"in Aspromonte" numero 17

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Direttore Antonella Italiano

inAspromonte

Gennaio 2015 numero 017

Una delle curve di Pedimpiso, Aspromonte orientale. Foto (anche all’interno del servizio) di Andrea Sebastiani

Sulle

STRADE DI GHIACCIO di FRANCESCO IRITI e BRUNO CRIACO

Il racconto

Dalla valle, la voce di Caterina Segnaletica inadeguata, muri a secco pericolanti, assenza di guard rail e di monitoraggio delle aree più a rischio, rendono impraticabili le strade di montagna alla prima nevicata. Essenziali per chi, in quelle aree, ci vive ancora. Impossibile, in caso di incidenti, l’intervento tempestivo dei soccorsi pag. 2-3

Ombre e luci

La faida Alati-Quattrone Testimonianze. La vendetta di Antonia di Cosimo Sframeli pag. 5

La testimonianza Ferruzzano

La ‘ndrangheta e

Sant’Agata del Bianco

Dinosauri in Aspromonte? di Domenico Stranieri

pag. 7

L’inchiesta

Catastrofi naturali

I bivi della storia

I fatti del Prato, oggi di Rocco Palamara

Aspr. orientale

E le ferite dell’Aspromonte pag. 16

di Gianfranco Marino

pag. 22

Aspromonte greco La storia di Marco Sergi Un nonno garibaldino a Roccaforte di Carmelo Azzarà pag. 8

Santi e briganti

Sedizioso o brigand? Storia del brigantaggio in Calabria di Pino Macrì

pag. 17

Reportage Ecomostri

Le miserie della Locride di Arturo Rocca

pag. 11

Libri e scrittori Il racconto

La stazione ferroviaria di Domenico Talia

pag. 21

di Antonella Italiano

A

rrivammo al passo della zita, lungo la strada che da Bova porta ai Campi, e ci fermammo. «Vedi, quella è la valle che inghiottì la povera Caterina. La giovane sposa che preferì morire, piuttosto che sposare un uomo più anziano, scelto dal padre, com’era usanza tra la gente aspromontana» «Scelto dal padre?» «L’amore è un lusso troppo grande, quando si combatte ogni giorno con la fame». Guardai la stradina su cui, quello strambo corteo nuziale, certo camminava in fila indiana, tanto era stretta e in pendio. Ma in quella natura, calda di sole e vitale, come solo a settembre sa essere, io non ci vidi la morte. Né mi sentii angosciata dal racconto. Leggende, pensai. E andammo avanti. Campusa, meraviglioso paese che, pur deserto, puzzava di vita, mi chiamava insistente. Misi Maria Vittoria nel sacchetto a tracolla e, approfittando di un momento di distrazione, mi incamminai.

pag. 2-3


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Copertina

inAspromonte Gennaio 2015

Dalla valle, la voce di Caterina segue dalla prima di Antonella Italiano

S

ola non ci potevo andare, ma il cuore mi batteva più forte ad ogni passo e, dagli squarci lasciati apposta dagli alberi, intravedevo l’orizzonte di vette, cielo e, dalla curva, quel rassicurante triangolo di mare. E aria, e spazi aperti, mi chiamavano gioiosi. Ed io non riuscii a fermarmi, andai avanti, avanti, avanti. Fino a Campusa. E lì aspettai il buio, come fosse la nostra coperta. Mia e della bimba. E non vidi pericolo, no. Solo vita. «Vuoi arrivare davvero fino a là?»

«Si, andremo sul pianoro» «A piedi con la neve?». Nessuna risposta, e così partimmo. Ho sempre odiato la neve, e credo che persino la montagna la odi. Non fa vedere nulla, se non sé stessa. Soffoca, gela, distrugge. Dopo qualche ora di cammino lasciammo lo sterrato, per addentrarci nelle strade che, mi stupisce tuttora, tu seguivi per istinto. Come se fossero le strade principali di una città. «Ma qui non c’era il passo?» «Qui dove? Io vedo solo lo strapiombo» «Ah eccolo, era più su,

si era imboscato». E il passo c’era davvero, dei piccoli sentieri percorsi dalle mucche (credo) dove le piante rappresentavano l’unico appiglio tra noi e il livello del mare. A pensarci oggi, naturalmente. In quel momento non ci vidi pericolo, neanche il freddo sentii, quando ormai mi si erano inzuppate calze e scarpe. Lontano dalle strade, a diverse ore di cammino da una casa, nel cuore di un bosco così fitto che, se fosse accaduto qualcosa, solo i lupi se ne sarebbero accorti. E con

la neve, naturalmente, a tenerci compagnia. Così, subito dopo l’ultimo angolo, dell’ultimo passo, dell’ultima vetta attraversata, su quel pianoro che tu amavi tanto, la vidi. Come la vedevi tu: uno splendido velo. E la montagna lo portava come Caterina, e appariva più dolce, più pura, come fosse una sposa. «Quello è lo stazzo di un mio parente» «Quelle sono pietre!» «Si, ma sono sistemate in modo concentrico, a disegnare lo stazzo. Ora andiamo lì

L’EDITORIALE di Gioacchino Criaco

PERICOLO NEVE

Ecologia aspromontana nel “passo impisu” di Zanotti Bianco

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arà stato per il fatto che si dipendeva da essa, ma c’è stato un tempo in cui gli Aspromontani avevano maggior rispetto della natura; erano virtuosi ambientalisti quando ancora questo termine non era stato coniato. Campioni del riciclo, prima che i soldi facessero fuori il principio di solidarietà che teneva in piedi le piccole comunità calabresi. Vi era un ciclo di smaltimento dei rifiuti perfettamente sostenibile e ognuno giocava un ruolo nella conservazione dell’ambiente. Prendete il maiale: chi aveva spazio e possibilità

vetro si riempivano di salsa, olio, vino. Sul lavandino, nelle vasche e sulla mensola della doccia c’era un bel pezzo di sapone profumato agli agrumi, naturalmente fatto in casa. E la plastica degli imballaggi, delle buste, non la conosceva quasi nessuno. Dalle case non usciva spazzatura e lo sporco che c’era davanti all’uscio o nel tratto antistante le abitazioni, veniva tirato via, per punto d’onore. Da noi le discariche non erano state inventate, per rendersene conto basta girare intorno ai borghi montani abbandonati, al massimo si

Quelli che ci hanno preceduto forse non sono stati grandissimi per la storia, ma sono stati rispettosi con la natura e hanno portato ai giorni nostri una Calabria quasi integra di tenerlo, lo allevava con gli scarti dell’alimentazione umana; i resti alimentari della propria famiglia e quelli delle famiglie vicine che il porco non lo avevano. Non veniva buttato nulla di organico nel pattume; a fine pranzo e dopo cena, i residui alimentari finivano in un secchio che i ragazzini recapitavano a casa del porcaro. E quando arrivava il freddo chi allevava riconosceva il contributo degli altri e ogni famiglia aveva un po’ di carne, di frittole e poi qualche salame, un pezzo di pancetta e di capocollo. E tutti partecipavano al rito e alla festa della macellazione. Lo dico con dispiacere per il maiale, ma le sue carni erano veramente genuine, ingrassate con alimenti naturali. Poi arrivò il soldo a comprare mangimi industriali e il maiale non fu più genuino né festeggiato da altre famiglie che non quella dell’allevatore egoista. Gli scarti alimentari riempirono i secchi e presero la via delle discariche. É solo un piccolo e banale esempio di una pratica virtuosa e solidale, ma a essa se ne possono aggiungere altre: le latte degli alimenti, e qualsiasi metallo arrivasse in casa, venivano ceduti ai nomadi, da secoli stanziali in Calabria, che in cambio fornivano le massaie di tripodi, bracieri e attrezzi di cucina. Anche i cartoni venivano barattati e le briciole del desco nutrivano prolifiche galline ovaiole. Le bottiglie di

troveranno cocci di giare e null’altro. Il soldo ha creato l’illusione che ognuno potesse fare da se, senza bisogno della comunità. Ha gonfiato le pance e riempito le case di spazzatura. E non è l’elogio della povertà che voglio farvi; nei tempi andati c’erano cose pessime e altre buone e il progresso serve a eliminare il brutto e tenersi il bello o l’utile. E quelli che ci hanno preceduto forse non sono stati grandissimi per la storia, ma sono stati rispettosi con la natura e hanno portato ai giorni nostri una Calabria quasi integra che noi abbiamo fortemente offeso in pochi decenni e rischiamo di insozzare nel tempo a venire. E fate voi, non ve lo dico di tornare al porco, di portare l’alluminio agli zingari, di rioccuparvi della terra e di riprende il lavoro e la cultura che ci sono stati tramandati, prima che i dettami dell’economia che ci domina se li porti via per sempre. Fate voi, ma per andare avanti su certe scelte dobbiamo recuperare l’intelligenza del passato. Fate voi, ma una scelta fatela invece di aspettare il destino infilati in qualche bar a bere birra, per poi trovarsi, passata la sbornia, sopra un treno diretti a coltivare orti lontani e di proprietà altrui. E ve lo dico, il soldo fra i poveri è solo di passaggio, ogni tanto se ne va in gita ma torna sempre nelle tasche dei ricchi.

S

di BRUNO CRIACO

alendo, in questo periodo, dalla strada provinciale 103 verso i Campi di Bova, già dai primi tornanti lo spettacolo che si presenta è suggestivo: a sud est l’Etna e a nord Montalto, e tutti e due sono coperti di neve. Per i siciliani, il loro vulcano, è sicuramente una risorsa turistica in quanto le stazioni sciistiche sono in piena funzione. Non è così purtroppo per gli aspromontani. Si, forse a Gambarie lo sarà pure, ma per quelli che tutte le mattine devono attraversare l’altipiano per andare a Roghudi, ad Africo o a Casalinuovo (pastori ed operai) è quanto mai rischioso. Le basse temperature, in alcuni punti dove i raggi del sole non riescono a penetrate in nessun momento della giornata, favoriscono la formazione di una patina di ghiaccio, dalla quale si può uscire indenni solo se si è muniti di catene o gomme da neve. Se si scende da Pedimpiso il rischio aumenta, anche perché in alcuni punti mancano pure le barriere laterali di sicurezza. Chi conosce queste montagne, e non può evitare di andarci, preferisce fare dei lunghi giri, chi non è pratico, non essendoci una segnaletica adeguata, va incontro a pericoli da non sottovalutare. Pedimpisu è il “passo impisu” descritto da Zanotti Bianco in Tra la perduta Gente. Erano gli anni Venti del secolo scorso, vi era solo una mulattiera che “precipitava pericolosamente”, come diceva Zanotti Bianco, verso Africo e Roghudi, e ogni anno le bufere di neve e di pioggia, spinte dalla Tramontana facevano delle vittime.

Gli anziani, tuttora, ne parlano con terrore ed elencano le vittime di questo angolo di montagna, e solo dopo la costruzione dei rifugi costruiti sull’altipiano quelle tragedie si poterono scongiurare. Adesso è vero, c’è una strada, ma la manutenzione della stessa è quasi inesistente. Se le nevicate sono abbondanti resta bloccata per mesi e i rifugi che, in caso di problemi, potrebbero rappresentare un soccorso importantissimo sono dei ruderi abbandonati. Negli anni molti allevatori hanno perso il loro bestiame poiché non sono riusciti a portare il foraggio fino agli ovili. Le cose non vanno meglio se si sale da San Luca, da Platì o da Ciminà. Solo a primavera inoltrata, e quando la maggior parte della neve si è ormai sciolta, qualcuno di questi comuni si preoccupa di mandare i mezzi idonei alla pulizia delle strade. Dal versante tirrenico, è la stessa cosa, da Santa Cristina, o da Delianuova, o da Oppido, per andare a Platì, o venire sulla Ionica, si è costretti a fare il giro dalla Limina. Insomma l’Aspromonte, a parte Gambarie, per buona parte della stagione invernale è inaccessibile. Ed è anche per queste difficoltà che tanti aspromontani hanno lasciato i paesi interni. Scuole, ospedali, negozi, e tutti gli altri servizi indispensabili erano troppo lontani e troppo difficili da raggiungere. Sono pochi che ancora resistono. Alcuni perché ancora ci lavorano, altri perché il loro attaccamento alla montagna è troppo forte, ma se non si prenderanno dei provvedimenti efficaci, e non solo sulla percorribilità delle strade d’accesso, le nostre montagne saranno inevitabilmente destinate allo spopolamento.


Copertina ad accendere il fuoco». Per vedere lo stazzo ci volle molta fantasia, ma il fuoco era vero, com’era vero che lo accendesti in mezzo alla neve (e allo stazzo), non so con quale arbusto infernale. Restammo così, coi piedi nudi e sospesi, in mezzo ad un curioso cerchio di vecchi massi, immaginando un tetto, ad aspettare che calze e scarpe si asciugassero, e che si riscaldasse il pane. E, al ritorno, pur camminando al buio e pur avendo molta strada da fare, io non vidi il pericolo. Né la morte.

inAspromonte Gennaio 2015

Ho amato molto questi posti, con la foga e la rabbia dell’amore reale. Perché ho avuto la fortuna di incontrarti proprio qui, in queste vette che Caterina detestava, perché a lei l’amore fu negato. E la montagna, che tutto aggiusta, se la portò via, per risparmiarle ulteriore dolore. Invece a me disse di cercarti, quando eri lontano, ed io sentii il suo richiamo a chilometri di distanza. E nella notte, sola, su e giù per i tornanti di Pedimpiso, vidi la vita finalmente ricominciare, il dolore finire, e i due cuori

che dentro di me faticosamente trascinavo, tornarono a battere vigorosi, un canto in armonia con il canto dell’Aspromonte. Poi un giorno il pianto di Caterina risuonò dalla valle all’improvviso. Un grido che ruppe la magia di una giornata sulla neve «Che c’è Caterina? Che vuoi?». Ghiaccio, la neve divenne ghiaccio sotto le ruote del land rover, un attimo per capirlo, mentre la strada si distorceva e si accorciava all’improvviso. E anche tu divenisti di ghiaccio, come quel lastrone che

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asfaltava la discesa. Ed io non ebbi fiato per parlare, ché in questi casi neanche si comprende qual è la posta in gioco. Ho sempre odiato la neve, la stessa neve che fu per me complice e compagna, ora si inghiottiva tutto. Perché il dolore è in agguato, e attacca, come le bestie feroci. «Che c’è Caterina? Che vuoi?» ma nessuna risposta arrivò dalla valle, e la montagna bianca, come il velo delle sue tristi spose, quel giorno, mi fece paura.

SULLE STRADE DI GHIACCIO

«L’uomo non agisce più con opere di manutenzione e di contenimento. E basta poco, una pioggia violenta, un abbassamento di temperatura che il pericolo subito torna a farsi largo»

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di FRANCESCO IRITI

trade ghiacciate e pericolose, segnaletica assente: pericolo sempre dietro l’angolo. É un quadro allarmante quello che compare davanti agli occhi dei cittadini e dei turisti che frequentano l’Aspromonte che giornalmente devono fare i conti con problemi atavici dovuti ad una scarsa, o quasi totale, assenza di manutenzione del sistema viario dell’entroterra. Negli anni, i vari politici locali e regionali hanno speso molte parole per “salvare” questi territori che, soprattutto a causa dello spopolamento dei paesi montani, hanno visto un graduale abbandono dei cittadini verso le località marine o, in molti casi, in altre città italiane ed estere. Il cambiamento dell’economia e l’aumento sempre più esponenziale della tecnologia è andata a discapito soprattutto di settori una volta peculiari come l’agricoltura e la pastorizia praticate nelle zone interne. TUTTI QUESTI ASPETTI HANNO PERMESSO ancora una volta alla classe politica di potersi “dimenticare” non soltanto della Calabria in particolare, questione lampante sotto gli occhi di tutti, ma soprattutto di queste zone bellissime ma, allo stesso, tempo, bisognose di cure per la propria sopravvivenza. Tuttavia, la bellezza di questi luoghi interni cattura in un attimo l’occhio ed il cuore di tutti coloro che decidono, anche solo per un giorno, di addentrarsi tra le stradine ed i vicoli di posti lontani dalla caoticità del vivere quotidiano e dalla routine. Infatti, in questi posti aspromontani dove molte volte la tecnologia non può svolgere il proprio compito, il visitatore viene pervaso da un’aria pulita e da un sentimento di appartenenza che non ha niente a che vedere con il resto dei luoghi dove giornalmente è “costretto” a vivere imprigionato davanti a computer e tv con in mano un cellulare. La natura affiora con la sua bontà e le sue pianure distese alternandosi con montagne ripide e con una fitta vegetazione che cresce spontaneamente. Ruscelli, fiumiciattoli e laghi naturali fanno da contorno ad uno splendido habitat per le varie specie animali che vivono e si riproducono liberamente, nonostante l’intervento dell’uomo sempre pronto a stravolgere il ciclo della vita. IN QUESTO QUADRO SPLENDIDO e incantevole è normale che gli agenti atmosferici facciano il loro normale decorso, intervenendo a modificare soprattutto quelle che un tempo rappresentavano le strade di collegamento tra l’interno e i paesi più a mare. In questo caso, purtroppo, l’uomo sembra ormai essersi

dimenticato di agire con opere preventive di manutenzione e di contenimento, ad esempio, delle frane (in molti casi si sono costruiti complessi abitativi su terreno friabili con le conseguenze del caso), pulizia di condotte per far defluire l’acqua, oltre a vari interventi che sarebbero necessari. E basta poco, una pioggia violenta, un abbassamento di temperatura che il pericolo subito torna a farsi largo in modo inesorabile. La neve, ad esempio, rappresenta per il Sud un evento molte volte circoscritto alle zone vere di montagna e soltanto nei periodi invernali. É prassi comune che, al calare dei primi fiocchi di neve, in molti decidano di raggiungere queste località per sciare (dove esistono le strutture attrezzate) o per “toccare con mano” la neve. Ed ecco che qui continuano i disagi ed i pericoli con le strade che diventano dei veri e propri scivoli a causa del ghiaccio che si addensa sul manto e della mancanza di segnaletica. Se a questo si mette la nebbia non supportata dall’evidenza dei pericoli presenti sulla strada, l’aumento dei pericoli cresce a dismisura restituendo un bollettino che potremmo definire da guerra. LA FINE DEL 2014 E L’INIZIO DEL 2015 sono stati caratterizzati dalla caduta consistente della neve anche nelle località marine restituendo un’immagine imbiancata interessante e per certi versi romantica. Tuttavia, se dopo il primo impatto veniva tralasciato l’aspetto iconico, subito dopo l’attenzione si spostava verso i tanti disagi con i quali hanno dovuto fare i conti le persone che in quei giorni vivevano nei paesi aspromontani. Infatti, come nel caso di Roccaforte del Greco, per fare un esempio, che a causa dello strano fenomeno ha costretto i residenti a non potersi muovere a causa del ghiaccio. In attesa degli interventi dei mezzi di competenza, le uniche alternative per cercare di “uscire” dal paese hanno riguardato l’utilizzo di mezzi 4×4 o dotati di catene. E questo è soltanto uno dei casi in cui la situazione in qualche modo è stata mitigata non senza fatica. Di chi è la colpa? Da più parti si auspica un serio intervento anche se, al momento, le notizie liete sono limitate a interventi tamponi compiuti da piccole associazioni o da qualche ente anche se il problema persiste e andrebbe curato nel tempo, partendo dal presupposto che le bellezze rappresentate dai vari luoghi presenti nelle nostre zone possano rappresentare volano di sviluppo e di attrattive per il turismo locale. NEL FRATTEMPO, QUALCHE LUCE in fondo al tunnel sembra intravedersi anche se è ancora presto per “cantare vit-

toria”. Infatti, l’Ente Parco dell’Aspromonte, guidato dal presidente Giuseppe Bombino, ha fatto sapere nei giorni scorsi che la manutenzione dei sentieri è stata affidata a cooperative agricole e forestali montane “Valorizzando per la prima volta la Legge sulla Montagna n. 94 del 1997, l’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte affida alle cooperative agricole e forestali montane - si legge in una nota la manutenzione straordinaria di alcuni sentieri e luoghi che ricadono all’interno dell’Area Protetta. Sono dodici i lotti oggetto di intervento su cui, tra l’altro, saranno realizzate le tabellazioni e la sistemazione dell’area intorno ad un casello montano; nel dettaglio le azioni interesseranno la riserva naturalistica integrale, l’area di sosta lungo del casello San Salvatore di Bova, i sentieri Staiti-Casalnuovo-Africo Antico-Casello Varì, BovaGallicianò, Bova-Delianuova, Stoccato-Contrada Palazzo, dei Greci, Bova-Carrà-Canovai-Polsi, tutti rientranti nel Piano di Sviluppo Rurale Calabria 2007/2013; altri due interventi, relativi ai sentieri Grancu-Mundo-Galasi e Serro Schiavo MontaltoPolsi-San Luca, rientrano, invece, nel Piano della Rete dei Sentieri 2008/2013. Il totale dell’investimento messo in campo dall’Ente Parco è di circa un milione di euro. «LA NOSTRA AZIONE - HA DICHIARATO il Presidente dell’Ente Giuseppe Bombino - mira a costruire un rapporto di elezione con le associazioni, le cooperative, i pastori e chiunque abbia a cuore l’Aspromonte. Gli interventi avviati - prosegue Bombino - oltre a favorire la rivitalizzazione dell’economia locale in un territorio estremamente debole, hanno una positiva ricaduta anche ai fini dell’accompagnamento delle recenti iniziative che abbiamo messo in campo per lo sviluppo sostenibile del turismo nelle nostre aree interne. L’importante somma investita per la realizzazione degli interventi - conclude Bombino - non solo contribuisce al miglioramento della fruizione sostenibile dell’Area Protetta e al recupero del patrimonio sentieristico per migliorare l’attrattività turistica e l’offerta dei servizi, ma, soprattutto, rappresenta una opportunità per diversificare l’economia rurale e, quindi, accrescere l’interesse dei giovani verso i nuovi temi della green economy e del lavoro legato alle infrastrutture verdi anche al fine di favorire la loro permanenza nei territori montani». Si spera che iniziative del genere non rimangano isolate, ma si moltiplichino per il ripristino e la fruibilità delle bellezze paesaggistiche della nostra cara Calabria.


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Ombre e luci

inAspromonte Gennaio 2015

PIETRAPENNATA

Un paese quasi abbandonat o

Africo. La vita delle donne, tra lavoro, problemi e pettegolezzi di paese

di BRUNO SALVATORE LUCISANO

Pietrapennata Foto di Carmine Verduci

M

i sono apparse nel sogno la vecchia chiesa e la piazzetta di fronte. Per un attimo ho rivisto il calzolaio seduto lì, davanti la bottega. Un attimo, solo un attimo, e poi, sveglio, sono andato lontano con la mente, raccogliendo ricordi che elencherò confusamente così come sono arrivati, come se sfogliassi un album di fotografie di quand’ero bambino. Sono ancora sudato, un senso di vuoto e di beatitudine, allo stesso tempo, mi prende dai piedi alla testa lasciandomi immobile, con gli occhi e la bocca spalancati al soffitto. Appare ogni tanto, come un fantasma, una vecchia figura di uomo tra le stradine del vecchio paese che all’improvviso sparisce, come dissolto nella nebbia. Una vecchia lamiera sbatte sul tetto mossa dal soffio del vento gelido. C’è un odore forte di tempo, che spacca le narici. Rivedo mio nonno sulle scale, davanti la porta della vecchia casa. Due sole stanze, una per mangiare, una per dormire, e la vecchia nonna seduta al braciere. Noci e castagne sul canniccio sotto il letto. Ed era fatto di canne anche il vecchio soffitto. Sono rimaste una trentina di anime nel vecchio paese di Pietrapennata, dove mio padre mi portava da piccolo, noleggiando una Fiat che ci conduceva da Bruzzano fino alla vecchia frazione del comune di Palizzi. Sono passati più di cinquant’anni. Ricordo la bottega del vino, e la ripida salita che portava a casa di zio Nino. La casa sembrava un ristorante nel giorno di un matrimonio, quando eravamo tutti riuniti. Anzi un matrimonio c’è pure stato: quello di mia cugina Grazia con Vincenzo. Il menù dei giorni di festa, quando affollavamo la casa di zio Nino e di zia Nunziatina prima, e zia Maria tuttora, era quello dell’omicidio del porco. Si iniziava a mezzogiorno con la pastina col brodo della testa dell’animale, una trentina di polpettine in ogni piatto, tutte identiche come misurate da un calibro. Poi si continuava col soffritto e, in serata, si riprendeva con gli ziti al sugo delle costate. Il vino arrivava in boccali grandi come secchi. Ricordo quando Bruno, mio cugino, mi portava di notte sotto le vecchie querce, vicino al paese, con in una mano la scupetta del nonno e, nell’altra, una lampadina tascabile, il tutto serviva per uccidere qualche ghiro che sarebbe stato il pranzo del giorno dopo. Ci pensava, poi, mia zia Cata ad arrostirli sulla griglia, posta sul balcone per non riempire la casa di fumo. Bruno caricava da solo le cartucce ma, in una occasione, ha esagerato e della scupetta ne è rimasto solo il ricordo. Ho rivisto zio Mico, seduto al focolare, intento a spennare due piccole colombe: avrebbero fornito il bollito per condire la pastina. E ho rivisto la mia gioventù. E ho ringraziato Dio per avermi fatto vivere quei posti da bambino, ché mi hanno abituato alla povertà, alla tristezza, all’amore per la famiglia e per il prossimo. Mi hanno abituato a non pretendere nulla che non fosse mio ma, soprattutto, mi hanno educato all’amore per la poesia, per la vita e per il prossimo, rimanendo stretto ai vecchi principi della fedeltà e del rispetto. Senza quelle radici e quella terra, non sarei qui a raccontarvi in modo strampalato la mia confusione. Grazie a questo e alla benevolenza di Gesù Cristo, sono resuscitato. Tornerò un giorno a Pietrapennata e lì mi fermerò, giusto il tempo per rinfrescare la memoria e per scrivere, meglio di come ho fatto ora, stupendi ed immacolati ricordi. Ascoltando il silenzio, e riempiendo i polmoni con il profumo delle pietre dei muri delle vecchie case, della montagna e con il profumo di mezzo secolo fa. Forse ho abusato dell’aggettivo “vecchio”. Ma l’ho fatto apposta.

