"In Aspromonte" numero 14

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Direttore Antonella Italiano

inAspromonte

Ottobre 2014 numero 014

Capraio di Gallicianò (Aspromonte greco). Foto di Enzo Penna

DIRITTO ALL’OBLIO L’analisi

di COSIMO SFRAMELI, GIOACCHINO CRIACO, ROCCO PALAMARA

La legge (e la Costituzione) garantisce il diritto, agli uomini e ai popoli, di essere valutati nel loro stato attuale, soprattutto a fronte di cambiamenti dello stile di vita. Senza dover rispondere sempre del passato. Un modo per aiutarli a riconciliarsi con esso ed evitare strumentalizzazioni ad effetto. É questa l’unica strada possibile per risollevare la nostra terra pag. 2 - 3

Aspromonte greco

Ombre e luci

Gli usi nel corteggiamento

Africo antica

Il racconto. Al vecchio paese

To cippitinnàu. La risposta attesa

di Gianni Favasuli

di Francesco Violi pag. 9

pag. 4

L’inchiesta

Roccaforte del Greco

Usaf. La ferita di Nardello di Gianfranco Marino

pag. 11

Tra i boschi

Forti come querce

Aspromonte orientale Sant’Agata del Bianco

Il rifugio dell’Astronomo di Domenico Stranieri

pag. 7

Cinema

Il regista John Ford L’analisi. Sulle terre di frontiera

di Leo Criaco

di Giovanni Scarfò

pag. 12-13

pag. 22

Per padre ho un Cristo Redentore di Antonella Italiano

«

Vuoi vedere Campusa?» «No, non mi interessa». Così, delusa, camminai avanti, per farle strada tra la polvere e le erbacce. Terra e rovi hanno un sapore amaro, a venirci in compagnia, perché essi ti attendono, ti sfiorano, ti riconoscono, e accendere i riflettori ti dà sempre la sensazione di aver sbagliato, di averne violato il silenzio. Di essersi interposti tra equilibri che hanno il loro ritmo e la loro dignità. Fui presa da malinconia. «Vedi il genio civile? Il municipio? L’asilo? La caserma? Quelle sono le scuole intitolate a Zanotti Bianco» le mie mani si agitavano e andavano a vuoto, mentre genio civile, municipio, caserma, asilo, scuole, Zanotti Bianco, erano parole che mi rimbombavano nella testa. Mi accecavano di rabbia. Fermati! Fermati e ascolta i suoni delle zampogna e le serenate di cui è intrisa l’aria. In questi vicoli si nasconde ancora l’ansia dei tradimenti, lo stupore improvviso dei morti. C’è puzza di povertà e di capre. La senti? pag. 2-3


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Per padre ho un Cristo Redentore segue dalla prima di Antonella Italiano

Ottobre 2014

Ascolta, sono passi sulle mulattiere, chi arriva? I mastri o u signurino? Ma erano due mondi, i nostri, profondamente distanti. E nessuna domanda, fece, a cui valesse la pena rispondere. Nessuna che non ledesse l’oblio, a cui tutti hanno diritto; un popolo, così come un individuo. Perché esso è un manto pietoso sul passato e, proprio per questo, esso è un punto di partenza. Il diritto all’oblio è il diritto che fatti, o stili di vita, che non corrispondono

L’ANALISI di Gioacchino Criaco

L’IMMUTABILITÁ CHE

CI RENDE SERVI

I

popoli nomadi hanno una spinta genetica al movimento; vogliono un mondo senza confini in cui scorrazzare infinitamente - più si spostano e più realizzano il loro fine. Farli fermare non ha mai avuto un successo totale, come se al fuoco si levasse la fiamma o al vento il soffio. Al contrario, la Calabria per secoli ha rappresentato il punto di sosta ideale per tanti popoli che cercavano una

Copertina

inAspromonte

Il viaggiatore non muta la stazione di partenza, non ha il tempo di abbellirla; ha istanti troppo brevi per volerle bene. E una terra non può cambiare se non c’è una generazione che vi si ferma, che idei un progetto per il proprio futuro. I calabresi hanno una sola certezza: la provvisorietà del suolo che sta sotto i loro piedi. Restano in pochi nei posti natali, perché poche sono le opportu-

I calabresi hanno una sola certezza: la provvisorietà del suolo che sta sotto i loro piedi. Restano in pochi, perché poche sono le opportunità terra su cui costruirsi un futuro. Per millenni la nostra terra ha intrecciato vite diverse, culture differenti e sogni comuni. É stata la casa di chi ne voleva una per sempre e ha continuato a essere la culla del popolo che da tempi remoti la abitava. Poi è diventata carro, treno e nave e si è portato via quasi tutti, quelli che un tempo erano arrivati da un altrove e quelli che la avevano sempre abitata. E se qualcuno si chiede perché la Calabria non cambia e non migliora, la risposta da dare è semplice: le stazioni, i porti, gli aeroporti sono luoghi freddi, spesso senz’anima; spostano un’umanità in travaglio, in cerca di opportunità, speranza. La Calabria non muta perché l’interesse delle sue classi dirigenti è l’immutabilità che rende servi; e perché il suo popolo è da due secoli in transumanza, sempre ai bordi di un molo in attesa di una nave che lo porti via.

nità; e le poche occasioni buone toccano sempre a chi è nato bene. Il pane finisce in bocca ai furbi, che si tramandano l’intelligenza di padre in figlio e di tasca in tasca. Solo poche volte, i poco furbi strappano un morso buono per non prepararsi la valigia. Piccoli e pochi morsi che salvano pochi figli giusti. Il pane resta quasi tutto e sempre nelle madie dei fornai. E la verità è abbastanza semplice, in Calabria esistono due razze: gli zingari e gli stanziali. Ma i gitani calabresi non hanno dentro una spinta genetica che li rende felici in viaggi senza fine; il sangue gli dice che dovrebbero scorrazzare liberi nelle terre che stanno fra i due mari. Così continueremo a fare i nomadi, ad abbellire senza affezionarci troppo altre stazioni; e questo è il destino giusto di un popolo che non ha la forza di scassare le cassapanche dei fornai.

più all’immagine attuale dell’individuo, vengano dimenticati. Un riconoscimento, a cui fa cenno la Costituzione, per fermare le strumentalizzazioni che il mezzo d’informazione concede ai giornalisti. Troppo facile, per loro, sostituirsi a Dio. Non più il Cristo di Montalto, per gli aspromontani, ma un Dio con telecamera e microfono. Poco tempo. Ancor meno pazienza. E un malloppo di ordinanze (ordinanze, non sentenze) nascoste in valige da

hotel cinque stelle. E così bardato, il Dio della comunicazione decide, a seconda delle esigenze di redazione, chi vive e chi muore. Il diritto all’oblio è il diritto di ricominciare, anche se si ha sbagliato. Duro da spiegare a chi, per far reggere lo scoop, trova più comodo cambiare gli ausiliari, e passare dall’avere all’essere con un colpo di gomma. Ma “essere sbagliato” è una condanna che pesa più degli anni di carcere, quando suona da un giornale

o da un programma a tiratura nazionale. Palcoscenici da cui non si giudica l’uomo (che già sarebbe grave) lo si pregiudica (che è peggio). Il diritto all’oblio è il diritto a costruirsi una famiglia, a inventarsi un lavoro, a farsi prete o astronauta. Il diritto a pentirsi, a redimersi, a ricevere un atto di pietà, a fuggire. Ma soprattutto a non darne conto, a non doverlo spiegare. A non doverlo più spiegare. Dio l’ha insegnato. Il popolo aspromontano è un mondo

«HO DIRIT

«Faccio parte di quella generazione di ragazzi che nessuno ha saputo difendere, massacrata a sangue nei paesi dell’Aspromonte. Vittime uccise due volte, dai loro assassini e dallo Stato che le ha dimenticate. La speranza è stata negli uomini e donne di Calabria, quelli che a viso aperto hanno affrontato la ‘ndrangheta e anche quelli che da questa società ingiusta sono stati fatti “mafiosi” e vittime della mafia» L’INVIOLABILITÁ DELL’UOMO

«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità...» art. 2 Cost.

Il diritto all’oblio è collocato tra i diritti inviolabili menzionati da quella norma dinamica che è l’art. 2 Cost. É il diritto di un individuo ad essere dimenticato, o meglio, a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca. Il suo presupposto è che l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è racchiuso in quello spazio temporale necessario ad informarne la collettività, e che con il trascorrere del tempo si affievolisce fino a scomparire.

di COSIMO SFRAMELI

«

A volte, le interpretazioni del passato sono sprovviste di qualsiasi fondamento

« Édi ilunrealismo grande scrittore, Saverio Strati, che riaffiora come denuncia di antiche ingiustizie c’è libertà « Non di idee quando manca il rispetto verso chi dimostra di volersi riconciliare col passato Le foto a destra e a sinistra (pag. 2 e pag. 3) sono scatti di Enzo Penna. Nella foto in alto, San Michele Arcangelo (foto di Antonella Italiano)

T

re cavalieri, dopo aver ucciso un nobile che aveva violentato la sorella, fuggono dalla Spagna e sbarcano nell’isola di Favignana, al largo della punta occidentale della Sicilia. I tre latitanti in fuga trovano rifugio in una grotta dove, nel dare sfogo ai loro sentimenti di ingiustizia, istituiscono una nuova forma di fratellanza. Si chiamano Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Nei ventinove anni successivi inventano e affinano le regole dell’Onorata Società che porteranno in giro per il mondo. Osso si consacra a San Giorgio e si reca nella vicina Sicilia per fondervi la filiale dell’Onorata Società, diventata nota come mafia. Mastrosso sceglie la Madonna come patrona e fa rotta verso Napoli per fondervi un’altra filiale, la camorra. Carcagnosso diviene devoto di San Michele l’Arcangelo, attraversa lo Stretto e sbarca in Calabria, dove fonda la ‘ndrangheta. QUESTA É UNA LEGGENDA che viene raccontata alle reclute che si preparano a entrare nelle ‘ndrine locali per dedicarsi a una vita di omicidi, estorsioni e tanti altri fatti illeciti. É una leggenda, ma una leggenda seria, di quelle che hanno ancora il valore di un sacramento. A volte, le interpretazioni del passato sono sprovviste di qualsiasi fondamento e possono dare adito a innumerevoli atrocità e nefandezze. Il fatto stesso che gli ‘ndranghetisti attribuiscano un’importanza tanto grande alla propria storia, tant’è che i “normali” delinquenti non hanno

ostentazioni del genere, rivela la portata della loro ambizione. In passato, le fratellanze criminali hanno oscurato la realtà imponendo una propria versione dei fatti che, in maniera scandalosa, è poi diventata la versione ufficiale della storia. I fatti di ‘ndrangheta traboccano di scandali e i boss più importanti hanno goduto di ricchezza, prestigio e potere; persone che non si sono fatte alcuno scrupolo a ricorrere alla violenza ed il vero scandalo è stato nell’aver costituito, non solo nell’Italia meridionale, una classe di governo parallela, con infiltrati ovunque, che hanno condizionato l’economia, la finanza, continuando a godere del consenso popolare. LA ‘NDRANGHETA NON è mai esistita isolata dal contesto sociale e le cose che la accomunano sono altrettanto importanti di quelle che la differenziano; ne sono visibili le tracce con il linguaggio che unisce con la gente. Nella Società Onorata non c’è stato posto per altri, ne ha fatto parte l’uomo vero, l’uomo di sostanza, l’uomo di malavita, dotato di “Sette cose belle” che sono: Omertà, Fedeltà, Politica, Falsa-politica, Carta e Penna, Coltello e Rasoio. In un mondo dove “Omertà” significa “Umiltà”, secondo la “regola sociale”, l’uomo d’onore deve possedere 99 punti di umiltà e una di brutalità. “Omertà”, quindi, è la capacità di mantenere il silenzio sulle regole e i delitti dell’Onorata Società. Invece, nella lettura nazionale, “Omertà” è considerata una caratteristica pecu-


Copertina pieno di colori e di sfumature che cerca, disperatamente, di allontanare lo stereotipo che lo vuole per forza o ‘ndranghetista o pentito. O buono o cattivo. O di Bagaladi, Delianuova, Santa Cristina o di Oppido, Polsi, Africo, Platì. Ma tutte queste realtà sono piene di sfumature, hanno lati positivi e lati negativi. Hanno ombre e luci. «Io non so cosa devi raccontare nel tuo servizio, ma tieni presente che ogni cosa ha ombre e luci. Noi, ad esempio, col giornale rac-

contiamo le ombre, certo, ma evidenziamo le luci» «Si, è giusto. lo capisco». Ma non c’era calore, non c’era curiosità o passione in quella risposta. Un modo approssimativo, piuttosto, di rapportarsi alle cose, domande che tendevano a creare un alter ego “buono” degli aspromontani, su fatti cattivi. A farne una sorta di “ragazzi di Locri” della montagna. «Sono osservazioni sbagliate. Piene di pregiudizio le tue» «E se io volessi parlare in modo negativo della vostra

inAspromonte Ottobre 2014

realtà per poi affermare l’esatto contrario?» «Sarebbe un errore gravissimo. Noi non siamo “il contrario” della ‘ndrangheta, noi siamo la risposta all’assenza di infrastrutture, di lavoro. Siamo associazioni di volontari che ripuliscono i borghi e le strade dell’Aspromonte, siamo accademie e università che raccolgono fondi per interventi strutturali, siamo un giornale che recupera cultura e memoria, siamo libri e scrittori. La ‘ndrangheta è altra cosa. Non è il nostro contra-

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rio. Non abbiamo bisogno di essa per darci un senso». Il diritto all’oblio è un Cristo, lassù, a quasi duemila metri, con il volto sereno e i lineamenti perfetti. La sua voce rimbomba tra i due mari, sostenuta dal vento. Il suo sguardo è severo su Reggio, patria di potere e podestà. Ed è un Cristo Redentore. Perché il diritto all’oblio è diritto alla redenzione, innanzitutto. Del singolo uomo, come del popolo. Di una terra. Della sua cultura.

TTO ALL’OBLIO» IL RACCONTO di Rocco Palamara

liare del popolo meridionale, portato dalla sua natura a non vedere, non sentire, non parlare. Non a caso, le organizzazioni criminali invocano il Codice d’Onore e si autodefiniscono, nelle varie fasi della propria storia, “Onorata Società”. SI CONTINUA A PARLARE del deficit di legittimità dello Stato, della mancanza di fiducia nelle pubbliche istituzioni da parte dei cittadini, del clientelismo diffuso nella politica e nell’amministrazione pubblica e così via. La storia della criminalità organizzata è la storia della forza della ‘ndrangheta e della debolezza dello Stato; più che una storia di morti e violenze, è una storia di intrighi e disinformazioni, di collusioni fra una parte della classe politica e i boss; non è solo un giallo in cui bisogna cercare il colpevole, ma è un giallo in cui bisogna cercare coloro che sapevano e comprendere i motivi per i quali non fu fatto nulla. Le certezze del passato non abitano da queste parti e se le ragioni storiche fossero tagliate da un fascio di luce, in una verità senza ombre, sarebbe più facile chiudere i conti con un trascorso di violenze terribile che ha lacerato la Calabria. FACCIO PARTE DI QUELLA generazione di ragazzi pieni di ideali e carichi di rabbia, che nessuno ha saputo difendere, anche da se stessi, massacrata a sangue nei paesi dell’Aspromonte, spesso fino alla morte. Vittime uccise due volte, dai loro assassini e dallo Stato che le ha dimenticate. La speranza è stata negli

uomini e donne di Calabria, quelli che a viso aperto hanno affrontato la ‘ndrangheta e anche quelli che da questa società ingiusta sono stati fatti “mafiosi” e vittime della mafia. Non può esserci libertà di idee quando manca il rispetto verso chi, anche tra i più umili, dimostra coi fatti di voler riconciliarsi col passato, rivisitando la storia di questa terra e della sua gente. É una battaglia quotidiana, costante, ostinata, ma che consente, la sera, di chiudere gli occhi in pace, per aver compiuto il proprio dovere; la mattina dopo, di potersi guardare allo specchio, con le pieghe del tempo più profonde nel viso, ma senza un minimo di vergogna, soddisfatti di aver impedito, quanto meno tentato, che la Calabria non potesse essere ridotta a un cumulo di macerie puzzolenti. É LA QUESTIONE Meridionale, ormai nazionale, ad essere diventata il tema dominante per il riscatto di un popolo avviluppato da mali secolari ed endemici. Ed è il realismo di un grande scrittore, Saverio Strati, che riaffiora come denuncia sociale di antiche ingiustizie attraverso un tono pacato e permeato di venature sapide di saggezza contadina. Quella del Sud è una terra ingrata e graffiata anche dalla malasorte, dove uomini ed animali hanno convissuto e hanno fatto parte dello stesso mondo. «Chi vi pare che ingrassa su questa terra? - dirà in Tibi e Tascia I porci non lavorano, il medico… il farmacista, il prete, il brigadiere, don Carmine e il podestà».

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Leu u Papaleo

eo Ligora, detto Leu u Papaleo, era un uomo possente e già temuto componente della squadretta del fascio di Casalinovo. A chi gli rinfacciava quel suo passato faceva presente che il fascismo aveva anche debellato i ladri e fatto tante buone opere come i “caselli del fascio” sui Campi di Bova. Da quell’esperienza giovanile gli restò un cipiglio severo e il rispetto delle leggi. Tuttavia anche a lui toccò una volta essere preso in fallo da un controllore del treno che lo trovò senza biglietto. Era accaduto che per andare ad Africo Nuovo partendo da Bovalino prese il treno di corsa. Ma lungi da voler viaggiare a sbafo, quando passò il bigliettaio si fece avanti apprestandosi a pagare il dovuto, trovandolo però indisposto a credere nella sua buonafede. Secondo quello, egli non era salito nella stazione di Bovalino ma in quella prima di Ardore. Seguì un battibecco in cui la pacata, e a tratti esasperata, favella paesana nulla poté contro l’appuntito italiano ostentato dal controllore. I due linguaggi mal si conciliavano, ed il contrasto era maggiore se a trovarsi di fronte erano un montanaro e un impiegato. «Guarda questi pecorari!» pensò tra sé e sé quest’ultimo, che cogliendo a quel punto l’occasione di far vedere “chi là la comandava”, pensò di castigarlo. Gli intimò di pagare -

pena la denuncia - il doppio del biglietto a partire dalla lontana Roccella, luogo di formazione del treno. Il costo ammontava parecchie volte il giusto ma Leo Ligora che, con le sue mani mostruose avrebbe potuto persino stritolarlo, abbozzò e pagò quanto pretese l’impiegato. Fidò comunque che, secondo il detto, il mondo è piccolo e che solo le montagne non si incontrano e che gli uo-

chiesero di entrare. Sotto il diluvio e dall’alto dello scalino e della sua possanza Leu u Papaleu dovette apparire loro come Polifemo nell’antro della caverna. E lui chi ti vide tra quelli? Niente meno che il bigliettaio! «Ahhaaaaaa!» fece u Papaleu. Poi disse: «Allora, voi tre potete accomodarvi. Voi invece - disse al controllore - se volete entrare dovete prima pagarmi quattro volte il biglietto Roccella/Africo Nuovo!» «Io non vi devo pagare niente!» protestò il malcapitato. «E tu resti là!» tuonò l’uomo della porta prima di chiuderla, abbandonandolo al temporale. Il casello del rifugio era di tutti e di nessuno, e quindi nemmeno del Papaleo; ma i marinoti, saliti sin là in cerca di funghi, nell’altrui regno dei montanari non osarono contraddirlo: entrarono solamente quelli col permesso. Il Papaleo, ligio alle leggi della montagna, pregò i forestieri di accostarsi al fuoco per asciugarsi e sempre per creanza - cominciò a spiegare loro il motivo del suo gesto. Così si faceva tra cristiani. Dopo un poco un ribussare alla porta lo distrasse dal discorso. Si scusò e ritornò all’uscio trovandosi nuovamente il tizio; ma non più quello tronfio d’autorità imbattuto sul treno ma (anche lui) un uomo in difficoltà, che bisbigliò: «Facimu comu diciti vui: pagu... pagu!».

