“in Aspromonte" numero 11

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QUESTO GIORNALE NON RICEVE ALCUN FINANZIAMENTO DA ENTI PUBBLICI

10 mila copie

sempre on line COPIA GRATUITA

Direttore Antonella Italiano

inAspromonte

DIFENDI LA MONTAGNA

Giglio di San Giovanni, fiumara Furrajna - Samo (Aspromonte orientale). Foto di Gioacchino Mollica

pag. 2 - 3

di BRUNO CRIACO

Dalla centrale di Saline. Dalla diga sul Menta. Dalle opere incompiute della Bovalino-Bagnara. Dall’ecomostro di Cardeto Nord. Dai bivacchi selvaggi di: pasquetta, ferragosto, primo maggio. Dagli incendi. Dai dissesti idrogeologici. L’Aspromonte è un giglio che va difeso, anche da noi stessi

La testimonianza

Ombre e luci

L’altra faccia della montagna

Africo nuovo

Paolo Rocca. Acchiappare la luna...

E mi disse: «Mi chiamo Gianluca»

di Gianni Favasuli

di Cosimo Sframeli pag. 5

pag. 4

Roghudi antica

Don Rafele, il re del piccolo borgo di Alfonso Picone pag. 9

Tra i boschi

Le abitudini dello scoiattolo

di Leo Criaco

Sant’Agata del Bianco

Un set per Tibi e Tascia di Domenico Stranieri

pag. 7

La nostra storia

Genialità e subordinazione Vino greco e genti di Calabria

Foto di Pietro Velasi

Aspromonte greco

Aspromonte orientale

di Pino Macrì

pag. 12-13

pag. 19

Luglio 2014 numero 011

La riflessione

Il bambino e il cane

di Antonella Italiano

V

i voglio raccontare una storia. Vincenzo era un bambino di pochi anni e, come tutti i bambini suppongo, desiderava un cane; di quelli grandi con il muso rotondo, e il pelo morbido e talmente folto da poggiarci la testa sopra, nei pomeriggi stanchi, e dormirci. Vincenzo era un bimbo felice, ma un cane non l’aveva mai avuto e Dio, per fargli una sorpresa, andò a scegliere tra tutti gli esemplari quello più bello. Lo prese e, in una piovosa mattina di gennaio, lo donò al bimbo in attesa. Anche il cane, suppongo, desiderava un padrone. Qualcuno da rincorrere e da aspettare, una mano che gli porgesse un pezzo di biscotto, delle carezze garbate tra il collo e le orecchie. Dio lo capì subito, e riuscì a dar gioia ad entrambi. Ora il cane e Vincenzo giocano insieme nella loro eterna primavera. E il bimbo non è più solo. E il cane ha finalmente un padrone.

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Copertina

inAspromonte

IL BAMBINO E IL CANE segue dalla prima di Antonella Italiano

Luglio 2014 Ed io, ogni volta che passo da quel punto della statale, saluto il cane e Vincenzo, che mi sorride da dietro quei suoi fiori di stoffa, e aspetta, sereno, che il suo tempo ricominci. Ed ogni volta che passo da quel punto della statale, io, mi impongo di usare questa storia come metro con cui misurare le azioni e i pensieri che mi “tormentano”. E che essa sia il peso a cui rapportare il “peso” dei torti subìti. Ma quasi mai ci riesco. Forse solo stavolta.

ENTE PARCO

OBIETTIVO: BANDIERA

ARANCIONE

R

ipartire dai territori, valorizzando le eccellenze aspromontane con l’obiettivo di fregiarsi della prima Bandiera Arancione del Touring club italiano. Sono queste le premesse che hanno animato la collaborazione tra Ente parco nazionale dell’Aspromonte e Touring club che, nei giorni scorsi a Reggio Calabria, hanno presentato la prima edizione di Bandiere arancioni nel Parco nazionale d’Aspromonte, rivolta ai Comuni del Parco localizzati nell’entroterra con una popolazione inferiore ai 15.000 abitanti. A presentare l’iniziativa Giuseppe Bombino, presidente dell’Ente Parco nazionale dell’Aspromonte, Tommaso Tedesco, direttore dell’Ente Parco, Marco L. Girolami, direttore Strategie territoriali del Touring club italiano, Giuseppe Zampogna, presidente della Comunità del Parco e Chiara Parisi, responsabile dell’Ufficio comunicazione dell’Ente Parco. I COMUNI INTERESSATI a partecipare all’iniziativa possono presentare la propria candidatura entro venerdì 12 settembre. Le località che supereranno gli oltre 250 criteri di valutazione previsti dal Touring raggruppati in 5 macroaree (Accoglienza, Ricettività e Servizi complementari, Fattori di attrazione turistica, Qualità ambientale, Struttura e qualità della località) e che risulteranno in linea con gli standard qualitativi previsti dal Modello di analisi territoriale touring verranno certificati con la Bandiera arancione.

I Comuni che, a seguito dell’analisi e del sopralluogo, non risulteranno in linea con gli standard riceveranno il Piano di miglioramento: lo strumento che indica le principali azioni che il Comune può mettere in pratica per potenziare il sistema di offerta turistica locale.

LA BANDIERA ARANCIONE è il marchio di qualità turistico ambientale assegnato dal Touring club italiano alle piccole località dell’entroterra che dimostrano di saper conservare, valorizzare e promuovere le proprie risorse turistiche senza compromettere l’ambiente, il paesaggio e le esigenze delle comunità ospitanti. L’Ente Parco nazionale dell’Aspromonte ha «voluto fortemente sostenere questa iniziativa, consapevole che il progetto, che prevede il coinvolgimento dei comuni del Parco, possa concorrere a valorizzare le aree aspromontane e ad orientare il sistema territoriale, nelle diverse espressioni che lo caratterizzano, verso il miglioramento dei servizi. La bandiera arancione è un marchio di qualità che, se conferito, come auspichiamo, favorisce e crea una riconoscibilità non solo per i Comuni che ne beneficerebbero, ma anche per quelli limitrofi, la cui “dimensione identitaria” non può non riferirsi ad una logica di sistema in cui i valori, seppur nascenti dalla pianta locale, trascendono da essa per raggiungere l’attenzione di un’area più vasta che li ordina, li ridefinisce e li esalta». Ufficio stampa Ente Parco

Ringrazio per questo chi, ogni mese, regala a in Aspromonte un pezzo del suo cuore, raccogliendo piccoli pezzi di cuore di altri, persi nello spazio e nel tempo, per metterli insieme sotto forma di parole. Chi si adopera in inchieste, ricerche, chi si espone, chi lascia da parte gli impegni per scattare una fotografia, chi nonostante i problemi familiari trova, di notte, il tempo di comporre il suo articolo, di racimolare una pubblicità, chi ci chiama, chi ci corregge, chi si porta

a casa le bozze, chi si tassa per stampare il giornale. Ai miei amici, ai miei lupi, al mio branco, dunque, il merito di quanto ottenuto finora. Io sono nata e cresciuta a Bovalino, un paese di mare. Mi accorgo di quanto ami il mio paese proprio ora che vivo in un altro, e che dal terzo piano (senza ascensore) di una casa in affitto posso ogni giorno guardarlo. Per quest’amore atavico, per mio padre, e per un bovalinese che si chiama Pino Macrì, professionista

serio e puntuale, continuiamo a distribuire nel paese più di mille copie di in Aspromonte. Gratuite. Se mancassero le condizioni di sopra, in realtà, non dovremmo lasciarne neanche una. Ma il metro, e il peso, che ho scelto, mi insegnano a guardare oltre. Oggi questa testata viene valutata, per l’assegnazione di qualche cento euro, tra le domande di sagre e quelle di camminate. Ed è il solo aiuto che abbiamo, del resto. Crediamo che gli

