"in Aspromonte" numero 15

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Direttore Antonella Italiano

inAspromonte

Novembre 2014 numero 015

L’antico borgo di Ferruzzano. Foto di Carmine Verduci

Quel segreto

DI SAVERIO STRATI di DOMENICO STRANIERI

Una lettera, custodita dalla “ragazza più bella del paese”, un “muratore” che sogna di studiare, un paese, Sant’Agata del Bianco, col suo ritmo lento ed i suoi rituali. Una promessa. Poi il tempo...

pag. 2 - 3

Ombre e luci Africo antica

La dura vita della scrivano. La lettera... di Gianni Favasuli pag. 4

Santi e briganti Favignana

La guerra delle carceri

di Rocco Palamara pag. 16-17

Aspromonte greco Bova

La neve e le luci in città

di Gianfranco Marino pag. 9

Approfondimenti Frane e alluvioni

In lotta per sopravvivere

Parco dello Zomaro

di Leo Criaco Zeus non abita più qui di Arturo Rocca pag. 12 pag. 11

Libri e scrittori Il racconto

di Domenico Talia pag. 22

L’inchiesta

I veleni di funghi e fungiari

Natale in paese. Il muschio era dolce

Platì come nel 1951 di F. Raymon Violi

Tra i boschi

pag. 20

La nostra storia La Locride nel 1791

Gli ascari, gli imbroglioni e i sognatori di Pino Macrì

pag. 19

La riflessione

Poi, i marinai torneranno al mare di Antonella Italiano

È

passato troppo tempo. La zia Gianna, così esile nella sua vestaglia, ricorda perfettamente la fontana che stava tra il paese e il cimitero. Lungo la strada andavano e venivano donne scalze, con gli orci in testa e la corona di stracci, e alla prima curva, proprio dopo la salita che sta alla fine del paese, si mostrava la chiesa alta e imponente, seppur di spalle, e i tetti bassi e fumanti delle case di Africo. I muratori provenienti da Sant’Agata risalivano lenti il passo di Perdifiato, ancora più a nord della fontana. Zia Gianna li ricorda arrivare nella piazza e distribuire gli incarichi tra le donne, per il lavoro del giorno dopo. A loro era affidato il trasporto di calce e acqua al cantiere della nascente Campusa. E il viso del podestà, quello com’era? E la casa? E la moglie? pag. 2-3


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Copertina

inAspromonte Novembre 2014

Poi, i marinai torneranno al mare segue dalla prima di Antonella Italiano

D

esiderosa di ritrovare La teda nei suoi ricordi di bambina, tormento l’anziana signora con domande che a lei, testimone del ‘51, saranno sembrate irrazionali. Ma zia Gianna non mi può seguire fino al vecchio paese, per indicarmi con precisione i punti su cui corrono e si rincorrono le parole e i confini dei capitoli. Per ritrovare le storie seppellite dal fango, gli aneddoti,

i volti immortalati dalla letteratura. Zia Gianna Africo ce l’ha disegnata nel cuore, piuttosto, ed ogni giorno ne ripercorre le strade e si disseta alle fontane, e guarda la montagna dalla finestra che di volta in volta sceglie, e sceglie allo stesso modo il tempo e le stagioni. Ed Africo le sembrerà più dolce, ora che è solo sua. Ed è troppo tardi, caro Professore, per poterti chiedere dell’uno e

L’EDITORIALE di Gioacchino Criaco

dell’altro autore meridionale, e mostrarti questo giornale su cui certamente avresti avuto qualcosa da borbottare, accogliendomi come al solito tra rimproveri e allusioni. Ma giunto al limite della mia sopportazione, e anche più tardi, avresti rimesso le cose a posto con quel tuo abbraccio paterno. Che in pochi conoscono. Tu, raffinatissima penna, così incompresa nella sua forza critica e

squisitamente letteraria, così abusata negli slogan preelettorali, e combattuta da me, per prima, che non ne ho accettato le correzioni. Le stesse che, oggi, mi sforzo di ricordare. Ed è tardi per conoscerti, caro Preside. Così curioso e emozionato accanto ai Bronzi dello Jonio e così passionale nel colorare l’Aspromonte, annerito dai sequestri, di racconti e tradizioni. Ed

QUEL SE

E Saverio scelse i libri... L

ei: «O me o loro». Lui: «Perché questa prova? Dammi il tempo di avervi entrambi». Lei: «La scelta è ora o mai più; dopo ci saranno tanti uomini e tante donne nel mondo, fra cui scegliere». Saverio lo subì quell’ultimatum e si lasciò scegliere dai libri. E benché questo dialogo ce lo possiamo solo immaginare, mi piace sentirmele in testa queste parole di un amore fatto di mbasciate sussurrate all’orecchio in un attimo di distrazione dei custodi dell’onore di casa, e di un solo biglietto, breve, serrato come un ordine di servizio e distrutto col fuoco per non lasciare prova nel mondo di un sentimento conficcato e vivo solo nella memoria. É bellissimo il documento a cui Domenico Stranieri dà carta e inchiostro ancora, perché ci riporta a quando Saverio Strati era solo un ragazzo di Calabria e doveva sciogliere a uno a uno i nodi che lo tenevano legato a quel mondo contadino in cui era nato, per trovarsi il suo posto nel mondo e regalarci i suoi tesori. Si doveva svincolare dalla cazzuola e dal cuore per diventare scrittore. E mollare la fatica è un sollievo, ma lasciare la più bella ragazza del paese per lo studio è più da fessi che da eroi. Ma l’amore a quei tempi, con le ragazze di casa, era un mistero proibito se non passava per la parlata al padre e per una breve strada che portava a un sagrato. Un rapporto pieno solo di sguardi intensi associati a pensieri castigati,

come il carbone di leccio dei carbonari di Sant’Agata che si accende piano per durare a lungo. Si, mi piace immaginarmela lei, con tante primavere addosso, seduta accanto al camino, d’inverno, quando lo Scirocco svuota secchi di pioggia addosso alle finestre; o, nei mesi dell’arsura, guardare dalla veranda giù al Capo che cova lo Zefiro; e sentire con lei il calore e il refrigerio sgorgare da un pensiero che ci sta dentro, da un tesoro lontano, estremamente vivo. E ripeterci parola per parola quel segreto: «Perché, se mi

schiaffo d’acqua dello Scirocco o l’alito dello Zefiro, senza calore e senza refrigerio, immerso com’è nel pensiero di quella breve lettera scritta tanti anni prima. A maledirle o a benedirle quelle frasi stringate, fredde e brucianti. Come sarebbe stata la tua vita se avessi scelto quell’amore? E cosa ne sarebbe stato della Marchesina, di Terrarossa, di Rosario, del Selvaggio, di Tibi e di Tascia? La scelta fra amore e lavoro, carriera e famiglia, accomuna le persone. Tutti hanno scelto, scelgono e sceglieranno. Le scelte partoriscono figli diversi, grandi esseri e persone normali. Forse Saverio sarebbe stato grande lo stesso, ci avrebbe regalato ugualmente i suoi capolavori. O magari si sarebbe trovato con una torma di bocche da sfamare e avrebbe impugnato a vita la cazzuola, con calli troppo grossi per la delicatezza di una biro. Se quella parlata l’avesse fatta, al padre o ai fratelli della ragazza più bella di Sant’Agata, magari l’avremmo visto uguale, ombroso e scontroso, sulla strada che sale da Faccioli, a rimuginare sulle storie che avrebbe voluto scrivere. La vita è così per tutti, un mare di ma in un oceano di se. Ma il regalo più grande che una donna possa fare è quello di tenersi in cuore un amore per tutta la vita, lo stamparsi nella testa per sempre le parole dell’amato, stando con rispetto accanto a un altro uomo. E questo è un capolavoro che vale più del libro più grande di tutti.

É bellissimo il documento a cui Domenico Stranieri dà carta e inchiostro, perché ci riporta a quando Strati era solo un ragazzo di Calabria ami come dici, vuoi sottopormi a questa prova? Potrei dirlo a tuo padre e ai tuoi fratelli ma ora mi sembra una cosa troppo dura. Però ti assicuro che se l’anno venturo sarò promosso potrò dire liberamente ai tuoi e ai miei quanto sento. Ora mi sembra una cosa non buona. Sei la più bella fanciulla del paese. T’amo quanto me stesso. La natura ti ha dato bellezza e diligenza. Ogni tanto vedo qualche sguardo e qualche sorriso e mi sembra di vedere grazia infinita. Ricordandoti sempre, ti invio i più fervidi baci. Ricevili da me e famiglia, affettuosissimo Saverio». E mi piace immaginarmelo lui, il Saverio Strati che ci viene spesso descritto come taciturno, ombroso, quasi scontroso, nei suoi brevi soggiorni di ritorno al paese. Vederlo su, verso Campolaco, che si becca in faccia lo

Nella foto sopra Saverio Strati da giovane, nella foto sotto la fontana di Sant'A gata, la Ranghia, in un dipinto di Domenico Bonfàin arte Fàb on. Nella pagina accanto la casa di contrada Cola, dove Strati rivedeva i suoi romanzi ed incontrava gli amici. A sinistra Sant’A gata. Foto di D. Stranieri


Copertina ogni volta che a Zervò arriviamo con i giornali in quell’unico barristorante, l’indice dei padroni di casa punta su di te, adorato e vantato su quei muri di pietra, ma asfissiato dall’elenco plastificato dei funghi e dai suppellettili in legno del camino. Tardi per conoscerti di persona, Padre e mariologo di cui va orgoglioso l’Aspromonte, amante di Polsi e della tua San Luca.

Ed è tardi per scriverti, caro “mastro” e Maestro, e mostrarti in prima pagina questo segreto che ti abbiamo rubato. Qualche anno indietro, per non sentirci beffati dal tempo, sarebbe bastato. Perché ora è tardi. «La gente della montagna, sporgendosi, vede la montagna e il mare, quella della marina, sporgendosi, vede solo il mare» mi disse durante una presentazione il

inAspromonte Novembre 2014

mio carissimo amico Gianni. E non aveva torto. Ma solo un marinaio, voltandosi, poteva innamorarsi della montagna, e non darla mai per scontata. Interrogarsi sui profumi, sulle forme, sulle strade, sulle usanze. Amarla di quell’amore impuro e improvviso degli amanti. E tradire le sue stesse origini per seguirla. Per comprenderla. E immaginare, su misura per essa,

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una creatura che la raccontasse e la rendesse eterna. Che raccogliesse passo passo quelle verità, così indebolite dal tempo, che sono la sua immagine migliore. Le verità degli anziani e le verità dei letterati come Crupi, Delfino, De Fiores, Strati. Le verità di chi come te, caro Gianni, la montagna ce l’ha disegnata nel cuore e sceglie, con attenzione, le fonti, il tempo e le stagioni.

EGRETO DI STRATI

Ci sono storie nascoste tra i vicoli dei paesi. Sono storie destinate a volare via con le anime di chi le ha tenute così a lungo nel cuore. Ma basterebbe solo scriverle per renderle immortali di DOMENICO STRANIERI

A Sant’Agata Se ne andò del Bianco il come tanti giovane Saverio personaggi che lascerà il suo primo descriverà, poi, nelle amore, un amore sognato. E lo farà sue opere. Se ne per sempre andò come Tibi

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A la ragazza « Era più bella del

paese. La vedeva passare quando si recava alla fontana o durante la festa

«

Il tempo passò. I due ragazzi, che si guardavano da lontano, per molto tempo non si incontrarono più

21 anni Saverio Strati smise di fare il muratore. Si separò dai suoi compagni di lavoro (il padre Paolo, lo zio Francesco Scarfone, Vincenzo Strati e Attilio Scarfone) e si trasferì a Catanzaro per studiare. Se ne andò come tanti personaggi che descriverà, poi, nelle sue opere. Se ne andò come Tibi (il Tiberio che, aiutato economicamente da don Michelino, avrà la possibilità di costruirsi un futuro migliore). Ma per ogni Tibi che parte c’è una Tàscia che resta. É quasi una legge di natura che non risparmierà nemmeno Strati. A Sant’Agata del Bianco, difatti, il giovane Saverio lascerà il suo primo amore, un amore sognato. E lo farà per sempre. Era la ragazza più bella del paese. La vedeva passare quando si recava alla fontana o la guardava durante la festa, magari all’uscita della chiesa, quando gli uomini stavano in piazza pronti a condurre in processione la santa. Anche a lei piaceva Sasà (come lo

chiamava confidenzialmente). I due si scambiavano messaggi tramite un’amica comune. Ma quando Strati ebbe l’opportunità di studiare si pose il problema del trasferimento in un’altra provincia. Lei lo rincuorò: avrebbe atteso il suo ritorno. NEL FRATTEMPO, anche i genitori cominciavano a intendere i sentimenti dei figli ma la madre di Saverio, solo lei, si dimostrava ostile. Ciò ferì l’orgoglio della ragazza che mantenne un certo distacco e pretese che il futuro scrittore si dichiarasse apertamente. In caso contrario non lo avrebbe aspettato. Il giovane, però, seppur in ritardo, tentava di percorrere la via degli studi. Aveva un vivo desiderio di apprendere e di raccontare il suo mondo. Ma, per il momento, il domani era un’incognita. Rinunciò, quindi, a parlare con i genitori di lei. Aveva accarezzato l’amore, ma puntò i piedi davanti ad esso. Ed il filo della storia, inesorabilmente, si spezzò. Forse non è un caso che pure nei romanzi di Strati l’amore sarà inattuabilità, un alito lieve che resta quel che è soltanto nella giovinezza. Più avanti, tale sentimento, troverà la sua sconfitta, poiché nell’età adulta conterà lavorare, e lavorare duramente. SAVERIO abbandonò il paese e gli anni passarono. I due ragazzi che si guardavano da lontano per molto tempo non si incontrarono più. Entrambi si erano sposati. Tuttavia, a lei, certe volte, faceva piacere ripensare a quel suo affetto

giovanile così puro. Una sera, ormai anziana, chiamò la figlia con una strana dolcezza negli occhi. Come per svelarle un segreto. E le disse di una lettera, l’unica, inviatale da Strati. L’aveva custodita a lungo, ma ad un certo punto decise di bruciarla. Prima, comunque, la imparò a memoria. La figlia si affrettò a prendere un pezzo di carta e la madre, con voce intenerita, ricordando parola dopo parola con una sorprendente giustezza, le dettò delle frasi che, ancora oggi, rappresentano una testimonianza preziosa. E NON SOLO PERCHÉ ci riportano alla nostra storia. Dicevamo, infatti, che la ragazza chiese a Saverio di parlare con i suoi familiari. Lui, che sapeva meglio scrivere che parlare, le fece pervenire questo messaggio: Perché, se mi ami come dici, vuoi sottopormi a questa prova? Potrei dirlo a tuo padre e ai tuoi fratelli ma ora mi sembra una cosa troppo dura. Però ti assicuro che se l’anno venturo sarò promosso potrò dire liberamente ai tuoi e ai miei quanto sento. Ora mi sembra una cosa non buona. Sei la più bella fanciulla del paese. T’amo quanto me stesso. La natura ti ha dato bellezza e diligenza. Ogni tanto vedo qualche sguardo e qualche sorriso e mi sembra di vedere grazia infinita. Ricordandoti sempre, ti invio i più fervidi baci. Ricevili da me e famiglia. Affettuosissimo Saverio La giovane lesse il foglio davanti alla

sua amica/ambasciatrice. Pensò che non era in grado di mantenere una promessa senza l’approvazione della sua famiglia e a malincuore, irrimediabilmente, ribatté: «Me lo saluti e me lo ringrazi tanto. Ma digli che non posso aspettarlo. In questo mondo ci sono donne per lui e uomini per me». Saverio partì, forse già chinato sulla propria vita per arrivare a narrarla nei libri. Per quasi quarant’anni non incrocerà più gli occhi di quella ragazza. QUANDO RIENTRAVA in paese, difatti, se ne stava chiuso nella sua casa, in contrada Cola, su un’altura, dove riceveva la visita degli amici più cari. Accadde un giorno, però, che in un funerale, di sfuggita, i due dovettero salutarsi. Non sapremo mai cosa pensò lo scrittore nello stringere quella mano. Come non sapremo mai se lei, qualche volta, si pentì di quella risposta così fiera e decisa. Certo, Strati non poteva immaginare che rammentasse ancora la lettera che le aveva mandato. Probabilmente, schivo e riservato com’era, non parlava con nessuno dei suoi sentimenti privati, di quelle cose che possono apparire ridicole e, nello stesso tempo, si rimpiangono. Era uno specialista a far diventare ogni esplosione emotiva un fiume sotterraneo, che conteneva nel cuore in un modo tutto suo. Eppure lei, ritornando un po’ fanciulla, lo ripeteva spesso: «Sapete che Sasà lo scrittore, da giovane, era innamorato di me?».


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Ombre e luci

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Africo. Imperava l’analfabetismo e il saper scrivere era per tutti una grande fortuna. Ma non per lo scrivàno

La lettera... Maiale a Carrà, Aspromonte orientale. Foto di Bruno Criaco

«Lei sorrise soddisfatta, avvicinò la sua sedia alla mia scrivania e mi diede giusto il tempo di prendere carta e penna. Mi raccomandò, quindi, di scrivere di un maiale che le avevano rubato»

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di GIANNI FAVASULI

ilomena Martino, una mia vicina di casa, non sapeva né leggere né scrivere. La lacuna, però, non l’aveva mai scossa, mai preoccupata più di tanto, in quanto lei, con la gente, aveva sempre avuto dei rapporti semplici, verbali. L’ausilio della penna e della grammatica, infatti, era sempre stato ininfluente, non si era mai reso indispensabile per l’economia della sua famiglia che, con la zappa, con le braccia, con il sudore della fronte, sotto il cocente sole dell’estate o sotto il gelido freddo dell’inverno, risolveva gli spinosi problemi del vivere quotidiano. Poi, però, l’handicap, cominciò a pesarle. Parecchio. Fin da quando suo marito Turi e Carmelo, pupilla dei suoi occhi, unico figlio, emigrarono in America, Filomena si rese conto che il sapere leggere e il sapere scrivere erano delle cose fondamentali nella vita. Più importanti, forse, della stessa terra che la sua famiglia, dopo l’alluvione, aveva ottenuto a mezzadria dal cavaliere Borgia, un possidente di Sant’Agata del Bianco. Da quel preciso momento si sentiva peggio di una sordomuta. A tutti i costi doveva fare pervenire ai suoi cari le dovute raccomandazioni; renderli edotti di tutto quello che succedeva in paese: di chi moriva, di chi nasceva; di chi si fidanzava, di chi scugghjaràva, di chi si sposava; di chi entrava e di chi usciva di galera. Doveva metterli al corrente che la terra, ormai in malora - e non certo per colpa sua - produceva solamente triboli ed erbacce. Neanche il minimo indispensabile che servisse a coronare tanti anni di sacrifici e di privazioni.

benedica! Vi ringrazio! Però mio marito mi ripeteva sempre che quando si va ad incomodare, a disturbare una persona importante, per educazione, per bona criànza, non bisogna mai presentarsi ch’i mani vacanti!». TENTAI DI FARLE CAPIRE CHE non era scritto da nessuna parte che una persona, per favorire un’altra, doveva necessariamente ricevere il contraccambio. Lei si schermì ripetendomi che se suo marito le aveva raccomandato di agire in quel modo, cascasse il mondo, sempre in quel modo lei si sarebbe comportata. Lasciai perdere e la feci accomodare. «Professore, sono venuta a trovarvi perché, come ben sapete, eu sugnu 'na pòvira gnurànti... ‘n’anarfabéta! Per cui, desidererei che voi mi leggeste le lettere che i miei cari mi

Dopo averle pazientemente spiegato che non ero né un professore né una persona importante, ma un semplice studente che andava all’Università, più che altro, per non dare un dispiacere ai propri genitori, che, dopo tanti sacrifici sostenuti, sarebbero stati fieri, felici, di vedere un figlio laureato, le promisi che avrei risposto senz’altro alle lettere dei suoi cari. Per quanto riguardava la mia discrezionalità, la rassicurai giurando che sarei stato muto come un pesce. LEI SORRISE SODDISFATTA, avvicinò ancora di più la sua sedia alla mia scrivania e, dopo avere ascoltato con le lacrime agli occhi quello che il marito le raccomandava, mi diede giusto il tempo di prendere carta e penna e, raccomandandomi di scrivere, prima di tutto, di un maiale che le avevano rubato, prese a dettarmi, d’un fiato, tutte le altre cose che i suoi cari dovevano, assolutamente, sapere. Qualche mese dopo, raggiante, venne a trovarmi portando con sé, ndrupàti nto fardàli, avvolti in un grembiule, una forma di cacio e la nuova lettera del marito. Appena cominciai a leggere, si sciolse in lacrime. Finché ad un certo punto, Turi, riferendosi a quella mala ed indegna azione del maiale rubato, la informava che lui se l’era già fatta un’idea precisa su chi poteva essere stato l’autore del furto. Pertanto, scriveva che ‘u cacafocu d’u briganti, lo schioppo, cioè, appartenuto ad un suo antenato che aveva combattuto strenuamente contro gli odiati invasori piemontesi, lui l’aveva rimesso a nuovo, non certo per tenerlo appeso, a mo’ di ornamento, sul caminetto, ma piuttosto, per adoperarlo, non si sa mai, nei momenti di necessità, di impellente bisogno. Contro i malintenzionati, contro chiunque gli avrebbe arrecato qualche onta, qualche grave mancanza di rispetto. Quale occasione, quindi, migliore di quella? Per cui, invitava la moglie a rimanere tranquilla e a non preoccuparsi minimamente, perché alla sua prossima venuta, a Gino Jenco, l’uomo che lui reputava essere stato l’autore del danno, una bella schioppettata nte cugghjùni, nelle palle, non gliela avrebbe levato nessuno. Manco il Padreterno! Caso volle che, nel frattempo, tramite l’interessamento di un suo parente, Filomena era già ritornata in possesso del suino. Nella nuova lettera che mi dettava, visto che lei tergiversava e non si decideva a dare la buona nuova al consorte, mi premurai a vergare di mia iniziativa: “Caro Turi, per quanto riguarda ‘u porcu, ti informo che è ritornato nta zzimba e gode ottima salute!”. Basta con lettere su commissione, da quel preciso momento, avevo proprio chiuso!