Seguì un battibecco in cui la pacata, e a tratti esasperata, favella paesana nulla potè contro l’appuntito italiano ostentato del controllore mini invece… «Ma che? e quello sarebbe un omo? Massimo un ominicchio!…»; aggiustò il concetto. Rimuginando ancora disperò però di poterlo veramente rincontrare visto che di rado bazzicava quei posti. E invece Leo u Papaleu la sua occasione la trovò molto presto e - quel che è bello - nel luogo giusto. Un giorno, passando sull’altopiano dei Campi per tornare a Casalinovo, fu sorpreso da un temporale che lo costrinse a rifugiarsi in uno dei due strabenedetti caselli del fascio: rifugi appositi in caso di pioggia o nevicate. La porta sempre aperta, entrò e accese il fuoco in attesa che il tempo si acquetasse. «Chissà quanto dura» pensò dispiaciuto dal fatto che sarebbe stata dura aspettare a lungo senza nessuno con cui conversare. A un tratto però sentì bussare alla porta: erano quattro forestieri che


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Ombre e luci

inAspromonte Ottobre 2014

AL VECCHIO PAESE

Africo antica. Viaggio nell’Aspromonte del dopo ‘51, attraverso i racconti e le nostalgie degli africoti

Africo antica, Aspromonte orientale. Foto di Bruno Criaco

«Vincenzo era nato in quei posti e, come un cervo bramisce alla vista dell’acqua, così lui fremeva al contatto con ciò che lo aveva visto correre, a piedi nudi, giù per quelle scarpate»

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di GIANNI FAVASULI

a prima volta che mi avventurai sull’Aspromonte, con tanto di binocolo e di mappa topografica militare, alla ricerca di quello che rimaneva di Africu vecchju, del paese abbandonato dopo la disastrosa alluvione del 1951, mi persi. Come quel mio amico che si era smarrito nel West Edmonton Mall, nel più grande centro commerciale del Canada - dove eravamo andati a bighellonare - nonostante avesse con sé la cartina dove erano accuratamente segnati tutti i reparti e tutte le vie d’uscita. Dopo reiterati ed inutili appelli lanciati con gli altoparlanti sia in lingua inglese che in dialetto calabro; dopo parecchie ore di affannose ricerche, lo ritrovammo, sul far della sera, a Galaxyland. Stordito ma felice, con un sacchetto di popcorn tra le mani, saliva e scendeva dalle giostre. Come gli schiamazzanti ragazzetti. Non senza timore, dunque, mi apprestavo a passare la notte all’addiaccio quando, all’improvviso, dalla fitta macchia, tra lo scampanìo dei campanacci delle capre e l’abbaiare incessante, ringhioso, dei cani, vidi sbucare, sotto le mentite spoglie di un pecoraio dalla folta, ispida barba e dal villoso, granitico petto, il dio Pan in persona accorso in mio aiuto. Pericolo scampato.

zavano, spumeggianti, in una sottostante e ampia gurna. Da lì, in un alveo meno sinuoso e meno ripido del primo, che si diramava, a tratti, in rigagnoli e gore, specchi per agilissime e vanitose libellule, continuavano, sonnacchiose, la loro corsa verso il lontano, glauco mare. Un tiepido venticello portava odori di muschio frammisti ad altri di felci ed armenti mentre delle improvvise schegge di luce, frombolate, scagliate nell’aria da lontane, misteriose scaturigini, a tratti, a guisa di baleno, mi accecavano gli occhi.

Dassai terri e boschi senza fini, ‘i mbiàti morti e ‘u nigru pani, î vegnu î svernu nta chisti marìni, comu migrànti amménz’â ggenti strani...

LA SECONDA VOLTA, memore del fiasco precedente, per non correre inutili rischi, andai a colpo sicuro. Mi feci accompagnare da Vincenzo Versace. Montanaro doc! Uno che nel gioco d’û brìgghju paràtu non aveva rivali. Uno che nella cerca dei funghi aveva un fiuto eccezionale nello scovare quelli di maggior pregio: porcini, ovoli e pipìndari. Uno che conosceva l’Aspromonte meglio delle sue tasche. Lo scenario che quella mattina di maggio si aprì davanti ai miei occhi, stupendo e selvaggio, mi fece rizzare ‘u pilu! Mi fece mancare il respiro. Abbarbicate sulla cresta rocciosa di una profonda gola dell’Aspromonte, le case, sventrate dalle frane, degradavano, in ripido pendio, fino ad un breve, naturale pianoro; poi, in un susseguente tratto, ancora più ripido del primo, si sfilacciavano come lana alla rocca e andavano a mischiarsi, a confondersi, con i pruni selvatici e con le cespugliose ginestre, con le acacie e con gli spinosi rovi. Le lucertole, mute sentinelle tra le crepe dei muri diruti, pareva si stizzissero quando il sole, andando a celarsi dietro un cumulo di grigie nubi, che facevano da corona ad alte cime dalle brulle pendici, smetteva di riscaldarle. A valle, le acque di una fiumara che scorrevano rapide, ingrossate dalle abbondanti piogge cadute qualche giorno prima, formavano una specie di lungo, argenteo, strisciante serpente; vorticose nel punto in cui, repentinamente, sbal-

VINCENZO, INTANTO, seduto sopra ‘n’armacéra, su di un muretto a secco, si riempiva l’anima ed i polmoni con quell’aria salubre, con quei profumi di casa, d’antico. Tutto quanto il suo essere pareva assorbito dalle cose circostanti e lui in ogni angolo, in ogni pietra, ritrovava frammenti di un tempo ormai perduto e lontano. Quando respirava profondamente, le sue labbra emettevano dei lunghi sibili. Simili a quelli che emette la legna umida messa ad ardere sul fuoco. Vincenzo era nato in quei posti e, come un cervo bramisce alla vista dell’acqua, della dolce compagna, così lui, in silenzio, fremeva al contatto con tutto ciò che lo aveva visto crescere, con tutto quello che lo aveva visto correre a piedi nudi giù per quelle scarpate. Ad un tratto, come se si svegliasse da un lungo sonno, mi raccontò: «Da piccolo, quando la combinavo grossa, ricordo che mio padre dapprima me le dava di santa ragione con la cinghia dei calzoni; poi, mi ripeteva che se continuavo a combinare guai, mi avrebbe dato in pasto ad un mostro, ad un uccello rapace che aveva due lunghe ali d’acciaio ed una grossa pancia capace di contenere più di cento pecore squartate. Io, impaurito più dall’idea di andare a finire tra le grinfie di un così terrificante mostro che non da quella delle botte, per un po’ di tempo me ne stavo quieto. Finché un giorno, mentre mi trovavo al pascolo con le capre, il cielo, in modo cupo, incominciò a rimbombare come una grancassa battuta energicamente da un mazzuolo. Da lì a poco, mio padre, indicandomi una gigantesca sagoma nera che, come per magia, volava tra le nubi, mi disse che quello

che vedevo altro non era che l’uccello rapace che si mangiava i bambini cattivi. Rimasi terrorizzato! Da allora in poi, appena sentivo il rombo di qualche apparecchio correvo a nascondermi, a rintanarmi nell’incavatura di una grande quercia, mio rifugio segreto. Da lì, non mi muovevo fino a quando non cessava il pericolo». A QUEL PUNTO, SORRISE, per un attimo; poi, dopo essersi acceso una sigaretta, una nazionale senza filtro, riprese: «Poi scoppiò la guerra e diventammo tutti dei pettirossi impauriti! Gli uccelli rapaci, a stormi, dalle loro grandi pance sganciarono sul paese non pecore squartate ma bombe, morte! E l’incavatura della quercia, ormai troppo stretta, troppo angusta, non poteva più darmi ricetto! A distruggere tutto quello che la guerra, pur nella sua brutalità aveva risparmiato, ci pensò l’alluvione. Fu una cosa terrificante...». E man mano che raccontava l’avvenimento, le rovine del paese sembravano ricomporsi come i pezzi di un puzzle e dai comignoli anneriti delle case diroccate pareva che di nuovo, il fumo, ripigliasse ad incensare il cielo. Mentre dalle rughe, dalle viuzze e dalla piazza, sembrava si levassero delle voci, dei clamori. Vincenzo, intanto, continuava: «La gente, fiera nella giacca di fustagno e nei calzari fatti con la pelle delle vacche; fiera della fatica di un altro giorno, se ne stava seduta sui gradini della chiesa a discutere di politica e di miseria quando, ad un tratto, incominciò a piovere. Dapprima fu pioggerella leggera, incostante; poi, all’improvviso, si aprirono le cateratte del cielo e l’acqua venne giù a scrosci, a diluvio. Piovve ininterrottamente per due giorni e per due notti e, nel frattempo, il paese, tagliato fuori dalle comunicazioni e dal mondo, iniziò a vivere il suo dramma all’insaputa di tutti. Una frana, già dopo il primo giorno di pioggia, verso le nove della sera, si era abbattuta sul municipio, seppellendolo. La notte appresso, la montagna incominciò a brontolare, a tossire in modo cavernoso ed un suo costone, carico di macigni e di alberi secolari, con un boato, si mosse, si mise in cammino. L’impatto con le fragili case fu rombo di tuono. La gente, sbigottita, urlava e piangeva. Le madri contavano i figli mentre i vecchi e gli infermi, a braccia, sulle spalle, su lettighe approntate alla meno peggio, al lume della teda, erano trasportati verso luoghi ritenuti più sicuri. Fu una cosa terribile! Quando ancora ci penso, mi vengono i brividi!» concluse, comprimendosi il petto con le braccia incrociate. Quasi volesse frantumare il ghiaccio che gli attanagliava il cuore.


Ombre e luci

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inAspromonte Ottobre 2014

Caraffa del Bianco. Rosa Tedesco, la seta e il suo telaio: come le donne greche e latine nei poemi epici

L’ULTIMA MAESTRA

LA PROVOCAZIONE

di Bruno Salvatore Lucisano

Quale Nord? C

Rosa Tedesco davanti al suo telaio, sopra la sua ultima òrditura. Foto di Maria Grazia Voloná

Quando si perde un antico mestiere, un pezzo di montagna muore. É la storia, reiterata, di questa terra di DOMENICO STRANIERI

E

ra come l’inizio di un antico rituale. Si aveva questa impressione quando Rosa Tedesco, l’ultima grande maestra di telaio, si approntava a tessere. La preparazione di tutto, òrditura, aveva qualcosa di misterioso, esoterico. É difficile persino descriverla a parole. La sua discepola, Grazia Volonà, la seguiva in questa particolare funzione, innanzi ad un muro di pietra, dove in silenzio, sulla crucièra, si stabiliva la lunghezza e la larghezza delle coperte di seta. Era la base del lavoro. Il disegno si definiva a parte. Rosa Tedesco, di Caraffa del Bianco, era, a sua volta, l’allieva prediletta di Agata Borgia (a Giànzina) che le insegnò tutto dell’arte del telaio. Prima di morire le donò anche il suo gràstellu, uno strumento di legno indispensabile per dividere i fili del tessuto all’inizio del lavoro d’intreccio (in attesa di riempire u pettinu).

Quasi un riconoscimento simbolico per chi l’aveva seguita fin da bambina ed era ormai pronta a sostituirla, ad essere lei una maestra. Difatti, non c’era nessuno (giornali, tv, scuole ecc..) che occupandosi degli antichi mestieri del nostro territorio non andava a trovarla. E sicuramente il ritmo del suo telaio (nel tempo del progresso privo di ogni

prendere posizione al telaio. Era raffinata ed infaticabile. Tra le tante cose, era pure discendente di Vincenzo Tedesco, il religioso a cui si deve la Memoria dei luoghi antichi e moderni del circondario di Bianco, un’opera fondamentale, pubblicata a Napoli nel 1856. Con lei, dunque, se ne va un mondo, poiché la sua tecnica, oltre a rappresentare un fenomeno culturale, era innanzitutto una maniera di stare nella realtà, di tenere insieme le importanti lezioni del passato con i progetti del futuro. Non si fermava mai, difatti, Rosa Tedesco, nemmeno quando la malattia le rendeva incerti i movimenti. Lei continuava ugualmente a piegare la testa su qualche coperta, per coglierne meglio la luce. E mentre l’osservava pensava sempre alla stessa cosa, magari tratteggiando un disegno nella mente. Ovvero che, nei prossimi giorni, c’era ancora tanta seta da lavorare.

La preparazione di tutto, òrditura, aveva qualcosa di esoterico: si faceva innanzi ad un muro di pietra, dove in silenzio, sulla crucièra, si stabiliva la lunghezza e la larghezza delle coperte senso umano) non era dissimile da quello delle donne greche e latine descritte nei poemi epici. Ma non era un ritmo “freddo”, meccanico. Di Rosa Tedesco (scomparsa alla fine di settembre) basterebbe, difatti, narrare solo gli occhi, la gioia che traspariva quando arrivava con tutti gli arnesi per òrdire (anche fino a 10 coperte). Aveva un modo tutto suo, poi, di

ontinuate la vostra guerra di distruzione. Avanti con le vostre maldicenze sul Sud e sui sudisti, parlate e scrivete di quello che non sapete, sparate bordate per far contenti quanti la pensano come voi perché di loro, e solo di loro, v’importa. Raccontate fandonie ben retribuite, fino a quando non avete fatto secca l’ultima bugia. Hai voglia a tirare schiaffi sulle facce di bronzo e calci sui culi che cavalcano i muli e siedono su muri di pietra! É tutto inutile. Sono troppo sotto terra le nostre radici per essere estirpate e il vostro veleno non servirà a essiccarle, perché sono innaffiate dall’orgoglio della nostra civiltà, dalla nostra storia e dalle nostre lacrime. Le nostre radici sono solide come solido è il ricordo che abbiamo (a differenza vostra) dei nostri padri, e ne andiamo orgogliosi. Almeno, nella nostra miseria, siamo sicuri che non v’inventerete un altro Garibaldi! In un tempo lontanissimo, quello magno greco, c’è stato un periodo in cui la civiltà calabrese era il centro del mondo ed ha espresso uomini come Milone, Zaleuco, Nosside, Pitagora. C’è stata anche la Calabria di Federico II di Svevia che fu luogo di incontro di culture e civiltà diverse, come quella islamica, occitana, greco-ortodossa. Ma esiste anche una storia infausta di questa regione, quella delle incursioni dei pirati saraceni e poi dei turchi, lungo le coste. E oggi dalle incursioni dell’ignoranza, della cattiveria, della politica indegna e di certo giornalismo che si ostina a dividere per proliferare.

Se non ripartite dal Sud, dai sudisti, ritornerete a esser poveri e stavolta noi, i soldi, non ve li diamo, perché ce li avete già rubati una volta e, anche, perché li abbiamo finiti. Vi possiamo dare, però, un po’ di coraggio per mascherare la vostra codardia e un po’ di sole per asciugare la muffa grigia che colpisce le vostre zucche lasciate per troppo tempo all’aperto. Non vi dirò con chi ce l’ho. Niente nomi, niente pubblicità, nemmeno per uno solo che leggerà questo articolo. D’ora in avanti scriverò a te e di te, pennivendolo del Nord, senza nominarti, anzi ti chiamerò “Innominato”, che altri non era se non Francesco Bernardino Visconti, bandito nordista a capo dei Bravi (non tanto), poi pentito, come tanti mafiosi e pentiti di oggi. Nato a Brignano Gera D’Adda, Bergamo, Lombardia. A quel tempo non si conoscono presenze calabresi in Lombardia, le prime si riscontrano a Como nel 1950 ma, in modo massiccio, nel 1965 e 1975 in buona parte della Lombardia. Partiamo da I Promessi Sposi e da Francesco Bernardino Visconti, cioè dal 1825 fino ad arrivare a Renato Vallanzasca, nato a Milano, e Luciano Lutring, nato a Milano e, nel frattempo, vediamo bene cosa è successo ma soprattutto che sta succedendo. E conteremo pure i morti per vedere se sono più quelli fatti dalla ndranghita, o dalla mafia, oppure sono quelli fatti dalla fame, dalla corruzione e dalla mala politica. E conteremo i suicidi, per mancanza di lavoro e per devastazione della dignità umana. Faremo un po’ di e i conti. A presto.


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Racconti popolari. Le credenze e i rituali degli anziani all’interno dei miti sopravvissuti al tempo

UNA VITA DA LUPO MANNARO

La licantropia fu scambiata per una maledizione, e gli individui affetti dalla malattia condannati all’isolamento e alla persecuzione. Tanti sono i casi confermati dalla storia di MIMMO CATANZARITI

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Una storia, la nostra, che attinge a un mondo arcaico complesso e stratificato

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In tutti i popoli, l’immagine che è stata data del lupo è quella di un animale selvaggio

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La licantropia era una sorta di male, che portava a comportarsi come una bestia feroce

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I sensi del lupo mannaro si affinavano, la sua forza aumentava, il viso si deformava

Foto tratta da ilgiornale.it

V

iviamo in una terra in cui molto del nostro passato, delle nostre tradizioni, rimane relegato nella sfera del mito. Una storia, la nostra, che quasi sempre attinge a un mondo arcaico complesso e stratificato. Un mondo contadino, che manteneva un patrimonio di cultura fantastica, fatto di credenze, superstizioni, racconti, miti che a volte avevano origini lontanissime, legati al ciclo delle stagioni e all’osservazione dei fenomeni naturali. Un mondo dove la magia e la stregoneria permeavano l’immaginario di gente semplice, che viveva queste manifestazioni con il timore, figlio dell’ignoranza e della paura Una antica leggenda, trasmessa soprattutto dai racconti degli anziani, e che ha interessato la letteratura e il cinema, era quella legata alla figura del lupo mannaro (lupu minàriu o lupu pampinu). Un po’ in tutti i popoli, l’immagine che è stata data del lupo è stata quella di una bestia selvaggia, feroce ed aggressiva. E di questa triste fama ne approfittavano gli adulti per farci stare buoni e farci addormentare da piccoli. La licantropia (dal greco lykos, lupo, e ànthropos, uomo) era una sorta di male che portava, chi ne era affetto, a comportarsi come una bestia feroce e persino ad assumerne le sembianze. La malattia, stando a quanto si raccontava, aveva uno sviluppo terribile e violento. I sensi del lupo mannaro si affinavano considerevolmente, divenendo simili a quelli di un cane. La sua forza aumentava a dismisura ed egli assumeva le fattezze del lupo, con i denti allungati, il viso deformato e il pelo ispido. Per finire gli crescevano, alle dita delle mani e dei piedi, dei formidabili artigli. Si diceva che ciò avveniva regolar-

mente nelle notti di plenilunio, dove la luna, che ha sempre esercitato una forte azione nella fervida fantasia del popolo e dei romanzieri, portava chi era affetto da questa malattia a comportarsi come una bestia. Quando l’individuo si trasformava in lupo mannaro perdeva completamente il controllo di sé e vagava per le campagne e per i boschi ululando come un lupo e, preso dall’istinto del predatore, aggrediva e sbranava ovini, bovini, suini, animali selvaggi

Il segno di croce incute paura al licantropo, che per questo non può nemmeno attraversare un quadrivio

e uomini, non facendo distinzione alcuna tra estranei e parenti. Per diventare lupo mannaro bastava essere stati morsi da un altro lupo mannaro. Una persona che aveva la sfortuna di imbattersi in un lupo mannaro ed esserne morsa, sarebbe stata contagiata e si sarebbe trasformata in un licantropo, che a sua volta avrebbe sbranato e morso altri sventurati trasmettendo così la maledizione. Esistevano anche altri modi per diventare lupi mannari: ad esempio c’erano notti in cui le stelle e la luna si trovavano in una particolare posizione e se in queste notti si veniva morsi da un lupo si poteva diventare licantropi in modo autonomo. Si narrano numerose leggende sull’argomento, storie di persone aggredite che, in seguito a morsi, sono

diventate licantropi e hanno persino sbranato i loro familiari. Un episodio di questi venne pubblicato nel 1883 a Londra nella guida turistica Città del Sud Italia e di Sicilia. *Il conte di Nicastro aveva sposato la bella figlia di un nobile calabrese. Il Conte possedeva una riserva di caccia e, per tenere lontani i bracconieri, la faceva controllare dai suoi guardiani. Uno di questi una mattina, tornando dal padrone, gli raccontò che un suo compagno durante la notte era stato aggredito da un lupo e, difendendosi col coltello, era riuscito a tagliare la zampa al feroce animale. Ma la sua sorpresa fu grande quando, nel togliere dal tascapane la zampa amputata all’animale, comparve una mano di donna con un anello ad un dito, che il Conte riconobbe essere della sua sposa. Chiamata, la donna aveva un braccio fasciato e tolte le bende apparve un moncherino sanguinante. Per punizione la nobile donna prima fu rinchiusa nel castello e poi venne messa a morte. A San Martino di Taurianova si consigliava di pungere con una canna appuntita il licantropo che, alla prima perdita di sangue, ritornava alla dimensione umana. Il segno di croce incuteva paura al licantropo, che non poteva attraversare perciò un quadrivio, per questo si usava tracciare una croce sotto la pianta dei piedi dei bambini piccoli affinché fossero protetti contro la bestia. In altri paesi della Piana di Gioia Tauro, si raccontava che il lupo mannaro usciva di casa e nascondeva i vestiti in un posto sicuro per poi scorrazzare nelle campagne alla periferia dei paesi. Prima dell’alba, riprendeva i vestiti e raspava alla porta di casa sua, ma soltanto al terzo tentativo i suoi familiari potevano aprir-

gli, dopo essersi accertati della trasformazione del proprio congiunto da lupo a uomo. O nelle notti fatidiche, si faceva chiudere dalla moglie in una robusta gabbia di ferro e, in caso di pericolo, la moglie doveva farsi tre volte il segno della croce e con una canna appuntita doveva pungere a sangue la “bestia pelosa”, per placarla e farla tornare alla dimensione diurna. Nel passato molte persone sospettate di essere licantropi sono state giusti-

Gli antichi si lasciavano ingannare dal pregiudizio e dalla superstizione, e molti uomini furono messi a morte ziate per crimini commessi con ferocia animalesca, ma che fossero realmente licantropi non è mai stato provato. Oggi sappiamo che purtroppo gli antichi si lasciavano ingannare dal pregiudizio e dalla superstizione, e che molte delle persone che venivano messe a morte, accusate di essere dei lupi mannari, erano in realtà dei malati colpiti da infermità insolite, persone stravaganti, o psicopatici parzialmente incapaci di intendere e volere. Per fortuna, col diffondersi dei mezzi di comunicazione, il lupo mannaro ha trovato finalmente il suo ruolo solamente nei romanzi e nei film di fantasy e non turba più il sonno delle creature semplici e superstiziose. *storia di Domenico Caruso, liberamente tratta da brutium.info