DIFENDI L

«È immensa, bellissima. Quasi sempre protettiva, come una madre. Quasi sempre indifesa, fragile, come una bambina. Questo pensavo di lei, quando da ragazzo cercavo le sue sommità. Di giorno per ammirare la bellezza dei suoi panorami. Di notte, quando non c’era luna, e proprio in questo periodo, per guardare le stelle che cadevano..» UN DISASTRO AMBIENTALE

«Questa cicatrice di ferro e cemento sul cuore dell’Aspromonte è paradigmatica di come il potere reggino sappia a volte essere arrogante e irriverente verso la nostra montagna e verso le sue genti»

Nella foto 1 la diga sul Menta, Comune di Roccaforte del Greco. Nella foto 2 l’arteria in costruzione Bovalino-Bagnara, nei pressi del Comune di Platì. Nella foto 3 ancora la Bovalino-Bagnara, il traforo incompleto nel versante orientale dell’Aspromonte. Nella foto 4 alcuni cassonetti della spazzatura nell’area pic-nic del Monte Perre, Samo (Aspromonte orientale).

di BRUNO CRIACO

«

In quegli anni, la montagna era frequentata da migliaia di persone: pastori, operai, abitanti dei borghi

«

Sono altri gli scempi ambientali a cui tutti ormai stiamo assistendo in modo apatico, lontano

È

immensa, bellissima. Quasi sempre protettiva, come una madre. Quasi sempre indifesa, fragile, come una bambina. Questo pensavo di lei, quando da ragazzo cercavo le sue sommità. Di giorno per ammirare la bellezza dei suoi panorami. Di notte, quando non c’era luna, e proprio in questo periodo, per guardare le stelle che cadevano. Quasi fosse un gioco. In quella solitudine non ero solo. Da li sentivo il suono dei campanacci e il lamento dei cani che saliva dalle vallate e che in quell’oscurità lasciava intuire la presenza dell’uomo. IN QUEGLI ANNI, in effetti, la montagna era ancora frequentata da migliaia di persone; pastori, operai della forestale e abitanti dei vecchi borghi, oggi ormai abbandonati. Li accomunava il rispetto illimitato che ognuno di loro le portava.

Foto 1 E ognuno di loro ogni giorno contribuiva con il proprio lavoro a mantenere o a ripristinare ciò che i loro antenati per essa avevano fatto; i muri a secco, i selciati dei sentieri, le fontane. E sempre loro proteggevano i querceti, i castagni e gli ulivi millenari dagli incendi devastanti. QUELLA GENTE purtroppo non c’è più, o quantomeno la montagna per vari motivi non la frequenta, e la loro mancanza si vede; i sentieri sono quasi tutti interrotti dalla vegetazione o dagli smottamenti, le fontane sono interrate e basta un fiammifero per distruggere intere foreste, per distruggere un mondo. Chi frequenta oggi la montagna, forse non ha lo stesso amore e lo stesso senso di rispetto delle generazioni precedenti. Né se ci va per lavoro, né se ci va per passeggiare. Nei giorni sacri ai “vacanzieri”, in alcuni punti, si


Copertina organi superiori debbano, però, considerare il caso di in Aspromonte come unico (quale è) e prendersi carico di distribuzione e stampa del cartaceo. Senza dare nulla a noi, ma garantendo agli scrittori che ne fanno parte una continuità di stampa che, per ora, è solo una scommessa. Quale attività si avvicina più all’Aspromonte di in Aspromonte? Mi scrivano i colleghi giornalisti che ritengono doveroso obiettare. Verranno pubblicati.

La prima volta che salii su, ad Africo antica, mi spiegarono che per ammazzare un popolo si deve ammazzare la sua cultura, gli individui pensanti. Solo così il popolo potrà essere conquistato. Impoverito. Sfruttato. Feci tesoro di tanta saggezza. Ma oggi, dopo tanto tempo, al popolo è stato dato un centro che accoglie le penne più colte, gli animi che hanno delle storie da raccontare, e dei litigi favolosi, per far chiarezza su un’informazione temuta non com-

inAspromonte Luglio 2014 pleta. Discussioni sul beh, o be’, o bè. Discussioni sulle maiuscole, sulla punteggiatura, sulla posizione degli aggettivi. E tutti, tutti che parlano di Aspromonte. Il nostro popolo rinasce ora. Da questo centro. Ciò ha precedenti? Chiedo, meglio, prego, che Provincia, Regione, Ente parco, Comunità europea si facciano carico del cartaceo garantendo un quindicinale, e delle pagine a colori. Mi insegna, un compagno, che è ne-

cessario “resistere” ed io, pur provenendo da tutt’altra direzione politica, non posso che dargli ragione. Resistere. Anche se il mio paese resta così distante. Resistere. Anche se la stessa Africo resta così distante. Resistere. Anche se né noi, né i nostri autori, saremo mai propheti in questa patria. Resistere. Perché ci saranno sempre gli amici, i lupi, il branco. I lettori, gli scrittori, la montagna.

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E Vincenzo, col suo cane, a ricordarci quale deve essere il metro e il peso per misurare i giorni. Le cose. E a ricordarci che non si può smettere di sperare, di illudersi, altrimenti, in quel punto della statale, ogni giorno, passando, ci dovremmo lasciare il cuore.

LA MONTAGNA Foto 2

concentrano migliaia di persone e alla loro “ritirata”, sul campo, lasciano di tutto. IL SOTTOBOSCO, nei pressi delle strade, è ormai disseminato di sacchetti e contenitori vari in plastica, di bottiglie e ogni altro utensile usa e getta. Un piccolo disastro al quale indubbiamente si può porre rimedio, basterebbero pochi ambientalisti volenterosi. Sono altri gli scempi ambientali ai quali tutti ormai stiamo assistendo in modo apatico, come se non ci riguardassero. In questo “ci” includo tutti coloro che credono di essere affezionati all’Aspromonte e forse ancora non hanno preso coscienza delle conseguenze negative che alcune inutili, o quantomeno evitabili, opere causeranno a breve o lungo termine. Scendendo dalle montagne di Roghudi e di Africo verso il Menta si può osservare una delle opere