A tutti i costi doveva rendere edotti i suoi cari di tutto ciò che avveniva in paese: di chi moriva, di chi nasceva; di chi si fidanzava, di chi scugghjaràva; di chi entrava e usciva di galera

IL PROBLEMA DEL SUO ANALFABETISMO, d’altronde, non l’aveva mai sfiorata quando, dalla mattina alla sera, zappava, mieteva o fiddijàva; né, tantomeno, quando all’ufficio postale, incassava, per conto della paralitica madre, analfabeta pure lei, quei quattro soldi della pensione, aggirando l’ostacolo di non sapere firmare, apponendo sul modulo uno sgorbio di croce con il sacramentale avallo di due occasionali testimoni. Così, come aveva fatto la genitrice, quando l’aveva delegata alla riscossione. Bisognava, dunque, correre ai ripari. Ma come? «Professore, sono venuta a trovarvi perché vorrei da voi un favore. E non di poco conto!» mi disse quel giorno, arrivando, trafelata, a casa mia, con un paniere pieno di noci. Alla mia osservazione che l’avrei favorita, anche se si fosse presentata a mani vuote, senza doni, lei avvampò in viso. Posò, di fretta, il paniere sopra una sedia e riprese: «Dio vi

mandano d’a Mérica. Vi prego, non ditemi di no! Non ho nessuno che possa aiutarmi. Solo voi potete venirmi incontro» mi supplicò. Poi, con le gote che sembravano due pomodori maturi, con fare nervoso, con le mani sudaticce, tirò fuori da una tasca della gonna di tela d’olona una lettera tutta unta e stropicciata. Alla mia disponibilità di leggerle tutte le lettere che il marito ed il figlio avrebbero spedito, lei, luminosa, cercando di frenare il formicolio che, dalla gioia, non la faceva più stare ferma sulla sedia, esclamò: «Dio vi benedica! Grazie, grazie! Lo sapevo, ero convinta che non mi avreste dato un dispiacere! Lo sapevo che sareste stato buono con me». Indi, allungandomi la lettera, impacciata, ma non senza un pizzico di contadina furbizia, balbettò: «Professore, se vi chiedessi di rispondere a mio marito pretenderei troppo? Vi dispiacìti? Altrimenti, come faccio? Io, le mie faccende private, personali, non voglio che vadano a finire in pasto alla gente! Appunto per questo sono venuta da voi. Di voi mi posso fidare. Sono più che sicura che non mi tradirete. Mai!».


Ombre e luci

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L’altra faccia della montagna raccontata senza sconti da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri

La nostra identità è il coraggio «É invece degli uomini il tornare, possedere la patria nell’anima. Ma non si torna mai nella terra perduta o nel tempo perduto. Si torna piuttosto alle origini, a un luogo oltre i luoghi, a un tempo oltre i tempi, dove c’è l’essenza della nostra vita» «Lo sforzo che muove al ritorno è la nostalgia, un sentimento che esalta gli affetti e restituisce l’amore dei luoghi cari. Ma che muta in rancore e utopia quando si fa sogno di restaurazione» di COSIMO SFRAMELI

U

lisse perde la strada di casa perché alcuni dei suoi offendono gli dei, ma anche per lo spirito d’avventura che lo animava, per vedere cosa c’era oltre l’orizzonte. In parecchi si trasformano in maiali, pur nella tragica coscienza di essere ancora essere umani. Ulisse cede alle lusinghe di donne facili e alle ricchezze che ne gratificano la vanità, facendogli dimenticare da dove è venuto e dove deve andare. Alla fine, si ritrova mezzo affogato e naufrago non lontano da casa, ormai privo di tutto, persino del nome. Ad Itaca, accolto e ospitato da un pescatore, sente narrare da altri la propria storia, proprio come capita a tanti ogni giorno. Piange per i compagni persi durante il viaggio, perché era a loro che aveva promesso il ritorno a casa, fallendo. Lo riconosce solamente il suo cane Argo, mentre le mura domestiche sono invase dai Proci che bevono il suo vino, mangiano il suo cibo, vestono i suoi abiti, insidiano sua moglie, tentano di traviare suo figlio. È proprio vero, tanti calabresi aspromontani sono partiti per cercare lontano il diritto di vivere dignitosamente. Allontanandosi, non si sono persi e, quando sono tornati, hanno trovato altri che hanno usurpato persino il loro nome. Proprio “altri” che a lottare per questa terra non ci sono mai stati o che hanno combattuto colpendoli alle spalle, servi vestiti da principi e imbroglioni vestiti da sacerdoti. Gli esuli sono gli stessi, sono i ragazzi di una volta; l’Aspromonte, ciò che rappresenta, è quello che hanno lasciato. Tante guerre sono finite vinte per gli altri, anziché per noi stessi, per amore di questa terra, casa nostra e dove i nostri figli sono nati.

LA RIFLESSIONE città di Troia. Ulisse vuole tornare nel regno incontaminato delle sue origini, dove abita la sua famiglia, dov’è la sua stirpe, dove vuol riannodare la trama del tempo perduto. Enea invece quel mondo lo ha ormai alle sua spalle, divorato dalle fiamme, e per lui non resta che salvare il salvabile (suo padre, suo figlio, i penati) e partire verso ignota destinazione in cerca di una patria elettiva, avendo perso la patria nativa. Ma anche il suo viaggio, come quello di Ulisse, è un ritorno. Vuole rifare casa, vuole rifondare la città perduta, e la catastrofe che è alle sue spalle non impone l’oblio ma il sacro rispetto della memoria, incarnata dal vecchio Anchise. Carica sulle sue spalle il peso tremendo e dolcissimo della memoria, porta in salvo suo padre, ormai indebolito, caricandoselo sulle spalle, proprio come faceva suo padre quando lui era bambino. Porta con sé la consorte e il loro figlio con l’intento di consegnargli le chiavi invisibili della città futura ancora da fondare. Ulisse riesce a fare ritorno e lo strazio di un regno mutato in preda a impostori e sciacalli viene alla fine cancellato dal suo vigore che riabbraccia la sua patria. Ulisse ripristina la vita di un tempo, ritrova la moglie, il suo letto piantato nella terra, suo figlio, la sua servitù, il suo fedele cane Argo, le origini del luogo. Quel che non torna è la gioventù, la sua e quella di Penelope; li aspetta una vecchiaia serena che si concede alla morte, dopo aver compiuto l’opera.

La sorte degli aspromontani somiglia a quella del pio Enea che dell’astuto Ulisse. Non devono tornare ad alcuna patria lontana, un incendio l’ha completamente distrutta

Non si viaggia che per ritornare, scrivevo tempo fa. Agli dei e alle pietre si addice la stasi, alle macchine e agli automi si addice l’andare, agli uomini si addice il tornare. Non riusciremo mai a stare pietrificati in un luogo, non siamo motori immobili come il dio di Aristotele. Ma non siamo nemmeno robot che vanno incessantemente. É invece degli uomini il tornare, possedere la patria nell’anima. Ma non si torna mai nella terra perduta o nel tempo perduto. Si torna piuttosto alle origini, a un luogo oltre i luoghi, a un tempo oltre i tempi, dove c’è l’essenza della nostra vita. Lo sforzo che muove al ritorno è la nostalgia, un sentimento straordinario sul piano interiore, che suscita arte e poesia, esalta gli affetti, restituisce l’amore del tempo vissuto e dei luoghi più cari. Muta in rancore e utopia quando vuol farsi sogno di storia e restaurazione. E il nostro Aspromonte non è il passato, è la montagna da cui non potremo mai separarci, come da una madre. L’epica del viandante ha due esempi mitici del mondo classico, il viaggio di Ulisse, il vincitore che sogna il ritorno, e il viaggio di Enea, il vinto che sogna di rifondare quel che ha perduto. Odissea e Eneide partono dalla medesima distruzione, la

La sorte dei calabresi dell’Aspromonte somiglia più a quella del pio Enea che dell’astuto Ulisse. Non devono tornare ad alcuna patria lontana, un incendio l’ha completamente distrutta. E non possono avvalersi di coloro che non ci sono più, gli abitanti hanno lasciato per sempre le case inondate di acqua e fango e, poi, avvolti dalle fiamme. Non resta che fondarne una nuova, muniti della memoria, con simboli ed eredi di quel mondo scomparso. Con coraggio, tornare per rifondare e non restaurare, per generare e non ripristinare, per propiziare la nascita e non salvaguardare l’estrema vecchiaia. Per un popolo silenzioso e pulito, che non si è sporcato le mani, non si è prostituito, non è stato complice, non è salito sul carro dei vincitori, non ha chiesto contributi né benefici, non ha fatto anticamera davanti alle stanze dei poteri, non si è fatto incantare dalle promesse. «Lasciammo alle spalle un passato che allo stesso modo non poteva più tornare» afferma lo scrittore meridionalista Gioacchino Criaco nel romanzo mondiale Anime nere. «Ci allettarono col denaro e il miraggio di una vita migliore. [...] Perché un popolo non può scegliersi il futuro e vivere come crede, sulla propria terra? Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone […]».

IL VOTO

I

l voto non dipende dalla povertà o dalla ricchezza. In Italia c’erano intere regioni del Nord (Veneto, Trentino) dove sia i poveri che i ricchi votavano in massa Democrazia cristiana. In Emilia, Toscana e Umbria, invece, poveri e ricchi votavano Partito comunista. Negli Stati Uniti il Sud vota in prevalenza democratico e il Nord repubblicano. Nel voto giocano tradizioni regionali, familiari, antipatie e vendette storiche. Il voto dipende dalla adesione ideologica, è un po’ come la religione. Chi è nato e cresciuto in una zona protestante riceve un’educazione protestante, pensa da protestante, reagisce da protestante. E lo stesso avviene per chi cresce in una zona cattolica, o per uno che cresce in un Paese islamico. Il contadino del Trentino cresceva in un ambiente cattolico e democristiano, quello toscano e umbro in un ambiente comunista. Entrambi imparavano a essere democristiani o comunisti in famiglia, all’asilo, sui banchi di scuola. Non gli veniva in mente la possibilità contraria. Ogni tanto però arrivano dei grandi momenti di crisi in cui le tradizioni vengono improvvisamente spezzate. Con la crisi del 1929, i tedeschi, compresi i comunisti, si sono rovesciati a votare in massa per il nazismo e lo hanno mandato al potere. Quando è precipitata la crisi in Algeria e stava per scoppiare la guerra civile i francesi, non sapendo più a chi rivolgersi, hanno mandato a chiamare il vecchio generale De Gaulle che ha risolto il problema. Ci meravigliamo che vi siano persone ricche, anzi ricchissime che votano a sinistra. Un giorno, un grande finanziere ha detto: «A noi non interessa se chi governa è di sinistra, di destra o di centro. Interessa solo che ci consenta di fare bene i nostri affari. Alcuni governi di sinistra sono utili perché tengono buoni i sindacati e finanziano la grande impresa per tenere bassa la disoccupazione. Alcuni governi di destra ci vanno bene perché abbassano le tasse e aumentano i consumi. Però noi non sappiamo cosa farcene dell’ideologia. L’ideologia serve ai poveri, è la speranza dei poveri». C.S.


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Aspromonte orientale

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Brancaleone superiore. Carmine Verduci lancia un appello sullo stato di abbandono del borgo

IL PAVIMENTO TRAFUGATO

La storia dei paesi aspromontani è caratterizzata da periodi in cui vigono il degrado e la dimenticanza. Ma ancora più grave è quando a questi si uniscono atti di sciacallaggio di CARMINE VERDUCI

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Cosa resta della pavimentazione della chiesa del paese? Solo piccoli pezzi di cotto

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Più che l’abbandono materiale pesa quello legato al disinteresse della gente

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La teoria, se confermata, potrebbe retrodatare la presenza dei monaci bizantini

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I beni preziosi sono vulnerabili, soprattutto se messi a contatto con l’indecenza umana Nello foto in alto una vista del borgo di Brancaleone superiore, mentre a destra i resti del pavimento in cotto della chiesa matrice dell’Annunziata. Foto di Carmine Verduci

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osa resta della pavimentazione della chiesa matrice di Brancaleone superiore? Solo quell’ultimo pezzo di cotto che vedete in foto, su una superficie di circa 80 mtq (il pavimento fu portato alla luce nel restauro del 1995, dopo anni di buio e oblio). Si, perchè il vandalismo negli anni successivi al ritrovamento ha permesso ancora una volta di cancellare quel che restava del nostro passato. La chiesa matrice dedicata alla Vergine annunziata, oggi, vive in uno stato che presagisce l’abbandono totale. Ma più che l’abbandono materialmente evidente, pesa l’abbandono immateriale, quello legato al disinteresse della gente, specialmente degli abitanti locali e del comprensorio. A ciò si unisce la disinformazione storico-archeologica, una conoscenza che avrebbe chiarito a tanti il valore di questa struttura antica. La chiesa fu edificata probabilmente intorno al 1200-1300 ed ha avuto la funzione di edificio sacro fino al 1930 circa. Probabilmente nacque sulle fondamenta di un preesistente edificio, scavato nella roccia arenitica, cancellato dai secoli e dai cataclismi. Nella parte ovest, alla base della struttura, infatti, è facile notare alcuni incavi, che fanno supporre l’esistenza di qualche grotta antica, o romitorio. Dei piccoli fori, probabilmente usati come incavi per la messa in posa di travi o sostegni, avvalorano la teoria che, se confermata, potrebbe retrodatare la presenza dei monaci bizantini al periodo delle presenze armene in questo luogo. Lo studioso e ricercatore Sebastiano Stranges ne è convinto. Dai racconti degli anziani giungono testimonianze importanti circa le caratteristiche architettoniche dell’edificio. Ancora oggi è possibile notare alcune sepolture, che contraddistin-

sero il periodo antecedente al Concilio Vaticano II, quando fu vietato di seppellire i morti all’interno degli edifici sacri. Nei primi del Novecento la chiesa subì gravi danni e, pur scampata ad alluvioni e terremoti nel corso dei decenni, lo stato della sua struttura cominciò a divenire precario. Per questo si ebbe la necessità di costruire una seconda chiesa e, nel 1939, il nuovo edificio si erse maestoso ai piedi dell’antico abitato

La scuola potrebbe dimostrare un minimo interesse verso il territorio di appartenenza dei suoi ragazzi?

(nella parte bassa del paese). Fu anch’esso dedicato alla Vergine Annunziata. Nel frattempo l’incuria e l’abbandono segnarono in modo irreparabile la vecchia struttura ecclesiastica che, priva ormai della copertura e a causa delle infiltrazioni all’interno delle sepolture ormai a vista, cedette rovinosamente nel muro portante a sud. Nel crollo morirono due persone, mentre una bambina fu trovata viva, salvata dai genitori. Era una notte di ottobre del 1944, e c’erano stati intensi giorni di pioggia. Iniziò così la lenta agonia dell’edificio, che venne via via ridotto in rudere. Oggi, nella parte alta del borgo, una spianata consente di osservare il panorama aspromontano, la vista spazia da levante a ponente, perché

l’antica Brancaleone è caratterizzata da una posizione così elevata che consente di volgere lo sguardo fino a punta Stilo, nelle giornate di Tramontana. Un primo restauro (quello del 1995) arrestò l’ulteriore processo di “polverizzazione” delle mura, e preservò in parte la struttura dal degrado atmosferico: per gli atti di vandalismo, invece, non ci fu nulla da fare. L’antico lastricato in cotto di forma esagonale, con il passare degli anni, fu trafugato dagli sciacalli, ed oggi abbellisce chissà quale giardino, chissà quale villa. Si ha, così, la percezione di quanto i beni preziosi siano vulnerabili, in particolar modo se lasciati a contatto con l’indecenza umana, con la stupidità e l’ignoranza degli “assassini della memoria” che hanno privato, e priveranno, le generazioni future di ammirare le antiche vestigia degli avi. L’aspetto propositivo di questa riflessione ci porta sicuramente agli aspetti sociologici dei nostri tempi, ma questo è un campo abbastanza complesso ed andrebbe approfondito da chi di competenza. Ma una domanda si fa chiara ogni qual volta ci si trova davanti ad un segno di deturpazione rurale. La scuola istruisce solo sotto gli aspetti storici “standardizzati e generici”? O potrebbe dimostrare un minimo interesse verso il territorio d’appartenenza, proprio dove i suoi ragazzi si trovano a vivere? Potrebbe essere questo un modo per avere molta più informazione e cura dei luoghi storici e non assistere più a episodi di degrado e disinteresse. É una speranza che riponiamo nelle autorità competenti, le stesse che hanno effettuato tante riforme scolastiche, in questi ultimi decenni. Tante, apportando però solo modifiche gestionali. Mai culturali.

L’APPELLO

I LUOGHI DEL CUORE

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Il borgo antico di Brancaleone chiede aiuto, ed è con quelle mura, che giorno per giorno si sbriciolano sotto l’indifferenza, che se ne andranno via le memorie di un paese che fu “il luogo dell’anima”. Perciò a tutti voi chiediamo un aiuto semplice e gratuito. Entrate nel sito iluoghidelcuore.it e votate Brancaleone superiore (accesso con Facebook). Un modo per sostenere il nostro borgo. Grazie a quanti lo faranno!» Carmine Verduci

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e origini del paese, secondo parecchie fonti storiche, risalgono intorno all’anno 1000, anche se si presume che prima di tale epoca già esistesse, nella zona oggi denominata “Sperlongara”, la città di Sperlonga. Di certo si sa che il centro per lungo tempo è stato rappresentato da Brancaleone superiore, dove esistevano ben 9 chiese, un convento, la pretura, il carcere, un castello e una torre, oltre al municipio e alle scuole. Poi, in seguito al terremoto del 1783, alcune famiglie si trasferirono nell’attuale centro di Brancaleone marina, che sin da allora divenne anche sede comunale. Un nuovo esodo verso la valle si è avuto dopo il terremoto del 1908, con il trasferimento di alcuni nuclei familiari nelle “Baracche”, così chiamata per antonomasia l’odierna Razzà; infine, il vecchio borgo è stato abbandonato completamente con l’alluvione del 1953, quando la gente si è trasferita tutta a valle per occupare le nuove casette popolari di “Paese nuovo”. Oggi il vecchio borgo assume l’aspetto desolante di un paese fantasma, anche se affascina numerosi turisti.


Aspromonte orientale

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Pardesca del Bianco. I giochi che, negli anni Settanta, impegnarono i ragazzi della frazione

LE BANDE DELLA PARDESCA

Mentre nel resto d’Italia si seguivano le mode e le tendenze del ‘68; giù da noi, i bambini giravano con i pantaloni rammendati, le casacche dello zio, spesso scalzi. Erano già grandi

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uella piccola frazione nel comune di Bianco… non ebbi mai modo di sapere se quanto si verificava là accadeva anche negli altri paesi. Suppongo di sì. O forse no. In realtà, non ho mai voluto saperlo. Quello che però mi piacerebbe fare (con un che di giudizio e sentimento) è qualcosa che offra un motivo di riflessione ai ragazzi di oggi. Si tratterebbe, in vero, di un viaggio a ritroso nel tempo tra le stradine di quei paesi che lasciano nel cuore e nell’animo di chi ci è vissuto un solco a tutt’oggi aperto. Il tutto, naturalmente, in un’epoca che viaggiava a cavallo tra la fine del malessere (inizio anni ‘70) e il principio del benessere, (fine anni ‘70). Gli anni in cui (da noi) si diventava uomini senza mai essere stati bambini. Perché bambino lo eri già, e a diventare uomo ci mettevi un attimo. Un solo attimo. Era la legge del bisogno che lo esigeva! Per un ragazzo, trasformarsi quotidianamente in uomo maturo non era poi così difficile; bastava uscire da quella piccola pausa ricreativa che offriva la giornata per andarsene a pascolare il gregge, o a raccogliere olive, ghiande per i maiali, erba per i conigli, a mungere la capra, la mucca Nella foto in alto a sinistra i ragazzi di e Dio solo sa cos’altro. Tutte cose Pardesca del Bianco negli anni ‘70, nella che - mi scuso per l’essere ripetitivo foto a destra una veduta della frazione. - catapultavano l’individuo nella reFoto di Francesco Marrapodi. altà parallela, quella, cioè, che racSotto Pardesca del Bianco fotografata dal vecchio borgo. Foto di Alfredo Crinò chiude in sé il mondo delle

di FRANCESCO MARRAPODI

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Si tratta di un viaggio a ritroso nel tempo tra le vie dei nostri piccoli paesi montani Camminavamo « con un paio

di scarpe con buchi grandi quanto i crateri dei vulcani

Creammo un « mondo a nostra

misura, fatto da eroi, generali, soldati, e grandi debolezze

responsabilità. E così, mentre nel resto d’Italia i ragazzi della nostra età vestivano i pantaloni a zampa di elefante e canticchiavano “Ma il cielo è sempre più blu”, in Calabria camminavamo con i piedi dentro un paio di scarpe con buchi grandi quanto il cratere di un vulcano; indossavamo pantaloni rammendati, le casacche dello zio, del fratello più grande e via dicendo. Si correva contro corrente, insomma; dietro un tempo che falciava gli anni

DIVENTARE UOMO Si andava a pascolare il gregge, a raccogliere olive, ghiande per maiali, erba per conigli, a mungere la capra, la mucca e Dio solo sa cos’altro galoppando ad ali spiegate tra le cocenti estati e i rigidi inverni del nostro incantevole Mezzogiorno. E comunque si era vivi! Così nel cuore come nell’anima. Intenti a non sprecare un solo secondo di quel po’ che ci concedeva la vita. Non certo attaccati ai cellulari a messaggiare o davanti al computer a dissipare bestemmie e improperi contro l’interlocutore dall’altra parte del filo. Che

tristezza! Che angoscia! Non era così ai tempi nostri. Non per i ragazzi della Calabria. E ancora meno per i ragazzi di Pardesca, che, tra le altre cose, si prodigarono a creare le bande: la banda “di sotto” e la banda “di sopra”. Tra le trovate destinate al gioco, i ragazzi di Pardesca avevano diviso il paese in due: la zona di sopra per i ragazzi delle baracche, la zona di sotto per i ragazzi della piazza. Tuttavia successe che, una volta stabiliti i confini, ci rendemmo conto che non bastava solo questo ma ci dovevano essere dei ragazzi a controllo degli stessi. Presto capimmo che questi ragazzi dovevano, a loro volta, far parte di un gruppo. Per cui, non ci restò che creare un mondo collettivo, fatto di regole e di appartenenze. Si trattava di un mondo affine a quello dei “Ragazzi della via Pàl” di Budapest, con la differenza che noi si faceva un po’ più sul serio. Oltre a combattere guerricciole di quartiere, compievamo vere e proprie scorribande a danno dei nostri avversari. E così, a incassare, un giorno erano quelli della banda di sotto, a cui veniva distrutta la casa sull’albero; il giorno seguente quelli della banda di sopra, a cui veniva saccheggiato e demolito il rifugio. Non c’era scampo, insomma. Non c’erano privilegi. Non c’erano risparmi. Solo botte e risposte. Le bande erano costituite da un minimo di quindici o sedici ragazzi. Ognuna delle quali aveva, prima di tutto, un quartiere alternativo, e cioè un punto, a seconda della zona in cui si faceva parte, dove incontrarsi per decidere le faccende riguardanti la banda. C’era poi un capo, un vice, un messo, tre o quattro vedette, due o tre armaioli, uno stratega; tutti personaggi che, all’occorrenza, si trasformavano in combattenti. Teatro degli scontri erano: la Croce, i Santìni, il Cannone di Cocca, la Pardesca vecchia, ovvero quelle aree attigue al paese dove venivano organizzati un massimo di due combattimenti al mese. Combattimenti che ci pensavano i portavoce delle due fazioni a combinare, seguendo un rigido protocollo, come se ci fossimo giurati inimicizia eterna. E così, tra un urlo d’attacco, un colpo di spada, uno scontro e una tregua, correva la nostra infanzia.

