte, conosciuta e bellissima. Ma quando date e dati si completano troppo, iniziano a peccare gli storici e la storia. Perché per comprendere è necessario animare. Riempire il quadro con vita, pensiero, sentimento. Questo è il merito di Nocera: essere entrato nella storia e averle dato colore. Con la sua penna la “figlia di Cesare” diviene una donna che riflette, e che soffre, abbandonata da Roma, l’esilio dalla sua terra. A consolarla il mare di Reghium, quell’estremo confine che Giulia ama nonostante la imprigioni. Nocera tradisce, nelle riflessioni di lei, il suo squisito legame con la Calabria, «Io amo questa città, sebbene

si possa dire che non la conosca! Amo la sua luce, i profumi di ginestra e di gelsomino che in primavera si spandono per le sue colline...». E in questa donna, in cui dissolutezza e poesia trovano uno strano equilibrio, il concetto (tutt’oggi poco condiviso) che uomini e donne siano uguali, nei diritti e nei doveri, esplode con una forza travolgente. Giulia non condanna i tradimenti che le leggi romane permettevano (anche) a suo marito, non vuole però essere condannata. Eppure per lei il trattamento riservato è l’esilio. A Reghium la bellezza di Giulia, così nota ai Romani, lasciata appassire al gelo di una torre, si trasforma nel tempo in una rassicurante saggezza «Io ero donna, però! Ma non volevo considerare ciò come elemento ostacolante la mia libertà. Volevo comportarmi da uomo, con gli stessi privilegi che le leggi davano agli uomini». Nocera trasforma la malinconica vita di Giulia in un’icona, per questo viene definita una femminista ante litteram. E, con la pietà dello scrittore che cancella un triste finale, le addolcisce persino la morte. A.I.

Nota biografica

Fortunato Nocera è impegnato da molto tempo in attività sociali e sindacali, in particolare come responsabile dell’ADA-Ardor (Associazione per i Diritti degli Anziani del Sindacato UIL). Si interessa di cultura calabrese, di ambiente, storia e antropologia dell’Aspromonte. Con Marzano è autore del volume monografico San Nicola dei Canali - Storie, personaggi, ricordi (AGE, Ardore, 2005) e curatore del libro: Figure di anziani nella letteratura calabrese (AGE, Ardore, 2007).


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Cinema

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LUPI E PICCIONI

Sapevamo fin dall’inizio che avremmo dovuto vedercela con un uccello, ma pensavamo, come tutti, che fosse Birdman dell’immenso Inarritu

Il film di Munzi andrà in giro per il mondo senza disturbare nessuno per contrastare, con la forza dei fatti, le insidiose bugie e mitologie pronunciate sull’Aspromonte.... (CS)

di GIOACCHINO CRIACO

«

Accettiamo il verdetto ma non invidiamo niente a nessuno», dice Francesco Munzi nella prima intervista dopo Venezia. «Il momento che le resterà della Mostra?», incalza la giornalista de La Repubblica, Arianna Finos. «L’applauso infinito del pubblico al Palazzo del cinema. Mi sono girato e ho visto gli abitanti di Africo, in sala, che piangevano. Mi sono commosso anch’io, perché loro sanno la difficoltà che ho incontrato e la resistenza che ho dovuto metterci, per arrivare alla fine del film», risponde il regista romano che ha portato in concorso alla Mostra il suo capolavoro Anime Nere. Maledetto piccione svedese, sbucato all’improvviso a inguacchiare il sogno calabrese. C’eravamo quasi, fino a poco prima della proclamazione ufficiale c’era la sensazione del successo, incoraggiata dalla stampa, dai critici, da un applauso fragoroso e lungo come non mai del pubblico. Si sprecavano le pacche sulle spalle e i complimenti. Non c’era classifica che non ci vedesse comunque nella cinquina del palmares ufficiale. Sa-