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Caterina Mammone

«Che ci vai a fare in chiesa se Belzebù in persona, dalla finestra che gli lasci sgagghjàta, ogni notte salta dentro il tuo letto?!»

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di GIANNI FAVASULI

aterina Mammone, alla morte della madre, ereditò il pondo della famiglia. Ereditare per modo di dire in quanto era da anni, da prima ancora che sua madre morisse, che Caterina si era sobbarcata sulle spalle il difficile compito di mandare avanti la famiglia, la baracca. La gente, però, sacramentalmente, attribuiva sempre ad una madre, vecchia o malata che fosse, la palma dei sacrifici e delle fatiche domestiche. A Caterina, quindi, detti meriti, le furono riconosciuti dopo la dipartita della genitrice. Agostino Mammone, il padre, il capofamiglia, era solo una bocca da sfamare; una specie d’arbusto cui la bruma marina aveva già rinsecchito fronde e radici. L’uomo, infatti, si era licenziato dalle cose del mondo, della vita, da una quindicina d’anni. Da quando, cioè, dopo l’alluvione che aveva colpito il vecchio paese, la paralisi lo aveva inchiodato su di un letto. Cosimo, il fratello maggiore di Caterina, a seconda della bisogna, s’adattava a fare il carpentiere, il muratore, il meccanico, lo sguattero di un vicino bottegaio. Salvatore e Giuseppe, gli altri due suoi fratelli, svogliati e disoccupati, invece, passavano intere giornate a dinoccolarsi per le vie del paese e a lanciare degli sguaiati sbadigli, spaparanzati sulle panchine della piazza. Capacissimi, alla minima occasione, d’imbarcarsi a cuor leggero in ogni tipo d’avventura. Anche in quelle più rischiose.

passava per la strada. Cosimo, però, urlando sempre più forte, non voleva sentire ragioni. Caterina, poi, alle vicine di casa che, pur conoscendoli, le chiedevano lo stesso, per cattiveria, i motivi di quegli schiamazzi, pazientemente, spiegava che in una famiglia non sempre le cose filano lisce come l’olio e che il diavolo, purtroppo, mette la coda dappertutto. FINO A CHE UN GIORNO, AL LAVATOIO, quella malalingua di Carmela Sorana l’apostrofò brutalmente, senza ritegno, alla presenza di tutte le altre donne. «Caterina, a casa mia, il diavolo la coda non l’ha mai messa! Lui sa dove andare! Le conosce le strade! Bella mia, se quei due delinquenti dei tuoi fratelli non cambieranno vita, il diavolo, prima o poi, a casa tua, non si limiterà più a metterci la coda ma vi salterà sulle spalle!». Caterina, a quel punto, con le guance rosse dalla vergogna, si strinse ancor di più in quelle sue già minute spalle; raccattò e mise in una cesta i pochi stracci che aveva già lavato e a testa china, muta, s’apprestava a fare rientro a casa. Ad un tratto, però, un fremito di sdegno l’attraversò dalla testa ai piedi. Era come se una violenta scarica elettrica avesse preso a percorrerle, provocandole dei sussulti repentini, le membra ed i muscoli tutti. Si fermò di colpo, posò la cesta su di un’armacéra e, voltandosi di scatto verso Carmela, la fulminò con uno sguardo che pareva sprizzasse delle disordinate, incandescenti scintille. Con un tono di voce carico di quell’elettricità che ancora le sconquassava il corpo, agitò l’aria con parole che sembravano schioccate di frusta. «Carmela, a casa mia, il diavolo ci salterà sulle spalle solo quando tu gli darai via libera! Svergognata, che ci vai a fare in chiesa ogni giorno se Belzebù in persona, dalla finestra che gli lasci sgagghjàta apposta, ogni notte salta dentro il tuo letto?!». A quelle parole, Carmela, con il volto più bianco delle lenzuola, tentò di avventarsi su di lei per farla zittire. Caterina, però, irrefrenabile, priva oramai d’ogni sorta di remora, la incalzò ancora decisa «Carmela, se tu fossi stato un uomo, con quella linguaccia che ti ritrovi, non saresti arrivata sana e salva fino ad oggi! Brutta zoccola che non sei altro, a quest’ora te l’avrebbero già fatta la barba! Pilu e...». «Cuntrapilu!». L’anticiparono, rimarcando, compiaciute, la frase, tutte le altre solidali donne presenti.

Gli altri suoi fratelli passavano intere giornate a dinoccolarsi per le vie del paese. Capacissimi, alla minima occasione, d’imbarcarsi in ogni tipo d’avventura. Anche in quelle più rischiose

COSIMO, POI, PER IL BUON NOME della famiglia, si vedeva costretto ad onorare i debiti che quei due sfaccendati molto spesso contraevano. Una volta a casa, le liti, poi, scoppiavano furibonde. Cosimo, infatti, pestando i pugni sul tavolo, urlava come un invasato: «Io mi danno l’anima dalla mattina alla sera per cercare di trovare il modo di guadagnare qualche spicciolo e queste due canaglie, questi due balordi, non hanno rispetto neanche della miseria che scorre dentro le nostre vene! Fanno i gagà, gli americani, sulle mie spalle, sulla mia fatica! Io sgobbo come un dannato, mi faccio il di dietro quanto una sporta e questi due smidollati fanno i porci nei bar!». Caterina, da parte sua, cercava di buttare acqua sul fuoco, di disinnescare la miccia; tentava, se non altro, di ammansire il fratello furente, ammonendolo che le loro faccende familiari non dovevano, assolutamente, andare a finire in pasto alla gente che


Ombre e luci

inAspromonte

Nel cuore di una faida, dove è una “sorella” a regolare i conti di famiglia

La vendetta di Antonia

É il 26 maggio del 1967 quando, al centro di Reggio Calabria, una giovane di 19 anni spara all’assassino del fratello Antonio

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Con mano ferma, la giovane punta l’arma, una pistola Bernardelli calibro 7.65, contro Pietro Quattrone, e preme il grilletto tante volte, sino a quando non si esauriscono le munizioni. Tre colpi vanno a bersaglio e lo attingono allo stomaco, alla bocca, alla tempia destra. Gli altri colpi sparati si conficcano nel muro di una casa

LA RIFLESSIONE

Il Natale come dov rebb e es sere

di COSIMO SFRAMELI

l clima culturale che ha animato le faide è stato quello della violenza, trasmessa per apprendimento sociale da una generazione all’altra, sino a creare quella condizione anomala che i sociologi identificano in sottocultura della violenza. C’è stato ben poco da fare, la sottocultura è stato un processo di aderenza a norme culturali particolari, fiorite nel sottobosco di strutture arcaiche, isolate, emarginate. Il 26 maggio 1967, in via XXI Agosto, a pochi passi da Piazza Carmine, nel cuore della città di Reggio Calabria, Antonia Alati di 19 anni fredda a colpi di pistola Pietro Quattrone da Cardeto, un operaio cinquantaduenne, ritenendolo principale responsabile dell’uccisione di suo fratello, Antonino Alati, avvenuta all’alba del 21 aprile 1966, in località “Croce Romeo”, sull’Aspromonte, e rimasta impunita. Con mano ferma, la giovane punta l’arma, una pistola Bernardelli calibro 7.65, contro Quattrone, intento a scendere da un pulmino di sua proprietà, e preme il grilletto tante volte, sino a quando non si esauriscono le munizioni. Tre colpi vanno a bersaglio e lo attingono allo stomaco, alla bocca, alla tempia destra. Gli altri colpi sparati si conficcano nel muro di una casa. La vittima predestinata cade all’indietro e muore all’istante. Per qualche minuto serpeggia il panico tra la gente che affolla il centro. ANTONIA ALATI, VESTITA A LUTTO, agita ancora l’arma e, mentre si allontana verso piazza Carmine, in dialetto della provincia di Reggio grida: «Che nessuno si avvicini. Ho fatto vendetta di quel farabutto che ha ucciso mio fratello». Arrestata e condotta in Questura, la giovane minorenne (all’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21 anni ndr) racconta le ragioni per le quali ha ucciso e i poliziotti non fanno fatica a collegare l’accaduto con l’uccisione di Antonino Alati, delitto rimasto impunito, attribuito ad Antonio e Giuseppe Quattrone, figli di Pietro, prosciolti con formula dubitativa dal giudice istruttore Francesco Delfino, proprio due mesi prima. Antonia Alati non ha accettato la sentenza della società e, a dispetto dell’assoluzione “per insufficienza di prove” pronunciata dalla magistratura, covando la certezza che il responsabile della morte del fratello fosse proprio il capofamiglia, Pietro Quattrone, senza tener conto delle leggi dello Stato, lo uccide con rabbia plateale. Allo scrupolo, alla perplessità, ai dubbi, alla coscienza di chi ha pronunciato la sentenza assolutoria, anche se con formula dubitativa, oppone la sua certezza di giudicare e di pronunciare il verdetto di condanna, eseguendolo. Purtroppo, in quegli anni, non è stata la sola a regolarsi in questo modo. Antonia spiega di non aver potuto resistere di fronte al dolore di sua madre, Caterina Sapone; di non poter ripensare la vista di suo fratello Antonio disteso per terra e ormai cadavere sul quale gli assassini hanno infierito a colpi d’arma da fuoco, fino a sfigurarlo.

ANTONIO ALATI È STATO UCCISO all’alba del 21 aprile 1966, per la Statale che da Gambarie conduce a Bagaladi, verso le ore 06:00, quando alla guida di un pulmino, svolgendo l’attività di autotrasportatore, transita per “Croce Romeo”. Ha appena accompagnato gli operai forestali e sta rientrando quando “qualcuno” gli ha intimato di fermarsi. Sceso dall’automezzo, è stato investito da scariche di pistola in pieno petto. Ferito e sanguinante, secondo quanto stabilito dai carabinieri che si sono occupati delle indagini, ha tentato di sottrarsi alla furia omicida, girando le spalle e fuggendo, ma è stato raggiunto da altre pallottole e, quando ormai senza vita stramazza a terra, altro piombo gli squarcia le carni. I carabinieri hanno puntato i sospetti sulla famiglia Quattrone; Pietro e i figli Antonio e Giuseppe sono stati subito fermati e, interrogati a lungo, negano e respingono ogni contestazione. Si è trattato solo di sospetti e le indagini, non confortate da elementi illuminanti, sono state abbandonate. Riprese qualche mese più tardi dalla Squadra mobile, l’inchiesta ha avuto una svolta con una deposizione giudicata determinante. I fratelli Antonio e Giuseppe Quattrone sono stati nuovamente arrestati ed accusati di aver ucciso Antonio Alati, con la complicità di un compaesano, Antonio Cento, anche lui finito in carcere. Successivamente, la “deposizione determinante” è stata smentita nella fase istruttoria dell’indagine, sicché il Giudice istruttore rimette il libertà gli indiziati con verdetto di assoluzione. Antonia Alati, con mano ferma, applica la sua giustizia. Il dubbio che Pietro Quattrone fosse estraneo all’omicidio del fratello non ha sfiorato la sua mente. CORRADO ALVARO PENETRA profondamente in questo aspetto mortificante di tessuto sociale. «Il compimento di una vendetta - dice - è piuttosto una disgrazia, un farsi giustizia da sé per diffidenza dei tribunali e per rispondere all’opinione pubblica che in certi casi reclama il delitto». Sottolinea Alvaro «Rappresenta la rivalsa di una certa condizione, il fascino di un potere segreto che ride di ogni altro potere e che pretende di esercitare una leggendaria giustizia secondo il codice di una brigantesca cavalleria. Essa rappresenta, insomma, l’acre soddisfazione di chi è arrivato a fare da spettatore, di chi non è attore di una vita organizzata». Concludeva Alvaro «E da qualche decennio ho sempre ritrovato in certi paesi, dove più dove meno, l’impressione di occulto che è nell’aria, nel parlare sommerso e per accenni quella cautela, quel voltarsi indietro, quell’atmosfera furtiva per cui tra le pareti domestiche si parla bisbigliando di certe persone e di certi fatti. E l’improvviso silenzio di un paese, certi giorni, le strade deserte, le finestre chiuse». In Calabria, proprio dove è nato il diritto, vi è stata una faida alla terra, che ha rappresentato lo specchio di una società rimasta come remora dolorosa e terribile al processo civile.

Nella foto il luogotenente Cosimo Sframeli

D

i “Natale” ricchi, non ne conserviamo il ricordo. Forse, quando lo sono stati non ce ne siamo accorti, né abbiamo guardato attentamente a quello degli altri. Ce li ricordiamo sempre modesti, sobri, assai misurati, con spese utili e doni che si concretizzavano in scarpe, un maglione e l’importante cappotto nuovo, il torrone gelato e il carbone dolce della Befana. Per chi apparteneva ad una famiglia numerosa, la festa aveva una caratteristica precisa: un occhio guardava il regalo “ad personam” e l’altro a quello destinato al fratello più grande. Poichè, l’anno dopo, male che fosse andata, al fratello più adulto avrebbero dato in dono un maglione nuovo e il fratello più piccolo avrebbe ricevuto il suo, dell’anno precedente. Oggi, sarebbe impossibile applicare queste usanze al Natale che verrà. Ma dovremmo sforzarci di essere più sobri, più “nobili”. La nuova severità, applicata a noi stessi, potrebbe indurci ad operare un fermo a spese inutili. Una rivisitazione di armadi e armadietti ci rivelerebbe la sorpresa di ritrovare qualcosa che sfugge alla memoria, che abbiamo scordato. Finalmente, prima di andare per vetrine di negozi, si consiglia di girare per casa. Non per illuderci, ma per prendere coscienza del fatto che di frequente rincorriamo l’inutile e lo dichiariamo necessario. Proviamo a tornare in quel mondo di primordiale grandezza spirituale, per niente chiuso in particolari consuetudini convenute del calendario “borghese” le cui feste valgono soprattutto perché si è dispensati dal lavorare ed offrono occasioni di socievolezza e di divertimento, nella “civiltà dei consumi”. Il Natale dei poveri esiste davvero. E va considerato con attenzione. Coincide con l’ultima settimana del mese. Mette un’angoscia trascinante. Si aspetta gioiosi la festa della Natività ma quando arriva mette angoscia, e si vorrebbe in tutte le maniere che passasse con rapidità. Certo, a dicembre si avverte più forte, ma ogni mese puntualmente si mostra. Il punto più dolente è la solitudine: affettiva ed effettiva. É faticoso essere candidi come colombe e, allo stesso tempo, astuti come i serpenti. Vale a dire: vivere con la disponibilità, la spontaneità che ci fa sorridere agli sconosciuti e, allo stesso tempo, allenarci a stare in guardia. É l’eterna lotta tra il bene e il male, dentro e fuori di noi. Il Natale dovrebbe essere la festa che più di ogni altra dovrebbe parlare ai giorni feriali. Sono questi che preparano la festa. Se non dovessero preparare la festa contribuirebbero ad allestire malessere. E si vede. C.S.


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Aspromonte orientale

inAspromonte Gennaio 2015

Sant’Agata del Bianco. Le verità della contrada Chiusi di Rodi, custodite per anni da Antonio Mafrici

DIO FU OSPITE DEL CONTADINO

É il febbraio del 1949, un uomo cammina per le strade deserte. Bussa a una porta, viene accolto in casa, e lì passa tutta la notte. Qual è il confine tra realtà e suggestione popolare? di FRANCESCO MARRAPODI

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Era una persona pia, di provata fede, con una saggezza che pochi posseggono

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Lo feci entrare, credendolo un viandante, e lo feci accomodare accanto al fuoco

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Gli offrii delle cicerchie, ma lui mise le mani nella sua sacca e ne cavò un pane

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Girai per intero la contrada; chiesi ai vicini, ai passanti: nessuno seppe dirmi nulla

Nella foto in alto a sinistra la casa in contrada Chiusi di Rodi, di Antonio Maurici. Foto di Domenico Maurici. A destra Antonio Maurici

C

hiusi di Rodi è un lembo di campagna nel comune di Sant’Agata del Bianco, in provincia di Reggio Calabria. Siamo nell’Aspromonte orientale. Suddetta contrada, appollaiata di rimpetto all’attuale Samo sopra un ciglio di pietre e argilla, offre una piacevole vista della fiumara La Verde che, serpeggiando gli screziati sentieri e le verdeggianti conche, scende a valle per il suo eterno connubio con il mare. Tuttavia questa è una realtà che poco ha a che fare con la storia che stiamo per affrontare; perché, a parte le caratteristiche di natura paesaggistica, Chiusi di Rodi nasconde un’altra importante verità. Fu proprio in questa contrada che Antonio Maurici, nel febbraio del 1949, rimase per tutta la notte nella sua casetta, seduto vicino al fuoco al fianco di Nostro Signore. Naturalmente la cosa non si svolse con la stessa semplicità con la quale mi accingo a raccontarla; perché il povero Antonio ebbe modo di capire solo in un secondo momento che l’uomo che aveva avuto accanto era il Signore. Almeno questo è quanto lui sostenne - a spada tratta - per i restanti giorni della sua vita. E quando ne parlava un’incontenibile emozione gli striava il viso. Da premettere che Maurici era un uomo pio, di provata fede, con una saggezza che pochi posseggono; e non si sarebbe mai sognato di trastullarsi con argomenti di tale significanza. In questo breve tratto di storia, impareremo che quando si è alla presenza di entità superiori, è il nostro sesto senso il solo ad avvedersene, salvo che non sia stato sottoposto anch’esso - cosa che avvenne con Maurici - a ipnosi temporale. Mi auguro sarete d’accordo con me quando dico che il passato è costellato di eventi simili. Gli stessi apostoli, sulla via di Emmaus, non riconobbero il Cristo Risorto, eppure avevano trascorso

con lui tanto di quel tempo. Figuriamoci noi se avesse potuto riconoscerlo il povero Antonio, che del Signore sapeva quello che sapevano tutti. Praticamente niente. Ma state un po’ a sentire. «Quando il Signore bussò alla mia casa, - raccontava Maurici - mi sentii invadere l’animo da un’emozione fortissima. Si trattò, per l’esattezza, di una sensazione di natura istintiva che conoscevo già, ma che non riuscii comunque a identificare. Una

Almeno questo è quanto lui sostenne per i restanti giorni della sua vita. E, nel raccontarlo, provava grande emozione

volta apertogli, lo invitai a entrare e, offrendogli ristoro come a un qualsiasi viandante, lo feci accomodare vicino al fuoco. Ricordo perfettamente che per consentirgli di scaldarsi il cuore gli offrii un bicchiere di anice, che, naturalmente, rifiutò. Notai, sin da subito, che la sua immagine non somigliava a nessun uomo in particolare e, stranamente, al tempo stesso, rispecchiava ogni singolo individuo della terra. Egli era un uomo alto e basso insieme; aveva gli occhi a tratti neri, a tratti azzurri, a tratti verdi. La barba, invece, era della stessa lunghezza, anche se cambiava (insieme con i capelli) continuatamente colore: a momenti diveniva nera, a momenti rossa, a momenti bianca, a seconda del tono che assumevano i suoi occhi. Gli offrii un piatto di cicerchie, ma lui, con voce lieve e solenne, mi con-

sigliò di serbarlo per i lunghi anni di carestia. Non feci in tempo a domandargli come si faceva a conservare un piatto di cicerchie cucinate, che lui mise le mani nella sua sacca e ne cavò un pane. Dopo averlo spezzato, additandomi il vino che conservavo sottochiave dentro la credenza, disse: “Questa notte, Antonio, sarò ospite tuo - e non mi resi conto che non gli avevo ancora detto il mio nome - resterò con te in onore dell’amore e della misericordia. E insieme a te spezzerò il pane della vita e berrò il vino dell’eternità”. E io, pervaso da un sentimento di sconforto e al tempo stesso di pace spirituale, non capii il significato di quelle parole. Né feci caso alle parole successive, perché fu di cose come queste che egli continuò a parlare. Poi, all’alba, si alzò dal suo cantuccio vicino al fuoco, mi ringraziò e, pronto, si rimise in cammino. Appena mi riebbi, mi resi conto che quell’uomo che mi era rimasto accanto, e che mi aveva in precedenza privato dei sensi, era il Signore. Allora, senza pensare ad altro, mi precipitai per rincorrerlo. Girai, palmo palmo, l’intera contrada; chiesi ai vicini, ai passanti: nessuno seppe dirmi nulla. Quando compresi che ormai era troppo tardi, ritornai in casa. E lì restai, accanto al fuoco, a ricostruire, nel pianto, ogni istante, ogni singola parola di quanto avevo visto e udito». Maurici, dopo una breve pausa emotiva, disse che in quella fredda alba di fine febbraio gli divenne, a poco a poco, tutto molto più chiaro. E ricordò che il Signore gli lasciò detto che negli anni a venire fiamme inimmaginabili si sarebbero elevate dal centro della terra; mentre dal cielo sarebbero piombate tremende sfere di fuoco. E carestie, terremoti, alluvioni; inverni glaciali ed estati torride. E prima ancora, il fratello avrebbe alzato la mano contro il proprio fra-

tello, il figlio ucciso il padre, la madre annientato il figlio. E sulla terra avrebbero regnato l’assassinio, l’abominio, l’infamia, l’adulterio. E il genere umano si sarebbe nutrito del nettare del peccato, e tremendo e pesante sarebbe divenuto il suo fardello. Infine, il Male, accarezzando per l’ennesima volta il suo perfido disegno, avrebbe issato i propri stendardi su ogni angolo del pianeta. «Quando tutto ciò si sarà compiuto - spiegò Maurici - avrà ini-

Non si sa cosa altro si dissero. Tuttavia sembrò vivere il resto della sua esistenza con un peso sul cuore

zio l’apocalisse». Non si sa per certo cos’altro si dissero. Tuttavia, il nostro uomo, sembrò vivere il resto della sua esistenza con un enorme peso sul cuore. Perché - qualcuno disse - in quell’occasione venne a conoscenza di un’altra importante Verità. Una Verità che gli fu rivelata con l’obbligo di non doverla spartire con nessuno. Nella Verità, si sa, v’è rigorosamente custodito il senso della vita. E le Forze celesti esigono che le anime materiali non maturino il proprio “essere terreno” nella consapevolezza dei segreti dell’universo. Ciò è essenziale affinché quelle famose “tre domande” che da che mondo è mondo - tormentano l’animo umano (Chi siamo? Da dove veniamo? Dove siamo diretti?) non diventino delle risposte. Il perché di questo lo lascio al giudizio di ognuno di voi.


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Sant’Agata del Bianco. A Campolico un’ipotesi suggestiva si fa strada, e incuriosisce studiosi ed esperti

DINOSAURI IN ASPROMONTE?