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Sant’Agata del Bianco. Un uomo solitario, dell’Ottocento, e la sua unica passione: le stelle

IL RIFUGIO DELL’ASTRONOMO

Una storia custodita tra le pagine di un diario, ricca di malinconie, aneddoti, situazioni controverse. Che passa dalle stanze di Re e tribunali, e torna tra le strade d’Aspromonte di DOMENICO STRANIERI

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Lo Strolamo viveva a Mendulà, un nome legato alla presenza di alberi di mandorlo sua figura « èLatratteggiata

nelle pagine inedite del diario di Giuseppe Galletta Nominò unico « suo erede il re Vittorio Emanuele II, e i familiari rimasero disorientati Nella foto in alto a sinistra, il maestro Giuseppe Galletta, autore del diario inedito. Nella foto in alto a destra, il rifugio dell’Astronomo a Mendulà. Sotto l’altura da dove l’Astronomo guardava le stelle, Mendulà, Sant’Agata del Bianco. Foto di Domenico Stranieri

C’

è un posto, tra Sant’Agata del Bianco e Samo, da dove, pare, si vedano meglio le stelle. Si chiama Mendulà, un nome legato alla considerevole presenza di alberi di mandorlo. In questo luogo, nell’800, si aggirava solitario un uomo che, per alcuni aspetti, mi piace accostare al filosofo Eraclito (nato intorno al 500 a.C.), il quale depositò il suo unico manoscritto nel tempio di Artemide, a Efeso (la sua città). Eraclito (al quale si deve, tra le tante cose, l’idea che “tutto scorre”, panta rei) pensava di aver scritto delle verità estranee alla massa. Si dice, infatti, che mal sopportava la compagnia degli uomini e si estraniasse dal volgo con un atteggiamento che era una via di mezzo tra l’aristocratico e il mistico. Il fuoco (che egli considerava il principio di tutte le cose) distrusse la sua unica opera. Tuttavia, ci rimane ancora qualche frammento del tipo: “Tutti gli efesi farebbero bene ad impiccarsi e a lasciare la città ai giovani imberbi…”. Ma facciamo un salto in avanti di qualche millennio e ritorniamo al nostro uomo solitario dell’800. La sua figura è tratteggiata nelle pagine inedite del diario di Giuseppe Galletta, un maestro di Sant’Agata del Bianco che ha insegnato in Lombardia, a Busto Arsizio, dagli anni ‘50 fino al 1976. Di Galletta (scomparso nel 2013) si potrebbe parlare in un articolo a parte, e non è detto che non lo farò. Era il prototipo del calabrese che emigra al Nord e, per capacità e ingegno, diventa un

punto di riferimento per la scuola e per l’intera città. Il suo metodo scolastico, che forse aveva qualcosa dell’attivismo pedagogico di Dewey, ha appassionato generazioni di studenti. Riusciva, difatti, a trasmettere valori e conoscenze con un uso pratico delle materie (basti pensare all’allevamento in classe dei bachi da seta, che, nei secoli scorsi, rappresentava una ricchezza per i paesi aspromontani). É stata Giulia, la figlia maggiore, a parlarmi del diario del padre

UN TIPO OMBROSO Saverio Macrì era un possidente facoltoso, introverso e privo di amore verso gli uomini. Viveva da solo, come un filosofo vecchio e stanco e a rivelarmi che tra le sue pagine avrei trovato memorie che riguardavano le nostre comunità. Quando ho avuto tra le mani i fogli dattiloscritti del maestro Galletta ho subito ravvisato che, perfino nella sua chiara struttura narrativa, egli era un precursore. Avete presente il libro Il Mondo di Sofia (Longanesi, 2002), divenuto un bestseller mondiale, dove il professore norvegese Jostein Gaarder racconta la storia della filosofia parlando alla figlia? Ebbene, Giuseppe Galletta, decenni prima di Gaarder, scriveva rivolgendosi alle figlie Giu-

lia e Carla, di continuo, come se stesse dialogando con loro (ed in un certo senso lo faceva). Tra le vicende che riemergono da questo diario c’è, dunque, anche quella di un individuo soprannominato l’Astronomo (in dialetto Strolamo). Si tratta di Saverio Macrì, di Sant’Agata, che, come Eraclito, era un possidente facoltoso, introverso e privo di amore verso gli uomini. Per questo si era rifugiato a Mendulà, nel suo terreno di cinque ettari ricco di mandorle, ad osservare le stelle (che erano la sua unica passione). Viveva nella più perfetta delle solitudini, come un filosofo vecchio e stanco, in una piccola casetta tra gli alberi che conserva ancora un’idea monastica di bellezza. In paese lo consideravano un tipo “ombroso” anche perché, ovviamente, aveva deciso di non frequentare nessuno, soprattutto i parenti. Dal diario si evince, addirittura, che “nominò unico suo erede il re Vittorio Emanuele II”. Tutti i familiari rimasero disorientati, arrendevoli dinanzi all’idea di perdere per sempre Mendulà. Tutti tranne uno: mastro Domenico Galletta, nonno del maestro Giuseppe. Pertanto, quando l’Astronomo morì, mastro Domenico non si diede per vinto e “indirizzò al Re una motivata petizione che la burocrazia passò al tribunale di Palmi”. Successivamente, per difendersi, scelse proprio un legale di Palmi, l’avvocato Demetrio Tripepi, e si incamminò a piedi per raggiungere il suo studio. Durante il viaggio incontrò prima dei malviventi che cercarono di derubarlo (ma egli teneva le sue poche lire “nella toppa cucita all’interno della camicia”) e poi, in una radura “in mezzo a una carbonaia fumante”, della brava gente che gli offrì da mangiare. Arrivato a destinazione, l’avvocato Tripepi intese le ragioni del suo cliente e, dopo qualche tempo, gli consegnò la sentenza attraverso la quale il Tribunale civile riconosceva la madre di mastro Domenico quale legittima erede di Saverio Macrì. Il fondo di Mendulà ritornava alla famiglia. Adesso bisognava depositare la sentenza in Pretura, a Bianco. Ma le cose si complicarono per una serie di accidenti (e qui la vicenda diventa “manzoniana”) e la furbizia di un

tale, don Rosario (mai fidarsi di certi “don”), che tramava per impossessarsi del terreno. Appena mastro Domenico capì di essere stato ingannato meditò di “ammazzare” don Rosario che, con uno stratagemma, aveva fatto sparire la sentenza. Ma, grazie al buon senso della moglie e alla ritrovata armonia tra i parenti, mastro Domenico non perse la testa. Anzi, riuscì a tenere in pugno l’unità della faccenda e sistemò ogni

PEPPE MUSOLINO Passava da Mendulà il brigante Musolino. Raccoglieva qualche ortaggio, di notte, e lasciava delle monete per far intendere che non voleva rubare cosa. Dopodiché, redatto un documento di quietanza, con l’aiuto di Mico Marvici, un avveduto esperto di campagna, si procedette alla spartizione dell’eredità. La tenuta riprese a fiorire, come se un pennello fosse passato a ripulirne i colori. Da lontano si distinguevano i perastri e i fichi d’india (che arrossavano come una fiamma tutta la costa). Solo “il canneto non si toccava: tra le sue radici era stato sepolto lo Strolamo”. Scrive Giuseppe Galletta: “Fu così, carissime mie figliuole, che si evitarono disastrose conseguenze per la famiglia del nonno, che, tuttora, ricorda il tradimento di quell’anima malvagia di don Rosario. Il nonno Mico sarebbe finito in galera per il torto subito. Prevalse, per fortuna, la ragione. Vedete ragazze, non bisogna mai agire di prima furia. É bene sempre far trascorrere congruo tempo prima di prendere decisioni d’una certa importanza. La legge della faida non dà mai buoni frutti”. Si dice che, anni dopo, ogni tanto passasse da Mendulà pure il brigante Musolino. Raccoglieva qualche ortaggio, di notte, e lasciava delle monete per far intendere che non voleva rubare. Chissà se anche Musolino, come l’Astronomo, aveva notato che, guardando il cielo, da Mendulà le stelle si vedono meglio!


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Catu Chorìu

di Salvino Nucera

BIMBI A GIOIOSA

S

di Tiziano Rossi

A SINGA

ul terreno veniva tracciata una linea (detta singa) che rappresentava il traguardo che bisognava raggiungere. I giocatori, ponendosi a una distanza prestabilita, lanciavano a turno la propria moneta cercando di avvicinarsi il più possibile alla singa. Il giocatore la cui moneta risultava più vicina al traguardo vinceva la mano e veniva detto manu; il secondo veniva detto secundu, il terzo terzu... l’ultimo era chiamato caca. Chi arrivava manu raccoglieva le monete da terra e, dopo averle ben bene mescolate tra le mani, le lanciava in aria, sotto lo sguardo del secondo che, con le monete ancora volteggianti in aria, doveva chiamare un seme (testa o croce). Se, ad esempio, il secondo chiamava «Croce», tutte le monete che dal lancio risultavano croce andavano a lui. Quelle che risultavano testa venivano, invece, vinte da chi le aveva lanciate (‘u manu). Il secondo, raccolte le monete vinte, dopo averle mescolate tra le mani, le lanciava al terzo che, a sua volta, doveva chiamare il seme. Il terzo al quarto, e così via fino a quando c’erano monete da lanciare. Il gioco riprendeva con il lancio di nuove monete verso la singa, rispettando l’ordine secondo cui i giocatori si erano classificati nella manche precedente. N. B. In mancanza di monete molto spesso si giocava con i bottoni dei propri indumenti (furmeji) o coi tappi metallici delle bevante (vicaleja).

F

CHISSU CU CHISSU

orse non tutti sanno che il seme del nòcciolo della albicocca, messo a mollo in acqua per alcuni giorni e poi privato della buccia, risulta talmente gustoso da non avere nulla da invidiare alle mandorle. Era questo il motivo per cui da ragazzi si giocava a chissu cu chissu. Ciascun partecipante al gioco metteva in palio un certo numero di nòccioli e poi si tirava a sorte (si jettàvan’u toccu) per stabilire l’ordine secondo il quale i giocatori dovevano susseguirsi durante la peculiare prova di abilità. Il designato dalla sorte lanciava in aria tutti i noccioli in gioco e, dopo aver dato uno sguardo alla disposizione che essi avevano assunto cadendo a terra, tra tutti sceglieva quei due la cui distanza risultava minima rispetto alla posizione degli altri. A questo punto, il giocatore, dicendo «Chissu cu chissu» (questo nocciolo con quest’altro), indicava i due da lui scelti con i quali intendeva aprire il gioco (generalmente sceglieva i due noccioli che si trovavano più vicini rispetto agli altri). Facendo uso di un dito della mano, allora, dava un colpetto secco a uno dei due. Se il nòcciolo lanciato riusciva a toccare l’altro, quest’ultimo diventava di proprietà del giocatore che lo aveva colpito. Scelti altri due noccioli, e poi altri due, e poi altri due, ecc., il gioco rimaneva in mano dello stesso giocatore fino a quando non sbagliava bersaglio; in tal caso la mano passava al secondo concorrente; poi al terzo; ecc.

Aspromonte greco

inAspromonte

All’interno delle abitazioni si giocava con gomitoli di stoffa, o saltando sopra una corda tenuta alle estremità da due ragazze

Ghorìo di Roghudi, a spasso con i piccoli aspromontani

CU VOLI JOCARI?

«Nentè, markè, iè, parentè!»

I maschi scorazzavano all’aperto e le femmine giocavano dentro casa. A quei tempi stracci e lamiere si trasformavano in balocchi

A

S

i ragazzi di ogni parte del mondo il gioco giova quanto il cibo o l’acqua o, meglio ancora, come il latte della madre per il pargolo. Numerosi erano i giochi che i ragazzi, maschi, praticavano a Ghorìo nelle viuzze e nei

campi. Le ragazze non giocavano in ambienti esterni né da sole né insieme ai ragazzi maschi. Non si addiceva. All’interno delle abitazioni giocavano “a fare le donne e le mamme”; giocavano con gomitoli di stoffa, saltando sopra una corda tenuta alle estremità da due ragazze. Chi si attorcigliava con la corda veniva esclusa e lasciava il posto ad un’altra.

i faceva la conta e chi ne usciva vincitore acquisiva il diritto di iniziare il gioco con mazza e pondìci. Il giocatore entrava dentro l’area delimitata dal quadrato e, con la mazza in una mano ed il sorcio nell’altra, doveva colpire quest’ultimo per spedirlo il più lontano possibile. L’altro ragazzo doveva tentare, da dove era caduto il legnetto, di prenderlo e rilanciarlo con le mani dentro il quadrato, o il più vicino possibile ad esso. L’altro giocatore, in piedi, davanti al quadrato, sempre con la mazza in mano, doveva colpire, qualora gli fosse andato vicino, il legnetto, centrarlo e rispedirlo nuovamente molto lontano dal quadrato.

n gioco usato dai ragazzi era quello del cerchio costituito dal ferro circolare che i ragazzi estraevano dai paioli e dalle piccole caldaie in disuso, bucherellate. Si giocava con un pezzo di ferro, lungo quanto la circonferenza del cerchio o adeguato all’altezza del ragazzo, che veniva piegato da un lato a mo’ di gancio e che era largo almeno quanto lo spessore del cerchio. Successivamente questo veniva piegato verso l’alto, in modo da far “sedere” all’interno il ferro del cerchio quando i ragazzi lo facevano rotolare velocemente sul terreno pianeggiante, accompagnato da quel pezzo di ferro chiamato “martellina”. Era un gioco individuale.

ualora non lo avesse colpito, ed il sorcio fosse caduto dentro l’area del quadrato, avrebbe perso la mazza e avrebbe perso il gioco scambiandosi il ruolo con l’avversario. Se fosse caduto nelle vicinanze del quadrato si sarebbe dovuto misurare la distanza con la mazza; se questa, toccando il sorcio, avesse toccato anche la linea del quadrato, il gioco sarebbe cambiato. Se lo rimandava lontano, o se rimaneva vicino al quadrato ad una distanza superiore a quella della misura della mazza perché l’avversario non aveva saputo lanciare bene il sorcio, chi aveva in mano la mazza incominciava ripetendo delle strofe a voce alta: «Nentè, markè, iè, parentè!».

n gioco in voga tra i ragazzi più piccoli era quello della spada col sorcio (lu pondìci). Era un pezzo di legno liscio, un bastone non più lungo di mezzo metro, ed un pezzo di legno più corto, 10-15 centimetri di lunghezza, lavorato alle estremità con un’accetta o un coltello per renderlo appuntito (lu pirùni). Si tracciava sulla terra un quadrato con il legno più lungo. I ragazzi giocavano due per volta, a squadre, o uno contro uno.

d ogni espressione: un colpo a terra uno sul sorcio ed un eventuale colpo in aria. Alla fine di questa fase si interveniva o fermando il gioco per poter misurare la distanza con la mazza rispetto al quadrato, oppure si poteva farlo continuare. Alla fine della misurazione se il numero di mazze utili per raggiungere l’area del quadrato fosse stata inferiore a ventiquattro il “mazziere” perdeva il gioco altrimenti si poteva continuare o stremo iniziare un nuovo gioco.

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«Vurria ca fussi quantu a na marvizza mu mi ndi vegnu supra a ssu tilaru mu ti rumpu li pettini e la lizza la navettella ca teni a la manu Vurrìa esseri na mela si putissi e ‘nta la bucca tua mi muzzicassi vurrìa esseri acqua e tu venissi a la funtana e tuttu mi mbivissi» Otello Profazio

Corteggiamento e matrimonio negli anni Quaranta

TO CIPPITINNÁU la risposta attesa di FRANCESCO VIOLI

L’

immenso patrimonio culturale della Calabria greca, oltre al ricco bagaglio storico e linguistico, vanta tradizioni popolari uniche al mondo. Esse non solo rappresentano lo strumento di ostacolo alla completa latinizzazione dell’area ma servono ad identificare un popolo che, altrimenti, si sarebbe già omologato agli standard consumistici dell’Occidente. Se canto, ballo, gastronomia e artigianato resistono, trovando sempre più spazio anche tra le nuove generazioni, purtroppo lo stesso non si può dire per quei rituali che caratterizzavano la vita di tutti i giorni. IN PARTICOLARE il fidanzamento, che viveva di momenti e di simboli attorno ai quali si muoveva la suggestione, la romanticità e il mistero dell’evento. Fulcro e oggetto di questi rituali era to cippitinnàu, ossia un piccolo pezzo di legno, leggermente bruciacchiato, al quale era affidata simboli-

«Il ceppo era un piccolo pezzo di legno al quale era affidata simbolicamente la speranza e la volontà di iniziare una nuova vita familiare»

camente la speranza e la volontà di iniziare una nuova vita familiare. Il ceppo non doveva essere completamente bruciato poiché esso rappresentava il ciclo vitale. L’uomo che voleva fidanzarsi doveva, attraverso terze persone, far sapere alla famiglia della futura fidanzata la sua intenzione a convolare a nozze. Ma il responso lo avrebbe avuto tramite il rito del cippitinnàu. UNA VOLTA espressa questa volontà, quindi, egli, prima della notte, lasciava davanti l’uscio di casa della ragazza u cippitinnàu. I genitori della pretendente sposa prendevano atto della richiesta formale: se la risposta fosse stata negativa, il padre avrebbe fatto rotolare il legno lungo la strada che conduceva alla casa del ragazzo; diversamente, se avessero consentito l’unione, avrebbero ritirato il ceppo e all’indomani il padre della ragazza lo avrebbe consegnato al futuro genero.

info 393/9045353 0964/992014

IN OGNI CASO, tra i due uomini, avveniva un dialogo generalmente musicato e cantato*: padre: «Pis’efere ton gìppo ti dichatèramu?» (Chi ha portato il ceppo a mia figlia?) ragazzo: «Ton èfera egò!» (L’ho portato io!) padre (in caso di “no”): «Ghìre, ghìre apìssu ti den ène ja ‘ssèna to cippitinnàu!» (Gira, gira dietro perché non fa per te questo fidanzamento!) padre (in caso di “si”): «I dichatèramu ène kalì ncippettemmèni!» (Mia figlia è ben fidanzata!). Si concludeva in questo modo un rito suggestivo, caratteristico di un mondo lontano, dove speranza e sentimento si facevano rappresentare da un ceppo. Un mondo ed un tempo ai quali la Calabria greca guarda ancora con nostalgia poiché sa che sono questi i veri tesori da custodire. *La formula è di Angelo Maesano e musicata da Filippo Violi - Tradizione popolari Greco-Calabre di Filippo Violi, ed. Apodiazzi 2001.

Storie d’autore. U passu da zita

di Gianfranco Marino

«

In un piccolo paese dell’Aspromonte, nel periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale, vive una comunità di pastori e contadini. Maria, la protagonista di questo romanzo, è un’adolescente che non ha mai conosciuto il gioco perché occupata, fin da piccola, ad aiutare la madre in casa e a far crescere gli altri fratelli. Il padre è un pastore e un giorno, all’insaputa di Maria, la promette sposa ad Andrea, massaro anche lui. Comincia così, per la giovane, un calvario di fame e miseria

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ppena 54 pagine, la cui costruzione semplice ed essenziale è un invito alla lettura che regala uno spaccato interessante della realtà agro-pastorale aspromontana della prima metà del secolo scorso, attraverso la ricostruzione di ambientazioni umane, scenari naturali, condizioni familiari, interazioni sociali, usi e costumi di una Africo ancestrale, antica, dura, a cavallo delle due guerre. Il ceppo tocca questioni lontane, figlie di un Mondo ormai quasi dimenticato, ma forse non da tutti, un Mondo ancora vivo nei ricordi di molti, tra rimpianti, sofferenza, nostalgia, voglia di affetto e sentimenti sempre contrastanti. Il lavoro di Gligora, tra i tanti “africoti” oggi prestato alle nebbie piemontesi, suggerisce la validità del

filone riservato ai racconti brevi della nostra terra, fuori dai grandi schemi, all’insegna della semplicità metrica e di contenuti, insomma un genere che può, accanto alle letture di più alto livello, rappresentare un valore aggiunto, pedagogico, storico ed educativo se rivolto alle nuove generazioni di giovani che vogliono riscoprire la storia, la propria e quella di chi gli sta accanto, per vivere consapevolmente un futuro che marcia sempre più spedito verso l’omologazione. È semplice e, proprio per questo, bello il lavoro di Gligora, con quel finale che da solo sembra racchiudere il senso stesso del racconto e la malinconia di chi la sua personale storia, pur tra nebbie, poco aspromontane, la porta sempre e comunque nell’animo.