pevamo fin dall’inizio che avremmo dovuta vedercela con un uccello, ma pensavamo, come tutti, fosse Birdman dell’immenso Inarritu. Invece da sopra un ramo è saltato fuori il piccione di Andersson, un pacioso e rotondo svedese. Un regista geniale che ha stregato la giuria con le riflessioni esistenziali del pennuto. Avremmo preferito buscarle da un

fiche. Porterà in giro l’arte di un regista superbo, i paesaggi incantevoli dell’Aspromonte e dello Jonio, per uno spot clamoroso e gratuito alla Calabria. Mostrerà il dramma che è di alcuni figli della Calabria, ma anche la loro voglia di chiudere con la tragedia. Farà vedere i calabresi che si danno da fare e contribuiscono a un progetto che va oltre il film, conquistarsi una normalità che è possibile. Francesco ha dato tanto alla Calabria, e merita di essere ricambiato. Quelli che ci hanno lavorato hanno fatto tanto, meritano gratitudine. Questo giornale che ci pubblica merita tanto. Io ho cercato e cerco di fare quel che posso, spesso, sono certo sbaglio. Ma io non lo faccio per avere qualcosa in cambio; saldo il debito che ho con la mia terra, perché come tanti l’ho mollata per rincorrere i miei interessi. E comunque, debitori o meno, sarebbe il momento di riprendersela questa terra, togliendola dalle mani di chi la calpesta con i piedi. Anime Nere continua, per un viaggio che consegua un traguardo collettivo.

Mi sono girato e ho visto gli abitanti di Africo, in sala, che piangevano. Mi sono commosso anch’io, perché loro sanno la difficoltà che ho incontrato e la resistenza che ho dovuto metterci, per arrivare alla fine del film” Francesco Munzi colosso come Abel Ferrara, prenderle da un meridionale come Martone. A noi, lupi della Locride, ci ha stesi un volatile normanno. É andata così, c’era la serie A del cinema mondiale a Venezia. Anime Nere s’è preso il premio della critica Pasinetti, quello di Schermi di qualità Mazzacurati, l’Akai dei giapponesi e quello del nostro conterraneo geniale Fondazione Mimmo Rotella. Munzi è giovane, come lo è il suo film. Anime Nere continuerà il viaggio fra i Festival del mondo e le sale cinematogra-

di BRUNO S. LUCISANO

Anime

colorate P

er una volta non parliamo di ‘ndranghita, di morti ammazzati, di anime nere, di storie vere e inventate. Per una volta parliamo di successo, prima pensato, poi desiderato e infine raggiunto. E se lo merita tutto questo successo Gioacchino Criaco, per la sua serietà, per la sua modestia per la sua coscienza di uomo libero. Non sono un critico letterario e non vi parlerò del libro Anime Nere che ho letto, e tanto meno vi parlerò del film che non ho visto (sarebbe smisurata e fuori luogo l’immaginazione), cercherò di spiegarvi che alla fine, dopo tanti tormenti e sofferenze arriva la luce

che illumina e ripaga tanti sacrifici e privazioni. Arriva il miracolo, quello che non ti aspetti ma sogni, il lampo che, per una volta, scoppia in pioggia e lava ferite e tormenti. Qualcuno si metterà di traverso, dirà che sono le solite cose di mafia, i soliti morti ammazzati, i film stile Padrino. Qualcuno aggiungerà «niente di nuovo sotto il sole». Si sbaglieranno gli uni e gli altri, i primi quelli che si mettono di traverso, perché sono riconoscibili quando tentano di stare in piedi. I secondi che non vedono niente di nuovo sotto il sole, perché vivendo tra le nuvole, il sole non l’hanno mai visto. Goditi questo successo, caro Gioacchino, con la consapevolezza che anche il nero della tua anima, il nero che c’è in ciascuno di noi possa sbiancare, non già come il riso (cereale), ma come bellezza, sorriso, gioia di vivere. Oggi il Professore sarebbe contento di te, ha apprezzato sempre la tua scrittura. Un caro e affettuoso saluto. E tornare a scrivere e sognare.