Laddove finisce il pendio si trovano delle cavità naturali che, senza alcuno sforzo, si possono immaginare come un valido riparo per gente primitiva. Sopra di esso stanno “le impronte” di DOMENICO STRANIERI

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Contadini e pastori hanno rinvenuto nei secoli scorsi sepolture preelleniche

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Orme rotonde, impresse nello strato roccioso, sempre a gruppi di quattro calchi

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Se sia stato uno scherzo della natura a creare qua e là dei segni, non è facile dirlo

Nella foto in alto alcune ipotetiche impronte, a destra un particolare dell’impronta. A destra: sopra le grotte di Campolico, sotto la superficie rocciosa ove sono state rinvenute le impronte. Foto di Domenico Stranieri

N

el suo discorso al “Lyceum” di Firenze del 1931, Corrado Alvaro, parlando della Calabria, raccontava che “la penetrazione all’interno è difficile, qui molte cose della vecchia Calabria sono intatte e nuove, ed è una meraviglia, uno stordimento imbattersi in esse”. Subito dopo, così diceva dell’Aspromonte: “è una montagna a grandi terrazze; dove sono i nostri paesi e i nostri campi, negli evi remoti, si stendeva il mare, ancora i bambini sui monti trovano le conchiglie che furono vive alcuni millenni fa”. Ed è vero. Recuperare fossili di gusci di conchiglia, in Aspromonte, non è così complicato. Ma non solo. Contadini e pastori hanno rinvenuto nei secoli scorsi anche sepolture preelleniche, cioè resti umani seppelliti sotto grandi lastre di pietra, con il capo sempre rivolto verso est. Laddove non c’erano aree da coltivare o alberi da tagliare (perfino durante la guerra del Peloponneso, nel 400 a.C., Tucidide parlava del legname raccolto sulle spiagge locresi e su quelle di Caulonia per costruire le triremi ateniesi), qualche segno del passato si è conservato. Disboscamento, terremoti e rovine causate dall’uomo, per fortuna, non hanno cancellato il fascino misterioso di alcune zone rocciose. Sul mare, invece, e non solo per le trasformazioni lungo i litorali, della civiltà greca restava ben poco già alla fine della Roma Repubblicana, tanto che Cicerone, nel 44 a.C., manifestava tutto il suo rammarico poiché la Magna Grecia era “ormai completamente distrutta”. Ma ci sono tracce più antiche di quelle greche in luoghi appartati della nostra montagna? Ci sono caverne e siti ove le rocce sono state

scavate non solo dalle piogge ma anche da quell’Homo sapiens che, settantamila anni fa, diede inizio alla cosiddetta Rivoluzione cognitiva? E cosa nascondono le nostre alture che ancora non sappiamo? Certamente la preistoria in Calabria è un campo di indagine in continua espansione. Una delle ipotesi più avvincenti degli ultimi mesi, ad esempio, è quella dei resti di impronte di dinosauri (o animali colossali) conservate in Aspromonte, a “Campolico”, in una parte

É una montagna a grandi terrazze; dove sono i paesi e i nostri campi, negli evi remoti, si stendeva il mare

di territorio del Comune di Sant’Agata del Bianco. Si tratta di visibili “orme” rotonde impresse nello strato roccioso, sempre a gruppi di quattro calchi. Il luogo è stato esaminato da studiosi, specialisti e finanche da ricercatori universitari del Nord Italia, i quali hanno manifestato opinioni contrastanti. Di sicuro è difficile pensare a delle impronte che perdurano da sessantacinque milioni di anni, anche se il luogo è suggestivo e forse era abitato in epoche molto remote. É un’area, quella di Sant’Agata, dove gli individui, nel corso dei millenni, non hanno apportato grandi cambiamenti, poiché la superficie è

L Lina e la questua IL RACCONTO di Antonio Perri

ina era sempre stata una persona indipendente, il naso aquilino, gli occhi grandi e azzurri come il mare, le rughe che gli contornavano gli zigomi, e le guance che facevano ricordare ai suoi compaesani chi era stata un tempo quella donna. Figlia di un notaio ricco e famoso a Careri, paese arroccato su un’altura nell’entroterra ionico calabrese, era fuggita di casa quando il padre l’aveva destinata in moglie al suo collega avvocato Lima, che sembrava più un maiale che un essere umano. Conseguentemente diseredata e screditata dalla famiglia saccente, la donna viveva della carità dei compaesani. Negli anni Cinquanta la famiglia si estinse: restava solo lei. Circolava per le alture dell’Aspromonte la leg-

costituita da un pavimento roccioso inutilizzabile per qualsiasi tipo di attività. Laddove finisce il pendio, però, si trovano delle cavità naturali che, senza sforzo, si possono immaginare come un valido riparo per gente primitiva. Anche perché alla fine del suddetto versante è distinguibile, quando piove, una sorta di piccolo canale scavato dall’uomo che impedisce all’acqua di scendere sulle grotte. Ed è proprio sopra questo teatro naturale di pietra che troviamo gli ipotetici passi di animali preistorici, evidenti anche in piccole pendenze, quasi una camminata in salita. Se sia stato uno scherzo della natura a creare qua e là, a quattro a quattro, dei segni senza un apparente significato non è facile dirlo. Il fatto inequivocabile è ci sono tante realtà da scoprire nella nostra montagna, non meno che in altri posti più famosi; come Chauvet-Pont-d’Arc, in Francia, dove, in una caverna, si conserva l’impronta di una mano che risale a circa trentamila anni fa, ovvero quando un individuo cercava di lasciare memoria del suo passaggio sulla terra, quasi un soffio oltre il nulla. Ecco perché in un articolo del 1969 relativo ai primi passi dell’uomo sulla luna, Pier Paolo Pasolini scriveva: “queste impronte mi rievocano altre impronte”. Da noi, invece, è una pratica collettiva eliminare tutto ciò che può attirare curiosità e curiosi, tanto che potremmo scrivere, senza problemi, “un’enciclopedia della distruzione calcolata” del nostro territorio. Probabilmente, se non fosse stato per l’inattesa caduta di un asteroide, i dinosauri avrebbero avuto più cura di questo mondo.

genda di un barone spagnolo che si era stabilito sulla montagna, per fare una vita umile, ma Lina non poteva permettersi di dare ascolto alle storie che sentiva. Camminava, coi piedi pieni di ferite, sulla terra e sulle pietre, andava a raccogliere olive quando era stagione. Era novembre e il freddo pungeva la sua carne resa dura dalle intemperie. Viveva in una baracca della ruga grande e una sera aveva ricevuto in dono dalla moglie del panettiere una pezzotta di formaggio fresco. «Questa la mangio a poco a poco, sennò finisce subito» pensava mentre si raggomitolava nella tela di sacco che le faceva da letto. Senonché verso mezzanotte, sentì bussare alla porta. «Avete qualcosa per la Madonna?», era uno degli eremiti di Polsi passato

per la questua. «Cummari avete qualcosa?» disse il frate dal pizzo biondo. Gli occhi di Lina andarono sulla forma di formaggio, era così invitante. Ci mise cinque minuti, dopo i quali la pezzotta era nel sacco del frate. Gli occhi del frate, che tradivano un’antica nobiltà, fissarono gli occhi della donna a cui piangeva il cuore dalla fame. Lui disse: «Sei stata buona figlia, dormi. Iddio ti ricompenserà». Il mattino dopo, verso l’alba, sentì bussare, pensò fosse di nuovo la questua, invece un altro spettacolo le si presentò davanti agli occhi: su una tela di sacco erano sparse banconote, gioielli e collane e quanto di più prezioso c’era ai tempi. Con un’esclamazione ringraziò il Signore, la sua povertà era finita.


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Aspromonte greco

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LA RIFLESSIONE

Gli anziani

Roccaforte del Greco. Lasciò il suo paese a 17 anni per combattere col Generale

di Mario

Alberti

P

enso, rispetto ad altri, di possedere un privilegio. Magari non molto ambito, senz’altro poco conosciuto. Quello di essere entrato nelle vite degli altri, migliorando la mia. E questa immagine che ultimamente, alla mezza età, mi sto continuamente rappresentando, trova esplicitazione nel rapporto con i cosiddetti vecchi, persone di età avanzata, chiamati comunemente anziani e da qualcuno dal lessico più spregiudicato, con spruzzi di inopportuna modernità, diversamente giovani. Causa lavoro, per anni ho coordinato sul territorio grecanico servizi domiciliari di sostegno alla persona, sono venuto a contatto con molte donne ed uomini al tramonto della vita. E mai, dico, mai, mi è mancata una buona storia di fronte ad un braciere, quando fuori, nelle campagne di Bagaladi o Bova, timidi fiocchi di neve cominciavano a svolazzare sostenuti dal vento gelido, nell’aria pulita che solo nei nostri borghi ancora resiste. Ed ascoltai Maria alla quale fu vietato di studiare, nel piccolo paese aspromontano degli anni Trenta, per accudire ai fratelli più piccoli e agli animali. Ma lei, tenace, si alzava nottetempo per leggere stentatamente nei libri dei fratelli maschi, inclusi nel privilegio. E soprattutto sotto gli occhi volutamente disattenti ma palesemente indulgenti della madre, complice silente a fronteggiare l’ottusità paterna. Di fronte a quel braciere Domenica, donna Mica per i più, mi raccontò della fedeltà ostinata ed un po’ naif verso quel ventenne baffuto ritratto in color seppia disperso chissà dove, in qualche guerra o in qualche straniero letto. E donna Mica sostenne da sola i figli, antica eroina nei tempi dove una mucca era una ricchezza e una febbre uccideva ferocemente. Ma di fronte a quello stesso braciere anche i vecchi (chiamiamoli così, ma con il rispetto dei figli) più duri diventavano bambini. E narravano vecchie storie, di guerra appena accennata nelle campagne deserte, di figli mai tornati, di amori pudichi da incrociare fuori dalla messa domenicale appena appena con lo sguardo, foriero di mille interpretazioni. Ed illusioni. Ma perché questi nodosi vecchi salveranno il mondo, il nostro mondo? Perché portano in sé la nostra storia e la nostra complessità, narrata nel modo più semplice da gente semplice. Perché stare con loro significa riscoprire le radici di una terra violentata da gente indegna ai quali va contrapposto il feroce amore verso i propri luoghi e la tenacia grecanica di un possibile cambiamento. Ma per far questo vecchi e giovani si devono incontrare. E solo il mondo dei servizi può facilitare questi momenti, che sotto un profilo apparentemente istituzionale divengono pian piano terreno di crescita e cambiamento. Il vecchio non ha bisogno di qualcuno che gli pulisca casa, ma di qualcuno che lo ascolti. E chi lo ascolta cambia e contamina i propri pari attraverso messaggi, a volte più subliminali che reali, tendenti alla solidarietà, alla partecipazione, all’incontro. Alla resistenza, alla resilienza. Vere parole rivoluzionarie nel mondo della distanza e della disillusione. Il mondo cambia attraverso la riscoperta dell’altro, spesso prigioniero di un corpo non più autonomo, ma in possesso di una buona storia da raccontare. Una storia di vita, la storia di una vita che finendo potrebbe lasciare il segno. Se ascoltata. Se fatta ascoltare.

La storia di Marco Sergi, un

NONNO GARIBALDINO

Dalla Calabria al Trentino per inseguire un sogno. Il profilo di un soldato, “cacciatore d’Aspromonte”, ricostruito grazie al contributo dei familiari di CARMELO AZZARÁ

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Essendo un bravo tiratore venne incorporato nella formazione dei “cacciatori”

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Fu presente al ferimento del Generale, e nel trasporto dalle montagne a Scilla

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Ricordo un vecchio fucile ad avancarica, che si trovava a casa del mio prozio

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Prendeva una modesta pensione, che non venne aumentata su sua stessa petizione In alto a sinistra, la foto di “nonno Marco” Sergi autografata da Anita Garibaldi (foto di Carmelo Azzarà). A destra una rappresentazione dell’esercito garibaldino in Aspromonte.

I

nipoti diretti, gli zii, ci parlavano del loro nonno Marco, che, lasciando il suo piccolo paese sull’Aspromonte, raggiunse non ancora diciassettenne la zona tra Montalto e Gambarie, per arruolarsi coi garibaldini al seguito dell’Eroe de due mondi, dopo il secondo sbarco nel 1862, a Melito Porto Salvo, per risalire la penisola al grido di “Roma o morte”. Il bisnonno Marco Sergi, essendo un bravo tiratore, anche se giovanissimo, venne incorporato

Un tizio, con lo stendardo dell’epoca fascista, tentò di coprire il tricolore, che lui, in divisa garibaldina, innalzava fiero

nella formazione speciale dei “cacciatori dell’Aspromonte”, il corpo fondato da Agostino Plutino, appartenente ad una nota famiglia di cospiratori antiborbonici di Reggio Calabria. Ed il bisnonno Marco fu presente al ferimento di Garibaldi, in seguito allo scontro-incontro col generale Pallavicino, ed il trasporto del ferito attraverso le montagne, sino a Scilla, per essere poi imbarcato su una nave verso La Spezia agli arresti domiciliari dell’esercito piemontese. Il nipote più grande, che aveva il suo stesso nome e cognome, ricordava alcune vicende, raccontate dalla viva voce del nonno quando era ragazzino. Le storie delle varie battaglie, della terza guerra d’indipendenza, sempre volontario al seguito di Garibaldi. Ricordava la famosa battaglia di Bezzecca, nel 1866, quando i volontari garibaldini, con grande

spirito patriottico, erano ormai convinti di aver scacciato e sconfitto gli austriaci, liberando il Trentino. Ma un telegramma del generale piemontese in capo giunse a Garibaldi con l’ordine: «Armistizio firmato evacuate il Trentino». Garibaldi comprese l’intrigo diplomatico, e non sapeva come comunicare l’orribile comando alle sue truppe e con grande strazio del suo cuore, soffocando il dolore e la rivolta, trasmise la memoranda parola: «Obbedisco». Quindi tutti i combattenti dovettero rilasciare il Trentino in mano agli austriaci, da cui i volontari l’avevano quasi interamente scacciati, con migliaia di morti sparsi sul terreno. Il bisnonno ricordava la disperazione dei soldati, che si sentivano traditi, i pianti, la rabbia, i fucili scaraventati lontano. Dopo queste battaglie i volontari garibaldini meridionali rientrarono al Sud e, giunti a Napoli, trovarono il colera, per cui i calabresi e i siciliani furono imbarcati su una nave che li portò a Messina e a Palermo. Il racconto di questi leggendari avvenimenti è rimasto impresso al nipote Marco, che ricorda la camicia rossa e il berretto conservati presso l’abitazione di una figlia del garibaldino, mia nonna, a Roccaforte del Greco. Io ero troppo piccolo per averli potuti notare, quando andavo a trovare la nonna, che certamente li custodiva con amorevole cura. Ricordo invece un vecchio fucile ad avancarica, che mi dilettavo a maneggiare, presso l’abitazione di un figlio del mio bisnonno, mio prozio, e un revolver che aveva lasciato ad un altro nipote che aveva il suo stesso nome, Marco Perpiglia, futuro noto antifascista e combattente nella guerra civile di Spagna del 1936/39, nelle brigate garibaldine e nelle brigate della resistenza. Del bisnonno conservo un piccolo ricordo: un elegante bastoncino di ciliegio, che lui ha dimenticato a casa

mia, a Melito Porto Salvo, in seguito ad un suo viaggio, fatto da solo, all’età di 92 anni, per recarsi col treno a Crotone ospite di una sua nipote. Al rientro da Crotone s’intrattenne a casa mia per alcuni giorni, fra le affettuose premure di mia madre. Ritornato a Roccaforte raccolse in un diario le esperienze di questo viaggio e delle zone visitate. Durante una commemorazione del 4 novembre, la festa della vittoria - ricordava sempre il nipote più grande

Sappi che in prima fila ci sono sempre stati i combattenti come il sottoscritto, che ha collaborato per l’unità d’Italia

- un tizio, con lo stendardo dell’epoca fascista, si era posto di fronte a lui, in prima fila, e con insistenza pretendeva di coprire la bandiera tricolore, che lui in divisa di garibaldino, sollevava con fierezza. Con un colpo secco dell’asta della stessa bandiera, il bisnonno scaraventò per terra lo stendardo, intimando al tizio: «Sappi che in prima fila ci sono stati sempre i combattenti come il sottoscritto, che ha collaborato per l’unità d’Italia». Prendeva una modesta pensione in qualità di reduce combattente, che non gli venne aumentata su sua rispettosa petizione direttamente a Vittorio Emanuele III, ricevendone invece, una tantum, un’indennità personale per meriti di guerra. Quando andiamo a visitare la sua tomba, deponendo un fiore, ripetiamo: «Era il bisnonno garibaldino».


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Campi di Bova. Il ritratto dell’accoglienza aspromontana, e i volti cordiali della famiglia del casellante

L’ORTI DI MASCIU LEU BONU

Nella località San Salvatore, lungo la strada che unisce Bova ai paesi dell’entroterra, stava una piccola costruzione, e il suo custode. Vitali per chi, passando, si imbatteva nel maltempo di GIANFRANCO MARINO

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Era uno dei rifugi costruiti per garantire riparo ai viandanti partiti da Africo e Roghudi

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Stava a lungo negli orti, dove abbondavano patate, granturco, pomodori e frutta Le nevicate « erano insistenti, e costringevano chi passava a scavare gallerie nella neve C’era chi, « dissotterrando il ghiaccio, custodito per mesi, diveniva novello gelataio

Nelle foto in alto i Campi di Bova negli anni Sessanta. Foto di Lillo Romeo. In basso, il casello di San Salvatore. Foto di Gianfranco Marino

A

spetto la neve, la prima dell’inverno o, se preferite, l’ultima dell’anno. Il vento oggi è costante e insopportabile, imperversa violento, entra nella canna fumaria del camino e mi fa compagnia con rumori sinistri, ora metallici, ora simili ad una voce roca e graffiante. Come capita ormai da qualche anno, quando aspetto la neve come oggi, davanti al camino acceso, in una nebbiosa, ultima domenica dell’anno, mi tornano alla mente racconti, aneddoti, storie, a volte nitide, altre volte sfocate dal tempo. Mi torna alla mente, non so perché, uno dei tanti racconti che sentivo da bambino, uno di quelli che, quando si saliva sù, in montagna, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, partivano quasi in automatico, ed io ascoltavo, affascinato dalla possibilità di conoscere chi e cosa fosse stato prima di me in quei luoghi che stavo attraversando. Mi dicevano di un uomo robusto, tarchiato, con i baffi neri, con una flotta di figli al suo capezzale e con una moglie di quelle di una volta, una signora schiva, ospitale, gentile ma allo stesso tempo dallo sguardo severo, accigliato, quasi plasmato dalla natura ostile che faceva da palcoscenico a quelle vite. Non ho mai saputo come si chiamasse realmente quel signore, o meglio, non ho mai saputo quale fosse il suo cognome, nei racconti lo chiamavano semplicemente masciu Leu, mi dicevano che tutti lo conoscevano come “masciu Leu bonu”. Ecco masciu Leu bonu, proprio lui! E io continuando ad ascoltare il racconto, guardavo le strade che mi si aprivano davanti, lunghe, alberate, piene di felci e piene di un profondo senso di solitudine che mi rendeva difficile credere che da quelle parti ci potesse essere stata vita, in quel passato che dai racconti riaffiorava ricco di particolari.

Allora la domanda, che mi ripetevo in modo ossessivo, era: conosciuto da tutti, ma tutti chi, e soprattutto dove? Salendo sù, per la via della montagna, quella che si inoltra dando le spalle al mare, salutando le sue benevoli e miti correnti e portando verso un dedalo impenetrabile che se alzi la testa scorgi la sagoma del Montalto a sovrastare Portella Materazzi, i Piani d’Elia e Serro Juncari, ad un certo punto ti imbatti in un bivio, uno dei tantissimi bivi che

Mi dicevano di un uomo robusto, con i baffi neri, una flotta di figli al suo capezzale e una moglie come quelle di un tempo

in Aspromonte ti indirizzano verso le aree più interne e nascoste del massiccio, su quel bivio c’è una costruzione in cemento armato su due livelli, è uno dei tanti rifugi, belli, curati, con le giostrine ad accogliere bambini nelle giornate d’estate e con quei barbecue che solo a vederli ti fanno immaginare salsicce e costolette di maiale o agnello. Nelle giornate d’estate, all’ombra di quei pini e di quei pioppi, risuonano organetto e tamburello, si balla e si canta nei giorni feriali, e gli operai idraulico forestali ci lavorano pure in quelle costruzioni in mezzo al bosco, oggi punto d’approdo irrinunciabile per gitanti della domenica, cercatori di funghi, appassionati di trekking, fotografi. Quando si arrivava da quelle parti, il racconto si fermava su quel rifugio, là dove, prima della guerra, al posto

di quella costruzione in cemento armato, con balconi e finestre a mo’ di chalet, c’era una casa più bassa, in pietra, col tetto in tegole. Era uno dei rifugi costruiti per garantire un riparo ai tanti viandanti che da Africo e Roghudi, e dalle loro popolose frazioni, raggiungevano a piedi o a dorso di mulo la marina per fare provviste. Proprio là, ad attendere chiunque ne avesse bisogno, con un pasto caldo, con un fuoco acceso o semplicemente con un bicchiere di vino, di grappa o di cordiale c’era lui, masciu Leu bonu, c’era sua moglie e c’erano quei ragazzi avvezzi, come pochi, alle asprezze di una montagna che per loro era inevitabilmente diventata una seconda mamma, ma anche una maestra di vita e un luogo di gioco e di lavoro. Tutti conoscevano quell’uomo e la sua famiglia, soprattutto africoti e roghudisi e lui, da buon montanaro, con quella casa, concessagli dal comune in cambio dei suoi servigi alle comunità dell’entroterra, passava le giornate nei suoi orti, dove patate, pomodori e granturco, ma anche frutta di stagione, crescevano ingrossati dall’acqua che sgorgava da ogni angolo non appena i ghiacci invernali lasciavano il posto al giallo delle ginestre. I racconti riproponevano spesso la rigidità di inverni durante i quali le nevicate erano insistenti e copiose, tanto da costringere masciu Leu, e quanti percorrevano quelle lunghe distese di ghiaccio, a passare in vere e proprie gallerie scavate nella neve, piccole piste ricavate a fatica dove entravano a stento un viandante e il suo compagno di viaggio, quasi sempre un mulo carico di provviste. Ricordo che mi si raccontava di giornate d’inverno passate al focolare in quella casa con quei bambini, fermi ad osservare le stalattiti che scendevano dalle tegole, il più piccolo si addormentava quasi sempre davanti al braciere e la mamma, quasi impietosita, non lo svegliava, mettendogli da parte un pezzo di pane e companatico. La mattina passava così, un occhio alla finestra e uno al focolare, dove sulla brace ardente c’era l’immancabile salsiccia, ad accompagnare le fette di pane appena sfornato. Era un via vai di gente su quelle montagne, un andirivieni lento ed estenuante, un anelito di vita difficilmente replicabile, per modi, tempi, ritmi e soprattutto sentimenti, oggi evidentemente non più uguali. Erano tempi e prospettive estremamente lente su quei monti, era

un’epoca di speranza e di sogni che iniziavano e finivano proprio là, mentre nei paesi la vita brulicava, quelle immense distese, ora spoglie ora ricche di vegetazione, parlavano di lavoro e fatica. C’era l’aria dove si fiatava il grano, c’erano le patate ed i pomodori, c’erano le immancabili capre e le mucche con l’aratro, c’erano poi quelle buche lunghe e profonde dove riponevi la neve, debitamente coperta sopra e sotto da uno spesso

La mattina passava così, un occhio alla finestra e uno al focolare, dove, sulla brace si arrostivano carne e salsiccia

strato di felci e lasciata là ad attendere la calura dell’estate che, a fondovalle, diventava insopportabile e, quando il sole raggiungeva lo zenit, c’era chi, dissotterrando quel ghiaccio gelosamente custodito per mesi, si improvvisava gelataio. Penso spesso a quei racconti, penso al percorso lungo cui mi venivano raccontati, penso che ormai da anni quel percorso lo faccio da solo, accompagnato dall’autoradio, dalle cartoline che ho nella mente, da quei ricordi, in cui a tenermi compagnia c’é sempre la montagna con le sue luci e le sue ombre, con le sue voci e i suoi rumori. Quassù avverti il rumore del silenzio come in nessun altro posto, è un rumore sordo che diventa fruscio dell’anima, in montagna ci si può perdere, ma ci si può anche ritrovare, in montagna puoi ritrovare te stesso, puoi ritrovare il tuo passato pensando al futuro, puoi risentire ogni volta che vuoi il rumore del silenzio e in quel silenzio immaginare, anche senza averli mai visti, i volti di masciu Leu, di sua moglie, di quei bambini e delle tante persone che su quelle strade hanno segnato un tempo irripetibile. La nebbia è andata via, il vento sembra essersi placato, per la neve è questione di giorni o forse anche di ore, lei tornerà e io sarò là ad osservarla da dietro la finestra. La guarderò scendere lenta a coprire tutto, riproponendo l’unica magia capace di fermare il tempo.


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Aspromonte settentrionale

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LA STORIA DI PIMINORO

Una vita sotto il Levante

di FRANCESCO BARILLARO

Anno Mille. La ricostruzione delle battaglie contro i Saraceni

Giacomo, era detto il Lupo

D’ASPROMONTE

Piminoro. Foto di Giuseppe Mammone

Sogni premonitori e pericoli sempre in agguato. Una bandon si immola per difendere la nostra montagna

F

in da bambino sono stato affascinato dai racconti degli anziani di Piminoro, che nelle afose giornate d’estate trascorrevano gran parte del loro tempo rievocando episodi della I e II guerra mondiale, vissuti personalmente. Senza darsi appuntamento si ritrovavano nella piazzetta centrale del paese, seduti all’ombra sui gradini delle vecchie case, alzandosi di tanto in tanto per rinfrescarsi alla vicina fontana a quattro canali, al centro della piccola piazza. Dopo un breve accenno alle ultime novità del paese, iniziavano i loro discorsi: un gregge attaccato dai lupi in montagna o dai ladri, la mancanza del lavoro per i giovani costretti a lasciare il paese per cercare fortuna lontano, spesso soli nelle grandi città del Nord ad affrontare la vita. Sostenevano che per fortuna Mussolini aveva pensato a loro, altrimenti senza la pensione avrebbero patito la fame! Seguiva un’imprecazione condivisa da tutti contro il “lupo” ossia il temuto vento di Levante, che puntualmente distruggeva il paziente e umile lavoro dei contadini nei terrazzi scugnati con il sudore della fronte. Tutti raccontavano dei danni subiti: ciaramidi buttate giù dal tetto (malgrado una delle caratteristiche di Piminoro sia rappresentata da decine di pietre sopra le tegole), o piante di ulivo schiancate, se non addirittura sradicate, dalla furia incontrastata del Levante. Altri rimpiangevano le viti dell’uva fragula che produce un vino molto leggero, chi raccontava dell’orto raso al suolo, tutti giuravano a sé stessi che la successiva primavera avrebbero lasciato margio il proprio pezzo di terra! Piminoro è l’avamposto del Levante, su di esso si abbatte come una maledizione tutta la sua potenza, non c’è angolo che ne sia risparmiato e, come una nave nel mare in tempesta, bisogna solo aspettare che esaurisca tutta la sua forza, per poi contare i danni. Quando al vento si associa la pioggia, allora sono guai seri per tutti. Per giorni interi bisogna rimanere tappati in casa, pensando agli uomini sorpresi in montagna dietro uno sperduto gregge. Le donne si raccomandano alla Madonna della Pastorella, l’unica, secondo loro, capace di intercedere verso l’alto. Finite le ultime lamentele contro il vento e il governo, i discorsi degli an-

di GIUSEPPE GANGEMI*

ziani prendevano la solita piega: la guerra. Smettevo di giocare e restavo incantato ad ascoltare quelle che loro ritenevano le proprie imprese, anche se ormai gli argomenti erano sempre uguali. Mi affascinava però pensare che uomini, vissuti in questo abitato aspromontano, segnati dalle privazioni e dal duro lavoro, in gioventù erano stati in prima linea nei vari fronti di guerra. Cominciavano parlando del viaggio, spesso a piedi fino a Gioia Tauro, per molti la prima volta che vedevano un treno, e poi il mare. Era così immenso che non trovavano aggettivi appropriati per descriverlo. Quelli che avevano preso parte alla guerra del 1915-18 anche nei ricordi uscivano vittoriosi, fieri di essere “Cavalieri di Vittorio Veneto”. Fra questi il mio carissimo nonno Francesco dal quale ho preso il nome, poi Ceravulu, Giacchetta, Cirinio, Paiano e tanti altri. Il gruppetto comprendeva, oltre a noi ragazzi, altre persone più giovani. Puntualmente a metà mattinata Ceravulu portava Rosa la scecca ad abbeverarsi, per ultimo arrivava cumpari Rafieli detto Chiò, un uomo grande ma altrettanto buono, col viso scavato da profonde rughe, sempre sorridente e, quando gli chiedevano di cantare la canzoncina della guerra, attaccava non prima di aver precisato che lui in guerra era stato solo mulattiere e non aveva fatto del male a nessuno! Con voce grossa e rauca intonava “Signor Tenente”. Quando parlava mio nonno ero particolarmente felice anche perché concludeva il suo racconto rievocando le storie dei suoi figli Domenico, mio carissimo zio, e Peppino, mio padre, entrambi chiamati alle armi durante la seconda guerra. Verso mezzogiorno, quando il sole era alto in cielo e l’ombra delle vecchie case lentamente scemava, come per un tacito accordo, tutti tornavano a casa, e io facevo di corsa la breve salita che separa le due piazze del paese e, giunto in prossimità della chiesa, alzavo gli occhi verso la montagna, vedevo il piccolo autobus di mio padre fra gli ultimi ripidi tornanti del “muro grande” che scendono vertiginosamente verso Piminoro. Nel pomeriggio il gruppetto si ricomponeva, seduti sui gradini della vecchia casa di Pirricatonga, e, anche se faceva caldo, gli anziani vestivano in modo pesante. Così ricominciavano i racconti. Era storia, mito, sogno...