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IL RACCONTO

SALVO E LE CASTAGNE di Antonio Perri

O

Aspromonte settentrionale

inAspromonte

ppido è un ridente paese sulla montagna, che si erge verso l’interno del territorio partendo da Gioia Tauro. A metà degli anni Quaranta, la vita dei protetti della Madonna, a cui era devoto il paese, si svolgeva per la massima parte nei campi. Nel ‘43 si aveva un eco lontano della guerra, che si stava volgendo in Europa, anche in Italia. Giovanni Lopresti era un buon contadino, ma gli ultimi raccolti erano stati avari con lui e la sua famiglia, il figlio Salvo e la moglie Beatrice. Vista la povertà e l’indigenza della sua casa, Giovanni fu mosso a prendere una decisione estrema: sarebbe partito per il fronte e la paga da soldato l’avrebbe mandata ai suoi. «No ti prego. Non lo fare» diceva piangendo Beatrice. «È l’unica soluzione, moglie». Ma chi non si dava pace per il distacco dal padre era il piccolo Salvo, di nove anni. Si era chiuso in un mutismo ostinato, e non voleva parlare col padre. Non lo vide nemmeno prima di partire, e piangeva di rabbia. Giovanni partì, arrivò l’armistizio, ma il soldato continuò a combattere con gli Alleati e, dopo un mese, arrivarono i primi denari. Beatrice fu contenta, ma guardava quel bambino arrabbiato che non parlava più da un mese. A metà ottobre le castagne riempivano la terra e gli alberi, il maestro di scuola di Salvo lo prese da parte per mostrargli qualcosa. Prese una castagna e cominciò «Tu la mangeresti questa che ha il riccio?». Salvo, muto, scosse la testa. «Allora la mangeresti così?» disse il maestro mostrandola sbucciata. Salvo, sempre muto, annuì. «Allora, Salvo, le cose nella vita ti appaiono così, come vedi la castagna col riccio, piene di problemi che non si risolvono, ma quando vai a fondo nelle cose, togli le apparenze e i problemi, e quindi sbucciando la castagna in mano - ti rimane solo una cosa bella. Bella, come questo frutto. E questa è la verità delle cose. Ora tu non capisci perché tuo padre è partito, ma presto capirai». Salvo si sciolse in un sorriso e disse «Grazie». E quella fu la prima frase dopo un mese.

Planitiae Sancti Martini, Giovanni il Corto e la sua bandon di guerrieri speciali

PICCOLI

UOMINI

«Siamo gli unici - si è detto - che possono sparire in mezzo alle paludi, dove i nemici non si addentrano, riapparire alle loro spalle e colpirli» di GIUSEPPE GANGEMI*

G

iovanni “il Corto” non era destinato, per nascita, a rimanere basso. È solo stato sfortunato a prendersi, giovanissimo, la mal’aria. Quelle maledette paludi intorno al fiume Metauro. E il suo sviluppo si era fermato. Non è stato l’unico a portare addosso la fortunata sopravvivenza a quella sfortuna. Nei villaggi vicino al fiume, vivono ancora, nell’anno di nostro Signore 809, gruppi di uomini che hanno avuto la mal’aria e ne sono diventati immuni e si recano senza rischio, in tutte le stagioni, a cacciare e pescare in mezzo alle paludi. Molti di questi uomini hanno fratelli e sorelle di altezza normale e senza problemi di salute. Anche il Corto ha fratelli e sorelle alti come i genitori che erano di altezza normale. Egli è rimasto basso ed è dovuto crescere con il coltello in mano per difendersi dai coetanei più forti e ha dovuto essere più cattivo di loro. È diventato così uno dei migliori uomini della sua bandon. Ma molti altri come lui, si tenevano lontani dalle banda, i guerrieri delle montagne che difendevano le popolazioni dai Saraceni. Adesso, di fronte al crescente numero di invasioni, gli è venuta l’idea di trasformare la sua e loro immunità alla mal’aria in una temibile arma. «Siamo gli unici - si è detto - che possono sparire in mezzo alle paludi, dove i nemici non si addentrano, riapparire alle loro spalle e colpirli». E così ha avuto l’idea di costituire

una bandon di “guerrieri delle paludi”. Ha accolto in questa solo persone piccole, con dietro le loro spalle una vita di sopravvivenza alla mal’aria. Ha respinto persino i suoi figli perché cresciuti con stature e corporature normali e non avrebbero potuto, all’occorrenza, seguirlo in mezzo alle paludi senza rischiare la morte. Dopo anni di addestramento, la bandon ottiene un formidabile risultato, è l’anno di nostro Signore 812, ed è

in fretta possibile. Poi si dirigono verso la costa dove c’è più bisogno di aiuto. Scortano le famiglie più lente a muoversi verso le comunità in montagna e, dopo averle messe al sicuro, cominciano a seguire da vicino i Saraceni. Al comando di Giovanni, si inoltrano nelle terre malsane. Spuntano inattesi dietro un accampamento di guerrieri saraceni, dalla parte in cui ci sono pochi uomini di guardia. In silenzio, scannano tutte le sentinelle e poi i

Anche il Corto ha fratelli e sorelle alti come i genitori che erano di altezza normale. Egli è rimasto basso ed è dovuto crescere con il coltello in mano per difendersi dai coetanei più forti e ha dovuto essere più cattivo di loro in corso un attacco di Saraceni a molte località cristiane: Lampedusa, Ischia, Reggio Calabria, Sardegna, Corsica e Nizza, solo per citare le più importanti. Sono sbarcati anche sulle Planitiae Sancti Martini. Da più navi sono scesi Saraceni che si sono sguinzagliati in tutte le direzioni. Subito si è diffusa la notizia ed è stata ritrasmessa attraverso fuochi di allarme accesi in punti visibili delle Planitiae e delle colline intorno. Gli uomini di Giovanni corrono subito a casa, mettono sui carri la famiglia e la portano in salvo, quanto più

dormienti con le loro piccole roncole. Il pomeriggio successivo, un più folto gruppo di Saraceni si muove alla ricerca del gruppo disperso e ritrova l’accampamento. A parte i rapaci e le altre bestie che si sono cibati dei corpi insepolti, tutto sembra intatto e niente toccato. Solo che non si vedono sentinelle, i fuochi sono spenti e gli uomini sembrano dormire. I nuovi arrivati si accorgono che sono tutti morti appena si avvicinano e toccano i cadaveri. La paura di essere a loro volta sorpresi è tanta che si guardano intorno e comin-

ciano una rapida ritirata verso le navi. Vengono inseguiti dagli uomini della bandon che sbucano all’improvviso e li attaccano. Un solo colpo di freccia da ciascuno dei silenziosi appiedati e una rapida ritirata di questi, subito seguiti dai rumorosi cavalieri con un secondo colpo, mentre i Saraceni si stanno riorganizzando. Quando i Saraceni riprendono la marcia, una nuova nuvola di frecce torna a colpirli come prima. Poi, silenzio. Gli attaccanti sono di nuovo spariti. I Saraceni, malconci e completamente in rotta, arrivano alla riva e chiamano le scialuppe che li raggiungano dalle navi. Queste arrivano in fretta e altrettanto rapidamente risalgono sulle barche. Una fitta pioggia di frecce cade su di loro. Sono già lontani, probabilmente non più in grado di sentire, ma comunque il magister militum, Luciano il Corto, sente il bisogno di urlare loro addosso: «Tornate alle vostre case e non fatevi più vedere perché in queste contrade vivono cristiani e cristianuni». E naturalmente sottintende che i cristianuni siano proprio loro, quelli che tutti chiamano “i piccoli uomini delle paludi”.

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Università di Padova Docente di Scienza dell’Amministrazione E-mail

giuseppe.gangemi@unipd.it

18 ottobre a REGGIO CALABRIA PIAZZA S. GIORGIO dalle 9.00 alle 21.00

19 ottobre a BOCALE e LAZZARO PIAZZA CHIESA PARROCCHIA dopo la Santa Messa

25 ottobre a BOVA MARINA PIAZZA MUNICIPIO dalle 9.00 alle 21.00

26 ottobre a PELLARO PIAZZA CHIESA PARROCCHIA dopo la Santa Messa

1 novembre a OLIVETO PIAZZA CHIESA PARROCCHIA dopo la Santa Messa


L’inchiesta

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Roccaforte del Greco. La Base Usaf sull’Aspromonte e le idee innovative di un Sindaco “visionario”

LA FERITA DI NARDELLO

Troppi commissariamenti per una comunità che avrebbe voluto, guidata dal suo Primo cittadino Nucera, trasformare la vecchia infrastruttura (regalo degli americani) nella sua principale risorsa di GIANFRANCO MARINO

«

Fu costruita nel 1965 per il controllo delle telecomunicazioni nel Mediterraneo

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Il sito, ubicato a circa 10 km da Gambarie, costituisce una seria minaccia ambientale

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L’uso di satelliti, nel 1985, determinò la fine dell’operatività della Base di Nardello

Nella foto in alto la Base Usaf di Monte Nardello. Roccaforte del Greco

Tra la terra e il cielo”. Si sarebbe dovuto chiamare così l’ambizioso progetto varato dall’ex amministrazione comunale di Roccaforte del Greco, qualche anno addietro: un’idea per il recupero e la riconversione dell’ex base Usaf di monte Nardello costruita nel 1965 insieme a quelle di Catania e Trapani per il controllo delle telecomunicazioni nell’area del Mediterraneo. La storia, o forse sarebbe meglio dire la telenovela di questa struttura ormai tristemente abbandonata nel cuore dell’Aspromonte, rappresenta oggi l’ennesima ferita inferta ad una montagna tanto bella ed affascinante quanto piena di cicatrici. L’uso dei satelliti, nel 1985, determinò la fine dell’operatività della Base di Nardello. Il sito, ubicato a circa 10 km da Gambarie (1.750 metri sul livello del mare), ricade nel comune di Roccaforte del Greco ed oltre a trovarsi in totale stato di degrado costituisce una concreta minaccia ambientale. Lo sosteneva con forza qualche anno fa l’ormai ex primo cittadino di Roccaforte, Ercole Nucera, prima di rimanere vittima di uno dei tanti scioglimenti per mafia. Roccaforte, si sa, con questi provvedimenti ha parecchia dimestichezza, detenendo con qualche altro Comune il triste primato quanto a numero di provvedimenti. Qualche giorno fa sono stato proprio a Roccaforte, mancavo da un po’ di tempo e, a guardare la situazione generale, mi è sorto spontaneo un interrogativo, mi sono chiesto cosa abbiano prodotto su questo angolo di Aspromonte questi tipi di provvedimenti? mi sono detto, di sicuro non un cambio di rotta, al contrario rassegnazione diffusa, in larga parte di

popolazione che oggi sente sempre più forte il richiamo delle marine, perdendo quello slancio necessario anche solo ad immaginare un futuro all’ombra di monte Scafi. Lui, intendo monte Scafi, così come i suoi dirimpettai, Zumbello, Cropanè e Punta d’Atò (nomi che richiamano distintamente le origine greche di questa terra) rimangono bonari ad osservare con distacco il progressivo depauperamento di risorse umane e ambientali. Quanto a queste ultime, a fare il paio con lo scempio di Nar-

L’area avrebbe potuto costituire un’attrazione per studiosi, ricercatori, escursionisti, turisti in genere

dello ci ha pensato il grande incendio di qualche anno fa, che a monte dell’abitato fino alle alte quote ci consegna uno scenario lunare che sembra, manco a dirlo, la cartina di tornasole dell’attuale situazione di questo centro, tra i più interni della provincia reggina. Ma torniamo a Nardello, «Nel corso degli ultimi decenni - sosteneva allora proprio Ercole Nucera - sono state tante le iniziative che proponevano un recupero dell’area dell’ex Base militare. Istituti scolastici, enti locali, la stessa Regione Calabria e il Ministero dell’Ambiente e del Territorio hanno dichiarato il forte inte-

resse ai fini dello sviluppo, e ciò nonostante, le procedure di dismissione hanno finora letteralmente bloccato quello che appare un diritto delle comunità locali: riappropriarsi di un bene ormai in disuso e che allo stato attuale costituisce fonte di pericolo e degrado». L’idea dell’amministrazione Nucera era quella di offrire al territorio un luogo all’interno del quale ritrovarsi, recuperando il rapporto con la natura, attraverso la realizzazione di un centro polivalente costituito da un osservatorio astronomico, un laboratorio di didattica e educazione ambientale, un centro culturale di educazione alla pace, un museo della natura dei parchi della Regione Calabria, un parco tematico sui miti e le civiltà del mediterraneo tema con annessa una struttura di accoglienza e ospitalità diffusa. L’area dell’ex Base Nato avrebbe costituito così un’attrazione per studiosi, appassionati di osservazione, studenti e ricercatori, escursionisti, associazioni, turisti in genere. Unita all’idea della riqualificazione dell’area c’era poi quella di inserire il centro storico di Roccaforte come punto di approdo e di partenza in un percorso ideale da e verso Nardello con la creazione di posti letto sul modello del b&b. A distanza di qualche anno dalla mia ultima visita, torno da Roccaforte con un tuffo al cuore e con un bilancio estremamente desolante. L’andamento demografico sta a testimoniare un’involuzione che appare inesorabile. La gestione commissariale sembra essere diventata, nell’immaginario collettivo, una soluzione scontata, la testimonianza di una resa incondi-

zionata della popolazione. E poi Nardello, ecco stavo per dimenticare Nardello, sta ancora là, con un po’ di ruggine in più e con una cornice di cenere che fa venire meno anche il verde rigoglioso che fino a qualche anno fa cercava inconsciamente di mitigare lo scempio. La gente di Roccaforte, si percepisce distintamente tra quelle viuzze, è palpabile nell’aria, ha smesso anche di farsi domande, in preda ad un pericoloso sentimento di rassegnazione, e mentre la politica resta a

L’idea del sindaco Nucera era quella di realizzare un Centro polivalente, in un luogo a contatto diretto con la natura guardare, Roccaforte e la sua Base, rimangono sospesi tra la terra ed il cielo, proprio come l’idea di quel sindaco visionario che, cercando il rilancio, ha trovato invece la scure affilata della giustizia. Senza entrare nel merito delle scelte delle autorità competenti, ed evitando allo stesso tempo di mettersi il prosciutto sugli occhi negando l’esistenza di fenomeni criminali che esistono e sono ben presenti e opprimenti in molti contesti della provincia, servirebbe a tutti una seria riflessione. Chiedersi cosa realmente serva a piccole comunità, per non cancellare loro la speranza di un futuro.


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Tra i boschi d’Aspromonte

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I

M

mponente e maestoso il “nero”, non tanto per la taglia quanto per la solennità del suo mantello. Le setole e la cute sono di colore scuro, anche se non sono rare le macchie bianche alle estremità distali degli arti (balzane) che non devono però superare la regione del garretto negli arti posteriori e quella del pastorale negli arti anteriori. La testa è di medio sviluppo con profilo fronto - nasale stretto e rettilineo, la mandibola è stretta, il grugno lungo e sottile, le orecchie grandi e pendenti, il tronco è leggermente allungato e gli arti sono di media lunghezza, robusti e asciutti nelle

di Francesco Tassone

Montagne

Le Serre

articolazioni. Una macchina perfetta e, se lo fosse sul serio, sarebbe sicuramente un escavatore. Se allevato all’aperto trascorre la maggior parte del suo tempo a grufolare nel terreno alla ricerca di cibo. Le sue origini sono incerte anche se sono state formulate principalmente due ipotesi. La prima lo vorrebbe diretto discendente dal ceppo iberico, mentre la seconda punta sulla discendenza romanica. Quello che sappiamo per certo, invece, è che in Calabria esistevano tre ecotipi: la riggitana, la catanzarisa e la cusentina.

La profonda crisi della suinicoltura italiana degli anni ‘80 ha fatto sì che le razze autoctone e poco produttive venissero sostituite con razze più prestanti che provenivano dal Nord Europa. Tant’è che il Nero di Calabria ha rischiato seriamente l’estinzione e, solo grazie ad alcuni interventi e con azioni mirate alla tutela e alla salvaguardia dell’inestimabile valore genetico di questa razza, quale fonte di informazione per la genomica, a partire da un piccolo nucleo di suini allevati in purezza dall’Agenzia regionale per i servizi all’agricoltura della Calabria (Arssa) nel centro di

Fino a quando le campagne e le montagne del nostro Aspromonte erano popolate, i pastori e i contadini facevano buon uso delle querce: da esse ricavavano legna da ardere e da opera. Con il legno duro, elastico e resistente del farnetto venivano costruiti carri e ruote

Servizio e foto

di LEO CRIACO

FORTI COME QUERCE

Caducifoglie o sempreverdi, questi alberi regalano alla montagna immagini e odori caratteristici. Oltre che sughero, legna, ghiande e il sottobosco ideale per i funghi porcini

L’

Aspromonte ha un patrimonio boschivo di inestimabile valore ambientale che va tutelato, migliorato e sviluppato. Le essenze forestali più diffuse nei nostri ambienti sono il faggio, il pino, l’abete, il castagno e la quercia. Oltre alle suddette specie arboree sul nostro massiccio montano sono presenti esemplari, spesso isolati o riuniti in piccoli boschi, di ontano, pioppo, tasso, carpino, acero, salice e tante altre specie a carattere residuale. Il faggio vegeta sulla fascia montana che va dai 1000 metri slm fino alla sommità di Montalto, dove assume un portamento arbustivo; occupa vaste estensioni di territorio montano e tende, normalmente, a formare dei boschi puri, spesso però lo troviamo consociato al pino e all’abete, raramente alle querce. Scendendo a quote medio alte sotto i 1400-1500 metri sono frequenti, soprattutto sul versante orientale, le pinete costituite principalmente da pino laricio.

A quote più basse troviamo i castagneti e i querceti. A formare questi ultimi boschi concorrono varie specie del genere Quercus. Tra queste ricordiamo la quercia castagnara, il farnetto, la quercia congesta, la rovere meridionale, il leccio e la sugara. Fino a quando le campagne e le montagne del nostro Aspromonte erano ancora popolate, i pastori e i contadini facevano buon uso di queste piante, da esse ricavavano legna da ardere e da opera (con il legno duro, elastico e resistente del farnetto venivano costruiti i carri e le ruote, per questo motivo gli aspromontani la chiamano quercia carrigna o carru), rami per il forno e frutti (ghiande) da usare come mangime per gli animali. Nelle annate di carestia, le ghiande, previa essiccazione e macinazione, spesso

venivano mangiate dai nostri antenati. Tutte le specie di quercia sono a foglia caduca (perdono le foglie nel tardo autunno), fanno eccezione le sempreverdi leccio e sughera.

(Quercus suber) è poco conosciuta dagli aspromontani in quanto non è diffusa su tutto il territorio ma è localizzata in poche aree con formazioni boschive importanti sul versante occidentale (monte Scrisi e San Giorgio Morgeto, sughereta di 60 ettari) e su quello orientale (presso Sant’Agata del Bianco e in località Passo di Ropolà di Gerace). Sempre a Gerace, in località monte Campanaro, vegeta un maestoso esemplare di sughera di circa 500 anni. La quercia da sughero è una pianta spontanea, alta fino a 25 metri con il fusto spesso contorto con corteccia molto sugheroso, foglie piccole e dentate di colore verde scuro. È presente in Sicilia, Calabria, Lazio, Toscana e soprattutto in Sardegna dove forma immensi boschi.

Le essenze forestali più diffuse sul nostro massiccio montano sono il faggio, il pino, l’abete, il castagno e la quercia. Sono presenti esemplari, spesso isolati o riuniti in piccoli boschi, di ontano, pioppo, tasso, carpino, acero, salice Il leccio (nome locale: ilici) è la specie più diffusa del genere Quercus, forma spesso boschi puri e concorre quasi sempre a formare la macchia mediterranea. A causa dei disboscamenti insensati, attuati dall’uomo nella prima metà del secolo scorso, la superficie dei lecceti è diminuita drasticamente. La sughera o quercia da sughero

Famoso e ricercato in tutto il mondo è il sughero sardo in quanto è molto compatto, elastico e omogeneo. Il sughero si estrae quando la pianta ha raggiunto circa 30 cm di diametro; l’operazione si ripete ogni dieci anni per 8-9 volte, poi la pianta viene estirpata. Lo scortecciamento della pianta, normalmente, viene fatto in primavera da personale specializzato per eventuali danni fisiologici alla sughera. La quercia di sughero (nome locale: sugarara), oltre al sughero, fornisce discreto legno da combustibile e una buona produzione di ghiande. Quando la pianta viene attaccata da alcuni parassiti vegetali (muffe) come la Aspergillus niger e Penicillium Crustaceum: il sughero danneggiato conferisce al vino il caratteristico odore di tappo. Nei mesi di settembre e ottobre, a seguito delle piogge, il sottobosco della sughera ci regala copiose nascite di Boletus aereus (nome locale: porcinu nigru), Amanita caesarea (ovulo) ed altre specie funginee meno ricercate.


Tra i boschi d’Aspromonte Acri in provincia di Cosenza, è stato possibile consentire l’espansione e la crescita di una popolazione di suini che contava un numero assai ridotto di soggetti. Inoltre è stato istituito un registro anagrafico delle razze suine italiane con una apposita sezione per la razza calabrese, detenuto e curato dall’Associazione nazionale allevatori suini (Anas). Così, come tutte le razze rustiche, le caratteristiche principali della Calabrese sono: la capacità di valorizzare alimenti poveri, la facile adattabilità al pascolo, il vigore sessuale per il verro e l’attitudine materna per la scrofa.