più invasive ed inutili che si potevano concepire: la diga sul Menta appunto. Questa cicatrice di ferro e cemento sul cuore dell’Aspromonte è paradigmatica di come il potere reggino sappia a volte essere arrogante e irriverente verso la nostra montagna e verso le sue genti. PER FORTUNA gli ambientalisti riuscirono a far modificare il progetto iniziale, che prevedeva il convogliamento delle acque dei principali affluenti dell’Aposcipo, attraverso una serie di gallerie verso la diga. Se ciò non fosse stato scongiurato, per portare, e forse solo sulla carta, l’acqua a Reggio, tra gli altri danni, si sarebbe aggiunto il prosciugamento di alcune delle cascate più belle dell’Aspromonte orientale. La costruzione della Bovalino-Bagnara, finora ha prodotto solo inutili “buchi” e viadotti sospesi nel vuoto, non conosco la sua

reale necessità, ma temo che sarà l’ennesima incompiuta, l’ennesima violenza alla quale l’Aspromonte è stato sottoposto. La centrale di Saline, la cui costruzione non si capisce ancora se è stata esclusa in modo definitivo, porterebbe le sue ripercussioni negative su buona parte del massiccio montuoso, oltre che per le emissioni di CO2, anche per via delle canalizzazioni che lo interesserebbero. NON SONO PER l’ambientalismo “integralista”, fatto di soli divieti, perché l’Aspromonte ha bisogno della cura della sua gente, che ha però l’obbligo di cercare sempre il giusto equilibrio. E ha l’obbligo di anteporre gli “interessi” della montagna ai suoi. Solo così, difendendolo e proteggendolo come cosa sacra, si potrà perpetuare la sopravvivenza di quello che per noi non è una montagna. È un Mondo.

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Ombre e luci

inAspromonte Luglio 2014

Paolo Rocca insegue il grande sogno americano. Ma qualcosa, sente, lo incatena alla sua terra Acchiappare la luna... quante le speranze, gli ideali realizzati? Acchiappare la luna... da dove, se non sorge nessuna casa su quella collina? Acchiappare la luna... ma come, se il vento della vita, oltre a scompigliare i capelli, fa precipitare anche i sogni? Oh se gli uomini fossero avvezzi alle intemperie della vita come quella grande quercia che, nonostante i fulmini che l’hanno colpita, continua a sfidare il tempo! Acchiappare la luna... potremmo mai? Questo pensava...

I

di GIANNI FAVASULI

l giorno passava lento. A passo di calvario. La pioggia, scrosciante, picchiava sui tetti delle case e scorreva, torbida, lungo le strade. Le mosche, dentro la stanza, volavano senza sosta da una parte all’altra. Paolo Rocca, in quell’uggiosa giornata autunnale, sdraiato sul lettino, si sentiva come lo zerbino che sua madre, due, tre volte la settimana, nell’orto, batteva energicamente con il manico della scopa. Andò con lo sguardo su di una vecchia fotografia posta sopra una mensola. Lui e Francesco Serra, ritratti vicino alla grande quercia, sembravano due scoiattoli in pantaloncini. Un’ondata di malinconia, a quel punto, lo investì in pieno. Chiuse gli occhi e lasciò che le immagini, i fotogrammi in bianco e nero di quel tempo lontano, fluissero dolcemente. Al rallentatore. LA VITA ERA ALLORA una favolosa, spensierata avventura; un dolcissimo, polposo frutto da gustare, avidamente, morso dopo morso. Sino in fondo. Quante corse, a perdifiato, giù dalla collina da dove si scorgeva un panorama stupendo di mare, di cielo, di paesini incastonati tra i monti, di sterminati campi di grano e di lunghe file di agavi che fiancheggiavano la ferrovia. Appollaiato sopra i rami della grande quercia, Paolo godeva del vento che gli spettinava i capelli e ripeteva che da grande si sarebbe fatto costruire la casa su quella collina. Così la sera, affacciato al balcone, sarebbe stato in grado di accarezzare, di acchiappare la luna. Acchiappare la luna... quante le speranze, gli ideali realizzati? Acchiappare la luna... da dove, se non sorge nessuna casa su quella collina? Acchiappare la luna... ma come, se il vento della vita, oltre a scompigliare i capelli, fa precipitare anche i sogni? Oh se gli uomini fossero avvezzi alle intemperie della vita come quella grande quercia che, nonostante i fulmini che l’hanno colpita, continua a sfidare il tempo! Acchiappare la luna... potremmo mai? Questo pensava. Poi, scrollandosi di dosso la polvere dei ricordi, si alzò prontamente dal lettino e ripose dentro la grande valigia le ultime cose. PRIMA DI USCIRE DALLA STANZA, istintivamente, prese quella fotografia e la infilò in una tasca della giacca. Quella sera, come al solito, il diretto per Roma viaggiava con un paio di ore di ritardo. Alla stazione, tra pacchi e valigie di cartone legate con lo spago, regnava un’atmosfera tesa, febbrile. Tipica di tutte le stazioni di questo mondo. Persone tristi e persone sorridenti, vociando, gremivano l’unica sala d’aspetto polverosa e senza panche. C’era chi se la prendeva con il governo che costringeva la gente a lasciare le famiglie e andare a lavorare lontano e chi, invece, con

393/9045353 0964/992014

ACCHIAPPARE

LA LUNA un’espressione meno ingrugnata, aspettava un figlio, un marito che, dopo anni, finalmente, faceva ritorno a casa. Il senso di disperazione, di smarrimento, di solitudine, però, accomunava tutti quanti. Lo si leggeva nei volti di chi partiva e nei volti di chi aspettava. Una donna, addossata ad una parete, lavorava all’uncinetto ed un’altra mollava uno scapaccione al figlioletto che voleva scendere sui binari. Un padre raccomandava al proprio figlio di tenersi alla larga dalle cattive compagnie e dalle donne di malaffare ed un altro, fumando nervosamente, aspettava con impazienza l’arrivo del treno.

IN UN ANGOLO, ROCCO TOSCANO confidava a don Teodoro, il parroco, che lui andava a farsi ricoverare in un centro ortopedico della capitale per essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico. «Reverendo - gli diceva - ho un femore ormai tutto quanto consumato, strudùtu! Mio nipote Ciccio, che lavora in quella struttura, mi ha detto che, a differenza dei nostri ospedali dove non sanno curare neanche un’unghia incarnita, lì fanno miracoli. Mi ha raccontato, giurando sul crocifisso, che ad un tizio i medici hanno innestato, hanno attaccato persino una gamba nuova. Di zecca!». Ma don Teodoro, che per arguzia e prontezza di spirito non era secondo a nessuno, bonariamente, gli ripeteva che le parole del nipote non andavano prese alla lettera, ma andavano valutate con criterio, cum grano salis! Poi, per farlo riflettere meglio, gli rincarò la dose «Bruno, ma tuo nipote Ciccio, non è quello che ha perso una mano in un incidente stradale? Se a quel tizio i medici hanno innestato persino una gamba nuova, perché a lui...». Lo stridore dei freni del treno in arrivo coprì le ultime frasi. A quel punto, le grida di dolore e le grida di gioia si fusero in un unico coro ed i pacchi e le valigie di cartone legate con lo spago di quelli che partivano lasciavano il posto ai pacchi e alle valigie di cartone legate con lo spago di quelli che arrivavano. Il treno, mischiando nuovi volti, nuove storie, con altri volti e con altre storie, accomunava sul binario, negli scompartimenti, tanti uomini dai destini diversi. Poi, dopo un lungo, lacerante fischio, sferragliando, riprese la sua corsa. PAOLO ROCCA, PRESO POSTO in uno scompartimento, tirò fuori una guida turistica della città di Toronto e, dolcemente, prese ad accarezzare il suo sogno americano. Ad un tratto, però, inaspettata, una strana sensazione di tristezza, di velato rimpianto, prese a turbarlo profondamente. Si sporse dal finestrino come per vomitarlo quel senso di fastidio, ma le barche, che sotto un pallido chiarore di luna vide di-

