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inAspromonte
Agosto 2014 numero 012
LA MONTAGNA NON VUOLE
GUARDARE pag. 2 - 3 - 23
«Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi» (Matteo 7,6)
Nella foto il Cristo Redentore di Montalto. Si precisa che la benda è stata rimossa subito dopo lo scatto e che nessun danno è stato arrecato alla statua (come testimonia la sequenza fotografica in nostro possesso). Si precisa, inoltre, che il Cristo è stato scelto solo perché simbolo della nostra montagna. La copertina non contiene, dunque, alcun fine religioso.
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Copertina
inAspromonte Agosto 2014
ABBIAMO SVENDUTO
Saline, ex Liquichimica
Bronzi, gli scatti di G. Bruneau
Disoccupazione, le proteste
LA MONTAGNA NON V
«La Calabria è una terra vicina alla piena disoccupazione giovanile, con un patrimonio ambientale in svendita tra centrali a carbone, impianti di rigassificazione, mega discariche, pale eoliche e trivellazioni petrolifere. Con un Aspromonte ferito dalla diga sul Menta e la Sila data in pasto alle centrali a biomasse» di GIOACCHINO CRIACO
facile per « Énoipiùteorizzare il complotto, intravedere un nemico La Calabria è « quello che l’Italia sarà domani, e alla vista lo spettacolo fa male
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iete mai stati in un luna park? Andateci all’alba, quando si chiudono gli stand e i tendoni colorati spariscono, le luci si spengono e la carovana leva le ancore per andare in un altro posto. Resta la pena. Succede sempre quando le cose belle svaniscono, come i sogni che si disperdono all’alba. Rimane un luogo desolato da cui distogliamo lo sguardo. Chiudiamo gli occhi, ma è inutile; si riapriranno sul vuoto. É quell’aria che si respira alla fine delle vacanze; la sensazione che succede al termine di un amore. La retorica della speranza vi dirà che tornerà un altro circo, rinascerà l’amore e alla prossima estate si andrà nuovamente in ferie. Ma quando è un mondo che sparisce nemmeno il più irriducibile degli ottimisti troverà una soluzione facile. E PER VEDERE un futuro alla Calabria serve molto più dell’ottimismo. Quella che, tenendo gli occhi aperti, si ha davanti è una terra vicina alla piena disoccupazione giovanile, con un patrimonio ambientale in svendita tra centrali a carbone, impianti di rigassificazione, mega discariche, pale eoliche e trivellazioni petrolifere. Con un tesoro archeologico in balia del mare a Kaulon e in preda al fango a Sibari. Con un Aspromonte ferito dalla diga sul Menta e la Sila data in pasto alle centrali a biomasse e le Serre immerse nelle acque marce dell’Alaco. Una politica che instancabile succede a se stessa, e ai padri subentrano i figli che ogni due parole ci infilano dentro
la parola legalità senza legarla a un’idea. Un dibattito culturale affidato alle procure della repubblica. Una Calabria che pure a questa estate attenderà milioni di turisti che anche volendo non potrebbero venire perché non ci sarebbe un apparato di ricezione in grado di alloggiarli e non c’è un sistema viario terrestre, marittimo o aereo idoneo a convogliare i vacanzieri da noi. Si, è dura tenere gli occhi spalancati e vedere lo scempio. É più facile teorizzare il complotto, intravedere un nemico; attribuire ad altri colpe che giustificazioni o meno ricadranno sempre sulle nostre spalle. GUAI A TOCCARLA la nostra terra che a tweet, post e chiacchiere faremo una guerra e saremo spietati e invincibili finché si resterà su un campo di battaglia virtuale. Diserteremo il conflitto, come mille volte abbiamo già fatto quando si è trattato e si tratterà di difendere la Calabria con una presenza reale. Non ci siamo stati e non ci saremo in strada nelle lotte ambientali, in quelle per il lavoro, per la sanità, per la giustizia e l’equità sociale. E alle urne continueremo a incensare gli stessi, una volta di qua e una di là. E tutte le volte che la Calabria sarà o si riterrà sotto attacco mediatico s’invocheranno gli intellettuali, esortandoli alla difesa. Ci lamenteremo della loro poca incisività, se non addirittura pochezza. Perché certo sarebbe bello avere degli Erri De Luca che difendano il territorio a sprezzo della galera; degli Sciascia, in grado di sfidare l’infor-
mazione nella sua totalità; dei Pasolini, contro il potere fino a morirne. Vero è che uomini di una tale stazza non nascono tutti i giorni. Ma vero è anche che è il popolo che aumenta la levatura dei propri intellettuali, facendoli crescere, sostenendoli e coccolandoli per avere in cambio idee, opere, e difese nel momento del bisogno. IN CALABRIA non si comprano libri, non si vedono film, non si acquistano quadri o dischi, e dall’edicola si passa solo se sui giornali ci sono morti e manette. Si le risorse sono scarse, ma è che i soldi pochi quasi mai vanno in cultura. E la cultura da noi finisce per aver bisogno dei soldi pubblici, e quelli in Calabria escono da borse i cui lacci spesso sono tenuti in mano da chi una terra affossata fa comodo. Ed ecco che gli intellettuali diventano quelli di regime, parola grossa vista la misura dei nostri potentucoli: regimetto, così va meglio. E quando, in pochi casi, è il privato a sostenere l’intelletto, in genere lo si mette fra le briglie. Alla fine, invece di intellettuali veri, sul palcoscenico ci arrivano gli artisti da salotto, gente che il pane non se lo guadagna ma a cui si da la biada che in qualunque momento può essere tolta. E altro che difesa del territorio, chi tiene famiglia sceglie quasi sempre e solo di difendere quella con buona pace dei vilipendi collettivi veri o presunti. Si finisce al detto, vecchio e abusato, di chi è autore del suo male altro non può fare che piangere se stesso. Se si
sostenessero per tempo le voci, le penne, i pennelli buoni; al momento giusto la gente comune ne avrebbe un vantaggio. QUESTA ESTATE è iniziata con polemiche, vere e presunte, a cui non abbiamo voci da opporre. É iniziata e proseguirà con la gente comune che affollerà le platee per spellarsi, dal basso, le mani all’indirizzo di mummie giovani e vecchie che dai palchi rifileranno discorsi triti e ritriti sulla speranza che quest’anno è all’apice e darà copiosi frutti. I calabresi continueranno a comprarsi i giornali che gli daranno, e solo se, i morti; ad ascoltare gli scrittori che non vendono un libro; a ballare con i musicisti che non vendono un disco; e osannare i giudici che dicono che i cattivi sono gli altri. Questi quando ci sarà bisogno non ci saranno, impegnati su un palco da qualche altra parte. Perché se è vero che gli intellettuali tengono famiglia; è soprattutto vero che i calabresi hanno famiglie a cui tengono troppo. Si, è difficile andare di giorno a Montalto e tenere gli occhi aperti contro un sole implacabile che illumina ogni angolo del nostro paradiso e svela la durezza della realtà. Da noi l’estate è sempiterna mentre al nord, quest’anno, è inverno anche ad agosto. E quando la Calabria è davvero sotto attacco, non lo è sempre perché gli altri sono cattivi; semplicemente, in tanti, fuori, iniziano a capire che la Calabria è oggi quello che l’Italia sarà domani, e alla vista lo spettacolo fa male.
Copertina
inAspromonte Agosto 2014
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O LA NOSTRA TERRA
Trivellazioni, lo Jonio ferito
Statale 106, l’incompiuta
Sanità, gli appelli dei Sindaci
VUOLE PIÚ GUARDARE
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A Montalto abbiamo bendato il Cristo Redentore, simbolo dell’Aspromonte, per risparmiare a Lui, e alla montagna, l’ennesima offesa. Mi auguro che questa provocazione sia da stimolo al popolo calabrese. Perché difendere ciò che ha di prezioso è un suo ineluttabile dovere di ANTONELLA ITALIANO
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ai duemila metri (circa) di Montalto ho guardato la mia terra. Con una sola occhiata ho abbracciato i suoi innumerevoli paesi, le città, i monti, i due mari, lo Stretto, la piana di Gioia Tauro, le fiumare. La Calabria da lassù fa tenerezza. Ci dovrebbero salire ogni tanto i calabresi, dovrebbero inginocchiarsi dinnanzi al Cristo della montagna, guardare quel volto perfetto, dolcissimo, toccarne la solitudine, restare in silenzio ad ascoltare. Dovrebbero fermarsi stupiti dinnanzi all’immagine della loro terra, così esile da dare l’impressione di non reggere la prepotenza del contorno. Di annegare, all’improvviso, in quell’azzurro insidioso. Il mio popolo si ridimensionerebbe.
Capirebbe che la lotta tra Caino e Abele, in cui si vessa da secoli, non fa altro che renderlo eternamente conquistabile, sottomettibile. Per questo è stato sempre conquistato. Per questo è stato sempre sottomesso. Il campanilismo della ruga, che lo divide e lo impegna con costanza, non è in alcun modo assimilabile alla presa di coscienza dalla propria identità. Sono cose diverse il sentirsi calabresi (coscienza della propria identità) e il sentirsi, ognuno nel suo piccolo borgo, gli unici calabresi possibili (campanilismo di ruga). Se anche noi, come montanari, abbiamo commesso qualche volta questo errore - più per provocazione che per convinzione - oggi è importante definirci innanzitutto calabresi, poi tutto il resto. Lassù, a Montalto, ho cercato di misurare con le mani la distanza tra la costa jonica e la tirrenica: troppo poca per giustificarne le ostilità. Lo stesso ho fatto con Vibo e Reggio, con l’Aspromonte e il Pollino. L’orizzonte del nord lascia intuire un’Italia compatta, e l’orizzonte del sud una Sicilia perfettamente cosciente delle sue potenzialità. Noi restiamo schiacciati, stretti tra l’una e l’altra realtà. Incapaci di contrastarle, incapaci di affrontarle, incapaci di metterci in gioco, di mostrarci, incapaci di difenderci. Frustrati, dunque, ci scanniamo tra fratelli. Per sentirci meno inutili, forse, e meno impotenti. Ma se i calabresi salissero a Montalto, possibilmente dalla tanto discussa San Luca, dove si percorre una strada incorniciata da Pietra Lunga, Pietra Cappa, Pietra Castello, e da stupende armacere
(data per scontata l’ormai conosciuta bellezza di Gambarie) capirebbero quale paradiso posseggono. Darebbero sfogo alla genialità e alla laboriosità così apprezzate altrove, pretenderebbero di avere dei rappresentati in seno a Regione e Provincia degni delle loro aspettative e della loro storia. Non si venderebbero più per un tozzo di pane e, soprattutto, non svenderebbero questa nostra terra, e l’utopia di cambiarla non la darebbero via gratis. Ma i calabresi, a Montalto, ci dovrebbero salire liberi dal grande complesso di inferiorità che i dominatori gli hanno inculcato, e liberi dai cattivi pensieri. Il giornalista Stella disse una grande verità, anticipata da più di cinquant’anni da Saverio Strati ne La teda: non sono le persone a esserlo, è l’ambiente a renderle brutte. E noi, anche in questo caso, piuttosto che riflettere su Saline, Gioia Tauro, Allaro, discariche e rifiuti tossici, e le grandi incompiute di ferro e cemento sparse un po’ ovunque, abbiamo sprecato energie per offenderci, difenderci, smentirci: l’ondata urlatissima dei «No no», seguita (come da copione) dal «Forse» pacato del bastiancontrario di turno, e poi l’ondata dei «Si si», meno infervorata, meno accesa della prima. Per non perdere completamente la faccia. Mi ricorda una cosa, per dirla in termini di montagna, in rispetto della linea editoriale della testata: il gregge. Di pecore, naturalmente. Che si sceglie degni rappresentanti: quelli che non si dimettono dai posti pub-
blici perché temono di restare senza alternative, quelli che non denunciano i soprusi per non restare soli, quelli che non parlano mai per primi, casomai urlano quando il coro è già assordante, nascondendosi o dietro il tutto o dietro il nulla. Dunque (finalmente ci arrivo) il tanga dei Bronzi non mi offende, mi rattrista. Che il grande Bruneau l’abbia fatto per provocare i calabresi, per difendere i diritti degli omosessuali, per gioco, o solo semplicemente perché artista e, come tutti gli artisti, un po’ folle, non è importante. La cosa grave è che ci sia riuscito. Per me Bruneau resta un genio della pubblicità, perché con un boa, neanche firmato, e un discutibile tanga da bancarella, è stato in grado di concentrare su di sé l’attenzione del mondo: chissà quale ultramilionario annoiato pagherà salatissimi conti per farsi immortalare in posa dal “fotografo dei Bronzi”. La sua notorietà supera, oggi, quella delle statue stesse. Per me, ignorante in fatto d’arte e rudimentale al punto di non riuscire a cogliere gli arcani significati dei suoi scatti, Bruneau ha offeso i calabresi (mi auguro) e gli omosessuali di tutto il mondo; ha ridotto l’eccellenza della nostra arte a un suo personalissimo “gioco”, e i delicati problemi del mondo omosessuale a maschere carnevalesche. Per questo abbiamo simbolicamente bendato il Cristo di Montalto, emblema della nostra montagna. Per risparmiare almeno all’Aspromonte l’ennesima offesa. Gli sbagli di una costa che vive senza punti di riferimento, alimentando il caos con
lotte intestine. Se fossimo stati un giornale a tiratura regionale avremmo bendato l’emblema della Calabria. Se fossimo stati un giornale cosentino o reggino avremmo bendato il simbolo della città di Cosenza o di Reggio. O, in assenza di qualcosa da bendare, ci saremmo inventati dell’altro. Essendo noi un giornale aspromontano abbiamo scelto il simbolo dell’Aspromonte. Perché si è bisbigliata la nostra lesa dignità, quando invece era necessario urlarla. Preciso, per i cattolici, che sono lontane da noi le strumentalizzazioni religiose: la Cristianità non ha nulla a che fare con il nostro messaggio. Preciso, per gli aspromontani e per le istituzioni, che la statua è stata, subito dopo lo scatto, liberata dalla benda, simbolicamente ripulita, e per nulla danneggiata, come testimoniano le sequenze fotografiche in nostro possesso. E prima di scagliare la pietra, cari lettori, fatemi dare la mia ultima spiegazione: Montalto è il simbolo dell’Aspromonte, ma Montalto non è l’Aspromonte: la montagna è tutta attorno a noi, visibile da ogni punto che percorriamo; e la statua in bronzo posta in cima ad essa è il simbolo di Cristo, ma Cristo non è la statua di bronzo: Cristo è tutto attorno a noi, e ci parla in ogni attimo della nostra vita. La provocazione va intesa, dunque, in senso lato. Mi auguro, quindi, che essa sia da stimolo al popolo calabrese, perché difendere ciò che ha di prezioso, comprese la salute, la dignità e la fratellanza, è un suo ineluttabile dovere.
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Ombre e luci
inAspromonte Agosto 2014
L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri
DUISBURG: 15 AGOSTO 2
«La struttura della ‘ndrangheta non è sovrapponibile a quella della mafia siciliana e della non c’è un’organizzazione unitaria ma è articolata orizzontalmente in gruppi, detti “famig di COSIMO SFRAMELI
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L’Italia, l’Europa rimanevano di sasso di fronte a tanta ferocia. Fu una carneficina
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Cresciuta lentamente, ma inesorabilmente, la ‘ndrangheta fu sottovalutata da tutti
Nella foto in alto una delle auto che fu investita dalla scarica di proiettili, Duisburg (Germania). Nella foto sopra il ristorante Da Bruno
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na strage feroce, in Germania. Sei italiani vennero uccisi a colpi di fucile davanti a un ristorante, nei dintorni della stazione della città tedesca di Duisburg. Secondo la stampa internazionale, i sei giovani furono vittime della c.d. faida di San Luca. Avevano appena festeggiato il diciottesimo compleanno di uno di loro nel ristorante Da Bruno, proprietà della famiglia Strangio. Dieci giorni dopo avrebbe compiuto 18 anni un’altra delle vittime, un ragazzo della famiglia Giorgi. Gli altri uccisi avevano rispettivamente 20, 22, 25 e 39 anni.
UNA CARNEFICINA: avevano colpito fuori dai confini nazionali ed aveva sparato nel mucchio con il dichiarato intento di marchiare a sangue un giorno di festa davanti ad una platea internazionale. L’Italia, l’Europa rimanevano di sasso di fronte a tanta ferocia. La ‘ndrangheta, che già era uscita dai cunicoli sotterranei nei quali operava, si manifestava fenomeno internazionale da studiare, da capire, da contrastare. La Calabria, dal canto suo, non si meravigliava più di tanto, come se fosse nell’ordine naturale delle cose. C’era urgente bisogno di misure straordinarie, volte alla massima accelerazione per far funzionare in maniera regolare lo Stato perché, unicamente al ripristino della Giustizia, e non certo solo della Legalità, queste terre avrebbero potuto sperare in un futuro diverso. GLI INTERVENTI, ove effettivamente adottati, da soli, potrebbero non avere avuto la forza per invertire un trend negativo. Certo, l’attuazione di una strategia di contrasto e prevenzione restava il passaggio obbligato per avviare un processo reale volto a stravolgere la tendenza negativa attraverso il consenso tra la società e le istituzioni, quindi a sradicare le organizzazioni criminali e il malcostume che si alimentava nelle aree di collusione, di fiancheggiamento e di scarsa percezione del rischio criminalità. Di conseguenza,
fu necessario studiare e conoscere la ‘ndrangheta partendo dalle sue origini fino a comprendere le conseguenti evoluzioni.
IL TERMINE ‘ndrangheta (dal greco andragathía, “virilità“, “coraggio”) oltre ad indicare il fenomeno criminale della mafia calabrese, indica anche l’insieme dei gruppi (detti “cosche”) che la costituiscono. La struttura della ‘ndrangheta non è sovrapponibile a quella della mafia siciliana e della camorra campana: non c’è un’organizzazione unitaria ma è articolata orizzontalmente in gruppi - detti anche “fami-
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scarsezza di risorse e nella cultura contadina, individualistica e familistica.
35 anni, cioè dal 1980 ad oggi, ha causato, nella sola Calabria, oltre 3000 vittime.