Anime Nere è stato ospite anche al festival del Canada, registrando il “tutto esaurito” nei tre giorni di proiezione


Cinema

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LE ANIME NERE

I

di COSIMO SFRAMELI

l film Anime Nere di Francesco Munzi, tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco, è un vero capolavoro. Narra, finalmente dal di dentro, di ‘ndrangheta, di omicidi, di guerre, di droga, di emigrazione, di lavoro che non c’é. Un’opera d’arte che, con merito e fascino, parla della nostra società, muovendo oltre l’Aspromonte. Ed è convinzione comune che il Male non abita solo ad Africo o in Calabria, così come la violenza, il destino, la morte. Le Anime Nere di Munzi e Criaco discutono col mondo intero e del mondo intero, in perfetta autonomia (non dalla storia), che è proprio dell’arte, dalle mode di una Calabria violenta, complicata e bella, disperata e appassionata, sfruttata e vera, generosa e sorda. Anime Nere ha di fronte una Locride infetta in cui prevale la testa criminosa e criminale saldata ad un corpo economico, politico, istituzionale connivente e ubbidiente. Il primo ed unico film organico sulla ‘ndrangheta che Venezia, già mutilata di questo tema, abbia conosciuto. Uno spaccato di vita dei paesi dell’Aspromonte dove, secondo la cultura popolare e contadina, s’impone la doverosità della vendetta proporzionata all’offesa subita. Sangue chiama sangue e chi è colpito deve, a sua volta, colpire. Vita e morte, nascita e battesimo,

delle radici, si mutarono, per lo più, in emigrazione e violenza. La fisicità, utilizzata per vincere la natura della montagna serviva, adesso, per vincere l’ostilità della marina e di chi l’abitava. La violenza si frantumò in mille rivoli e divenne rivolta ommosse, la condizione degli afri- politica, omicidi. Divenne costruzioni dicoti, il cuore di Zanotti Bianco. sordinate, brutte. Divenne voglia di piePianse, dinnanzi a Giustino Fortu- gare gli abitanti delle marine ai propri nato e Giorgio Amendola, tenendo in voleri per sfizio, a volte. Divenne “ndranmano un pane di Lentisco. Pane nero gheta e faide e male, che ammorbò genti e come la fame e duro come la roccia. Pane paesi. Siffatta aggressività, non genetica, senza cuore. L’alluvione del ‘51, e molte viene prima di ogni organizzazione crimialtre avversità e interessi, portarono gli nale. É rabbia radicata nell’animo che si abitanti di Casalinuovo e Africo sul mare. esprime in sguardi e gesti di sfida, in voBianco cedette, per l’insediamento, un glia di prevaricare. Adesso gli africoti, i suolo cretaceo. Inutilizzabile dal popolo di kalabresi hanno un film. Anime Nere di pastori e contadini scesi dalla montagna. Munzi, ispirato al bello e omonimo libro Tribù antiche si ritrovarono, dopo otto- di Gioacchino Criaco. Quello che è il cento anni d’isolamento, in una terra stra- dramma di abitare luoghi e situazioni faniera, lontani dalla loro cultura, dalle loro migliari senza speranza è ben espresso nel abitudini, dai loro boschi. Bruciati dal sole libro, nel film. Dentro c’è la rabbia genee dagli inganni dei politicanti. La man- rata da ingiustizie, che genera ingiustizie. canza di prospettive e di lavoro, la perdita Gli Africoti sono stati soli e isolati, nella

di VINCENZO CARROZZA

DIRETTORE RESPONSABILE

Antonella Italiano

antonella@inaspromonte.it DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco bruno@inaspromonte.it Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 0964 66485 – Cell. 349 7551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 12/09/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.