stese sulla spiaggia, furono una stilettata in più per i suoi occhi. Con Teresa, infatti, quando si scambiavano promesse d’amore, erano soliti andare a nascondersi dentro quelle loro grandi, salmastre pance. I volti dei suoi cari, che aveva lasciato in lacrime, gli fecero venire un senso di rimorso, di colpa. Un grande groppo alla gola. Lo distrasse, dai tristi pensieri, un arzillo vecchietto seduto al suo fianco, il quale, senza tanti preamboli, gli chiese dove fosse diretto. «In Canada, a Toronto» gli rispose Paolo, di malavoglia. «A Toronto? Anch’io, anch’io ho un figlio in quella meravigliosa, stupenda metropoli!» gioì il vecchietto. Con i lucciconi agli occhi. «Ci siete stato? La conoscete?» gli domandò, distrattamente, Paolo. «No! Il naso fuori dalla nostra terra io non l’ho mai messo. Però mio figlio mi ha detto che Toronto è molto più grande di Reggio e di Messina messe insieme! Mi manda anche delle fotografie. L’ultima volta mi ha mandato una dove lui e la sua famiglia sono ritratti vicino alle cascate del... del... accidenti! Come c... le chiamano?» «Niagara» lo aiutò Paolo. «Sì! Quelle, quelle! Vedeste quanti sbuffi d’acqua!». Poi, dopo essersi asciugato con il dorso delle mani le lacrime, riprese: «Noi quelle belle macchine lunghe otto metri, quei bei grattacieli, quelle strade larghissime che chissà per quale motivo chiamano strette, ce li sogniamo! Gli americani l’hanno vinta la guerra! Eh già! Solo chi vince la guerra può permettersi certi lussi, certi...» «Giusto! Solo chi vince la guerra può permettersi certi lussi. Noi, invece, che la guerra l’abbiamo persa, dobbiamo accontentarci di viaggiare su questi stramaledetti treni lumaca con i sedili di legno. Stipati come delle bestie!» lo interruppe, a quel punto, un altro signore che leggeva una rivista. ALL’AEROPORTO DI ROMA, il giorno appresso, regnava un’atmosfera quasi ovattata, molto più composta di quella di una stazione ferroviaria. Il dindon che preannunciava gli arrivi e le partenze dei voli e il brusio della gente, infatti, non avevano niente del lancinante fischio di un treno e delle grida disperate che si lanciano da sopra e da sotto i suoi finestrini. L’aereo, con un rombo assordante, prese una lunga rincorsa prima di trafiggere il cielo, prima di aprirsi, tra le nuvole, una strada. Paolo Rocca tirò fuori di nuovo la guida turistica della città di Toronto e, dolcemente, riprese ad accarezzare il suo sogno americano. Istintivamente, poi, prese dalla tasca quella cara, vecchia fotografia e, dopo averla baciata a lungo, la inserì, la chiuse tra quelle pagine. Tra la Eglinton Ave W. e la St Clair Ave E. Acchiappare la luna... chissà?! Chiuse gli occhi e si addormentò.


Ombre e luci

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L’altra faccia della montagna raccontata da un luogotenente dell’Arma dei Carabinieri

«Mi chiamo Gianluca»

La sera di quel dicembre venne qualcuno e mi disse che avevano fatto del male a Ferdinando. Io accorsi subito e lo vidi per terra, era devastato dai proiettili. Gli avevano voluto dare una punizione esemplare, non si erano limitati a dargli qualche colpo di pistola