A volte, nei rari momenti di pausa lavorativa, poteva succedere che s’installavano delle vere fabbriche di armi. Con i cerchi delle botti, ad esempio, eravamo riusciti a creare delle taglienti spade, con i ferri di ombrelli e ombrelloni frecce e archi, con le corpose foglie degli aloe elmi e armature. E poi fionde, mazze, lance. Come in tutte le battaglie, anche in queste, benché non fossero vere, c’erano vinti e vincitori. Natural-

LE ZONE DEL PAESE I ragazzi di Pardesca avevano diviso il paese in due: la zona di “sopra” per i ragazzi delle baracche, la zona di “sotto” per i ragazzi della piazza mente non si vincevano trofei, non si conquistavano nuove arie e non si prendeva possesso di nulla. Si lottava solo per la gloria. E bastava questo. Ciò raccoglieva un certo che di consenso, specie tra i giovani un passo avanti a noi, reduci già da qualche anno delle medesime iniziative. Del resto, si sa, tutto aveva un limite, anche se qualche volta ci scappava il ferito; si trattava però di taglietti risolvibili con qualche punto da parte del medico condotto. Anche questo rientrava nella norma. Nella norma del gioco. Tutto sommato, il nostro criterio non differiva granché da quello che presentava la vita là fuori. In vero, era un modo come un altro per vivere quell’esistenza epopeica che ogni ragazzo della nostra età sognava. E fu precisamente per far fronte a questo tipo di esigenze - se così vogliamo chiamarle - che creammo un mondo su misura per noi. Un mondo di piccoli eroi, di piccoli generali, di piccoli soldati, di piccole pecche e di grandi debolezze. Uno squarcio di mondo tanto angusto quanto smisurato, che per i ragazzi di Pardesca (per un lungo periodo di tempo) riprodusse su campo le scene della vita; quella “realtà” per cui l’essere umano, ora volontario, ora costretto, continua a lottare tutta la vita.


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Catu Chorìu

di Salvino Nucera

VECCHI GIOCHI...

di Bruno Salvatore Lucisano

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opo mangiato, l’appuntamento era lungo la fiumara e nel giardino accanto, dove, i ragazzi, in assenza del guardiano, mangiavano a sbafo la frutta, in base alla stagione. Generalmente arance e mandarini, ma anche pere e mele che ora non si trovano più. Peppe, ogni tanto, si assentava per dedicarsi al suo sport preferito che era la caccia alle lucertole. Munito di un cappio, preparato ad arte con un filo d’avena, passeggiava lungo il muro che faceva d’argine alla fiumara, finché non trovava la lucertola giusta. E per giusta s’intende bella, grossa e colorata. Usava il cappio con assoluta destrezza, come il domatore fa con la frusta e, individuato l’animale, non gli dava scampo. Poi arrivava il bello, anzi il brutto. Dopo aver giocato per ore con la lucertola fino a sfinirla, l’appoggiava di schiena al tronco di un ulivo e, a una a una, gli infilzava le zampette con una spina di aloe e lì la lasciava morire. Lo scheletro della povera bestiola rimaneva attaccato all’albero per mesi, fino alla putrefazione. Bruno che assisteva a queste scene, quasi giornaliere, ha chiesto più volte spiegazioni a Peppe di questo comportamento, ottenendo di risposta una risatina macabra e lo sfrigolio del cappio d’avena sotto il naso. Non che si comportassero meglio gli altri due amici della cricca, i quali, armati di carabina di marca Diana 4.5, nella sola mattinata di Pasquetta, di lucertole ne hanno ammazzate più di cento. Loro si giustificavano dicendo che in questa maniera le povere lucertole, colpite in piena testa, morivano subito senza sofferenze. Altre vittime sacrificali erano i passeri che di notte, per dormire, andavano a riempire gli alberi alla fine del paese. Bruno e Pino, a turno, si scambiavano carabina e pila e sparavano sulle povere bestioline indifese che, raggiunte dalla luce della lampada, sembrava li guardassero per chiedere pietà. Una sera ne uccisero talmente tanti che, per portarli a casa, Pino, che li mangiava fritti con patate e peperoni, li raccolse in due grandi tegole non avendo altro dove metterli. Altre vittime della carabina ad aria compressa erano i piccoli gechi che, colpiti alla testa, rimanevano per un bel pezzo attaccati al muro, prima di soccombere e precipitare a terra. Durante le prime piogge di ottobre, quando nella fiumara si creavano delle pozzanghere e lì si facevano vive le prime rane, iniziava un altro sport preferito dai ragazzi che era la lapidazione dei ranocchi. Giù a colpi di pietra fino a stancarsi il braccio e, le povere bestie, venivano così sfracellate e lasciate seccare al sole d’autunno. In quel periodo questi erano i giochi preferiti da questi bravi ragazzi, né righetta, né bottoni, né trottole col laccio, né scaricabarile, c’era il rischio di farsi male! Questione di gusti. I ragazzi del racconto sono esistiti davvero e molti di loro ci sono ancora. Nessuno di questi è diventato un killer, anche se promettevano bene. Sarà che i troppi “omicidi” in gioventù, li hanno portati a più miti propositi.

info 393/9045353 0964/992014

Aspromonte greco

inAspromonte

Si sceglieva il pezzo più voluminoso tra la frutta secca, e questo diventava il mbaddhu

BIMBI A ROGHÚDI

fossàla, Gelòrmu, to castèddho

I giocattoli di un tempo, fatti di nocciole, ghiande, castagne, noci, terra e pietre. E ancora tanto fiato, cuore e fantasia

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A FOSSÁLA

n gioco molto diffuso tra i ragazzi di Ghorìo era quello della fossàla. La fossàla era una buca ricavata nel terreno dentro cui due o più giocatori tiravano, quando giungeva il proprio turno, noci, castagne ed anche delle ghiande. Il primo giocatore che, tirando una noce, una ghianda o una castagna centrava la buca senza toccare la terra aveva diritto a prendersi quanto c’era nella buca stessa ed anche tutta la frutta che non aveva centrato la buca ed era rimasta all’esterno. Il gioco riprendeva daccapo con il vincitore che ricominciava a tirare dalla posizione già scelta in precedenza o da più distante se gli altri giocatori ne facevano richiesta.

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PATRI GELÓRMU

l gioco di Patri Gelòrmu (Padre Girolamo) lo praticavano sia i più piccoli che gli adulti. Erano sempre molto numerosi quelli che vi partecipavano. Più nutrito era il numero dei giocatori, più grande doveva essere “costruita” la “casa” di Patri Gelòrmu. Si usavano come pietre delimitative due o quattro mura di qualche abitazione dirupata, oppure si disegnavano delle linee sulla terra. Tutti i giocatori dovevano partecipare alla conta. Chi veniva indicato dal conteggio entrava subito nell’area (casa) prestabilita per il gioco inizialmente col semplice nome di Gelòrmu. Preso possesso della casa il gioco poteva avere inizio. Gelòrmu gridava a voce alta perché tutti lo potessero udire, dovevano sentirlo: «Esce Gelòrmu!» e su un solo piede incominciava a correre il più velocemente possibile nella direzione in cui correvano i partecipanti al gioco, naturalmente inseguendo quelli che erano considerati più lenti. Se, per un motivo qualunque, durante la sua rincorsa, Gelòrmu poggiava l’altro piede per terra tutti i giocatori lo rincorrevano e lo riempivano di pugni. L’unico modo per evitarlo era di correre come il vento per raggiungere la “casa”: uno spazio considerato inviolabile. Se Gelòrmu, al contrario, correndo su un solo piede, era in grado di toccare, o di sfiorare, un altro giocatore con la mano o con un’unghia, automaticamente questi diventava “figlio” di Gelòrmu che a quel punto diventava Patri Gelòrmu. I due dovevano dunque mettere le “ali” ai piedi e volare velocemente dentro lo spazio-casa se non volevano essere riempiti

di pugni da tutti gli altri. Una volta dentro casa Patri Gelòrmu poteva dire: «Esce Patri Gelòrmu da solo!» «Esce il figlio di Patri Gelòrmu!» «Esce Patri Gelòrmu con suo figlio!». Man mano che il gioco andava avanti e la famiglia di Gelòrmu aumentava egli decideva di volta in volta quanti e quali figli far uscire per far diminuire il numero dei giocatori-avversari. I figli designati all’uscita venivano indicandoti per nome, a voce alta, o potevano essere inviati tutti, con l’inclusione o l’escusione dello stesso Gelòrmu che restava in casa “per motivi di stanchezza”. Tutti i figli dovevano ubbidire ciecamente al padre e se qualcuno di essi si rifiutava di accogliere gli ordini Gelòrmu questi lo espelleva da casa e tutti gli altri fratelli potevano colpirlo, ma solo finchè rimaneva nello spazio-casa. In alternativa poteva uscire, ma a quel punto si trovava tutti gli altri giocatori in agguato, pronti a gonfiarlo di pugni. Anche loro, però, dovevano muoversi con occhio attento perché all’improvviso, approfittando dell’occasione, Gelòrmu poteva uscire con tutti i suoi figli e far diventare anche i giocatori-avversari figli suoi, portandoseli tutti in casa.

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TO CASTÉDDHO

n gioco molto somigliante a quello della fossàla era quello del casteddhu o mbaddhu. Ogni ragazzo che partecipava al gioco doveva essere in grado di far stare in piedi un “castello” costruito con castagne, noci o ghiande. Tutti i castelli dovevano essere posizionati uno vicino all’altro. Ogni giocatore sceglieva il pezzo più voluminoso tra le castagne, le noci, le ghiande, e questi diveniva il ‘mbaddho da cui prendeva anche il nome il gioco. Serviva per essere lanciato contro i castelli con lo scopo di colpirli, ovviamente uno per volta, e demolirli (buttarli giù). Chi ci riusciva veniva in posseso delle ghiande, castagne o noci. Si lanciava il ‘mbaddho da un luogo prestabilito con l’accordo di tutti i partecipanti. Si continuava a tirare fino a che tutti i castelli non erano stati demoliti. Successivamente il gioco riprendeva con le stesse modalità ed andava avanti fino a quando i gicatori perdenti avevano il numero di frutta necessario per costruire il castello e il ‘mbaddho per colpire.


Aspromonte greco

inAspromonte Novembre 2014

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Bova. Un viaggio duro, tra nostalgie, ricordi, paesaggi innevati e strade anonime della metropoli

LA NEVE E LE LUCI IN CITTÁ

La “dama bianca”, presenza controversa nello scenario d’Aspromonte, diventa il labile filo conduttore di un racconto-metafora sul rapporto tra il calabrese, gli affetti e la montagna di GIANFRANCO MARINO

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La mente è fervida di ricordi, fatti, ambientazioni, facce, momenti, flash di passato recente

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Chiudi gli occhi e auto, gente, rumori scompaiono e nella mente compare l’Aspromonte

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D’un tratto il clacson di un tram mi sveglia, lo sguardo torna sulla via Ripamonti

Nella foto in alto a sinistra i tetti del centro storico di Bova, a destra la neve sulle montagne di Bova. Foto di Gianfranco Marino

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uando rimani solo, spesso fisicamente, altre volte nell’animo, il tempo per pensare è tanto, cerchi allora di impegnarlo, di non riflettere, di convincerti che l’incedere della vita debba, necessariamente, prendere il sopravvento sovrastando tutto e tutti, e poi per fortuna è quasi sempre così. Ma la mente, si sa, è fervida di ricordi, fatti, ambientazioni, facce, momenti, flash di un passato recente, ma, il più delle volte lontano, che si riaccendono in modo incontrollato ed incontrollabile. Guardi fuori dalla finestra di un anonimo condominio nei pressi di via Ripamonti e vedi luci, auto, gente che corre veloce, senti suoni di clacson, tutto in un mondo che cerchi di sentire tuo, ma piano piano ti convinci che non ti appartiene, allora apri la finestra dell’anima alla ricerca di quello che ti è sempre appartenuto ma che, oggi, senti rivivere solo nella mente. Di persone, di cose, di situazioni rimane poco, tutto spazzato via dall’incalzare impietoso di un tempo, per molti prodigo di luci, per altri avaro di concessioni. L’autunno, aspettando il duemilaquindici, procede in modo quasi anonimo, tra sfuriate sub-tropicali, bombe d’acqua, momenti di quiete e, in attesa del grande inverno, la mente corre a qualcosa che negli anni è rimasta impressa più di altre, forse perché indipendente dalla volontà umana, forse perché, se hai la certezza che certe cose dell’uomo non si ripeteranno più, sai anche che qualcuna legata alla natura ti lascia la speranza di poterla gustare ancora, con occhi diversi, non più da ragazzo, con occhi di chi della vita ha provato anche il lato più amaro. Chiudi gli occhi e per un attimo tutte quelle macchine, tutti quei rumori, tutta quella gente, scompaiono e nella mente compare l’Aspromonte pieno dei suoi colori, il verde dei boschi di leccio e castagno, il giallo

della ginestra, il grigio della nebbia, il bianco della neve e rivedi le lunghe ed interminabili serate passate davanti al camino acceso, ti sembra di risentire il profumo della legna che arde. Era il 30 Gennaio 1999, lo ricordo bene, era il primo compleanno di papà che non potevo più festeggiare, lui era andato via troppo presto, la primavera precedente, in un caldo pomeriggio romano, lontano da quelle montagne che amava tanto. Pensavo proprio a questo in quella

Figghiu si rriva ddu tempu chi si preparau a levanti faci tanta la nivi chi non scuagghia mancu pe aprili

sera di gennaio, sulla mia 500 color grigio, in un angolo della piazza ad ascoltare musica e a riscaldarmi le mani accendendo di tanto in tanto il motore. L’aria fredda e i vetri appannati mi ricordavano che da quasi vent’anni i tipici inverni aspromontani arrivavano sempre più a singhiozzo. Dieci, quindici centimetri di neve, il cielo, su, a circa novecento metri di quota, li continuava a regalare, ma quelle stalattiti che scendevano dalle tegole come lunghe e splendide sculture naturali, stentavano sempre più a ricomparire. Il clima ormai da qualche giorno era freddo, molto freddo, da circa una settimana il termometro non saliva sopra i tre gradi neanche di giorno. Chi in Aspromonte è nato e cresciuto ha imparato a conoscere il tempo, da queste parti incredibilmente mute-

vole e sa che il Levante da queste parti è sempre prodigo di sorprese. Compare Mico i suoi ottant’anni li portava davvero bene, lui di inverni ne aveva visti tanti e con le nuvole sembrava parlarci. Niente giubbotto imbottito, solo una giacca sulle spalle per fare rientro a casa nel gelo della sera. Mi bussa al finestrino e mi dice di rientrare che il tempo minaccia. «Compare Mico, cosa dite, la fa la neve o ci prende ancora in giro?» «Figghiu si rriva ddu tempu chi si preparau a levanti faci tanta la nivi chi non scuagghia mancu pe aprili!». Lo saluto e continuo ad ascoltare la radio, l’orologio digitale della 500 segna le 18:33, e i primi timidi fiocchi iniziano a posarsi quasi con timore sul parabrezza, d’un tratto un tuono sordo annuncia quella che sarà una delle nevicate più copiose dell’ultimo ventennio. In un attimo il paesaggio cambia colore. Salgo di corsa a casa, trovo mia madre davanti al camino, poverina, intenta com’era a leggere, non si era accorta della nevicata appena iniziata. Attizziamo il fuoco e guardiamo fuori dalla finestra, come facevamo sempre, prima di salire al piano di sopra per la nanna quando ero bambino. Sono le quattro del mattino e la neve continua a cadere senza sosta ormai da otto ore. Non riesco a chiudere occhio, eccitato come un bimbo, come quando aspettavo che papà mi portasse al campo sportivo a correre a perdifiato voltandomi indietro a guardare le mie stesse impronte e, una volta esausto, mi fermavo a preparare il mio bel pupazzo di neve. All’alba l’Aspromonte mostra il suo lato immacolato, al suolo ci sono oltre 60 cm di neve fresca. Sento il rumore della pala meccanica, è quella del Comune che cerca di aprire una pista carrabile. Mi vesto di corsa per andare non so neanche io dove, la porta è bloccata, apro la finestra e mi calo lentamente facendo

leva sulle braccia e scivolando lungo la schiena, poi mi lascio andare e sprofondo nella neve, sento mia madre che, quasi per inerzia e per dovere, accenna ad un rimprovero, allora penso: è proprio come quando ero piccolo! Ai bordi delle strade, in un silenzio surreale, la neve ammassata dal mezzo meccanico sfiora il metro d’altezza e quindici giorni dopo, complice un periodo incredibilmente freddo, non è ancora scesa sotto la soglia del mezzo metro. La neve scomparirà completamente

Negli occhi ci sono luci che corrono veloci, nel naso mi sembra di avvertire ancora l’odore della legna che arde

dal centro abitato solo i primi giorni di marzo. Alle spalle del paese, su in montagna, sarà la metà aprile, proprio come aveva detto compare Mico. D’un tratto un clacson mi sveglia, lo sguardo torna sulla via Ripamonti angolo piazza Quaranta, il clacson è quello del tram, è il numero 24, quello che porta verso Pieve Emanuele. Lo sguardo torna sulla città, ormai da tempo non è più la Milano da bere, o almeno non per tutti, quella è sfumata, negli occhi c’è solo la cartolina di una metropoli che, un po’ bonaria un po’ con austero distacco, si mostra disponibile ad accogliere tutti con il loro carico di ricordi e aspettative. Negli occhi ci sono quelle luci che corrono veloci, nel naso però mi sembra di avvertire ancora l’odore della legna che arde.