fidanzamento e matrimonio, cresima e amicizia, sono misurati dall’invisibile tribunale dell’Onorata società che si muove quasi totalmente nel circuito dei rapporti interpersonali e fa capo tra i monti dell’Aspromonte. In Calabria, nella provincia di Reggio, in una società che somiglia alla vecchiaia piuttosto che alla giovinezza, col tempo è cambiato poco. Hanno divorato ogni bellezza, sventrando, deturpando e distruggendo questo pezzo di Sud al punto che spesso ci si vergogna di parlare il dialetto, o solo di esibire un’inflessione che è diventata, in tutto il mondo, la colonna sonora della violenza, del sottosviluppo, della rozzezza. Ed è Anime Nere ad essere il pensiero alto che tende a vedere la gente di Africo (da dove si vede e si comprende meglio l’Italia), quindi della Calabria, come a una identità mai persa, la cui cultura resiste e si aggiorna. Non mai da affrontare come una questione criminale, con la cura del ferro e del fuoco, con tribunali speciali, con leggi eccezionali: non è il “Regno della più oscura barbarie”, ma la conseguenza logica, naturale, necessaria di un certo stato sociale, senza modificare il quale è inutile sperare di poter distruggere il Male. Gli uomini e le donne, in Anime Nere, sono in cammino e, senza condannare, si sforzano di com-

Afriko

C

prendere le ragioni storiche ed antropologiche della scelta di campo dei malavitosi, rinnovando la speranza illuministica attraverso il sapere di un altro presente e di un altro avvenire. Quando è stato pubblicato il romanzo di Gioacchino Criaco, edito da Rubettino, sono stati molti a leggerlo e pochi a sostenerlo. Gran parte dei c.d. intellettuali calabresi hanno preso le distanze. Proprio coloro che avrebbero dovuto ribellarsi alla crescente uniformità del nostro mondo. Di chi sa che “non è la verità che arma l’intolleranza ma la pretesa del suo monopolio, la presunzione di esserne i portatori esclusivi”. Il film Anime Nere di Munzi, senza il Leone d’oro di Venezia sotto braccio, andrà in giro per il mondo senza disturbare nessuno a contrastare, con la forza dei fatti, le insidiose bugie e mitologie pronunciate sull’Aspromonte, per diradare l’oscurità che avvolge la sua gente, mettendo in luce storie di battaglie disperate contro il vento della storia. Fatti culturali, storici e sociali, che si fondono in un dialogo collettivo dal quale emerge la passione di Criaco e Munzi, fra i massimi conoscitori del fenomeno, e di quanti sono e continueranno ad essere, da diverse trincee, protagonisti di una lotta combattuta in prima linea contro la ‘ndrangheta.

montagna, nella marina. Zanotti Bianco, Don Stilo, ognuno a suo modo, hanno cercato di spezzare l’isolamento con poco risultato. Adesso Anime Nere ripropone disagi e drammi atavici della Kalabria intera. Anime Nere ha dato volto e gesti, al festival del cinema di Venezia, a drammi di territori abbandonati a sé stessi, da troppi anni, da una Nazione sonnolenta e spenta, senza coraggio. Una Nazione che non si accorge dell’ennesimo grido d’aiuto, del filo di speranza che si dipana dalla pellicola di Munzi. Venezia non ha premiato questa pellicola “neorealista” come meritava perché non l’ha riconosciuta, nella confusione delle maschere carnascialesche di cui ama circondarsi. Ma quando, finalmente, gli occhi che guardano senza vedere, torneranno a considerare seriamente le varie realtà di un Paese da ricostruire, allora ci si accorgerà anche di questo popolo antico, e se ne capirà l’atavico e bestiale isolamento e, forse, gli Africoti, i kalabresi, saranno meno soli.


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inAspromonte Settembre 2014

31 agosto 2014

“Brigante” Nicola De Agostino

Grazie all’Ente Parco, al Comune di Africo, a quanti hanno aderito alla 1^ Giornata ecologica Grazie a CaiReggio, Gente in Aspromonte, Gruppo Escursionisti d’Aspromonte, Santu Leu Apricus

Grazie ai Lupi dell’Aspromonte perché credono ancora nella montagna


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