I

di COSIMO SFRAMELI

“Sparisci”. Sempre con l’aria da n Calabria si diventa ‘ndran‘NDRANGHETISTI PER: duro gli ho detto “Vai via prima ghetista per generazione, per che cambi idea”. Però devo dire casato, per discendenza, per GENERAZIONE, ESIGENZA che per la prima volta stavo essere nato in una famiglia di bene, perché per la prima volta mafiosi. Il figlio di un mafioso è O INGENUITÁ ho imparato a rispettare la mia solitamente un mafioso e lo è «QUESTE LE TRE VARIETÁ DI idea e non quella degli altri. sin dalle prime classi elementari. Qualcuno diceva che doveva Si diventa mafiosi anche per esi- MAFIOSI CHE UNITE E FUSE morire quel ragazzo, invece io genza, in mancanza di lavoro, INSIEME FORMANO ho deciso che non doveva moper l’assoluta impossibilità, a L’ONORATA SOCIETÁ, ATTIVA E rire ma che doveva vivere. Reggio e nella sua provincia, di Ferdinando era un ragazzo che avere di fronte uno Stato che ri- MILITANTE. ESSA FUNZIONA era cresciuto con me, un rasponda nei modi essenziali alle REGOLARMENTE CON UN gazzo che non ha mai avuto l’opesigenze di vita di un giovane. portunità di capire che cosa Il più raro ed il meno dannoso è MECCANISMO CHE SI fosse una famiglia, che cosa pochi diventa mafioso per inge- MODIFICA E SI PERFEZIONA teva dare una famiglia. nuità. Sono queste le tre varietà SEMPRE. PROPRIO PER Lui aveva 4 anni più di me per di mafiosi che unite e fuse incui, ora che ne ho 27, lui ne sieme formano l’Onorata So- QUESTE CONSIDERAZIONI, avrebbe avuto 31, solo che ora cietà, attiva e militante. QUALE DOCUMENTO A non c’è più. La sera di quel diEssa funziona regolarmente con cembre venne qualcuno e mi un meccanismo che si modifica DRAMMATICA e si perfeziona sempre. Proprio TESTIMONIANZA, L’INTERVISTA disse che avevano fatto del male a Ferdinando. Io accorsi subito e per queste considerazioni, e con AD UN RAGAZZO RECLUTATO lo vidi per terra, era devastato riferimento ai territori dove la dai proiettili. Gli avevano voluto crisi e la disoccupazione rag- DALLA ‘NDRANGHETA» dare una punizione esemplare: giunge livelli assai alti si tranon si erano limitati a dargli qualche colpo di pistola nei scrive, quale documento e drammatica testimonianza, punti mortali, ma lo trucidarono nel vero senso della pal’intervista ad un ragazzo reclutato dalla ‘ndrangheta che rola. Poi, quando ormai era tutto finito e venne il furgone ha avuto comunque il coraggio di riconquistare la propria dell’obitorio per prelevare il corpo, mi feci dare il lenzuolo libertà, dissociandosi dall’organizzazione criminale di cui con cui era coperto. Tagliai questo lenzuolo dove c’era il ha fatto parte. sangue e lo stringevo forte nelle mani, poi l’ho messo in Sono gli unici segni con su scritto: “Chiudi con gli sbirri fibocca e l’ho masticato. Come per dire: “Ti giuro che ti vensici del passato”, nel mostrare tatuaggi e qualche cicatrice dico, in qualche modo lo faccio”. Solo che quella sera mi evidente. Gianluca dà l’impressione di uno che in qualche arrestarono perché io il giorno prima ho ferito quel ramodo vive. gazzo di cui parlavo”». «RESPIRO, L’IMPORTANTE É QUESTO, cioè spero... «FINII IN CARCERE DOVE APPUNTO, per due anni e Qualcuno dice in questi casi quali sono i tuoi sogni nel mezzo, covavo questa intenzione di uscire ed ammazzare cassetto io risponderei: ho un cassetto pieno di sogni. Mio tutti. padre era un fetente. Da piccolo mi picchiava sempre. Mio Poi, quando sono arrivato al termine della mia carcerapadre mi ha lasciato solo questo ricordo, nel senso che zione in prossimità della libertà, mi mancava qualche non faceva altro che fare violenza su di me e su mia mese, ho pensato che era inutile spargere altro sangue, madre. Quando avevo 6 o 7 anni, tornava a casa ubriaco che mi sarei dimostrato soltanto come loro e, anche se ed erano giù botte e quando io sentivo che stava tornando l’avessi fatto per una causa giusta, non avrei fatto altro a casa, pensavo a dove mi potevo nascondere, perché che dimostrarmi ancora come loro, nonostante il mio camquando sentivo i passi di rientro avevo il terrore. biamento, per cui pensavo che la cosa più giusta da fare Mi chiamo Gianluca, ho 27 anni, sono nato a Milano e era quella di collaborare. vivo a Roma per motivi di incolumità, logicamente. EraDovevo stare chiuso in appartamento, uscire 3-4 ore al vamo dei ragazzi dai 16 ai 23 anni. Il mio compito all’ingiorno giusto per le piccole necessità e basta; essere a terno di questa batteria era tutto fare. Ero un po’ un jolly. completa disposizione di eventuali interrogatori che poteA volte trafficavo con le armi, a volte con i carichi di eroina, vano ancora servire. Di fronte a tutto questo per un po’ ho con la moto mi organizzavo... per fare il ritiro dell’eroina resistito, però poi sono arrivato al punto di tirare qualche bisognava far saltare qualche negozio, a volte bisognava capocciata contro il muro. Per questo mi è stato revocato intimidire qualcuno che non voleva pagare le estorsioni, il programma con una nota del tipo “incompatibile con il per cui si andava là di notte. codice comportamentale” proprio mentre era arrivato il Al giorno io guadagnavo sui 3-4 milioni, poi comunque a momento in cui dovevo essere protetto perché “dovevo fine mese c’era la mia paga che era di 70-80 milioni. Mi rientrare in aula a fare dei processi”». rendevo conto che potevo comprarmi qualsiasi cosa. Non so, passavo davanti a una vetrina, vedevo una Delta Evo«COMUNQUE, IO, IN QUEI MOMENTI potevo rientrare luzione che costava 60.000.000 di lire, me la compravo. in aula e avvalermi del 513... dicendo “Siccome sono Frequentavamo saloni di bellezza. Tutto ciò che frequenstato scaricato, signori miei, a me non interessa, non se tava un industriale. A volte io evadevo da questo gruppo, ne fa più niente”. Potevo farlo benissimo, anche perché me ne andavo in giro per i cavoli miei, andavo a farmi un avevo una motivazione valida per farlo. giro in centro. Quando magari vedevo un ragazzo o una Ho dovuto scegliere, ho fatto una guerra da solo con un ragazza “regolari” che si facevano una passeggiata, che unico obiettivo: di distruggere quello che non ha senso. si tenevano per mano, che si fermavano davanti ad una Io di questo mi sento fiero perche è l’unica cosa di buono vetrina, io li guardavo, mi rendevo conto di quanto fosse che ho fatto nella mia vita. Ho fatto tante minchiate, però una ragazza giusta quella, completamente diversa da me. so che questo non me lo può togliere nessuno. Anche se Ed io pensavo: chissà, se un giorno mi dovessi innamodomani dovessero riuscire a farmi la pelle. Mi possono rare di una ragazza così che cosa le potrei raccontare, ammazzare fisicamente, però quello che ho dentro non che cosa le potrei dire». me lo può togliere nessuno e son sicuro che non avranno vinto comunque, perché qua non ci sono né vincitori né «LA COSA PIÚ GRAVE CHE HO FATTO è stata di ferire sconfitti». un ragazzo... sparare ad un ragazzo, l’ho gambizzato, gli Ma ciò non basta a far uscire dalle case gente ormai sfiho sparato alle gambe. Secondo delle leggi ben precise, duciata, rassegnata, impaurita. Sull’uscio dei bar molti uoin verità, lo meritava di essere ucciso. Io ero andato lì per mini sorridono sarcastici. Non è così che si può battere la quello, solo che, al momento di farlo, di tirargli il colpo di mafia. La questione morale per fortuna è in cima alle esigrazia, non me la sono sentita. In un momento ho capito genze, indispensabile per risanare la Calabria. che avevo sbagliato tutto, tutto, tutto. Infatti gli ho detto:

IL PRIMO PENTITO

A

cavallo tra gli anni 1983 e 1984, Giuseppe Scriva rilasciò al Pubblico Ministero e al Giudice Istruttore di Palmi lunghe a articolate dichiarazioni, fornendo una minuziosa descrizione della ‘ndrangheta, da lui definita “setta segreta a struttura gerarchica con riti e regole particolari da rispettare”, radicata in Calabria e “suddivisa per territorio e precisamente per Comune”, con estesi collegamenti in tutto il territorio nazionale e all’estero. Giuseppe Scriva (nella foto) diventava così il primo pentito di ‘ndrangheta e permetteva di penetrare nell’universo mafioso passando dalla porta principale. Così la ‘ndrangheta veniva “spiegata” da un suo esponente che, tra l’altro, ricopriva un ruolo prestigioso all’interno dell’organizzazione [...]. Tra le regole fondamentali: - l’obbligo tassativo di dar ricetto ai latitanti; - il divieto assoluto di testimoniare contro l’imputato; - l’obbligo di non costituirsi parte civile; - l’obbligo di vendicare le offese ricevute, uccidendo eventualmente l’offensore, senza ricorrere all’autorità giudiziaria; - l’obbligo di uccidere la moglie, la sorella e la cognata nell’ipotesi di infedeltà coniugale; - l’obbligo di vivere di sgarro, cioè imponendo mazzette, guardianie abusive e altro. tratto dal libro sotto

A ‘NDRANGHETA Evoluzione e forme di contrasto il nuovo libro di Cosimo Sframeli e Francesca Parisi, Ed. Falzea (2014)