B

um! Bum! Bum! Giacomo, detto il Lupo, magister militum della bandon dell’Aspromonte settentrionale, sente bussare forte alla sua porta. «Avanti» urla con tutto il fiato che ha in gola. Nessuno appare sull’uscio di casa. Con uno sforzo, che gli sembra immane, si scuote per andare ad aprire la porta. Si ritrova seduto sul letto con la moglie, accanto, che dorme, come se non avesse sentito né il bussare, né il suo invito ad entrare. Capisce di avere sognato. Per scrupolo va alla porta e la apre. Non vede nessuno nel cortile di casa e nemmeno ode rumori di alcun genere. Come pensava, sia il bussare, sia il suo urlare ci sono stati solo nella sua mente. Guarda la timida aurora che si affaccia all’orizzonte e mormora: «Sogno del mattino. Probabile premonizione di qualcosa che verrà». Non è uomo da sottovalutare i sogni. Ma non sa come interpretare questo, brevissimo, di cui ricorda solo il bussare e l’invito urlato ad entrare «Mi diranno gli eventi come interpretarlo». Quello stesso giorno, i Saraceni attaccano il casale di San Ferdinando. Giacomo accorre subito con i suoi uomini. C’è uno scontro molto duro nel corso del quale egli perde uno dei suoi combattenti migliori: Giovanni il Boscaiolo viene trapassato da una lancia saracena. Bum! Bum! Bum! Il Lupo sente bussare forte alla sua porta «Avanti!». Nessuno apre la porta di casa. Con uno sforzo immane, Giacomo si scuote e si sveglia. Osserva la moglie che gli dorme accanto, serena. Per scrupolo, si dirige alla porta e la apre. Nessuno oltre l’uscio. Lontani, si vedono i primi chiarori dell’aurora. Quello stesso giorno, ennesimo scontro con i Saraceni.

Il Lupo perde un altro dei suoi uomini. Antonio, detto la Volpe, viene colpito al cuore da una freccia. Sono tempi in cui non c’è una settimana senza una battaglia. Per fortuna, poche sono state le settimane in cui Giacomo ha sentito, nel sonno, bussare alla sua porta. Finisce che quando si prevede uno scontro con i Saraceni, va a dormire nervoso e irritabile e, solo se non sogna di sentire bussare, il giorno dopo è felice e impaziente di andare in battaglia. Altrimenti, teme per i suoi uomini o per suo figlio maggiore, Stefano, che fa parte della bandon.

a toccarne il palmo: «Qui sotto non piove!». Ha parlato con tutta la rabbia che ha in corpo, minaccioso verso l’orizzonte, verso tutto e verso nessuno. Tenendo le mani ferme, in quella posizione, lascia andare i suoi pensieri: «Non posso fermare la morte che è come una tempesta di pioggia, ma, se la mia volontà è ferma, posso impedire che si bagni un piccolo spazio sotto il mio controllo. Posso deviare la morte da mio figlio, se è lui il predestinato, verso di me». Chiama intorno a sé tutta la famiglia e comunica, semplicemente: «Sento che quest’oggi potrei morire. Affido a te Stefano, che sei il maggiore, tua madre, le tue sorelle e i tuoi fratelli». Non accenna al suo secondo e peggiore timore, che a morire, quel giorno, possa essere il figlio. In battaglia vuole Stefano sempre vicino a sé e, quando lo vede in difficoltà, interviene in suo aiuto frapponendo il proprio corpo alla scimitarra di un Saraceno che sta per colpirlo. Viene trapassato da parte a parte e ha solo il tempo di trattenere dentro di sé l’arma, stringendo, con tutte le forze rimastegli, il braccio del nemico. Dà così al figlio il tempo di uccidere il Saraceno, prima che questi estragga l’arma dal suo corpo. Stefano raccoglie il padre tra le braccia prima che questi cada a terra. Giacomo ha sul volto un sorriso e sussurra poche parole, con gli occhi rivolti verso il lontano orizzonte: «Ti ho fregato!». Si rivolge alla morte. Si sente vittorioso per aver salvato la vita del figlio.

In battaglia vuole Stefano sempre vicino a sé e, quando lo vede in difficoltà, interviene in suo aiuto frapponendosi con il corpo alla scimitarra di un Saraceno che sta per colpirlo Una notte, la moglie, Cristina, lo sveglia e gli dice poche parole: «Bussano alla porta!». Giacomo sa di essere vigile e desto. Guarda la moglie e si limita a dire: «Vado a vedere!». Si avvia all’uscio di casa. Apre la porta. Fuori non vede nessuno. Torna in camera da letto. Si limita a dire alla moglie: «Hai sognato». Cristina si addormenta, tranquilla. Giacomo rimane sveglio fino al mattino. Si alza. Attende a tavola che Cristina prepari la colazione. Chiede alla moglie: «Questa notte, quando hai sognato, quanti colpi hai sentito alla porta?». La moglie ci pensa un attimo e risponde: «Tre!». Il Lupo capisce allora che quel giorno sarebbe stato uno della famiglia a non tornare vivo dalla battaglia. Determinato, si alza da tavola, si avvia alla porta, la apre e si ferma sull’uscio di casa. Stende la mano sinistra davanti a sé, all’altezza degli occhi, orizzontale, con il dorso verso l’alto. Poggia l’indice della destra, verticale, sotto la mano, con la punta

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Università di Padova Docente di Scienza dell’Amministrazione E-mail

giuseppe.gangemi@unipd.it


Reportage

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Viaggio nello scempio. Da Riace a Bovalino, passando per Roccella, Siderno, Locri, Portigliola, Ardore

Le miserie della Locride e

GLI ECOMOSTRI

Hotel, castelli, ostelli, ospedali, teatri, discariche, dighe e porti: sono questi i simboli del nostro degrado

I

di ARTURO ROCCA

l volume Calabria della collana Attraverso l’Italia, corredato dalle foto di Toni Nicolini edizione del TCI, alle pagine 156 e 157 presenta la gigantografia del telaio in cemento armato di un improbabile albergo a quattro piani, sulla spiaggia di Riace. Simboleggia in maniera evidente la sintesi dei malanni ambientali di cui è stata capace la nostra classe imprenditoriale, foraggiata e foraggiatrice del ceto politico più ignorante ed insipiente di cui ci siamo saputi dotare. Oggi, accanto ad esso, insiste la struttura, questa finita, dell’hotel Riace (nella foto a sinistra) abbandonata ai vandali. A Roccella l’imponente maniero è ingabbiato in infinite opere di restauro, iniziate dopo avere aspettato che si usurasse l’usurabile, circondato da un parco per il quale si sono spesi miliardi di lire pubbliche, e che, abbandonato a sé stesso, è stato sapientemente dato alle fiamme. Il percorso, attrezzato con costose opere di illuminazione per raggiungere la torre Pizzofalcone anche di notte, non è più percorribile in sicurezza neanche di giorno. Il restauro delle gallerie sottostanti la torre, già da prima terra bruciata e insicura, sono graziosamente vandalizzate per dare gusto alla visita. La vista dalle feritoie è impagabile: uno scorcio del porto che ogni anno bisogna dragare per ricostituire il fondale, e che ha almeno portato la guardia costiera sulla Locride. Sul lungomare di Siderno campeggia un’altra struttura di albergo, questa a cinque piani intonacati, su cui i writers hanno impresso le loro considerazioni umorali. Su di esso svetta una bellissima antenna che concede, a pagamento, il segnale agli oberatori (non operatori) telefonici. É d’obbligo uno sguardo al bacino desolato e desolante della diga costruita sul torrente Lordo proprio da contrada Larone, sì, quella che cominciò a franare non appena fu messa in funzione.

Furono evacuate le abitazioni, e gli abitanti furono ospitati nelle strutture alberghiere, furono commissionati lavori di consolidamento che sparsero solo ferro e cemento (i motori dello sviluppo calabrese), e poi si arrivò ad assistere allo svuotamento del bacino, che tante speranze di sviluppo aveva alimentato. Si sprecarono i convegni ed i progetti di alberghi con aree verdi attrezzate, ed imbarcazioni da diporto ancorate ai ruderi delle case affioranti. Anche le folaghe che avevano trovato habitat sono emigrate. Una medaglia al valore all’ideatore, al geologo, al progettista, all’ente realizzatore e gestore, anch’esso in disarmo, ma soprattutto a chi sapeva e non ha levato un solo

É d’obbligo uno sguardo al bacino desolato della diga costruita sul Lordo, proprio da contrada Larone

grido di dissenso. Ed ora sarà una bella discarica. Forse! Farebbe il bis con quella esausta di Timpe Bianche che riversa percolato da una falla (e non solo!) prodottasi per frana nel sottostante torrente Novito, che gentilmente conduce il percolato “nell’onde del greco mar da cui vergine nacque Venere” di foscoliana memoria. Ma già che ci siamo permessi questa citazione, restiamo in tema con la torre in ferro sbilenca del teatro di Siderno, gemellato nella sventura col teatro cupoletto di Locri, sorto sulle ceneri di un onorevole macello. Quando si dice il destino! Se ci spostiamo sulla Limina, pos-

siamo ammirare una promettente struttura in cemento armato, tamponata in mattoni forati, di un ostello costruito dalla Comunità montana di Cinquefrondi (quella del Parco dello Zomaro) che qui ha fatto il bis “ad un quarto”: difatti resta incompiuta, ma è un ottimo ricovero per le vacche escursioniste, con notevole risparmio per l’erario. Non possiamo trascurare la città eterna, Gerace, e facciamo giusto una puntatina per ammirare i tetti della struttura in abbandono dell’ospedale. Esso fu costruito perfettamente inserito nell’ambiente circostanze, e per farlo fu sventrata una stazione dell’età del ferro. Peccato che i piani sanitari regionali e nazionali abbiano dirottato altrove i posti letto, ed oggi è una struttura già vecchia, che elemosina un impiego. Si era persino offerta al Ministero di grazia e giustizia ma la popolazione non ha gradito. É giusto trattare anche le terme di Antonimina-Locri, dove al di sotto del livello della fiumara fu costruito un tozzo palazzone a cinque piani. Una delizia per bagnini e fanghini che, per non perdersi, si sono ritirati in due piccole ali lato sud-est lasciando che il resto venisse divorato dall’oblio. Il vecchio borgo termale ottocentesco a ferro di cavallo è stato divorato dagli appetiti di pochi, che hanno fatto diventare privata anche la chiesetta. E poi era naturale costruire un nuovo edificio lontano dalle sorgenti, per dover trivellare in cerca della falda! Ma, in attesa dei fondi, la miracolosa acqua termale viene pompata a pagamento elettrico dalla vecchia struttura. Un’enorme piscina termale con idromassaggio resta in attesa di utilizzo. Torniamo alla marina, passando dalla zona archeologica di Portigliola, dove sta marcendo un teatro in legno costruito, per accogliere eventi, accanto a quello greco-romano che è stato lasciato sciogliere dalle piogge ioniche; risaliamo verso la collina e vediamo

sull’acropoli dei Petti una costruzione che da lontano sembra il Partenone ma che da vicino (fate attenzione alla strada, costruita sul costone di un vallone sabbioso, che ne ha già dilavato oltre un terzo) è un improbabile galoppatoio stile viennese in cemento armato, rifinito a macchia di leopardo e depredato a pelle di leone. Per far posto alla struttura si è sbancato un pezzo di un antichissimo villaggio a capanne ma, in compenso, il vento che qui soffia con vigore produce suoni che tengono allegri gli epigoni degli antichi locresi. Ancora sulla marina possiamo ammirare quel che resta di un motel, oggi forse adibito a struttura sanitaria pri-

La mano pietosa del pubblico sovviene e sostiene una comunità montana “da marina”

vata, e, attraversando la SS106, superato il sottopasso ferroviario, si può fare una passeggiata su un lungomare coperto di sabbia, di arbusti, di rifiuti e di ogni sorta di detriti portati dalle mareggiate per apporto dalla vicina fiumara. Accanto, sorgeva uno dei primi camping di tutta la fascia ionica, oggi anch’esso in abbandono, saccheggiato da belve affamate. Poco oltre, un villaggio costruito e mai entrato in funzione che, si dice, fosse un probabile insediamento di botteghe artigiane, ormai in balia delle canne e dei rovi. Le ultime mareggiate hanno inferto un colpo deciso al braccio del lungomare lato sud di Sant’Ilario, che per il mo-

mento resiste grazie alla protezione del lido Il Pentagono. Se abbiamo voglia di avventurarci verso Condoianni di Sant’Ilario, in contrada Li Monaci, ci imbatteremo in una maestosa struttura, da poco finita “di vandalizzare” (nella foto a destra). Un ospizio costruito sapientemente e posto in posizione strategica per la riconciliazione con Dio e con gli uomini e costato diversi miliardi di lire: grana pubblica. Non ha mai accolto nessun vecchietto ma le mani sapienti degli smembratori l’hanno ridotta a parco pubblico per gli animali. Tutto è stato scientificamente spaccato per non dare l’impressione che non siano stati dei professionisti seri, la caduta di stile si è avuta con l’asporto del lungo cancello in ferro battuto. Attraversiamo Ardore per dirigerci a Bombile, dove un crollo della parete, il 28 maggio del 2004, ha cancellato un luogo di culto millenario. Vi erano stati dei crolli precedenti, e ciò avrebbe suggerito un consolidamento e il divieto di arare le aree soprastanti. Così non è stato. Oggi vi sono tentativi di raggranellare fondi per la ricostruzione artificiale, dopo essere stati incapaci di conservare l’esistente. Ma gli affari sono affari! Arriviamo a Bovalino dove ci accoglie un centro commerciale quasi in disuso. E il vecchio e glorioso hotel Orsa che, dopo i fasti degli anni Sessanta, e le elemosine dei commando del Ministero degli interni, perde pezzi davanti alla stazione abbandonata anch’essa al sorpasso del gommato. Ma lo zenith si raggiunge all’Orsa Sud, che non ha avuto la stessa fortuna del fratello ed è abortito sul nascere. La mano pietosa del pubblico sovviene e sostiene, infatti, una comunità montana “di marina” che se n’è appropriata con un colpo da maestri: pagandola bene, per abbandonarla in attesa del collasso che, a differenza dei terremoti, si può prevedere.


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Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte Gennaio 2015

Monte Pollino. Un posto per l’anima, come emerge nella nuova opera letteraria del noto escursionista

IN CERCA DI LUOGHI PERDUTI

«L’ultimo libro di Francesco Bevilacqua – Il Parco nazionale del Pollino – Guida storico-naturalistica ed escursionistica (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014, pp. 700, € 28,00) pesa un chilo e seicento grammi per 700 pagine, 152 itinerari, 650 foto a colori»

S

di CLAUDIO CAVALIERE

e non sbaglio dovrebbe essere la diciottesima pubblicazione di chi ho avuto già modo di definire uno “scrittore seriale”, quelli che si attaccano ad un personaggio e ne reiterano, scavando sempre più in fondo, le vicende. Nel suo caso il personaggio -sempre lo stesso ma mai identico a se stesso - è la Calabria e la sua bellezza raccontata nelle sue infinite sfaccettature, attraverso l’esperienza di un infaticabile camminatore.
 Dopo tanto scrivere e camminare è il caso di definire meglio chi è Francesco Bevilacqua, o meglio come inquadrare la sua scrittura, il suo raccontare.

LUI AMA DEFINIRSI “cercatore di luoghi perduti” che cura, attraverso libri, foto, filmati, narrazioni, una malattia endemica in Calabria: l’amnesia dei luoghi. 
Ci sta! Ma Bevilacqua è anche un visionario, con la sua prosa che tracima di immagini, e soprattutto uno storico della natura, uno che crea sentieri lasciando tracce, come tutti gli storici. Uno che passa, cammina, e mette un segno rosso, un segnale colorato per indicarti il percorso. Gli alberi sono là, che ti piaccia o meno, ma i sentieri, quelli, qualcuno li deve creare, mantenere, perché senza un sentiero non riesci a vedere nulla. Deve esserci qualcuno che segna il cammino perché senza un sentiero sei costretto a tenere lo sguardo a terra a vedere dove metti i piedi e non puoi apprezzare niente di quello che c’è intorno. Solo dopo aver tracciato un sentiero si può insegnare, spiegare cos’è un albero. Insegnare che tanti alberi creano una foresta e che un modo di pensare alla foresta è concepirla come luogo capace di contenere sentieri. Infine puoi indicare quello che ritieni sia il sentiero migliore per attraversare la foresta riconoscendo, tuttavia, che ne esistono altri. E i sentieri non disturbano la natura. É questo il compito dello storico e non a caso la citazione è tratta da un libro straordinario, Novecento di Tony Judt. Ed è esattamente

quello che fa B. con i suoi libri: prima traccia sentieri veri e poi aggiunge le sue geografie morali, le sue descrizioni emozionali che i lettori di Calabria on web dovrebbero oramai ben conoscere.
Cos’è il Pollino? É terra di grandi pianori, di cime brulle, di folti boschi, di molta acqua. É terra di profumi intensi e di colori cangianti. Di incontri inaspettati e di sentieri di stelle. É pancia del Mediterraneo. Chi lo conosce sa che è un luogo irresistibile, imprevedibile, un luogo che ti cattura e che ti proietta in altre dimensioni, i cui dettagli si stampano nella mente ed è difficile perderli anche a distanza di tempo. UN POSTO CHE TI FA GIRARE come una trottola, con l’anima in pena, sempre lì ad afferrare qualcosa che poi puntualmente sfugge, l’imminenza di una rivelazione che non si produce e ti lascia stordito, come le belle passanti di De Andrè che non siamo riusciti a trattenere. 
L’introduzione del libro è già un piccolo trattato sull’arte o sulla magia del camminare, o meglio sul viaggiare a piedi. Quando si cammina ogni luogo è desiderio ma anche attesa dello spirito e nella sua particolare premessa B. riesce a rendere chiaro questo concetto.
 Particolarmente interessante è tutta la prima parte, un libro nel libro considerato che occupa 200 pagine. Nel primo capitolo, Natura e storia finalmente B. si sofferma, come mai, sulle vicende storico e sociali che hanno caratterizzato l’area del Pollino, dal paleolitico ai nostri giorni, con la pubblicazione di foto d’epoca molto interessanti, ripercorrendo le vicende che hanno portato alla istituzione del Parco. Oggi tutto sembra scontato, ma anche in questa esperienza di tutela, che ha vissuto in prima persona, il rischio della devastazione ambientale, in cui noi calabresi siamo oltremodo abili, è stato molto concreto.
Il secondo capitolo Geografia, paesaggio, problemi di conservazione e sviluppo non è meno

SALDI

interessante. L’operazione di dividere in gruppi i monti e alcuni luoghi del Pollino rende più semplice la comprensione della geografia del grande parco anche con riferimento allo sviluppo degli itinerari della seconda parte. Questo capitolo contiene il paragrafo Problemi di conservazione e sviluppo che è un po’ la summa di precedenti scritti di B. Penso anzitutto a Genius Loci, quello che considero il suo più bel libro, un racconto mediterraneo intriso di sperdimento.
 La descrizione della flora e della fauna chiudono questa prima parte del libro.
 La parte seconda e tutta dedicata alle escursioni: 152 itinerari suggellati da centinaia di foto per cercare di entrare nel cuore del parco, nei suoi più remoti luoghi, di cui solo una trentina attualmente segnalati. E NON È UN CASO CHE nella premessa alle escursioni B. si soffermi sulla necessità di narrare il senso dei luoghi. 
La narrazione è elemento indispensabile della sua scrittura, per dare un senso alla vita, alle cose, ai luoghi. Certo, il senso di inadeguatezza delle parole di fronte allo strapotere della natura è ben presente; ma le narrazioni di B. cercano sempre una dea, una ninfa, un mito, una pietra, un albero, una fonte, un pastore, per cercare di imprimere nella mente ciò che spesso non si ritrova più con l’antropizzazione dei luoghi. Ed il tempo arriva fin dove si “inventa” una memoria.
 Scrive B. «Mi interesso del Pollino e vi cammino da più di trentatrè anni. Negli ultimi tempi di questo lungo lavoro di ricerca, di esplorazione e di scavo, si è prodotta nella mia mente, naturalmente, la definizione di Pollino parco dei parchi». 
Ma non fatevi ingannare! Perché è chiaro, alla fine della lettura, che per Bevilacqua il Pollino è soprattutto un luogo dell’anima, più che un oggetto di studio. tratto da calabriaonweb.it


Tra i boschi d’Aspromonte SAN LUCA SABATO 6 DICEMBRE

L

ungo week-end prefestivo, grazie al fatto che la festa dell’Immacolata quest’anno cade di lunedì. Già dall’inizio della settimana avevo sentito Francesco Bevilacqua, per sapere se avesse in programma la consueta escursione montana domenicale e, nell’eventualità, quale fosse la sua meta. Mi disse che aveva in mente un percorso ad anello, con partenza ed arrivo a Cirella di Platì, che sarebbe passato per le cascate di Malacaccia e Monte Jacono; ma il tempo non prometteva nulla di buono ed occorreva riaggiornarsi il sabato. E sabato la giornata sul versante jonico della Calabria è piuttosto mite, benché caratterizzata da un cielo cosparso di nubi dense, alternata da squarci abbacinanti nei quali i raggi del caldissimo sole di questo fine anno riscaldavano il suolo, tenendo per la mano un’estate che proprio non vuole saperne di lasciare le luci della ribalta. Ma il clima, si sa, può fare scherzi e Francesco preferisce rimandare la trasferta (lui viene da Lamezia) ad un momento meteorologicamente più sicuro, anche perché in caso di pioggia il percorso potrebbe divenire particolarmente impegnativo. Io, però, sono già in zona ed il mio istinto mi dice che domani, almeno fino ad ora di pranzo, il tempo dovrebbe reggere. Non mi resta che scegliere un itinerario e la Guida naturalistica ed escursionistica dell’Aspromonte - scritta proprio da F. Bevilacqua e A. P. Chiodo, che avevo portato con me per strappare una dedica - è un testo perfetto per lo scopo. Sfoglio le pagine, cercando di immedesimarmi nella descrizione dei percorsi e del paesaggio, non senza una sana invidia per l’entità del patrimonio naturalistico calabrese di cui gli autori sono stati testimoni. Mi soffermo sulle gole della La Verde, su Precacore, ma anche su Polsi, Pietra Castello e il Lago Costantino, cercando un percorso relativamente breve che ancora non ho intrapreso. Sarà una coincidenza, oppure mera curiosità, fatto è che finisco a pagina 180, dove Francesco ci conduce da Cirella alla Gola di Abbruschiato e alla Cascata dello Schioppo. Il percorso è breve (circa 30 min. all’andata e 45 min. al ritorno) e promette un panorama mozzafiato sulla fiumara di Cirella, serro Macalandrà e monte Pinticudi. La meta è scelta, non mi resta che coricarmi, sperando nella clemenza del meteo.