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Aspromonte settentrionale

inAspromonte Novembre 2014

IL RACCONTO

Luca e la sanpaolara

di Antonio Perri

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on stava mai fermo. Ora giocava con le pietre vicino casa, ora rubava il pane dalla mensola, ora giocava col cane del vicino. Luca Sassi era un ragazzino di cinque anni molto vivace che viveva nella Piminoro del 1920, accudito dal padre Giorgio, che faceva il fabbro. Era inverno, nelle prossimità di Natale, forse un mese prima. La madre di Luca, Adele, era una delle ragazze più belle del paese dell’Aspromonte. Ma Adele non c’era più, era morta dando alla luce il bambino e lasciando un grande vuoto nella famiglia Sassi. Giorgio, che era un grand’uomo, sapeva essere un buon padre e riusciva a non far sentire la mancanza della madre al piccolo. Lui però pensava sempre alla sua sposa morta di parto, soprattutto quando guardava il bambino. Si era fatta l’antivigilia di Natale, pioveva, faceva un tempo da lupi. Giorgio dormiva, dopo una giornata di duro lavoro, vicino al caminetto acceso, Luca, sulla sedia di vimini di lato dal padre, sonnecchiava anche lui quando un gemito lo fece agitare. Non si sa come un serpente velenoso era sgusciato dalla finestra e avvicinatosi a Giorgio l’aveva morso. Ora puntava diritto su di lui. «Non ti muovere! Non fare una mossa o ti morderà» fece una voce appesantita dagli anni. Era una vecchietta coi capelli bianchissimi che continuò «Lasciala a me. Sono Elisa, una sanpaolara, sono capitata qui per l’elemosina di San Paolo, ma quella serpe non l’ho vista. Dev’essere indemoniata». Attirata dalla donna che recitava i suoi salmi, la serpe si fece avvolgere dalle sue mani aggrinzite, che poco dopo le stritolarono la testa. «Grazie Elisa. Ma papà… e ora che farò?». Elisa guardò intensamente Luca negli occhi e questi disse: «Resta». Da quel giorno Luca, che era rimasto senza genitori, trovò una nonna che gli avrebbe voluto sempre bene. Nella foto in alto le nuove strisce pedonali, da poco dipinte, e le vecchie strisce pedonali, appena visibili, davanti alla porta dell’ufficio postale di Santa Cristina d’Aspromonte. Foto di Giuseppe Gangemi

LA PROPOSTA

Santa Cristina d’Aspromonte, l’Ufficio postale e l’importanza di scriversi le lettere

LE STRISCE PEDONALI

di GIUSEPPE GANGEMI*

D

a tanto tempo Pino non andava a vedere il Borgo. Da quando era ragazzo. L’estate scorsa gli viene voglia di farlo. Prende la strada che porta dal basso rione Bologna al basso rione Borgo. Arriva dove c’era il vecchio forno di sua zia Nora. La bassa e piccola casa che ospitava il forno non c’è più. È stata abbattuta da tempo. Prende la strada a sinistra, molto ripida, del vecchio forno. Passa davanti alle case di suoi vecchi amici, Bbampa, Peppi, l’osteria del prozio Ludovicu. Solo un rapido sguardo e va avanti. Nessuno abita più lì: gli adulti di allora sono morti; dei suoi compagni di allora, molti non abitano in paese e i pochi si sono trasferiti in altre vie. Procede in salita e sbuca sulla piazza. Raddrizza la schiena, si ferma un attimo e guarda avanti. Vede le scale che portano al corso Umberto I, la strada statale che attraversa il paese. Non sono più le belle scale curve, coi passamani di pietra di quand’era ragazzo. Sono brutte e strette, coi passamani di ferro. Sale le scale e si ferma, sorpreso, quando, arriva in cima. Si accorge, per la prima volta, delle nuove strisce pedonali. Non sono dove si ricordava: sono state spostate di cinque o sei metri a sinistra; puntano dritte verso un viottolo

di VINCENZO STRANIERI

che porta, per viuzze che percorrono solo coloro che abitano in quei vicoli, al rione Macello. Per quanto si ricordi, pochissimi fanno quel viottolo. Poche sono le case ancora abitate oltre quelle che si affacciano direttamente su corso Umberto.

Lo faccio per ogni contadino che la sera, tornato dal lavoro, si mette a scrivere o si fa scrivere, dal parroco o da un conoscente “letterato”, una lettera al figlio, al fratello o al padre emigrato e che, poi, a ufficio già chiuso, imbuca la lettera Una volta, se lo ricorda bene, le vecchie strisce pedonali puntavano dritte alla porta d’ingresso dell’ufficio postale. Se ne vede ancora il segno, quasi cancellato dal tempo. Guarda le nuove strisce, guarda le vecchie. E rimane malissimo. Suo padre, Saverio, ha lavorato all’Ufficio postale, fino alla morte. Con una dedizione che così gli aveva descritto, quando era ancora un bambino: «Mi alzo tutte le sante mattine di sei giorni la settimana, esclusa ovviamente la domenica, per essere alle 4.15 all’ufficio postale. Mi chiudo dentro, prendo tutte le lettere, anche

ogni contadino che la sera, tornato dal lavoro, si mette a scrivere o si fa scrivere, dal parroco o da un conoscente “letterato”, una lettera al figlio, al fratello o al padre emigrato e che, poi, tardi, a ufficio già chiuso, imbuca la sua lettera. Lo faccio per questo contadino che ha il diritto che la sua lettera sia spedita subito, senza perdere un minuto rispetto al possibile. Figuriamoci un giorno». Alle otto suo padre riapriva l’ufficio postale che veniva visitato da tantissimi paesani, fin quando restava aperto. Ed era aperto sei giorni la settimana, con una lunga pausa meri-

diana, fino a sera. Ci passavano tutti da quell’ufficio: per ritirare la pensione, per spedire una lettera, per chiedere una qualche informazione. La posta era il luogo da cui i paesani di una volta si affacciavano sul mondo. Nei giorni di paga per i tanti analfabeti, stazionava nell’Ufficio un vecchio pensionato, Costantino, che poi divenne l’uomo più anziano del paese, perché visse 102 anni. Faceva il testimone, nel senso che garantiva con la sua firma, e con quella di un secondo che usciva a chiamare quando necessario, la croce degli analfabeti sulla ricevuta del pagamento. Adesso, l’ufficio postale di Santa Cristina d’Aspromonte non ha più l’importanza di una volta. Pochi scrivono lettere e il telefono in tutte le case ha sostituito i telegrammi. Ormai apre solo tre giorni la settimana. E le nuove strisce, impietose, si sono dirette in un’altra direzione, rivelando questa minore importanza ai paesani che le calpestano indifferenti.

*

Università di Padova Docente di Scienza dell’Amministrazione E-mail

giuseppe.gangemi@unipd.it

La Roccia del diavolo A

Sullo sfondo il nuovo santuario dedicato alla Madonna delle Grazie. La roccia del diavolo è interrata a poca distanza della pianta di fichi d’India

quelle imbucate di notte, le metto in un sacco, lo chiudo, lo sigillo con la ceralacca, lo marchio con il timbro tondo dell’ufficio e lo consegno, alle 4.40, al bigliettaio dell’autobus per Reggio Calabria che parte, regolarmente, cinque minuti dopo. Quindi, me ne torno a dormire. Lo faccio per

Caraffa del Bianco, nei primi anni ‘70, la Roccia del diavolo - posta a poca distanza del piccolo Santuario dedicato alla Madonna delle Grazie - è stata completamente interrata allo scopo di ampliare l’antica strada di campagna che collegava la zona con il resto degli appezzamenti di terreno posti più a valle. È stato così cancellato un altro vitale tassello della nostra tradizione. A pochi metri di essa c’era una gigantesca quercia secolare che - poco tempo dopo - ha incontrato anch’essa la mano demolitrice dell’uomo. I fedeli, che ogni l’uno ed il due di luglio (data dei festeggiamenti della Madonna delle Grazie) venivano a piedi da Samo, Pardesca, Bianco, S. Agata e Casignana, facevano sosta accanto alla Roccia del diavolo. Specie le donne, mostravano di temere

l’impronta del demonio (raffigurante un piede di pipistrello), cercando sicurezza nell’impronta della Madonna (un piccolo e delicato piede) che si era opposta alla volontà tentatrice e maligna del diavolo. La tradizione ci ricorda che dalla Roccia del diavolo, in data imprecisata, un rivolo di lacrime (quelle della Madonna) arrivò fino al vicino Santuario. La roccia stava a testimoniare l’eterna lotta tra il bene e il male, coprendola di terra si è procurato un danno incalcolabile, privando per sempre le generazioni future di un patrimonio culturale importante ch’era giusto mantenere nel tempo. In L’età breve, Corrado Alvaro testimonia sul significato di tale antica simbologia (pipistrello = diavolo): «In una cella che si apriva sulla scala della soffitta, e dove si diceva che

avesse soggiornato un santo, le pareti erano dipinte di ali di pipistrelli: erano le impronte delle ali dei demoni i quali avevano assalito quel santo e ne erano stati sbaragliati. Essi volevano indurre il santo in tentazione». Sarebbe cosa buona e giusta cercare di rimediare a questo grave delitto culturale, organizzando, magari, uno scavo che riporti nuovamente alla luce questo prezioso tesoro della nostra comunità. Non è cosa impossibile, il proprietario del terreno - a esempio - si è detto disponibile. Un’idea risolutrice, pertanto, potrebbe essere la creazione di un gruppo di lavoro che, unitamente a tutte le persone di buona volontà, consenta soprattutto ai giovani di riappropriarsi di un così importante tassello della loro/nostra bella storia antropologica.


L’inchiesta

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ZEUS OMARIUS

Anni ‘90. La Comunità montana con sede a Cinquefrondi si “inventa” il Parco naturale dello Zomaro

non abita più qui

A destra il monte Scapparrone, sopra lo Zomaro (Aspromonte orientale). Foto di B. Criaco

Perché è stato progettato il Parco? Qual era la sua destinazione? Chi avrebbe dovuto gestirlo e con quali mezzi? Non esiste risposta per spiegare strutture candidate al ruolo di ecomostri

I

di ARTURO ROCCA

l compianto Domenico Raso, nel saggio Zomaro-La montagna dei sette popoli, ed. Laruffa 2001, riconduce a Zeus Omarius (Giove Conciliatore) l’oronimo Zomaro ed una sua attenta ricerca sui resti di fortificazioni presenti a Palazzo e Bragatorta, nei pressi del villaggio, mette al centro della storia tra il VII ed il I sec. a.C. un territorio interessantissimo dal punto di vista naturalistico e ne tratteggia l’importanza quale snodo viario e difensivo nel periodo romano. Egli colloca qui lo scontro tra il Gladiatore Spartaco e le truppe di Marco Licinio Crasso (72-71 a.C.), e su tale ipotesi storica si attende un parere della soprint e n d e n z a archeologica. Il villaggio Zomaro, negli anni ‘60 del secolo scorso, ebbe un forte impulso di attività economiche legate all’allevamento del bestiame con una struttura all’avanguardia (esisteva la sala parto per le mucche quando ancora non l’avevano alcuni ospedali) e la realizzazione del laghetto Crocco per l’approvvigionamento idrico del vaccarizzo. Vi era una residenza estiva dei principi Acton denominata il Casino del Principe posta al centro di un giardino ricco di rarità botaniche, tra cui magnifici esemplari di tasso (l’albero della morte perché velenoso) e di nespolo germanico ed a cui si accedeva mediante una larga sterrata fiancheggiata da magnifici esemplari di abete bianco. Da anni la proprietà è passata alla Diocesi di Oppido-Palmi che, allo stato attuale, non ha deciso cosa farne. Delle due strutture restano i ruderi, come se ne vedono solo in

zone post belliche: i vandali hanno cancellato con un sol colpo l’idea di uno sviluppo non invasivo che sembrava possibile in quegli anni, la delinquenza ha completato l’opera uccidendo la speranza e la montagna è diventata per anni terra bruciata. Negli anni ‘90, a seguito di un rinnovato interesse dopo la ricostruzione dell’ostello e la costruzione della Porta del Parco, viene ideato il Parco naturale attrezzato dello Zomaro a cura della Comunità montana ver-

fatti altri interventi per tamponare le prime sottrazioni ad opera di ignoti vandali, tra cui la caldaia del riscaldamento. La struttura resta in balia degli agenti “non” atmosferici, che ne portano a termine un’opera sistematica di ruberie e vandalismo, per cui oggi restano appena i muri perimetrali ed i tetti. La Comunità montana committente ha altre gatte da pelare: il distacco della corrente alla sede per morosità, ad opera dell’Enel, o l’impossibilità di pagare gli stipendi. Intanto la ditta che ha fatto i lavori è sparita lasciando insoluti i fornitori ed anche qualche spettanza degli operai. Il degrado dell’area si aggiunge come un capitolo nel volume del debito pubblico senza che ci sia stata una ricaduta positiva sul territorio che, anzi, è cosparso di macerie che un nuovo Ente (Provincia? Comune?) dovrà pagare per rimuovere visto che le Comunità montane sono in liquidazione. Si fronteggiano le rovine del Parco naturale con quelle della Porta del Parco nazionale dell’Aspromonte anch’essa distrutta e che come simbolo esibisce l’elica del generatore eolico ammosciato per mancanza di una pala. La domanda è: nessun responsabile? Perché è stato progettato il Parco naturale (sic!) se non si è neanche tentato di adibirlo alla sua originaria destinazione? Ma qual era la sua destinazione? Chi avrebbe dovuto gestirlo e con quali mezzi? Solo la nebbia avvolge in un velo pietoso i luoghi e in tanti sperano che

Solo di impianti idrici, fognanti, di tubazioni in acciaio e impianti di riscaldamento furono spesi oltre 500 milioni di lire, più altri 40 per il parco giochi. Ma le strutture non furono mai utilizzate sante tirrenico-settentrionale con sede a Cinquefrondi che, esperita la gara, ne aggiudica l’appalto affidando i lavori, nell’aprile del 1994, per un importo di circa 2 miliardi e 200 milioni di lire. Solo di impianti idrici, fognanti, di tubazioni in acciaio ed impianti di riscaldamento sono stati spesi oltre 500 milioni di lire e altri 40 milioni per il parco giochi dei bambini. In quelle strutture i bambini non ci hanno mai giocato, l’emporio ed il centro studi, il maneggio e le stalle, la casa del custode non sono mai entrati in funzione nonostante fossero completati e perfettamente arredati. Quando si capì che era un’opera inutile ed ingestibile si tentò di scaricarla a don Mazzi, i don erano tanto di moda in Aspromonte, perché ne realizzasse una comunità di recupero per giovani disadattati che qui mai si adattarono e sparirono nel giro di quindici giorni, nonostante si fossero

di GIANNI FAVASULI

Gianni Favasuli. Foto di P. Positivo

LA RIFLESSIONE

Scapparruni C

ircondato da bianche nubi, che sembrano soffici batuffoli di cotone, tra l’azzurro, sconfinato mare e le ultime, boscose e brulle propaggini dell’Appennino, si erge, maestoso e solitario, Scapparrùni*. A ben guardarlo, sembra un enorme orecchio, un’enorme antenna radar che cattura suoni e voci e li trasmette, li convoglia verso il cielo. Dove un Dio impietoso, o misericordioso, li capterà, unitamente a tutte le altre vibrazioni, a tutte le altre onde elettromagnetiche provenienti da miliardi di galassie sparse nell’universo. A ben guardarlo, sembra la testa di Argo, mitico mostro dai cento occhi. Con quelli puntati a levante, Scapparrùni, ha visto uomini dalla carnagione chiara venire dall’altra parte del mare, approdare sui bianchi litorali e fondare città, piantare vigne e coltivare campi. Ha visto uomini, dalla carnagione olivastra, armati di scimitarra, sbarcare nello stesso punto dove erano approdati i primi e distruggere, con ferocia inaudita, tutto quello che, pazientemente, era stato costruito, piantato e coltivato nel corso dei secoli. Oggi, da natanti di fortuna, sui bianchi litorali, Scapparruni vede arrivare gente dalla carnagione scura che non costruisce e non distrugge; gente svilita, allo stremo delle forze, scampata dalla fame e dalla miseria, da sanguinose ed intollerabili guerre fratricide; gente che, una volta approdata, si unirà ad altra gente svilita, tingiùta. Con gli occhi puntati a ponente, Scapparruni, lungo il dipanarsi del tempo, ha assistito alla nascita e al declino di antichissime civiltà. Ha visto il sorgere e il disgregarsi di un piccolo, grande mondo pastorale che ruotava sui cardini della dignità, della lealtà, dell’amicizia, della

umana solidarietà e dell’onore. Valori che non erano da meno dei Dieci Comandamenti. Ha visto eroi, chiamati briganti, lottare contro gli usurpatori di casa Savoia e ha visto mulattieri con le schiena ricurva arrancare, insieme ai muli carichi di pesanti some, su impervi sentieri. Ha visto carbonai costruire enormi formicai fumanti e ha visto interminabili processioni di pellegrini recarsi a pregare, a piedi nudi, in un santuario ormai equiparato ad una sorta d’ufficio di rappresentanza e di reclutamento delle consorterie criminali. Pianse amaramente, Scapparuni, con tutti i cento occhi, come non aveva mai pianto prima, quando vide quella civiltà pastorale cedere il passo ad un’accozzaglia, ad una turba di spregevoli persone senza più dignità, senza più lealtà, senza più onore; prive del senso sacro dell’amicizia e della pietà. Se nessun provvido raggio di luce, di sole, rischiarerà il tugurio, la coscienza, degli uomini che abitano a valle, Scapparruni, ogni qual volta vedrà fotogrammi di quotidiana follia: vessazioni, ingiustizie, soprusi perpetrati ai danni dei deboli e degli indifesi, continuerà a piangere. Fino a quando, esausto, supplicherà qualche divinità silvana di usargli misericordia e di renderlo cieco. Onde non veda più lo scempio di uomini scannati come pecore. Se nessun provvido raggio di luce, di sole, rischiarerà il tugurio, la coscienza degli uomini che abitano a valle, Scapparruni supplicherà qualche divinità silvana di usargli misericordia e di renderlo sordo. Onde non senta e non trasmetta più verso il cielo il rantolo sordo, il respiro affannoso, di tante anime agonizzanti, di tante anime in pena. *Monte Scapparrone.


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inAspromonte Novembre 2014

Tra i boschi d’Aspromonte

L’ecosistema forestale è un equilibrio che necessita di ogni specie del bosco. E del rispetto dell’uomo

Nella foto a sinistra un esemplare di Amanita muscaria, sopra il Cortinarius orellanus, sotto da sinistra a destra l’Amanita verna e l’Amanita Phalloides

VELENI DI FUNGHI E FUNGIARI la lotta per la sopravvivenza

O

di LEO CRIACO

gni anno in Italia si registrano centinaia di avvelenamenti causati dal consumo di funghi tossici e mortali, per fortuna la stragrande maggioranza si risolve con cure tempestive appropriate e con una degenza, più o meno lunga, in ospedale; solo pochi casi si concludono con esito letale. Anche quest’anno nella nostra regione, purtroppo, contiamo le vittime. La maggioranza dei decessi è da imputarsi al consumo di tre amanite: phalloides, verna, virosa (quest’ultima introvabile in Aspromonte) e al Cortinarius orellanus. L’avvelenamento provocato dalle tre amanite (bastano poche decine di grammi) è quello più diffuso e più pericoloso, e si manifesta normalmente dopo 6-48 ore dalla ingestione ed è dovuto a due sostanze velenose (amanitine e falloidine) che causano la morte nel 60-80% dei casi.

L’AVVELENAMENTO DA Cortinarius orellanus è meno frequente del precedente ma più devastante perché i primi sintomi si manifestano anche dopo molti giorni dal pasto (in alcuni casi dopo 14-15 giorni), quando ormai le tossine si sono diffuse su diversi organi del corpo. In base alle caratteristiche di commestibilità e di tossicità, i funghi si dividono in: commestibili, sospetti, non commestibili, senza valore,

tossici e mortali. É assolutamente consigliabile raccogliere solo quelli commestibili, avendo l’accortezza di non consumare gli esemplari “passati” (molli e pieni di acqua e di vermi) che potrebbero causare spiacevoli indigestioni o gravi intossicazioni.

PER DISTINGUERE UN fungo commestibile da uno non mangereccio

Secondo la fantasia popolare l’aglio, la cipolla e il cucchiaio d’argento, durante la cottura, in presenza di funghi tossici e mortali si anneriscono. Alcuni, addirittura, sostengono che i funghi velenosi abbiano sempre un odore sgradevole, altri asseriscono che i funghi rosicchiati dagli animali (lumache, limacce, mammiferi ecc.) siano tutti commestibili; ma gli animali

dono a diminuire anche perché il numero di cercatori cresce sensibilmente di anno in anno. Nei nostri territori fino a pochi anni fa gran parte delle popolazioni aspromontane erano restie a raccogliere e consumare funghi tant’è che spesso sostenevano che «i funghi li mangiavano i pazzi», pertanto l’attività di raccolta veniva fatta da poche persone esperte, i cosiddetti fungiari,

Molti novelli raccoglitori vanno a funghi con buste di plastica (così facendo le spore non vengono rilasciate nell’ambiente); distruggono con i bastoni i funghi che non conoscono (ogni specie fungina è importante per l’ecosistema forestale); scavano attorno ai funghi raccolti alla ricerca degli esemplari più piccoli, distruggendo così un micelio (dal piccolo micelio nascono i funghi); alla fine fanno colazione lasciando a terra bottiglie, carta stagnola, sacchetti e quant’altro bisogna affidarsi o alla certa e sicura conoscenza della specie del fungo o a precisi esami di laboratorio. Fino ad ora non si conoscono altri metodi. I metodi empirici utilizzati dalle credenze popolari (aglio, cipolla, cucchiaio d’argento, odore, funghi rosicchiati ecc.) non hanno alcun valore scientifico, e spesso hanno causato gravi e mortali avvelenamenti.

hanno un metabolismo diverso da quello umano per cui potrebbero consumare funghi tossici per l’uomo senza subire danni fisiologici. È noto che le renne e i caribù arricchiscono spesso e volentieri la loro dieta con varie specie di funghi tossici.

NELLA NOSTRA PENISOLA i casi di avvelenamento, purtroppo, non ten-

che operavano con grande professionalità e in piena armonia con la natura. Negli ultimi anni sul nostro massiccio montano questo hobby ha contagiato migliaia di persone che senza una discreta conoscenza del territorio e degli ambienti presenti, né del mondo dei funghi, si sono accostati a questo piacevole passatempo solo con intenti predatori. Molti di questi novelli

raccoglitori vanno a funghi con le buste di plastica (così facendo le spore, liberate dai funghi, non vengono rilasciate nell’ambiente), distruggono con calci o bastoni i funghi che non conoscono (ogni specie fungina ha una funzione importante nell’ecosistema forestale e negli ambienti in cui sono presenti), scavano attorno ai funghi raccolti alla ricerca di qualche altro piccolo esemplare, distruggendo così un micelio (dal piccolo micelio nascono i funghi) alla fine dopo aver riempito uno o più sacchetti fanno colazione lasciando a terra bottiglie, carta stagnola, sacchetti e quant’altro.

DI QUESTI RIFIUTI (tonnellate) nessuno si fa carico e solo, saltuariamente, qualche associazione ambientalista provvede a raccogliere una minima parte. Agendo così i “raccoglitori-predatori”, novelli fungiari, arrecano gravi danni alla natura e qualche volta alla loro salute, attraverso il consumo di specie tossiche o mortali raccolte incautamente. Per limitare i guasti ambientali che questo hobby sta generando sul nostro Aspromonte, sarebbe opportuno riscrivere la legge regionale che disciplina questa attività, introdurre il patentino per la raccolta dei funghi ed effettuare maggiori e mirati controlli da parte delle autorità competenti.