DOPO L’UNITÁ D’ITALIA, la Prima Guerra Mondiale e la Seconda, in continua evoluzione, la ‘ndrangheta assunse una nuova e più moderna configurazione, ancora attuale: quella di un’organizzazione criminale che da una parte si scontra con lo Stato e dall’altra se ne avvale. Infatti, in quegli anni l’organizzazione mafiosa calabrese iniziò a sfruttare la collusione tra funzionari statali e fattori (coloro cioè che amministravano le proprietà agricole
NONOSTANTE questi numeri, la ‘ndrangheta non suscitò grande interesse tra gli studiosi e gli addetti ai lavori. Ancora oggi, salvo eccezioni, c’è un’incomprensibile resistenza a rileggere i fatti di ‘ndrangheta con approcci e canoni moderni. Impera la visione agro-pastorale, nonostante i traffici miliardari dall’Australia al Canada, dalla Colombia al Brasile, dall’Europa all’Asia. Per rimanere in Italia, si stenta a credere che tra le criminalità operanti in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Valle d’Aosta, nel Lazio, in Emilia-Romagna, la ‘ndrangheta sia l’organizzazione prevalente e dominante; o che sia riuscita a soppiantare la mafia siciliana nei traffici di droga, già negli anni Ottanta; o che le maggiori città dell’Europa siano in mano ad organizzazioni aventi radici in Calabria. Si aggiunga la capacità di adattamento ai rigori della Legge e il forte radicamento territoriale che fa apparire la ‘ndrangheta un’organizzazione granitica ed invincibile e la “sua” Calabria come il territorio sottratto al controllo dello Stato.
Avevano appena festeggiato il diciottesimo compleanno di uno di loro nel ristorante Da Bruno, proprietà della famiglia Strangio. Dieci giorni dopo li avrebbe compiuti un’altra delle vittime. Gli altri uccisi avevano 20, 22, 25 e 39 anni glie” o “‘ndrine”, prevalentemente organizzate su base familistica. Per lo storico Lucio Villari essa nacque come organizzazione contro lo Stato e la Legge, per politicizzarsi in un secondo tempo e usare lo Stato e la Legge ai propri fini. Il compianto Gaetano Cingari, storico calabrese di grande spessore che ha studiato a fondo il fenomeno, affermava che prima dell’Unità d’Italia la ‘ndrangheta non si contrappose direttamente allo Stato borbonico, ma si fondò piuttosto sul banditismo e fu garante della giustizia popolare nelle zone rurali. Secondo Eric Hobsbawm, invece, la ‘ndrangheta nacque come associazione populista di ribelli e venne alimentata dall’intreccio tra la parte dei movimenti massonici e carbonari di epoca risorgimentale e il banditismo locale, che ebbero modo di incontrarsi e allearsi nelle carceri borboniche. Per l’antropologo Luigi Lombardi Satriani, infine, il fenomeno mafioso affonda le sue radici in un’economia caratterizzata dalla
per conto dei nobili latifondisti) nelle procedure di assegnazione dei primi piccoli appalti per la costruzione di opere pubbliche sovvenzionate dal Governo centrale. Cresciuta lentamente, ma inesorabilmente, la ‘ndrangheta fu sottovalutata da tutti e se all’origine fu un fenomeno prevalentemente rurale e i reati commessi furono di tipo tradizionale (furti, estorsioni, abigeato, sequestri di persona), a partire dagli anni Settanta ebbe un forte sviluppo e, diffondendosi nel Nord dell’Italia e in altri paesi europei, passò alla gestione di attività criminali complesse come il controllo del traffico internazionale di armi e stupefacenti, il racket della prostituzione e quello delle scommesse, nell’attività dell’economica pubblica attraverso la gestione degli appalti, nell’attività finanziaria e di riciclaggio, nella stessa vita politica e amministrativa, nonché, più recentemente, nel business dell’immigrazione clandestina. Lo scontro tra cosche rivali per il controllo del territorio, negli ultimi
PER AMOR del vero, la Calabria è solo lo specchio - estremo e violento quanto si vuole, ma sempre un riflesso - di problemi nazionali antichi ed evidenti che si sono aggravati nel tempo. La perdita di competitività e la crisi di fiducia, che serpeggiano nel Paese, si sono trasformati, nella sua parte più debole, in tragedia. Nel quadro del disastro regionale ci sono pochi chiaroscuri. Nell’arco dell’anno 2014, oltre 30 mila giovani calabresi hanno abbandonato la loro terra. L’emigrazione è in netta ripresa per numero di persone che lasciano la Calabria. Il numero dei delitti sono da tre a cinque volte maggiori della percentuale nazionale dei suoi abitanti e superano, in proporzione, le altre due regioni disastrate del Paese: la Campania e la
Ombre e luci
LA CRONACA
inAspromonte Agosto 2014
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La storia di un sacerdote, finito suo malgrado in un piccolo paese aspromontano
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a strage di Ferragosto è avvenuta a Duisburg, in Germania, il 15 agosto 2007. Il fatto è avvenuto davanti a un ristorante italiano recante l’insegna Da Bruno, ed è stato messo in atto da esponenti della ‘ndrangheta. L’atto criminale sarebbe stato compiuto da affiliati alle ‘ndrine dei Nirta e degli Strangio, contro la ‘ndrina dei Pelle-Vottari, quale ultimo atto della faida di San Luca che imperversava tra i clan dal 1991. Cinque delle persone uccise erano originarie della provincia di Reggio Calabria. Uno di loro era originario di Corigliano. Secondo le analisi degli investigatori il crimine doveva essersi consumato intorno alle 2:24 di notte, una stima basata su quanto riferito da un testimone oculare che aveva visto due persone allontanarsi dal luogo del delitto.Nel locale si stava cenando e festeggiando il diciottesimo compleanno di una delle vittime, Tommaso Venturi. Usciti dal ristorante, i sei erano saliti su un’auto, quando i killer sono entrati in azione. Sono stati esplosi almeno 70 colpi e, al termine della sparatoria, i killer hanno sparato un colpo in testa a ciascuna vittima, per assicurarsi della loro morte.
Don Teodoro e il vulgus
«Dopo avere solcato per lunghi anni i fulgidi cieli della spiritualità, sono venuto a cadere in questo paese, in questa specie di terrestre purgatorio dove il buon Dio, anzitempo, mi fa espiare le colpe»
2007 «
camorra campana: glie” o “‘ndrine”»
Sicilia. Ma la violenza del “sistema mafioso” è l’aspetto più clamoroso di una catastrofe più ampia. In quasi ogni settore, la Calabria occupa l’ultimo posto tra le regioni. Il reddito pro capite e l’indigenza sono giunti a voragini inedite. La popolazione calabrese vive al di sotto della soglia di povertà e gli occupati regolari sono solo un terzo dei cittadini in età attiva. La sanità è a pezzi, nonostante assorba una quota sproporzionata del bilancio regionale. Dal rimboschimento, alla raccolta dei rifiuti, dalla sicurezza personale, ai servizi delle amministrazioni pubbliche, il quadro è quello di un sistema che va in malora. In Calabria ci sono molti modi di uccidere.
LA VIOLENZA delle armi e della sottomissione alla società mafiosa penetra ovunque, ed è in grado di condizionarne il modo di vivere. I giovani calabresi hanno un destino segnato. Hanno tre possibilità: restare ed assoggettarsi, abituarsi all’impero della mafia con quella perenne ipoteca sul capo, magari mettendosi al servizio delle cosche; oppure fuggire, vivere altrove la propria esistenza liberata; infine, restare e ribellarsi, essere diversi, agire per tentare di aprire le coscienze, renderle consapevoli, usare tutte le energie per cambiare il costume, far sì che si possa vivere normalmente. Noi, madri e padri di famiglia, cosa possiamo fare per infondere speranza ai nostri figli, per restituire dignità all’Aspromonte e a questo comprensorio, considerato ultimo in Europa per lavoro e per sviluppo?
393/9045353 0964/992014
di GIANNI FAVASULI
Dopo centinaia di vibranti omelie, don Teodoro gettò la spugna. Dovette arrendersi
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La sua auto, una Ford Anglia con il lunotto posteriore inclinato, era la gioia dei chierichetti
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Campeggiava, sul cruscotto, una foto del Lanerossi Vicenza, di cui era tifoso
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on Teodoro Thiene era un calepino, un erudito sacerdote con una vasta cultura. Era uno che la sapeva lunga sulle cose della vita. Ironicamente, si paragonava ad una meteora. «Con il mio ministero, nella capitale della cristianità, dopo avere solcato per lunghi anni i fulgidi, cristallini cieli della spiritualità, sono venuto a cadere in questo paese, in questa specie di terrestre purgatorio dove il buon Dio, anzitempo, mi fa espiare le colpe. Colpe che devono essere pur grandi visto il castigo cui sono sottoposto. Di peggio, cosa mi sarebbe potuto mai capitare?» ripeteva spesso. Con amarezza. Da diverso tempo, però, non si lamentava quasi più dell’ottusità della gente; dell’ignoranza e dei pregiudizi; del modo distratto, freddo e formale, con cui la stragrande maggioranza dei parrocchiani partecipava alla catechesi della famiglia e alle sacre funzioni. DOPO INFINITI TENTATIVI di educare i fedeli ad una vita cristiana più partecipativa e più impegnata; dopo centinaia e centinaia di vibranti, appassionate omelie fatte con magniloquenza, che non riuscirono, però, a fare breccia in quelle menti e in quei cuori obnubilati, don Teodoro gettò la spugna. Si arrese. Dovette arrendersi. D’altronde, ad impossibilia nemo tenetur! Persuaso d’avere sprecato oleum et operam, si mise l’animo in pace ed incominciò a svolgere il suo apostolato alla meno peggio. Senza infamia e senza lode. Univa all’intelligenza e alla dottrina, un’arguzia fuori del comune. Fosse rimasto sotto il Cupolone, ben altre sarebbero state le probabilità, le possibilità di fare valere i suoi talenti, le sue non comuni capacità umane e culturali. Gli rimase, alla fine, l’abitudine inveterata d’intercalare, nel bel mezzo di qualsiasi discorso, delle altisonanti frasi ad effetto. In latino. Pasquale Alessi, il sagrestano, era convintissimo che il soprannome Asellus loquens che don Teodoro gli aveva appioppato con una certa solennità vicino al fonte battesimale, doveva per forza significare qualcosa di molto importante. Il pover’uomo, infatti, durante la sua vita, aveva sempre dovuto sopportare gli epiteti irriguardosi di babbeo, di scimunito, di minchione. Adesso, invece, con quel maestoso Asellus loquens, con quella specie di sacra investitura, si sentiva gratificato, ripagato per tutti gli oltraggi che aveva dovuto subire. Don Teo-
doro, da parte sua, alla minima occasione, non glielo lesinava l’appellativo. Intra moenia et extra moenia. Dentro e fuori le mura della canonica.
D’ORIGINI VENETE, appartenente ad un’antichissima e blasonata famiglia, don Teodoro era uno dei pochi che possedevano una macchina. La sua, una fiammante Ford Anglia, con il lunotto posteriore inclinato, era la gioia dei chierichetti. Infatti, quando doveva recarsi a somministrare la comunione o l’estrema unzione ai vecchi e agli infermi che abitavano lontano, nelle campagne circostanti il paese, se li portava tutti appresso. A condizione che non toccassero nulla e che si pulissero, accuratamente, le scarpe. Campeggiava, sul cruscotto dell’Anglia, tra una filza d’immaginette sacre, una fotografia della squadra di calcio del Lanerossi Vicenza, di cui lui era un acceso, accanito tifoso. La vecchia Lucia Ricò, convinta che quei giovanottoni in braghe di tela altro non fossero che chissà quali misteriosi, miracolosi santi, ogni qual volta che montava in macchina, si faceva lestamente il segno della croce; poi, con le sue dita rattrappite, dava loro delle leggere carezze. Infine, con suppliche appena bisbigliate, implorava il loro celeste ausilio. DON TEODORO, da parte sua, con un bonario, indulgente sorriso, lasciava correre. Ammoniva, però, severamente, quei putei, che se non si fossero levati al più presto dalle basse posizioni che occupavano nella classifica, li avrebbe definitivamente smascherati. Una domenica di Pasqua capitò che Domenico Brando, ubriaco fradicio, entrò in chiesa mentre si celebrava la solenne messa cantata ed incominciò a rumoreggiare tra i banchi; poi, in precario equilibrio, salì in cantoria e diede delle pacche tremende al maestro Spina che, allibito, smise di suonare l’organo. Quando ridiscese, andò a franare, fragorosamente, sulla pila dell’acqua santa. Fu allora che don Teodoro, per la prima volta, uscì dai gangheri e perse il lumen rationis! Nel bel mezzo dell’Agnus Dei, parafrasando Cicerone, tuonò, infatti, con veemenza: «Quo usque tandem abutere, vulgus vinolentum, patientia mea?». E il vulgus vinolentum, avvinazzato, pensando che don Teodoro avesse inserito nel rituale liturgico una qualche variante attinente alla festività pasquale, come da prassi, meccanicamente, all’unisono, impetrò: «Miserere nobis!».
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Aspromonte orientale
inAspromonte Agosto 2014
Antichi mestieri. Gli aspromontani furono artigiani laboriosi e straordinari, quanto incompresi, artisti
CAMPANACCI IN CUNCERTU
«Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra calabrese sembra navigare sulle acque» Corrado Alvaro di MIMMO CATANZARITI
I pastori sono « ormai relegati in dimensioni favolose, che sconfinano nei miti arcaici Lo scampanìo « delle “murre” di animali al pascolo nasconde aspetti funzionali e musicali Nelle foto in alto un pastore aspromontano durante la lavorazione delle ricotte (Aspromonte orientale). Nelle foto in basso alcuni attrezzi tipici dei pastori. Tutte le foto sono di Francesco Depretis
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riti, le cerimonie, le norme e i valori, le credenze e i comportamenti sono le principali manifestazioni, attraverso le quali abbiamo chiara la visione della cultura di un popolo, nella fattispecie quello calabrese. L’osservazione di queste caratteristiche, nei contesti naturali e antropici, ci permette di conoscere un paesaggio culturalmente complesso, in cui le connotazioni popolari sono comunque vive, veicolate ancora in modo tradizionale. Molte di queste caratteristiche appartengono alla cultura dei pastori calabresi, relegati ormai in una dimensione favolosa che sconfina nei miti arcaici. Miti che si conservano non nel senso archeologico del termine, ma, al contrario, con una visione “antropologica”, volta a una loro individuazione, in quanto parte di un sistema di tradizioni e valori condivisi e appartenenti a una cultura ancora viva e ricca di espressioni. Una di queste manifestazioni, e tra le più interessanti, è l’uso dei campanacci per l’allevamento del bestiame. I campanacci sono costruiti ormai da pochi artigiani
foto di FRANCESCO DEPRETIS
PASTORI IN ASPROMONTE
I campanacci
specializzati, i soli in grado di forgiare il metallo per farlo suonare. Dietro l’immagine un po’ rustica dello scampanìo delle “murre” degli animali al pascolo, si nasconde una varietà di aspetti tecnici, funzionali e musicali. I pastori accordano i campanacci
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Si accordano con una attenta e complicata martellatura, effettuata nei vari punti degli strumenti
con una complicata e attenta martellatura, effettuata nei vari punti degli strumenti. Una volta messi al collo degli animali, i campanacci devono suonare accordati gli uni con gli altri. Di solito vengono acquistati a coppia, selezionandone uno maschio e uno femmina in base al suono, ma alcuni pastori scelgono le campane
Le calandrelle
a gruppi di tre alla volta, distinguendoli a “cuncertu” o a “musica”. La scelta dei campanacci e la successiva accordatura si basano su criteri di carattere musicale differenti da zona a zona, ma sempre indirizzati a ottenere un preciso risultato sonoro. Tramite i campanacci i pastori riescono a tenere sotto controllo il gregge anche a distanza operando la sorveglianza mediante ascolto, riuscendo persino a capire se gli animali stanno pascolando, correndo o ruminando. Anche di notte lo scampanìo improvviso li avverte della presenza di eventuali pericoli quali i lupi o i ladri. In base al tipo di animale, si usano campanacci di differenti misure. Per le capre, ad esempio, sono impiegate fino a sette differenti misure e, a seconda della tonalità che si vuole dare al singolo oggetto, si allarga o si restringe la bocca del campanaccio. Si parte dalla “campana grande”, poi a scendere di dimensione con il “menzetto”, fino al “sottile”, che sono per dimensione e tonalità le campane di riferimento per l’ac-
cordatura della “scala”, come viene chiamata dai pastori. Tra la campana grande e il sottile, si posizionano le altre campane, accordate in modo che si abbia effettivamente una vera e propria scala musicale, nella quale i campanacci formano
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Una vera e propria scala musicale, in cui i campani formano un’orchestra armoniosa che suona all’unisono quasi un’orchestra, che suona all’unisono in modo armonioso. La cosa strana è che i pastori, di notazione musicale, non hanno cognizione alcuna, però riescono ad orecchio ad accordare in modo preciso ogni singolo campanaccio e, questa particolarità, si tramanda tra di loro fin da quando si ha memoria.