SAN LUCA DOMENICA 7 DICEMBRE

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re 05:10. La sveglia suona. Per un lungo momento rimango nel letto, in preda a quella sensazione di straniamento che accompagna il risveglio dopo poche ore di sonno. Guardo fuori dalla finestra e una pallida luce lunare mi consente appena di percepire il cielo: sembra nuvolo, ma qualche stella fa capolino qua e là, facendomi ben sperare. Mi vesto. Quando salgo in macchina sono appena le sei. Manca più di un’ora all’alba e San Luca è avvolta nel silenzio, solo lo scorrere dell’acqua nella fontanella in piazzetta rompe la quiete. Riempio la borraccia e mi dirigo alla volta di Cirella. Lascio la statale 106 al bivio con la provinciale che conduce a Bombile, Ciminà e Cirella. Il plenilunio ora è libero dalle nubi e inonda la valla della fiumare Condojanni di una luce argentata. Ciminà, arroccata alle pendici di Monte Tre Pizzi, sembra la Cortina d’Ampezzo del Sud. Quando giungo a Cirella solo la luna impallidita e una finestra che “sbadiglia” lasciano presagire l’avvicendarsi del risveglio. Fermo l’auto per consultare il percorso sulla guida: devo superare l’abitato e seguire la strada verso monte. Dalla piazzetta che accoglie chi arriva a Cirella, due strette stradine si infilano tra le case. Sono state elegantemente piastrellate e rendono ancora più suggestivo l’accesso al cuore del paese. Lo spazio tra un fabbricato e l’altro è appena sufficiente al passaggio dell’auto e mi sento quasi un intruso a irrompere in quel silenzio ove, appena dietro le mura, la gente è

ancora immersa nel sonno. Poco più avanti, però, un anziano e mattiniero signore, seduto davanti l’uscio di casa, mi saluta cordialmente con un gesto della mano: la consueta ed atavica ospitalità di Calabria è impressa sul suo volto ed io mi sento orgoglioso di appartenere a questa terra. Poche decine di metri e sono fuori dell’abitato; superata una villetta comunale con un’altalena ed una fontana, che affaccia direttamente sulla valle della fiumare Cirella, un cartello indica a destra l’inizio della stradella a fondo naturale che conduce alla cascata dello Schioppo. Con un piccolo fuoristrada potrei percorrerla ancora per qualche decina di metri, ma per la mia station wagon la stradella è troppo dissestata, inoltre preferisco andare a piedi. Parcheggio dunque, e mi preparo per la breve camminata che mi condurrà sul greto del torrente. Il sole si sta lentamente facendo strada tra le nubi basse sull’orizzonte e un leggero chiarore inizia a diffondersi nella valle. La strada diventa ben presto un sentiero che, dapprima tra distese erbose, poi tra lecci e querce, si dipana di curva in curva verso l’interno della gola. Il percorso è suggestivo: in alcuni tratti è stata realizzata una rudimentale pavimentazione con grosse rocce interrate e ovunque si scorgono terrazzamenti e coltivi immersi nella macchia. I muretti a secco sono interamente ricoperti di muschio di un verde tanto intenso quanto lo è il profumo. Dopo un breve tratto, percorso al riparo degli alberi, si sbuca in un tratto esposto

Quanto conosciamo la nostra terra? É la domanda che mi rimbomba in testa mentre risalgo il sentiero per tornare a casa

che funge da naturale belvedere sull’intera vallata, sino al mare. È lì che, improvvisamente, si viene travolti dal fragore della fiumara, amplificato dalle pareti della gola. È trascorsa quasi mezz’ora dall’alba, ma la coltre scura sull’orizzonte ha ritardato la comparsa del sole, che fa capolino in quell’istante, proprio quando sono nel punto con la vista migliore sulla valle. Le nubi cedono alla forza dirompente dalla luce, che si riversa sui campi e sul torrente come una colata d’oro fuso, rimbalzando di fronda in fronda. Il verde si accende e si satura, l’arancio delle rupi si tramuta in ambra e il monte Pinticudi sembra un enorme leone che osserva il suo regno illuminato dal sole. Non posso perdere quella luce. Mi fermo, sistemo il cavalletto e scatto alcune fotografie.

LA FIUMARA ANIMA D’ASPROMONTE

P

rocedendo lungo il sentiero quest’ultimo inizia a scendere, dapprima dolcemente, poi con due o tre rampe piuttosto ripide: il selciato è umido e occorre prestare attenzione per non scivolare. In breve raggiungo il greto, con i sui caratteristici lembi di terra ai margini, ricoperti di erba e vegetazione bassa, alternati a tratti diruti, fagocitati dalla forza dilavante della corrente. In lontananza, scorgo una figura umana: qualcuno raccoglie cicoria o altra minestra selvatica. L’ambiente delle fiumare è selvaggio, in esso si manifesta, più che in qualsiasi altro luogo, l’anima più intima e recondita dell’Aspromonte. La cascata dello Schioppo è vicina, posso scorgerne la sommità dietro un costone che forma un’ansa sul torrente. Le piogge non sono state violente e, sebbene l’acqua scorra nel greto, non è difficile districarsi tra un masso e un rivolo d’acqua. Le pareti della valle, che già si erano sen-

inAspromonte Gennaio 2015

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In viaggio da Gola Abbruschiato alla Cascata dello Schioppo

LUNGO IL CIRELLA

Servizio e foto

di GIANCARLO PARISI

sibilmente avvicinate, si restringono irrimediabilmente, incombendo sopra di me. Alcune pareti sono franate rovinosamente, com’è consuetudine nelle viscere dell’Aspromonte. In fondo alla gola il fronte di frana più imponente: probabilmente l’intero costone, staccatosi dalla parete, ha formato l’ultima ansa del torrente prima della cascata. Il greto è interrotto bruscamente da una parete di roccia alta circa quaranta metri, che costringe le acque a esibirsi in salti spettacolari ed irruenti. Gli ultimi due sono visibili perfettamente dalla base; l’acqua “spara” letteralmente dalla roccia (da qui il nome “schioppo”, che si rinviene anche nei toponimi di altre cascate dell’Aspromonte, abbinato a varie altre denominazioni) formando miliardi di piccole goccioline che, illuminate dal sole, risplendono iridescenti. Non è la prima volta che assisto ad uno spettacolo simile, eppure rimango sempre affascinato dalla forze delle acque prorompono nelle arterie della montagna. La conoscenza vera e profonda della nostra terra comincia da queste gole: viscere di un organismo profondamente complesso, esse svelano molti dei suoi segreti, raccontando una storia vecchia di miliardi di anni. L’obnubilazione della società moderna, l’allontanamento da questi luoghi ormai misconosciuti (quando non completamente ignorati) sono alcune delle principali cause dei problemi che la classe politica tenta di risolvere e che invece, puntualmente, contribuisce ad aggravare. Quanto conosciamo davvero la nostra terra? È la domanda che mi rimbomba in testa mentre risalgo il sentiero per tornare a casa.

6-7 dicembre 2014


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Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte Gennaio 2015

Biodiversità. I regali dell’Aspromonte in tutte le stagioni dell’anno: i posti e i tempi della raccolta

Non “esseri inferiori”, ma

FUNGHI ORDINATI E PREGIATI

Tra le risorse delle nostre foreste ci stanno i prodotti del sottobosco, ad ogni quota, che vanno raccolti nel rispetto delle leggi di montagna, e secondo le indicazioni degli esperti di LEO CRIACO

«

Sono forme di vita intermedia tra il mondo animale e quello vegetale, e sono detti carpofori Si confonde « facilmente con la Clitocybe maxima, che però da adulta ha taglia maggiore

« eI contadini i massari usavano arrostirli sulla brace, conditi con sarmurigliu

Nella foto in alto a sinistra e nella foto in basso la Clitocybe geotropa (nome locale: ordinato). A destra il Leccinum lepidum (nome locale: porcinu i broera). Foto di Leo Criaco

N

ei diversi ambienti del nostro massiccio montano, vivono varie e numerose specie di animali e vegetali. Oltre a questi esseri viventi, a seguito delle piogge e di temperature favorevoli i campi e il sottobosco delle nostre foreste (faggete, pinete, querceti, castagneti, ecc.) si popolano di forme viventi che non appartengono né alla vita animale né a quella vegetale. Questi esseri, chiamati carpofori o funghi, sono, praticamente, forme di vita intermedia tra il mondo animale e quello vegetale, e per questo motivo vengono considerati esseri “inferiori”. Nei nostri territori esistono centinaia di specie fungine che animano e colorano per (quasi) tutto l’anno i vari habitat: dalle quote più basse alle sommità delle montagne. Gran parte di questi funghi sono commestibili, tuttavia solo pochi sono quelli conosciuti e raccolti dal “popolo” dei cercatori. La nascita e la raccolta di questi doni, che madre natura regala, si concentra principalmente nel periodo estivo ed autunnale, e solo poche decine di specie “fruttificano” fuori stagione. Tra il tardo autunno e la fine della primavera, per la gioia dei cercatori esperti, l’Aspromonte, soprattutto il versante orientale, ci delizia con copiose nascite di Pleurotus ferulae (nome locale: fungiu i fellara), Clitocybe geotropa (nome locale: ordinato), Leccinum lepidum (nome locale: porcinu i broera), Leccinum corsicum (nome locale: porcinegliu i famacissi), Morchella (nome locale: trippa i pecura, spugnola), Helvella lacunosa (nome locale:

ALTRE MONTAGNE di Francesco Bevilacqua

cappegliu i previti), e di altri funghi meno noti. La Clitocybe geotropa, prima dell’abbandono delle campagne e dello spopolamento delle zone interne, era la specie più ambita e ricercata dai contadini e dai massari. Questo fungo appartiene al genere Clitocybe (fanno parte di questo genere molte specie commestibili poco conosciute dagli aspromontani). Nasce, nel tardo autunno-inizio inverno, nei prati, in prossimità dei cespuglieti, nelle radure e ai margini o

Lo troviamo riunito in grandi famiglie (fino a sessanta e più esemplari), e forma semicerchi, cerchi e linee rette

nettamente maggiore (il cappello presenta un diametro di circa 30-33 cm) ed è solitamente priva di umbone. La confusione in questo caso non è però dannosa in quanto anche questo fungo è un buon commestibile. Ha il cappello carnoso, da giovane di forma convesso, poi piano, e da adulto diventa imbutiforme con un umbone al centro. Misura fino a 22 cm di diametro ed è di colore paglierino. Il gambo, negli esemplari adulti è molto robusto, ingrossato nella parte basale e lungo circa 15-20 cm. Il colore è lo stesso del cappello.

Ha carne bianca, compatta, molto profumata con sapore dolciastro, leggermente coriacea nel gambo, più tenera nel cappello. È considerato da tutti come un ottimo commestibile, si presta molto bene ad essere conservato: essiccato mantiene, per molto tempo, la sua fragranza. I contadini e i massari usavano consumare l’ordinati arrostiti, sulle brace e conditi con un sarmurigliu preparato con olio d’oliva, aglio e peperoncino sminuzzati, aceto ed origano. Il giorno della macellazione del maiale lo arrostivano frammisto alla carne suina.

poco dentro i boschi di latifoglie, soprattutto lecceti e querceti, e della macchia mediterranea. Alterna annate con copiose nascite con annate di scarsa presenza. Di solito lo troviamo riunito in grandi famiglie (fino a sessanta e più esemplari), raramente con esemplari isolati, e disposto, ordinatamente, in fila indiana, formando spesso cerchi, semicerchi e linee rette. Per questo motivo, in dialetto aspromontano, viene chiamato “ordinato”. Si confonde facilmente con la Clitocybe maxima, che da adulta ha taglia

FIUMARA ASSI, ROVINE CHE PARLANO

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eteo pessimo su quasi tutte le montagne della Calabria. Ma niente nevicate. Solo nuvole e nebbia. Unica possibilità di tempo discreto: sui rilievi del basso versante ionico. Decido. Serre orientali. Alta Valle della Fiumara Assi (comune di Guardavalle). A Pietra di Princi, scendiamo sul greto, guadiamo rocambolescamente e risaliamo sino alla pozza di quella che battezzai, trent’anni fa, Cascata di Pietra Cupa. Ma che, i locali, chiamano Schioppu du Barruaccio. Stento a riconoscerla. Tanto i luoghi sono cambiati. Un anziano mandriano ci parla di Pietra Cupa Vecchia. Le carte IGM ancora portano i nomi dei villaggi:

Zombarella, Salella. Per sentieri attraversiamo le rovine di questi agglomerati di case lillipuziane. Di sassi di granito. Finestre e porte minuscole. Alte su colli. O su pendici terrazzate: le rasule dove si coltivava segale, granturco, patate, noci, ciliegi, castagni, ulivi. Trattenute dalle armacere, i muretti di pietra che cesellano il paesaggio montano delle Serre. I boschi sono grovigli impenetrabili di farnetti, roverelle, lecci. Persino una piccola chiesa, forse di origine bizantina. Qui vissero contadini e pastori fino alle alluvioni degli anni ‘50 e ‘70. Poi furono tradotti altrove. L’Italia del boom economico non poteva permettersi “popolazioni selvagge” sperse nelle montagne. Occorreva modernizzare. Eppure

quella gente aveva vissuto, da sempre, di ciò che la valle le offriva: non ci avrebbero vissuto per secoli se la valle non fosse stata generosa con loro! La storia ufficiale ci dice che fu l’alluvione. I luoghi contraddicono la storia: fu un esodo forzato. Ancora una volta le rovine parlare a chi serba memoria, a chi sa ascoltare.


ntacalabria.it

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inAspromonte Gennaio 2015

Amministrazioni comunali sciolte dalle Prefetture, le province calabresi tra le più colpite d’Italia direttore Francesco Iriti

Reggio Calabria e Vibo Valentia

TERRE DI COMMISSARI

«Così com’è la norma sullo scioglimento degli enti locali non va bene. Bisognerebbe poter azzerare completamente l’apparato burocratico» di FRANCESCO IRITI

«

In molti si chiedono l’utilità degli esperti mandati dal Governo nei non pochi Comuni sciolti Un quadro che « getta fango su un territorio ricco di bellezze, ma sempre bistratto dai media Tali decisioni « sono spesso ribaltate da ricorsi presentati al Tar o da arresti

Nella foto in alto a sinistra Pasquale Sapone, ex sindaco di San Lorenzo. Nella foto a destra Federico Curatola, ex sindaco di Bagaladi

IL PUNTO

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ual é il ruolo delle commissioni prefettizie nei comuni della Calabria? In molti si chiedono circa l’utilità degli esperti mandati dal Governo nazionale per intervenire nelle zone (e non sono poche) in cui “dall’alto” si è agito per sciogliere le amministrazioni comunali. Vari i motivi che hanno portato a queste drastiche decisioni che vedono la nostra Regione mantenere un primato che sembra irraggiungibile. In molti casi l’intervento delle amministrazioni vigenti ha trovato la sua conclusione in seguito ad operazioni delle forze dell’ordine che hanno portato in carcere rappresentanti del governo del paese in questione mentre, molte altre volte, sono state evidenziate “infiltrazioni mafiose” e l’impossibilità da parte dei rappresentanti comunali, scelti dai cittadini in seguito al voto alle urne, di poter continuare il proprio mandato. Non mancano, naturalmente, i casi in cui è venuta meno la maggioranza dei numeri con il conseguente e naturale scioglimento del consiglio comunale. Una situazione, tuttavia, paradossale se si va a comparare quanto accade oggi in Calabria con altre Regioni italiane, dove la situazione e le evidenze del malaffare si sono addentrate nei palazzi governativi. Non è mistero, rapportandosi alla realtà, che il Governo centrale agisca “facilmente” per quanto riguarda i piccoli comuni calabresi mentre, in altre situazioni, attende l’esito delle indagini degli organi competenti come avvenuto recentemente con “Mafia

Capitale” in quel di Roma. Le province di Reggio Calabria e di Vibo Valentia, infatti, rimangono quelle più “colpite” dal fenomeno di scioglimento, e restituiscono un quadro desolante. Un quadro che getta ulteriore fango su un territorio ricco di bellezze, ma sempre bistrattato dai media e dalle decisioni nazionali. Alla luce di tutte queste considerazioni, tante di carattere puramente statistico ma purtroppo veritiero, in molti si saranno fermati a riflettere

L’esempio emblematico ha riguardato l’area grecanica dove, nel 2014, si è registrata l’operazione “Ultima Spiaggia”

per cercare di carpire i motivi che hanno fatto della Calabria terreno di “conquista” per le figure dei commissari prefettizi, chiamati a riportare l’ordine nei territori colpiti dalla scure della ‘ndrangheta. Tuttavia, non sempre quanto ordinato dal Ministero dell’Interno ha rispecchiato la realtà. Infatti tali decisioni sono spesso state ribaltate, a posteriori, da ricorsi presentati al Tar o da operazioni di arresti che hanno sconfessato l’operato del Governo centrale. L’esempio emblematico ha riguardato l’area grecanica dove, sul finire

del 2014, si è registrata l’operazione denominata “Ultima Spiaggia” che ha coinvolto circa un centinaio di soggetti, tra persone finite in carcere e persone indagate. La maggior parte degli arresti ha interessato individui operanti a San Lorenzo e Bagaladi, due piccoli comuni pre-aspromontani in provincia di Reggio Calabria, che contano complessivamente circa 4000 abitanti. Un dato allarmante, come evidenziato anche dal Procuratore capo della Dda di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, durante la conferenza stampa in seguito all’operazione. Una situazione non indifferente che ha visto ancora una volta i cittadini impotenti di fronte allo Stato: dopo gli accertamenti del caso, infatti, è stato appurato che entrambe le amministrazioni comunali non avevano subito infiltrazioni mafiose e che potevano continuare il loro operato in modo trasparente. Recente la sentenza del Tar che ha dato ragione al ricorso presentato dall’allora sindaco Federico Curatola e dalla sua amministrazione di Bagaladi avverso lo scioglimento deciso dal Consiglio dei Ministri nel 2012. Nel frattempo il paese è stato guidato dai commissari fino alla scadenza naturale negando, di fatto, ad un’amministrazione giovane di poter operare per il bene del proprio paese. Nel frattempo si è ritornati alle urne con la vittoria del primo cittadino Monorchio che é stato eletto nei mesi scorsi e che ha preso in mano le redini del Comune. A San Lorenzo, invece, la commissione d’accesso, inviata per svolgere

il proprio lavoro di verifica, non aveva trovato elementi utili per lo scioglimento. Tuttavia, dopo alcuni giorni dalla positiva notizia che arrivava da Roma e che restituiva lustro e dignità al territorio laurentino, arrivavano le dimissioni del sindaco Pasquale Sapone e della maggioranza a seguito di varie vicissitudini interne anche se, in quel fatidico momento, l’ex primo cittadino deteneva ancora la maggioranza dei numeri e rifiutava la ricerca di “ritorno” dei “dissidenti”. Il commissario prefettizio, quindi, dott. Fabio, veniva chiamato a guidare il Comune anche dopo le recenti elezioni dove, però, nonostante i proclami arrivati da più parti, non si presentava alcuna lista di aspiranti amministratori. Spazio, quindi, al prolungamento, ancora in atto, della gestione commissariale. E adesso? É arrivata l’operazione “Ultima Spiaggia” nella quale si attesta il contrario e si comprende come le due amministrazioni, risultate trasparenti secondo le commissioni esaminatrici, avrebbero svolto il proprio compito al servizio dei cittadini nonostante le difficoltà che sono state evidenziate nell’ordinanza. Chi comprende qualcosa? Qual é il ruolo dello Stato in tutto questo? Sicuramente, come sottolineato dallo stesso procuratore aggiunto Nicola Gratteri, «Così com’è la norma sullo scioglimento degli enti locali non va bene. Bisognerebbe avere il potere di azzerare completamente l’apparato burocratico. Se una famiglia di

Bisogna avere il coraggio di ampliare il potere dei commissari o avremo sempre risultati a metà

‘ndrangheta è potente decide anche chi sono i tecnici comunali. Anche se si sostituisce il potere politico, rimane sempre la longa manus della ‘ndrangheta su quel Comune. Bisogna avere il coraggio di ampliare il potere dei commissari altrimenti avremo sempre risultati a metà». Da queste parole, quindi, si desume che si sono resi necessari infiniti scioglimenti di consigli comunali e centinaia di arresti per comprendere come la legge di scioglimento degli enti locali vada riformulata. D’altronde c’è sempre tempo per agire.

TEMPO DI ELEZIONI NELL’AREA GRECANICA

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a prossima primavera molti i Comuni calabresi che saranno chiamati alle urne. La maggior parte, naturalmente, come evidenziato sopra, riguarderà paesi dove si è abbattuta la scure dello scioglimento. Nell’area grecanica, ad esempio, si attendono importanti novità in seguito al voto alle urne nei comuni di Melito Porto Salvo, San Lorenzo e Roccaforte del Greco. Le grandi attese naturalmente riguardano il paese melitese dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose avvenute all’indomani dell’operazione “Ada”, 12 febbraio 2013, che aveva portato dietro le sbarre l’allora sindaco Gesualdo Costantino ed altre 64 persone. Un’operazione, quella condotta dalle forze dell’ordine alla

quale ha fatto seguito “Sipario”, che ha messo in ginocchio il comune di Melito Porto Salvo. Adesso, a distanza di due anni, bisognerà comprendere quali saranno le forze politiche che scenderanno in campo per cercare di ripartire. In primo luogo, un ruolo delicato sarà ricoperto dalla “vecchia” maggioranza che sicuramente non vorrà stare a guardare nelle nuova sfida elettorale e si vorrà rimettere in gioco. Discorso diverso, invece, per gli altri due paesi grecanici. A San Lorenzo l’ultima tornata elettorale è stata annullata in quanto nessuna lista è scesa in campo. Fino all’ultimo si aspettava la presentazione di una seconda lista che avrebbe sfidato la coalizione guidata da Floccari, ex

vicesindaco. Tuttavia, non arrivò la fumata bianca e non si fece niente anche in virtù dell’impossibilità di raggiungere il quorum. San Lorenzo, infatti, è rappresentato da moltissime persone aventi diritto al voto che vivono in altri luoghi. Stesso discorso vale per Roccaforte del Greco dove, nelle ultime due occasioni utili per eleggere un nuovo consiglio comunale, si è presentata sempre una sola lista (diversa) che, però, non ha raggiunto il quorum. Se nel 2013 la lista Roccaforte Rinasci, con Minnella candidato a sindaco, aveva raggiunto il minimo storico, nel 2014 la lista To Vunì capeggiata da Mimmo Penna si era fermata quasi vicino all’arrivo, non conquistando gli scranni comunali per appena sei voti.


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Santi e briganti

inAspromonte Gennaio 2015

Ferruzzano. La storica riunione per fermare l’abigeato, con i rappresentanti delle ‘ndrine del reggino

I FATTI DEL PRATO, OGGI

«Rubare gli animali era un mezzo di finanziamento necessario per sostenere le spese della “società”. Serviva anche per castigare i “contrasti”, acquisire consensi, ricattare le comunità»

Il Prato di Ferruzzano. Foto di Carmine Verduci

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di ROCCO PALAMARA

I due sventurati vennero la là processati e condannati a l’utri cu la fossa: una delle pene di morte prevista dai codici (della ‘ndrangheta) ma raramente applicata e che consisteva nel fatto che fosse lo stesso condannato a doversi scavare la fossa prima di essere giustiziato

uasi nessuno di quelli che scrivono di ‘ndrangheta lo dice, ma ci fu un periodo in cui (dalla fine della guerra fino a metà degli anni ‘60) la maggior parte degli ‘ndranghetisti erano comunisti; o meglio, dovevano parteggiare per il Partito comunista italiano, in ottemperanza a un “proscritto” emanato dal Crimine di San Luca, quando il capocrimine era ‘Ntoni Chiappaluni di Seminara. E fu nell’ambito di quella straordinaria stagione comunista della ‘ndrangheta che dal Crimine di San Luca si produsse una particolare iniziativa che può sembrare persino incredibile per una associazione con siffatto nome; ma che è realmente avvenuta e passata “per nominata” come u fattu du pratu. Il Prato è una località ai piedi di monte Scapparrone nelle campagne di Ferruzzano, a sei o sette chilometri dal mare e a tre ore di cammino da Casalinuovo dall’altra parte della montagna. Succedeva in quegli anni dell’imme-

STRALCI di Saverio Strati

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Furti di bestiame Le mandrie venivano nottetempo avviate dall’altra parte della montagna attraverso i passi, oppure condotte fino alle strade carrabili e lì caricate sui camion diato dopoguerra che i furti di bestiame si moltiplicavano generando insicurezza e non poco allarme sociale. Le bestie, di qua e di là dell’Aspromonte, sparivano dalle stalle e dai pascoli per finire - se singoli capi - nella pancia di famiglie affamate oppure in mangiate sociali tra malandrini. Le mandrie, invece, venivano nottetempo avviate dall’altra parte della montagna attraverso i passi, oppure condotte fino alle strade carrabili da dove, caricate sui camion, finivano nelle buccerie e

persino nelle fiere dalle parti di Rosarno o di Reggio, se razziate nella jonica, o viceversa se rubate dall’altra parte. Per i poveri derubati il riaverli indietro era una improbabile eventualità. C’è da dire che il furto di bestiame era uno dei due fulcri in cui si muoveva il potere malandrino (l’altro era “l’onore”). Rubare gli animali era un mezzo di finanziamento quasi necessario per sostenere le spese della “società”. Serviva poi per castigare i cosiddetti “contrasti”, mentre lo stesso non rubarli a taluni, oppure restituirli in parte, serviva ad acquisire consensi e ricattare le comunità. Ma quel ruba ruba generalizzato sfuggiva a ogni controllo e strategia di potere mentre, anche quando non c’entravano, erano i soliti ‘ndranghetisti che a ogni occasione dovevano vedersela con i carabinieri. Divenuto troppo alto il prezzo da pagare, da più parti dello stesso mondo ‘ndranghetista, si levò la parola “basta” e la necessità di troncare con l’abigeato. Il buon proposito fu certo per una questione di opportunità, ma anche di coscienza per i tanti ‘ndranghetisti onesti che allora c’erano, credendo magari alla favoletta dei tre mitici cavalieri spagnoli venuti “per difendere i deboli e gli indifesi e liberare l’umanità dalle ingiustizie e dalla tirannide”. Per tutti questi motivi (e forse altri ancora) una determinata notte, al Prato di Ferruzzano, convennero i delegati di tutte le ‘ndrine per una riunione straordinaria e risolutiva della questione. Della montagna e dalla marina, ogni locale mandò i suoi rappresentanti così che dai vari paesi qualche centinaio di uomini si misero in viaggio con i più svariati mezzi e, in maggioranza, a piedi con marce anche di parecchie ore per le vie meno trafficate. Giunti nel posto indicato trovarono, come d’uso, i picciotti di giornata addetti a fornire le indicazioni sul punto preciso (poco più lontano) della riunione dove altri picciotti con licenza di perquisire (ma con una sola mano) presero in consegna le armi che ogniuno era tenuto a portare. Più avanti ancora i convenuti presero posizione secondo ordine e grado nel grande cerchio a forma di ferro di cavallo, tutti conformi a circolo formato. Dopo le frasi di rito per la consacrazione del locale, l’assemblea venne aperta dal Presidente con quell’ordine del giorno (o - meglio - della notte) sulla questione dell’abigeato. Aperta la discussione gli oratori di turno, diligentemente disciplinati dal Presidente, fecero ognuno le loro lagnanze o considerazioni.