Tra i boschi d’Aspromonte

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Associazione Imagorà. Un viaggio tra i boschi che circondano l’Aposcipo, fino alle cascate Palmarello

Il nome di “foresta Ferraina” fa riferimento al comprensorio di quattro foreste acquistate dallo Stato in varie fasi e unificate nel 1951, alle quali si accede dalle porte Materazzelli e Aposcipo, oppure da Samo.
 Sono i fondi Ferraina, Juncari, Croce di Dio sia lodato e Forgiarelle, confluiti nel Parco istituito nel 1991

Foto 1

DENTRO LE QUATTRO FORESTE escursione del 1 novembre 2014 Servizio e foto

di GIANCARLO PARISI

L

evataccia. Quasi trenta km percorsi a piedi. Circa mille metri di dislivello complessivo superati. Tratti scoscesi, abbarbicati sulle rocce, che stanno a strapiombo su quegli abissi oscuri che celano angoli di paradiso. Salti d’acqua che continuano, imperituri, da tempo immemore a forgiare la roccia. Ferraina: una delle foreste più belle dell’Aspromonte. Forse la più bella. Il nome fa riferimento al comprensorio di quattro foreste acquistate dallo Stato in varie fasi e unificate nel 1951, alle quali si accede dalle porte Materazzelli e Aposcipo, oppure da Samo. Sono i fondi Ferraina, Juncari, Croce di Dio sia lodato e Forgiarelle, tutti confluiti nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, istituito ufficialmente nel 1991 (legge 394/91, alla quale è seguito il Dpr attuativo dell’11.1.94). Siamo nella zona di riserva integrale del Parco, gestita direttamente dal Cfs e dall’Ufficio territoriale per la Biodiversità, che ne regolamenta l’accesso, precludendolo alle auto e ai mezzi in genere, se non previa autorizzazione e comunque con la supervisione degli agenti forestali. Superata la porta Materazzelli, un cancello che consente l’accesso solo agli escursionisti a piedi, si riscopre quell’Aspromonte che altrove è, suo malgrado, deturpato dall’inciviltà. La fatica necessaria a raggiungere questa fetta di foresta scoraggia i baccanali domenicali, nei quali decine di persone, provenienti un po’ da tutta la provincia, si ritrovano in quota per consumare quantità indicibili di derrate alimentari, lasciando, ogni volta, la traccia indelebile e meschina del loro passaggio. A FERRAINA TUTTO è curato (foto 2 e foto 5), la foresta cresce rigogliosa e regala al visitatore paziente un canto d’amore. Si attraversano secoli di una storia che è possibile ascoltare abbracciando un albero e appoggiando l’orecchio al suo tronco. Gli alberi parlano, basta saperli ascoltare. Gli alberi amano e si amano. Così è possibile vedere un abete bianco e un faggio uniti in un abbraccio che non può non toccare il cuore di chi ama davvero questa terra. Novembre è appena iniziato e la foresta è al principio

della sua muta autunnale. Le chiome iniziano a virare al dorato e all’arancio. Ci sono faggi, pioppi, aceri, meli e peri selvatici, ontani, ciliegi. Ma la regina di questi boschi è la quercia-farnetto, relitto nazionale della specie. Alcuni esemplari sono davvero imponenti. Ed è proprio in questi boschi che, improvvisamente, lo vedi. Pochi tornanti prima del rifugio Cano-

Ci sono faggi, pioppi, aceri, meli e peri selvatici, ontani, ciliegi. Ma la regina di questi boschi è la quercia farnetto, relitto nazionale

vai, sulla sinistra della strada, un sentiero taglia dritto nella pineta, conducendo lo sguardo prima che le gambe verso un esemplare monumentale (foto 4). L’età è stimata tra gli 8 e i 10 secoli. Il tronco è enorme, ricoperto di muschio e i possenti rami si sporgono in ogni direzione. Il respiro si ferma ed arriva la consapevolezza di quanto effimera è la vita umana. Lui era già vecchio quando N. Douglas e E. Lear neanche sapevano che avrebbero attraversato queste terre. Rispetto.

IL VILLAGGIO CANOVAI (foto 1), ove si trova il rifugio, è intitolato a G. Canovai, originario acquirente del fondo Ferraina nel 1951. Il fabbricato è in pietra e serviva da ricovero per gli operai che hanno curato il rimboschimento. Oggi è a disposizione di chi voglia soggiornarvi, previo pagamento della tariffa di concessione governativa. Di fronte al rifugio si trova il vivaio per la riproduzione della quercia-farnetto, alcuni tavoli in legno e tettoie per il barbecue in pietra. Più giù c’è una fontanella ed alcuni ponti in legno che consentono di attraversare il torrente Ferraina. È un angolo di paradiso. Tutto l’Aspromonte dovrebbe essere così. Tutta la montagna è meravigliosa. E allora mi domando perché

solo con le sbarre, i cancelli ed i rigidi divieti si riesca, in qualche modo, ad arginare l’inciviltà che dilaga tra la maggior parte dei calabresi. Rabbia. In uno dei crinali che scendono verso il mar Jonio, prima di raggiungere il costone di roccia dal quale è possibile vedere la cascata Palmarello in tutta la sua potenza, si trovano i resti di una rudimentale costruzione in pietra. Muretti a secco che si dipartono dalla base di due querce, servivano da riparo per i pastori, durante i lunghi inverni della transumanza. Sono lì da un secolo, forse due. Storia.

USCIAMO DALLA frenesia quotidiana del vivere odierno. Mettiamo da parte le frivolezze che ci vengono propinate dalla comunicazione di massa e viviamo la montagna. L’Aspromonte è una perla incastonata tra due mari. Un luogo incantato. La nostra storia. Visitare la montagna con il giusto spirito è il modo giusto per prendere nuova coscienza del nostro essere, di chi siamo e qual è il nostro posto nel mondo. Frequentiamola, godiamo della sua aura protettiva, rispettiamola. Combattiamo contro tutte quelle forme di deturpamento, di inciviltà, di ignoranza, che giornalmente mettono a repentaglio il patrimonio boschivo. Domenica sera, verso le sei, rientravo a Palmi dopo il fine settimana. Lo svincolo di Gioia Tauro era sorvegliato da una volante che invitava a rallentare. La coda di auto che si era formata arrivava sino all’autostrada. Tutti catapultati nei vari centri commerciali, a cercare una felicità apparente, mentre penso che il giorno prima, alla stessa ora, ero nel cuore dell’Aspromonte e sentivo solo il mio respiro mentre rientravo dopo dodici ore di escursione. Il rientro è stato lungo. In mezzo alla foresta il sole scendeva inesorabile dietro i monti, lasciando il posto alla luna, un semicerchio argentato che risplende nel cielo. La luce diminuisce gradualmente finché l’aura lunare non proietta la mia flebile ombra sul sentiero. Raggiungo la macchina a sera inoltrata. Ma la montagna non dorme, altre creature si preparano per uscire allo scoperto, nella rassicurante oscurità delle tenebre. È l’Aspromonte. È la Calabria.

Foto 2

Foto 3

Foto 5

Foto 4


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Tra i boschi d’Aspromonte

inAspromonte Novembre 2014

Piminoro. Le nostalgie di un montanaro, e le sue avventure, raccontate nell’opera Respiri d’Aspromonte

Ogni angolo, ogni roccia, ogni albero di questa montagna parla lo stesso linguaggio della gente di Piminoro

L’AMORE PER LA MONTAGNA

Francesco andava con lo zio Angelo a raccogliere porcini tra i boschi; sfidava ogni giorno le anime dei tamburinari, correndo veloce sui sentieri. Di questo resta il fervido ricordo; resta un libro, e un racconto di FRANCESCO BARILLARO

«

Era vietato salire da soli nei boschi, perché vi erano le anime dei morti che vagavano Io e zio Angelo « andavamo alla ricerca del re dell’Aspromonte: u janchiedu Si ode qualcune « che raccoglie legna secca, e sugli altipiani le foglie formano un manto

Nella foto in alto l’Aspromonte orientale visto dal monte Ferraina. Foto di Antonella Italiano

O

gni angolo, ogni roccia, ogni albero di questa montagna parla lo stesso linguaggio della gente di Piminoro. Nel bene e nel male questa terra ha caratterizzato la vita della gente del luogo. Nei miei ricordi d’infanzia andare in montagna rappresentava quasi una sfida, era assolutamente vietato andarci da soli: c’era la turva o schiera, più o meno un gruppo ben nutrito di anime dei morti che vagavano per le contrade isolate. Se venivi preso da essi, ti ritrovavi in un posto lontano e smarrivi la strada per tornare. Ancora oggi, in paese, gli anziani raccontano dei fatti fantastici. L’ora propizia per il verificarsi dell’evento era mezzogiorno! Se scampavi alla schiera, però, non potevi evitare i tamburinari. Questi abitavano nella scorciatoia che dal Serro della Guardia, in località Scaluni (grande gradino) porta ai piani di Panipirsu. Qua, in un grande cafuni (vallone stretto e profondo), nei tempi che furono, un gruppo di suonatori provenienti dal versante ionico e diretti a Piminoro furono sorpresi da una tremenda levantina, smarrirono il sentiero e furono sommersi, strumenti compresi, dall’impeto dell’acqua di quella jumara (ruscello). I pastori raccontavano che nelle sere di burrasca sentivano un rullare di tamburi proveniente dalla stretta gola della jumara, e le capre impaurite scappavano scampanellando. Per evitare questi inconvenienti spiacevoli, salivo in montagna con mio zio Angelo che oltre a salvaguardarmi da quelle sventure era un esperto raccoglitore di funghi. Andavamo alla ricerca del re dell’Aspromonte ossia del porcino, a Piminoro chiamato janchiedu. Aspettavo con ansia le prime piogge autunnali dopo la calura estiva e quando in paese si

diceva che in montagna erano stati trovati i primi funghi, partivamo che era ancora buio. Lo zio non aveva la macchina. Arrivati all’imbocco della scorciatoia mi avvicinavo ulteriormente a lui per attraversare indenne il punto dove morirono i tamburinari. Sui pianori l’alba prendeva il sopravvento e incominciava l’entusiasmante ricerca. Al ritorno, il sole era già alto e l’attraversamento del punto critico non mi faceva più paura. Incominciai così ad apprezzare questa particolare montagna già

I pastori raccontano che nelle sere di burrasca sentivano un rullare di tamburi proveniente dalle gole della jumara

in tenera età e ancora oggi mi attrae, mi manca e mi emoziona come un grande e tenero amore. Mi mancano i suoi silenzi impenetrabili, il suo vento che scaturisce dalle gole fredde e profonde, il suo incanto, la solitudine dei tramonti quando il cielo si macchia di rosso del sole calato, nell’attimo immenso dell’imbrunire, quando questa montagna ti fa sentire un amante appassionato. Ogni stagione regala suggestioni diverse, ma i colori dell’autunno sulle creste dell’Aspromonte hanno qualcosa di indescrivibile. Capita spesso, da queste parti, che la prima neve arrivi quando ancora gli alberi non sono completamente spogli del loro manto dorato. È semplicemente me-

raviglioso ammirare le foglie gialle ricoperte dalla neve: assumono colori stupendi. I corsi d’acqua si riprendono lentamente dalla scarsità della pioggia e, piano piano, si ode il loro delicato canto lungo le valli dei due versanti. Scorrono intorno numerose sorgenti, alcune si infiltrano tra le fenditure del terreno, altre solcano il manto di neve dai declivi fino a confluire a valle in un unico corso. Intorno si ode un dolce gorgoglio, mentre i rigoli si insinuano e vengono risucchiati nella fragorosa e spumeggiante corrente d’acqua. Il passaggio di stagione è avvertito da tutta la natura. La montagna è in fremito! Nel bosco si ode qualcuno che raccoglie legna secca, le foglie formano un soffice manto, di fronte a te un albero, invecchiato dal tempo e dal vento, si prepara a trascorrere in altro duro e lungo inverno. Forse a primavera non metterà su le nuove gemme. Dalle creste lo spettacolo che appare è straordinario, ti si aprono di fronte grandi spazi, immensi pianori a valle disegnano forme armoniche e diseguali; nel corso dell’anno si alternano tenui e caldi i colori dell’autunno e brillanti ed esuberanti quelli dei mesi estivi, modulando il verde intenso delle conifere e quello più delicato delle faggete, come se il cambio delle stagioni venisse annunciato dalla mano di un misterioso e saggio pittore. Sono luoghi che parlano più del passato che del presente. Ripercorrere i sentieri è come andare indietro nel tempo, quando i monti erano più frequentati di adesso, e si scoprono segni e testimonianze che raccontano fedelmente (in particolare nel versante ionico) degli asceti, eremiti che cercavano nel silenzio la pace interiore, e di montanari che da

questa montagna traevano il necessario per la loro vita frugale. Non auspico a questi posti l’arrivo del turismo di massa, nell’illusione che esso contribuisca al sollevamento economico della nostra terra. Questa montagna è bella così, nella sua povertà, nei suoi misteri, nei suoi silenzi infranti solo dal rumore del vento. Il Serro della Guardia è bello così e, quando scende la notte, sembra dominare severo e paterno i paesi sottostanti che con le loro flebili luci

Mi mancano i suoi silenzi impenetrabili, il suo incanto, la solitudine dei tramonti nell’attimo immenso dell’imbrunire

frangono l’oscurità arcaica che si distende sul regno degli ulivi secolari della Piana. È questo il momento magico, mai uguale a sé stesso, in cui il silenzio solenne della montagna si amalgama ai rumori della vita notturna degli animali e accarezza storie che sempre si intrecciano con le leggende. La stagione che prelude arriva silenziosamente in Aspromonte, avvolge Piminoro da quel vento amico di Levante, quando le rondini si riuniscono a frotte preparandosi a partire. Poi, all’improvviso, arriva l’inverno a lambire le giornate con la sua oscurità e il sole fugge via dietro le linee dell’orizzonte infinito. Sembra portare con sé tutte le speranze…


Tra i boschi d’Aspromonte

Novembre 2014

In cammino con l’associazione... Club Alpino Italiano 16 novembre

Itinerari dell’alto Jonio reggino M. Capocasale e D. Chirico E. (Escursionistica)

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inAspromonte

23 novembre

Tra le timpe di Cinquefrondi M. Condò e M. Macrì E. (Escursionistica)

6-7-8 dicembre

Stage sulle Danze alpine (occitane) S. Settimio T. (Turistica)

Alpi Occitane

Pazzano

in f o

C.A.I. - Club Alpino Italiano Sezione Aspromonte via San Francesco da Paola, 106 89127 Reggio Calabria Tel. 333 5354074 www.caireggio.it Aperto il giovedì dalle ore 21.00

escursione

Cinquefrondi

Gruppo Escursionisti d’Aspromonte 16 novembre

Poggio S. Giorgio Ferruzzano-R.Armena impegno tecnico: medio percorrenza: 10 km tempo: 4 ore quote: 55 – 400 - 130 difficoltà: E rientro: ore 17.00

A Ferruzzano imboccheremo il sentiero che scende verso Rocca Schiavone e Bruzzano Antica, espugnata dai Saraceni nel 925. Di grande interesse storico è l’arco trionfale dei Carafa, costruito nel XVII secolo, sostanzialmente integro e quindi meritevole di particolare tutela.

Rocca Armenia

escursione

30 novembre

Piani S. Salvatore Savucco-Bova impegno tecnico: medio percorrenza: 13 km tempo: 6 ore quote: 1223 – 500 - 1223 difficoltà: E rientro: ore 17.00

Un’escursione nei dintorni di Bova per apprezzare aspetti poco conosciuti del bacino di cultura grecanica. Partiremo dai Piani S. Salvatore per scendere alle case abbandonate di Savucco. Risaliremo quindi verso Bova e, attraverso l’antica strada che portava ai Piani, in parte selciata, ritorneremo al punto di partenza.

escursione

14 dicembre

Carmelia Montalto

impegno tecnico: medio percorrenza: 9 km tempo: 5 ore quote: 1305 – 1956 - 1305 difficoltà: E rientro: ore 17.00

L’escursione si sviluppa lungo un tratto del sentiero che collega Bova a Delianuova. Partiremo da Carmelia e, attraverso la Portella di Cannavi, il Serro di Pietra Tagliata, il Piano Tabaccari, saliremo fino alla località detta Acqua Selvaggia. Da qui saliremo, in breve tempo, sulla vetta di Montalto caratterizzata dalla statua del Redentore.

Bova

Piani di Carmelia

o G. E. A. infGruppo Escursionisti info

Associazione escursionistica Gente in Aspromonte via Fontanella, 2 89030 Careri (RC) Tel. 348 8134091

Bova

Gente In Aspromonte

www.genteinaspromonte.it info@genteinaspromonte.it

16 novembre

Tempo: ore 4.30 Dislivello: 630 slm 890 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Pietrapennata Comuni int.: Palizzi

S. Maria della Lica

S

i partirà da Pietrapennata, il borgo nato dopo un terremoto che nel 600 distrusse Casale Iusu, fondato da profughi maltesi. Si camminerà attraverso costoni e pietraie in uno scenario mutevole. Si raggiungerà Portella di Gallo e i resti dell’abbazia di Santa Maria della Lica, di cui sorprende il campanile maiolicato.

d’Aspromonte via Castello, 2 89127 Reggio Calabria Tel. 0965 332822 www.gea-aspromonte.it info@gea-aspromonte.it

30 novembre

Tempo: ore 5.00 Dislivello: 420 slm 130 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Ferruzzano Comuni int.: Ferruzzano-Bruzzano

Rocca d’Armenia

L’

escursione, attraverso antichi sentieri e borghi abbandonati, gratificherà con immagini suggestive esaltate dai colori autunnali. Attraverso il bosco di Rudina, di altissimo valore naturalistico, si giungerà alla chiesetta bizantina di Santa Maria degli armeni e poi alla Rocca d’Armenia.

7 dicembre

Tempo: ore 4.00 Dislivello: 150 slm 360 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Amendolea vecchia Comuni int.: Condofuri

Castello Amendolea

A

d Amendolea sarà possibile ammirare i resti del castello normanno. L’escursione prevede la visita anche al vecchio borgo attiguo al castello, abbandonato nel 1953, e alle quattro chiese bizantine: la chiesa protopapale, quella di Santa Caterina, quella di San Sebastiano e, più in alto, la chiesa di Tefani.


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Santi e briganti

inAspromonte Novembre 2014

Come nacque la ‘nd

LA GUERRA DELLE C

«Per vendicarsi dei soprusi, trenta conterranei guidati da un certo Borgese, salendo muro di 5 metri, assaltarono il padiglione dei camorristi ingaggiando una battaglia di ROCCO PALAMARA

«

Nel 1537 il cardinale di Granvelle denunciò l’esistenza dei “priori” nelle carceri Anche dopo « l’unificazione d’Italia, i camorristi rubavano ai detenuti persino il pane

Nella foto in alto un dipinto (riveduto) di Antonio del Pollaiolo (Battaglia dei dieci nudi), sopra un’icona della camorra

N

ei suoi famosi codici, la ‘ndrangheta non compare mai con questo nome ma con quello propriamente di “camorra”: il che denota le sue chiare origini napoletane. Dalla stessa camorra napoletana la ‘ndrangheta ereditò l’ideologia, il modo conforme di riunirsi “a circolo formato”, e (quasi identici) i gradi gerarchici; che per i napoletani erano: capintesta, capo società, capintrito (capundrina), contabile, camorrista, picciuotto di sgarro e picciuotto d’onore. Persino il così detto “tribunale d’umiltà”, il mastro di giornata e il picciotto di giornata, esistevano già nella vecchia camorra.

I CAMORRISTI napoletani predominarono per secoli a Napoli e più ancora dentro le carceri. Già ai tempi degli spagnoli, con un’ordinanza del 27 settembre 1537, il Viceré cardinale di Granvelle denunciava l’esistenza di cosiddetti priori che nelle carceri napoletane estorcevano denaro con la scusa di provvedere per “l’olio per la Madonna”: ossia alimentare il lumicino sotto l’immagine della Madonna presente in ogni posto di detenzione; che il più delle volte era anche spento. Quattrocento anni dopo, nell’Ottocento, la famigerata tassa imperava ancora e anzi costituiva la spina dorsale dell’esercizio di camorra dentro le carceri, in quanto assurta a caposaldo “giuridico” del potere camorristico: pagandola si riconosceva l’autorità. Perseguendo questo principio i malandrini transigevano camorra (nel senso di tangente) da chiunque non era egli stesso un camorrista; foss’anche il più misero fra i carcerati. A chi non possedeva nulla lo costringevano a vendersi persino i vestiti che indossava e, se non pa-

gava, erano ogni sorte di angherie e coltellate nel silenzio complice delle guardie e del direttore del carcere che era d’uso relegare ai camorristi l’“ordine” nella prigione.