Questa razza si presta bene per l’allevamento allo stato brado o semibrado nutrendosi di ghiande, castagne, tuberi e radici che trova nelle aree boschive in cui viene allevata, per questo le carni sono compatte e ben si prestano per la trasformazione in prodotti di eccellenza. Il grasso ha un contenuto elevato di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi della serie Omega-3 e Omega-6 che, paradossalmente, le ricerche degli ultimi tempi hanno dimostrato preventive su una serie di malattie degenerative, a cominciare dalle malattie cardiovascolari, per le quali il

inAspromonte Ottobre 2014

consumo di carne suina è stato erroneamente considerato negli anni il principale responsabile della loro insorgenza. Sono poi utili per curare l’artrite e fondamentali per il buon funzionamento del sistema nervoso centrale. In onore di sua maestà il Nero è stato costituito nel settembre del 2011 il consorzio del nero di Calabria. I prodotti del consorzio, di cui buona parte a marchio Dop, rispettano oltre che la tipicità, anche un rigido codice di autodisciplina che punta al controllo e alla garanzia della qualità. L’obiettivo principale del consorzio è di promuovere una filiera capace di

Fauna aspromontana

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creare valore aggiunto alle produzioni tipiche della Regione Calabria e di premiare coloro che nella filiera credono e lavorano, con la ferma convinzione che le eccellenze possano, e debbano, nascere ed esistere nel rispetto del territorio e dell’ambiente e nell’ottica di uno sviluppo sostenibile. Tutelare il territorio significa contribuire alla conservazione di un ecosistema, il suino nero è solo una piccola parte di questo biosistema, ma è anche un grande contributo alla biodiversità non solo della Calabria, dell’Italia, dell’Europa e del mondo ma dell’universo intero.

di Bruno Criaco

MUCCHE SELVATICHE PASCOLI E TRANSUMANZA sughero

Mucche allo stato brado. Potossano, Aspromonte orientale. Foto di Bruno Criaco

L bosco di sughere

bosco di lecci

e pochissime mandrie di mucche selvatiche, che ancora oggi esistono nella parte orientale della nostra montagna, in tarda primavera salgono in cerca di erba fresca, quasi fino alla cima di Montalto. I conoscitori di queste zone le possono incontrare, o meglio intravvedere, solo da lontano; gli escursionisti meno esperti ne sentono solo il rumore degli zoccoli.

Questi animali infatti sono molto diffidenti nei confronti dell’uomo, anche se in verità i montanari hanno accettato da sempre la loro presenza, ed anzi le hanno sempre protette dai possibili pericoli, senza mai “invaderne” i pascoli antichi. L’unico nemico, dal quale nessuno le può proteggere, è il fuoco che ogni anno purtroppo ne distrugge i pascoli. Un altro loro potenziale nemico è il lupo, che di tanto in tanto riesce a sfuggire al controllo degli esemplari anziani, che vigilano ininterrottamente sulla mandria, e riesce ad attaccare qualche piccolo

vitello. Quando ciò succede è possibile sentire a chilometri di distanza i lamenti di questi animali. Si possono sentire da molto lontano pure i muggiti degli esemplari maschi che si sfidano in interminabili combattimenti, al fine di imporre la supremazia sugli altri bovini. I boschi di pino laricio di Gagliunà, le faggete dei Campi i lia, dell’Acqua fridda, di Pugljia, del monte Antenna, del monte Nardello, sono i luoghi di pascolo prediletti da questa razza molto vecchia di bovini. La loro dieta consiste in germogli di arbusti e di alberi e di varie specie di erbe montane. Sono animali di taglia medio-piccola, il più delle volte di colore marrone scuro o nere, pochi gli esemplari che incrociandosi con altre mandrie di razze pregiate (bruna alpina, pezzata rossa, ecc.)hanno un colore diverso. Da metà ottobre nelle alture aspromontane (oltre i mille metri) le prime piogge fanno nascere tante specie di funghi e allo stesso tempo fanno abbassare le temperature

sensibilmente dopo il tramonto. Le erbe ormai secche, che costituiscono il foraggio principale per ovini e bovini che vivono allo stato brado, con l’umidità notturna non sono più appetibili e quindi queste mandrie si spostano nelle vallate più basse in cerca di pascoli migliori. In questo periodo infatti le mucche selvatiche le troviamo a Potossano, Marifigghjoli, Palafortà, San Gianni, ed in altre pochissime e inaccessibili falde aspromontane, dove possono trovare cibo (soprattutto ghiande e castagne) e vivere in un clima più mite. Non esiste un censimento ufficiale di questi animali, forse perchè vivono in posti davvero difficili da raggiungere, e soprattutto perchè non si fanno avvicinare dall’uomo, i pochi pastori rimasti che sono coloro che meglio le conoscono, assicurano che gli esemplari sopravvissuti saranno al massimo una cinquatina, e sono suddivisi in due o tre mandrie.


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Tra i boschi d’Aspromonte

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Creature mitologiche, dispettose e ironiche, che vivono in piccole comunità sparse sull’Aspromonte

NEI BOSCHI DEI FAJETTI

Tra Samo e Ferruzzano si snoda la Via dell’argento. Di essa parla la leggenda, e del tesoro che qualcuno vi nascose. Fu questo il dono che fece un folletto al buon pastore che lo salvò dai lupi di FRANCESCO MARRAPODI

«

Pastori e carbonari rimanevano con i fajetti davanti alla luce di un focolare Erano esserini di « color olivastro, piuttosto goffi, che possedevano le fattezze di un gatto Atti di ogni « genere venivano portati a termine a danno degli animali

P

er quanto incredibile possa sembrare, Omero lasciò all’umanità la più preziosa delle ricchezze. Un’eredità senza della quale il corso della storia sarebbe stato lineare e noioso come un cammino senza meandri. Privo di entusiasmi, insomma, di emozioni; senza particolari a cui dedicare la giusta dose di attenzione. É pertanto un dovere civico riconoscere che Omero fu uno dei più grandi propugnatori del fantastico mondo delle fiabe: «Dimoran per le cime, o in antri cavi; su la moglie ciascun regna e sui figli; né l’uno all’altro tanto o quanto guarda». Ci parlò infine di Scilla e Cariddi, di Nausica, di Circe ecc. Era davvero sottile il filo che separava la realtà dalla fantasia. Lo era allora. Lo è tutt’oggi. Specie quando si tratta di storie che fanno capo a leggende tramandate di generazione in generazione. E qui da noi, a partire dai tempi dei greci, di leggende ce ne stanno tante da riempire il Mediterraneo tutto. Escludendo le più famose, ormai superate, le restanti, cioè quelle di minore importanza, si sono perse - ahimè! - dietro i nostalgici tramonti della storia. Fortuna che noi abbiamo ripescato (se non altro per confermarne l’esistenza) alcune di esse, anzi, una in particolare: u fajettu o mazzamareddu; il leggendario folletto aspromontano che durante le notti di pioggia s’introduceva furtivamente nelle stalle, dove si dilettava a intrecciare le chiome ai muli e ai cavalli. Ma non s’industriava solo in questo. Ai tempi di cui mi accingo a narrare, mentre gli uomini si perdevano nel loro fabbisogno quotidiano, nelle nostre foreste vivevano diverse comunità di folletti. Questo recita il

racconto di cui stiamo parlando. E siccome i folletti, oltre ad essere delle creature schive, erano degli individui notturni, risultò pressoché impossibile per gli uomini stabilire un contatto con loro. Cosicché i componenti dei due mondi vissero le loro sorti separati da una sorta di barriera permanente. Una barriera che delimitava non solo il giorno dalla notte ma il mondo della realtà da quello della fantasia. Salvo in alcuni casi dove a rompere suddetto incantesimo ci pensarono i

Uno dei folletti di ritorno da una fattoria, dove aveva perpretato le sue burle, fu assalito da un branco di lupi

pastori e i carbonari che passavano le notti sopra i monti. Molti dei quali, seppure ne parlarono in una o due occasioni, ebbero la fortuna di imbattersi con queste creature e, in alcuni casi, di trascorrere con essi le notti d’inverno. Così pastori e carbonari rimanevano con i fajetti davanti alla luce di un focolare rurale ad arrostire castagne, bere vino e raccontarsi gli uni mondi e abitudini degli altri; con l’impegno, naturalmente da parte di entrambi, di non rivelare ciò di cui erano venuti a conoscenza. I fajetti o mazzamareddi, erano degli esserini di color olivastro, piuttosto goffi, che, seppure paragonabili ad

un umano di piccole dimensioni, possedevano le fattezze di un gatto, di uno scoiattolo forse, c’è chi dice addirittura di un grosso gufo. Non si sa con certezza. Quello che invece sembra certo è che questi curiosi esserini amavano le burle. Atti di ogni genere venivano, infatti, portati a termine a danno degli animali delle stalle: bere il latte dalle mammelle delle pecore, ad esempio, intrecciare le code a muli e cavalli, fare scalpitare le vacche, e in diversi casi succhiare il sangue agli stessi. Tra tutte le cose che si son potute raccontare circa queste affascinanti creature notturne, la storia che incuriosisce di più e che ci accosta al mondo delle fiabe (tra incantesimi e sortilegi, salvezze e compensi) è quella del folletto salvato da morte certa da un povero pastore. Fu come segno di gratitudine a tanta magnanimità che il folletto rivelò in seguito al pastore un importante segreto. Gli svelò, infatti, il punto esatto (nel tratto un tempo conosciuto come la Via dell’argento, precisamente tra Samo e Ferruzzano) dove giaceva sotterrato un forziere colmo di monete d’oro. La leggenda vuole che in una fredda notte di febbraio - l’Aspromonte sonnecchiava adagiato sopra una fitta coltre di neve - uno dei folletti di ritorno da una fattoria, dove aveva perpetrato le sue burle a danno di alcuni animali domestici, fu assalito da un branco di lupi. Ridotto in fin di vita riuscì a salvarsi arrampicandosi sopra un albero. Ma sarebbe morto comunque, forse assiderato o per le ferite riportate, se non fosse stato che un pastore, avvertendo la presenza dei lupi, temendo che stessero per assalire il gregge, li cacciò

via a fucilate. Fu dopo quel trambusto che il folletto si lasciò cadere dall’albero, e che il pastore si accorse di lui. Il povero mandriano, benché non avesse idea di cosa si trattasse, portò il folletto dentro il suo capanno per sottoporlo alle relative cure. Ci mise una decina di giorni (a forza di mangiare toma, latte e formaggio) il folletto per riprendersi; ed altrettanti per arrivare ad essere nelle condizioni di lasciare lo spiazzo. Ma prima di farlo volle riparare il disturbo causato al pastore. E lo fece

Ci mise una ventina di giorni (a forza di mangiare toma, latte e formaggio) per riprendersi e poter lasciare lo spiazzo in maniera brillante, e cioè rivelandogli il luogo dove era seppellito un forziere contenente una cospicua somma in monete d’oro. Forziere che, in seguito, fu realmente recuperato dal pastore, e che nell’arco di poco tempo fece di lui uno degli individui più ricchi dell’entroterra aspromontano. Benché abbiamo la quasi certezza che si tratti di una fiaba, ci piace lasciare uno spiraglio aperto all’altra realtà, quella che fino ad oggi ci ha visto accostati a un mondo che sin dai tempi d’Omero, e forse anche prima, ha costellato di fascino e magia le nostre misere esistenze.


Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte Ottobre 2014

In cammino con l’associazione... Club Alpino Italiano 26 ottobre

Orienteering e cartografia percorso naturalistico topografico F. Manti, con Alpinismo Giovanile T

Conferenza 23 ottobre

“La tutela del piano vien dal monte” con Maria Barillà (storica) - ore 21.00 in sede

28 ott. - 2 nov.

15

9 novembre

Alta via dei monti Lattari (PR monti Lattari) Campania G. Romeo (AE) M. Brunetti (AE) EE

Monte Tifia - Condofuri G. Intravaia con Alpinismo Giovanile T

Polsi Monti Lattari

Laganadi Monte Tifia

Conferenza 13 novembre

“Il commercio della neve” con Orlando Sorgonà (storico) - ore 21.00 in sede

in f o

C.A.I. - Club Alpino Italiano Sezione Aspromonte via San Francesco da Paola, 106 89127 Reggio Calabria Tel. 333 5354074 www.caireggio.it Aperto il giovedì dalle ore 21.00

escursione

Gruppo Escursionisti d’Aspromonte 25 ottobre

Sinopoli Bivio Brandano impegno tecnico: medio percorrenza: 11 km tempo: 5 ore quote: 1000 - 400 - 700 - 579 difficoltà: E rientro: ore 19.00

Partiremo dalla SS 183 e imboccheremo il sentiero che scende verso Serro Castello, Acqua dell’Abate e Sinopoli Inferiore. Attraversata la fiumara Vasì seguiremo il sentiero che sale decisamente verso la contrada Celeste e la chiesetta di San Rocco. L’escursione si concluderà al Bivio Brandano.

escursione

2 novembre

Passo Cancelo Trepitò

Cascate Mundo

impegno tecnico: trascurabile percorrenza: 13 km tempo: 5 ore quote: 948 - 963 - 948 difficoltà: T rientro: ore 18.00

Partiremo da Passo Cancelo per seguire il sentiero che ci condurrà alla Timpa Galasia, punto panoramico sulla fiumara Barvi, con le sue spettacolari cascate Mundu e Galasia. Proseguiremo lungo il sentiero che, attraverso il Bosco di Trepitò, ci porterà a intercettare il “Sentiero del Brigante”, che seguiremo fino al Passo Cancelo.

Sinopoli

o G. E. A. infGruppo Escursionisti

d’Aspromonte via Castello, 2 89127 Reggio Calabria Tel. 0965 332822 www.gea-aspromonte.it info@gea-aspromonte.it

19 ottobre

Tempo: ore 5.00 Dislivello: 420 slm 650 Difficoltà: E. Escursionistico Località: San Giorgio Morgeto Comuni int.: San Giorgio Morgeto

Gente In Aspromonte 1 novembre

Tempo: ore 4.50 Dislivello: 440 slm 682 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Cattolica Comuni int.: Stilo - Pazzano

Sant’Eusebio Monte Stella

I

l percorso si snoderà attraverso sentieri agevoli, in un’area ricchissima di fonti da cui sgorgano acque freschissime; risulterà molto vario, alternando tratti su carrareccia o su campi aperti con salite e discese mai troppo impegnative. Offrirà l’opportunità di osservare maestosi esemplari di piante di sughero.

U

n suggestivo sentiero molto ripido, chiamato u schicciu, ci regala emozioni contrastanti su brevi percorsi. Dalle sommità di splendide colline lo sguardo abbraccia la vallata dello Stilaro, con i fertili campi coltivati, spaziando fino all’orizzonte, dove il cielo e il mare si confondono in un tenue azzurro.

2 novembre

Tempo: ore 5.00 Dislivello: 250 slm 420 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Bivongi Comuni int.: Bivongi

U

Bivongi

na bella escursione, che si articlorà tra vigneti e uliveti, in un’area sovrastata dalle ripide pareti del monte Consolino, denominata la vallata bizantina dello Stilaro. Nel ristretto pianoro, a cavallo tra le fiumare dello Stilaro e dell’Assi, sorge il monastero di San Giovanni Therestis.


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Anime nere

inAspromonte

DOVE SI ANNIDA IL DEMONE? di DOMENICO STRANIERI

Ottobre 2014

V

oglio provare anch’io a dire cosa penso del film Anime Nere, diretto da Francesco Munzi e liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco. Ho aspettato un po’. Ma era necessario aspettare. Quando sono andato al cinema mi sono ripromesso di dimenticare il libro, di non considerarlo. Lo avrei ricordato solo alla fine della proiezione. Era un mio esperimento individuale. Volevo partire da zero, senza suggestioni di alcun tipo. Eppure il testo mi era piaciuto molto. Ini-

zia con un “Camminavamo veloci”, che concepito sull’Aspromonte ha un significato tutto particolare, poiché rievoca altri passi, e non si ferma più. Ha un ritmo che trascina. É scritto con la lingua della montagna, con i suoi occhi (i soli che conoscono alla perfezione i nostri istinti “atavici”). E c’è il “demone”, come lo chiama Criaco, che rapisce le menti. Già nell’epigrafe iniziale si legge: “Tanto, troppo sangue hanno versato e fatto scorrere i figli dei boschi, fratelli inutilmente e stupidamente divisi. Possano Dio e gli Dei placare lo spirito guerriero

che li anima, e scacciare il Demone che li possiede”. Dopodiché, nel libro ci si imbatte altre volte in questa forza ispiratrice/distruttrice: “Il demone bruciava ancora dentro noi” oppure “La strada ci mancava, il demone che ci muoveva era ancora affamato e ci spingeva avanti”. Dire cosa sia il “demone” è una delle cose più difficili della letteratura contemporanea. Lo possiamo afferrare, sappiamo che c’è, ma decifrarlo, dargli un nome, è impossibile. La parola che più si avvicina alla sua natura è appunto “demone”. Liberarsene è un’impresa ardua. Una volta posseduti non vi è

quasi scampo. Non è un problema solamente culturale. É una lotta contro l’aria che si respira, contro un certo senso della realtà. Anche nel film è presente questa forza. Non viene mai menzionata, ma c’è. É in Luigi, ad esempio, ed ottenebra la testa di Leo. Sia nel libro che nel film essa scompare con la morte. Nel primo preannunciandola (“eravamo in pace con noi stessi, il demone che ci aveva posseduti per decenni ci aveva abbandonato in cerca di nuove vittime”) nel secondo “favorendola” in modo drammatico e inatteso.

La rabbia di Luciano di GIUSY STAROPOLI CALAFATI

«

Nonno, nonno. Nonno Bastiano!» «Calmati figliolo. Cosa c’è?» «Zio Turi, mi ha detto che qualcuno di questi giorni, al primo sole, mi porterà in montagna. Lassù, dice, ci sono le anime nere. Lo zio, mi ha promesso di farmene conoscere qualche d’una. Ha tanti amici tra le anime nere dell’Aspromonte. Mi ha giurato su Santo Leo, che mi ci porta prima di sabato». «E oggi che giorno è, Totò?» «É martedì, nonno. Martedì». «E dimmi figliolo, perché ti interessano tanto le anime nere dell’Aspromonte? Brutta cosa il nero. Lo sai anche tu. Brutta cosa. E poi, la montagna! É spassosa, bella, con i suoi sentieri, i lecci neri, le ginestre selvatiche, le mandrie, i caprai. Ma è terribile la montagna. Beato è chi la teme. Ti fa spagnare, la montagna» «A

«Ascoltami figliolo, tu non sei come lui. Quelli come Turi portano guai a sé stessi e pure alla famiglia. Stanne alla larga. Alla larga ci devi stare, Totò! Tuo padre, povero figlio mio, per andarci appresso, a suo fratello, è morto senza l’anima. É la sua una delle “anime nere” amiche di tuo zio, Totò. E tu? Tu che vuoi fare, eh? Vuoi dare un altro dispiacere a quella povera donna sola di tua madre? Che vuoi fare tu, Totò eh? Che vuoi fare? Vuoi morire? Vuoi morire? Dillo, vuoi morire?» «No nonno. Certo che no. Non voglio morire» «E allora solo alla scuola devi pensare, tu. Devi studiare tu, Totò. E vedrai che quando sarai grande, le anime nere con le quali spaccona tanto tuo zio, gargia fetusa che tiene!, solo schifo ti potranno fare. Solo schifo. Adesso va. Va, va! Va da tua madre e fa una preghiera alle anime del purgatorio che è meglio». «Vado, vado» «Sanizzo devi crescere tu, Totò. Non tinto. Sanizzo, ricordati. Sanizzo». Mio nonno cercava di distogliermi il pensiero dalle anime nere che tanto enfatiz-

ANIME

Lì, c’era il vecchio cascinale dove vivevano i nonni. Ma lui, là dentro, appena appena ci dormiva e basta. Tutto il resto del suo tempo lo passava in montagna. Lassù, al focolare, a ruota, si incontravano lui e le Anime Nere dell’Aspromonte. Mio nonno aveva ragione. Zio Turi, al primo sole, in nessuno di quei giorni, mi portò in montagna a vedere le Anime Nere. Non fece in tempo. Prima di sabato, fu lasciato secco sul colpo, con una pallottola in piena fronte, sul retro del

Io camminavo lento davanti a lui. Mi superò fischiettando. Si fermò di botto, che i malacarne tra loro si fiutano. Si girò che aveva il coltello in mano e capì che non gli sarebbe servito. Non ebbe paura e morì vedendo arrivare la pallottola della 357 Magnum in mezzo agli occhi. Gli altri quattro proiettili gli devastarono l’inguine. Misi in tasca la mano, tirai fuori un pugno di noccioline e gliele tirai addosso. Lo lasciai lì, un figlio dell’Aspromonte ad imbrattare il marciapiede dei Savoia. Anime Nere

me, nonno? Io non ho paura di niente. Sono forte come mio padre. Lo dici sempre anche tu. Se solo non me l’avessero ammazzato, povero padre mio, mi ci avrebbe portato lui in montagna. Delinquenti. Cristiani maledetti. Fetusi» «Avanti, basta Totò. La lingua non ha l’osso e rompe il mastr’osso. Per l’anima di tutti i morti e pure per quell’anima santa di tuo padre, Totò, non dare retta a tuo zio. Turi ha la testa del mulo, ma neppure il raglio sa fare, lui. Lascia perdere le Anime, quelle sono figlie della morte, come tuo zio Turi. É un povero scecco morto, lui. Cammina mentre campa e campa pure mentre cammina, ma è morto come tuo padre. Fidati Totò!» «Ma che dici nonno?.

di

zava zio Turi. C’era qualcosa di diverso tra loro. Zio Turi era il fratello maggiore di mio padre. Passava parte del suo tempo in città, a Milano, a sbrigare affari diceva, e poi come poteva, scendeva quaggiù, per villeggiatura lasciava intendere al nonno, e se ne stava al porcile.