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Aspromonte orientale

inAspromonte Luglio 2014

Platì. Rocco è in viaggio verso arretumarina, ma con sua grande sorpresa si imbatte in una grotta

'U trisoru d'u Briganti

L’immagine è tratta dal libro Michelino e il tesoro dei briganti di Pino Creanza

A

di MIMMO CATANZARITI

nche quella mattina, come gli altri giorni di quel tiepido mese di aprile, Rocco, bardato il mulo e caricata la roba da portare dall’altro lato del versante tirrenico dell’Aspromonte, si apprestava ad avviarsi verso arretumarina, come comunemente veniva chiamata la zona della Piana. Lasciato l’abitato di Platì, l’animale partì di buon passo percorrendo la ‘nsalicata verso la località chiamata “Palumbo”, lungo la mulattiera che, fatta con pietre accostate tra di loro, saliva verso ‘u passu i Sava. La giornata si preannunciava serena, la stagione primaverile appena cominciata era un rigoglio di germogli e di fiori profumati. Ai margini del sentiero gli arbusti di biancospino, la rosa selvatica, l’agrifoglio e le ginestre emanavano il loro profumo inconfondibile, con le loro splendide fioriture che facevano da cornice al verde dei pascoli della montagna circostante. COSTEGGIARONO LA FIUMARA ed entrarono in quella parte di montagna chiamata Piani di Alati, attraversando fitti boschi di faggio, per arrivare fino all’altipiano dell’Aria del Vento: in quell’area montana, infatti, spirava sempre un forte vento e i contadini, dopo la mietitura, vi portavano il grano legato in manipoli che affastellavano in covoni, detti jermiti (dal latino merges). Poi, dopo averlo arrotolato, lo “frullavano” nei pressi di un’aria (aia) posta generalmente su un’altura, dove veniva pestato e voriatu, allo stesso modo dei fagioli, delle lenticchie, dei piselli, delle fave, dei ceci e della cicerchia: i cereali che, nella dieta dei poveri, sostituivano la carne. Rocco saliva attaccato alla coda del mulo fischiettando e cantando, quando notò con la coda dell’occhio un movimento improvviso lungo il sentiero che lo mise in allerta. La sagoma inconfondibile di una persona si stagliava nella penombra dei lecci che costeggiavano la mulattiera. La persona in questione si era fermata a ridosso di un grande masso. «Bongiorno e salute!» esordì lo sconosciuto. «Salute anche a voi!» rispose Rocco, sorpreso da quell’incontro inaspettato a quell’ora del mattino e in quel posto insolito. L’uomo indossava dei pantaloni

di fustagno nero, degli stivali che gli arrivavano fin sopra i ginocchi e, sotto una giacca di velluto scuro, si intravedeva una bianca camicia di buona fattura. A tracolla portava una doppietta e lungo la vita una cartucciera che serviva anche da cintura per i pantaloni. Una vertula, posata sopra un masso, conteneva roba da mangiare e, probabilmente, anche qualche capo di biancheria di ricambio. Si presentò come amico di un compaesano di Rocco che aveva conosciuto molti anni prima nel carcere di Gerace. L’uomo poi, per una malattia contratta nella cella umida e malsana, aveva trovato la morte in quella tetra galera. RACCONTÓ DI COME il vecchio compaesano, di cui Rocco aveva sentito parlare da suo padre molti anni prima, gli avesse tanto parlato del posto in cui era vissuto negli anni in cui faceva parte della banda di don Ferdinando Mittiga, il brigante. Prima che l’uomo morisse, gli aveva indicato il posto dove aveva passato il lungo periodo della latitanza. Per cui, lui, mosso dalla curiosità, gli chiese dove fosse ubicato. Adesso, chiedeva a Rocco, se fosse sulla strada giusta per arrivarci. Gli raccontò con dovizia di particolari il posto che gli aveva descritto il vecchio brigante: una piccola insenatura lungo il bordo della “Rocca della Strega”. Antro che al brigante era servito da riparo, prima che fosse catturato dai carabinieri. Rocco sulle prime gli stava per indicare il percorso da seguire per raggiungere il posto in questione, ma insospettito dal racconto dell’uomo, e non credendo che fosse solo la curiosità ad interessarlo, ma ricordando le storie del tesoro dei briganti nascosto proprio in quelle montagne di cui si raccontava nei freddi inverni davanti al fuoco dei bracieri, lo indirizzò in tutt’altra direzione, che lo avrebbe portato lontano da dove doveva recarsi, dove magari si sarebbe addirittura perso o rotto l’osso del collo nei precipizi circostanti. Si salutarono e si avviarono per direzioni diverse, il forestiero verso una destinazione diversa da quella sperata, e Rocco verso la sua nuova destinazione: la Rocca della Strega. Si avvicinò quanto più possibile con il mulo, lo legò ad una quercia vicino ad una sorgente d’acqua fresca, e si avviò di buon passo verso

di BRUNO S. LUCISANO

FICTION?

No, è tutto vero!

L

la pietraia che si scorgeva a picco sulla vallata circostante. Conosceva poco anche lui quella parte di montagna, accessibile soltanto a piedi ben allenati come quelli delle capre che saltano tra le rocce come gli stambecchi saltano sulle Alpi. NON SI SCORAGGIÓ e, arrivato sul lastrone della Rocca della Strega, iniziò la discesa quasi a perpendicolo lungo il costone descritto dal forestiero. Molte volte rischiò di cadere scendendo e costeggiando il bordo, ma a metà della rocca, quasi nascosta dai cespugli di erica arborea, che quasi ostruivano l’ingresso, ecco apparire i contorni di una piccola grotta. A fatica si creò un passaggio e si inoltrò in quell’antro umido e semibuio dove anche i rovi crescevano rigogliosi, nascondendo buona parte dello spazio che si intravedeva all’interno della grotta. La prima cosa che notò furono due assi, destinate sicuramente ad uso di giaciglio per dormire, appoggiate orizzontalmente su delle pietre, e sotto di esse notò un pentolino di creta, un pignatu, che si usava per cuocere i cereali. Si fece largo tra i rovi e prese il contenitore che svuotò per terra. Grande fu la sua sorpresa quando vide che erano fuoriusciti molti pezzi da 20 e da 40 lire in monete d’oro. Raccolse tutto quel ben di Dio, non senza prima aver controllato per bene che non ci fossero altre cose di valore all’interno della grotta. Trovò soltanto la lama di un coltellaccio, senza manico, corrosa dal tempo e dalla ruggine insieme ad altri contenitori che erano serviti a cucinare o a conservare derrate alimentari. Non si accorse che, inavvertitamente, il trambusto provocato dalla ricerca aveva svegliato dal torpore un nido di vipere che avevano trovato rifugio in quella grotta e che inaspettatamente aggredirono mordendo più volte il povero Rocco. Il veleno gli arrivò al cervello e lui cadde all’ingresso della grotta, ultima sua dimora. Il suo mulo venne ritrovato che vagava in quei pressi, da un pastore che cercava delle capre disperse dal gregge. Del corpo di Rocco non si seppe più niente. Taluni pensarono che fosse stato ucciso e sotterrato da qualcuno con cui aveva avuto da dire, altri pensarono che fosse caduto in un burrone e sbranato dai cinghiali, che infestavano la zona.