Le fuscelle
Aspromonte orientale
inAspromonte Agosto 2014
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Tra il La Verde e Stoli. L’antico linguaggio dei pastori raccontato da Francesco Maesano
IL GERGO SEGRETO DELLA
FIUMARA
«Ti seviseyu sedosamaseni a semisezza semisenosetti nto semisevosescu di Sestoseli»
Il letto della fiumara La Verde. Foto di Domenico Stranieri
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roviamo a leggere questa frase ad alta voce: «Ti seviseyu sedosamaseni a semisezza semisenosetti nto semisevosescu di Sestoseli». Si tratta di un modo d’esprimersi volutamente contorto. Tradurremo più avanti il suo significato nascosto poiché, innanzitutto, bisogna capire dove nasce un lessico e perché. Ho scoperto durante un viaggio in Australia, grazie a Francesco Maesano, emigrato a Melbourne nel 1950, questo gergo calabrese che si parlava in una contrada denominata “Màglia” (che oggi si estende fino al centro abitato di Africo Nuovo), tra la foce della fiumara La Verde e la campagna di Stoli. É CURIOSO rintracciare in un altro continente elementi del nostro passato di cui non abbiamo memoria ma che gli italiani, partiti più di mezzo secolo fa, non smettono di tramandare ai propri figli. Ovviamente, in Aspromonte quando narriamo di cose segrete, bande leggendarie, tesori invisibili, si pensa subito ai briganti. Se non altro perché, come diceva Walter Benjanim, restano pur sempre i più nobili tra i delinquenti, gli unici a possedere una storia. Benjamin si riferiva principalmente ai banditi dell’antica Germania, ed è singolare che anch’essi utilizzassero un loro linguaggio specifico: il Rotwelsch. Ma Francesco Maesano non ha per nulla l’aspetto del malavitoso, anzi ha gli occhi limpidi e affabili delle persone buone. Non è più tornato in Calabria (ed è sicuro che morirà senza rivedere la sua terra) ma rammenta perfettamente che da bambino con parenti e amici comunicava in uno strano modo, volutamente “contaminato”. «Mio padre mi insegnò questo linguaggio perché non venissimo capiti
dagli altri», mi spiega. Anche lui, poi, ha trasmesso alla figlia Franka l’antico gergo, quasi con naturalezza, come un segno distintivo, un codice da lasciare in eredità. DIFFICILE, comunque, individuare in quale fase storica si ravvisò la necessità di non farsi comprendere. In una terra come la nostra, fuori mano e crocevia di tanti popoli, sicuramente non bastava avere capacità di sopportazione ed una buona dose di fortuna. Occorrevano anche furbizia e destrezza e, probabilmente, qualche volta, per sopravvivere e sfuggire alle persecuzioni delle autorità del tempo, era importante “non farsi capire”. Forse anche per questo, nell’indole dei calabresi, permane un ancestrale senso del sospetto, la paura di essere raggirati e una pari destrezza ad ingannare. Certo, la globalizzazione sta modificando pure l’arcano impulso che avevamo di proteggere sentimenti e cose. Tanto che, ad esempio, su Facebook non vi è molta differenza tra il modo di esprimersi di un lombardo o quello di un calabrese. PARAFRASANDO Alvaro potremmo dire che entrambi sono impegnati a costruire un piccolo monumentino a se stessi («oggi ho mangiato questo… ecco un selfie... »). Conosceremo tra qualche anno quale posto avremo nel “paradiso della tecnica”. Intanto, poiché lo avevo promesso, vi devo la traduzione dell’espressione iniziale. E cioè quella frase che un tempo, quando Francesco Maesano era bambino, fissava segretamente qualcosa: “Ci vediamo domani, a mezzanotte, nel bosco di Stoli”.
D. Stranieri con F. Maesano e la moglie Caterina a Melbourne
IL RITRATTO
CARAFFA DEL BIANCO
L’umanità di Rocco
Zappia «Prende l’olio, che usa come balsamo naturale, e con movimenti precisi e sapienti, rimette a posto le slogature»
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ra le tante esperienze che si ereditano dai genitori ve ne sono alcune che sono delle vere e proprie forme d’arte, poiché non comportano nessun profitto ed impegnano un uomo per tutta la vita. É il caso di Rocco Zappia, di Caraffa del Bianco, che continua l’opera del padre, ovvero quella volontà disinteressata di fare del bene, di essere al servizio della comunità.
Mastro Rocco Zappia. Foto di Domenico Stranieri
di DOMENICO STRANIERI
RICORDO CHE DA BAMBINO, quando mi trovavo dai miei nonni, proprio a Caraffa, spuntava sempre qualcuno, arrivato da chissà dove, che chiedeva: «Sapete dove abita mastro Rocco?». Noi accompagnavamo tutti dal nostro speciale vicino, se non altro perché, in lui, non abbiamo mai avvertito un minimo segnale di fastidio. Eppure ne avrebbe avuto motivo, qualche volta. Immaginiamoci una persona che accoglie chiunque nella propria casa, senza preavviso. Gente spesso sconosciuta che, quotidianamente, gli domanda di sbloccargli una spalla o di porre rimedio a una caviglia malconcia. Mastro Rocco, quasi seguendo un rito, prende l’olio, che usa come balsamo naturale, e con movimenti precisi e sapienti, gli stessi che eseguiva suo padre, rimette a posto slogature, distorsioni o lussazioni. Dopodiché offre a tutti un bicchiere di vino, da lui stesso prodotto. Non si è mai pagato nell’esercizio di questa sua predisposizione naturale a curare gli altri. E gli va bene così. UNA BELLA LEZIONE LAICA di altruismo, la sua, che fa parte dei meccanismi interiori della civiltà contadina. Difatti, in un certo senso, quest’uomo rappresenta il punto di collegamento tra la vocazione/missione di un’antica cultura ed il futuro. Oggi mastro Rocco ha tre figli laureati che, per motivi di lavoro, risiedono in altre regioni. Il figlio che porta il nome di suo padre, Giuseppe, è medico. Per questo mi piace pensare ad un sottile filo conduttore, ad una continuità della natura umana, che parte dal primo Giuseppe Zappia (1880-1973), che imparò dall’anziano Pietro Pizzi di Contrada Crocefisso la tecnica di guarire la gente, ed arriva fino alle nuove generazioni. Un’apertura verso “l’altro” che ha origine in Aspromonte e si allarga verso mondi diversi. Anche perché, da sempre, trasmettere un’arte o un mestiere ad un figlio equivale, più o meno, a darsi il cambio, ad essere degnamente rimpiazzati, nella corsa senza fine della vita. D. S.
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Aspromonte greco
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Catu Chorìu
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QUARTA PARTE
di Salvino Nucera
Non riuscì mai a dormire come natura comanda. Il suo cervello era sempre in fiamme come l’inseparabile pipa che affumicava i suoi folti baffi neri. Comprese che la battaglia della sua vita la stava ormai perdendo
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ncor prima che potesse dare risposta, quelli della Mano Nera proposero a Sarvu di entrare nella loro organizzazione; ne sarebbero stati lieti e onorati. Non avrebbe avuto necessità di svolgere alcuna attività lavorativa. Alla prima offerta nonno Scialàta rispose che avrebbe accettato volentieri, che si riteneva fortunato, alla seconda dichiarò che avrebbe avuto bisogno di tempo prima di poter prendere una decisione in proposito. Gli emissari lo informarono che poteva iniziare il suo lavoro quella notte stessa. Condivisero la prima decisione. Prima di andarsene gli chiesero se sapesse sparare con la pistola. Gli rispose che era un appassionato cacciatore ed un tiratore scelto. Non sarebbe stato difficile sparare, qualora ce ne fosse stato bisogno, anche con la pistola. Si salutarono cordialmente con il proposito di rivedersi al più presto.
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urante la giornata un uomo della Mano Nera gli recapitò una piccola Colt, una calibro 38 con relative munizioni. Sarvu si preoccupò di dare un piccolo contributo in danaro a chi lo stava ospitando; non quanto avrebbe voluto perché già stava pensando ad un repentino ed impensabile rimpatrio. Coi soldi donati i suoi padroni di casa comperarono delle derrate decenti, non consuete alla loro alimentazione quotidiana, avendo intuito dall’interessamento di tutti quei rappresentanti della Mano Nera (lui ne faceva parte quasi sicuramente) che si trattava di persona degna di riguardo. Don Sarvo apprezzò le pietanze preparategli, ma non avevano nulla a che fare con le prelibatezze a cui lui era abituato. Ed il vino? Quanto ce n’era nella cantina di casa! E di che qualità! La sera iniziò il primo lavoro della sua vita. Vero, retribuito.
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li assegnarono, tra l’infinita serie di capannoni, una stanza ampia con mobili moderni ed un bel lettuccio per sdraiarsi nei momenti di maggiore spossatezza. Non riuscì mai a dormire come natura comanda. Il suo cervello era sempre in fiamme come l’inseparabile pipa che affumicava sistematicamente i suoi folti baffi neri. Si era ormai reso conto che la battaglia della sua vita la stava ineluttabilmente perdendo. Senza rivincite. Con una amarezza inenarrabile dentro il petto. Impotenza bruciante. Di notte rimpiangeva le sue “scialate” nelle case private, nelle taverne (osterie) dei paesi di mezza Calabria, le sue avventure, amorose e non, le sue battute di caccia dai ricchi bottini, la reverenza che gli mostravano tutte le persone che lo conoscevano. L’unica ferita sanguinante, lancinante rimaneva l’inevi-
STORIE D’AMORE E DI MONTAGNA
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opo un pezzo ci coricammo sulle frasche, che erano a terra. Mio fratello non stette assai ad addormentarsi; io, invece, mi assopii dopo tanto, ma non dormii tranquillo. Ad una data ora della notte mi alzai; mossi i tizzoni, misi altra legna; ed aspettai che venisse il giorno. Ancora era molto presto: la stella polare era alta. Negli schienali delle montagne vicine vedevo qualche fuoco; conoscevo quei fuochi, come si conoscono le case del proprio paese. La notte era calma. I cani dormivano: solo di tanto in tanto veniva il suono di qualche campano di capra, ma subito tutto ricadeva nella pace più perfetta. Il giorno se ne venne senza fretta, e mi trovò che mungevo le capre. Poi feci il cacio e la ricotta. Riempii una gavetta di siero e la ricotta la misi da parte. «E questa gavetta?» mi chiese mio fratello. «A chi la porti?» «A qualcuno la porto» dissi. Sciacquai i secchi e le ciotole col siero che versai nel ceppo incavato, per farlo bere ai cani. Poi come il sole fu alto, menai le capre fuori. Mi seguiva il mio cane fedele e al braccio avevo la scure, e in mano la gavetta. Avevo il cuore aperto, quella mattina. Certo Teresina era nel bosco. Saverio Strati (La Marchesina)
Le caldaie del Draku e Ghorìo di Roghudi. Foto di Ostello di Ghorìo di Roghudi
La storia (a puntate) di Salvatore, un giovanotto ribelle
SARVU SCIALÁTA
e la Mano Nera
Il ritorno a Ghorio di Roghudi dopo l’avventura americana tabile matrimonio con la cugina donna Bettina. Era necessario trovare un rimedio, una terapia che alleviasse il dolore e rimarginasse la ferita. Questi erano i pensieri fissi che occupavano, quasi interamente le sue nottate e le sue giornate. Un’ossessione.
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li unici momenti nei quali licenziava l’ossessione erano rappresentati dagli incontri con gli emissari della Mano Nera i quali attendevano lo scioglimento della riserva per una sua eventuale affiliazione nell’organizzazione. Lui prendeva tempo. Attendeva soltanto di racimolare col suo lavoro una bella cifra per pagarsi il viaggio di ritorno e poter lasciare una sommetta decente ai suoi padroni di casa che non aveva voluto abbandonare per un’altra eventuale abitazione. Non aveva imparato che qualche parolina della nuova lingua, avrebbe voluto provare ad allacciare qualche rapporto di amicizia con qualche indigena di suo gradimento ma non fu possibile anche per l’idea pressante di un’imminente fuga. In quattro, cinque mesi di monotono lavoro notturno aveva guadagnato molto di più del necessario per l’acquisto del biglietto di ritorno col bastimento. Non ne fece parola con nessuno per evitare possibili eventuali interferenze da parte dei suoi “amici”. Dopo l’acquisto del biglietto si fermò ancora un altro mese per poter versare metà della paga ai suoi discreti e gentili padroni di casa. Quando seppe, dopo aver fatto ciò, la data della partenza di un piroscafo in partenza per la Sicilia, nel cuore della notte abbandonò il cantiere e, dopo aver preso da casa la sua roba, un indispensabile vettovagliamento per il viaggio, essersi assicurato il silenzio dei suoi padroni fino alla partenza del naviglio, si imbarcò. Il viaggio di
rientro fu più lungo e tormentato della partenza, causa le condizioni dell’oceano durante il periodo autunnale. Giunto a Messina, con un natante in affitto attraversò lo Stretto. A Reggio fu ospite del fratello Carmelo, da poco tempo laureato in farmacia e tirocinante in una farmacia della città. Il fratello lo trovò molto dimagrito, leggermente depresso, lui che era sempre pieno di vitalità, di allegria contagiosa. Non gli permise di partire subito per il paese, viste le sue condizioni psicofisiche. Gli fece recuperare per alcuni giorni un po’ di sonno e recuperare qualche grammo di peso. Non resistette molto.
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n bel mattino prese un treno fino a Condofuri. Da lì, da lontani parenti, si fece prestare una cavalcatura ed in poche ore, percorrendo la fiumara dell’Amendolea, giunse in un tardo pomeriggio grigio e ventoso a Ghorio di Roghudi. L’incredulità appariva dipinta sui volti di ogni persona che incontrava, incredulità e benevolenza. Incredulità e gioia indescrivibile sul volto e negli occhi della madre donna Angelina, incredulità e soddisfazione infinita nel volto di don Agostino che cominciava a gustarsi il piacere di una vittoria definitiva, incontrovertibile. Lo stato d’animo di Scialàta era ridotto in miliardi di frantumi, non sistemabili. Al contrario delle fiabe, che si concludono con la formula: “E vissero felici e contenti”, l’unione matrimoniale tra Donna Bettina e don Sarvo Scialata fu un disastro, poiché la formula familiare è agli antipodi. La felicità don Sarvo continuò ad averla in giro per i paesi, come prima del matrimonio da cui nacquero due figli: Angelina e Lorenzo, nome dato in onore dello zio-suocero morto prematuramente (continua).
Aspromonte greco
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DOPO IL RESTAURO
9 LA STORIA
FU UN MEDICO CRISTIANO
E
La statua
L’aureola
Il mantello
IL SANTO PANTELEEMON
Dopo tanti restauri sbagliati, finalmente questa statua riacquista l’antico splendore Servizio e foto
di PASQUALE FAENZA*
di « L’intervento restauro del
1980 è stato eseguito con poca attenzione
«
Danni di natura antropica si individuavano soprattutto nel piedistallo
«
Si riscontrano decorazioni arbitrarie, come nel caso del serpente che morde il bimbo
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Restauratore, storico dell’Arte
I
l gruppo scultoreo raffigurante San Pantaleone che guarisce un bambino morso da un serpente, conservato nella chiesa omonima di San Pantaleone, frazione di San Lorenzo (RC), poggia su una base quadrangolare, a sua volta fermata con quattro viti su una vara lignea policroma. La scultura è composta da diversi elementi lignei assemblati tra di loro ad incastri ed incollaggi, come è evidente nelle mani dove le dita sono collegate al polso grazie ad un sistema di incastro semplice. Gran parte degli elementi lignei costituenti il manufatto, specie quelli pertinenti il voluminoso manto del santo, sono ricoperti da incammottatura, successivamente stuccata con gesso e colla. La tela di incammottatura è stata individuata in diversi punti del mantello e all’attaccatura tra la scultura e il basamento. Questa tecnica dimostra la conoscenza, da parte dell’esecutore dell’opera, di metodologie tipiche della carpenteria artistica, confermando la provenienza da una bottega specializzata. L’ULTIMO intervento di “restauro”, documentato intorno al 1980 circa, è stato eseguito con poca attenzione e con una vistosa trascuratezza nell’uso dei materiali impiegati, riconoscibili in prodotti sintetici di natura industriale, come ad esempio smalti acrilici. La campagna di ridipintura della statua non ha interessato interamente il manufatto. Se in alcune zone sono stati lasciati a vista strati più antichi, come gli incarnati, in altri punti si riscontrano delle decorazioni arbitrarie, come nei casi del serpente che morde il bambino o dei motivi ornamentali delle vesti del santo, diverse nelle forme e nei colori ai disegni originali, visibili in corrispondenza di cadute di colore.
Il saggio di pulitura ha permesso quindi di accertare che l’opera ha subito almeno tre diverse campagne di restauro, una delle quali è rapportabile ad una iscrizione rinvenuta nel basamento, recante la data 21.7.1947. Difficile determinare il periodo di esecuzione dei primi due interventi di ripristino, probabilmente eseguiti nel corso del XIX secolo, dal momento che la scultura potrebbe datarsi entro i primi anni dell’Ottocento. COME É STATO ipotizzato, in un primo tempo, non è da escludere che l’opera fu eseguita al termine della ricostruzione dell’antica chiesa di San Pantaleone (distrutta durante il terremoto del 1789), per volere del vescovo di Bova, Giuseppe Martini (1792 - 1803). L’opera presentava diffusi sollevamenti di colore, fenomeno certo rapportabile non solo a fattori chimico-fisici ma anche ai rituali spostamenti del manufatto, conservato in una nicchia di ridotte dimensioni, che spesso ostacola la movimentazione dell’opera, a discapito di quest’ultima. Danni di natura antropica si individuavano soprattutto nel piedistallo, dove la presenza di portafiori e fiori ha provocato rigonfiamenti e lesioni che interessano sia gli strati preparatori che il supporto ligneo. ALLO STESSO fattore sono da imputare gli ammaccamenti della superficie pittorica e soprattutto il distacco di un dito, della palma e del collo del bambino, elementi che erano stati rincollati con inadeguati sistemi adesivi. Presenze di combustione erano diffuse nella vara, forse completamente
ripulita visto la scarsa entità di pigmento originale rinvenuto durante la fase di pulitura. Presenti erano poi i danni da insetti xilofagi, che nella zona inferiore della statua, ma anche altezza della vita, del braccio sinistro e nella piccola scultura del bambino hanno determinato dei vuoti alla struttura lignea interna. Del tutto ridipinta era anche la vara, opera di semplice carpenteria realizzata, come riporta una iscrizione a porporina, dai fratelli Curmaci nel 1908, su commissione del parroco Carmelo Catanoso.
ra figlio del pagano Eustorgio e di Eubula, che lo educò al cristianesimo: successivamente, si era allontanato dalla religione ed aveva studiato medicina, arrivando a diventare medico di Galerio. Ritornò al cristianesimo grazie al prete Ermolao e, alla morte di suo padre, entrò in possesso di una grande fortuna: spinti dall’invidia, alcuni colleghi lo denunciarono all’imperatore durante la persecuzione di Diocleziano. L’imperatore avrebbe voluto risparmiarlo e cercò di persuaderlo ad abiurare. Pantaleone, però, confessò apertamente la sua fede e, per mostrare di essere nel giusto, risanò un paralitico: ciò nonostante, egli fu dapprima condannato al rogo, ma le fiamme si spensero, poi ad essere immerso nel piombo fuso, ma il piombo si raffreddò miracolosamente; a questo punto Pantaleone fu gettato in mare con una pietra legata al collo, ma il masso prese a galleggiare; venne condannato ad feras, ma le belve che avrebbero dovuto sbranarlo si misero a fargli le feste; fu poi legato ad una ruota, ma le corde si spezzarono e la ruota andò in frantumi. Si tentò anche di decapitarlo, ma la spada si piegò e gli aguzzini si convertirono. Pantaleone pregò Dio di perdonarli, motivo per il quale egli ricevette pure il nome di Panteleemon (in lingua greca, colui che di tutti ha compassione). Infine, quando egli diede il suo consenso, gli fu tagliata la testa.