porcile, mentre mio nonno riportava all’ovile le capre. Io ero con lui. Un botto e basta. Nonno Bastiano, neppure si voltò. Aveva capito al volo cosa fosse successo là dietro. Voltandosi verso di me, mettendosi la testa tra i palmi di entrambi le mani mi disse: «Ecco le anime nere, Totò». Corsi sul retro e vi trovai mio zio accasciato sullo sterzo della sua Bmv nera fiammante. Il motore ancora accesso mentre alla radio accesa anch’essa, l’ultima notizia del giorno: «Grande successo per le Anime nere di Gioacchino Criaco, interpretate al cinema da Francesco Munzi con il coraggio libero di non piangere mai il peccato e l’ostinazione di una terra come la Calabria che vive la maledizione di bestemmie antiche». Anime nere è forse il film più bello, coraggioso e reale che il cinema italiano abbia potuto produrre negli ultimi anni. Un film che se non fosse stato prima libro non sarebbe potuto riuscire, su schermo, in maniera così forte e autentica. Una storia resa, nella pellicola, realtà precisa, in completa sincronia con i luoghi, gli spazi e i tempi repentinamente vissuti. Il coraggio di parlare una lingua che per essere compresa ha avuto bisogno di sottotitoli e traduzioni. Una Calabria interprete di se stessa sul foglio e nello schermo, dove non solo espone al mondo la sua anima nera, ma vuole condividere con chi nei calabresi non ha mai creduto abbastanza, la rabbia più nera di un uomo come Luciano, che ci ha rimesso se stesso pur di restare. Restare alla terra. La stessa usata per ricoprire suo figlio e forse pure egli stesso, in un viaggio che non tutti hanno il coraggio di fare. Il viaggio verso il riscatto.

di VINCENZO STRANIERI

Stato è « Lopresente solo quando vengono uccisi Luigi e Leo. Lo è per prassi, idem la Chiesa

« EQualle donne? è il loro

ruolo? Sono donne senza sorriso, ed ogni giorno le sfiora la morte

Nella foto in alto gli studenti del Liceo Classico di Locri al cinema Vittoria, durante l’incontro del 7 ottobre con Francesco Munzi e Gioacchino Criaco

U

n mio amico calabrese che vive al Nord è rimasto sorpreso quando, tempo addietro, gli dissi per telefono che presto sarei andato al cinema a vedere Anime nere del regista Francesco Munzi, film liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino 2008) e che, al recente Festival del cinema di Venezia, aveva riscosso un buon successo. «Perché vai a vedere un film che tratta di cose che ben conosci. Vivi nel cuore geografico che ha partorito la ‘ndrangheta ed i suoi famuli. Sarà di certo un film che ricalcherà i soliti stereotipi», così ebbe a rimproverarmi benevolmente il mio amico. É persona intelligente, nonostante abbia lasciato la nostra terra da circa trent’anni, conosce bene il suo/nostro mondo d’origine. Qui aveva lottato con impegno contro i soprusi, i suoi comizi erano vibranti e ricchi di passione giovanile. Ma il suo consiglio non poteva trovare il mio consenso. ANDAVO AL CINEMA soprattutto perché un buon film è sempre un’opera d’arte ed anche perché io sono socratico per convinzione (so di non sapere), certo che c’è sempre qualcosa d’apprendere. Inoltre, fatto non secondario, avevo quattro anni or sono recensito positivamente il libro di Gioacchino Criaco. Il film ha inizio, una strana ansia mi assale, respiro profondamente alla ricerca di una concentrazione che mi consenta di seguire una storia che narra dal di dentro un mondo incastonato nell’alveo antropologico della ‘ndrangheta. È un’opera volutamente lenta, il regista fa lievitare le singole vicende evitando la presenza d’intrepidi eroi. Il sangue non scorre a fiumi ed è pure assente l’eco assordante di fucili ultramoderni in grado di lacerare il silenzio notturno dell’Aspromonte. Guardo le immagini volutamente velate

da un buio trasparente, ascolto le locuzioni dialettali dei protagonisti. Non ho bisogno di leggere i sottotitoli. É una lingua che conosco bene. Il pensiero corre veloce, la mente s’arrovella, cerca un filo conduttore al quale aggrapparsi per non cadere in errore. Mi soccorre la pausa tra un tempo e l’altro. PRENDO APPUNTI. Mia moglie li sbircia incuriosita. Mi chiede perché le scene, specie i primi piani, non sono nitide. Le dico che è una scelta del regista. Di anime nere come la notte si tratta, infatti. «É vero - mi risponde - ma devi ammettere che in una terra arsa dal sole ci si aspetterebbe squarci di luce abbagliante. Ed invece anche le parole dei protagonisti sembrano prigioniere del buio che incombe su uomini e cose». Comincia il secondo tempo, la mia attenzione è al massimo, ascolto e guardo tutto quello che Munzi ha costruito con fatica greve, stante che i fondi erogati dalle nostre istituzioni locali sono stati esigui se non del tutto assenti. Siamo al finale, drammatico quanto inaspettato. Anche i miei due amici, che hanno assistito al film nella fila di fianco alla mia, sono rimasti spiazzati, increduli per una chiusa così tragica, pregna di profonda intensità emotiva. Luciano, infatti, uccide suo fratello Rocco (che fino ad allora s’era goduto lo status sociale raggiunto nel regno del malaffare milanese) colpevole di non avere saputo proteggere Leo (figlio ventenne di Luciano) eliminato da un gruppo rivale per avere progettato all’insaputa di tutti l’uccisione di un potente boss locale. LEO VIENE consegnato ai suoi aguzzini dal suo migliore amico (vai a fidarti!). Prima di lui era stato ucciso Luigi, il terzo dei fratelli Carbone, dedito al traffico internazionale di droga. Solo Luciano vive stabilmente in Cala-


Anime nere Di certo, è la tragedia lo scenario ove il “demone” s’annida. E Luciano lo sa. Quando impugna la pistola (giacché il demone si stava “riprendendo” Rocco) non lo fa contro una persona, e nemmeno per sfuggire ad una faida senza fine. Egli spara al male che conquista le menti, ad un mondo intero. Un mondo, appunto, animato dal “demone”. Non so se l’intenzione del regista sia stata quella di preparare tutta la pellicola, sin dall’inizio, a quel finale (a quella grande riflessione finale). É come se si fosse prima immaginata la conclusione e poi, su di essa, si fosse

costruito tutto il resto. Ovvero un film in dialetto calabrese, girato in Calabria, che parla a ogni popolo con il linguaggio dell’esattezza. In Anime Nere, difatti, non c'è un antieroe che affascina, come il Noodles di C’era una Volta in America o i protagonisti della scalata criminale de Il Capo dei Capi (ho sentito, ad esempio, molti giovani, anni addietro, ripetere le frasi del Riina della fiction). Per questo ci troviamo di fronte a qualcosa di unico, essenziale eppure mai detto prima. Possa piacere o no, l’efficacia dell’opera

inAspromonte Ottobre 2014

risiede proprio nella mancanza di forzature spettacolari. L’armonia cadenzata è quella reale, della nostra terra, ed il paesaggio è un tutt’uno con lo stato d’animo dei protagonisti (ma anche con quello di chi sta guardando il film). Ma vi è pure un’altra qualità nel lavoro di Munzi (tra le tante che non ho voluto ribadire perché già dette da altri). E cioè che il finale del film è aperto. Potrebbe, cioè, avere un seguito. Sempre che qualcuno osi allentare ancora le porte della verità per capire dove si è andato a cacciare il demone

«Da Corrado Stajano alle Anime nere di Criaco, 63 anni di storia in bilico tra l’Aspromonte ed il mare»

E NERE

bria in compagnia del suo gregge di capre. Egli è lontano da traffici e violenze varie. Prima di ritornare all’epilogo, mi preme sottolineare come Munzi abbia saputo mettere in evidenza (tutto il film stimola questa riflessione) lo scontro generazionale all’interno delle ‘ndrine: la vecchia ‘ndrangheta (composta da quanti negli anni ‘70 avevano eliminato i capi-bastoni del reggino), e quella dei nostri giorni sempre più smaniosa di guadagnare in fretta denaro e prestigio all’interno della criminalità organizzata che, come si sa, è divenuta un’holding internazionale. Il film presenta delle peculiarità che lo rendono fortemente originale. Munzi, infatti, compie un viaggio all’interno delle forme culturali di una famiglia calabrese che si rivela disomogenea e non sempre ligia alle regole del mondo ‘ndranghetistico.

alle prese con alibi, prove e/o possibili codicilli in grado di aiutare gli imputati di turno. Non è un giudizio negativo contro la Giustizia e/o la Chiesa, a Munzi interessa che sia la famiglia Carbone a denudarsi, e questo senza filtri o intromissioni che ne modificherebbero la vera natura. Trattasi, quindi, dell’affresco amaro di un mondo ancora legato ad un passato/presente capace di partorire anime nere pronte ad immolarsi in nome d’insani valori. IL FILM DIFFERISCE alquanto dal romanzo di Criaco, ma non per questo ne violenta la morfologia. É una libera interpretazione del regista, infatti. Andrebbe

di GIANFRANCO MARINO

«

Gli africoti odiano il mare. Un mare quasi sull’uscio di casa, blu carico, con bordi celeste Madonna e striature vinose». Corrado Stajano, nel suo Africo, edizioni Einaudi 1979, traccia in modo opinabile, ma a tratti veritiero, il profilo di una realtà come quella di Africo, fatta di gente dura, dagli occhi neri e profondi, dalla pelle del viso bruciata dal sole e consumata dal gelo, gente in circa di riscatto sociale ed in preda ad un malinteso senso di rivalsa.

donne senza sorriso (mogli, figlie e nipoti), sottomesse a figure maschili che inseguono facili guadagni a costo della vita. Ogni giorno le sfiora la morte ed i loro cuori si gonfiano d’eterno dolore. Hanno anche l’ingrato compito di riproporre la ritualità (ereditata dal mondo greco-romano) dei funerali di un tempo, quelli dove si recitano litanie (con atteggiamenti da prèfiche) inneggianti le qualità positive del defunto. Ed anche interminabili pianti capaci di esaurire le poche lacrime custodite con parsimonia, stante che, purtroppo, un morto tira l’altro. Ed è bene tenere sempre pronto l’abito scuro. E ciò in contrasto con l’eleganza della bionda moglie di Rocco, donna del Nord che non riesce a capire il mondo del marito e che desidera tornare al più presto nella sua Milano dove fino ad allora aveva goduto di rispetto e privilegi (si era mai domandata il motivo di tanto benessere?).

Il film di Francesco Munzi (ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, Rubbettino 2008) merita a pieno titolo di collocarsi nell’alveo dei film cult dell’ultimo trentennio

TRE FRATELLI, segnati dall’uccisione del padre per via di una faida che per lungo tempo aveva insanguinato il territorio alimentando sgomento e terrore nelle popolazioni del basso Aspromonte orientale. Lo Stato (rappresentato dalle forze dell’ordine) è presente solo quando vengono uccisi Luigi e Leo. Lo è per prassi, idem la chiesa, rappresentata da un giovane sacerdote che, durante il funerale del giovane Leo, proferisce un’omelia incapace, specie in quel frangente, di produrre alcuna consolazione. I cuori sono in piena accelerazione, pronti a scoppiare per la rabbia ed il dolore, nonché per il desiderio di una pronta vendetta. Non ci sono magistrati, organi inquirenti impegnati a contrastare le ‘ndrine, cosicché non ci sono tribunali, testimoni, avvocati

visto almeno due volte un film. Di certo qualcosa mi è sfuggito, ma la tarantella no (ballo secolare musicato in modo semplice ma in grado di creare ritmi vorticosi nella mente dei partecipanti). Luigi guarda gli altri ballare appoggiato ad un palo della vecchia baracca che ospita alcune famiglie legate alla criminalità organizzata. Balla da fermo, mima estasiato i suoi ritmi, sembra posseduto, ne vuole gustare ogni attimo, sente la frescura della montagna amica dove ha vissuto da piccolo. Quell’antico ballo gli comunica visioni paradisiache, un’inimitabile pace interiore. E questo a poche ore della sua tragica esecuzione da parte di un gruppo rivale. E le donne? Quale il loro ruolo? Sono

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DICEVO DEL tragico epilogo. Le interpretazioni sono molteplici. È certo, però, che senza quel tipo di finale lo scenario avrebbe avuto come protagonista un mondo senza scampo, privo di qualsiasi prospettiva. È vero, ciò costa sangue, dolore atroce; il tutto, infatti, rimbalza pesantemente all’interno della famiglia Carbone, dei suoi pochi sopravvissuti. Ho letto su facebook diversi post che invitano il regista a realizzare al più presto la continuazione del film, una sorta di Anime nere 2, 3, 4 etc. Mi auguro che ciò non accada, spero tanto che questo film sia considerato un’opera cult (un classico) in grado di sfidare il tempo.

CORRADO STAJANO, 35 anni fa, e Gioacchino Criaco, oggi, ci parlano di una parabola di amore e odio, dolore e morte, tristezza e disperazione per un passato abbandonato, mai del tutto, sugli oscuri e impervi anfratti aspromontani, ci parlano di un passato sofferente e di un presente fatto di spiagge bianchissime, mare cristallino, nuove frontiere del crimine organizzato e bagliori di speranza che partono proprio dal lavoro e dall’impegno di Criaco come da quello dei tanti giovani che proprio sull’Aspromonte, in quel vecchio sito abbandonato, si spendono per il rilancio della propria terra e per il recupero di quei ruderi che hanno saputo resistere agli attacchi del tempo. CON LORO C’É anche chi pensa ad un giornale, dedicato alla montagna ed a tutto quello che attorno ad essa si agita, una nuova realtà dell’informazione fatta di giovani professionisti, nata dall’unione di tante esperienze e di tante professionalità. «Sugnu africotu» dice con un malcelato compiacimento Gianni Favasuli, poeta e cantore della sua terra, in uno dei suoi tanti componimenti, «Lupu di muntagna, nu coriu duru comu pigna». Gioacchino Criaco lo sa bene cosa vuol dire essere africotu, come sa bene che ripercorrere la storia della sua gente vuole dire tornare indietro di oltre sessant’anni, proprio su quelle montagne di cui parla Favasuli, nel dedalo di gole impenetrabili rischiarate dal biancore delle fiumare. Certo Africo nuovo è un’altra storia, fatta di cemento, omologazione e speranze di progresso infrante spesso sulle onde dello Ionio o, peggio ancora, nelle aule dei tribunale. É LA VECCHIA AFRICO, così come si apprende dal racconto dei più anziani, a riservare invece tante sorprese, a suscitare ancor di più tanti interrogativi. È un viaggio alla scoperta di civiltà perdute, di memorie storiche legate ad una data che per questa gente rimane nel bene e nel male incancellabile. Ci pensa una delle tante alluvioni d’Aspromonte, quella del 1951, qualcuno, provocatoriamente, la chiama l’alluvione del pretesto, a ricordare agli africoti il loro particolare appuntamento col destino, decretando il trasferimento al mare. Sono trascorsi tanti, forse troppi decenni da allora, e della vecchia Africo

rimangono pochi ruderi, da qualche anno riportati alla luce da quei giovani cui facevo riferimento, umili, volenterosi, con gli stessi tratti somatici di chi quei posti li aveva lasciati in preda a chissà quale miraggio e chissà con quali e quanti sentimenti contrastanti di speranza e smarrimento. LORO SONO TORNATI, ma forse, in realtà non se ne erano mai andati, mossi da un inconscio e viscerale legame con la terra che sentono propria, più di quell’anonima striscia di spiaggia che li ha visti nascere e li ha a malincuore accolti. Quei ruderi rimangono a testimoniare il contrasto tra una resa incondizionata e la testarda volontà di riaffermare la propria storia. Oggi, il tragitto che porta dalla vecchia Africo alla sua frazione Casalinuovo, fino a qualche anno fa riservato agli amanti del trekking, grazie a Criaco e a quelli come lui, diventa utile per chi vuole capire l’intimo legame che lega questa gente alla propria terra. Tra i tanti, tantissimi commenti e recensioni che hanno fatto seguito all’uscita del film di Munzi nelle sale, uno su tutti mi è sembrato ricorrente: la difficoltà di interpretazione, per chi non conosce bene i contesti di riferimento, dei tantissimi messaggi indiretti, lanciati da personaggi. Ambientazioni, paesaggi e circostanze figlie di un Mondo che, se lo conosci ti fa riflettere, se non lo conosci non riesci nemmeno a percepirne le vibrazioni. SALENDO SU QUESTE montagne capisci molto meglio il messaggio che Gioacchino Criaco e il regista hanno voluto lanciare al Mondo, un messaggio fatto di simbolismi, di movenze, dettagli, ambientazioni e riferimenti ad un mondo arcaico di non facile comprensione, che col passare dei chilometri in mezzo ai boschi, pian piano, prende forma. È la montagna che sembra parlarti, rivelandoti, sempre con parsimonia, molti dei suoi segreti. Le prime sconcertanti immagini della realtà di Africo sono quelle regalate al mondo dagli scatti di Tino Petrelli, le ultime in ordine di tempo sono quelle suggestive riservateci dal certosino lavoro fatto da Vladan Radovic per Anime Nere, scatti che ci consegnano fotogrammi di una vita vissuta in bilico tra l’Aspromonte e il mare, tra il presente ed un passato che, come sembrano voler suggerire proprio le Anime nere di Munzi e Criaco, non vuole scomparire. «Sugnu africotu, lupu di montagna» dice una poesia che sembra quasi una nenia, e sembra dirlo anche la trasposizione cinematografica del lavoro di Gioacchino Criaco, proprio lui, che come pochi riesce a interpretare la sofferenza e la dignità di questa gente, col cuore di chi la storia di Africo l’ha vissuta dal di dentro, con la consapevolezza di chi sa che una nuova storia per Africo forse si sta già scrivendo.


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inAspromonte Ottobre 2014

La nostra storia

Una coraggiosa analisi storica che ridà al Sud il giusto posto nella conquista della Repubblica

Morire a Gerace...

Gerace, Aspromonte orientale. Foto di Bruno Criaco di PINO MACRÍ I partecipanti all’insurrezione del 1847