a sabbia, ancora bagnata dalla pioggia notturna, accoglieva i primi raggi del sole, che lento affiorava all’orizzonte. Sul nero della lunga notte, si allargava il giorno e cominciavano a distribuirsi colori che sbalordivano gli occhi. Non si sentiva il rumore del mare, immobile e piatto, quieto, per non infastidire lo spettacolo al quale stava assistendo. Mauro, affacciato alla porta del capanno in cui aveva trascorso la notte, si godeva ammirato questa meraviglia, quando di colpo, un’auto con i fari accesi si fermò sul ciglio della strada sopra di lui, all’uscita della galleria. Due uomini con un grosso sacco nero si avvicinarono al guardavia e lanciarono giù nel burrone un enorme sacco nero. Dopo essersi guardati attorno, risalirono in macchina e ripartirono rapidamente. Il tonfo sordo del sacco, che sbatteva sulla spiaggia, svegliò Gianna che aveva trascorso la notte assieme a Mauro nella vecchia capanna estiva. «Cos’è successo?» chiese Gianna. «Vieni, andiamo a vedere» rispose Mauro. Il sacco ridotto a brandelli era rimasto attaccato a una pietra e lì, un poco più avanti, il corpo stracciato di un uomo. Mauro si avvicinò piano, mentre Gianna, piegata sulle ginocchia, iniziò a singhiozzare per la paura. L’uomo, a pancia in su, aveva un grande foro sulla

fronte, certamente causato da un proiettile d’arma da fuoco. Mauro, dopo aver cercato di calmare Gianna che continuava a singhiozzare, prese il telefonino e compose il numero della polizia. La spiaggia da lì a poco si riempì di curiosi, giornalisti e, appunto, poliziotti. Infermieri e medici dell’ambulanza stavano scendendo a piedi il viottolo che portava al mare. Dopo i primi rilievi, si stabilì con certezza che l’uomo era stato ucciso da un’altra parte e gettato lì, tra le rocce a strapiombo sul mare. Il giorno dopo, giornali e tv riportarono la notizia, con grande risalto e con foto in primo piano dell’uomo ucciso e del luogo della tragedia. Il racconto si ferma qui e qui finisce. Immaginate ora di aver visto le scene descritte qui sopra in un telefilm in tv. Avete immaginato? Ora vi pongo una domanda, secondo voi, il giorno dopo, cosa ricorderete del telefilm: il panorama o il buco in mezzo alla fronte? Io continuo a credere, sperando davvero di sbagliare, che se si vede un uomo ammazzato, con una pallottola in testa, nel più bel panorama del mondo, non si fa pubblicità al panorama ma alla pistola che ha sparato. Spero di sbagliarmi, non sarebbe la prima volta.


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Sant’ Agata, Caraffa, Casignana. Quando perdemmo quel nostro Nuovo Cinema Paradiso...

UN SET PER TIBI E TASCIA

Molto prima del successo di Tornatore, la RAI scelse l’Aspromonte e il libro di Strati per investire su una produzione cinematografica. Fu inviato, a visitare i posti, il regista Dorigo di DOMENICO STRANIERI

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Eppure, in Aspromonte, un decennio prima del 1988, potevamo avere il nostro film

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Nel 1977, per le vie di S. Agata, camminavano uno scrittore, un regista e i loro assistenti Nella foto in alto a sinistra “Le sette fontane” di Caraffa, uno dei luoghi scelti per girare delle scene del film. Nella foto in alto a destra la casa di Saverio Strati. Tutte le foto sono di Domenico Stranieri. Nel disegno (creato da D. Stranieri), bambini di Sant’Agata che giocano nella piazzuola della “ruga randi”, a Sant’Agata del Bianco

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Vattinni, chista è terra maligna! Fino a quando ci stai tutti i giorni ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno, due, e quando torni è cambiato tutto. Si rompe il filo. Non trovi chi volevi trovare, le tue cose non ci sono più. Bisogna andare via per molto tempo, per moltissimi anni, per ritrovare, al ritorno, la tua gente, la terra unni si nato». Con queste parole, nel capolavoro di Giuseppe Tornatore del 1988, Nuovo Cinema Paradiso, l’anziano e cieco ex proiezionista Alfredo consigliava al giovane Totò di andarsene dalla Sicilia. Un tema, quello della fuga nella speranza di un futuro migliore, che ripercorre tutta la storia del Sud Italia e della sua letteratura. Eppure, in Aspromonte, un decennio prima del 1988, potevamo avere il nostro Nuovo Cinema Paradiso. Ma la progettazione del film fu sospesa per futili motivi economici. Nel 1977, difatti, per le vie di Sant’Agata del Bianco camminavano uno scrittore ed un regista accompagnati dai loro assistenti. Visionavano posti, vie ancora inalterate dal futuro “partito del cemento”, sorgenti d’ac-

qua e paesaggi. Registravano luoghi da collegare a possibili scene. Lo scrittore in questione era Saverio Strati, nato proprio a Sant’Agata del Bianco nel 1924, mentre il regista era Angelo Dorigo che, tra i suoi tanti lavori, aveva avuto un buon successo nella direzione di Amore e guai, interpretato da Valentina Cortese e Marcello Mastroianni.

LA “RUGA RANDI” La piazzuola dove i ragazzi giocavano con le nocciole doveva essere la stessa immaginata da Strati mentre ne elaborava le pagine La pellicola doveva essere una produzione della RAI che, dopo la conquista del premio Campiello da parte di Strati, aveva deciso di girare un film tratto dal libro Tibi e Tàscia. Ovvero la storia di due ragazzi (Tiberio e Teresa) che, quando non svolgevano un lavoro, giocavano

liberamente negli spazi aperti della loro realtà sognata. Poichè, come scrisse Geno Pampaloni, l’alternativa alla cruda esistenza del paese non era la giustizia, ma l’evasione. Tutta la narrazione, pertanto, è contrassegnata dall’avvicendarsi di fantasie, desideri di fuga ed esperienze dolorose. Tibi, alla fine, riuscirà ad andare via mentre Tàscia resterà sola, con la consapevolezza di dover vivere, per sempre, nella misera ristrettezza di un mondo chiuso. Una consapevolezza, questa, ben espressa da Pasquino Crupi che, a tal proposito, evidenziava: «Nelle verdi e sazie campagne del Mezzogiorno gli uomini non ebbero mai età: nacquero adulti. Non esistono fanciulli, ossia esseri umani lontani dalla fatica». Ecco perché Tàscia si troverà in piazza, con gli altri ragazzi, ad assistere alla partenza di Tibi. «Oh come gridava ora la macchina, - si legge alla fine del romanzo - si muoveva, correva, alzava una nuvola di polvere e portava Tibi chi sa dove, chi sa in quale mondo straordinario e tutti rimanevano lì, a guardare, e lei, Tàscia, si sentiva serrare la gola dai singhiozzi, si sentiva la bocca più amara del fiele». Come dicevamo prima, dunque, Strati e Dorigo avevano individuato i luoghi per tramutare in immagini questo libro del 1959. La piazzuola dove i ragazzi giocavano con le nocciole doveva essere la stessa immaginata da Strati mentre elaborava la sue pagine: nella “ruga randi” di Sant’Agata, proprio di fronte la sua casa. Dorigo, poi, aveva visitato il centro storico di Casignana e le “sette fontane” di Caraffa del Bianco per rappresentare, esattamente, i diversi momenti di vita quotidiana. Egli era affascinato dai nostri paesi, tanto che ripeteva: «il futuro è in questi borghi, sono intatti». Ma non solo. Pure i protagonisti del film dovevano essere del posto. Lo scrittore ed il regista, quindi, si recarono presso la locale scuola elementare per selezionare i giovani attori. Qual-