Pentedattilo. La strage degli Alberti
di Antonio Perri
Pentedattilo. Ruderi del castello degli Alberti
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ll’inizio dell’aprile 1686, la vita contadina del castello di Pentedattilo si svolgeva tranquilla. La località sopra Melito vedeva il dominio di Lorenzo degli Alberti, signore morigerato e giusto del castello che dominava il paese. I suoi sudditi lo ammiravano per il senso della giustizia, ma una serpe covava nel seno del feudo: il nobile Bernardino Abenavoli di Montebello, che abitava nel paese, era ossessionato dall’amore che provava per la sorella di Lorenzo, Antonietta Alberti. L’aveva vista qualche anno prima ad un ballo nel castello, da allora non pensava altro che a lei, in modo morboso. Un giorno si venne a sapere che la donna sarebbe andata in
sposa, quell’aprile del 1686, al viceré di Spagna. Quando lo seppe Bernardino impazzì di rabbia e si chiuse a gridare in casa. La truppa degli spagnoli che doveva prendere Antonietta era ad una notte di viaggio dal castello, ma la pasqua dell’aprile 1686 fu fatale agli Alberti. Aiutato dal consigliere Scrufari, Bernardino con un pugno di bravi penetrò nel castello, pugnalò Lorenzo senza pietà, ammazzò suo fratello di 9 anni sbattendolo sulla rupe e rapì Antonietta gridando: «Tu sei mia». Antonietta per paura della morte si fece rapire. Tuttavia lo sposo molesto dovette fuggire per salvarsi dagli spagnoli, che tagliarono ed esposero le teste dei masnadieri sulla cinta del castello.
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Aspromonte settentrionale
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Santa Cristina d’Aspromonte, la storia di padre Serafino ai tempi della dinastia Borbone (seconda parte)
Santa Cristina d’Aspromonte. Foto di calabriaonweb.it
UN’INUTILE MASCHERATA
Il protopapa Zerbi vive come una rogna la predica della domenica successiva: si deve celebrare la nomina a re di Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna. Affida così l’incarico a un prete riluttante di GIUSEPPE GANGEMI*
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Quella mattina del 3 luglio 1735, giorno della predica, Serafino si sveglia più sereno
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La chiesa è piena di uomini di don Scipione, Principe di Cariati e Conte di S. Cristina
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Università di Padova Docente di Scienza dell’Amministrazione E-mail
giuseppe.gangemi@unipd.it
Q
uella mattina del 3 luglio 1735, domenica e giorno della predica, padre Serafino si sveglia più sereno. Ha dormito bene. L’aria di mezza collina che ha respirato lo ha fatto dormire come un bambino. Prega, si lava, chiede la colazione e il Protopapa Zerbi lo tratta come un re. «Già! Il re». Subito si rabbuia, pensando al discorso da fare per osannare l’incoronazione del nuovo re. Di fare questa predica di osanna non gli va proprio giù. Il Protopapa lo rincuora, ma Padre Serafino non è tranquillo. Conosce i propri limiti: non è capace di suscitare entusiasmo quando parla. A meno che non parli con un altro dotto come lui (ce ne sono così pochi) con cui può infiorettare gli argomenti con citazioni dei classici latini o greci. Quella domenica, alla messa solenne, la chiesa di San Nicola di Bari è strapiena di fedeli. Padre Serafino sale lentamente la scala del pulpito e si affaccia a guardare i tanti presenti. Si fa subito silenzio. Comincia la predica, senza preamboli e senza fronzoli, andando direttamente al punto: «Abbiamo un Re! Re Carlo di Borbone, Re delle due Sicilie, Re per grazia divina!» ha annunciato con voce tranquilla. Quindi, ha fatto una pausa e adesso si guarda intorno. Aspetta che succeda qualcosa. Sa che la chiesa è piena degli uomini di don Scipione III Spinelli Savelli, 6° Principe di Cariati e 6°
Conte di Santa Cristina, a cominciare dai vigilanti e dai dipendenti. Poi ci sono i nobiluomini, i borghesi, i membri del Parlamento dello Stato di Santa Cristina, i contadini, i pastori, le loro mogli e i figli. «Niente! Non succede niente!», alle sue parole, non è seguita alcuna reazione. Padre Serafino si volge verso i vigilanti, in piedi, accanto alle colonne della chiesa, appoggiati con le
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Abbiamo un Re! Re Carlo di Borbone, Re delle due Sicilie, Re per grazia divina! Un Re napoletano! Un Re cattolico!
spalle, come se dovessero sorreggerle. Individua il più rappresentativo di quegli uomini, Antonio Borgese, che il Protopapa si era premunito di presentargli, quella mattina. Gli rivolge uno sguardo interrogativo, unito a un leggero movimento della mano, come per dire: «La vogliamo fare o no, questa commedia?». Borgese unisce le mani portandole a toccarsi solo con le dieci dita, il pollice con il pollice, fino al mignolo
con il mignolo, e le muove su e giù come per dire: «Se non ci mette lei un po’ di entusiasmo…». Padre Serafino decide di fare più scena. Di metterci sentimento non è capace. Si tira su le maniche del saio, alza le braccia al cielo e ripete, pacato come sempre, solo un po’ più forte. «Abbiamo un Re! Re Carlo di Borbone, Re per grazia divina! Un Re nostro! Un Re vostro! Un Re di tutti noi!», ancora silenzio e nessuna reazione. Padre Serafino non si lascia smontare e prosegue con altre parole: «Un Re napoletano!», ancora niente! «Un Re cattolico!», un segno con il capo di Antonio Borgese e i vigilanti gridano all’unisono: «Viv’o Rre cattolico!». E allora, tutti i presenti nella chiesa gridano anch’essi: «Viv’o Rre! Viv’o Rre cattolico!». Padre Serafino capisce che la parola chiave è “cattolico”. Deve insistere sul punto. Prosegue con la sua predica su questa linea. Viene interrotto ogni volta che definisce cattolico il re. Quando termina, riceve tre invocazioni in coro: «Viv’o Rre! Viv’o Rre! Viv’o Rre cattolico!». «Un successone!» si ripete, stupito, il frate non abituato a queste ovazioni. Finita la messa, i fedeli escono ordinati dalla chiesa. Qualche giovane pastore, più per voglia di fare festa che per convin-
zione, si mette a ballare e saltare davanti al sagrato della chiesa: «Abbiamo un Re cattolico! Abbiamo un Re cattolico!». Antonio Borgese, primo vigilante, prende per il bavero il più vicino di questi e gli sussurra a muso duro: «Tu non hai nessun Re! Tu hai il Principe Spinelli Savelli e poi hai me! E basta!». E la festa, per quei pochi che hanno
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Consuma un rapido pasto in canonica con il Protopapa e si rimette in cammino verso Monteleone, in groppa all’asina tentato di farla, finisce subito. A Padre Serafino passa subito la contentezza, l’orgoglio per il successo che pensava di avere ottenuto. Consuma un rapido pasto in canonica con il Protopapa e si rimette in cammino verso Monteleone, in groppa alla sua asina. «Tutto tempo sprecato! Un’inutile mascherata!» si va ripetendo, per tutto il viaggio di ritorno, come in fondo aveva pensato per quello di andata.
Tra i boschi d’Aspromonte
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inAspromonte Agosto 2014
Diario di viaggio. Dai misteri di Pietra Cappa ai canyon del La Verde: la “via buona” dell’Aspromonte
PIETRA CAPPA NUOVA FRONTIERA di FRANCESCO BEVILACQUA
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archeggiamo l’auto, al mattino presto, nella piccola piazzetta di Natile Vecchio, frazione di Careri. Un grumo di case strette l’una all’altra, al limite tra i declivi erbosi della valle della Fiumara di Careri e i boschi di querce dell’Aspromonte. Nel 1951 una disastrosa alluvione travolse il paese costringendo gli abitanti all’evacuazione. Il cataclisma uccise dieci pastori di Natile mentre erano sparsi per i monti. I loro nomi sono scritti su una lastra di pietra al margine esterno della piazza, con le spalle rivolte al paesaggio ghiaioso della fiumara: Domenico Callipari, Pietro Callipari, Bruno Cavalieri, Domenico Marvelli, Antonio Merto, Francesco Pangallo, Antonio Pipicella, Paolo Pipicella, Sebastiano Pipicella Sebastiano, Domenico Pipicella. IL PIÚ ANZIANO era del 1862: aveva 89 anni quando ancora conduceva i suoi armenti per i boschi d’Aspomonte e fu travolto da una frana. Fu costruito un nuovo villaggio più a valle. Qui restano i più ostinati. Quelli che non vogliono veder morire il loro mondo. Quelli che i giornalisti conoscono solo per i cognomi scritti nelle sentenze di mafia. Ma quei cognomi sono gli stessi di quelli dei pastori morti in montagna mentre portavano al pascolo le capre. Sono gli stessi degli uomini e delle donne per i quali lo Stato, la giustizia, i diritti sono sempre state parole vuote, senza senso. Sono gli stessi dei protagonisti dei racconti di Perri (1885/1974), uno tra i maggiori narratori calabresi, ambientati in queste terre d’Aspromonte. Non puoi astrarti dalle pagine di Perri (e di Alvaro, o di La Cava, o di Montalto alias Barillaro, o di Strati) se vieni in un posto come questo [...].
impasto naturale in cui spiccano miriadi di sassi levigati dall’erosione. Alcuni sono veri e propri massi di granito grigio o rosa amalgamati al complesso litico. Molti sono caduti in terra lasciando nelle pareti grandi buchi che sembrano nicchie di dormienti. LE PRIME VOLTE che venivamo da queste parti, agli inizi degli anni Ottanta, sotto le Rocche di San Pietro viveva un pastore, di cui ricordo ancora il cognome, Codispoti. Era sempre affabile ed ospitale. Ci offriva pane, salame, formaggio, olive, fichi secchi. Aveva un fare umile, dimesso. Eppure quando raccontava le sue storie era quasi ieratico. Una folta barba nera gli inanellava il viso, insieme ai capelli ed al berretto. Era vestito di orbace e di fustagno. La giacca spesso gettata sulle spalle ed un’accetta dal lungo manico penzolante dall’incavo interno del gomito. Ho ancora una foto di lui che suona un doppio flauto di canna sullo sfondo dei boschi e delle pietre d’Aspromonte. Aveva uno stazzo con le capre. Raccontava favole leggendarie su Pietra Cappa. Una volta tolse da un fazzoletto una moneta borbonica come fosse la reliquia di un passato mitico scomparso chissà come e che lui rimpiangeva. Il suo era un mondo di re e di regine, di cavalieri e di fate. Un mondo in cui poteva prodursi quella meta-storia, quella storia magica parallela alla storia reale di cui parlava De Martino e che costituiva la via d’uscita rituale dalle quotidiane crisi personali (malattie, sfortuna, fascinazione etc.) e collettive (catastrofi, carestie etc.) per la gente di questi posti sperduti, nello spazio e nel tempo. Oggi incontriamo un giovane pastore su un vespino scassato che ha uno stazzo poco più sopra. Gli domando se porta quel cognome, se è un parente. Mi risponde di no: il vecchio Codispoti è morto da qualche anno. L’antico stazzo è in rovina. Ora, penso, il nuovo custode dei luoghi è lui. Da quel ragazzo – e da nessun altro – dipende la memoria ed il futuro delle Rocche di San Pietro [...].
«Poni a te stesso soltanto una domanda. Questa via ha un cuore? Se lo ha, la via è buona. Se non lo ha, non serve a niente»
OLTRE L’ORLO delle colline boscose si intravedono i monumenti di roccia che caratterizzano la zona. Qualcuno ha chiamato quest’area tra Careri e San Luca “Valle delle Grandi Pietre”. Ma è una denominazione moderna, che non restituisce il senso dei luoghi. Non siamo in una sorta di Monument Valley del Sud. Non ci sono epopee di battaglie tra bianchi e pellerossa da evocare. Qui ogni rupe, ogni corso d’acqua, ogni pianoro ha un suo nome preciso, che significa tanto, che evoca tanto. Le rupi sono iconemi, come direbbero gli antropologi del paesaggio, segni distintivi dei luoghi. Pastori e contadini si sentivano rassicurati dalla loro vista familiare. Sapevano di essere nel loro mondo. Di non essersi spersi. Un lungo aggiramento ci porta alle Rocche di San Pietro, una sequenza di rupi di conglomerato roccioso, una sorta di
PIETRA CAPPA è alta 829 metri. La parete che si rivolge a sud-ovest si eleva perpendicolare per almeno un centinaia di metri e da lì non si passa. Sul versante opposto, a nord-ovest, invece, il dislivello è minore e ci sono molte fenditure, anfratti, grotte da crollo, diedri, camini, che, se attentamente ispezionati, possono portare in cima. Racconto a Natale di quella volta che salimmo arrampicandoci proprio dal punto in cui siamo ora, utilizzando in parte un camino naturale. In cima trovammo resti di laterizi, segno che perfino quassù qualcuno
Pietra Cappa, Aspromonte orientale. Foto di Francesco Bevilacqua (forse un monaco) ha abitato. Dovemmo utilizzare una corda per scendere. É evidente che doveva esserci un modo più semplice per salirvi. E credo di avere individuato la via che, opportunamente attrezzata (all’epoca con scale di legno e corde, oggi con una breve via ferrata), consentirebbe di salire su agevolmente. I monaci erano esperti in questo genere di cose. Volevano isolarsi dal mondo ma, del mondo, avevano bisogno per sopravvivere. I loro rifugi erano lontani, ma comunque non irraggiungibili. Rientriamo in paese, compiendo un anello parziale, che ci consente di percorrere un vecchio sentiero più stretto (riconosco quello che utilizzammo in passato). Alla piazzetta sostano nel sole meridiano alcuni uomini. Un vecchio è particolarmente loquace e discorre con noi con piacere. Tutti i figli sono fuori dalla Calabria. Vive con la pensione sociale e con le poche cose che la terra gli offre. É una persona semplice. Si accontenta. Non scappa. Semplicemente, ha lì la sua vita, quel che resta della sua famiglia, la sua storia, i suoi luoghi. Quello è il suo mondo. Mi ricorda Cicca, una dei protagonisti de La teda, di Saverio Strati, che esattamente così risponde al forestiero che, vedendola tanto bella, le chiede se non ha desiderio di fuggir via dall’inferno di Africo vecchio. Penso a questi luoghi come ad una “Frontiera” (il mito del “Far West”). LA NUOVA FRONTIERA non ha bisogno di rotte transoceaniche, di attraversare praterie, di valicare grandi montagne. La nuova Frontiera è qui, a poche ore d’auto dalle nostre città maleodoranti, dai nostri paesi deturpati. In quei mondi dimenticati e abbandonati dell’Italia interna e rurale, in quei paesaggi che per quasi un secolo sono stati pervicacemente cancellati dall’immaginario collettivo dei meridionali. I nuovi pellerossa siamo noi, i comatosi, i lobotomizzati, gli zombie del Sud. I nuovi bisonti sono le capre dell’Aspromonte e del Pollino, che ancora brucano l’erba vagando per le garighe e le pietraie. “Il grande mistero” degli indiani è il vecchio dio Pan, che si nasconde nelle selve della Sila e delle Serre. Pan, il dio pastore, della campagna, dei boschi, dei pascoli. Il dio della follia, dell’inconscio e della paura. Ritrovare il senso della dimensione panica della vita, ricapire paesi e comunità che stanno agonizzando, riscoprire il legame profondo tra uomini e luoghi: ecco la prima missione di chi vuole cercare questa nuova Frontiera. (per il testo si ringrazia calabriaonweb.it)
«Poni a te stesso soltanto una domanda. Questa via ha un cuore? Se lo ha, la via è buona. Se non lo ha, non serve a niente»
Una via U N T I che ha un cuore APP
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iamo venuti a Samo, un piccolo paese della Locride. Lasciamo l’auto sul greto della fiumara La Verde. Pastori in fuoristrada stanno radunando le capre per riportarle a valle. Risaliamo l’alveo pietroso, abbacinante, della fiumara. Chiuso da una chiostra di pareti di roccia brunita. Capre percorrono in fila indiana una cengia vertiginosa, a mezza altezza, nella nostra stessa direzione. Come gli Apache dei film western. Sono le ribelli del gregge. Vagheranno per giorni in montagna, senza padroni. Anche noi siamo ribelli. La gente è tutta stipata sulle spiagge. O al massimo in qualche villaggio turistico in montagna. Penetriamo nel ventre della terra. La chiostra si è chiusa su se stessa. Le pareti distanti non più di una decina di metri l’una dall’altra. É mattino presto. Nel canyon c’è l’ombra. Che intimidisce. L’acqua scorre argentina. Guadiamo ripetutamente. Muti. Lontani tra noi. Come se anche in due fossimo troppi. Sbuchiamo oltre il canyon dove la fiumara si allarga di nuovo. Una larga lingua detritica
di ciottoli e massi bianchi. Camminiamo per ore sotto un sole cocente. Capisco per poco cosa dovevano provare i padri del deserto. Oleandri, boschetti di ontani, rocce levigate, fitte macchie che salgono verso i monti circondano la fiumara, uno strano sito di rocce incrostate di organismi umidi e colorati che odorano di zolfo. Sempre più avanti. Come attratti da qualcosa. Eccola, finalmente, la visione. Un’ansa, un restringimento, una nuova gola. E sullo sfondo la mole imponente di Monte Iofri. Tra una parete e l’altra i resti di una passerella “andina”. Serviva ai pastori di Africo vecchio ad attraversare la fiumara d’inverno. Paghi rientriamo. É pomeriggio. La luce è cambiata. Il paesaggio è lo stesso ma diverso. Ora, è inondato dal sole. É ancor più maestoso. La luce rassicura. Ci tuffiamo in pozze smeraldine. La fiumara è la nostra via. Come dice Carlos Castaneda: «Poni a te stesso soltanto una domanda. Questa via ha un cuore? Se lo ha, la via è buona. Se non lo ha, non serve a niente».