Allora i convenuti, tanti dei quali avevano rubato e fatto rubare essi stessi, si cimentarono nella discussione che andò avanti con i rinfacciamenti reciproci e tensioni. Ognuno attinse e sfoggiò quanto più poté della politica e la falsa politica acquisita nella scuola ‘ndranghetista. I più dotati di bella favella e gli uomini di pace fecero l’impossibile per calmare gli animi e scongiurare le rotture finché - intervento dopo intervento - le attenzioni si concentrarono su due tra i presenti: quelli che più degli altri si erano distinti nel rubare, commissionare i furti e intermediare nel malaffare. Finalmente, su questi massimamente esposti venne agevole caricarli delle colpe di tutti, trovando negli stessi un punto di concordia e anche i necessari capri espiatori per l’autoassoluzione collettiva. Il punto fermo era che il rubare era illecito e che bisognava marcare il segno. Una svolta tanto controversa bisognava sancirla con un nuovo patto e - come ogni patto antico - con un sacrificio… umano (!) date usanze e circostanze. I due sventurati vennero la là processati e condannati a l’utri cu la fossa: una delle pene di morte prevista dai codici (della ‘ndrangheta) ma raramente applicata e che consisteva nel fatto che fosse lo stesso condannato a doversi scavare la fossa prima di essere giustiziato. Due i condannati, due furono le fosse scavate nello scuro della notte e del cuore dai morituri che terminata l’estrema incombenza là vennero abbattuti e sotterrati. Data la repentinità della circostanza

Il Tribunale d’umiltà L’intera ‘ndrangheta fu il loro tribunale; i rappresentanti di tutti i locali i loro giudici, e la cupa sagoma di monte Scapparone il grande testimone i due del Prato non ebbero un regolare processo di ‘ndrangheta secondo le usanze del tempo, ovvero tramite l’apposito Tribunale d’umiltà con tanto di Sorella d’umiltà e avvocato (sempre “d’umiltà”) a mitigare la sentenza. L’intera ‘ndrangheta fu il loro tribunale; i rappresentanti di tutti i locali i loro giudici, e la cupa sagoma di monte Scapparone il grande testimone dell’incredibile notte. Nella via del ritorno ognuno si sentì più giusto e più “omo”.

DAL LIBRO “NOVELLE DI CALABRIA”: IL GUAPPO

e cose che qui racconto successero quand’io avevo dieci anni; ma spesso mi tornano alla mente ed è come se fossero successe ieri. «Piegati al lavoro. Non puoi, non devi vivere da ladro. Non ti vorrò vedere a casa mia, se continui a rubare. Tuo padre era un uomo onesto. Da chi hai preso tu? Qualche volta ti scopriranno, mentre rubi e ti ammazzeranno. Oh sarebbe meglio che tu morissi di un attacco al cuore, anziché per ladronerie!» gli predicava la madre. Ma Peppantoni era sordo. Quando aveva in programma di fare la sua scappata, s’incamminava per la montagna in cerca di capre. Conosceva le viottole intricate dei costoni irti dei boschi come noi conosciamo le strade della città; e camminava svelto, anche al buio, come in pieno giorno. Arrivato allo stazzo che aveva in mente, buttava del pane ai cani che

smettevano di abbaiare, e lesto saltava come un lupo in mezzo alle capre. Ne afferrava la prima che gli cadeva tra le mani, la sbatteva a terra con un gesto di mestiere, le masticava la gola, perché non belasse, se la caricava sulle spalle e via di corsa. Nella notte stessa la vendeva per poche lire a certi suoi amici macellai di un paese vicino. [...] Scesa la notte, i pastori ci andarono e si nascosero dietro i tronchi degli alberi. Il “mastro” non tardò a farsi vivo. Camminava fiutando l’aria come un lupo. I cani scoppiarono ad abbaiare con furia e le capre s’innervosirono. Peppantoni buttò dei pezzi di pane ai cani che subito si chetarono. Nella capannaccia di frasche c’era il figlio di Giampaolo che dormiva tranquillamente. Peppantoni, sicuro di avere le mani libere, aprì il cancelletto dello stazzo e fece uscire buona parte delle capre che animarono la notte con

i loro campani. Giampaolo saltò dal nascondiglio con la scure in mano e dietro di lui c’erano tutti gli altri pastori che gridavano come selvaggi. Peppantoni non si perse d’animo, si diede alla fuga, e dietro a lui c’erano tutti, perfino i cani. Ci fu una corsa lunga e affannosa per quei costoni. Ci furono fischi acuti e gridi: di qua, di là, di sopra, di sotto. Riuscirono ad accerchiarlo, il ladro, che smarrito si rifugiò in cima a una quercia. A furia di sassate, i pastori lo costrinsero a scendere. Gli furono addosso tutti a una volta come vespe eccitate. «Pagherai vecchie e nuove!» urlarono. Peppantoni da quel ladro che era, tremava. Giampaolo ordinò: «Spogliatelo e legatelo alla quercia». «Ammazziamolo, invece. Non lasciamoci vivere la gramigna tra i piedi» dissero i pastori tutti a una volta, e sempre più eccitati. «Perchè imbrattarci le mani del

suo sangue, amici. Spogliatelo e legatelo alla quercia». Di Giampaolo avevano tutti rispetto. Gli obbedirono. «Quante capre ha rubato a te?» domandò Giampaolo ad un pastore. «Dieci» «Assestagli dieci vergate». [...] La madre di Peppantoni si tappò in casa e per più di una settimana non ebbe il coraggio di mettere fuori il naso: ma in cuor suo era contenta, in quanto le sorse la speranza che il figlio, dopo un simile spettacolo, avrebbe cambiato vita. [...] Dalle capre passò a sequestrare, insieme ad altri ceffi, cristiani. Divenne ricco, potente e temuto soprattutto da coloro che lo avevano consegnato alla legge. Ma il troppo storpia, e Dio non paga la sera del sabato, secondo la saggezza popolare. Ho letto ieri sul giornale che è rimasto secco insieme a un suo figlio di 18 anni in un agguato tesogli non si sa da chi.


Santi e briganti

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Il brigantaggio in Calabria, dalle origini all’Unità d’Italia. Come e quando nasce il termine “brigante”

SEDIZIOSO O BRIGAND?

«Una ricerca sul sito web dell’Accademia della Crusca conferma che l’etimo è presente sin dalla prima edizione del 1621 e, puntigliosamente, ne elenca tutti i significati assunti nel tempo»

di PINO MACRÍ

Secondo il foglio pontificio il brigantaggio nel Regno di Napoli non è mai esistito, se non come “reazione” alle invasioni straniere (francese, prima, e “piemontese”, poi), e i “pochi” casi di criminalità manifestatisi durante il “legittimo” regno dei Borbone furono del tutto isolati. In questa visione era addirittura da ritenersi un fenomeno patriottico. Come si vedrà fra poco, si tratta soltanto di una volgare invenzione

L’

Unità d’Italia, come noto, non fu certamente esente da errori e forzature, e le narrazioni che la accompagnarono spesso non furono neanch’esse esenti da alcune mistificazioni, spesso dettate da ingenuità e fretta di chiudere un doloroso periodo storico. Da decenni la storiografia seria è duramente impegnata nella ricostruzione basata sulle verità documentali, che possono piacere o non piacere, ma sono l’unica via per fare pienamente luce sul periodo che, appunto, ha riportato all’unità una terra che per secoli è stata spettatrice passiva di depredazioni, crudeltà, saccheggi e, soprattutto, privazioni di libertà, anche delle più elementari. Da qualche decennio a questa parte, però, si è fatta strada una corrente di pensiero, eufemisticamente definibile “revisionista”, che ha operato, ed opera tuttora, ricostruzioni spesso al limite del fantasioso, basate su riletture largamente parziali delle risorse documentali via via emerse dagli archivi. Uno degli esempi più maldestri e fuorvianti riguarda la definizione della vera natura del cosiddetto bri-

gantaggio, fenomeno che imperversò in ogni epoca in tutta Italia, ma che negli anni post-unitari finì col concentrarsi nel solo Meridione. Probabilmente, la prima sterzata deviante dalle evidenze documentali, quella da cui, cioè, discendono molte delle impostazioni dei neo-revisionisti odierni, è individuabile nella posizione tenuta dalla rivista la Civiltà cattolica, organo più o meno ufficiale dello Stato Pontificio al tempo di Pio IX, il Papa-Re. In una querelle con Bianco di SaintJoriotz, autore di una peraltro discutibile opera sulle origini del brigantaggio, infatti, l’anonimo estensore della feroce critica al Bianco arrivò ad asserire che “esso [il brigantaggio] sorse a quei tempi [durante il Decennio Francese, dal 1806 al 1815, ndr] contro l’invasione francese, quando appunto la Dinastia [dei Borbone, ndr] fu costretta ad esulare, e cessò col ritorno della medesima. […] Ora, in sì lunga durata di possesso dei legittimi principi, qual esempio di brigantaggio può allegarsi? Se alcun malvivente per isfuggire al supplizio, come accade in tutti i paesi di questo mondo, si diede alla campagna, ciò non costituì che un fatto isolato, a terminare il quale in brevissimo spazio bastò la solerzia dei carabinieri e delle guardie urbane”. In sostanza, secondo il foglio pontificio (e questa è tuttora, guarda caso, la medesima visione di molti degli storici neo-revisionisti) il brigantag-

Le carte e le leggende La storiografia seria è duramente impegnata nella ricostruzione basata sulle verità documentali che, piaccia o non piaccia, sono l’unica via gio nel Regno di Napoli non è mai esistito, se non come “reazione” alle invasioni straniere (francese, prima, e “piemontese”, poi), e i “pochi” casi di criminalità manifestatisi durante il “legittimo” regno dei Borbone furono del tutto isolati, di pochissima rilevanza e immediatamente risolti con il tempestivo intervento delle forze dell’ordine. In questa visione, pertanto, il brigantaggio, in quanto reazione ad un’invasione straniera, era da ritenersi un fenomeno patriottico, e, per conseguenza, i suoi protagonisti devono essere innalzati al rango di Eroi. Per sostanziare ulteriormente, poi, questa impostazione così clamorosamente di parte, gli stessi odierni fans

hanno ormai da tempo messo in giro una delle (tante) mezze-verità, forse con la speranza che, a forza di parlarne, si trasformasse da sola in piena-verità. Si tratta, cioè, della ineffabile affermazione secondo cui, addirittura, la stessa parola “brigante” nemmeno esistesse nel vocabolario italiano, e, quindi, la sua introduzione si deve ai francesi, che tradussero in italiano il loro etimo “brigand”. Come si vedrà fra poco, si tratta soltanto di una volgare invenzione, che, purtroppo, ha coinvolto anche qualche nome di grido al di fuori dalla cerchia dei neo-revisionisti (fra gli altri G. B. Guerri, l’autore de Il sangue del Sud), forse distrattamente alla ricerca più del successo editoriale che della verità documentale e documentata. In questa breve storia del brigantaggio in Calabria si cercherà di dar voce esclusivamente ai documenti, per smentire o confermare, di volta in volta, alcune leggende messe in circolazione talvolta dalla vecchia e paludata storiografia risorgimentale, e molto più spesso da quella rampante e disinvolta dei neo-revisionisti. A cominciare, appunto, da quella riguardante l’origine vera della parola “brigante”. Se, infatti, è certamente vero che in tutta la produzione legislativa borbonica l’etimo non è mai utilizzato, al contrario di quanto avvenne per quella francese del Decennio, ciò non è segno alcuno che lo stesso etimo prima non esistesse. Per farsene convincimento, dovrebbe poter bastare il far ricorso alla “Bibbia” della lingua italiana, cioè al Vocabolario degli Accademici della Crusca, di cui, ad oggi, si contano cinque diverse edizioni: 1612, 1623, 1691, 1729-38 e 1863-1923. Cioè, ben quattro edizioni antecedenti al 1806, ed una successiva. Orbene, una semplice ricerca sul sito web dell’Accademia, porta a vedere che l’etimo “brigante” è presente sin dalla prima edizione del 1621. “Ma” - ribatte l’irriducibile scettico, che “come ogni buon generale non si arrende mai, nemmeno di fronte all’evidenza” - se ciò è anche vero, lo è perché anticamente la parola non aveva lo stesso significato, valendo per un innocuo “colui che briga, che si industria, che si dà da fare”, giusta la prima interpretazione della parola latina da cui deriva (brigare). Non è però dello stesso avviso il Vocabolario della Crusca, che puntigliosamente elenca tutti i significati assunti nel tempo dalla parola: 1) nella 1ª edizione (1612): da briga, lite. vale eziandio sedizioso, che cerca brighe, cui aggiunge il sinonimo “sgherro”: Brigante, che fa del

bravo, che anche diremmo tagliacantoni, mangiaferro; 2) nella 3ª edizione (1691, nella 2ª è invariato), vengono aggiunte sia la variante “benevola” (“Era questo Frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso, lieto nel viso, ed il miglior brigante del mondo”, ripreso dal Boccaccio), sia altre più “cruente” (“Fu detto, ch’era indemoniato, e sammaritano, cioè senza legge, e che era bevitore, e brigante, e bestemmiatore”, da Cavalcanti, e “Fece pigliare Paolo di Francesco del Manzecca, orrevol popolano di porta San Piero, tutto fosse brigante”, da G. Villani); 3) Nella 4ª (1729-38), addirittura, se ne specifica la particolare e precisa corrispondenza: “[sta] Per Sedizioso, Perturbatore dello stato. Lat. seditiosus. Gr. Στασιώδης”. Naturalmente, il Vocabolario della Crusca è solamente un custode e passivo testimone dell’evoluzione della lingua, ed è comunque costretto alla sintesi, non potendo registrare tutte le ricorrenze esistenti. Cionondimeno, una ulteriore ricerca ha portato lo scrivente a reperire un “lo sequente die curze li campi de Roma, co li sui arcieri, e briganti, e lo vestiame menava” (da Vita di Cola di Rienzo, Bracciano, 1624); oppure un “Aveva Antea menati due Giganti/ ch’eran venuti del mare della rena/ che non si vide mai maggior briganti/ dodici braccia lunga era la schiena” (dal Morgante Maggiore, di M. Pulci, 1450 circa, ma

Vita di Cola di Rienzo Una ulteriore ricerca ha portato lo scrivente a reperire un: “Lo sequente die curze li campi de Roma, co li sui arcieri, e briganti, e lo vestiame menava” qui nell’edizione del 1778), o, infine, un “fecero finalmente a suggestione dei briganti, che non avean che perdere, aperta ribellione” (da Annali della Città dell’Aquila, di B. Cirillo, Roma, 1570). L’elenco potrebbe anche continuare, ad esempio, con l’enumerazione, addirittura, di parole derivate da “brigante”, presenti in idiomi esteri (Bergante in spagnolo antico) e col medesimo significato che oggi ad essa si attribuisce, ma ci sembra che, al momento, possa ritenersi quanto sin qui esposto bastevole a convincere anche gli “irriducibili” di cui prima si diceva, rimandando alle prossime puntate la storia vera e propria del brigantaggio in Calabria.


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La nostra storia

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CASALNUOVO, UN COMUNE A

Un paese con una storia avvincente, dipanatasi parallela a quella di Africo, mai, però, confondend mediaticamente oscurata. Una divisione che si estendeva dal campo linguistico a quello ecclesiale di BRUNO PALAMARA

«

Un legame tra loro era proprio difficile da immaginare, perché antitetici in tutto Avevano due « patroni diversi: S. Leo per gli africoti, S. Salvatore per i tignanisi Non ci si può « fare a meno di chiedere come si potesse vivere in luoghi così isolati

Nella foto in alto Casalnuovo di Africo. Foto di Enzo Penna. Sopra una rappresentazione del SS Salvatore

C

asalnuovo d’Africo è un paese poco conosciuto, o per niente conosciuto, se non fra gli addetti ai lavori, seminascosto o, meglio, oscurato da quello che per un secolo e mezzo è stato il suo capoluogo, Africo, di cui, invece, l’opinione pubblica, non solo locale, ha conoscenza e memoria approfondita. Conoscere Africo, però, significa conoscere anche, e necessariamente, l’altra metà del suo cielo, una metà chiamata Casalnuovo d’Africo. Un paese andato perduto, distrutto da un destino crudele e da una natura matrigna; grande, però, sarà la nostra colpa se non ci adopereremo affinchè non cada nell’oblio più misero la memoria di un paese di così lunga durata.

CASALNUOVO, a dispetto della mancata notorietà, ha una sua autonoma storia multisecolare, essendo la sua nascita datata subito dopo l’anno Mille. Una storia avvincente, dipanatasi parallela a quella di Africo, mai, però, confondendosi con quest’ultima, anche se mediaticamente da essa oscurata. Questo grossolano errore avviene perchè non si ha consapevolezza che Africo non è costituito da una sola entità, ma è l’insieme di due gruppi etnici, che hanno avuto ognuno una propria origine, hanno sviluppato ognuno una propria storia, hanno vissuto ognuno un proprio “mondo”, se si esclude l’ultimo cinquantennio che li ha visti vivere insieme ad Africo nuovo. La frazione, generalmente, rappresenta sempre una “costola” del paese capoluogo, una sua derivazione, è, cioè, una parte di popolazione che si distacca dal nucleo centrale, per andare a vivere in un sito non molto lontano all’interno dello stesso comune, mantenendo tutte le caratteristiche di quel nucleo. Casalnuovo non è stato mai una “costola” di Africo, avendo avuto una sua origine autonoma. Fino al 1815, anno in cui la longa manus statale accomunò questi due mondi così lontani tra loro, portando Casalnuovo, che fino ad allora era “terra” di Bruzzano, sotto la giurisdizione di Africo con la qualifica di frazione, nessun legame riuscì mai a tenere uniti i due paesi. E, in effetti, un legame tra loro era proprio difficile da ottenere, proprio perchè di per sé differenti e antitetici in tutto. Separati in linea d’aria da una distanza di qualche chilometro, posizionati su due rilievi contrapposti che s’intravedevano da lontano, i due paesi hanno sempre vissuto in cagnesco tra di loro, come guelfi e ghibellini di memoria fiorentina. La loro divisione si estendeva anche, e perfino, nel campo ecclesiale, perché, pur appartenendo allo stesso territorio, capoluogo e frazione detenevano, forse caso unico in Italia, due parrocchie diverse, facenti parte di due Diocesi differenti. Casalnuovo, infatti, era titolare della

“parrocchia San Salvatore”, appartenente alla Diocesi di Locri-Gerace, Africo deteneva la “parrocchia di San Francesco”, ricadente sotto la giurisdizione della Diocesi di Bova. E, NATURALMENTE, avevano anche due patroni diversi: San Leo era il santo protettore degli “africoti”, San Salvatore era il santo patrono dei “tignanisi”. E ognuno dei due centri aspromontani celebrava al meglio il proprio Santo con una festa patronale in cui ciascuno cercava di superare l’altro. Anche il linguaggio testimonia la diversità d’origine e di etnia, palesando un dualismo linguistico, la cosiddetta “sinecia linguistica”, che è ancora attuale, pur dopo più di mezzo secolo di coabitazione nello stesso paese di Africo nuovo. Ci riferiamo, per fare un esempio, alla pronuncia di kiddu e kil’l’u, ben riconoscibile quando si ha l’occasione di ascoltare gli africesi.

Africo fu il paese rivale, l’antagonista con il quale si confronterà fino alla distruzione di entrambi, durante l’alluvione del 1951

E chi per la prima volta visita i posti dove si è dipanata la storia dei due paesi non può fare a meno di chiedersi come si potesse vivere in luoghi così difficilmente raggiungibili, praticamente isolati dal resto del mondo. Le prime sconcertanti immagini di questa amara realtà di Africo e di Casalnuovo furono quelle regalate al mondo dagli scatti del fotografo Tino Petrelli, pubblicate su L’Europeo nel 1948, fotogrammi e scorci di una vita vissuta al limite del verosimile, una vita di sofferenze e di duro lavoro, di sacrifici e di tremende avversità, una vita per molti versi oggi inimmaginabile. Non è che gli altri paesi del circondario vivessero meglio, più o meno avevano la sua stessa misera condizione di vita, ma il tutto a Casalnuovo, come ad Africo stesso, era esasperato da quella loro sfortunata collocazione che ha portato gli abitanti a vivere tra boschi e montagne, in un posto difficilmente raggiungibile. E, allora, ci si domanda perché questa gente sia andata a costruire il proprio paese su una rupe, alla destra del torrente Aposcipo, a 737 metri sul livello del mare, lontano più di quindici chilometri da Bova e così vicino ad Africo, pur es-

sendo così distante e diverso per modo di essere e di pensare. PER COSTANTINO Romeo “una squadra di pastori fondò molti secoli fa vicino ad Africo un paesello di nome Tignano, anzi gli anziani dicevano che combatterono contro gli arabi”. Dal nome Tignano nacque, secondo il Romeo, il termine tignanisi, appellativo che ancora oggi si usa ad Africo per indicare gli abitanti provenienti da Casalnuovo. Noi siamo, invece, convinti che Casalnuovo sia nato al tempo delle incursioni saracene e abbia avuto la stessa origine degli altri casali di Bruzzano, quali Motticella, un tempo chiamato Motta Bruzzano, e Ferruzzano, tutti sorti dal tentativo di sfuggire all’incubo rappresentato dai saraceni che, dopo aver invaso le spiagge di Capo Bruzzano, costruirono il proprio accampamento presso Bruzzano. Una parte di questa popolazione cercò luoghi più riparati e sicuri e, così, oltrepassò il monte Scapparrone, andando a costruire un nuovo paese, proprio Casalnuovo, per qualche tempo chiamato anche “Il Salvatore”. Non si sa, però, per quale motivo essa sia andata a posizionarsi così vicino ad Africo, pur non avendo con esso alcun tipo di legame. Tutto è nato in modo casuale, forse gli abitanti si saranno accorti solo in seguito della sua inopportunità e, probabilmente, se ne saranno anche pentiti di essere andati a costruire un nuovo paese proprio lì a due-tre chilometri d’aria dal punto dove sorgeva già da tempo Africo, che diventerà nel tempo il paese-rivale, l’antagonista con il quale Casalnuovo si confronterà continuamente fino alla distruzione di entrambi con la tragica alluvione dell’ottobre 1951. Dell’esistenza di Casalnuovo si ha notizia sin dal XIII secolo, come ci informano le “Disposizioni” di Federico II, emanate a Capua (1220) e riconfermate a Melfi (1231) con le quali si disponeva, tra l’altro, che alla riparazione del castello di Seminara doveva provvedere anche la popolazione di Bruzzano e dei suoi casali Motticella, San Salvatore (Casalnuovo), Precacore, Ferruzzano. Casalnuovo, come gli altri casali, segue, quindi, le sorti di Bruzzano, centro che ha avuto un’importanza strategica sin dalla metà del secolo XIII, quando era baronia degli Appard, per passare poi nel corso dei secoli ai Rufo, agli Stayti e ai Carafa, principi di Roccella, che nel 1621 ebbero il titolo di duchi di Bruzzano, tenendolo fino all’eversione della feudalità, avvenuta nel 1806. Noi non descriveremo qui tutta la storia di Casalnuovo, l’abbiamo già raccontata. Ci permettiamo solamente di citare alcuni episodi o fatti che possono rappresentare i tratti distintivi di questo antico popolo, sottolineando che Casalnuovo si è sempre caratterizzato nella difesa del proprio territorio con atti e comportamenti degni di nota.