ABUSI AL LIMITE dell’aberrazione umana dunque; né contava esser nobili per essere rispettati, come fu il caso del Conte di Castromediano, finito in galera con l’accusa di aver complottato contro il regime, e che in un libro autobiografico Carceri e galere politiche descrisse delle condizioni terribili a cui

Napoletani e calabresi

A

i calabresi che si opponevano sostenendo che per l’olio della Madonna bastava quello che a damigiane portavano i loro famigliari, i camorristi reclamavano moneta sonante. Si creò per questo una contrapposizione tanto dura da indurre il direttore del carcere a innalzare un muro divisorio alto 5 metri per tenere separate le due comunità; ma successe lo stesso che - per vendicarsi dei soprusi - trenta calabresi guidati da un certo Borgese, salendo gli uni sugli

Ai calabresi che si opponevano sostenendo che per l’olio della Madonna bastava quello che a damigiane portavano i loro familiari, i camorristi reclamavano moneta sonante. Si creò per questo una contrapposizione durissima

era andato incontro nelle carceri dominate dai camorristi da dove ne uscì moralmente ed economicamente prostrato. Dalle cronache del 1800, periodo in cui si ha più documentazione, si sa di alcuni che si opposero anche con qualche successo: come nel caso di un prete calabrese che sfidò a duello un camorrista e l’uccise; ma fin che durò il regime borbonico fu pressoché impossibile sottrarsi all’infame tassa visto come i camorristi erano in combutta con i direttori delle carceri ed i carcerieri, corrottissimi sbirri loro complici. I taglieggiamenti continuarono anche dopo l’unificazione nel Regno d’Italia; tanto che nel 1874, nel carcere napoletano di Santa Maria Apparente i camorristi depredavano i detenuti persino del pane che poi rivendevano ai secondini.

altri e superato il muro, assaltarono il padiglione dei camorristi ingaggiando una battaglia che lasciò a terra sedici persone gravemente ferite. Venti anni dopo, nel 1893, in un libro biografico un ex galeotto calabrese, certo Antonio M. (è sconosciuto il cognome), rivela della macelleria tra disperati nella promiscuità colpevole in cui detenuti rivali delle diverse regioni erano costretti da un sistema carcerario criminale che li obbligava di fatto a sbudellarsi fra di loro. IL VECCHIO GALEOTTO racconta di numerose e sanguinose battaglie avvenute nelle varie carceri tra cui una micidiale, con numerosissimi morti, dove napoletani e siciliani coalizzati si batterono contro i calabresi a loro volta affiancati dagli abruzzesi.

Alleanze labili: nel 1904, nel carcere di Pozzuoli si sfidarono a duello dodici camorristi napoletani contro dodici mafiosi siciliani. Due siciliani morirono e due napoletani rimasero gravemente feriti. Già in quella data, con la progressiva liquidazione dei vecchi sbirri borbonici, la “pax” camorristica nelle carceri era finita e gli equilibri di forza messi in discussione soprattutto nei bagni penali delle isole della Sicilia dove più numerosi erano i reclusi siciliani e più duri furono i conflitti. Nell’isola della Favignana, dove i mafiosi giocavano in casa, i camorristi messi a mal partito dovettero affiancarsi ai calabresi che più ancora di loro erano invisi agli isolani. Fu probabilmente in quella convergenza di bisogni che i napoletani, dopo secoli di chiusura, aprirono le liste ai calabresi partecipandoli del loro straordinario nouveau malandrino. Prima di allora i camorristi napoletani erano gelosissimi della loro organizzazione dalla quale tendevano a escludere persino gli altri campani. Ma in quel clima di tutti contro tutti anche il connubio calabresi-napoletani durò poco e si venne a separazione. Di quella rottura e di quello che succedeva allora nell’inferno delle carceri rimane l’eco nei codici della ‘ndrangheta, tra cui una rievocazione utilizzata come rito di apertura di talune speciali riunioni “a circolo formato”.

I codici della ‘ndrangheta

Nel 1870, scoppiò una guerra tra Napoli, Palermo e Spagna. Il nostro principe Rinaldo di Montalbano raccoglieva il sangue della società e lo metteva in un calice d’oro fino finissimo e conservandolo bene diceva:


Santi e briganti

A Favignana

inAspromonte Novembre 2014

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Peppe Musolino. Una curiosa avventura tramandata oralmente

galeotti soffocati dal mare

N

drangheta...

el 1081 i Normanni realizzarono a Favignana un villaggio e possenti fortificazioni, il forte San Giacomo e quello di Santa Caterina. Sotto il governo dei Borboni il castello di San Giacomo venne adattato a bagno penale e, siccome il forte non era capace di contenere un gran numero di “servi di pena”, si pensò di scavare nella roccia dalla parte opposta al castello, a livello del pavimento del fossato, per ricavare il maggior numero possibile di ambienti aggiuntivi. Sul limite estremo dei nuovi dormitori, fu eretto un muro perimetrale di cinta che permetteva di vigilare l’esterno, mentre sul limite interno si alzò un muro all’altezza del petto d’uomo. I dormitori incavati nella roccia ricevevano aria e luce solamente dai fossati ed erano quindi tetri e molto umidi, poiché il tufo è materiale idrofilo. In questi locali furono ammassati i condannati ai lavori forzati. Qualche tempo dopo si ritenne opportuno rendere più igienici ed areati tali dormitori, e si praticarono dei lucernari.

CARCERI

o gli uni sugli altri e superato il a che lasciò ferite sedici persone» Amiamoci noi cari fratelli con sventura e con coltelli come si amavano i tre nostri vecchi antenati, i primi fondatori della camorra, amandosi con ferri e catene e camicie di forza; cosi dobbiamo amarci noi fedeli compagni!”. Nel linguaggio cripto tipico delle fraseologie ‘ndranghetiste, per “Spagna” s’intende “Calabria”, mentre il riferimento a sferre, catene e camice di forza indica chiaramente che la lotta avvenne non tra nazioni ma tra carcerati delle diverse regioni. Nella stessa, con quel “amiamoci noi (altri) cari fratelli”, si richiama a un atto rifondativo per una Camorra di soli calabresi. Come per i primi cristiani, a base del nuovo patto tra corregionali fu messo il sangue dei “martiri” (“morti per l’onore della società”), metaforicamente conservato dal “Principe Rinaldo” nel “Castello di Montalbano” insieme alle “ossa del tronco del vecchio Gagliano - ucciso dalla società di sangue perché aveva tradito la società di sgarro”: a memoria della guerra delle carceri.

LA SCISSIONE dai vecchi maestri napoletani fu netta e non fu lasciato loro neanche l’onore della primogenitura camorristica, visto altri articoli della copiata come il seguente: «Dove risiede la camorra?» «In una tomba segreta e profonda

nell’isola della Favignana!». Il che equivale a una formale dichiarazione d’indipendenza poiché, in base all’articolo 3 dello statuto (cosiddetto “frieno”) della Bella Società Riformata (nome della camorra), doveva essere Napoli la sede di tutte le camorre. Sempre a Favignana la ‘ndrangheta collocherà le sue “fonti battesimali” e nelle celle del suo carcere le fatiche dei suoi mitici fondatori: i Tre Cavalieri di Spagna che “per noi lavorarono per 29 anni sottoterra per approntare le regole sociali”; recita la copiata. Ogni riferimento dei codici della ‘ndrangheta porta all’isola della Favignana dove di certo tutto iniziò. Proprio là, infatti, in un’indagine di fine Ottocento sul costume dei coatti lì confinati, il sociologo Michele Mirabella rintracciò una sorte di questionario con domande e risposte da sottoporre ai nuovi arrivati per verificare se appartenessero o no alla camorra. Domande e risposte del tipo: «Come è nata la camorra?» «Per mezzo di 3 cavalieri, uno spagnuolo, uno napolitano e uno siciliano». Ovvero secondo riferimenti, stile e modalità d’uso della copiata ‘ndranghetista di cui quel questionario è quasi certamente il canovaccio primitivo.

LA SORPRESA SOTTO AL FUOCO

«La carne di capra cucinata sotto terra è più buona ed ha il vantaggio di non essere né vista né “sentita”. Una tradizione quasi scomparsa» di BRUNO S. LUCISANO

T

ra le tante avventure del brigante Giuseppe Musolino, conosciuto come U rre d’Asprumunti, se ne racconta una, non molto nota, ma abbastanza curiosa che cercherò di spiegarvi il meglio possibile. Musolino viene incarcerato a Gerace Marina, l’odierna Locri. Dopo due anni di reclusione, la notte del 9 gennaio 1899, riesce a fuggire rendendosi latitante. Commette una serie di omicidi e si nasconde specialmente in montagna nei boschi, e persino nei cimiteri, godendo dell’appoggio della gente del posto, sia contadini, pastori che gente benestante. Nei primi otto mesi dalla fuga commette cinque omicidi, quattro tentati omicidi e un tentativo di distruzione, con dinamite, di una casa. Un giorno si ferma in una capanna di pastori in montagna. Questi, avendolo riconosciuto, lo invitano ad intrattenersi. Seduti attorno al fuoco, vi sono il pastore con la famiglia e degli amici, in tutto una

decina di persone. É una giornata fredda e il capo famiglia, facendo cenno con un dito verso i ceppi che lentamente bruciano, dice al brigante: «Fermatevi qui con noi che sotto il fuoco c’è una sorpresa, così mangiamo e beviamo e poi, quando siete in forza, ripartirete». Musolino ringrazia e risponde che avrebbe accettato l’invito anche perché non mangia da due giorni. In realtà sotto il fuoco, interrato in una buca fatta apposta, sta cuocendo un castrato, fatto a pezzi e sistemato con tutti gli aromi. É un modo, questo, usato per cucinare la carne che, piano piano, sta scomparendo ma che qualcuno, ostinatamente e con lungimiranza, ancora oggi continua ad usare. Sul più bello, però, i cani cominciano ad abbaiare e poco lontano s’intravedono le divise dei carabinieri che a passo svelto vanno proprio verso la capanna. Il brigante scappa nella boscaglia, appena in tempo, per non essere catturato. I carabinieri, cinque o sei, appena arrivati sul posto, interrogarono i presenti e, siccome comincia a fare buio, si siedono attorno al fuoco alimentandolo con rami secchi e pezzi di legno per riscaldarsi. Lì stanno, in attesa del brigante, fino a che non fa giorno. Il brigadiere, dopo un po’, con un cenno del capo, ordina ai militari di ritirarsi. Dalla boscaglia, quando le divise oramai sono lontane, spunta il brigante che si dirige verso il capanno e si siede proprio sulla pietra, dov’era “accomodato” il giorno prima. A uno a uno, vengono fuori i pastori e gli “invitati”. Il capo famiglia smuove i tizzoni ancora caldi, sposta la terra che fa da coperchio alla carne e, piano piano, iniziano a mangiare fino all’ultimo osso del castrato. Sazio e contento, il brigante Musolino saluta uno per uno gli invitati e, congedandosi, esclama: «Certo è che nessuno cucina la carne di capra meglio dei carabinieri!». Questa storiella per ribadire che la carne cucinata sotto terra è più buona ed ha il vantaggio di non essere né vista né “sentita”. Inoltre se l’avessero cucinata nel solito pentolone di rame sul fuoco, «sa futtivinu i carbineri e Musulino rrestava dijunu!».


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La nostra storia

inAspromonte Novembre 2014

La vita di montagna, racchiusa nel cuore di chi, fin da piccolo, imparò a riconoscerne il ritmo

Nella tradizione paesana per quel tipo di visite era uso portare un po’ di ogni cosa di quello che si riteneva più utile e gradito come fagioli, ceci, pomodori, frutta fresca, fichi secchi, una o due forme di formaggio, una o due galline vive, olio, vino, uova, farina, noci, e quant’altro. Insomma il meglio che c’era, nel timore di sfigurare; ma anche per quel piacere nel dare insito nella nostra cultura

paese « Nel resistevano tutti

«

Dall’altro lato della montagna l’odore della ginestra era più intenso e l’aria assai più calda

i vecchi massari, che non volevano lasciare gli animali di ROCCO PALAMARA Casalinuovo

C

asalinuovo, u paisi vecchiu, come avevamo iniziato a chiamarlo, non era finito con la disastrosa alluvione del 1951. Era sì circondato da un paesaggio apocalittico, con le montagne sfregiate da enormi frane, ma le sue case, per quanto misere, erano rimaste intatte e in esse continuavano a vivere molti dei vecchi abitanti. Nel paese resistevano con le loro famiglie tutti i vecchi massari, che non potevano o volevano lasciare gli animali; quattro dei sette artigiani; i contadini benestanti, e molti degli altri che non avevano seguito nell’esodo il grosso dei casalinoviti che erano stati alloggiati nei campi profughi di Bova e di Bova Marina. Tra quelli rimasti c’erano tutti i maggiori protagonisti della vita del paese degli ultimi 50 anni come don Cicciu u Segretario, che aveva dominato al tempo del fascio, i due vecchi ex capondrina ancora in vita, il loro successore in carica ed il prete don Antonio Pisano con sua “moglie” donna Rosaria (e figli). Don Antonio era un genere particolare di prete bene accetto ai casalinoviti, per cui, seppure sospeso a divinis, egli continuava a dir messa e a guidare vestito in pompa magna le processioni, che si svolgevano ancora con regolarità e con gran partecipazione di popolo. Per la festa principale del SS. Salvatore, patrono del paese, tanti di quelli alloggiati nei campi tornavano per devozione, e alcuni pagavano in moneta contante il privilegio di portare per un breve tratto la vara con la sua statua. Tanti ancora tornavano per periodi più lunghi: per curarsi della terra e ripristinare le armacere di contenimento o anche da operai per la costruzione delle briglie (poderose) nella fiumara di Luca. Tra essi anche mio padre. Tra quelli che rimanevano in modo stabile a Casalinuovo c’erano pure i miei nonni paterni per cui, in estate quando non andavo a scuola, ci salivo anche io lassù a stare con loro. La vita del paese

Io e mio nonno

ROCCO

«Lo seguivo passo passo nei suoi lavori in campagna, come nei lunghi viaggi per le contrade insieme al suo inseparabile sceccu» si svolgeva ancora come dalla notte dei tempi, nel lavoro come nel sociale: non c’era l’elettricità né mezzi meccanici per l’agricoltura, e i rapporti tra le persone erano regolati secondo le antiche convenzioni. Allora io seguivo passo passo mio nonno Rocco nei suoi lavori in campagna come anche nei lunghi viaggi per le varie contrade insieme al suo inseparabile asino (u sceccu). Quando invece rimanevo al paese mi accompagnavo a mia nonna che mi portava ovunque ella andasse, come per prendere l’acqua alla fontana, in chiesa per la messa e nelle numerose occasioni di visite alle varie cugine e comari (lo si era quasi con tutti). Visite nelle case che si facevano per doviri in caso di malattia e ricorrenze (liete e non), o per ricambiare quelle frequentissime di compagnia che caratterizzavano la vita della comunità.

Il viaggio

U

na volta i miei nonni si prepararono per una visita di doviri dal carattere straordinario perché la casa dove dovevamo recarci non era a Casalinuovo ma nella lontana contrada di Santo Petro, dall’altra parte della montagna. Bisognava far visita a nostra comare

Agata vedova di compare Leo M., che, causa la lontananza, era troppo tempo che non vedevamo. C’era tra la sua famiglia e la nostra un sangianni che si tramandava nel tempo, dato che con i miei nonni si erano battezzati a vicenda i figli e lo stesso stavano facendo i loro con quelli della mia generazione. Ci furono giorni e giorni di preparativi in cui si accantonavano man mano le cose da portare in dono, quasi tutte cose prodotti da noi. Nella tradizione paesana per quel tipo di visite era uso portare un po’ di ogni cosa di quello che si riteneva più utile e gradito come fagioli, ceci, pomodori, frutta fresca, fichi secchi, una o due forme di formaggio, una o due galline vive, olio, vino, uova, farina, noci, e quant’altro. Insomma il tutto del più e del meglio che c’era, nel timore di sfigurare con doni non all’altezza; ma anche per quel piacere nel dare insito nella nostra cultura. Su questi dettami, dopo giorni così, una mattina prima dell’alba caricammo tutto sull’asino e ci mettemmo in cammino. Solo mio nonno e io però, perché mia nonna, sopra la settantina, non era nelle condizioni di fare un viaggio così faticoso. Con solo la luce delle stelle cominciammo ad attraversare il paese, che già si animava, ed in breve sbu-

cammo nella grande e unica piazza, che incominciammo ad attraversare nella direzione della chiesa dell’altro lato a monte. Nella spianata in terra battuta finalmente gli zoccoli ferrati dell’asino terminarono il rintronare, come sul selciato delle rughe, per un tocco felpato che aveva un non so che di piacevole per le mie orecchie. Sgusciammo intorno alla sagoma scura ed un po’ inquietante della chiesa e prendemmo la salita verso la “porta” di Chintuhdhi dove finiva il paese e da dove nel ‘51 era apparsa per la prima e l’ultima volta la corriera. Tre mesi dopo l’alluvione cancellò la rotabile che era stata appena ultimata. Sul suo tracciato si ricavò poi una mulattiera, e fu per essa che prendemmo a salire su su per i contrafforti del Serro di Carrà. Nel frattempo ci fece giorno e doppiando il Puntone d’Affaccio potemmo dare un ultimo sguardo al paese con i suoi tetti rosso carminio sotto di noi. Alzando gli occhi vedevamo la dirimpettaia Africo, abbandonata e silente dall’altra parte delle fiumare e, guardandoci attorno, la corona di montagne che chiudevano da ogni parte quel comparto nascosto dell’Aspromonte. Superato l’ultimo tratto attraverso enormi frane giungemmo alla Portella

di Furchi (ovvero forche), a quota 900mt., dove la strada che proseguiva in salita per Bova diventava rotabile e quindi più comoda. Proprio allora però noi dovevamo lasciarla per un’altra assai più disagiata che subito imboccammo tagliando alla nostra sinistra, e cominciammo la lunga ripida discesa verso la marina. Da quell’altro lato della montagna, esposto al sole, l’odore della ginestra era più intenso e l’aria assai più calda. Per ore, nell’alternanza di lunghe calate e brevi risalite, andammo sempre più giù per una pista stretta e piena passaggi accidentati, qua e là intralciata da rovi; fino a che giungemmo a una profonda fiumara costellata di enormi massi e dal letto sabbioso che percorremmo per un lungo tratto procedendo a zig zag tra i macigni. Sotto quella forra l’aria era diventata afosa e ci tormentava ma potemmo anche rinfrescarci nell’acqua limpida del torrente. Poi, dopo esserci un po’ riposati, riprendemmo a risalire finché arrivammo in un posto luminosissimo, aperto e con alla vista il mare. Le case sparse nella ripida collina indicavano che eravamo arrivati a Santo Petro, contrada abitata da casalinoviti. In una di quelle case, che ricordo ben curata e bianca di calce fuori e dentro, abitava nostra comare che, notai, era insolitamente grassa e scura di pelle. Accogliendoci mi baciò commossa e delicata facendomi un mondo di apprezzamenti, e poi mi diede un uovo fresco per rifocillarmi. Mi trattò, ricordo, con affetto e sacralità indescrivibile come si conveniva a un piccolo comparello battezzato dal suo unico figlio maschio. Ebbe per noi ogni attenzione e non permise che ripartissimo quel giorno stesso ma solo, dopo aver pernottato e riposati, il successivo quando con mio nonno ce ne tornammo a Casalinuovo, a nostra volta caricati dei doni di comare Agata del più e del meglio che aveva.