Gole La Verde, Aspr. orientale. Foto di Francesco Bevilacqua
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Tra i boschi d’Aspromonte
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I capperi, conservati sotto sale o sotto
Montagne
Le Serre
A ‘NDUJA di FRANCESCO TASSONE
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a ‘nduja è il salume per eccellenza, paradosso dei paradossi, toccasana delle coronarie, tipicità esclusiva del paese di Spilinga, piccolo centro in provincia di Vibo Valentia, nella Calabria sud occidentale. Imitata in tutta la regione e molto spesso anche fuori regione, con qualità del prodotto non sempre paragonabile, si prepara con rifilature dei tagli del maiale, sia a base grassa che magra, ai quali viene aggiunta una buona dose di peperoncini piccanti calabresi che vengono macinati insieme alla carne e poi salati e insaccati “nell’orva” (il budello cieco). Il salume viene poi affumicato. Il nome nduja trae origine dal termine latino “inducere”, ossia introdurre. Viene messo in relazione con altri due particolari tipi di salumi insaccati: uno di produzione piemontese, detto “salame d’la doja”, e l’altro di produzione francese, “andouille”. Questi due prodotti, nonostante abbiano matrice latina comune nella denominazione, hanno caratteristiche assai diverse da quello calabrese. La ‘nduja si può spalmare sul pane abbrustolito ancora caldo, o essere usata per guarnire una buona pizza, o come base per il soffritto del ragù o di un sugo di pomodoro. Si può consumare accostata ad una selezione di formaggi semi-stagionati insieme ad una composta di cipolla rossa di Tropea oppure per guarnire delle frittate. Una prelibatezza sono “i fileja, nduia, pumadora i gulera e ricotta casarica” (ricetta sotto). Un’altra versione di ‘nduja, prodotta un po’ ovunque su tutto il territorio calabrese, è invece un salume povero, preparato con ritagli di carne di maiale e frattaglie: lingua, stomaco, polmoni, milza, cuore, parte molle del palato, rifilature di carne della testa e della gola. Infine la ‘nduja viene insaccata e stagionata per qualche mese.
F ileja , ‘n duja, pumad ora i gulera e ri cott a casari ca
Preparazione per 4 persone Far bollire in una pentola abbondante acqua salata e buttarci circa 500 g di fileja, dopo tre quattro minuti di ebollizione, prendere due cucchiai di acqua di cottura e trasferirle in una padella capiente. Sciogliervi dentro due cucchiai di nduja e, non appena sciolta, aggiungere 250 g di pomodorini tagliati a metà e proseguire la cottura per altri dieci minuti. Scolare la pasta e saltare in padella, sporzionare nei piatti e grattugiare un’abbondante nevicata di ricotta casarica. Guarnire con una foglia di basilico e servire.
Cultura
A Serra si premia Gerace di VINCENZO CATALDO
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’artista, poetessa e scrittrice di Gerace, Maria Eleonora Zangara si conferma ancora come una delle figure più rappresentative del mondo artistico della Locride. Una sua opera rappresentante San Bruno e San Giovanni Paolo II, dal titolo Ali di paradiso, è stata consegnata alla Certosa di Serra San Bruno in occasione dei festeggiamenti dei 500 anni dell’Ordine e del V Centenario della canonizzazione del Santo di Colonia (nella foto sotto). Il quadro aveva prima partecipato alla mostra Bruno e Karol, due uomini uniti dalla fede, indetta dall’Associazione culturale Eventi d’Arte di Serra San Bruno, tenutasi dal 26 al 29 giugno 2014 presso la sala convegni di Palazzo Chimirri in Serra San Bruno. L’artista ha espresso la propria soddisfazione per questo ennesimo tra-
guardo raggiunto. L’opera è stata consegnata al Priore della Certosa Dom Jacques Dupont durante la celebrazione eucaristica alla presenza del sindaco Rosi, di Serra Bruno, e di varie amministrazioni comunali del Serrese e rappresentanti sia del mondo civile che religioso di tutta la Calabria. Hanno dato il contributo alla manifestazione le congreghe di Serra e Spadola, il parroco di Santa Maria del Bosco di Serra Don Bruno Larizza, l’Associazione Eventi d’Arte di Raffaele e Irene Pace e il gruppo canoro Michele Vinci. Il presidente del consiglio comunale Giuseppe De Raffele ha ritirato una lirica scritta dalla poetessa Zangara dal titolo Serra San Bruno, data in dono alla città di Serra in rappresentanza. Lirica edita nell’opera che porta il titolo Amata Terra, di Laruffa.
GERMOGL
Il cappero è coltivato fin dall’antichità È spontaneo solo su substrati calcarei e Servizio e foto
di LEO CRIACO
Tra i boschi d’Aspromonte
o aceto, sono una ricchezza per le nostre montagne
LI PREZIOSI
ed è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo. ed è stato sempre usato sia in cucina che in medicina
L’
Aspromonte è un massiccio montano con una superficie di circa 3000 kmq; sale dalle rive dello Jonio e del Tirreno fino ai 1956 metri di Montalto, occupa la parte terminale dello stivale e si collega all’appennino calabrese con i pianori della Limina. Il versante occidentale è più umido e piovoso di quello orientale esposto a sud e quindi più caldo e siccitoso, ciò comporta, inevitabilmente, la presenza di habitat differenziati e grazie a questa notevole diversità di ambienti, la flora aspromontana è molto ricca e numerosa. Finora sono state censite e classificate più di 1800 specie diverse di piante arboree, erbacee e arbustive. La parte di territorio rivolta sul Tirreno è più coperta di vegetazione arborea, mentre il versante jonico è più spoglio e provvisto di macchia mediterranea con presenza significativa di boschi di leccio e di prati aridi, utilizzati principalmente per il pascolo.
IN QUESTI ULTIMI AMBIENTI, localizzati normalmente nella fascia costiera e collinare (da 0 a 700 metri s.l.m.) vegetano molto bene, tra le altre piante, il finocchio selvatico, il carciofino selvatico e il cappero. Queste piante sono doni della natura che le popolazioni joniche, da tempi lontani, apprezzano e ne fanno buon uso. Mentre la raccolta dei capolini del carciofino termina nel mese di maggio, quella dei “chiappari” (germogli, boccioli e frutti) si protrae per tutto il mese d’agosto. Il cappero (capparis spinosa) è una pianta spontanea tipica delle calde e siccitose regioni meridionali. È una specie molto rustica, vegeta molto bene nei terreni aridi e pietrosi, e sui vecchi muri; in alcuni terreni argillosi della fascia jonica aspromontana, cresce rigogliosa un’altra specie di cappero: il capparis ovata. Il cappero (nome locale: chiapparara) è un arbusto alto circa un metro con rami lignificati alla base e con portamento ricadente.
LE FOGLIE SI PRESENTANO alterne, carnose, verdi e di forma arrotondata; i boccioli floreali (detti capperi) si formano all’ascella delle foglie e vengono utilizzati in cucina previa maturazione e conservazione sotto sale o sotto aceto. Il frutto (nome locale: cucuzzeglia) è una bacca ovale, oblunga, grossa come una noce pecan, di colore verde che a maturazione completa si spacca longitudinalmente evidenziando una polpa rossa ricca di numerosi e piccoli semi neri. In alcune zone della Sicilia viene coltivato con molto profitto; famosi sono quelli di Pantelleria, apprezzati e commercializzati anche oltre confine. Mentre i siciliani consumano e vendono soprattutto i boccioli sotto sale (marino), le popolazioni aspromontane raccolgono, e consumano, principalmente i germogli. Questi ultimi si raccolgono da aprile a luglio inoltrato, e la raccolta viene fatta a mano, cimando la parte apicale, circa 4-5 cm, del rametto; i boccioli si raccolgono da giugno a fine agosto, scegliendo i più piccoli e scartando quelli prossimi alla sbocciatura; la raccolta dei frutti inizia a giugno e termina ad agosto, e viene effettuata quando sono teneri e grossi come una piccola oliva. LE NOSTRE POPOLAZIONI raccolgono e consumano anche i germogli, i boccioli e i frutti mescolati. I “chiappari” appena raccolti non sono ancora commestibili e prima di essere consumati vanno fatti “maturare” sotto sale o sotto aceto. I siciliani utilizzano il sale, gli aspromontani l’aceto. Per fare maturare i germogli da soli, o mescolati ai boccioli e ai frutti, una volta raccolti vengono lavati, puliti dalle impurità (fili d’erba, foglie, pezzi di rametti secchi, ecc.) e messi in acqua per 3 - 4 giorni, cambiando l’acqua ogni 6 - 7 ore. Terminata questa operazione vengono strizzati, asciugati, salati e mescolati con abbondante aceto e sistemati nei vasetti di vetro. I “chiappari”, a tavola, stimolano l’appetito e migliorano le funzioni digestive.
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Tra i boschi d’Aspromonte
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In cammino con l’associazione... Club Alpino Italiano
31 agosto - 2 settembre Il cammino della Madonna (PnA) R. Romeo - D. Vitale (ASE) E/E (Escursionisti Esperti)
Conferenza 21 agosto
“Il Parco e le opportunitàdi sviluppo sostenibile della montagna” Giuseppe Bombino, Presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte Residence Il Bucaneve - Gambarie ore 17.30
i n fo
14 settembre
14 settembre
Tre limiti (PnA) R. Tripodo (ASE) con Alpinismo Giovanile T
Da Laganadi a Rosalì A. D’Agostino S. Musca E (Escursionistico)
Polsi
Laganadi
C.A.I. - Club Alpino Italiano Sezione Aspromonte via San Francesco da Paola, 106 89127 Reggio Calabria Tel. 333 5354074 www.caireggio.it Aperto il giovedì dalle ore 21.00
escursione notturna
Gruppo Escursionisti d’Aspromonte 23 agosto
escursione con il FAI giovani
24 agosto
escursione
14 settembre
Gambarie - Catona
Canovai - Forgiarelle
Samo - Bianco
impegno tecnico: alto percorrenza: 22 km tempo: 7 ore quote: 1169 - 60 difficoltà: E rientro: all’alba
impegno tecnico: medio percorrenza: 6 km tempo: 3 ore quote: 1354 – 1300 - 1449 difficoltà: E rientro: ore 20
impegno tecnico: medio percorrenza: 12 km tempo: 6 ore quote: 300 - 450 - 160 - 270 - 0 difficoltà: E rientro: ore 19
Attraversare di notte, al buio, guidati dal chiarore della luna, gli stessi luoghi già visti con la luce del sole, è un’esperienza indimenticabile che fa percepire la sottile differenza tra la sicurezza dell’orientamento e il disorientamento del buio più completo. Un’escursione impegnativa, che ha inizio a Gambarie e si conclude a Catona.
gita escursione
5-7 settembre
Una piacevole escursione in una delle aree più interessanti, dal punto di vista naturalistico, del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Ci muoveremo tra Canovai, Croce di Dio Sia Lodato e le spettacolari cadute d’acqua del Ferraina per apprezzare i panorami, il paesaggio e le numerose essenze vegetali che caratterizzano quei luoghi.
Gambarie
Una interessante escursione in un territorio ricco di testimonianze: palmenti scavati nella pietra, la Villa di Casignana, i ruderi della città fortificata di Bianco. Partiremo da Samo e ci dirigeremo su Caraffa del Bianco. Attraverso sentieri poco frequentati raggiungeremo l’antica Bianco, prima di imboccare il crinale verso il mare.
Canovai
Salina
o G. E. A. infGruppo Escursionisti
Le isole Eolie con il loro patrimonio naturale, ambientale, storico e antropologico sono meta di turisti provenienti da ogni parte del mondo. L’isola di Salina, seconda per grandezza e popolazione, possiede il rilievo più alto dell’arcipelago, il monte “Fossa delle Felci” (962 m. slm), che saràteatro della nostra escursione. Spostandoci in gommone visiteremo anche Lipari e Vulcano.
d’Aspromonte via Castello, 2 89127 Reggio Calabria Tel. 0965 332822 www.gea-aspromonte.it info@gea-aspromonte.it
Gente In Aspromonte
Samo
7 settembre
info
Associazione escursionistica Gente in Aspromonte via Fontanella, 2 89030 Careri (RC) Tel. 348 8134091
www.genteinaspromonte.it info@genteinaspromonte.it
Tempo: ore 5.00 Dislivello: 220 slm 350 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Seminara Comuni int.: Seminara
Seminara
S. Elia
S
. Filareto originariamente si chiamava Filippo, ed era originario della Val Demone in Sicilia che, nel 952 i Bizantini occuparono, nel tentativo di strappare la Sicilia agli Arabi. Filippo con la famiglia scappò e si rifugiò in Calabria nelle Turme delle Saline (attuale Piana di gioia Tauro), stabilendosi a Sinopoli, ed in seguito divenne monaco nel monastero imperiale di S. Elia, fondato nell’884. Una semplice escursione nel caratteristico centro storico di Seminara, noto sia per la sua antichissima tradizione in materia di produzione di ceramiche artistiche, che la colloca ancora oggi fra i più rinomati centri italiani in questo speciale settore, e sia per i suoi numerosi palazzi storici. Notevole è il risultato ottenuto dall’aver piantato, tutto attorno all’abitato, delle piante di ulivo in modo disordinato: una selva inestricabile di ulivi.
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L’analisi
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Paesi aspromontani. L’abbandono subìto negli ultimi anni rischia di divenire un processo irreversibile
ENTROTERRA IN AGONIA
I giovani calabresi potrebbero fare tanto per l’Aspromonte, ma è necessario che gli amministratori locali incentivino le reti commerciali e le storiche figure artigianali di VINCENZO STRANIERI*
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Vi è il rischio concreto che i paesi interni muoiano definitivamente
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I piccoli comuni dell’entroterra devono al più presto applicare la politica delle unioni Nella foto in alto a sinistra il paese di Roccaforte del Greco (Aspr. greco); nella foto in alto a destra il vecchio borgo di Podargoni (Aspr. meridionale). Nella foto in basso Gallicianò (Aspr. greco). Tutte le foto sono di Bruno Criaco.
*
Università della Calabria Cultore di Etnologia E-mail vincenzostranieri@hotmail.com
V
i è il rischio concreto che i paesi interni muoiano definitivamente, costituiti come sono da una popolazione composta prevalentemente da anziani e bimbi. Inoltre, la maggior parte degli studenti che ha conseguito una laurea si è trasferita definitivamente nei maggiori centri urbani del nord, impoverendo ancor più il tessuto sociale dei luoghi d’origine. Oggi i nostri anziani vivono (subiscono) la solitudine dei loro omologhi urbanizzati. Le loro pensioni danno sollievo alle numerose badanti venute dall’est che, in alcuni casi, formano famiglia, cercando così di trasformare l’emigrazione in evento positivo, e ciò nonostante le difficoltà economiche del luogo in cui hanno deciso di mutare il loro destino. Povertà aggiunta ad altra povertà, dunque. Il mondo cammina, si muove più velocemente che in passato. Le etnie si mescolano alacremente, stimolano interrogativi e paure, radicalizzano l’idea di appartenenza, sollecitano interventi oppositivi a quelli dell’accoglienza e dell’integrazione. E questo in tutto il mondo occidentale, che si sente minacciato nella sua stabilità economica, scardinato nelle sue
strutture di fondo. Da noi (in Calabria) il problema è poco avvertito, i cosiddetti extracomunitari non tolgono il lavoro a nessuno. E come potrebbero farlo, stante che questo non esiste? Gli emigranti cercano d’inserirsi in modo disparato: giornalieri campagna (i neo braccianti del terzo millennio), badanti (triste neologismo!),
NUOVE FAMIGLIE I nostri anziani vivono la solitudine dei loro omologhi urbanizzati. Le loro pensioni danno sollievo alle numerose badanti venute dall’Est commessi, operai, venditori ambulanti etc. Tali mestieri fanno parte di un’economia chiusa, senza mercato, spesso di natura familiare. Un’economia minima, se così può essere definita, che non garantisce a nessuno una sussistenza tranquilla. Crea, questo sì, un aumento, se pur lieve, dei consumi, ma sempre all’interno di una realtà priva di prospettive economiche di largo
respiro. Ma se è vero che la storia è maestra di vita, allora dobbiamo imparare in fretta che vi é il rischio concreto che anche noi si possa diventare ruderi abbandonati. Una realtà vera, che bussa alle porte con insistenza. É vero, parlar male delle istituzioni regionali e provinciali è un nostro difetto, ma è pure vero che non vi è amore alcuno per la nostra tartassata Calabria. Siamo ultimi in tutto, purtroppo. E gli amministratori locali, con le dovute eccezioni, non vogliono comprendere che in assenza di una progettazione comune di largo respiro, l’implosione socio-economica delle nostre vallate è prossima. Si è perso tempo prezioso, non è più possibile perderne dell’altro, inutile vagabondare negli spazi sterili del campanilismo, perché sulla nave che sta affondando ci stiamo tutti noi, nessuno escluso. I piccoli comuni dell’entroterra devono al più presto applicare la politica delle unioni (preludio dell’unificazione tout court), convenzionare tutti i servizi essenziali, condividendo in tal modo le spese più rilevanti e, di conseguenza, stabilizzare i propri bilanci, non più basati su ipotetiche entrate che, quasi mai, trovano un effettivo riscontro finanziario. Potranno essere così garantiti i servizi essenziali. La gente, specie in questo particolare momento storico, si sposta nei paesi di marina anche e soprattutto perché i comuni interni sono quasi privi di una rete commerciale e produttiva in grado di soddisfare i bisogni primari delle famiglia. In molte realtà, inoltre, mancano le figure artigianali storicamente più vitali (barbiere, fabbro, calzolaio etc.). Nei comuni che vedono la presenza di queste figure, si nota un certo fermento economico, gli artigiani riescono ad avere una loro autonomia economica, puntando a valorizzare la loro professione nell’ambito
geografico d’appartenenza. E dunque non sempre è bene lasciare la collina per i paesi costieri. Fermare l’emorragia dell’emigrazione giovanile non è semplice. Viviamo nel mondo della globalizzazione imperante, i modelli proposti sono molteplici (vi è pure la globalizzazione delle cattive idee, per dirla con France-
GLI INTELLETTUALI Senza i giovani qualsiasi realtà è costretta a morire, senza una forza intellettuale i nostri luoghi rischiano di divenire veri dormitori sca Viscone), ed appare difficile poter chiedere ad un giovane di fermarsi a guardare i bei paesaggi nel mentre il sole illumina le nostre coste. Non so cosa dire ad un giovane. Anche i miei figli, potendo, tornerebbero a vivere al Sud, ma le competenze che stanno acquisendo al Nord non trovano alcun riscontro positivo nel posto da dove sono partiti. Ma senza giovani qualsiasi realtà è costretta a morire, senza la presenza di una forza intellettuale i nostri luoghi ancor prima che scomparire rischiano di divenire dei veri dormitori. Il tempo non più quello di ieri. Un decennio odierno vale quanto due o tre secoli passati, perché i mutamenti sono divenuti vorticosi e spesso imprevedibili. Siamo ancora in tempo per unire le forze in un’azione dialettica comune che ci aiuti preservare la nostra cultura, le nostre radici? Non lo so. So per certo, invece, che l’atavica inerzia che ci caratterizza può solo sollecitare la scomparsa definitiva delle nostre comunità.