TRA IL 1545 E IL 1565 la terra di Bruzzano è stata oggetto di continui attacchi di saraceni, favoriti dal facile approdo rappresentato da Capo Bruzzano. Anche Casalnuovo ne patì. I saraceni, nelle loro continue scorribande, penetrarono fin anche in quel suo impervio territorio, ma trovarono davanti a loro una strenua difesa da parte dei casalinoviti, decisi a preservare con i denti il proprio paese. Favoriti dalla conformazione del terreno “accolsero” quelle bande musulmane presso una delle tante contrade, dove, facendo rotolare dei massi, misero in fuga i pericolosi avversari, molti dei quali furono catturati e impiccati. Ecco il motivo per cui quella contrada venne, in seguito, in ricordo di questa importante vittoria, chiamata Furchi. Un’accalorata filastrocca la ricorda ancora: “All’armi, all’armi, la campana sona//li turchi so’ rivati a la marina!”. Nel corso dei secoli molti autori hanno trattato di Casalnuovo. Giovanni Fiore da

Strati vi ha ambientato un suo romanzo, immortalando Betta, la “marchesina”, che in realtà si chiamava Vittoria Palamara

Cropani in Della Calabria illustrata conferma la sua esistenza già nell’anno 1328; A. Oppedisano parla della costruzione nel 1629 della Chiesa SS. Salvatore, eretta prima ad oratorio, poi con la bolla del vescovo Barisani del 4 dicembre 1798 elevata a chiesa parrocchiale; G. Vivenzio ricorda che il devastante terremoto del 1783, che colpisce la zona ionica aspromontana, fa a Casalnuovo notevoli danni: muoiono sei persone e i danni ammontano a più di settantamila ducati; Lorenzo Giustiniani nel 1797 informa che il paese era abitato da circa 600 persone, tutte addette all’agricoltura e alla pastorizia, in un periodo in cui dominava la famiglia Carafa, de’ principi di Roccella: Casalnuovo è ricordato anche e soprattutto come uno dei pochi centri in cui era fiorente la coltivazione del baco da seta. Nel 1807 Casalnuovo si distingue per un atto di altruismo nei confronti di Africo: in un periodo storico in cui il proprio paese appartiene ancora alla terra di Bruzzano, i casalinoviti portano un valido e decisivo aiuto ai vicini africesi, impegnati nella difesa del proprio territorio, occupato e messo a saccheggio da due compagnie di volteggiatori francesi che sono costrette ad una veloce e sanguinosa riti-


La nostra storia

UN NON-LUOGO

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Luciano Nocera. L’usignolo che mai nessuno potè ingabbiare

sulla costa jonica

I grandi conflitti, le tensioni, i fatti gravi che conosce il paese in quel periodo meritano di essere ripensati con maggiore pacatezza, adesso che le passioni e gli interessi che l’hanno animato si sono attenuati, adesso che molti anni sono passati. La storia di Africo nuovo è una storia da conoscere e da scrivere. Senza enfasi e senza rimozioni. Non per emettere condanne o generici giudizi, ma per meglio orientarsi nel presente. Comunque sia, con gli anni Sessanta cessava definitivamente Africo vecchio (ancora qualche famiglia resta ad Africo e a Casalnuovo), moriva un antico paese e ne nasceva uno nuovo, in forme e in territori imprevedibili. Se la morte di Africo vecchio era stata in qualche modo annunciata, la nascita di Africo nuovo non era lontanamente immaginabile nei termini in cui si è verificata. Il nuovo abitato, pur precario e incompiuto, con i caratteri di un nonluogo, ha sempre rilevato l’aspirazione a diventare un luogo, a trovare un’anima. La ricerca dell’identità passa attraverso il riconoscimento dell’ombra e l’assunzione dell’ombra”. da Il senso dei luoghi di Vito Teti

AUTONOMO

dosi con quest’ultima, anche se da essa e, e che divide ancora oggi i due popoli rata. É l’abolizione del regime feudale, avvenuta nel 1806, che porta ad unificare i destini di Africo e Casalnuovo. Infatti, è in questo periodo che il regime napoleonico in Italia si dà nuove regole burocratiche, facendo così nascere i comuni. Casalnuovo viene staccato dalla terra di Bruzzano e aggregato, senza la sua volontà, a partire dal 1815, come frazione al comune di Africo. In verità, c’è un disperato tentativo da parte di Casalnuovo di opporsi a tale decisione, facendo intervenire nel 1830, come ci ricorda A. Oppedisano, il Vescovo di Gerace, al fine di far elevare Casalnuovo a comune autonomo: la richiesta non viene, però, accolta perché la popolazione della frazione non superava le mille anime. I TERREMOTI DEL 1905 e del 1908 danneggiano gravemente Casalnuovo. Anche la chiesa di San Salvatore subisce danni irreparabili e sarà rifatta a spese dello Stato. Di Casalnuovo si è interessato anche Saverio Strati che, prima di intraprendere la carriera di scrittore, ha lavorato come giovane muratore presso Africo e Casalnuovo. E proprio a Casalnuovo ha ambientato il suo primo romanzo, La Marchesina, dove descrive l’ambiente del tempo (seconda metà degli anni Trenta), rendendo immortali alcuni personaggi come Betta, la “marchesina” che, in realtà, si chiamava Vittoria Palamara, una donna energica che sapeva gestire insieme al marito la piccola bottega paesana, a putigha di una volta, e che si faceva rispettare a dovere in un ambiente chiuso e maschilista come era quello di allora, o come “don Giannandria”, il macellaio che, pur cieco per un incidente, riusciva a sgozzare le capre, a vendere la carne e a contare i soldi, a camminare solo per le strade e salutare, riconoscendo le persone dal contatto o solo dalla vicinanza. In sostanza, “vedeva” meglio lui di chi gli occhi ce li aveva e non andava oltre il palmo della propria mano. Come per Africo, anche per Casalnuovo è l’alluvione dell’ottobre del 1951 il

punto nevralgico della sua storia: e proprio in questa occasione il destino è sembrato volersi fare beffa di questo paese. É il 5 agosto 1951: la gente è riunita in piazza ad accogliere, festosa, l’arrivo trionfale della prima corriera che giunge a Casalnuovo, inaugurando una strada, simbolo di un progresso che stava raggiungendo anche questa località. É il segnale che anche Casalnuovo è finalmente collegato col mondo, ignaro del destino avverso che solo tre mesi dopo (15 ottobre) scatenerà i suoi fulmini, cancellandolo dalla geografia del territorio. SONO PIÙ NOTE le vicende che interessano l’alluvione e il lungo esodo di Casalnuovo verso la definitiva sistemazione del paese. Una diaspora durata quasi dieci anni, trascorsi quasi interamente nel centro-profughi del “seminario” di Bova marina, periodo in cui il popolo “casalinovita” ha lottato tenacemente per la conservazione della propria dignità e della propria autonomia etnica e che ha trovato finale collocazione nei pressi di Capo Bruzzano, proprio vicino alla foce del fiume La Verde, il fiume che con l’Aposcipo - la fiumara di Africo nasce nel territorio dove si è dipanata per una decina di secoli la storia di questi due amati e amabili paesi. É come se il destino avesse imposto la sua legge a Casalnuovo e ad Africo, costruendo un cordone ombelicale tra passato e futuro: dieci secoli di storia nei posti dove nasce il fiume La Verde, il resto della storia dei due centri, riuniti per sempre in un unico paese, Africo nuovo, nei luoghi dove conclude il suo corso. Oggi di Casalnuovo, come di Africo, si possono rinvenire solo ruderi, resti di un passato che però non deve scomparire. Il nostro è solo l’impegno di chi cerca di recuperare il ricco patrimonio di valori che ci ha trasmesso questo popolo: lo dobbiamo soprattutto a quanti, per questi valori, hanno vissuto e combattuto con costanza e amore. Noi ci proviamo, qualcun altro sicuramente ci seguirà!

Il postino-poeta di Motticella di Bruzzano Zeffirio «Lui, meglio di tanti, ha descritto la vita e la morte di quel Motticella. Foto di Carmine Verduci

luogo che mi rimane attaccato al cuore come una medaglia» di BRUNO S. LUCISANO

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on sono bravo a spiegarvi i colori della natura e descriverli, non so qual è il rosso cremisi (so solo che è luminoso e chiaro) per esempio, e tutte le tonalità del mondo che mi circonda, saranno milioni di sfumature di verde degli alberi e di giallo delle foglie morte. Ma un colore lo riconosco alle porte di Motticella, ed è simile al fumo che esce da uno dei pochi comignoli che, come un antico messaggio indiano, segnala la presenza di una delle ultime famiglie rimaste. Un fumo di legna non stagionata bene, non completamente secca, come la mia gola mentre sto scrivendo. Il colore del fumo è grigio, grigio scuro, quasi nero. Nero come il paesaggio. Nero come i ricordi di una lunga guerra. Ma non è di questo che voglio scrivere ma di quando, ragazzo, frequentavo le scuole elementari a Bruzzano Zeffirio e, ogni tanto, mio padre mi riportava a Motticella, a casa del maestro Pasquale Mollica. Nel paesino, vivo di gente, vi era una macelleria, un bar, un negozio di alimentari, un tabacchino con annessa cabina telefonica, l’ufficio postale, un prete, la chiesa, il medico, e tutto quanto serviva a rendere vivibile il paese.

Qualche anno più tardi, quando già abitavo a Brancaleone, siamo ritornati a Motticella io e mio padre e, seduti sul balcone della casa del maestro Pasquale, assieme alla moglie, viso angelico di donna straordinaria che mai dimenticherò, il figlio Vincenzo Mollica (famoso inviato Rai) assieme ad altre persone, che non ricordo, discutevamo delle cose di ogni giorno. Poi, con la voce di tenore, il maestro Pasquale Mollica cominciò a raccontare: «Tutte le mattine, appena fa giorno, assisto al passaggio di un gregge, guidato da un ragazzo, che ha sempre poggiato sulla spalla un bastone, sul quale vi è appesa una bumbula (brocca), piena d’acqua, che gli serve per dissetarsi durante il giorno. Stamattina, il pastorello, avanzava contento, intonando il ritornello dell’allora famosa canzone i Watussi. Ma quando ha iniziato la salita sulle note di “Siamo i Watussi, siamo i Watussi, gli altissimi negri”, la brocca è scivolata dal bastone e, cadendo per terra, si è ridotta in mille pezzi. Il pastorello si gira, guarda i cocci della fu brocca, e riprendendo la salita, sempre sulle note dei i Watussi ha iniziato usando, stavolta, parole colorite e imprecazioni». «Ho riso tanto - continuò il maestro - che ho richiamato indietro il pastorello e gli ho infilato delle monete in tasca come regalo». Ecco, eravamo abituati con poco, e poco ci bastava per ridere ed essere sereni. Non so cosa sarà di Motticella di Bruzzano Zeffirio, piccolo paese della grande Calabria, negli anni a venire, ma quello che è stato lo potete trovare nei versi dell’amico Luciano Nocera, “poeta in piazza”, in lingua e dialetto. Era il postino di quel vecchio paese. Ma anche usignolo, libero e mai ingabbiato. Lui, meglio di tanti, ha descritto la vita e la morte di quel luogo che mi rimane attaccato al cuore come una medaglia, con i segni e i disegni della mia gioventù. Leggendo attentamente quei versi, scoprirete la sofferenza che provava ed i continui messaggi di pace, che nessuno ha avuto il tempo di ascoltare. Un convegno organizzato da Rosa Marrapodi e una straordinaria serata nel mese di agosto voluta, davvero strenuamente e con tutto il cuore, dal sindaco Franco Cuzzola, con i “poeti in piazza” e con la promessa di una borsa di studio dedicata a Luciano Nocera, sono la dimostrazione che il poeta, in lingua e dialetto, non è stato dimenticato e che la cultura è l’unico viatico che porta alla pace e alla serenità. Viatico come strada, come percorso. Viatico col vecchio significato di provvista, vettovaglia. Ed io aggiungo cibo, unico pane, per la pace dei popoli. I figli dovranno godere della pace dei genitori e non dovranno continuare guerre che non portano da nessuna parte. Dove la vittoria non sarà mai appannaggio di alcuno. Ma semenza per vecchie cornacchie.


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Libri e scrittori

inAspromonte Gennaio 2015

Italiani Voltagabbana, il nuovo libro del giornalista Rai, dà un’immagine sbagliata del nostro scrittore

VESPA CONTRO ALVARO

«Sedici righe e mezzo che avviliscono la figura del più grande scrittore calabrese, che molti consideravano da premio Nobel, e forse lo avrebbe anche vinto se la morte non lo avesse colto»

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di DOMENICO STRANIERI

N

on so se don Massimo Alvaro avrebbe commentato la pagina 61 dell’ultimo libro di Bruno Vespa, Italiani voltagabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica sempre sul carro dei vincitori (Mondadori 2014), laddove il conduttore di Porta a Porta annovera il fratello Corrado tra gli intellettuali interni al regime fascista. Per Vespa, difatti, Alvaro “nato liberale se ne pentì. Gente in Aspromonte (1930) fu lodato dai critici e perfino da Mussolini”. Questo sarebbe il primo peccato di Corrado Alvaro. Cioè quello di scrivere un libro (che molti citano senza averlo letto) “lodato” dal Duce. Capovolgendo il concetto è come se dicessimo che apprezzare l’opera di Pirandello o Ungheretti è da fascisti. Credo che questa abitudine manichea di intendere le “collocazioni” politico/culturali abbia prodotto solo danni alla nostra storia e alla nostra cultura. Dire che Giovanni Gentile, ad esempio, da un punto di vista teoretico era superiore a Croce è quasi un sacrilegio (da noi, non in Germania). Insomma, non riconoscere il valore di un avversario resta una malattia tutta italiana. MA TORNIAMO A VESPA ed alle sue 16 righe e mezzo che avviliscono la figura del più grande scrittore calabrese, che molti consideravano da premio Nobel (e forse lo avrebbe pure vinto se la morte non lo avesse colto nel 1956 ). A Vespa si potrebbe rispondere con un libro intero. Provo a farlo in un solo articolo, cercando di non cadere nella prolissità. Ecco, dunque, le accuse mosse ad Alvaro: “esaltò le opere di costruzione fasciste, frequentò con Moravia il salotto di Margherita Sarfatti, ritirò nel 1940 il premio Mussolini e scrisse il volumetto Terra Nuova”.

La trama

voltagabbana sono una costante della storia nazionale. Dal Risorgimento, quando venivamo accusati di vincere le guerre con i soldati degli altri, alla prima guerra mondiale, quando in nome del “sacro egoismo” a un certo punto ci trovammo a combattere a fianco delle due fazioni opposte, per scegliere infine quella vincente, rivolgendo le armi contro i tedeschi, nostri alleati da trent’anni. Mussolini, che voltò gabbana come interventista prima della Grande Guerra, si alleò con Hitler nella seconda anche perché gli era rimasto il complesso del tradimento del 1915. Alla caduta del fascismo, i voltagabbana furono milioni, e Vespa narra con stupore la storia di prestigiosi intellettuali e artisti diventati all’improvviso antifascisti dopo aver orgogliosamente inneggiato al Duce fino al 25 luglio.

Uno scrittore libero Alvaro poteva essere membro dell’Accademia d’Italia. In quel periodo da Pirandello a Ungheretti fino a Marconi lo erano tutti. Lui, però, rifiutò Alle prime insinuazioni di Vespa mi piace controbattere con le parole di don Massimo Alvaro, le stesse di un’intervista che mi concesse prima di morire e che uscì postuma su Il Quotidiano della Calabria il 22 ottobre 2013. Una delle domande era questa: «A proposito di fascismo, qualcuno ha rimproverato ad Alvaro di non essere stato un aperto oppositore del regime...». E don Massimo così rispose a me e, senza saperlo, pure a Vespa: «Alvaro poteva essere membro dell’Accademia d’Italia e non lo fu. In quel periodo da Pirandello ad Ungheretti fino a Marconi erano tutti Accademici. Ma Alvaro rifiutò. Vede, ci sono argomenti esterni ed argomenti interni. Fondamentalmente era solo uno scrittore libero stimato anche dai fascisti. Galeazzo Ciano se lo incontrava si fermava a salutarlo. C’è una lettera di Margherita Sarfatti, la quale riceveva gli intellettuali e gli artisti ogni venerdì, dove si evince che Mussolini apprezzava l’Alvaro scrittore. Ma c’è anche una lettera di mio padre ove Corrado è duramente rimproverato per non essere diventato, poiché non ha voluto prendere la tessera fascista, Accademico d’Italia. Nel 1930 Bompiani stampò un annuario letterario nel quale si chiedeva al ministro Bottai qual era il libro che gli era piaciuto di più in

quell’anno. Bottai rispose: “Vent’anni, di Corrado Alvaro”. Io ho anche una lettera di Vittorio Mussolini, che dirigeva la rivista Cinema, dove, riferendosi a Corrado, c’è scritto: “Ho ammirato quest’uomo, pur essendo rispettato non ha mai chiesto niente”. Insomma, possibile che in un tempo in cui quasi tutti erano fascisti il peccato di Alvaro è quello di non aver fatto la rivoluzione? In realtà era critico verso il regime. Gli inglesi, ad esempio, quando uscì L’uomo è forte scrissero subito che era un libro contro il fascismo, esistono gli articoli. Ma Corrado aveva la moglie e un figlio, doveva pensare a loro, era un uomo molto equilibrato». NEL LIBRO ALVARO POLITICO (Rubbettino, 1981), il giornalista Enzo Misefari fu uno dei primi ad evidenziare che “le parole liberal-antifasciste di Alvaro furono molte, le azioni concrete poche”. Quasi una condanna sbrigativa per le azioni che lo scrittore avrebbe dovuto compiere. Alvaro, di certo, non era un eroe, era semplicemente un intellettuale che, tra l’altro, firmò il Manifesto antifascista di Croce (filosofo che inizialmente fu vicino al Fascismo ma nessuno lo rileva con cattiveria) e il 16 dicembre del 1925 venne pure bastonato dagli squadristi. Per quanto riguarda il Premio Mussolini bisogna precisare che si trattava di un riconoscimento del Corriere della Sera offerto (ogni 21 aprile) dai proprietari Mario, Aldo e Vittorio Crespi a cittadini italiani che avevano prodotto le migliori opere nel campo delle discipline storiche, letterarie, scientifiche e artistiche. Questa sarebbe stata un’altra “colpa” di Alvaro. Peccato che solo allo scrittore di San

La difesa di La Cava Certe esagerazioni di critica non dovrebbero trovare luogo, perché un uomo che vive sotto regime di dittatura deve sapersi destreggiare per sopravvivere Luca vengono sottolineate certe imprudenze. Durante il lavoro preparatorio della nascita della rivista di cultura e arte Primato, ad esempio, Giuseppe Bottai convocò letterati, critici e saggisti. Tra questi: Dino Buzzati, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli, Carlo Emilio Gadda, Mario Luzi, Eugenio Montale, Cesare Pavese, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungheretti, Sandro Penna, Nicola Abbagnano, Galvano della Volpe, Enzo Biagi, Indro Montanelli, Luigi Russo e tantissimi altri. Bottai era una personalità stimata da molti intellettuali, che partecipavano ai suoi dibattiti poiché gli riconoscevano grande cultura e ampie vedute. Tuttavia solo ad Alvaro viene rinfacciato il fatto di essere stato apprezzato da quel gerarca fedele all’idea fascista (che pensava ad un regime più moderno e aperto al contributo di tutti). Ma andiamo avanti. A PROPOSITO DEL LIBRO Terra Nuova (scritto nel 1934, quando il fascismo non aveva ancora fatto intendere compiutamente il suo vero aspetto) mi piace riportare, nuovamente, le parole di Don Massimo Alvaro: «Mussolini ha avuto tanti difetti, tuttavia non si può negare che è stato artefice di opere pubbliche notevoli. Ma sostenere che la boni-

fica dell’Agro Pontino è stata una grande opera non significa mostrarsi favorevoli al regime. Già Leonardo da Vinci progettava delle soluzioni per quell’aria paludosa e malsana, come pure tanti Papi. Aleardo Aleardi, ad esempio, nel canto Monte Circello descrive la miseria delle paludi pontine. Corrado disse che quella di Mussolini era un’opera meritoria e questo non gli fu mai perdonato». Vespa, probabilmente, ritiene verosimili le valutazioni di alcuni detrattori di Alvaro, senza considerare appieno il periodo storico né il carattere schivo dello scrittore. Persino Mario La Cava, riguardo questo argomento, sosteneva che: «Le paludi pontine sono state un grande fatto tecnico operato dal fascismo. E lui (Alvaro) non poteva dire che non fosse stata fatta bene questa bonifica, perché sarebbe andato contro la verità. Quindi certe esagerazioni di critica non dovrebbero trovare luogo nel caso suo perlomeno, perché un uomo che vive sotto regime di dittatura deve sapersi destreggiare per sopravvivere». ANCHE MONTANELLI, sul Corriere della Sera, nel 2001, affermò che Alvaro era incapace di chiedere favori. Eppure visse anni duri. Non so se la sua vera colpa sia stata quella di essere “sopravvissuto” al Fascismo o di essere stato uno scrittore di respiro europeo pur avendo “il passo lungo del calabrese che ha ancora molto da camminare”. Di certo se Vespa fosse stato contemporaneo di Alvaro non solo avrebbe ospitato nel suo salotto il Duce (stipulando chissà quale contratto con gli italiani) ma sarebbe diventato anche Accademico d’Italia, magari pensando allo scrittore di San Luca (che rifiutò la tessera fascista) come ad un povero ingenuo che non aveva ancora capito come va il mondo.


Libri e scrittori

inAspromonte Gennaio 2015

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Il racconto. Il tempo cambia le nostre abitudini, ma tante cose restano immutate, parallele, in attesa

STAZIONE FERROVIARIA

«Vi era finito per un accidente: il motore della macchina dopo qualche strappo si era spento e non c’era stato modo di farlo ripartire. Il meccanico portò via l’auto, e lui rimase lì, a piedi»

I

di DOMENICO TALIA

l caso, quello che a volte ci fa fare cose che non avevamo programmato, lo aveva riportato lì e quando entrò si accorse che c’era aria di cose vecchie mischiata a qualcosa di nuovo, a qualcosa che non conosceva. È capitato a tutti, almeno una volta, di tornare dopo molti anni in un posto noto. Una casa dove abbiamo vissuto da bambini, un negozio dimenticato, la scuola dove abbiamo studiato. Insomma, un luogo che nel passato ci era stato familiare e che per tanto tempo la nostra mente aveva messo in una parte nascosta, salvo ritrovarci lì, di nuovo, magari senza volerlo. Senza essere pronti a ritrovarlo. Per opera del caso di cui abbiamo detto, Luigi si era ritrovato, dopo tantissimo tempo, in una stazione che frequentava da ragazzo. Un luogo che una volta gli era familiare e che per molto tempo non aveva più visto, come un amico che per anni abbiamo avuto vicino e poi, per uno dei tanti motivi che la vita si diverte a creare, diventa soltanto un ricordo lontano. Entrando, le sue sensazioni furono chiare, c’erano muri e odori che ricordava bene e altre cose che gli sembrarono sconosciute. Guardandosi intorno non riusciva a distinguere chiaramente il vecchio dal nuovo. Erano come fusi tra loro da non poterne percepire la differenza per bene. C’erano entrambi ma legati così intimamente che i suoi sensi non riuscivano a separarli. Non entrava in quella stazione da oltre vent’anni. In altre stazioni negli ultimi anni c’era stato solo pochissime volte, più che altro per accompagnare persone che partivano o arrivavano. Da quando guidava la macchina, Luigi non viaggiava quasi mai in treno; ci saliva raramente per qualche viaggio verso Roma o per andare a Napoli. Ma le stazioni di Roma o di Napoli non avevano nulla in comune con quella piccola stazione, erano mondi totalmente diversi tenuti insieme soltanto dallo stesso nome. L’ultima volta che aveva usato la ferrovia su quel tratto di costa aveva poco più di vent’anni e il trovarsi davanti ad un luogo che non vedeva da decenni lo fece sentire come uno spettatore davanti ad un vecchio film. Non solo perché ritrovare un posto dopo tanto tempo porta subito a ricordarlo com’era - e ahimè a ricordare anche come eravamo noi allora - ma anche perché ci si accorge che nel frattempo il tempo e gli uomini lo hanno cambiato. Di questo anche Luigi si dovette convincere. Nella sala d’ingresso spoglia e fredda si guardava intorno per cercare qualche particolare noto e, mentre osservava, avvertiva il peso del tempo. Quella stazione era stata sempre lì, in tutti gli anni che lui era stato altrove, ma non era più la stessa. Era finito lì per un accidente: il motore della sua macchina dopo qualche strappo si era spento e non c’era stato modo di farlo ripartire. Chiese di un’officina al proprietario di un negozio sulla strada. Il negoziante gli indicò un meccanico lì vicino, quello venne e portò via l’auto. L’avrebbe riparata presto. «Può passare a prenderla nel tardo pomeriggio» gli disse il meccanico.

Non voleva aspettato lì fino al pomeriggio, ma non gli andava di chiamare a casa per farsi venire a prendere. Avrebbe preso il treno e in meno di mezz’ora sarebbe stato a casa. A parte la comodità, pensò anche alla novità di risalire su un treno dopo decenni in cui non gli era più successo di farlo da quelle parti. Uscendo dall’officina prese la strada per la stazione. Percorse un lungo viale dritto che correva parallelo al mare. In qualche tratto riusciva anche a vedere la spiaggia. Arrivò in stazione con un po’ di fiatone. Entrando rivisse sensazioni e memorie che non credeva di avere. Dopo essere ritornato con la mente al presente, cercò l’orario per dare un’occhiata alle partenze: bisognava aspettare poco più di mezz’ora e il suo treno sarebbe arrivato. Si sentì fortunato, su quella linea non erano tanti i treni che ogni giorno tenevano compagnia ai binari. Fortunatamente la biglietteria era aperta. Non ci aveva sperato, sapeva che in molte stazioni la biglietteria era spesso chiusa o non c’era più. Chiese il biglietto, pagò e nell’attesa tornò a guardarsi intorno, per osservare quella stazione ormai diversa da come la ricordava. Ai suoi tempi, di mattina, quella stazione era piena di ragazzi che andavano a scuola, donne e anziani che viaggiavano da un paese all’altro della costa. Signori che andavano al lavoro o che tornavano dal mercato appesantiti da borse e scatoloni. Adesso sembrava diventato un luogo straniero. Silenzioso, vuoto. Non c’era quasi nessuno. Uscendo dal lato dei binari si accorse che, seduti su una panchina, c’erano due extra-comunitari. Pensò che fossero lì ad aspettare che arrivasse il treno. Dopo poco capì che invece

In sala d’attesa Guardandosi intorno non riusciva a distinguere chiaramente il vecchio dal nuovo. Erano come fusi tra loro, tanto da non percepirne la differenza quelli usavano la stazione come luogo d’incontro, per discutere delle loro faccende, per scambiarsi informazioni su un lavoro da trovare, su un posto dove andare a vendere la loro mercanzia, sul prossimo viaggio verso casa. Non sembravano curarsi di quello che avveniva sui binari, semplicemente perché non erano lì per prendere un treno. Non aveva mai pensato che una stazione potesse servire a quello. Certo, aveva sempre considerato le stazioni come luogo di incontro, ma per gente che comunque arrivava o partiva, non per persone che ci andavano per rimanere fermi, per incontrarsi come si fa in piazza o al bar. La giornata era serena e di fronte, oltre i binari, si vedeva il mare. Sembrava calmo ma dalla stazione non si riusciva a vedere la spiaggia.