La nostra storia

inAspromonte Novembre 2014

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La Locride nel 1791 non era un Eden felice. La testimonianza dell’Ispettore di Stato borbonico

Gli ascari, gli imbroglioni

E I SOGNATORI di PINO MACRÍ

«

Si cerca di esorcizzare il disagio infinito causato alla Calabria dalle classi dirigenti Nelle contrade « l’innocenza si deve comprare e l’impunità è un oggetto di traffico Se ne parla « qualcuno, che in quel sovrano non crede, viene tacciato di “ascarismo”

Nello foto in alto a sinistra una strada di Gerace, a destra un dipinto. Nella foto sopra Giuseppe M. Galanti

Il popolo, per le oppressioni che soffre, è meno facinoroso di quello che dovrebbe essere

S

pesso, in tempi di crisi, si cerca conforto e rifugio nel ricordo del passato. Se, poi, i tempi delle crisi sono perduranti, subentra la disperazione, e diventa irrinunciabile il ricorso agli anestetici per la mente. Questi, come tutte le droghe, distorcono la realtà e la adattano secondo esigenze liberatorie: talvolta evocando mostruosità (in fondo, catartiche), talvolta vagheggiando paradisi in cui tutto è perfetto, morbido, carezzevole: consolatorio, appunto. Cosicché, i re, i principi e le principesse delle fiabe, sempre buoni e belli vengono presi abbondantemente a prestito per costruirsi una sorta di Eden della felicità perduta, in cui tutti i mali dell’oggi erano stati rigidamente ingabbiati, e streghe terribili tramavano (e tramano) sadicamente nell’ombra per scatenarli sul popolo innocente ed ingenuo. Qualcosa di simile, di molto simile, sta accadendo da un bel po’ di tempo a questa parte nella nostra Calabria: spesso (troppo spesso!) si cerca, cioè, di esorcizzare il disagio infinito causato alle popolazioni calabre da schiere sterminate di classi dirigenti inette attraverso l’evocazione incessante di una Calabria felix protervamente e con grande sicumera affermata, e con contestuale condanna senza appello degli “ascari” che osano dubitarne. La povertà? Non esisteva: la Calabria era la regione più industrializzata d’Europa. L’ignoranza? Ma quando mai! Anzi: l’Unità padanopiemontese impose la chiusura delle scuole al sud per 15 anni. Strade? Porti? Collegamenti ferroviarii? Non ce n’era bisogno: le autostrade del mare si sviluppavano sugli 800 chilometri di coste e bastavano a garantire la ricchezza dei calabresi. Bisogni dello spirito? Ci pensavano le infinite feste religiose e l’incorruttibile verbo dello sterminato popolo dei servitori della Chiesa. Insomma, parafrasando una celebre (quanto infelice) sparata di un sovrano di quei tempi, si può ben dire che la Calabria, un tempo, viveva felice e beata, efficacemente al riparo da tutto, fra l’acqua salata e l’acqua santa. Fu proprio così? Se ne parla qualcuno che in quel sovrano non ci crede e non ci ha mai creduto, magari è subito tacciato di

“ascarismo”. E allora facciamo parlare un fedele servitore di quello stato: Giuseppe M. Galanti, integerrimo uomo di grande cultura che, in veste di Ispettore generale, nel 1791 fu mandato in Calabria per prendere visione di persona sullo stato di quelle genti. Egli viaggiò, in lungo ed in largo, per tutta la regione, chiedendo, guardando, annotando, distribuendo questionari a risposte scritte (metodo pressoché rivoluzionario per l’epoca), e, infine, riferì. Questo il racconto della situazione della Locride (allora, ovviamente, non si chiamava così):

Giuseppe M. Galanti, integerrimo uomo di grande cultura, viaggiò per tutta la regione chiedendo e annotando

“Lo stato naturale di queste contrade si stende in una maniera uniforme fino a Gerace, Ardore e Bovalino. A Gerace specialmente è meraviglioso il progresso che fa la coltura degli ulivi [...]. Nel littorale la parte coltivabile è piana e picciola. [...] sono rare le gelate nell’inverno, e quasi mai nella primavera. La gragnuola vi è rarissima. In ciò sono ben favoriti questi luoghi dalla natura. [...] Il flagello maggiore è il subalternismo. Le comunità riguarderebbero come una grazia una nuova tassa quando per mezzo di essa si abolissero i subalterni. L’innocenza si deve comprare e l’impunità è un oggetto di traffico. [...] L’agricoltura non fa progressi per la scarsezza della popolazione, [...] e per l’ignoranza de’ buoni metodi agrari. [...] Gli strumenti agrari sono imperfetti. L’uso della vanga vi è sconosciuto. Solo nella provincia di Cosenza vi si usa qualche poco. La putatura degli alberi vi è ignota. Per putarsi li gelsi qualcheduno fa venire i potatori da Cosenza. Gli ulivi si lasciano intatti senza putatura. Non si conoscono altri concimi che quelli della stalla. La terra non è profondamente cavata, né bene stritolata, per lo cattivo aratro; principalmente di qui il piccolo

prodotto che abbiamo notato nelle derrate. La malattia del verme seguita a fare strazio delle ulive in questa contrada ancora. I trappeti alla genovese vi sono sconosciuti. L’olio generalmente si conserva nelle fosse, in vasi di creta. [...] si è cominciato ad introdurre l’uso delle cisterne, le quali si fabbricano sotto terra con calce di tufo, mattoni e ferraggine o sia spuma di ferro [...], e il suo intonaco è impenetrabile. I vini sono spiritosi, ma nell’estate si alterano ed inacidiscono. [...] Si conservano o in botti di castagno o in vasi di creta. [...] Le campagne generalmente sono aperte, specialmente nelle marine [...] non perché fossero soggette a servitù, ma [...] contribuisce a ciò anche il mal costume: si portano a pascolare i porci e le capre indistintamente in ogni luogo o chiuso o aperto. Questi animali devastano le coltivazioni e formano un altro grande ostacolo all’agricoltura. La moneta è scarsissima, specialmente dopo il tremuoto. [...] I macelli in questa contrada sono mal provveduti. L’inverno solamente non manca la carne porcina, la quale però è cara. Quella di vaccina è scarsa e cattiva. In questa contrada è generale la sulla spontanea, della quale si fanno uso tutti gli animali. [...] Si vuole tanto sostanziosa anche secca da bastare a supplire all’orzo. Non si conosce il falcione [...], ma una semplice falce imperfetta. Gli ortaggi sono scarsi e si fanno solamente per uso de’ particolari. Solo Roccella ha circa 30 barche pescherecce. [...] Nell’inverno sono provvedute queste contrade di pesca da’ pescatori del Golfo di Napoli e della riviera di Reggio. Nell’estate si sta senza pesce. Le marine non sono custodite [...] Le torri e le case de’ cavallari sono state in buona parte rovinate [o] distrutte da’ tremuoti, né si è dato ancora principio a restaurarle. La spiaggia è aperta né ha fortificazione di sorte alcuna. [...] Il prodotto della seta in Gerace è di circa 8.000 libbre: quella rivelata è di 4.000. Si può considerare il controbando della seta per una metà della raccolta. […] Il costume di questa contrada è di esser ostinati e vendicativi. [...] Il popolo, per le oppressioni che soffre, è meno facinoroso di quello dovrebbe essere. [...] Una delle principali cagioni degli omicidi è la gelosia, figlia della rozzezza de’ costumi. Gli omicidi o sono rissosi e nascono da ubbriachezza, o sono premeditati e nascono da gelosia e da odio. I furti, le

crassazioni sono comuni. I miliziotti sono nella maggior parte i primi facinorosi. Le scorrerie de’ malviventi nelle campagne sono generali. Quasi tutti i miliziotti sono i più facinorosi della provincia perché i delinquenti ed i debitori adottano questa professione e vengono garantiti da’ comandanti in disprezzo delle leggi. Con ciò restano impuniti i delitti, quali crescono ogni giorno. La mendicità è scarsissima. L’ozio, il giuoco, la mala fede è generale. Gli esposti non sono frequenti, ma sono relativi al costume della contrada, geloso e che punisce tali falli delle donne colle armi. […] Non vi sono

Quasi tutti i miliziotti sono i più facinorosi della provincia e vengono garantiti dai comandanti a disprezzo delle leggi

Ospedali. Solo in Isca c’è [...] una scuola pubblica di lettere umane, latina e leggere e scrivere. Il maestro ha 40 ducati l’anno. [...] Le malattie costituzionali si sentono nel cader della estate e nell’autunno. Sono febbri terzane e putride biliose, alle quali è soggetta la gente di campagna principalmente. [...] La durata più lunga ordinaria della vita è fino a 70 anni. La contrada è dunque più sana del Marchesato. L’inoculazione comincia a farsi generale. A Gerace si fa fino dalle donne. Le femmine si maritano alli 18 anni, gli uomini a’ 20. Delle donne pochissime restano senza marito. Le pinzoche sono numerose. [...] nel giorno della Croce e più nella Settimana Santa usano flagellarsi a sangue per le strade e per le chiese, né vi si è potuto por freno da’ vescovi e dalle leggi. L’uso però va rendendosi meno comune. I galantuomini ed i preti anche sogliono flagellarsi. Usano ubriacarsi prima, per rendersi insensibili alle sferzate. [...] Non vi sono osterie di sorte alcuna. Prima i conventi esercitavano l’ospitalità e la loro soppressione è un danno per coloro che viaggiano”. Era un “ascaro” anche Giuseppe Maria Galanti?


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Libri e scrittori

inAspromonte Novembre 2014

Il racconto. L’autore de Il sole e il sangue immortala, con maestria, l’ambiguo rapporto tra società e Chiesa

Il muschio era dolce

Mancano pochi giorni a Natale, che si preannuncia carico di odori, di pioggia, di novità. La festa però non riesce a scaldare le normali esistenze di Teresa, Battista, don Giacomo. Non subito. Poi ci si mette di mezzo il bosco, il tempaccio, un caffè... di DOMENICO TALIA

D

a alcuni giorni pioveva a dirotto. D’accordo che era inverno e che da quelle parti erano abituati alle giornate umide in quella stagione, ma una pioggia così seccante avrebbe certamente rovinato le feste. Mancavano tre giorni a Natale e la chiesa era in fermento più del solito. La Messa della sera stava per iniziare e le fedeli, per non arrivare in ritardo, si affrettavano per strada. Alcune salivano svelte i gradini della chiesa. Camminando si riparavano come potevano dalla pioggia. A volte erano in due sotto l’ombrello e finivano per bagnarsi entrambe. UNA RAGAZZINA diretta in chiesa a capo scoperto, quasi correndo, cercò di sorpassare le più anziane saltando i gradini a due a due. Voleva evitarsi un po’ di pioggia e forse anche mostrare di essere più agile di loro. Sull’ultimo scalino scivolò e sarebbe finita lunga per terra se la mano ferma della signora Teresa, ormai arrivata in cima alla scalinata, non l’avesse agguantata e sostenuta. La ragazzina si affrettò a ringraziarla, lei le sorrise senza risponderle. Dentro di sé pensò “Mocciosa, se non ci fossi stata io qui a salvarti, saresti tornata a casa bagnata e dolorante”. La signora Teresa era una donna che andava ormai verso i sessanta. Dopo la sfortunata morte del marito si era dedicata ai due figli e alla chiesa. Il suo carattere un po’ severo era diventato ancora più duro durante la vedovanza. Lo si capiva anche dal suo corpo che era dimagrito facendola sembrare più alta di quanto già non fosse. Non era mai stata di grande compagnia, ma la sfortuna le aveva tolto il marito in largo anticipo sul previsto e l’aveva resa rude e più distaccata anche con chi le viveva accanto. I figli se ne erano andati a lavorare lontano e lei era rimasta da sola in casa. Meno male che le era rimasta la chiesa. Ci andava tutti i giorni e lì diventava quasi buona con le amiche e le altre parrocchiane, anche perché quando era in chiesa si sentiva serena. Il sostegno spirituale di don Giacomo la aiutava a sopportare anche il lutto che le era capitato.

DON GIACOMO non era un tipo facile. In tanti avrebbero detto un brutto carattere, ma era un prete e, con l’aiuto del Signore, sapeva come comportarsi con i fedeli per farsi ben volere. Le poche volte che era necessario, sapeva anche farsi temere. Insomma, era un arciprete e non un fesso. Misurava i sorrisi e le parole. Quando serviva uno sguardo cupo, lo mostrava con la necessaria naturalezza, aiutato anche dalla sua stazza robusta. Lo sguardo torvo e la voce ben impostata gli venivano bene soprattutto quando doveva rimproverare Battista, il sagrestano. Don Giacomo trovava sempre un buon motivo per riprendere Battista e quando i motivi scarseggiavano, sempre con voce stentorea, gli dava qual-

che ordine, giusto per tenerlo sempre sotto scopa. La Messa iniziò dopo il suono della campanella che annunciava l’ingresso del sacerdote. In chiesa i banchi vuoti erano tanti e don Giacomo, mentre, insieme ai presenti, era impegnato nel canto d’ingresso, con gli occhi rivolti verso il soffitto pensò che la colpa era tutta del cattivo tempo che non aveva rispetto neanche per la nascita di Gesù. Di lato all’altare, con le spalle rivolte alla porticina della sagrestia, Battista si era unito al canto. Anche lui pensava alla pioggia che non finiva di venire giù. Però, a differenza dell’arciprete, non era preoccupato per la chiesa mezza vuota, ma piuttosto per il compito che don Giacomo gli aveva affidato per il giorno dopo. UN COMPITO che gli sembrava quasi un castigo, una penitenza. Doveva tornare in campagna a raccogliere altro muschio da aggiungere al grande presepe che avevano preparato in chiesa. Don Giacomo aveva deciso che ne serviva ancora un po’ per abbellire alcune zone del presepe. Battista cantava piano e pensava “Come farò a raccogliere il muschio sotto la pioggia? Sicuramente tornerò ‘mbonatu dalla testa ai piedi, ma lui se ne frega altamente. Quel muschio per me significa fatica e romatisma, ma per lui questo non conta”. Dopo qualche attimo smise di pensarci e di preoccuparsi, non voleva

LA MESSA finì e don Giacomo ricordò al sagrestano il compito per l’indomani mattina: «Domani dopo la prima messa ricordati di andare a cercare il muschio» «Non si preoccupi don Giacomo. Troverò tutto il muschio che serve». La mattina dopo la pioggia non si era ancora stancata, anzi aveva ripreso un certo ritmo, cadeva calma e regolare. Sembrava indifferente alla gente che, intenta negli acquisti e nei traffici natalizi, doveva sopportare il suo lento tormento. Battista uscì per andare in campagna dopo la messa. In una mano

Si alzò, prese Teresa tra le sue braccia e iniziò a baciarla. Prima sulle labbra e poi sul collo. Si aspettava una reazione che non ci fu. Anzi, quella rispose con decisione al suo abbraccio e ai baci stringendolo più forte

fare peccato. Battista aveva superato i quaranta da un po’ e la sua vita ormai pendeva verso i cinquanta, aiutata dai giorni trascorsi tra il lavoro di falegname a tempo perso e la chiesa. Più in chiesa che in falegnameria. A quella per fortuna ci pensava suo fratello. I suoi capelli avevano iniziato a frequentare il bianco, ma pettinati all’indietro lo facevano sembrare un sacrista di un qualche fascino. Peccato che il suo carattere era arrendevole, più di quanto la pettinatura facesse pensare. Don Giacomo aveva ereditato Battista dal suo predecessore e lo sopportava con qualche difficoltà. Aveva capito che era un buon uomo, onesto. Su quello nulla da dire, ma lui ne voleva uno sveglio, pronto agli ordini, veloce nelle commissioni e nel servizio in chiesa. Aveva cercato delle scuse per sostituirlo, ma non ci era ancora riuscito, anche perché non voleva insospettire i fedeli che - lui lo sapeva erano affezionati al sagrestano. Non voleva sembrare cattivo e aspettava il momento buono per esserlo senza generare sospetti e mandar fuori dai piedi quel pappamolla di Battista.

l’ombrello e nell’altra il cesto da riempire. Conosceva il posto buono dove trovare il muschio. La Rocca du Monacu era una miniera di muschio, l’unica rottura era la pioggia. In quel posto aveva vissuto un monaco eremita, forse per questo motivo il muschio per il presepe era bello e abbondante. Ci volle un’ora per riempire il cesto. Alla fine di quell’ora i suoi capelli grondavano acqua, ma era inutile preoccuparsi. A casa si sarebbe asciugato per bene. Quando il cesto fu pieno, se lo mise in spalla. Con l’altra mano reggeva l’ombrello stando attendo a non cadere. Non vedeva l’ora di arrivare a casa. Uscì dal bosco in fretta e dopo pochi minuti era già arrivato vicino alle prime case del paese. La seconda che incontrò era quella della signora Teresa. Lei era in giardino. La salutò senza rallentare il passo. Non voleva perdere altro tempo «Buongiorno signora Teresa». LA SIGNORA rispose al saluto e l’invitò a entrare. Quell’invito lo costrinse a fermarsi.

«Battista venga dentro, non vede com’è bagnato, si accomodi così si asciuga e le offro un caffè». Battista provò a rifiutare l’invito, ma la signora era una delle parrocchiane più assidue e poi lei non amava essere contraddetta e Battista lo sapeva. Il sacrestano lasciò il cesto davanti all’ingresso ed entrò. Lei lo fece accomodare in cucina e dal bagno gli portò un asciugamano «Si asciughi i capelli mentre io metto la macchinetta sul fuoco». Battista si stava sfregando piano il panno sui capelli quando la padrona di casa arrivò con il caffè. «Quanto zucchero?» «Due, grazie». Alla signora Teresa, Battista sembrò un po’ maldestro con l’asciugamano e allora, quasi d’istinto, decise di aiutarlo. Finì il suo caffè, si alzò in piedi e si fece dare l’asciugamano «Dia a me, l’asciugherò per bene. Lei intanto si beva il caffè». Battista fu un po’ sorpreso da quelle parole, ma le passò lo stesso il panno. La signora era in piedi dietro il sagrestano. Con calma e decisione iniziò a strofinargli i capelli. Battista sentì subito, tra le spalle e il collo, la morbidezza del seno della signora. Pensò di spostarsi ma non ci riuscì perché la signora era con le mani sulla sua testa. I suoi capelli diventavano sempre più asciutti e lui iniziava ad avvertire piacere per quella leggera pressione soffice sul collo della carne morbida e rotonda. Il massaggio, certamente non voluto, che le mani della signora Teresa gli stavano facendo tra i capelli completava le sensazioni. Si irrigidì un po’ per non farsene accorgere. LA PADRONA di casa non toccava un uomo dalla morte del suo povero marito. Non aveva più pensato agli uomini da allora, eppure, in maniera del tutto imprevista, la pressione del corpo di Battista sul suo petto duro e abbondante le risvegliò ricordi piacevoli. Capì che si sarebbe dovuta fermare. Cercò di fermarsi, ma qualcosa la spingeva a proseguire nel massaggio, anche se i capelli erano ormai asciutti. Battista era un sagrestano e non un santo. Anche lui aveva qualche voglia arretrata e quando si accorse che la si-

gnora proseguiva oltre il lecito sentì che era il caso di osare. Si alzò, prese Teresa tra le sue braccia e iniziò a baciarla. Prima sulle labbra e poi sul collo. Si aspettava una reazione che non ci fu. Anzi, quella rispose con decisione al suo abbraccio e ai baci stringendolo più forte. Lei non sapeva perché agiva in quel modo, ma le sembrava la cosa più naturale da fare in quel momento. Nessuno dei due aveva mai pensato a quella singolare circostanza, nessuno l’avrebbe voluta soltanto pochi minuti prima. Dalla cucina finirono insieme sul letto e non sarebbe potuto andare meglio di come andò. Quando si furono ripresi, per qualche attimo si scrutarono in maniera particolare. Come non si erano mai guardati prima. Si rivestirono e la signora Teresa, guardandosi intorno, accompagnò Battista fino al cancello del giardino e lo salutò mettendo l’indice della mano destra dritto davanti alle labbra chiuse. Lui capì. Non pioveva più. Battista, che nell’ultima mezz’ora aveva pensato ad altro, si ricordò del muschio per don Giacomo, mise in spalla il cesto e si affrettò. Camminando si sentiva una grande serenità dentro. Il muschio non gli era mai sembrato tanto leggero sulla spalla. A guardarlo era dolce, lucido e verde come mai. PER LA SANTA MESSA della notte di Natale ogni posto in chiesa era occupato, i pochi ritardatari erano rimasti in piedi. Don Giacomo aveva scelto “Venite, fedeli” per il canto d’inizio. Guidati dal coro, tutti si erano alzati in piedi e cantavano. I più stonati con voce sommessa. Dal lato dell’altare vicino alla sacrestia due occhi felici e sorridenti si soffermarono su un volto lieto tra le fedeli dei primi banchi. Lei se ne accorse e ricambiò il sorriso. Entrambi erano sereni e lontani da ogni colpa. Per loro era stato un miracolo. Don Giacomo di sicuro sarebbe stato di opinione diversa, ma tanto lui non avrebbe mai saputo nulla. E anche se avesse saputo, non avrebbe comunque capito.


Libri e scrittori Dal libro L’anno dei limoni

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seconda parte

Il kepòs delle meraviglie

Tutto era una cosa sola, un continuo naturale agli occhi e alla mente. Pensò a voce bassa e, senza volerlo, ringraziò Dio. Non poteva essere un caso quell’armonia...

C

ane nero lo aveva sentito arrivare da lontano. Non abbaiò. Attese dritto, in piedi, col muso al vento come nei tempi in cui, tutto eccitato, puntava la selvaggina per poi correre dietro gli spari dei fucili dei cacciatori di famiglia a recuperare le prede abbattute. Annusava in alto. Il vento gli aveva portato un odore conosciuto che lo agitava. Davanti alla sua cuccia aspettava le carezze del padrone. Era stato bravo, bravo come nelle battute di caccia, bravo ad aspettare e ad avere pazienza. Bravo come un caro e fidato compagno d’armi. Si avvicinò Fante Francesco, lo guardò negli occhi umidi e gli posò la mano sulla testa. Alla prima carezza quasi svenne e si fece addosso di pipì, come quando era cucciolo e sentiva freddo o si emozionava troppo. Cane nero si era fatto vecchio, il pelo però brillava ancora sotto il chiarore tenue delle stelle; solo alcune chiazze bianche sul muso tradivano il passare del tempo. Fante Francesco si appoggiò contro Cane Nero e Cane Nero contro di lui. Poi, il Fante, posò a terra la gavetta vuota, il tascapane e le giberne vacanti. Tirò via le scarpe consumate senza più lacci, e allungò le gambe che tremavano ancora dalla fatica. I piedi nudi, piagati, non li sentiva più parte del suo corpo. Si mise ad os-

servare la terra dietro casa. Guardò il fianco di quella terra che saliva, il cielo che la copriva e tutto quello che era appiccicato sopra al cielo di quel mattino, alla terra che osservava. Tutto era una cosa sola, un continuo naturale agli occhi ed alla mente. Pensò a voce bassa e, senza volerlo, ringraziò Dio. Fumò le ultime sigarette di trinciato forte. Tutto era davvero una cosa sola: Orione e l’albero di fichi. Il Grande Carro con le sue stelle e il luccichio di Venere sulle ciliegie vermiglio in basso. La stella Polare e la grande pietra di arenaria che dominava dall’alto tutto il fianco della collina e l’intera valle. Non poteva essere un caso quell’armonia o sembrava così a lui che, in tutti quegli anni, non aveva avuto modo di guardare il mondo con altri occhi se non quelli dell’ansia bruciante della sopravvivenza, dell’istinto feroce di conservazione. Ora niente più tradotte e trincee, niente più buche sotto terra dove nascondersi come animali e temere assalti nemici. Niente più boati di cannoni, sibili di spari. Niente più morte e paura della morte. Niente più tristezza e nostalgia di casa. La sua casa era là accanto a Lui. Fino all’alba pensò al passato. A quell’istante di riposo. Al dopo, e a quello che sarebbe stato. Vide com’era davvero: un povero Cristo, un Cristo fortunato però perché reduce da tutti i

fronti del conflitto, occidentali e africani fatti in prima linea, era tornato senza quasi un graffio sul corpo.