Tradizione
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Servizio tratto dal sito lagrandegioiosa.it, a cura di Tiziano Rossi
BARCHE PER LE VIE
L
e vie vengono addobbate con bandierine di carta colorata e le tradizionali “barche di S. Rocco”, sospese tra i balconcini prospicienti dei vari rioni. L’usanza trae origine dal fatto che la statua è stata portata (da Napoli) a bordo del veliero San Luigi.
I TAMBURINARI
MATA E GRIFONE
nnunciano la festa col frastuono assordante dei loro tamburi, zampogne e pipìte, accordandosi tra di loro, rispolveravano gli antichi motivi della tradizionale musica popolare. Sulla piazza principale sottolineano la veglia col loro incessante rullare.
er destare l’attenzione dei piccini, arrivano i “giganti”. Mitiche figure di origine siciliana che richiamano l’ormai tramontato senso dell’alto, della maestà, della regalità, della potenza e prepotenza del sovrano nero, questa volta sottomesso ai voleri della regina bianca.
A
FEDE
e
P
TRADIZIONE
GIOIOSA JONICA LA TESTIMONIANZA
T ra
poco il santo uscirà per le vie della città per la più lunga e incredibile processione che si conosca in Italia. Questa di San Rocco è una processione ballata, al ritmo frenetico dei tamburi, che inizia alle 9 del mattino e, interrotta solo dalla Santa Messa celebrata nella Chiesa Matrice, si protrae sino alle 20. Il Santo esce dalla sua chiesa e, percorrendo Via Belcastro, rione Tumba e rione Confrontata, arriva alla Chiesa Matrice dove, dopo un breve sguardo al paese che sotto si distende, entra per la messa e la consueta orazione panegirica. QUANDO il panegirico è terminato e la processione, preceduta dalla spettacolare danza collettiva, torna a snodarsi per le rampe scoscese della Confrontata, più numerosa che mai. La processione trascina con sé dolori, speranze, attese, invocazioni. Il passaggio del santo per le viuzze del paese dà luogo a scene che non possono essere commentate con poche parole. Bisogna essere presenti per viverle. San Rocco sfila sotto i balconi gremiti di anime che, a braccia protese, è come se lo invitassero a entrare nelle loro abitazioni. Vedere il santo passare, in quei luoghi che hanno visto le case aprirsi e cadere sotto le vibrazioni del terremoto, è come ripassare un capitolo di storia che la nostra generazione non ha mai vissuto, ma che ci appartiene da sempre. Lacrime di sofferenza dietro i vetri socchiusi. SCENE di dolore che non si possono descrivere. Speranze di gente che assalgono San Rocco e i porta-
GLI ALTRI PAESI DEL SANTO
Riti tradizionali e genti moderne, la storia che continua
I TAMBURI DI S.ROCCO
IL PATRONO
A San Rocco sono devoti molti Comuni dell’Aspromonte e della provincia reggina. Ad oggi è infatti commemorato a: Ardore, Bova, Casignana, Cittanova, Cosoleto, Fiumara, Marina di Gioiosa, Melicucco, Palmi, Pazzano, Polistena, Portigliola, Roccaforte del Greco, San Pitero di Caridà e Scilla. A Palmi, in particolare, la festa attira migliaia di fedeli e emigranti ed è censita dall’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia di Roma come «patrimonio immateriale d’Italia». Rinomata soprattutto per il corteo degli Spinati.
tori del santo che lo sanno; per questo quando un ammalato si avvicina per fare la sua offerta al Protettore, questi viene calato quasi ad altezza d’uomo per far sì che ci sia un contatto diretto tra santo e fedele. Le “parole” non scambiate tra i due vengono intuite dalla folla che le fa proprie e, commossa, partecipa a questa scena di dolore con un fragoroso applauso.Volti scavati dal dolore si stringono attorno a San Rocco che, con la mano protesa ai propri fedeli e gli occhi rivolti al cielo, sembra chiedere a Dio intercessione per loro. RIPRODUZIONI in cera di membra guarite, gente a piedi nudi, bambini, spogliati per voto e offerti alla grazia del Santo. Ed è sempre un momento emozionante quello dell’offerta dei bambini nudi al Protettore; quasi un incruento sacrificio pagano o forse un segno di consacrazione totale per grazia ricevuta. Sono scene votive alle quali la gente assiste e partecipa emozionata, turbata, attonita: il bimbo ammalato che sta baciando San Rocco è un figlio di Gioiosa e non solo della mamma che in quel momento, smarrita, piange tra la folla. É il tramonto. Tamburinari e banda, turisti e curiosi, autorità civili e religiose, fedeli e pellegrini sono confluiti in massa sulla piazzetta della chiesa per stringersi attorno a S. Rocco, quasi a impedirne il rientro. Pare impossibile che una tal folla possa essere contenuta in un piazzale così piccolo. La gente quasi impazzisce al ritmo sempre più frenetico dei tamburi che fanno vibrare i muri delle vecchie case e i balconi sem-
brano cedere sotto il peso delle persone protese a salutare colui che per i gioiosani, più che un Santo, è uno di famiglia. A RICONFERMA della tradizione secondo cui San Rocco, dopo aver raccolto nelle sue mani la peste, entrando a ritroso in chiesa, se ne liberava, salvando miracolosamente i suoi gioiosani, da allora, ogni anno la statua viene girata prima del rientro. Urla, pianti, mani protese in un ultimo saluto, sventolio di fazzoletti, ancora bimbi affidati alla pietà del santo, applausi, ressa. In un crescendo parossistico durante il quale la gente si libera dei veleni accumulati durante l’anno, San Rocco rientra in chiesa. Ecco, la statua del santo è nella sua casa. La gente ritorna stanca alle proprie dimore e Gioiosa riprenderà l’aspetto malinconico di sempre. Un altro anno è passato.
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Una devozione antica LA PROCESSIONE BALLATA
a devozione a San Rocco risale almeno al 1583, anno in cui fu fondata la chiesa a lui dedicata che, più volte ampliata e rimaneggiata, è quella stessa che vediamo ancor oggi. Ma è solo in seguito alla peste bubbonica del 1743, regnante Carlo II di Borbone, miracolosamente cessata per intervento del santo protettore degli appestati, che San Rocco fu proclamato, con bolla pontificia, patrono di Gioiosa Jonica. L’attuale immagine del santo, una statua lignea, scolpita a Napoli nel 1749, sostituì l’antico dipinto e fu portata a Marina di Gioiosa con il veliero San Luigi. Da qui, come detto, l’usanza di appendere delle barche di carta nei vicoli del paese durante i giorni che preludono alla festa. Dicono le cronache del tempo che la commissione che l’aveva ordinata, i nobili, il clero e il
popolo tutto fecero gran festa ed in processione, ballando e cantando. Secondo altre fonti, invece, il ballo deriverebbe dalla devozione di un tale che, per avere ricevuto una grazia, si mise a ballare da solo la tarantella davanti al santo in segno di ringraziamento. Il popolo, trascinato dall’esempio del devoto e dalla emozione del momento prese parte, ballando, all’inconsueta manifestazione di fede e di gioia. Da allora, ogni anno, in agosto si rinnova, al ritmo ossessionante dei tamburi, la processione ballata di San Rocco, anche se gli anziani rimpiangono i tempi passati, quando il ballo era veramente una manifestazione di fede. Quando presentarsi davanti a S. Rocco, strisciando la lingua sul pavimento della chiesa, nascondeva veri e propri drammi umani.
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La nostra storia
inAspromonte Agosto 2014
Guerra e sequestri. Le drammatiche storie di morte che dal 1948 turbano lo Zillastro
CRISTO FERITO IN ASPROMONTE
Una croce, quella dello Zomaro, che ha accolto le lacrime di donne e soldati. Dai familiari dei troppi sequestrati, che vi andavano a pagare i riscatti, ai giovani italiani della guerra mondiale di COSIMO SFRAMELI
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Il Cristo dei sequestrati ebbe il cuore trafitto da un colpo di lupara Lo Zillastro è « ancora ricordato come un luogo triste, dove tuttora si addensa la nebbia
In alto a sinistra il Cristo di Zervò, foto di Antonio Delfino. In alto a destra i parà dell’ANPd’I, sopra il monumento dei Nembo sullo Zillastro. foto di Cosimo Sframeli.
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l Cristo dei sequestrati ebbe il cuore trafitto da un colpo di lupara. Una mano pietosa cercò di mascherare quella ferita. Incappucciato ed in catene salì per i monti dell’Aspromonte, dove una strada collega Platì al passo dello Zillastro, spartiacque tra lo Jonio e il Tirreno. Davanti al grande crocifisso, che volta le spalle a Montalto e al Santuario della Madonna di Polsi, Angela Casella si inginocchiò per suo figlio. Aveva cercato traccia di Cesare nelle chiese, a Polsi, tra la gente dei tanti paesi dell’Aspromonte. Indossava un pantalone nero e una maglietta rossa, i lunghi capelli raccolti dietro la nuca. Appariva di una fragilità estrema, ma dimostrava di avere grande forza interiore. Ogni sua azione aveva un significato: le catene, la tenda, il sacco a pelo, come fosse una prigione dell’Anonima sequestri. Le notti erano dure e c’era freddo, umidità. Nell’albergo Demaco di Locri, suo quartier generale, aveva ripercorso passo per passo, da quel 18 gennaio del 1988, i momenti drammatici del rapimento, la difficile trattativa, le foto che davano la “prova dell’esistenza in vita” dell’ostaggio, il miliardo di lire pagato come riscatto, le botte subite dal marito, la successiva richiesta dei banditi, le minacce di uccidere l’ostaggio, la nuova trattativa. Scelse di pregare sotto il Cristo di Zervò, dove furono pagati i riscatti di tanti sequestri. E sotto la Croce ebbe espressioni di solidarietà da una coppia di fidanzatini di Oppido Mamertina che l’avevano abbracciata. Nello
stesso giorno, a Zervò, incontrando i Carabinieri accampati nei pressi del “Sanatorio”, si fermò davanti a una baracca adibita a spaccio per mangiare un pezzo di pane, ammorbidito con olio e insaporito con origano, per bere un bicchiere d’acqua. Aveva freddo e il Brigadiere Antonino Marino le diede la sua giacca a vento. Fu proprio a ridosso di quei luoghi che il Crocefisso, eretto sopra un cumulo di pietre, diventò il simbolo ne-
Mamma Casella Ogni sua azione aveva un significato: le catene, la tenda, il sacco a pelo, come fosse una prigione dell’Anonima. Scelse di pregare a Zervò fasto di una montagna ingiustamente pensata nefasta. Era il Cristo ferito sul fianco destro da un colpo d’arma da fuoco, immortalato nei servizi televisivi durante gli anni bui dei sequestri di persona. Era lì che si pagarono riscatti per liberare tanti sequestrati dell’Anonima. Poco più su, dispersa dentro una fitta pineta, la croce in ferro a ricordo di Nicola Tallarida, falciato dalla mitragliatrice di un aereo alleato mentre liberava i suoi buoi dal carretto perché si mettessero in salvo dall’incursione nemica. Vicino la strada, altre due croci in ferro a memoria dei Parà del
Nembo caduti in combattimento l’8 settembre del 1943. Nonostante la bellezza dei luoghi, lo Zillastro è ancora ricordato come un luogo triste che incute timore, dove tuttora si addensa la nebbia. Per troppo tempo morte e violenza campeggiò in quei boschi e tante furono le lacrime versate. L’8 settembre del 1943 fu combattuta, proprio sui Piani dello Zilastro, l’ultima battaglia terreste della Seconda guerra mondiale. Una vicenda tragica, rimasta a lungo dimenticata, che costò la vita a giovani paracadutisti del Nembo, che morirono a guerra ormai conclusa. Nel corso dell’avanzata in territorio reggino gli Alleati fecero prigionieri centinaia di soldati italiani. Arrivati a Reggio, trovarono altri soldati che, deposte le armi, si misero volontariamente al servizio degli invasori per aiutarli a scaricare il materiale bellico dai mezzi da sbarco. Resasi impossibile ogni sorta di resistenza, il III e XI Battaglione Paracadutisti del 185° Nembo si ritirarono verso nord. L’VIII, trattenutob da violenti scontri intorno agli abitati di San Lorenzo e Bagaladi, si trovava in marcia di retroguardia e cercava di raggiungere Platì, dove vi era il Comando di Reggimento. La notte dell’8 giunse sui Piani dello Zillastro e si accampò sotto un faggeto a quota 1050. Gli Italiani, esausti per la lunga marcia, la fame e gli scontri sostenuti, si abbandonarono ad un sonno ristoratore e non si avvidero che fuorno circondati da ogni lato dall’esercito anglo-canadese il
quale, per giorni e notti, li aveva inseguiti, senza dare tregua. Il Nembo non avrebbe avuto scampo, era circondato: in quattrocento contro cinquemila. La lotta fu impari e proseguì fino all’esaurimento delle munizioni. Fu un massacro, una inutile tragedia. Qualche tempo dopo la battaglia dello Zillastro, un impresario boschivo, Salvatore Accardo, chiese al parroco di Platì di benedire quei luo-
La sezione ANPd’I I paracadutisti di Reggio C. tutti gli anni organizzano una marcia “rievocativa” attraverso l’impervio cammino compiuto dalla divisione Nembo ghi prima di procedere al taglio degli alberi. Nel 1951 il sindaco di Oppido Mamertina, Giuseppe Muscari, fece apporre una croce in ricordo dei luoghi ove avvenne l’ignorato conflitto. Successivamente, nel 1971, un altro sindaco di Oppido, Giuseppe Mittica, fece innalzare un grande Crocefisso a ricordo dell’evento e dei morti inutili di un otto settembre già di pace. Nel 1988, il Generale Franco Monticone, Comandante della Folgore, venne informato dello sconosciuto o dimenticato conflitto dal professore e giornalista Antonio Delfino.