Luigi avrebbe voluto vederla, per capire se le onde che arrivavano sulla sabbia erano alte oppure l’accarezzavano piano con la schiuma leggera che il mare calmo sapeva creare. Camminando arrivò in fondo al marciapiede del binario e solo allora si accorse di una donna seduta su una vecchia sedia di plastica di lato dove finiva il muro della stazione. Era ferma, intenta a riscaldarsi al sole. Era vestita con abiti vecchi e sudici, due buste piene di chissà cosa erano poggiate a terra, ai lati della sedia. Doveva avere poco meno di sessant’anni, occhi azzurri. I capelli corti, grigi e spettinati. Il volto scuro e pieno di rughe la facevano sembrare più vecchia di quanto potesse essere. Aveva gli occhi socchiusi e un fazzoletto di carta nella mano destra. La donna si accorse di Luigi quando le fu molto vicino. Per un attimo lo guardò sorpresa. Dopo qualche secondo lo chiamò: «Signore, per favore, mi offre una sigaretta?» lui mise la mano in tasca e si accorse di avere con sé il pacchetto di Camel che aveva preso in macchina prima di lasciarla dal meccanico. Tirò fuori una sigaretta e l’accendino e si avvicinò alla donna. Quella allungò la mano e accennò un sorriso. Lui le porse la sigaretta e si avvicinò a lei per accenderla. Si trovò la faccia della donna a pochi centimetri dai suoi occhi e mentre avvicinò la fiamma alla sigaretta, ebbe come l’impressione di conoscere quel volto. Lo aveva visto quando era molto giovane, pulito e senza rughe. L’azzurro degli occhi era lo stesso e anche quel leggero sorriso triste non lo vedeva per la prima volta. Era quello di una giovane donna che lui ogni tanto incontrava sul treno andando a scuola. Il tempo si era accanito su di lei, ma non tanto per impedire a lui di riconoscerla. Finì di accenderle la sigaretta e subito la donna se la tolse di bocca per dirgli «Grazie». Lui accennò un sorriso. Quel viso lo aveva fatto diven-

tare triste. Lo ricordava giovane ed allegro e non si aspettava di ritrovarlo dopo tanto tempo disfatto e malinconico. Non aveva mai immaginato che quella bella donna potesse ridursi, chissà per quale strano e malvagio destino, in quelle condizioni. La tristezza gli impedì di risponderle e la lasciò tranquilla, seduta al sole a fumare. Le buste piene di pane secco, vestiti e altre cose erano per terra accanto a lei. Forse erano le uniche cose che possedeva e che la vita, in un cinico esercizio di ingiustizia, le aveva lasciato.

Un salto nel passato Si trovò la faccia della donna a pochi centimetri dai suoi occhi ed ebbe l’impressione di conoscere quel volto. Lo aveva visto quando era molto più giovane Mentre tornava dentro la stazione, con gli occhi azzurri di quella donna ancora fissi davanti ai suoi, si fermò a pensare a cosa potesse aver rotto i meccanismi vitali dentro di lei. A quale era stato l’evento che aveva spezzato l’equilibrio, che l’aveva spinta su quella vecchia sedia. Mentre aveva il sole negli occhi e quei pensieri in testa, sentì delle voci provenire dall’ingresso e poco dopo vide un gruppo di donne entrare in stazione trascinandosi dietro grandi borsoni gonfi e pesanti e qualche scatolone che, seppure ingombrante, sembrava più leggero. Erano una decina, tutte di mezz’età e in maggioranza di carnagione chiara. I loro capelli erano biondi o castani. Da quello e da come vestivano, era evidente che si trattava di gente dell’est. Polacche, forse russe o ucraine.

Sicuramente badanti, donne preziose in una società incapace di assistere i vecchi e aiutare i giovani. Badanti che tornavano in patria portandosi dietro merce occidentale comprata in Italia ma con il marchio “made in China”. Stranezze del mercato globale. Le osservò depositare i loro bagagli nella sala d’aspetto e mettersi a discutere in maniera concitata tra loro. Parlavano nella loro lingua slava. Impossibile capirle o semplicemente comprendere con esattezza di quale lingua si trattasse. Sembravano in attesa di partire e a lui venne di pensare: «Al contrario dei miei paesani, almeno queste il treno lo prendono. Meno male che loro fanno uso di questo utilissimo mezzo pubblico». Aveva finito di impegnare i suoi pensieri su quella questione che fu distratto dal rumore cupo di un motore che veniva dall’esterno. Si accorse che nel piazzale della stazione stava arrivando un pullman. Anche le badanti si accorsero dell’arrivo del bus e in sincrono, tutte insieme, quelle donne si caricarono nuovamente sulle spalle i loro tanti bagagli e uscirono in fila indiana. Andavano tutte a prendere il pullman che certamente le avrebbe portate verso est, a migliaia di chilometri di distanza dal clima caldo del Meridione, dalle grandi agavi che tenevano compagnia ai binari vicini al mare. «Che fesso!» pensò. «Io che credevo che le stazioni della ferrovia servissero per prendere i treni. Ormai qui si fanno tante cose, ma tra quanti capitano da queste parti, quelli che vengono a prendere il treno sono una minoranza. Una piccola minoranza che si ostina ad usare un mezzo antico eppure moderno allo stesso tempo». In pochi minuti quelle misero borse, valigie e scatoloni sul pullman e si sistemarono sedute in ordine come tante scolarette. Le porte del pullman si chiusero e il mezzo con il suo carico umano partì. La stazione tornò nel silenzio di prima.


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Inchiesta

inAspromonte Gennaio 2015

Catastrofi naturali e montagna. L’ambiguo gioco degli enti pubblici per ottenere ricchi finanziamenti

I bivi della storia e

LE FERITE DELL’ASPROMONTE

L’11 marzo del 1978 Bova e Ferruzzano furono colpiti da un terremoto, che ne decretò lo spostamento sulla costa. Snaturandole. Lo stesso avvenne anni prima per Africo e Roghudi di GIANFRANCO MARINO

«

L’aspromontano conosce il suo destino, sa di avere sempre le valigie pronte sotto il letto stato proprio « ilÉ terremoto ad accomunare il destino di due centri montani

«

Nottate passate all’addiaccio, in piazza: i piccoli uniti dal gioco, i grandi dallo smarrimento

«

Tutti via dalla montagna, in cerca di un sito dove ricostruire i due centri

Nella foto in alto a sinistra Ferruzzano, a destra gli sfollati di Africo antica. Sotto, una veduta di Bova

L’

Aspromonte è terra assai frastagliata, piena di bivi, e, si sa, davanti ad un bivio bisogna saper scegliere per poi affidarsi un po’ alla fortuna. Gli aspromontani hanno sempre dovuto scegliere e spesso non per volontà loro, è questione di dna, di orografia, è questione di lotta contro le bizzarrie della natura a cui nei secoli si è cercato di strappare qualche chilometro quadrato. Gli aspromontani conoscono il loro destino, sanno di avere sempre le valigie pronte sotto il letto e sanno bene che la violenza usata alla natura è pure peggio di quella riservata all’uomo, ti costringe a tenere alta la guardia, perché prima o poi ripassa a prendersi il mal tolto. Corsi e ricorsi storici che ci ripropongono sullo sfondo quello sfasciume pendulo sul mare consegnatoci nel 1904 da Giustino Fortunato con la sua Questione meridionale e riforma tributaria. Una fotografia sempre attuale che non sembra subire gli effetti del tempo. L’Aspromonte è così, da nord a sud, dal versante tirrenico a quello jonico, con quest’ultimo, se possibile, ancora più accidentato e precario, con i suoi valloni, le sue pietraie, le sue ferite secolari, i suoi orridi che si inabissano profondissimi, che si modellano e si scolpiscono di continuo. Paesaggi sempre nuovi e drammi vecchi con cui si deve essere bravi, pazienti, insomma bisogna saperci convivere. Da Canolo a Gioiosa passando per Platì e Careri, da Cardeto a Podargoni, da Bovalino a San Luca. C’è chi è andato via riscrivendo altrove la propria storia, c’è chi è rimasto, testardo, c’è chi è diventato pendolare, sospeso tra mare e monti, accontentandosi di un brodino, riscaldato e insipido. In Aspromonte, tra alluvioni e terremoti, c’è davvero l’imbarazzo della scelta ed è stato proprio il terremoto ad accomunare il destino di due cen-

tri, le cui sorti hanno camminato a braccetto fino a circa un ventennio addietro, poi davanti a loro si è presentato uno di quei bivi di cui parlavo. L’altro giorno parto da Bova e, senza chiedermi perché, la destinazione diventa Ferruzzano. Il centro è in una posizione splendida, a circa 450 metri di quota, sulla cima di una collina dalla quale si domina sia la costa che l’entroterra. A pochi chilometri di distanza c’è il nuovo abitato, quasi a ridosso della scogliera di

Sei miliardi di vecchie lire per Ferruzzano, solo (si fa per dire) quattro e mezzo per Bova: erano troppo fragili i loro terreni

Capo Bruzzano. Risalendo per quei tornanti la mente torna indietro di trentasette anni. Il ricordo è ancora nitido anche nei dettagli, forse perché certe date difficilmente si dimenticano. Era l’11 marzo del 1978, nonno era morto da qualche settimana e, come si usava una volta, il lutto si teneva per un mese: con radio e televisione rigorosamente spenti. Niente cartoni animati, niente carosello e niente sconti neanche per i più piccoli. Ma la sera dell’11 marzo di sicuro tanti non la dimenticheranno e non certo per l’assenza dei cartoni. Il terremoto che quel giorno, e nei giorni successivi, fece traballare la provincia di Reggio, fu di sicuro uno dei più violenti di sempre. Ricordo ancora la conca col braciere dove eravamo seduti con nonna, mamma, zia e l’immancabile gatto che cercava di farsi largo ritagliandosi la sua fetta di calduccio, mio

padre era al piano di sopra e ricordo persino il consueto rituale delle bucce di mandarino e di mela fatte a pezzetti, da lanciare sui carboni ardenti. Ad avvisarci di quello che sarebbe accaduto di lì a poco, fu il gatto che, dopo avere miagolato in modo inusuale, scappò via dalla porta sul retro. Nessuno ci fece caso, fino a quando, circa dieci minuti dopo, si scatenò il putiferio. Furono secondi interminabili, ho ancora nelle orecchie le urla di nonna, di mamma e di zia; negli occhi l’immagine delle mattonelle del pavimento, che saltavano come attraversate da un serpente sotterraneo e la figura di mio padre, che cercava inutilmente di aprire la porta per portarci tutti fuori in salvo. Quello che seguì al grande spavento fu un interminabile sciame di assestamento per giorni, che, con cadenza ravvicinata, riaccendeva di continuo la paura. Ricordo poi le lunghissime giornate e soprattutto le nottate passate all’addiaccio, tutti in piazza, accomunati noi piccoli dal gioco, i grandi dallo smarrimento. Sulle auto o sul bus di linea, diventato ricovero per chiunque, le ore sembravano giorni e i giorni mesi. Intanto, ad aumentare il disagio, la neve aveva preso a scendere abbondante e il bianco si mescolava al colore vivo del fuoco, sempre acceso al centro della piazza, e a quelli vivissimi delle coperte di ginestra, pesantissime, che quando te le mettevano addosso riuscivi a fatica a muoverti. Dopo quasi un mese, a pericolo scampato, ebbe inizio inesorabile la conta dei danni. Bova e Ferruzzano furono tra i centri più colpiti ed una Regione Calabria ancora agli inizi si determinò in modo chiaro. Dopo sopralluoghi infiniti, tavoli tecnici e di concertazione, processioni di geologi e improbabili funzionari impettiti, proteste di piazza e speculazioni politiche, il dado era tratto. A distanza di qualche anno, si riproponeva la stessa minestra servita nel piatto di africoti e roghudisi. Tutti via di corsa dalla montagna, prima solo stretta e scomoda, ora anche pericolosa ed instabile. Via, alla ricerca di un sito per ricostruire i due centri che là, evidentemente, non possono più stare. Troppo pericoloso, troppo fragili quei terreni e quelle case. Sei miliardi delle vecchie lire per Ferruzzano, solo, si fa per dire, quattro e mezzo per Bova, così è deciso. Ho vissuto e continuo a vivere di persona la storia di Bova e del suo ultimo trentennio e so bene quali

sono stati i risvolti. Ora, passeggiando per i vicoli deserti di Ferruzzano, la mente prende a girare per direzioni differenti. Se per questo paese la scelta è netta, per Bova ci vogliono anni di lotte, contestazioni e colpi di mano, fino a quando il famoso bivio si presenta nel 1996, ben diciotto anni dopo quella tremenda scossa. Cambiano le amministrazioni, cambiano gli obiettivi e, come spesso accade, di colpo cambia la storia, che in alcuni casi unisce i de-

La legge 2/78 diviene 3/97 ma di come siano stati spesi quei soldi e di quali effetti abbiano prodotto ne parleremo in seguito

stini in altri li divide. L’idea per Bova non è più quella di andare via, ma quella di proporre alla Regione Calabria la modifica della legge 2 del 1978, quella dei quattro miliardi e mezzo, autorizzando così alla spesa di quelle somme non più per ricostruire altrove ma per ristrutturare l’esistente. È la svolta che molti attendevano. E, per magia, la 2/78 diventa 3/97: numeri che cambiano e riscrivono la storia di Bova. Iniziano in tempi record gli interventi di recupero, ma di questo, di come siano stati spesi quei soldi e di quali effetti abbiano prodotto, parleremo in seguito, quando affronteremo l’analoga questione anche per Ferruzzano. Intanto continuo a camminare per i vicoli deserti, dove ogni tanto incontro qualche anziano, e più cammino più crescono gli interrogativi. Guardo quei panorami e quei colori netti, sento i profumi della natura, osservo i portali con il tufo eroso dell’incalzare dello Scirocco, guardo i balconi in ferro battuto, belli, stilizzati e ormai arrugginiti e più guardo più mi assalgono le domande, sulla pesantezza di certe scelte, quelle che devi fare davanti ad un bivio, quelle che ti aprono alcune porte chiudendotene necessariamente delle altre. Tra considerazioni e momenti di grande nostalgia mi chiedo quanti, in questi anni, abbiano continuato a mettere sul piatto della bilancia convinzione e rimpianto. Mi chiedo, soprattutto, quale dei due piatti si sia abbassato di più.


Attualità

inAspromonte Gennaio 2015

L’analisi. Difendersi dai Saraceni, oggi come nell’anno Mille

Ritorneremo

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di GIOACCHINO CRIACO

CHARLIE HEBDO

Il bosco degli spiriti, Aspromonte orientale. Foto di Bruno Criaco

ALLA MONTAGNA di CARMINE VERDUCI

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itorneranno i tempi in cui l’avanzata dei terroristi estremisti islamici giungerà alle nostre terre, proprio come accadde quando l’impero turco e musulmano saccheggiarono la Calabria. Fu allora che gli abitanti furono costretti a rifugiarsi in luoghi impervi, nascosti nell’Aspromonte, che diedero ospitalità anche ai religiosi bizantini che, dopo i martiri subiti in Oriente, trovarono la salvezza sui monti inaccessibili. Riecheggiano ancora le gesta di questi uomini di fede, di santità, di pazienza e di tanto coraggio, arrivati come i profughi di oggi, che, come allora, cercano una qualche salvezza dai regimi totalitari delle loro terre. La Calabria e il meridione d’Italia furono crocevia dei pirati arabi, si hanno notizie già dal periodo del VIII-IX d. C. IL TERRITORIO GRECANICO calabrese conserva ancora i frammenti dei baluardi delle prime civiltà, che furono gli artefici della nascita dei nostri paesi, della nostra cultura, delle nostre usanze, dei nostri usi, dei costumi e delle credenze popolari. Oggi, dopo i fatti di Parigi, abbiamo la sensazione di essere in imminente pericolo a causa di una società malata, che avanza inarrestabile: il nuovo movimento chiamato Isis, che stermina anche i suoi stessi fratelli (islamici e musulmani moderati),

Riedificheremo gli antichi monasteri, le antiche abbazie, e fonderemo nuove città, al riparo dalle scorrerie barbare... perché si rifiutano di aderire all’insulsa battaglia contro il mondo occidentale. Tra le righe del Corano è facile intravedere un atteggiamento che si propone di conquistare il mondo, e sterminare così il cattolicesimo e le altre religioni, proprio in nome di Allah o Maometto. Questo risentimento è forse dovuto alle cronache che ci riportano al tempo delle famose “Crociate”, quando dei miliziani andarono alla conquista dell’Oriente per convertire il popolo in nome di Dio, quel Dio che fu usato per giustificare i fiumi di sangue portati da queste guerre.

simo, con quali prospettive non è ancora certo, sta di fatto che ormai siamo entrati in una vera guerra. L’unica cosa che mi viene da pensare è che torneremo un giorno alle nostre montagne, riedificheremo gli antichi monasteri diroccati, le antiche abbazie, e fonderemo nuove città, fortificate e al riparo dalle scorrerie barbare, proprio come al tempo dei Saraceni. Ci scrolleremo di dosso tutto il materialismo che ci ha resi ciechi difronte al vivere. E ritorneremo alla terra, ci ricongiungeremo con la montagna, proprio da dove siamo partiti.

SIAMO GIUNTI, ADESSO, al ribaltamento della medaglia, ma il mondo e la società sono cambiati, e anche il modus operandi si è evoluto. La lotta al terrorismo è entrata con prepotenza nella nostra quotidianità già dall’11 settembre del 2001, quando l’America scoprì la nuova cospirazione ed organizzazione criminale chiamata “Al qaeda”. Di tutto si è scritto, e si continua a scrivere, sull’attacco delle torri gemelle; torri gemelle e migliaia di morti che hanno sconvolto il mondo intero. Da allora, nulla è stato più come prima, l’escalation di terrore si è esteso con violenza in tutto il mondo occidentale, mettendo l’Europa tra gli obiettivi primari. Questi individui hanno come prerogativa la distruzione del cristiane-

HO CAMMINATO A LUNGO, cercando le suggestioni del passato, le ho respirate, toccate, assaggiate e immortalate, cercando un senso a tanta ricercata solitudine e alla voglia di abbandonare tutto e ripartire da zero. Sebbene i miei trent’anni siano troppo pochi per queste asserzioni, provo comunque ad immaginarmi vecchio di molti secoli, adagiato sulla mia scrivania, con un pennino a inchiostro a scrivere di sensazioni e nostalgie, tra il silenzio e la luce fiocha di una lampada ad olio. Ma chi può sapere com’è fatta la notte, se non chi ha vissuto con le lanterne accese dentro le grotte, dentro le mura fredde delle abitazioni di pietra e calce? Nessuno, nemmeno io, che provo a simularne soltanto la sensazione.

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ramai avrete visto, sentito e letto di tutto. Possiamo proporvi una riflessione, restando fuori dall’alveo di un fiume di tuttologi e grafomani. Ci concentriamo sui due, diventati tre, protagonisti dell’eccidio parigino. Morti anch’essi, perché quello era il finale unico che avrebbe potuto chiudere la sciagurata impresa a cui si erano votati. Erano i figli delle orribili periferie, costruite ovunque in Europa per parcheggiare le emigrazioni interne o esterne. Ogni grande città occidentale ne possiede una, fatta di case orribili, umide, di servizi inesistenti e di condizioni al limite. Non sarà un caso se esse, accanto a tanti grandi lavoratori, hanno dato i natali a brutta gente che ha messo in pericolo la sicurezza della bella gente. É un’ovvietà, l’emarginazione produce disagio, la gente lo subisce senza protestare, ma in qualche caso abortisce un matto che prima o dopo andrà a esplodere da qualche parte. É ovvio anche che i disagi non giustificano le stragi, ma visto che essi le producono sarebbe utile eliminarli o cercare di ridurli.

I TRE ATTENTATORI francesi erano individualità isolate, che hanno fatto gruppo fra loro e poi hanno aderito a un’ideologia lontana mille miglia. Il tutto per non sentirsi soli, per appartenere a qualcosa che trascendeva il singolo. E badate che nessun gruppo islamico integralista aveva affidato loro questa missione specifica. C’è un mandato generico a chiunque voglia unirsi a loro. Una sorta di lavoro,

sporco, a domicilio, su cui il committente si riserva un insindacabile giudizio. Gli aspromontani diventati criminali provengono da posti che sono la periferia di un’altra periferia. E il sistema del male si rigenera in virtù di un’esclusione che si ripropone sempre più dura. Il male in fondo è un boomerang, più forte lo colpisci e con maggior forza ritorna in faccia; più lo lanci lontano e più quello ti torna in casa. I mostri, in Francia, in Italia, in tutto l’Occidente, nascono perché è il sistema occidentale a spingerli in bocca al diavolo; perché è basato su meccanismi egoistici e non solidali, su diseguaglianze, esclusioni. GLI INTEGRALISMI arabi nascono perché le nazioni arabe al governo non hanno certo dei capi illustri. E i malcontenti da noi derivano da sistemi politici vergognosi. Così arriviamo alla pantomima di dirci tutti Charlie, quando di quelle penne satiriche la maggior parte di noi ignorava quasi tutto, e soprattutto non sapeva quanto contestassero il modello occidentale e lo sbeffeggiassero al pari di quello integralista. Ma non è con uno slogan che le nostre individualità troveranno una appartenenza buona. Col farsi attorno agli slogan, in genere nascono le dittature. A noi mancherà l’ironia di Charlie, che gentilmente ha avuto attenzione anche per le Anime Nere, nel pezzo di ottobre che per far loro un omaggio vi proponiamo, da ridere, come di consueto, a partire dal titolo: il piombo nella ricotta.

di GIOVANNI GLIGORA

Alla redazione DIRETTORE RESPONSABILE

Antonella Italiano

antonella@inaspromonte.it DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco bruno@inaspromonte.it Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 0964 66485 – Cell. 349 7551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 15/01/2015 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST. Le collaborazioni sono da intendersi prestate a titolo gratuito

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i sono tanti giornali da sfogliare! Dai quotidiani ai settimanali, dai mensili alle riviste. Ci si può sbizzarrire tenendoti informato sui fatti di cronaca nera o rosa, su vicende politiche, economiche, sportive. Così, dopo aver letto pagine e pagine di vari argomenti compresi quelli relativi a disastri ambientali e politico-economici, omicidi, genocidi, ti rimane un amaro in bocca e angustiato ti chiedi: «Ma tutto ciò che ho letto è cultura o semplice informazione che serve solo ad ossessionarti e a condizionarti, rendendoti la vita difficile e turbolenta, allontanandoti sempre più dalla realtà?». In tutto questo che cosa c’è di educativo? Nulla! Allora continuo: leggo in Aspromonte perché parla di cultura ed è educativo. In questo giornale si scrive di ricerche storiche, di poesie, di letteratura, di musica, di tra-

dizioni. Il bello è che gli articoli ti coinvolgono emotivamente perchè ti trasmettono la passione e l’attaccamento morboso alla ricerca affannata delle nostre origini e, quindi, alla nostra identità. Gli autori ti fanno sentire a casa tua, ti colmano di cultura: quella vera, quella che ti fa riflettere e ripetere. Ho imparato qualcosa! Ti fanno capire che la cultura non si insegna, non si impara, ma si acquisisce,si comprende e si trasmette, soprattutto alle nuove generazioni. Tutto questo l’ho constatato in occasione della mia presentazione de Il Ceppo a Bova Marina al parco Archeoderi, di San

Pasquale il 29 dicembre scorso.Vorrei ringraziare tutti i presenti: l’amministrazione di Bova Marina, Franco Tuscano, Vincenzo De Angelis e Pino Macrì, Giovanni Favasuli, Lucia Catanzariti e Giuseppe Larizza e tutti coloro che sono intervenuti, compreso Cosimo Strameli. Vorrei ricordare il moderatore ed amico Gianfranco Marino, la direttrice del mensile in Aspromonte Antonella Italiano che mi hanno sostenuto ed incoraggiato nei miei lavori. Infine, e non ultimi, ringrazio Angelo Gligora che è stato l’artefice della mia impresa letteraria e Bruno Palamara che mi ha suggerito apprezzabili consigli.


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www.inaspromonte.it

inAspromonte Gennaio 2015

il tour di “in Aspromonte”

RAFFAELE LEUZZI E GIANNI FAVASULI

GIUSEPPE LARIZZA PAOLO SOFIA DE I QUARTAUMENTATA

SALVATORE GULLACE E PEPPE PLATANI DE I QUARTAUMENTATA SOFIA E GULLACE “DIETRO LE QUINTE”

FOTO DI MIMMO CATANZARITI

NANDO ZAPPIA

Il 25 gennaio alle 18.00 “Scrivere in Aspromonte” presenta Storie aspromontane di Pat Porpiglia. Melito P. S., presso la sede del Circolo culturale Meli, su corso Garibaldi


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