A

nzitutto la prima domanda a cui sembra opportuno dare una risposta: quanto esteso fu il movimento, in termini di partecipazione numerica? Nelle varie narrazioni, a seconda delle “passioni” degli autori, si parla di “poche decine”, ma anche di “migliaia” di persone, senza, però, dare mai un’indicazione precisa. Naturalmente è assai arduo, se non impossibile, fornire un numero esatto (nessun cronista dell’epoca produsse un “censimento” in tal senso), ma un’idea molto concreta può essere accettabilmente desunta proprio dalla lettura dei documenti in appendice all’opera di Visalli. In essa vi è, infatti, l’elenco nominativo completo dei “perseguitati” a vario titolo (dai condannati a morte ai semplici arrestati) per i fatti del 1847 a Gerace e Reggio: in tutto essi assommano a 1392 persone, ed è bene sottolineare come il succitato elenco sia corredato dell’indicazione del luogo di provenienza o residenza e, in gran parte, di notizie riguardanti posizione sociale, ceto, professione o occupazione di ogni singola persona citata (in realtà in molti casi non è citata l’occupazione, quasi certamente perché trattavasi di elementi appunto senza fissa occupazione). Già questo primo dato consente alcune valutazioni di rilevante importanza: se, infatti, 1392 furono le persone sicuramente indagate (per ciascuna di esse è possibile produrre il relativo provvedimento giudiziario), non sembra inverosimile affermare che la partecipazione attiva ai moti interessò un numero compreso fra 1500 e 2000 individui. Naturalmente lasciamo ad altri lo stucchevole esercizio retorico sulla risposta da dare alla domanda se 1500-2000 persone erano da considerare un numero elevato o esiguo: probabilmente la fazione storica avversa, vista bruciata la denigratoria cifra di “poche decine”, si affretterà a confrontare tal numero con la popolazione dell’intera provincia di Calabria Ultra (fra 270.000 e 300.000 unità) per metterne in risalto l’esiguità, mentre l’altra sottolineerà come, visto lo stato primitivo, se non addirittura inesistente, delle infrastrutture e dei trasporti dell’epoca, ad esempio, debba ritenersi quella cifra come assolutamente straordinaria: qui preme soltanto evidenziare, forse per la prima volta, quale fosse la composizione numerica più attendibile del “corpo” degli insorti. Ancora più interessante appare, poi, l’analisi del dato numerico ri-

ferito alla provenienza dei perseguitati rispetto al territorio (v. fig. 1): se, infatti, non deve sorprendere più di tanto la sproporzione fra gli attivisti reggini e quelli geracesi (855 a 421, più del doppio), dovuta sia al fatto che Reggio era senz’altro la roccaforte più importante da conquistare, sia all’imponente esposizione in prima persona di Domenico Romeo, il cui carisma e il cui formidabile e frenetico attivismo riuscì a coinvolgere praticamente l’intero paese d’origine di S. Stefano d’Aspromonte (fig. 2), sia, infine per la mancata partecipazione, per scelta filoborbonica di gran parte degli abitanti, ma anche per l’azione preventiva del Sottintendente Bonafede, della cittadinanza geracese (fig. 3); e se, inoltre, non deve sorprendere nemmeno l’esiguo numero di attivisti della Piana (Distretto di Palmi) rispetto al totale, viceversa il dato più interessante è rappresentato proprio da quel 4% di perseguitati che, sotto la neutra definizione di “Altro” si riferisce alla provenienza dal resto della regione o, anche, da fuori regione. Premesso che, in molti di questi casi, la persecuzione politica non fu dovuta ad una partecipazione diretta agli eventi, scorrendo l’elenco di quei 59 nominativi, si scorgono figure anche di primo piano nel quadro nazionale della lotta risorgimentale, quali l’avvocato Carlo Poerio da Napoli, l’avvocato Domenico Mauro da S. Demetrio Corone o il barone Stocco da Decollatura, a fianco di tutta una serie di personaggi che, a prima vista, poco o nulla dicono, se non per il fatto che, evidentemente, c’era in atto tutta un’attività preparatoria e fiancheggiatrice disseminata praticamente in ogni angolo della Calabria. Non è difficile, cioè, intuire come a Cosenza, Maida, Rossano, Soriano, Stalettì, Pizzo, Monteleone (tanto per citare i casi più concreti) erano attivi dei “comitati” rivoluzionari pronti ad unirsi alla sollevazione, ingrossandone le fila man mano che essa avesse proceduto verso la Capitale del Regno, probabilmente seguendo lo stesso schema percorso 48 anni prima dal Cardinale Ruffo con le sue “truppe” cosiddette sanfediste. La notazione di maggior interesse in questa disamina risiede nel fatto che ciò stride clamorosamente con una delle accuse mosse da più parti agli insorti del ‘47, circa uno spontaneismo “straccione e velleitario”, la cui assoluta e totale mancanza di organizzazione non poteva che portare al fallimento della disperata impresa: anche per

seconda parte

questo motivo gli storici si sono, forse frettolosamente, quando non fraudolentemente, affannati a liquidare l’insurrezione come “un fatto tutto sommato di minore importanza, e, quindi, immeritevole di assurgere al ruolo di prodromo del glorioso ‘48”. Questa contraddizione è resa ancor più evidente se, per un momento, si richiamano alla memoria le modalità della cattura del Bonafede da parte degli insorti del Distretto di Gerace: come è ampiamente documentato, anche per il racconto che ne fa lo stesso Bonafede, la mattina del 3 settembre un gruppo di insorti al comando di Michele Bello intercettò per mare l’imbarcazione su cui si trovava il Sottintendente diretto alla volta di Bianco per rendersi conto di persona del livello di pericolosità dei fatti di cui, attraverso alcune delazioni, aveva avuto sentore. Ora, se si vuole, si può anche continuare a pensare che l’evento e la conseguente cattura del più importante avversario sia stato frutto di un puro caso, ma sembra assai più logico, senza spingersi a pensare ad una preordinata attività delatoria finalizzata al tentativo di far uscire allo scoperto il capo della polizia distrettuale (ci sembra eccessivo e non supportato da alcuna evidenza documentale), al contrario non sembra poter essere priva di fondamento la supposizione dell’esistenza, in Gerace, di una sorta di “Quinta colonna” in grado di avvertire tempestivamente i Capi della insurrezione delle mosse di Bonafede. Se ciò, unitamente all’organizzazione pressoché capillare di sostenitori in ogni centro calabrese, giusto quanto rilevato prima, ed all’osservazione che si era riusciti a nascondere accuratamente le numerose riunioni preparatorie della insurrezione alla onnipresente ed onnipotente polizia borbonica, se tutto ciò, dunque, non è prova, più che indizio generico, di organizzazione ed accurata preparazione della insurrezione... Semmai, si può a buon diritto sostenere che, forse, la pessima dotazione di armi era un chiaro indizio di una pesante falla nell’organizzazione, laddove è possibile ritenere che l’alternativa alla potenza di fuoco doveva essere la partecipazione molto più massiccia. A ben vedere, però, questa considerazione si presta ad un’altra lettura che, in verità, è ancora in attesa di accertamenti più approfonditi, sulla base di documenti da ricercare magari in quegli archivi inglesi cui sinora nessuno ha ritenuto indispensabile far ricorso: ci


La nostra storia

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«A leggere molti dei libri scritti sulla storia dell’insurrezione calabrese del 1847 spesso si ha come la netta sensazione che i relativi resoconti storici siano stati “buttati giù” più sulla scorta dei ricordi (personali, familiari o altro, ma pur sempre ricordi), che dei documenti ufficiali. Al contrario, invece, di quanto le agiografie risorgimentali ad usum delphini tuttora scrivono, i sentimenti del popolo italiano, quello spontaneo, dovevano essere state ben fortemente impressionate dai fatti calabresi, se è vero, come è vero, che il 12 ed il 15 febbraio 1848, a Milano, nel profondo Nord, i giovani dimostranti adottarono il “cappello alla calabrese” come simbolo distintivo del sentimento antiaustriaco» si riferisce ad una contraddizione apparente fra il fatto che l’organizzazione dell’insurrezione sia avvenuta in loco (sarebbe una logica conseguenza dell’insufficiente sostegno finanziario ampiamente provabile) ed alcuni chiari indizi che, al contrario, farebbero pensare ad una mente straniera a supporto (l’appartenenza alla massoneria di tutti e cinque i Martiri di Gerace e moltissimi dei capi di Reggio e la straordinaria “coincidenza” della presenza sui luoghi teatro della insurrezione nella Locride di un personaggio inglese di non poca notorietà ed importanza quale senz’altro era Edward Lear). Per far piena luce su queste ultime ipotesi, però, è bene che qualcuno degli storici “ufficiali” trovi il tempo e lo stimolo per compiere quelle ricerche negli archivi inglesi di cui si diceva sopra. Al momento, in questa sede, non ci si può che limitare alla segnalazione di uno dei tanti lati oscuri di questa indimenticata (per noi) storia che ancora sono da esplorare.

La composizione sociale

L’

impiegati (l’impiego, pressoché esclusivamente pubblico all’epoca, presupponeva il possesso di un qualche titolo di studio) con 139 soggetti, e discreto quello di marinai, agricoltori e braccianti (64). Ma il dato senza dubbio più impressionante e sorprendente risiede in quei 32 religiosi (sacerdoti e frati) che costituiscono un fatto assolutamente inatteso: è la concreta dimostrazione che se i vertici ecclesiastici non potevano che essere borbonici, anche in virtù di un provvedimento governativo di qualche anno prima che obbligava i vescovi ad una totale devozione alla corona, vincolandoli attraverso l’imposizione all’immediato resoconto ai vertici giudiziari in caso di delitti di ribellione a qualsiasi titolo (obbligo cui, tra l’altro, il vescovo Perrone si attenne con uno zelo forse degno

coltore), la sparizione degli studenti (logica, non essendovi scuole di alcun tipo nel Distretto di Gerace) e la sensibile presenza dei sindaci sul totale dei soggetti con occupazione nota, a testimonianza che, comunque, intere collettività aderirono, almeno idealmente, all’insurrezione. La netta sensazione è che la partecipazione attiva nel Distretto di Gerace sia stata in qualche misura più consapevole rispetto a Reggio, connotata come fu da una più elevata percentuale di soggetti che rischiavano maggiormente, in termini di conseguenze in caso di insuccesso. Al proposito, vi è da far rilevare che, storicamente, l’insurrezione è stata in Calabria ricordata, ed è tuttora ricordata, con riferimento quasi esclusivo ai Martiri di Gerace: la stessa conservazione della memoria collettiva sembra, negli anni, aver avuto maggiore spazio nella Locride rispetto a Reggio, dove, almeno apparentemente, oltre all’intitolazione di alcune strade ad alcuni dei personaggi più esposti nell’insurrezione (i fratelli Plutino, il canonico Pellicano, Leonardo Cimino, oltre a Domenico Romeo) poco o nulla si sia fatto o si faccia tuttora per ricordare i quattro fucilati (Domenico Morabito, Raffaele Giuffrè Billa, Giuseppe Favaro, Antonio Ferruzzano), martiri della barbarie borbonica.

Il cristiano chiede perdono a Dio non solo per i pensieri, i fatti e per le opere commesse, ma anche per le omissioni; poi, e solo poi, può anche dare a Cesare, se proprio non ritiene di doversi esimere, quello che è di Cesare

analisi dei dati estrapolati in rapporto all’occupazione dei perseguitati al momento dell’arresto non è meno interessante della precedente, ed, anzi, è anch’essa foriera di elementi fortemente significativi. La fig. 4, relativa al totale dei soggetti (1392) riguarda la composizione dei 536 soggetti di cui si conosce l’occupazione, evidenziando contemporaneamente come per gli altri 856 nelle carte non è riportato alcun dato di occupazione: con ogni probabilità, come già detto, ciò è interpretabile col fatto che questi 856 soggetti non avessero una fissa occupazione al momento del loro arresto. Si tratterebbe, in buona sostanza, di una sorta di sottoproletariato (come si sarebbe probabilmente detto qualche decennio fa, allorquando le analisi sociologiche erano di esclusiva pertinenza di scienziati del sociale di origine e impostazione ideologica marxista) la cui partecipazione ai moti può essere stata dovuta tanto al “miraggio” dei tre carlini al giorno di paga promessa (il dato è accertato per il Distretto di Gerace, non per i partecipanti all’insurrezione nel reggino), quanto alla disperazione per uno stato di miseria estrema che può avere spinto alla ricerca della rivolta come unica speranza di un domani migliore dell’oggi. Certamente, lo stesso metro di giudizio non può essere applicato nei confronti dei 536 di cui è nota l’occupazione: risalta immediatamente come il ceto medio produttivo (ché tali devono essere considerati anche i “possidenti”, non identificabili col latifondismo parassitario, di provata fede borbonica) rappresenti la maggioranza dei soggetti, assommando a 256 il totale di artigiani (la categoria più rappresentata), possidenti e commercianti. Molto ben rappresentato il ceto “colto” di professionisti, studenti e

di miglior causa), viceversa in molti casi i parroci si dimostrarono dei pastori veramente vicini alla propria gente, tanto da condividerne un’iniziativa così pericolosa per la propria incolumità. Addirittura qualcuno, come l’abate Francesco Ruffo, fratello del Martire Gaetano, si spinse oltre, arruolandosi, in seguito, nelle file dei Mille, ed arrivando a conseguire, nel corso della storica battaglia sul Volturno, un diploma sabaudo per l’eccezionale coraggio in battaglia e le spiccate doti di comando (ad ulteriore onore di questo poco conosciuto personaggio, vi è da aggiungere che, conseguita l’Unità d’Italia, egli declinò l’invito di continuare la carriera militare da ufficiale nell’esercito sabaudo, accompagnando il rifiuto con un “l’Unità d’Italia è una cosa, l’apostasia sarebbe tutt’altra”, ritornandosene quindi alla sua originaria missione sacerdotale in Bovalino). É ancora molto interessante anche l’analisi del dato disaggregato riferito all’occupazione dei partecipanti ai moti nel distretto di Gerace (fig. 5 e, per Reggio, fig. 6): anzitutto qui i non occupati scendono dal 66% di Reggio al 56%; inoltre si nota una maggiore incidenza delle occupazioni più basse (marinaio, bracciante, agri-

In conclusione, un’ultima considerazione ci sembra opportuno rimarcare in ordine alla partecipazione di soggetti religiosi nel Distretto di Gerace: ben 12, quasi tutti sacerdoti, ritennero opportuno elevare lo loro protesta nei confronti del regime borbonico, ad ulteriore smentita, tra l’altro, di quanti hanno voluto a posteriori conferire una incomprensibile connotazione di ateismo al movimento (ricordiamo al proposito che lo slogan più scandito dagli insorti, accanto a «viva l’Italia» ed a «viva la Costituzione», fu «viva Pio IX»). Chissà che i malesseri del vescovo Perrone non siano stati originati proprio dalla constatazione che il suo clero, evidentemente, non era compattamente solidale con la sua visione della storia, procurandogli in tal modo quella moestitia che ebbe modo di convertirsi in gaudio in occasione del genetliaco del suo amato sovrano? Non è dato saperlo: di certo ad un credente risulta che la moestitia è un sentimento che automaticamente insorge in occasione della soppressione di una vita umana, e per la quale è fatto obbligo di coscienza di adoperarsi perché ciò non avvenga. In caso contrario, il cristiano, solitamente, chiede perdono a Dio non solo per i pensieri, i fatti e per le opere commesse, ma anche per le omissioni; poi, e solo poi, può anche dare a Cesare, se proprio non ritiene di doversi esimere, quello che è di Cesare: ma è proprio in queste “sottigliezze” che, probabilmente, risiede la differenza fra una grande figura e la meschinità, al di là della colpa sulla “grazia reale occultata”, colpa che, personalmente, ritengo che Perrone non abbia.


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Libri e scrittori

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L’anno

Alla mia terra. Alla sua paziente attesa...

dei

limoni Quinta e ultima parte

di VINCENZO CARROZZA

D

on Calarco, preoccupato, precisò al dottor Profazio: «La menzogna invece della verità si sta diffondendo nella mente di ognuno. La legge, come i tribunali che la amministrano, come i giudici, tra poco saranno inutili, perché neanche l’ergastolo farà paura. Cosa vuoi che siano vent’anni di carcere di fronte all’eternità. E neanche Don Pepè farà più paura visto che la morte è sparita. Sparita la morte, sparito il dolore, sparita la sofferenza e l’angoscia. Tutti cercano nella menzogna la felicità, la gratificazione alla povertà». «Sì - rispose il medico - la coscienza dell’assenza di morte ha reso inutile la confessione, ha reso inutile la verità, ha reso inutile la medicina. A chi si dovrà rendere conto alla fin fine del proprio comportamento. Chi ci giudicherà, senza la morte? L’assenza di morte, alla fine, è l’assenza di Dio, e anche della società degli uomini. Sai cosa è venuto a dirmi un mio paziente? Dottore, penso che da domani non andrò più a lavorare. Se non si muore, non ci sarà nemmeno bisogno di mangiare tanto e, dunque, perché ammazzarsi di lavoro, visto che io e i miei familiari vivremo ugualmente con meno di poco?». Si guardarono negli occhi i due, pensosi. I tempi che si preparavano non erano bei tempi. Il giorno dopo sarebbe stato il giorno dei morti. Delle donne, degli uomini, degli sfortunati morti prima dell’anno dei limoni. PASSÓ COSÍ novembre ed arrivò dicembre. Come sarebbe stato il Natale? Arrivò la notte di Natale e la chiesa fu piena di fedeli. Sotto la statua della Vergine c’era il presepe più bello che si fosse mai visto. Tutti i bambini avevano raccolto il muschio verde brillante dai sentieri, e le donne lo avevano incastonato sulle pietre, realizzando un grande prato dove brucavano decine di pecorelle in terracotta. La mangiatoia, di legno rosso di pero, risaltava sopra il verde del muschio. Era stata realizzata da Gino, il falegname, che aveva regalato anche le statue della Madonna, di Giuseppe e di nostro Signore. Il bue, l’asinello e tutte le statue dei pastori erano regalo della commissione ecclesiale. Per i magi si era interessato direttamente Don Calarco, comprandoli a Roma nel suo ultimo viaggio con la congregazione dei prelati provinciali. Ognuno, in questo ambiente sugge-

stivo, era immerso nella preghiera e nei canti, quando arrivò la notizia della morte di Mariannina. La diede il nipote Paolino, arrivato di corsa alle ginocchia di Don Calarco. «Don Calarco - disse sottovoce per non disturbare la funzione - è morta la nonna. Mio padre ha detto appena è possibile se potete scendere a casa per benedirla». IL DON STETTE piegato con l’orecchio sulla bocca del bambino per molto tempo. Così parve ai più, ed il viso dopo qualche nota di dubbio, si aprì ad un impercettibile sorriso di soddisfazione. Questo si raccontarono i fedeli giorni dopo. Don Calarco non comunicò subito la

Recitò il Padre Nostro a voce sempre più alta. I più non capirono perché era una grazia che la gente fosse tornata a morire

notizia all’assemblea. Finita la funzione pregò tutti di rimanere in chiesa ancora un poco: «Il tempo di sbrigare una faccenda per voi, mie pecorelle» disse allontanandosi. Scese rapido come un fulmine a casa di Mariannina per verificare se la notizia era vera o se non fosse piuttosto il risultato di qualche bicchiere di vino di troppo ingurgitato da Pasquale, il figlio, il padre di Paolino. Se non fosse una fantasia del bambino, «che i tempi sono quelli che sono e ormai anche i bambini vanno presi con le pinze, che Dio mi perdoni». Da lontano udì il pianto delle donne e le loro preghiere ed affrettò il passo. “La cosa poteva essere vera” pensò. Varcò la soglia di quella casa con un’ansia ed un rispetto paragonabile a quello che ebbe quando il Papa gli aveva allungato l’anello da baciare a San Pietro. Mariannina era là, esangue, distesa sul letto, vestita con l’abito blu scuro, quello buono. Quello che aveva indossato per il matrimonio della figlia Anna, la più piccola, appena l’anno prima. Don Calarco vide, seduto sulla sedia accanto alla presunta morta, il dottor Profazio con la sua borsa da medico in grembo, e provò sollievo. Cercò i

«Un insieme di storie di uomini e donne d’Aspromonte. Protagonista della maggior parte delle storie è Fante Francesco, che è esempio d’esistenza cristallina, uguale all’esistenza di milioni di miei conterranei» suoi occhi per interrogarlo e li trovò. Gli sembrava dicessero di si! Si! É davvero morta, l’incubo è finito. Questo sembravano dire gli occhi del dottore. Si avvicinò e mise la mano sulla fronte di Mariannina, era di ghiaccio. Gli tocco la mano, anche quella era di ghiaccio. Gli veniva da piangere e, con gli occhi velati di lacrime, alzò la destra e benedisse; unse la fronte fredda di olio santo, unse le mani, e si inginocchiò come oramai non faceva da tempo. Respirò lungo per sentire, per sentire, finalmente, l’odore della morte. Si alzò piano e disse ai parenti che sarebbe ritornato, andava un momento in chiesa per licenziare i fedeli. Mise una mano sulla spalla al Dottor Profazio e la strinse come per chiamarlo, lui si voltò con occhi umidi, «Torno subito dottore» disse, e sparì. IL DISCORSO CHE fece all’assemblea quella notte fu tramandato oralmente per generazioni. Qualcuno provò a scriverlo, ma non rendeva giustizia del sentimento che le parole del Don regalarono ai fedeli quella notte di Natale. «Dio - disse - questa notte ha voluto farci un enorme regalo. Ha fatto rinascere, con il ritorno della morte, il popolo di questa valle disgraziata, che aveva abbandonato ormai da un anno. Dio aveva punito la nostra malvagità, per poi darci un’altra possibilità, chissà per quale misterioso disegno. La sua bontà e la sua magnanimità sono state davvero grandi. Il suo amore è davvero immenso. Io stesso, da prete, non so rispondere a questo grande mistero. Pregate pecorelle smarrite, pregate e fate pregare i vostri bambini, che sono i veri miracolati di questa santa notte, in cui rinasce il redentore e questa triste valle». Cominciò a recitare il Padre Nostro a voce sempre più alta. I più non capirono perché era una grazia di Dio che la gente fosse tornata a morire. Quella notte pregò fino al mattino anche il dottor Profazio. L’anno dei limoni era finito.

prima parte Il kepòs delle meraviglie

F

ante Francesco tornò dalla Seconda Grande Guerra «dopo sette anni e tanta fortuna», come amava dire scherzando, ma non troppo. Tornò una mattina che erano le due. Fu un’impresa attraversare la fiumara che lo divideva dal suo paese. L’acqua che vi scorreva, nello stretto punto da guadare, si era trasformata di colpo in una donna bellissima dai lunghi capelli neri, che dormiva. La notte si era fatta giorno e il sole gli bruciava gli occhi. Lui non ebbe paura, veniva dalla paura e dalla morte, ma non voleva svegliarla col rumore dei suoi passi, non voleva calpestarla, e non voleva nemmeno rimanere fermo ad aspettare che lei si svegliasse e gli consentisse di passare o che sparisse, così come era apparsa. Non gli rimase che la risorsa dei disperati: bestemmiare e poi pregare. Bestemmiò forte e più volte e poi pregò il Padre Nostro. Pregò e chiuse gli occhi. Allora la notte tornò notte e la fiumara ridivenne fiumara che scorreva. Inspirò forte e salì lo stretto viottolo che lo portava a casa quasi a tentoni. Le mani e l’odore della terra lo guidavano verso casa. Anche senza luna la notte era luminosa ai suoi occhi. Bastavano le poche stelle, alte e splendenti, a risvegliare i ricordi antichi e il desiderio di una nuova esistenza del soldato che tornava alla sua famiglia. Il loro riverbero dava forma sufficiente a tutto quello che cadeva sotto il suo sguardo affamato di spazi e odori finalmente ritrovati. Pensò, solo per un

attimo, all’ultimo ostacolo che il destino aveva messo tra lui e il suo mondo. Che scherzo da prete, qualcuno la in alto o, più facilmente là in basso, all’inferno, voleva farlo morire di paura. Si stupiva che una tale stupidità possedesse anche le forze ultraterrene. Lui era Fante Francesco, non uno qualunque. Pensando queste cose arrivò mezzo morto dalla fatica e si sedette fuori, sulla pietra d’arenaria che faceva da gradino alla baracca di una stanza e mezzo dove dormiva tutta la sua famiglia: la moglie Cata, i figli Caterina ed Antonio, suo padre Antonino e sua madre Maria. Sentiva i respiri del loro sonno. La baracca era uguale a come la ricordava: gli assi trasversali di castagno conservavano il colore naturale scuro-bruciato, con la stessa base verde di muschio che gli cresceva sopra ad ogni autunno. Il tetto di tegole cenerine, cotte insieme al pane nel forno, resisteva ancora. Solo il nero fumo del camino si era allargato oltre il comignolo, prendendo molte altre strade e colorando metà costruzione. Questo gli regalò, per tutto il corpo che sentì rabbrividire, un freddo conosciuto e nemico. Era la stessa sensazione di freddo degli inverni passati in trincea, nel fango greco, nella neve della steppa russa. Tanti, troppi. Chiuse gli occhi ed aspettò con pazienza, doveva recuperare quel briciolo di forze che gli avrebbe consentito di entrare in casa da padrone, da padre e da marito (continua). V. C.