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4 maggio 1811. Appunti sulla “nascita” amministrativa di molti dei comuni calabresi
L’autonomia dei “casali”
FIG. 1
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FIG. 2 di PINO MACRÍ
l passato 2011 è dai più ricordato come “l’anno del 150°”: non sono in molti, cittadini e, addirittura, anche sindaci calabresi, a sapere, o ricordare, che in quell’anno ricorreva il bicentenario della nascita istituzionale di moltissimi dei Comuni di appartenenza, fuoriusciti dalla condizione di “casale” alle più o meno dirette dipendenze di qualche centro viciniore e di maggior importanza, ed entrati nella dimensione di autonomia governativa. Questa importante trasformazione fu uno degli effetti del riordino amministrativo voluto dai Francesi, nel corso dell’ormai celebre periodo che va sotto il nome di Decennio (1806 -1815). La storia è in grandissima parte nota, ma tuttora ancora al centro di studi, ricerche, discussioni, talora anche noiose, fra neo e anti borbonici, a proposito del ruolo che esso Decennio ebbe nello sviluppo della società meridionale (e calabrese in particolare): da una parte se ne esaltano gli indubbi meriti in ordine alla riorganizzazione, in chiave finalmente moderna, di uno Stato arroccato su un assolutismo antistorico, e se ne sottolinea, giustamente, il provvedimento più famoso, l’eversione della feudalità, che poneva finalmente termine ad ignominiose diseguaglianze sociali; dall’altra, creando spesso un collegamento un po’ forzato con le vicende postunitarie su cui oggi molto si dibatte, se ne rimarca la spietata repressione del brigantaggio, visto indiscriminatamente come reazione legittimista ad una occupazione straniera, ad opera del famigerato generale Manhès. DI FATTO, MOLTI DEI PROVVEDIMENTI amministrativi (oltre all’eversione della feudalità, la riorganizzazione della civica amministrazione, di cui l’istituzione dell’anagrafe civile, tolta alla tenuta dei registri parrocchiali, fu la più duratura innovazione, l’istituzione dei cimiteri fuori dall’abitato, ecc.) dovettero essere considerati tanto “rivoluzionari” e indispensabili ad un tempo, che la stessa Restaurazione borbonica si guardò bene dal rimuoverli. Ma tornando ai “nuovi” comuni, un primo tentativo di riorganizzazione c’era già stato durante la Rivoluzione del 1799, ma fu talmente affrettato da risultare del tutto impraticabile a causa dei grossolani errori dovuti ad una sommaria conoscenza del territorio. Con la Legge concernente la divisione del Territorio continentale della Repubblica Napolitana del 21 Piovoso anno 7.° Repubblicano (9 febbraio 1799), furono infatti istituiti 11 dipartimenti: la Calabria fu divisa nel Dipartimento del Crati (con capoluogo Cosenza e ripartizione in 10 Cantoni: Cosenza, Corigliano, Cirò, Acri, Castrovillari, Tursi, Castel Saracino, Lauria , Belvedere, Belmonte.) e in quello del Sagra (con capoluogo Catanzaro e altri 10 Cantoni: Catanzaro, Cotrone, Nicastro, Monteleone, Tropea, Seminara, Reggio, Bova, La Roccella, Satriano). Una veloce scorsa all’elenco dei comuni, (detti “Luoghi”) ad esempio, del Cantone della Roccella (fig. 1), fa comprendere quanto prima si diceva, risultando esso com-
posto dai Luoghi di La Roccella, Castelvetere, S. Maria delli Crochi, S. Giovanni, Mammola, Cacurave, Ciamuti, Calandra, Prati, S. Nicolò di Canali, Ardore, Charere, Motta Bovalina, Bombili, Portigliola, Gerace, S. Filippo d'Argirò, Siderno, Grotteria e Martoni giojosa. Chi abbia un minimo di conoscenza di quel territorio rimane immediatamente sconcertato di fronte a nomi come S. Maria delli Crochi, Cacurave, Ciamuti, Calandra, S. Filippo d’Argirò, Martoni giojosa (sic!). L’INGHIPPO É PRESTO SVELATO: la suddivisione territoriale fu tracciata direttamente sulla carta, o meglio, sull’unica carta geografica della Calabria di cui si disponeva al tempo: il Foglio 4 della Carta Geografica della Sicilia Prima delineata da André G. Germain, Louis Perrier e Giovanni Antonio Rizzi Zannoni e pubblicata a Parigi nel 1769. Non sapeva, forse, il povero Championnet (firmatario della Legge) che quella carta era stata tracciata dal grande Rizzi Zannoni (che, nel frattempo, stava redigendo l’Atlante terrestre del Regno di Napoli, cui stava lavorando dal 1787 su commissione di Ferdinando IV, a seguito degli eventi del Grande Terremoto del 1783) interamente a tavolino, sulla scorta delle cosiddette Carte Aragonesi, risalenti al XV secolo. A rimettere un minimo a posto le cose ci volle, appunto, il Decennio, dapprima con la legge 8 agosto 1806 n. 132 che ripartì il territorio in tredici province e quest’ultime in distretti, nel cui ambito furono collocati i comuni; poi, a partire dall’anno successivo, con le leggi del 19 gennaio (istituzione dei circondari), del 21 febbraio (funzioni dei decurioni) e 13 giugno 1807 (norme per la scelta degli amministratori civici), furono delineate le varie funzioni amministrative. MA BISOGNERÁ ASPETTARE IL 1811 per avere la conferma definitiva dei “nuovi” comuni: il decreto 4 maggio 1811 n. 922, disposto da Giuseppe Napoleone per fissare la nuova circoscrizione delle province del Regno, rappresentò il primo compimento della legge 132 del 1806, stabilendo infatti il numero e la ripartizione amministrativa dei singoli comuni, con l'indicazione delle eventuali frazioni, nell'ambito dei Circondari, dei Distretti (per la Calabria Ulteriore furono: Monteleone, Gerace, Catanzaro e Reggio) e delle Province. É, quindi, da considerarsi quella la data ufficiale di nascita di moltissimi dei comuni dell’Italia meridionale continentale, dal momento che, tra l’altro, il decreto borbonico 1 maggio 1816 n. 360 ne aggiornò soltanto la circoscrizione amministrativa, apportando lievi modifiche al decreto del 4 maggio 1811, elevando il numero delle province a quindici (risale quindi al 1816 la suddivisione della Calabria Ulteriore in Ultra 1ª – grosso modo corrispondente all’attuale provincia di Reggio Cal. – e Ultra 2ª, l’antica Prov. Di Catanzaro, comprendente anche quelle odierne di Vibo e Crotone – fig. 2).
IL DISTRETTO DI
P
GERACE
er quanto riguarda il Distretto di Gerace, esso era suddiviso nei seguenti Circondari (i Comuni riportati senza data erano già Università, cioè “Comune” capoluogo, prima del 1811; laddove sono riportati due o più Comuni, quelli dopo il primo erano frazioni):
Gerace, con i Comuni di: Gerace; S. Ilario (1811) e Condojanni (anticamente Università, poi frazione nel 1811); Portigliola (1799, Luogo 1807 e Comune nel 1811); Ciminà (Luogo 1807 e Comune, 1811); Antonimina (1811), Canolo (Luogo 1807 e Comune 1811) e Agnana (Comune dal 1841); Siderno Casalnuovo (ora Cittanova), con i comuni di: Casalnuovo (oggi Cittanova); Terranova; Scroforio e Galatone; Radicena; Jatrinoli e S. Martino Polistina, con i comuni di: Polistina e Melicucco; Rizziconi e Drosi; S. Giorgio (Morgeto) Staiti, con i comuni di: Staiti (Luogo 1807 e Comune 1811); Bruzzano (Luogo 1807 e Comune 1811) e Motticella; Palizzi (1811) e Pietrapennata; Brancaleone (Luogo 1807 e Comune 1811); Ferruzzano (Comune 1811) Bianco, con i comuni di: Bianco (Luogo 1807 e Comune 1811); Casignana (Luogo 1807 ? e Comune 1811?); S. Agata (Luogo 1807 e Comune 1811, poi fraz. di Samo nel 1928 e Comune 1946 ); Precacore (Samo) (Luogo 1807 e Comune 1811); Caraffa (1811); S. Luca (Luogo 1807 e Comune 1811) Ardore, con i comuni di: Ardore (Luogo 1807 e Comune 1811), S. Nicola e Bombile; Natile (già frazione, autonomo nel 1836 e poi ancora frazione); Mottaplati (Platì)(1799, Luogo 1807 e Comune 1811) e Cirella; Benestare (Luogo 1807 e Comune 1811) e Careri (1836); Bovalino Roccella, con i comuni di: Roccella; Giojosa; Castelvetere (Caulonia) (nel 1816 capoluogo di Circondario al posto di Roccella) Grotteria, con i comuni di: Grotteria; Mammola (1799, Luogo 1807 e Comune 1811); Martone (1799, Luogo 1807 e Comune 1811); S. Giovanni (?) Stilo, con i comuni di: Stilo; Stignano (Luogo 1807 e Comune 1811); Riace (Luogo 1807 e Comune 1811); Camini (Luogo 1807 e Comune 1811); Placanica (Luogo 1807 e Comune 1811); Pazzano (Luogo 1807 e Comune 1811); Bivongi (Luogo 1807 e Comune 1811); Monasterace (Luogo 1807 e Comune 1811) Badolato, con i Comuni di: Badolato; Isca; S. Caterina; Guardavalle.
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Libri e scrittori
inAspromonte Agosto 2014
L’anno
Alla mia terra. Alla sua paziente attesa...
dei
limoni Terza parte
«Un insieme di storie di uomini e donne d’Aspromonte. Protagonista della maggior parte delle storie è Fante Francesco, che è esempio d’esistenza cristallina, uguale all’esistenza di milioni di miei conterranei»
L’alba vista dall’Aspromonte orientale. Foto di Enzo Penna
di VINCENZO CARROZZA
Z
io Carmelo non pensava molto a Marianna durante il giorno: l’arpione e il mare lo distraevano. Ma i suoi occhi a mandorla ritornavano di sera e gli ripetevano: «Sei un palo secco, un palo lungo e secco, buono solo per battere le olive». E lui rideva, come faceva da bambino al paese. Marianna lo canzonava nei suoi sogni da arpionatore: «Palo secco, palo secco» gli ripeteva, e lui non si arrabbiava perché lei lo diceva con dolcezza, anzi gli piaceva essere chiamato così da lei. Chiudeva gli occhi sulla nave e sperava di sentire la sua voce, il suono della sua voce, le parole non gli sembravano importanti. Non poteva dimenticarla nonostante il tempo passasse. E non c’era nessun mistero chiuso nella sua mente, si disse un giorno mentre stava per lanciare l’arpione verso una grande anima del mare. LA RICORDAVA e la sognava perché l’amava, semplicemente questo. L’amava, si disse, dopo averci pensato su per molto tempo, per quasi una vita. «Che fine ha fatto Marianna?» ripeté a Cata. «Marianna non si è mai sposata» rispose Cata, che immaginava cosa volesse sapere Carmelo, «É stata fidanzata due o tre volte ma non si è mai sposata», continuò. Diceva che qui non lo trovava uno alto come voleva lei. Che non lo trovava calmo e forte come lo voleva lei, con le mani tanto grandi da poter tenere su una casa e una famiglia allo stesso tempo. E che se uno non trova ciò che cerca accontentarsi è da sciocchi. Fa ammalare il cuore accontentarsi, ripeteva. Perché è l’amore a nutrire il corpo, non il cibo, non i soldi. E se puoi fare a meno di mangiare e dei soldi, non puoi fare a meno dell’amore, quello vero. L’AMORE É una cosa seria, che ti salva o ti uccide e, se non lo trovi come dici tu, allora è meglio aspettare. E se non arriva pazienza, è meglio lasciare perdere invece di morire. «Lei ha pensato così tutta la vita, ed è rimasta da sola, nonostante i numerosi pretendenti» «Abita ancora nella vecchia casa di suo padre
nel rione chiesa?» «La ricordi la casa di suo padre vero?» disse Cata. «La ricordo molto bene, ci sono stato molte volte in quella casa prima di partire» rispose Carmelo. Lui e Marianna non si erano mai scritti una lettera, né si erano mai fatti promesse. Sperava, anzi sapeva, che l’avrebbe ritrovata al suo ritorno come l’aveva lasciata, col suo sorriso canzonatore, con la sua voce dolce. Sapeva anche cosa gli avrebbe detto appena si sarebbero incontrati: «Palo secco sei tornato?». Lo avrebbe detto sorridendo con i suoi dolci occhi a mandorla da cerbiatta, come se tanto tempo non fosse mai passato. Poi gli avrebbe chiesto se ricordava il mare delle lucciole d’estate. Se ricordava
“
dere le cose della vita l’avrebbe portato lontano. Non si sarebbe piegato a lavorare di zappa per i soliti padroni. Avrebbe piuttosto preferito morire per mare, lontano, dimenticato. Anche pochi anni di felicità sarebbero bastati, anche un solo momento sarebbe bastato. Ecco, era tornato per quel momento di felicità. Per questo era tornato. SI ERA FATTA l’alba e Carmelo diede a Cata la borsa nuova di cuoio lucido che teneva in mano. Cuoio della Pampa, sussurrò a Fante Francesco: «Conservala Cata - continuò che qui sono i miei risparmi per ricomprare la terra di mio padre, quella che diede via perché io e i
Nei paesi d’Aspromonte la terra era come la vita: una cosa sacra da proteggere e custodire nel tempo, da riscattare, per non perdere l’anima, per non perdere la propria dignità. La riebbe perché era stata venduta per bisogno
come la prendeva per mano seduti sulla pietra della collina, la prima che guardava in basso verso la valle finito il paese. Di come arrivavano le lucciole, col buio, una per volta, fino a riempire l’intera valle. Di come le mani si stringevano forte quando il buio si faceva fitto e la valle era un mare di luci tremolanti che si alzavano e si abbassavano a onde. E loro erano su di una nave in mezzo alla tempesta di luci e di sogni. Si, sapeva che l’avrebbe aspettato.
LUI ERA TORNATO per Marianna, solo per Marianna, adesso ne era certo. Voleva vivere quel che gli rimaneva da uomo libero come sempre aveva fatto. Meglio vivere poco tempo da uomo libero, piuttosto che una vita intera da schiavo. Schiavo del bisogno e dei Miceli, degli Ornato, dei Sanchez, dei proprietari e della fame. Aveva rischiato tutto, per prima la sua vita e poi la felicità insieme a lei, per non piegare la schiena. Era, e si sentiva un uomo. Lo aveva detto a Marianna quando aveva capito che il suo modo di ve-
miei fratelli potessimo andare lontano verso un destino migliore. Già domani voglio andare a contrattare». Sorrise Fante Francesco e fece di sì con la testa alla moglie, che poteva conservare la borsa. Sarebbe tornata alla famiglia la proprietà vicino al torrente delle Due Valli costata tanta fatica al nonno, a suo padre, a chi era rimasto. Prima di mettere fuori dal baule grande il suo sacco a pelo, e sistemarsi accanto al focolare per qualche ora, zio Carmelo aggiunse: «Non ricordavo che le nostre piante dessero limoni così belli e grossi. É la prima volta vero?». Fante Francesco fece di nuovo di sì con la testa e rispose: «É la prima volta che sono così belli e luminosi». Il sacco a pelo marrone odorava di mare e di tempeste. L’odore del mare, del fumo della pipa, del grasso di balena e di cuoio delle borse di zio Carmelo si diffuse nelle due piccole stanze e vi rimase per lungo tempo. L’odore della baleniera che solcava i mari del Sud e dei limoni furono per sempre insieme, da allora, in quel piccolo rifugio di uomini alle falde d’Aspromonte.
IL GIORNO DOPO, come promesso, Carmelo si alzò di buon’ora e si avviò verso casa del medico condotto a riscattare i terreni venduti dal padre. Li riebbe senza difficoltà, dopo un caffè ed altre parole di circostanza. Li riebbe perché erano stati venduti per bisogno e perché erano stati comprati più per fare un favore al padre di Carmelo e del Cavaliere Antonino che per un vero affare. Questo aveva detto il vecchio dottore Profazio al figlio sul letto di morte. Nei paesi d’Aspromonte la terra era come la vita: una cosa sacra da proteggere e custodire nel tempo, da riscattare, per non perdere l’anima, per non perdere la propria dignità. A settembre dell’anno dei limoni la festa per la Madonna di Polsi fu la più grande che si fosse mai stata vista. Non uno tra gli abitanti delle valli mancò l’appuntamento. Donne, uomini, bambini, neonati, tutti si inginocchiarono o furono innalzati alla Vergine. Si fecero grandi sacrifici, e si accesero fuochi maestosi fuori dal tempio. Il sangue dei peccati lavati, insieme al belato degli animali, riempì la valle, e la fiumara pareva fatta non d’acqua, ma di solo sangue. E nessuno si scandalizzò del sangue sacrificale degli agnelli e dei capretti che scorreva nel torrente, perché i sacrifici agli Dei ed alla Madonna erano cosa antica. Era storia che scorreva assieme al sangue nelle vene della gente d’Aspromonte. I VOTI E I CANTI erano cosa antica, tramandata nei secoli, da madre a figlia, da nonna a nipote, da padre in figlio, da nonno a nipote. E nessuno si scandalizzava perché i bambini venivano denudati davanti agli altari e alzati in offerta alla Madre di Dio. Nessuno si scandalizzava perché era sempre stato fatto, dai soldati greci, da quelli romani, dai crociati, dai normanni, dai bizantini, prima e dopo le battaglie. Dai pastori e dai contadini d’Aspromonte prima di partire da soldati per difendere la vecchia patria, la nuova patria. Dalle loro madri, dalle loro mogli affinché quei soldati tornassero a casa. Tutti con un impegno da onorare. Tutti con un Dio a cui chie-
dere protezione, salvezza e riguardo per il figlio in guerra, per il marito disperso, per i fratelli ed i padri oltre oceano. Tutti chiedevano salute e ringraziavano col sangue dei sacrifici. Quell’anno le donne e i bambini portarono le foglie dei limoni insieme alle foglie di ulivo alla Madre di Dio, e l’incenso profumò di limoni e ulivi. Nell’anno in cui la morte si era dimenticata di passare per quella valle, il giallo brillante dei limoni fu più intenso e più gradito del giallo dell’oro delle antiche offerte. Tutti avevano occhi da bambini senza malizia per guardare dentro gli occhi la Madre e il Figlio mentre pregavano inginocchiati e, anche dopo, furono come bambini, quando sacrificavano e spezzavano il pane. Ed ebbero occhi da bambini anche i preti, sull’altare, mentre li posavano sul gregge adorante nel tempio. ALL’INIZIO dell’autunno la morte non aveva ancora bussato alla porta di nessuna famiglia delle valli d’Aspromonte. Il medico e il prete, sostenendo ognuno la sua tesi, si incontravano sempre più spesso in canonica per fare il punto della situazione. Ogni incontro confermava nel prete la paura profonda che l’assenza di morte più che un bene fosse una punizione caduta dal cielo. «Perché - ragionava Don Calarco Dio non chiamando più a sé il genere umano di queste valli è come se lo rifiutasse. É come se dicesse: io con questa gente non voglio averci niente a che fare. Dunque la tengo lontana da me lasciandola sospesa nel tempo, a meditare e a scontare i tanti peccati. Era forse questo? - si chiedeva, non senza un poco d’angoscia - il Purgatorio dei vivi e dei morti?». Il medico, da parte sua, aveva sviluppato una teoria basata sull’eccezionale annata dei limoni. «Non può essere un caso l’assenza di morte e la presenza di limoni così insoliti» pensava, e si era messo a studiare l’effetto dei limoni sui pazienti. Ci aveva pensato a lungo ma, alla fine, iniziò la sperimentazione considerando che comunque fosse andata, quella era un’occasione che non si sarebbe più presentata (continua).
Libri e scrittori
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Omicidi irrisolti
«Senza mai scadere nella volgarità gratuita, l’autore sa riconoscere la necessità di mettere nero su bianco la crudezza della realtà. Con stile asciutto, esente dal prendere posizioni soggettive, l’autore affronta di petto (con coraggio) il lato nero della società, della malavita, della piccolezza umana» Giuseppe Iannozzi
L’
affascinante quanto aspra costa ionica della Calabria, caratterizzata da forti contrasti tra il profumo dei gelsomini, la crudezza della vita, l’azzurro intenso del mare contrapposto all’aridità del terreno e all’impervia delle montagne, fa da sfondo a questo romanzo: giallo, thriller, noir? Difficile affermarlo. I vari generi letterari si sommano, si intersecano, interagiscono, in una serie di avvenimenti e colpi di scena, a cominciare da un efferato delitto avvenuto proprio nei pressi della Torre saracena. A distanza di anni, in seguito al ritrovamento di alcuni reperti, si riaprono le indagini e la collaborazione tra due investigatori, uno del nord e uno del sud, amici, colleghi ma con caratteristiche diverse, determinate dal differente contesto sociale e stile di vita, fa sì che si arrivi alla soluzione. L’autore ha uno stile di scrittura essenziale, a volte crudo, senza retorica né giri di parole o svolazzi poetici. Il suo trascorso nelle forze dell’ordine l’ha portato, suo malgrado, a conoscere a fondo la malavita, con le sue regole, le sue leggi e i suoi sistemi, ad affrontarla e sgominarla.