La guerra, sui contrafforti della linea Maginot, gli aveva regalato lo scoppio di una bomba d’artiglieria a venti passi da lui e dalla sua cassetta di munizioni. Lo scoppio, a sua volta, la semi sordità e le frequenti crisi d’epilessia che non lo avrebbero mai più lasciato; era stato un povero Cristo fortunato. Era andata peggio ai suoi due compagni: di Saro e Massimo erano riusciti a riempire solo mezzo sacco di iuta. Quando ci pensava la pelle si accapponava e lo faceva come se il ricordo non fosse il suo. Lo ricordava come la confidenza fattagli da qualcuno incontrato una sola volta. Qualcuno di cui ricordi solo la voce ed il terribile racconto, non il viso, non il luogo della confidenza. Fante Francesco pensò che adesso sarebbe rimasto là, sulla sua montagna, per sempre. Niente e nessuno lo avrebbe convinto ad andare altrove. Pensò che poteva essere utile avere un po’ di terra a tre passi da casa da coltivare e da curare. Che poteva lavorarci anche la sua famiglia, il vecchio Cavaliere suo padre e l’anziana madre. Poteva essere un piccolo impegno per tutti, un aiuto per mandare avanti la famiglia. Sette anni, quasi otto e provava vergogna e timore ad entrare dentro per in-

Sotto il Signore

«Hanno potuto scrivere questa magnifica e magnetica guida, perché si sono calati nel cuore del popolo, in quest’altare di carne, che di palpito storico in palpito storico ha conservato e trasmesso il vero volto dell’Aspromonte, Polsi, la sua Madonna benedetta: nei secoli ora sempre così sia» Pasquino Crupi

«

I Potamioti li riconoscerai dal camminare» se c’è una cosa che distingue un aspromontano da tutti gli altri è il modo di camminare tra i boschi. Anzi, è il modo di sfiorare, lasciandosi spesso ferire, rovi e cespugli. Il professore Raso fa, del suo libro su San Luca e Polsi, una autentica poesia. Cogliendo con leggerezza i tratti, somatici, di stile e di mentalità, che differenziano e i montanari dagli altri popoli, e i montanari tra essi stessi. «I Potamioti li riconoscerai dal camminare. Quel passo fu fissato dalla natura perché la razza è antica assai, di caprai e boscaioli e sono state inselvatichite platee montane, i sottoboschi erbosi e cespugliosi a forgiarne l’appoggiatura e a ritmarne l’andatura. Se alla bettola di Zervò vengono a salutarti, serissimi in viso, ombrosi e crucciati, come se si portano dentro laceranti segreti, si danno quasi il tempo, incedono omologhi con passo rituale che ha una pacata evidenza, un ritmo nascosto che essi rispettano stringendosi in gruppo solidale, da miniatura antica. Vanno in paese sul cemento e sull’asfalto con nella pianta dei piedi la memoria e lo stimma della calandrella e hai l’impressione che continuino a camminare tuttavia sull’erba alta e tra le felci, non calcandole con forza come gli africoti versatili abituati agli spilapiedi e ai

sentieri di capra né calandovi sopra con tutta la pianta come i samioti che hanno perso il mare, ma pattinando quasi, con una falcatura distesa e serrata d’una danza di guerra […]». Poi, Raso, tocca un altro aspetto cruciale degli aspromontani: quel loro legame simbiotico con la natura e le divinità, siano esse le icone cristiane, siano essi i retaggi dell’antico culto pagano «I Locresi erano convinti che il Dio Sole, entità suprema dei pastori italici, avesse assunto il nome e le fattezze di Apollo Febo sulla montagna di Bracuri e nella vallata delle grandi pietre radunabili in un’unica amplissima veduta dalla cima di monte Misafumera. Volgendo lo sguardo verso oriente da quell’onfalò orografico, Pietra Cappa ti sta di fronte troneggiante tra boscaglie di lecci con la sua sagoma di grande tazza di libagioni che rende ragione del suo nome [...]. La più antica e pregnante denominazione poneva un gigante caro a Zeus, esso stesso emblema umanizzato fin dalla preistoria delle grandi pietre erte che sorreggono il cielo, a guardiano e custode del regno delle grandi pietre». E queste pietre, che incoronano le vette sopra San Luca «recano nomi straordinari: Pietra Cappa, Pietra di Febo, Prache di Sansone, Sedia, Rocche di San Pietro, Pietra Castello, Serro Papà, Kau e, pur animati da infiniti occhi e anfratti

creati nei millenni dagli elementi naturali e dall’uomo stesso, restano ancora non domati, isole di indifferenza geologica e di minerale testardaggine». Diverso è, nell’opera, l’approccio di Picone, che guarda la montagna con l’occhio attento e esperto dell’escursionista e che offre un quadro chiaro delle peculiarità del territorio. Senza trascurare, naturalmente, l’aspetto puramente antropologico «È molto forte il legame tra le popolazioni aspromontane e questo luogo, quasi come tra i musulmani e la Mecca: almeno una volta nella propria vita è un obbligo recarvisi! Ormai da alcuni secoli, dalla Calabria e dalla Sicilia, giungono numerose carovane di devoti. Alle cavalcature di una volta si sono oggi sostituite automobili o camion rusticamente attrezzati con panche nei cassoni. Ogni paese compie il pellegrinaggio in carovana (otre 50) secondo un preciso calendario che da giugno ai primi di novembre regola in parte l’afflusso dei fedeli. […] trasformando l’anfiteatro naturale in cui è posto il santuario in un enorme calderone di grida, canti, balli, odori, gesti, colori». E Picone insiste sui sentieri, che da tutto l’Aspromonte portano a Polsi, indicando con attenzione le sorgenti e i punti più difficoltosi. Notizie a cui tutt’oggi attingono le guide esperte e gli escursionisti più giovani.

contrare la moglie e i figli. I figli che non lo conoscevano: troppo piccola la prima quando partì, mai sentito l’ultimo, se non in pancia a Cata. Quando sentì un briciolo di forza attraversargli il corpo si alzò e si avvicinò alla terra, ne prese una manciata e la portò al naso. Aspirò forte e ritrovò il suo mondo, quello di sempre. Poi la sbriciolò tra le mani e la considerò: grassa, sciolta a sufficienza, poco sfruttata. Sì! Valeva la pena chiedere di lavorarla e faticare per lei. Diede un’altra carezza a Cane Nero, ed aprì dolcemente l’uscio di casa, della sua casa. Cata lo aspettava ogni mattina, da quando era partito per la guerra, seduta accanto al braciere semispento. Poteva tornare in qualunque momento, o forse mai, lo sapeva. Ma lei aspettava, e non dormiva in questa attesa. Aveva lo scialle sulle spalle, lo stesso che gli aveva regalato Fante Francesco quando si erano sposati. Appena entrato Cata lo guardò negli occhi per capire se era lo stesso uomo che era partito ad entrare in casa. «Stiamo tutti bene» disse Cata appena lo vide, «Siediti, vieni ti faccio un poco di latte». «Lo sapevo che mi aspettavi davanti al fuoco», ripeté ancora il soldato e chiese: «Come stai, e i bambini? Mia madre e mio

padre?». Non era certo però di aver espresso a parole quei pensieri. Da tanto non parlava. Aveva sempre immaginato così il suo ritorno: con gli occhi di Cata che lo cercavano e gli chiedevano tante cose, risposte che avrebbe dato e, in parte, non dato perché sarebbe stato difficile far venire fuori le cose tutte in una volta. Le più dolorose si sarebbero nascoste dentro per molto tempo. Aveva ripetuto mille e mille volte, dentro di se, le parole dell’incontro «Come stai, e i bambini? Mia madre e mio padre?» le aveva ripetute mille volte. Adesso non sapeva se l’aveva davvero pronunciate. Nel dubbio si sedette accanto a Cata che stava per alzarsi per dargli da mangiare, per lavarlo, vestirlo con nuovi abiti, proprio come si fa coi morti e coi viandanti. La pregò di non alzarsi ancora e disse «Non c’è tanta fretta. Stai seduta che voglio guardarti». Poi gli prese le mani con tenerezza, senza parlare, come non aveva mai fatto prima (continua). Vincenzo Carrozza


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Approfondimenti

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Travolti dalla rabbia di acqua e roccia

PLATÍ COME NEL 1951 A

Servizio e foto

di FRANCESCO RAYMON VIOLI

1951

ll’epoca venne De Gasperi a risanare gli animi, a dare delle risposte. Non a risolvere il disagio ma per dire «Noi ci siamo», anche se non si ottennero grandi risultati; non per De Gasperi ma perché quel paese era ed é in una valle dimenticata. Sembra il titolo di un romanzo o al massimo di un cartone animato: la valle dimenticata. Quel villaggio sorto sul finire del Medioevo, che vanta testimonianze del monachesimo basiliano, oggi ignote ai più, è custodito, circondato dal grande drago d’Aspromonte, dormiente, che di tanto in tanto si risveglia e ne altera la vita, la struttura morfologica, le fondamenta. Così è stato col terremoto del 1783, con quello del 1908, con l’alluvione del 1951 e con ciò che è accaduto nei giorni scorsi, precisamente nella giornata del 5 novembre con il fiume in piena e i 270 mm di pioggia. Si legge sul web, in una relazione pubblicata dal Consiglio regionale almeno quattro anni fa in cui si presentava un nuovo disegno di legge ad hoc per Platì: “Tale situazione e, ovviamente il disagio sociale in cui versa la popolazione, mi hanno indotto, anche attraverso il contributo di tanti amministratori della Locride che si sono occupati del c.d. Caso Platì, ad attivare attraverso questo progetto di legge iniziative utili e proficue per uno sviluppo sociale e territoriale che porti alla vera rinascita del paese di Platì”. Non ricordo, ora, a chi appartengono queste parole e sinceramente non ho fatto nessuna verifica per scoprirlo ma quello che sottolineo è che sono rimaste parole. IL PAESE É POSTO ALLO SBOCCO della vallata della fiumara Ciancio che poi prende il nome di fiumara di Platì ed infine quella di Careri per sfociare sullo Jonio (Bovalino). Platì è adagiato su un conide di deiezione ed è posto in una zona tra le più intense per dissesto idrogeologico. Nell’alluvione dei 1951 (16-18 ottobre) fu il paese più colpito, e l’abitato fu parzialmente distrutto. Il territorio è percorso da decine di torrenti allo stato selvaggio che hanno contribuito alla distruzione di un’economia basata sulla produzione dell’olio d’oliva ed agro-pastorale. Dopo l’alluvione dei 1951 (Platì contava 7200 abitanti) la popolazione ha preferito l’emigrazione interna (Milano-Torino) o transoceanica verso l’Australia. Platì fu visitata da Alcide De Gasperi, come ricordato sopra, all’epoca Presidente del Consiglio il quale disse: «Deve finire l’Italia di Platì». Ma Platì fu ancora colpita in maniera violenta dalle alluvioni del 1953 e 1958, che portarono ad un abbandono del territorio con decine di frane imponenti e mai sistemate. Le argille, divenute rocce metamorfiche, tornarono argille. In cinquant’anni l’apporto della fiumara Ciancio-Platì è stato così imponente che il letto del torrente si è sopraelevato rispetto al tetto di alcune abitazioni. Nessun intervento organico è stato attivato. Il paese è attraversato dalla statale 112 che dovrebbe collegare lo Jonio al Tirreno attraverso il Passo dello Zillastro e congiungersi a Santa Cristina d’Aspromonte, Oppido Mamertina e Molochio. La strada è chiusa al traffico dal 1951 e i lavori per il ripristino sono iniziati nel 1985 e mai ultimati. Le strade poderali sono in completo dissesto. Platì è un paese d’acque che d’estate soffre la sete nonostante le cinquanta sorgenti esistenti sul territorio. Spesso l’acqua non è potabile e Platì ha la più alta percentuale europea di ammalati (e morti) di cirrosi epatica. PER CHI HA LASCIATO QUESTO PAESE a causa dell’emigrazione vi è un viscerale senso di nostalgia che tiene svegli la notte, che alimenta l’attaccamento alla casa natia, ma per chi ci vive oggi, per chi ci nasce vi è la montagna, questa sacra montagna, la fiumara, questa sacra fiumara, che di tanto in tanto bussano alle porte a ricordare che si è radicati alla terra, in tutti sensi. La melma, il fango aggrappano alle gambe. Sembrano due gigantesche mani come quelle dei disegni di Dalì, che riemergono e afferrano per dire tu contadino, tu pastore sei mio. Una vecchia poesia di cui non ci è pervenuto l’autore recita in un verso “Guardati di Platì l’anticu rissi, ca mbischi cu la terra comu passi”. Questa terra può far male eppure genera figli, questa terra può uccidere eppure la si ama. Nel lontano ottobre 1951 l’alluvione giunse per spronare chi era intenzionato a emigrare, diede la botta finale, uno scossone e risucchiò in sé 19 vittime. A migliaia partirono per l’America e soprattutto per l’Australia. Di recente nel neo sito internet di Platì, www.plationline.net, è stata pubblicata una testimonianza di una signora all’epoca bambina. Sulla via XXIV maggio vi è un monumento (che spero venga sostituito visto lo stato di deterioramento dovuto, a mio parere, all’insensato materiale con cui è stato realizzato) che porta in sé il ritaglio di 19 mani a ricordare le vittime di quei giorni. I platiesi non sono rimasti con le mani in mano né nel 51 né oggi, come si può vedere dalle foto. É stato girato un servizio da una tv locale e rimarrà locale. Beh, forse la notizia oggi è giunta al mondo in diretta, ma le cose non sono cambiate. Paura e sgomento camminano per le vie e solo la solidarietà tra compaesani allieta.

IL PANE CHE VIENE FATTO PER LA FAMIGLIA e i vicini, sfama, l’acqua che a volte uccide, disseta. Si vive di quel che si ha e non ci si lamenta per questo, ma per il sentimento di abbandono che attanaglia la vita da queste parti. Ci si è sempre sentiti abbandonati e guai a chi ci accusa di autocommiserazione. Un uomo che parte, che lascia la casa per tre mesi di nave, diretto in terra straniera, non si autocommisera, non sopravvive, vive. E noi di Platì, di Natile, di Africo siamo figli di quell’uomo. Non si smette mai di affidarsi alla patrona, la Madonna di Loreto. Si porta la statua in giro ma senza inchini. Solo a Lei ci si inginocchia. Oggi gli anziani, i testimoni della tragedia di 60 anni fa ricordano come solo con la Madonna in processione, la pioggia cessò, l’ira della natura si placò e il sole spuntò per rammentare che non tutto era perduto ma si poteva ricostruire. É così fu per la chiesa, le case, la scuola. Perché la vita è fatta di smarrimento e riprese, nella vita ci si rigenera, dopo la morte si riparte. Non si attende ma si ricomincia perché la gioia del vivere sta proprio nel ricominciare. Forse sempre soli, forse sempre con l’amaro in bocca, lo sgomento, la rabbia, ma si ricomincia perché in fondo l’Aspromonte selvaggio, primitivo lo si ama, perché in fondo la vita la si ama e per questo continuano a nascere figli in questo cuore di Calabria.

Colpito in maniera violenta dalle alluvioni dell’ultimo secolo, il paese soffre ancora oggi la crisi dei dissesti idrogeologici. Mentre la fiumara Ciancio continua a minacciare i suoi abitanti... 2014


Scrivere in Aspromonte

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Scrivere in Aspromonte...

LA CULTURA É IN CAMMINO

P

rosegue la programmazione di Scrivere in Aspromonte, già arrivata al suo terzo appuntamento. Ultima tappa in ordine di tempo è stata Sant’Agata del Bianco dove si sono accesi i riflettori sulla storia della Calabria, grazie al lavoro di Domenico Romeo, avvocato sidernese prestato alla ricerca di catasti, apprezzi e documenti antichi, autore del libro Precacore e Sant’Agata in Calabria Ultra, nell’ap-

della Deputazione di Storia Patria della Calabria. In ossequio al target individuato, e ormai consolidato, a fare da cornice alla parte squisitamente letteraria c’è stato l’intermezzo musicale curato da Gianni Favasuli e Lucia Catanzariti. «La rassegna Scrivere in Aspromonte - spiega Antonella Italiano - intende dare voce a quanti scrivono dell’Aspromonte o in Aspromonte, ai tanti autori locali o a quanti, dal-

“Scrivere in Aspromonte...” è una rassegna letteraria itinerante, organizzata in collaborazione con l’Associazione culturale I Chòra. Seguiteci sul cartaceo o sul sito www.inaspromonte.it, ogni mese sono in programma due appuntamenti prezzo del 1741. L’opera offre una ricostruzione fedele della realtà di metà Settecento dell’Aspromonte orientale, avvalendosi degli atti notarili custoditi negli archivi dell’Università di Napoli. Discuterne è stato un susseguirsi di curiosità e analogie con la Calabria contemporanea: dalle vicende storiche alla struttura urbana, dagli aspetti sociali ed economici a quelli politici e religiosi, passando per l’indice dei luoghi e delle contrade. A parlare di storia e cultura, in un dibattito moderato da Gianfranco Marino, assieme all’autore Romeo e al nostro direttore Antonella Italiano, c’erano anche il primo cittadino di Sant’Agata del Bianco Giuseppe Strangio, Vincenzo Stranieri, cultore di etnologia all’Università della Calabria, ed Enzo Cataldo membro

l’Aspromonte, traggono ispirazione. La tappa di Sant’Agata è stata un fuori programma. Ci ha fortemente voluti il suo primo cittadino, Giuseppe Strangio, e il fatto che le amministrazioni locali si stiano dimostrando sensibili al nostro progetto è per noi la conferma che la strada intrapresa sia vincente. L’incontro dedicato al lavoro di Domenico Romeo, possibile grazie alla partecipazione di relatori esperti, ci ha dato l’opportunità di approfondire delle tematiche ai più sconosciute. E sarà proprio questa la forza della nostra iniziativa - conclude la Italiano quella di puntare sulla varietà delle tematiche, una precisa scelta attuata nell’intento di dare all’Aspromonte la giusta visibilità in tutte le sue forme, da quelle naturalistiche a quelle artistiche e culturali».

DIRETTORE RESPONSABILE

Antonella Italiano

antonella@inaspromonte.it DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco bruno@inaspromonte.it Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 0964 66485 – Cell. 349 7551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 16/11/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.

Il prossimo appuntamento della rassegna letteraria si terrà tra qualche settimana con il professore Teti. I paesaggi dell’Amendolea faranno da cornice all’evento. A questo seguiranno due speciali serate natalizie, con i canti e i versi della tradizione popolare. E gli usi degli innamorati, e delle rispettive famiglie, nelle fasi del corteggiamento.

il 29 novembre ad Amendolea

VITO TETI e ALVARO Un paese ed altri scritti giovanili (1911-1916) è una raccolta di scritti inediti di Corrado Alvaro pubblicata da Donzelli. Il curatore del volume, a cui va anche il merito della scoperta dei preziosi testi, è il professor Vito Teti, ordinario di Etnologia presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e letterature del Mediterraneo. «La raccolta è un numero notevole di carte, manoscritti, appunti, lettere, poesie, racconti, immagini di Alvaro e anche di tanti scritti di Lico suo compagno di un tempo, di lettere inviate ad Alvaro dalla Puccini, dai familiari, dagli amici. Alvaro aveva poi scritto a molti editori nazionali ed aveva fatto delle letture pubbliche di poesie. Molte poesie non le aveva pubblicate per paura del giudizio del padre e le aveva salvate grazie alla madre e agli amici cui le consegnava». «I tanti interventi, le correzioni, le diverse versioni mostrano che il giovane Alvaro non considerava irrilevanti tali pubblicazioni. Un materiale costituito da numerose copie sulle quali interviene a cassare, modificare, ritoccare». L’opera pubblicata da Donzelli raccoglie un corpo di scritti giovanili inediti, risalenti al periodo 1911-1916: cinquanta componimenti poetici (composti tra il 1912 e il 1915), cinque racconti brevi (datati, verosimilmente, tra il 1912 e il 1914: Giovedì di passione a San Luca, Raggio di sole, Matrimonio in quattro, Verbo di modo finito e Chi non sa vivere), il dramma Odio per amore (scritto tra il 1911 e il 1912), e un racconto lungo - che dà il nome alla pubblicazione - intitolato Un paese. Uno dei temi portanti della poetica di Alvaro è l’amore viscerale per il suo paese, che racconta in pagine stupende. «Odio e amore, lontananza e distanza, comprensione e fuga. Luogo della memoria e dell’impossibile ritorno, della nostalgia che consuma e logora e che, qualche volta, acquieta. Come l’acqua che è elemento puro di distruzione. Non è concessa una doppia appartenenza, una doppia identità, ma una personalità lacerata, frantumata, come tante schegge, che deve trovare un senso del vivere e dell’abitare in un mondo anche ospitale che comunque ci sembrerà sempre ostile, e che impedisce ogni reale ritorno, una volta che lo si è abbandonato, nel paese dei padri, che è diventato lontano ed estraneo già al momento della partenza. Quel mondo perduto, per sempre, dove non potrà tornare, perché ogni ritorno è impossibile, sarà narrato da Alvaro con pietas e grande rispetto, come un mondo dell’innocenza e dell’infanzia, dove tutto è accaduto, ma anche segnalandone le asprezze e le angustie. Alvaro ritorna e riprende motivi, immagini, figure del mondo di origine, del paesaggio infantile e della giovinezza. In fondo egli sembra scrivere, da postazioni diverse, la sua “biografia”, quanto è accaduto, per sempre, nell’infanzia e questo lo vediamo soprattutto nel rapporto con il padre e con il paese. Metafore e simboli della cultura di origine ritornano nelle sue opere, anche in quelle più lontane, apparentemente, dal suo universo di appartenenza. Mi sono soffermato altrove sul motivo dell’acqua (come elemento di distruzione e di salvezza, di purificazione e di comunione), del cibo, dei pellegrini come figure erranti. É come se Alvaro osservasse il mondo in cui è caduto con i sensi, la percezioni, le immagini del mondo di origine». tratto da calabriaonweb.it (intervista a Vito Teti di Luigi Pandolfi)


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il tour di “in Aspromonte”

Carmine Verduci, Patrizia Romeo, Mimmo Catanzariti

Domenico Stranieri, Domenico Talia Gianni Favasuli e Lucia Catanzariti

Pino Macrì, Francesca Neri, Salvino Nucera

E. Cataldo, M. Catanzariti, G. Marino, A. Italiano

Gli amici di Ghorìo di Roghùdi e di Roccaforte del Greco comn Francesca Prestia

Cosimo Sframeli

Grazie a Salvino Nucera, a Domenico Talia, a Mimmo Romeo per le loro preziose opere


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