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I volti di La Cava

«La storia di Slavoj Slavik edita da Città del Sole Edizioni è una riduzione teatrale del romanzo lacaviano interamente dedicata alla figura dell’esule triestino. Gli “Amici delle Muse” del “Caffè letterario Mario La Cava”, autori del volume (Giuseppe Strangio è l’autore delle tavole a commento del testo), ricostruiscono dettagliatamente la storia di questo personaggio dal punto in cui l’autore l’aveva interrotta, con particolare attenzione alla sua attività politica»

N

el romanzo autobiografico Una stagione a Siena (Bordighera, Managò, 1988) Mario La Cava lascia rivivere al suo alter ego Paolo Altobello e a un gruppo di studenti con i quali il protagonista condivide l’amore per l’arte e l’avversione al fascismo, le illusioni e le inquietudini giovanili degli anni universitari. Tra i numerosi personaggi secondari del romanzo la figura di Slavoj Slavik, esule triestino di origine slovena giunto a Siena da Graz per completare gli studi in legge, avrà un ruolo di primo piano per la formazione intellettuale di Paolo. Il confronto con questo martire della libertà contribuirà a temprare l’animo sognatore e ribelle del protagonista. QUEST’ULTIMO è infatti un aspirante scrittore «alla ricerca del proprio avvenire» (p. 15), in rivolta contro la famiglia e contro la società del suo tempo, e legato a una concezione di tipo romantico dell’artista come intellettuale rivoluzionario che fa della cultura uno strumento di lotta politica in difesa della libertà, mentre Slavoj è il convinto assertore di una ideologia politica più cauta e disillusa, secondo la quale solo attraverso la lotta armata popolare è possibile abbattere la dittatura: «Nell’ambito delle forze che si contendono il campo, credo che battagliare con le parole sua inutile; nel campo del pensiero invece è bene avere idee giuste sulla realtà del mondo. Teorizzare l’uccisione del tiranno è un’esigenza dello spirito illuminato. Non vedo come si possa scrivere romanzi, poemi, senza sapere cosa si debba fare di concreto nel mondo per renderlo abitabile» (p. 29). Slavoj Slavik esce di scena nel XXXVI capitolo del romanzo; l’autore sceglie di non dare ulteriore sviluppo a questo personaggio, preferendo focalizzare la narrazione sulla dissoluzione dei miti giovanili di Paolo e dei suoi ambiziosi progetti letterari, dopo il ritorno al paese natale e lo scoppio della guerra. Si tratta senz’altro di una scelta programmatica che fa del romanzo sugli anni senesi (con cui si chiude la trentennale attività di romanziere di La Cava) la sede privilegiata di una riflessione autocritica da parte dell’autore, di un disincantato bilancio retrospettivo sulla propria vicenda intellettuale e umana. Ma qual è stata nel frattempo la sorte di Slavoj? Cos’è avvenuto dopo il suo rientro a Trieste, e cos’è stato di lui durante la guerra? LA STORIA DI Slavoj Slavik edita da Città del Sole Edizioni è una riduzione teatrale del romanzo lacaviano interamente dedicata alla figura

dell’esule triestino. Gli “Amici delle Muse” del “Caffè letterario Mario La Cava”, autori del volume (Giuseppe Strangio è l’autore delle tavole a commento del testo), ricostruiscono dettagliatamente la storia di questo personaggio dal punto in cui l’autore l’aveva interrotta, con particolare attenzione alla attività politica condotta da Slavoj in difesa dei diritti civili della comunità slovena di Trieste. Scopriamo così che Slavoj fu, per antica tradizione familiare, tra i più attivi esponenti del movimento politico sloveno, che la sua lotta contro le persecuzioni razziali si intensificò in seguito alla cosiddetta «bonifica etnica» promossa dal regime, e che egli morì nel 1945 nel campo di sterminio di Mauthausen dove era stato deportato l’anno precedente dopo esser stato arrestato da un nucleo speciale di polizia fascista. LE PRIME NOVE scene del dramma sono una fedele riduzione teatrale dei primi capitoli di Una stagione a Siena, ovvero delle sezioni dialogiche del romanzo ambientate nell’«osteria da Tullio» in cui Paolo e Slavoj mettono a confronto i loro ideali politici, mentre quelle finali si

basano sulle informazioni biografiche relative alla famiglia Slavik desunte dalla documentazione d’archivio riportata in appendice e dalle lettere di Mario La Cava a Stelio Crise e ad altri studiosi triestini che aiutarono lo scrittore nella difficoltosa ricerca di notizie sul suo amico. Agli autori di questo volume va il merito d’aver gettato luce sulla vicenda umana di Slavoj Slavik, e di averne rivelato anche l’inedita attività di compositore di liriche in sloveno e in tedesco. La Storia di Slavoj Slavik svela inoltre i retroscena della composizione di Una stagione a Siena. La lettera di La Cava a Stelio Crise datata 7 luglio 1974 testimonia infatti che lo scrittore avrebbe voluto fare di Slavoj il protagonista del romanzo sugli anni senesi al quale stava lavorando, e che a causa delle difficoltà riscontrate nel reperimento di informazioni riguardanti l’amico sloveno egli decise la composizione di un romanzo autobiografico nel quale fosse comunque testimoniata la preziosa e indimenticata eredità morale che l’incontro con Slavoj Slavik gli aveva regalato. Eleonora Sposato

Da uomo di legge a boss C

osa succede quando la finzione letteraria si sovrappone alla realtà? Nel romanzo di Celeste Bruno, scrittore e commissario di Polizia, si legge di avvenimenti reali tratti per lo più dai racconti di un collaboratore di giustizia «che hanno necessitato dei dovuti riscontri», come spiega l’autore stesso nelle precisazioni. Contrariamente alla natura del genere stesso, dunque, quello di Bruno «è un romanzo-verità», come ha affermato il curatore Giuseppe Iannozzi in un’intervista all’autore (Milano 17 febbraio 2013), nella quale si sottolinea che nel testo «c’è poco o nulla che si possa definire finzione letteraria». Celeste Bruno, ha dichiarato che nel suo libro racconta una verità che, «anche se scomoda, deve essere accettata, da tutti. Il primo ad accettarla è stato il protagonista, Giorgio». Ti Sparo. La vita violenta di un ex poliziotto da uomo di legge a boss della malavita (Cicorivolta edizioni, pp 156, € 12,00) è la storia vera di un uomo, al quale l’autore è stato legato da rapporti professionali, che sognava di diventare poliziotto e «conquistare il mondo forte di un distintivo e di una pistola in mano», ma che, una volta entrato in Polizia, si ritrova catapultato nella realtà milanese degli anni Settanta e Ottanta dove le duecentoventimila lire di stipendio sembrano non bastare e dove dilaga la corruzione. Giorgio compie così un “salto”: passa alla

malavita milanese, entra in contatto con esponenti della ‘ndrangheta, della camorra, delle mafie siciliane e della sacra corona unita, diventa boss e assassino, organizza bische clandestine e traffici di armi e droga. La scrittura: efficace e diretta L’opera è strutturata in brevi capitoli e divisa in due parti collegate dal filo rosso della trama. La prima racconta la storia di Giorgio, la sua vita da poliziotto e, dopo l’arresto, quella da malavitoso. La seconda, invece, è quella cruda dedicata al primo omicidio e ai successivi. È un romanzo vibrante, ricco di immagini e descrizioni realistiche, e lo conferma il protagonista quando sostiene che sparare in un film è diverso che farlo nella realtà - dove «i rumori degli spari assordano le orecchie, terrore e adrenalina offuscano la mente, il cuore pompa forte e lo senti pulsare fin nella gola» - quasi a voler far provare a chi legge le sensazioni fisiche di quel momento: i dolori, gli odori, la paura. Pagine cariche di tensione, scandite da una scrittura che rapisce: «Lo vidi accasciarsi ma sparai ancora, ancora, il grido in gola pareva soffocarmi, le braccia che si tendevano, la bava che mi usciva dalla bocca. Mi fermai solo quando non udii più la musica assordante dei proiettili, avvertendo l’odore acre della polvere da sparo». Melania Trimarchi


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Cinema

inAspromonte

Ottobre 2014

John Ford, il regista che immortalò gli americani nel doloroso viaggio attraverso la Route 66

Le donne osservavano i mariti, per vedere se questa volta era la fine. Le donne stavano zitte e osservavano. E se scoprivano l’ira sostituire la paura nei volti degli uomini, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse trasformata in furore... di GIOVANNI SCARFÓ

P

eter Bogdanovich, al Festival di Venezia71, con il suo film fuori concorso, She’s funny that way, omaggio a Lubitsch, è l’autore di una delle più importanti biografie su John Ford, ricca di materiali di prima mano. Durante la conferenza stampa ha dichiarato: «Ho conosciuto Ford e non facevo che tempestarlo di domande, e lui mi chiamava “il rompiscatole”». Si deve anche a Bogdanovich l’esauriente filmografia di Ford dal 1914 al 1966: circa 150 film di cui quattro documentari sulla guerra per destinarlo alle truppe in Corea. Vi ricordate la frase famosa: «Mi chiamo

«

Ford appartiene alla generazione in cui la frontiera non era una metafora, ma una realtà fisica

Henry Fonda in una scena di The Grapes of Wrath (1940), il film due volte Oscar diretto da John Ford

con la vittoria del Nord “maschile”, “meccanizzato”, veicolo dello sviluppo tecnologico, la distruggerà. Emblematica la scena dell’automobile lanciata a tutta velocità tra la folla: una donna muore per aver subito la violenza del mondo “moderno”, mentre il camioncino della famiglia deve essere spinto per fare gli ultimi metri verso “la terra promessa”. É come se non volesse arrivare, come se sapesse che il concetto tradizionale di famiglia sarà destinato a scomparire; e lo intuisce soprattutto il personaggio di Ma’, la Madre, che se ne sta in disparte per non vedere la terra promessa. É co-

Sulle TERRE di FRONTIERA «

La famiglia è « custode della

tradizione ed è femminile, come la terra del Sud

Migliaia di « famiglie l’hanno

dovuta attraversare, affamati dalla depressione del ‘29

Il regista ha voluto un finale con in vista «Famiglie dormono nelle loro macchine nel Sudovest senza casa, senza lavoro, senza pace, senza riposo. Hai un buco nello stomaco la speranza, più in linea con il new deal per la fame e una pistola in mano» Bruce Springsteen

John Ford. Faccio western». In realtà non ha fatto solo western, ma, per esempio, anche un film come The Grapes of Wrath (1940) (Furore) letteralmente I grappoli dell’ira, tratto dall’omonimo romanzo di John Steimbeck del 1939, però la poetica è quella del western. Ma solo dopo l’affermazione fordiana gli americani cominciarono a chiedersi se il western dovesse occupare un posto nella cultura americana, oppure se fosse solo un buon prodotto vendibile in patria e all’estero. «Ma io credo che non si possa esaminare il cinema americano se non si tiene conto del western. Forse Ford intendeva dire che tutti i suoi film, in un certo senso, sono western», ha dichiarato Douglas Sirk nelle sue memorie (grande autore di melò

hollywoodiani tra i quali Magnificent obsession, 1954 e Written on the wind, 1956). Del resto il primo western The Great Train Robbery (1900) di E. S. Porter si basava su un fatto di cronaca avvenuto tre anni prima: l’assalto ad un treno della Union Pacific nel Wyoming. «Non sarebbe venuta mai la fine finché la paura si fosse trasformata in furore». Ford appartiene alla generazione in cui la frontiera non era una metafora, ma una realtà fisica; la realtà di migliaia di famiglie e di poveracci, affamati dalla depressione del ‘29, che l’hanno attraversata percorrendo la famosa Route 66 (soggetto di altre avventure di formazione: tra gli altri Sulla strada di Kerouac, Easy Ryder di Denis Hopper, La strada delle anime perse di Carol O’Connell (Get

Your Kicks On), Route 66 (musicale) di Bobby Troup, In viaggio con Pippo (Disney), Stargate-SG1, serie televisiva, e altri) fino alla California, il cosiddetto «paese del latte e del miele», per realizzarsi in un nuova vita. Fu solo una illusione. Ma la mentalità americana deve le sue origini alla frontiera. Come scrive lo storico Frederik J. Turner «La rudezza e la forza, la disposizione mentale così pratica, quell’individualismo dominante, sia che operi per il bene che per il male, l’ottimismo e la esuberanza che derivano dalla libertà» sono i caratteri dell’uomo della frontiera americana, e qui risiedono i caratteri tipici dell’uomo fordiano: il culto dell’azione e il codice virile, caratteri e gesta che hanno dato vita agli Stati Uniti

d’America. Ma è lo stesso Ford, con due film straordinari come The man who shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1964) e Cheyenne Autumn (Il grande sentiero, 1964) a farci capire che il mito della frontiera era finito. Nel film Henry Fonda canta la canzone Red River Valley (La valle del fiume rosso), che è diventata rappresentativa dei cow-boy, mentre la vicenda di Tom Joad ha ispirato una canzone di Springsteen, dedicata a chi “cammina lungo i binari e va in un posto da cui non si ritorna”. Come in tutti i film di John Ford la famiglia è il nucleo fondamentale per esprimere il senso di appartenenza, in quanto custode della tradizione, ed è femminile, perché nutritiva come la terra del Sud. E la guerra civile,

sciente che, da quando il figlio Tom si è caricato sulle spalle la responsabilità della carovana, i legami famigliari sono diventati via via più deboli, per trasformarsi nel concetto di “classe”: «Siamo noi il popolo» dirà al figlio. La giovane Rose, che ha appena perso il suo bambino, offre il latte del suo seno a un poveraccio che sta morendo di fame: è il finale pessimistico del romanzo, che oggi potrebbe rappresentare le storie del passaggio delle frontiere dell’east del mondo, Ford ha voluto un finale con in vista la speranza, più in linea con il new deal. Queste riflessioni andrebbero corroborate dalla visione del film per apprezzare lo stile e la pregnanza registica di Ford. Infatti se il libro ha avuto aspre critiche, il film ha ricevuto due Oscar.


Scrivere in Aspromonte

inAspromonte Ottobre 2014

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Scrivere in Aspromonte...

La lingua di Nucera di VINCENZO STRANIERI*

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La scrittura è memoria, testimonianza di un patrimonio culturale che diviene storia Egli ben « conosce l’antico dialetto dei paesi grecanici; lingua in via d’estinzione

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Vive in Calabria da forestiero, perchè lontano dal suo paese natìo, Roghudi antica

*

Università della Calabria Cultore di Etnologia E-mail vincenzostranieri@hotmail.com

S

alvino Nucera (nella foto sopra) è un uomo riservato ma non chiuso in se stesso, essenziale nel linguaggio parlato ma non per questo poco comunicativo. La sua natura umana sa di equilibrio, pur nel vortice che avviluppa ogni umana esistenza interessata a percorrere lo stretto sentiero della conoscenza. Chi scrive narra sempre se stesso, anche quando parla di cose che paiono distanti da lui, e ciò perché non esiste alcuna dicotomia tra scrittura e materia trattata. Nel caso di Salvino, avviene un fenomeno insolito: la scrittura, oltre ad essere impegno artistico tout court, è contestualmente memoria, testimonianza di un patrimonio culturale che diviene storia umana, luogo dove reperire le forme migliori dei greci di Calabria. Egli, infatti, ben conosce l’antico dialetto dei paesi grecanici (Roghudi, Chorìo di Roghudi, Bova, Roccaforte del Greco, Pentedattilo, Africo Vecchio e Casalinuovo, Condofuri etc.) posizionati in luoghi montani a metà strada tra Locri e Reggio. Una lingua in via d’estinzione, quella grecanica, per via dello spopolamento di questi luoghi aspri e male collegati, nonché, nel corso dei secoli, oggetto di terremoti e devastanti alluvioni. Oggi, purtroppo, solo pochissimi «anziani agricoltori e pastori parlano ancora il dialetto greco che, giunto fino a noi attraverso una tradizione puramente orale, sembra quasi non aver mai avuto un passato ed una sua storia» (G. A. Crupi). Ed è bene ribadire con forza che non bisogna avere paura dei dialetti, spe-

cie nell’epoca odierna della globalizzazione, che unisce ma pure disgrega, che fa crescere l’integrazione a livello mondiale ma pure alimenta il seme della non appartenenza. Tutte le lingue sono in pericolo, da quelle ufficiali a quelle delle più minoritarie genìe. Il pericolo d’estinzione lambisce in modo subdolo soprattutto le lingue dialettali che hanno resistito all’ansia del tempo, quelle che, con non poca difficoltà, nei nostri paesi vengono ancora trasmesse oralmente (quasi nessuno, infatti, sa scrivere in dialetto, pochi ne conoscono le non facili regole lessicali). Salvino ha insegnato Lettere, per circa un decennio, in diverse scuole medie del bergamasco, poi è tornato a Chorìo di Roghudi per assistere gli anziani genitori, per poi ritornare a Bergamo e di nuovo far ritorno in Calabria. Ma questa volta non più nella casa paterna. In paese è rimasto solo qualche pastore, le popolazioni montane dei paesi grecanici, causa l’incuria e gli esiti nefasti delle alluvioni degli anni ‘70, sono stati trasferiti in marina, in case alveari senza alcuna identità. Salvino vive in Calabria da “forestiero”, nel senso che si sente culturalmente radicato, ma nell’impossibilità fisica di vivere nel paese dove ha trascorso molti anni della sua vita. E per continuare a vivere senza lamenti e nostalgie capaci di trafiggere il cuore, intensifica, con intelligenza e raffinatezza rare, l’impegno in difesa di se stesso e della cultura natia.

infoSalvino Nucera, oltre a colla-

DIRETTORE RESPONSABILE

Antonella Italiano

antonella@inaspromonte.it DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco bruno@inaspromonte.it Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 0964 66485 – Cell. 349 7551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 15/10/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.

borare attivamente con alcune riviste, ha pubblicato: Agapào na graspo (Amo scrivere), Marra, 1987; Dialoghi greci di Calabria con Domenico Minuto e Pietro Zavattieri, Laruffa, 1988; Chalònero (Sogno svanito), Qualecultura - Jaca Book,1993; Sapori antichi della Calabria greca (in collaborazione con Giuseppina Fotia), Pontari, 1996; Chimàrri (Rivoli), Qualecultura, 1999; I Anévasi (L’ascesa), Qualecultura, 2009; Cantico dei Cantici (Tragùdi ton tragudìo), Ediz. Apodiafazzi, 2013.

“Scrivere in Aspromonte...” è una rassegna letteraria itinerante, organizzata in collaborazione con l’Associazione culturale I Chòra. Nostro obiettivo è il rilancio di autori e luoghi calabresi. Primo appuntamento sarà: Ardore superiore con Salvino Nucera. Seguirà Brancaleone, con Domenico Talia. Due eventi al mese! Seguiteci sul cartaceo o sul sito www.inaspromonte.it

il 26 ottobre a Brancaleone

IL SOLE I E IL

SANGUE

l sole e il sangue di Domenico Talia, nella foto a destra (Ed. Ensemble, Roma, 2014), volume composto da 17 brevi racconti per un totale di 153 pagine, è una gradita sorpresa. L’autore, nativo di S. Agata del Bianco, è ordinario di Ingegneria informatica all’Università della Calabria, ha pubblicato nel 2004 una raccolta dedicata al viaggio (Itinerari stranieri). Il bello dei racconti è che puoi cominciare da dove desideri [...]. È un linguaggio leggero, volutamente asciutto ed essenziale. Le vicende vengono enunciate con periodi brevi, secchi, e ciò anche quando vengono descritti avvenimenti tragici (omicidi, vessazioni di stampo malavitoso, etc.). I 17 racconti in questione, pur prendendo spunto da vicende vissute o apprese da fonti diverse (orali, soprattutto), hanno il pregio di ampliare lo sguardo anche sulle contraddizioni del cosiddetto mondo globalizzato (Nella campagna assolata). Penso, però, che il meglio l’autore lo dia soprattutto nelle numerose pagine in cui rivela il suo modo di essere, quando getta lo sguardo sulle azioni di uomini e cose che ben conosce, quando ne diviene un credibile portavoce. Ma al sole caldo e ristoratore della nostra bella Calabria si contrappone il sangue, l’assurdo desiderio di autodistruzione che anima quanti inneggiano alla violenza. L’invito di Talia, fermo quanto accorato, è quello di scegliere la luce del sole al posto dell’orrido sangue. V. S.



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