Non poteva certo una persona debole esercitare un tale impegno, che richiede concentrazione, determinazione e forza di volontà. E la sua forza traspare in quello che scrive e racconta. Proprio questa conoscenza ha contribuito alla costruzione di una vicenda complessa, strutturata con precisione e attenzione ai dettagli, con risvolti a volte violenti. Fattori che, sommati, portano a un risultato degno di nota, a un romanzo avvincente, che tiene incollati alla lettura con un ritmo incalzante, che suscita la curiosità di scoprire cosa succederà dopo, la fretta di sapere come andranno a finire certi avvenimenti, fino ad arrivare alla parola fine che non si vorrebbe mai leggere. La descrizione dei personaggi e della vita delle “famiglie” ne fa una fotografia precisa e dettagliata, che si stampa nella mente del lettore e li fa vivere quasi fossero persone reali da amare o da odiare a seconda delle situazioni. Una lettura gradevole e inquietante, scorrevole e intrigante, in una sola parola: bello! Numero di pagine: 225 Prezzo: €14,90 Annamaria Sironi, book read
Nota biografica
Celeste Bruno è nato a Bari, ma è milanese d’adozione. Commissario di Polizia, a Milano dal 1977, prima come poliziotto di frontiera aeroportuale, poi Volanti e Squadra Mobile per oltre 21 anni, investigando su omicidi, sequestri di persona, prostituzione, tratta di esseri umani, crimine organizzato. Brillanti operazioni svolte in tutta Italia e all’estero, attestate da onorificenze ed encomi ricevuti. Nel 2004 ha scritto Milano ad ogni ora, nel 2009 La Mobile (Mursia) e nel 2010 L’artificiere (Altravista).
In viaggio dal ‘32
«Un ricco e interessante collage che ricostruisce la nostra storia partendo dal dopoguerra per arrivare ai nostri giorni, passando attraverso gli anni ‘70, quando Gambarie divenne tristemente famosa perché luogo prescelto dalla ‘ndrangheta per i sequestri di persona e per l’incidente mortale occorso al socio Riccardo Virdia»
S
ono tanti e diversi i modi possibili che consentono di conoscere un luogo, ma il migliore è sempre quello di ripercorrerne la storia, costruita seguendo la vita e le scelte delle persone. È nato così il libro CAI a Reggio Calabria. 80 anni di amore per la montagna pubblicato da Kaleidon editrice (160 pgg, 18 euro). Curato da Filippo Arillotta, ha visto la competente collaborazione dei soci Mariagrazia Buffon, Rosalba Tripodo, Alfonso Picone e molti altri. La storia del CAI ha avuto inizio nel 1932, quando un gruppo di autentici appassionati della montagna ha deciso di viverla e renderla amabile a tutti. Il libro ripercorre il periodo che ha consentito la nascita dell’associazione, connessa all’idea di “trasformare la neve da risorsa economica ad occasione di svago” e prosegue raccontando il territorio attraverso le testimonianze dei protagonisti, gli eventi e i documenti. Un ricco e interessante collage che ricostruisce la nostra storia partendo dal dopoguerra per arrivare ai nostri giorni, passando attraverso gli anni ‘70, quando Gambarie divenne tristemente famosa
perché luogo prescelto dalla ‘ndrangheta per i sequestri di persona e per l’incidente mortale occorso a due ragazzi a causa del ghiaccio e a Riccardo Virdia, esperto sciatore e socio ventennale del CAI, morto anche lui nel tentativo di prestare soccorso. Gli anni ‘80 e ‘90, con la riscoperta dell’Aspromonte grazie al trekking, alle iniziative di educazione ambientale e di conoscenza culturale del territorio, alla nascita del Sentiero Italia e del Parco Nazionale dell’Aspromonte. E infine gli anni 2000, che ancora oggi si distinguono per le numerose iniziative e collaborazioni con associazioni e scuole, sempre all’insegna dell’educazione e della sensibilizzazione all’ambiente, a dimostrazione che la passione per la montagna non solo non ha mai fine ma può anche essere contagiosa. Il libro, corredato da molte immagini storiche e suggestive, merita un posto nella nostra libreria non solo perché è un frammento di memoria rilevante della nostra storia, ma anche perché funge da monito: l’amore per la natura rende longevi e perché no, forse anche saggi. Alfonso Chiodo Picone
Descrizione
Un libro per gli appassionati della montagna. Una ricostruzione della lunga vita dell’associazione che evidenzia il legame affettivo che, sin dal lontano 1932, si è creato tra un gruppo di pionieri reggini e l’Aspromonte. Attraverso le vicissitudini che il CAI ha vissuto, si ricostruisce la storia di Reggio Calabria, i suoi problemi e le sue potenzialità. E si arriva poi ai nostri giorni, a tutte le iniziative, le pubblicazioni, i progetti, che la Sezione Aspromonte continua a realizzare. Una lettura interessante alla scoperta di tutto ciò che in 80 anni l’associazione ha costruito, sempre con «spirito di iniziativa, ma soprattutto capacità di cogliere ed adeguarsi al mutare dei tempi, avendo ben presente e fisso l’obiettivo di promuovere, far conoscere e migliorare le condizioni, anche delle popolazioni, della montagna calabrese», come scrive nella prefazione il presidente generale del CAI, Umberto Martini. Prezzo € 18,00) Curatore Arillotta F. Editore Kaleidon
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Cinema
inAspromonte
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Un regista considerato a lungo militarista e conservatore, fu invece un ribelle e un anarchico
Amo l’aria aperta, i grandi spazi, le montagne, i deserti… il sesso, l’oscenità, la degenerazione sono cose che non mi interessano. Mi piace assaporare il profumo onesto dell’aria aperta. É un bisogno per me» John Ford, 1961 di GIOVANNI SCARFÓ
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uando chiedevano a Orson Welles qual era il suo regista preferito rispondeva sempre: «John Ford, John Ford, John Ford». «Chi?» mi sentirei chiedere oggi da un ventenne. Non mi meraviglierei più di tanto anche se fosse uno studente del DAMS. A 100 anni dal suo primo film muto (Lucille Love, The girl of mistery, 1914), il primo film della Universal, provo a rinfrescare la memoria per ricordare un grande artista, costretto ad indossare la maschera di un regista di cassetta alle prese solo con indiani, sparatorie e vecchio west.
«
Fu un grande artista, costretto ad indossare la maschera di un regista di cassetta dimostrò « Ford a tutti il suo
talento recitativo pronunciando le parole come Wayne «Mi chiamo John Ford. Faccio western». É la frase lapidaria che pronunciò, negli anni ‘50, durante la “caccia alle streghe” del maccartismo, ovvero la caccia a chi professava idee politiche progressiste, bollate come “comuniste” o “antiamericane”. La disse quando intervenne durante una riunione dell’Associazione dei registi americani, guidata da Cecil B. De Mille (22 ottobre 1950, Beverly Hills Hotel di Los Angeles), che doveva decidere se rendere obbligatorio un giuramento di fedeltà ai principi americani. Si stava decidendo, in quella riunione, il futuro di
Nella foto il regista John Ford, era figlio di un irlandese e, da piccolo, si chiamava J. Martin “Jack” Feeney
MI CHIAMO
John Ford per parlare della sua cultura registica e perché dobbiamo togliere la maschera ad un uomo che per lunghissimi anni è stato considerato, specialmente in Europa, «militarista e conservatore, mentre aveva l’anima di un ribelle (With a Cause n.a.) e di anarchico: aveva aiutato i Repubblicani nella guerra di Spagna e appoggiato le lotte sindacali contro lo strapotere delle produzioni degli anni Trenta. E negli stessi anni in cui difese J. Mankiewicz contro il maccartismo, prese anche le difese di Frank Capra sospettato di comunismo». «La gente in Europa vuol sempre essere informata sugli In-
No Senatore, qui « siamo nel West,
dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda
JOHN FORD «
É la frase lapidaria che il regista pronunciò, negli anni ‘50, durante la “caccia alle streghe” del maccartismo
Joseph L. Mankiewicz (Eva contro Eva, All about Eva -1950) che aveva rivolto un atto di accusa contro il divismo hollywoodiano. Ford parlò per ultimo e disse: «Penso che non c’è nessuno in questa stanza che sappia meglio di Cecil B. De Mille ciò che il pubblico americano vuole, e certamente lui sa come darglielo». Poi, guardando in viso De Mille, continuò: «Ma tu non mi piaci Cecile De Mille, e non mi piace quello che tu hai detto qui questa sera. Adesso suggerisco di dare a Joe (Mankiewicz) un voto di fiducia, e poi ce ne andiamo tutti a casa a dormire». Se
andò veramente a dormire Ford quella sera non lo sappiamo, sapendo che una bottiglia di whisky non la rifiutava a nessuno; però quella sera il taciturno e lo scontroso Ford dimostrò a tutti il suo talento recitativo pronunciando le parole come il suo John Wayne davanti al cattivo di turno. Ha rischiato grosso quella sera J. Ford, perché poteva essere lui stesso attaccato e accusato di sovversione. Per non cadere nelle maglie di McCarty ha dovuto indossare la maschera del “commediante”, come lo definiva O. Welles, quella maschera che, lungo tutta la sua carriera, ha nascosto il vero Ford, (come il suo
nome originale irlandese Sean Aloysius O’ Fearna). Al contrario di quella che si pensa, un uomo dotato di profonda cultura teatrale shakespeariana e pittorica, che si possono ritrovare in quasi tutti i suoi film. Ma non solo, perché «come ha mostrato in maniera brillante Nancy Warfield, frammenti e polveri della “Repubblica” di Platone e altre sue opere si trovano ben metabolizzati in L’uomo che uccise Liberty Valance» (Gian Piero Brunetta). «No Senatore, qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda», L’uomo che uccise Liberty Valance (1964). Riprenderemo il discorso su
Gli indiani hanno una letteratura, non scritta, orale. E hanno il cuore generoso diani. O li vedono soltanto passare a cavallo sul fondo o fanno la parte dei cattivi. Io volevo mostrare gli indiani come sono. Ho un enorme affetto per loro. Quando andavamo a girare nelle riserve, le prime volte, li trovavamo così poveri che crepavano di fame. Il compenso che ebbero per Stagecoach (Ombre rosse) 1939 li aiutò a mettersi in sesto. É un popolo molto morale. Hanno una letteratura, non scritta, orale. Hanno il cuore generoso. Amano i bambini e gli animali. E io volevo, per cambiare un po’, offrire il loro punto di vista» (J. Ford, 1964).
Cultura
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VITTIME DEI CALABRESI
ZITTI! PARLANO I BRONZI di Gioacchino Criaco DELLE FACCE DI BRONZO
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smettetela di inalberarvi, siamo sempre così soli che ci ha fatto piacere la visita di Gerald Bruneau, abbiamo posato per il suo obiettivo e ci siamo lasciati agghindare di nostra spontanea volontà. E non gridate contro Sgarbi, un giretto in Lombardia ce lo faremmo volentieri, ci siamo già stati più di duemila anni fa, quando era una palude putrida; ci piacerebbe scoprire come è oggi e sarebbe bello vedere quel piccoletto di Maroni incassare la sua testa senza collo fra le spalle e guardarlo dall’alto in basso mentre ci allieta col suo sax, con gli occhi che gli arrivano all’altezza del nostro inguine. Che ne sapete voi della nostra pena? Ne sa più Francesco Merlo, di voi. Quando sulle pagine di Repubblica ci descriveva: «Coricati ed esibiti, dietro una vetrata, su due lettini ortopedici, i Bronzi di Riace sono due caduti in battaglia, le magnifiche vittime dell’inadeguatezza italiana». Voi vi siete arrabbiati ma aveva ragione lui; siamo ormai due cadaveri, ricoverati ora in un eterno ospedale del restauro, ora in un silenzioso ospizio.
Disarmati da tempo da ignobili mani che ci hanno levato via ogni segno del nostro antico mestiere. Noi, guerrieri senza armi, siamo scesi da soli dai nostri piedistalli e ci siamo volontariamente inabissatisi nelle acque dello Ionio per non vedere la fine misera verso cui andava incontro la nostra terra. Ci avete tirato fuori per portarci in giro come fenomeni da baraccone. E il mondo ha visto come eravamo noi e cosa siete diventati oggi. Ci avete fatto diventare come i Sioux arresisi alle giubbe blu. Dei tristi Buffalo Bill pagati per fare centro al circo. Ci avete costretto, noi guerrieri indomiti, a vedere i nostri figli degeneri piangersi addosso e spargersi per il mondo a elemosinare un pezzo di pane. Si, dovevate lasciarci al sonno eterno al quale ci eravamo votati, sommersi da sabbie d’oro e acque di smeraldo. Potevate risparmiarcele le umiliazioni di questi anni, il conoscere l’inutilità delle nostre mille battaglie. E potevate risparmiarvela l’onta di un confronto improponibile fra come eravamo e cosa siete diventati.
Un popolo lo si giudica dal rispetto che ha per i propri morti, e voi siete gente che i padri li lascia insepolti alla mercé di corvi e sciacalli. Vi fossero almeno utili a riempirvi lo stomaco, le nostre vestigia e le esibizioni a cui siamo costretti. Ma nemmeno un buon palco siete riusciti a costruirci e manco il biglietto per vederci siete in grado di farvi pagare. No, voi della nostra pena non sapete nulla. Gonfiate il petto quando la maggior parte di voi non è neanche venuta a ossequiarci, sapete di noi per sentito dire, in virtù delle polemiche che di tanto in tanto montano. E sapete poco di Schillacium, della villa di Casignana, dei draghi di Kaulon.. Sgarbi ha ragione, noi siamo prigionieri. Ma non è la mafia a tenerci segregati. Siamo ostaggio del vostro stupido orgoglio. Vi serviamo per dire che voi venite dalla nostra prestanza fisica e dalla nostra forza morale. Fate un favore a voi stessi, abbiate un moto d’orgoglio sano: riseppelliteci, così in un futuro lontano quando di voi si sarà perso il ricordo, qualcuno ritrovando noi magari immaginerà grandi anche voi.
L’EXPO
Roberto Maroni e Vittorio Sgarbi chiedono i Bronzi di Riace da esporre a Milano durante il periodo dell’Esposizione universale milanese del 2015. La proposta è di avere le statue in prestito «anche per un periodo limitato di due mesi» in cambio di «due dipinti di Caravaggio» che potrebbe cedere temporaneamente il Fec al museo di Reggio Calabria.
DIRETTORE RESPONSABILE
Antonella Italiano
antonella@inaspromonte.it DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco bruno@inaspromonte.it Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 0964 66485 – Cell. 349 7551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 13/08/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.
I
Bronzi di Riace ostaggio della ndranghita. E adesso lo Stato (perché sono dello Stato) pagherà il riscatto dovuto per liberarli e finalmente dargli una nuova veste, considerato il tempo che sono stati ignudi. Ma soprattutto, dargli un nuovo luogo, più accogliente, più consono al loro prestigio, al loro valore e alla loro resistenza all’acqua, per più di duemila e cinquecento anni, e alle cazzate dei critici d’arte, per più di quarant’anni: il tempo che è passato da quando sono venuti a galla! Quindi è meglio trasferirli a Milano per farli vedere ai visitatori di tutto il mondo. Le statue dei guerrieri, dopo essere state restaurate, prima a Reggio e poi a Firenze, il Presidente Pertini le volle al Quirinale, dove sono state visitate da migliaia di persone. Una volta a Reggio Calabria tra 1981 ed il 1982 (anni in cui la ndranghita era presente), i Bronzi sono stati ammirati da oltre un milione di visitatori! Eppure, la distanza tra Reggio e Milano è la stessa. A parti inverse, cioè l’Expo a Reggio, noi a Milano, avremmo potuto chiedere qualche quadro di valore o il Castello Sforzesco (difficile da trasportare), che non sono certo ostaggio della ndranghita, perché a Milano la ndranghita ha altro a cui pensare. Se c’è una cosa che
di Bruno Salvatore Lucisano invece è ostaggio della ndranghita è il cervello di Sgarbi, quello si! Uno dei bronzi raffigura Tideo, eroe dell’Etolia, figlio di Ares. L’altro sarebbe Anfiarao, guerriero che profetizzò la propria morte a Tebe. Ecco, Tideo o Anfiarao, non so chi dei due, ha avuto un’occasione storica: quella di ritrovarsi il critico d’arte a portata di canna ma, non avendo avuto il segnale dal capo locale, si sono ben guardati dal pisciarlo in testa! Ecco, se anche i Bronzi sono degli ndranghetisti, o retaggio della ndranghita, portateveli a Milano, tanto due in più, due in meno, per noi non cambia molto. Per la storia, secondo gli esperti, le due statue forse facevano parte di un gruppo di bronzi collocato nella piazza principale di Argo, un monumento agli eroi che fallirono nella conquista di Tebe, e ai loro figli che riuscirono poi nell’impresa. Il gruppo di Argo comprendeva dunque i bronzi di Riace e altre statue, una quindicina in tutto, sembra in viaggio verso Roma. Ecco Sgarbi, eterno nominato, vatti a pescare gli altri tredici, portateli a Milano e non rompere i bronzi. Anzi, se li trovi gli altri tredici, portateli a Roma dove, sembra, fossero diretti! Lì, al massimo, saranno ostaggio della politica che della ndranghita è complice e maestra. Con il velo da sposa, in tanga leopardato e con una boa fucsia: così il fotografo Gerald Bruneau (alcune foto nella sequenza in alto), allievo di Andy Warhol, ha ritratto i Bronzi di Riace, in un blitz compiuto nell’inverno scorso nel Museo archeologico nazionale dopo la riapertura avvenuta a dicembre. A pubblicare le foto è stato il sito Dagospia, ripreso poi da altri organi di stampa.