cuno ricorda che, per parecchi minuti, lo sguardo di Strati fu come catturato dai disegni degli alunni esposti in una parete. «Qui ci sono dei veri talenti!» esclamò quasi ad alta voce. Pochi giorni dopo, l’equipe che doveva occuparsi della realizzazione dell’opera cinematografica rientrò a Roma ma, per delle banali difficoltà finanziarie, la pellicola non venne

A CASIGNANA Dorigo aveva visitato il suo centro storico ed era affascinato dai nostri paesi, tanto che ripeteva: «il futuro è in questi borghi, sono intatti» mai girata. Sembrava tutto pronto, ogni cosa era stata valutata con attenzione, ma niente. Il progetto sfumò e non se ne parlò più. Certo, noi da soli potevamo fare ben poco, non eravamo in grado di dare un seguito a quell’idea, di liberarci dalle nostre trappole mentali. E non avevamo nemmeno voglia di preservare le forme di quel mondo passato. Oggi però, di colpo, ci accorgiamo di aver perso definitivamente il nostro Nuovo Cinema Paradiso. Del paese ammirato da Dorigo non rimane quasi traccia, così come dei due splendidi palazzi nobiliari che poteva vantare la piazza di Sant’Agata. Ed a ragionarci bene in quella piazza arrivava ogni estate un personaggio molto simile all’Alfredo delineato da Tornatore. Si chiamava Carlo Rossi, attaccava i manifesti colorati con i film che avrebbe proiettato nel suo cinematografo estivo e andava a parlare alla gente con il tono confidenziale e scherzoso che lo caratterizzava. Ma questa è una storia nella storia, che racconteremo un’altra volta, in ritardo come sempre.


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Aspromonte greco

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Catu Chorìu

TERZA PARTE

di Salvino Nucera

Vide un gruppetto di uomini che si dirigevano verso di lui. Li aveva incuriositi quel suo aspetto giovanile, aitante, distinto, il fatto di essere ben vestito e di avere un paio di grossi baffi neri, impertinenti

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GLI EMIGRANTI DI FRANCESCO PERRI

«

Cosa volete che vi dica? Io quando sono qui vorrei essere in America, e quando ero in America tutte le notti sognavo la mia casa. Questa terra bruciata ci perseguita e non ci lascia dormire fino in capo al mondo. Cosa avevo lasciato qui io? miseria! eppure queste brutte strade sporche, queste case, questi orti li avevo sempre davanti agli occhi. Mangiavo maccheroni e bevevo birra, e intanto pensavo alla bottega di Porzia Papandrea. Mi pareva che senza di me l’odore dello stoccafisso andasse perduto. Quando ero a Billesbille [Illesville] dormivo in una baracca, e siccome facevo il reboia mi alzavo un po’ più tardi la mattina. Quando mi svegliavo e mi guardavo intorno, e non vedevo che quelle pareti di tavole affumicate, e non udivo che il brontolare e lo scalpiccìo degli uomini che andavano al lavoro, o rissavano davanti al lavatoio, mi veniva da piangere come un bambino. Mi ricordavo del tempo in cui dormivo nella mia vigna, a Mirto, sopra un letto di ginestre [...]. Ah! vi dico ch’è una cosa seria dimenticarlo questo paese!» (Emigranti, F. Perri).

allito ogni tentativo, ogni strategia, messi in atto da don Sarvo Scialàta nei vari scenari prescelti per evitare di convolare a nozze con la cugina in primo grado Bettina, promessa sposa per impegno d’onore e volontà del padre don Agostino, Sarvu fu costretto a prendere una decisione drastica, radicale, dolorosa per uno come lui. Decisione che lo avrebbe condotto oltreoceano, negli Stati Uniti d’America, a seguire i flussi migratori nazionali di fine Ottocento. A seguirli pur non conoscendo una parola della lingua parlata nel nuovo Mondo, e a doversi abituare all’alimentazione diversa, al clima diverso, alle abitudini nuove. La sua vita gaudente di libertino l’avrebbe ritrovata? Oppure l’avrebbe cambiata completamente? Ma pur di evitare quell’esecrato matrimonio combinato, avrebbe cambiato dalle radici la sua vita: abitudini, amicizie, alimentazione. E il dover lavorare.

La storia (a puntate) di Salvatore, un giovanotto ribelle

bituarsi al lavoro, lui che non aveva mai lavorato in vita sua! Ma l’idea del cambiamento fu più forte di tutto ciò. Maturò a lungo dentro di sé questa dolorosa e per lui inevitabile decisione. Non informò nessuno del suo progetto; forse solo il fratello Francesco, studente di teologia a Napoli, prossimo sacerdote, il quale tentò inutilmente di fargli cambiare decisione. Francesco mantenne comunque il proposito segreto che, se fosse stato svelato, avrebbe mandato all’aria i piani di don Sarvo. Si comportò come fosse già prete nel segreto della confessione. In più voleva molto bene al fratello, comprese il suo dramma interiore. E non lo tradì. Così, un bel giorno di maggio, racimolata la maggior somma possibile di danaro, non solo per il viaggio, ma anche per affrontare le prime necessità, vitto e alloggio del tempo necessario per incominciare a guadagnare, Sarvu si imbarcò su un bastimento nel porto di Messina. Durante tutto il lungo viaggio ricevette sistematicamente terribili pugni allo stomaco.

di bere. Cominciò a provare sintomi di pentimento per la sua esistenziale decisione. Dopo un tempo che sembrò un’eternità il bastimento attraccò nel porto di New York. Lo sbarco era uno spettacolo indescrivibile: tanti andavano ad accogliere i parenti, gli amici, i faccendieri. Questo aumentava ulteriormente il disagio di Sarvu, e il pentimento si insinuava feroce nella mente. Non sapeva cosa fare. Ad un certo punto vide un gruppetto di uomini che, insieme, si dirigevano verso di lui. Li aveva incuriositi quel suo aspetto giovanile, aitante, distinto, il fatto di essere ben vestito e di avere un paio di grossi baffi neri, impertinenti, e due occhi nocciola, intelligenti. Li colpì anche il suo spaesamento.

A L

o scenario che gli si presentò sotto gli occhi, in ogni momento, fu raccapricciante. Uomini e donne dai volti tristi, rigati da fiumi di lacrime, gli occhi gonfi dai lunghi pianti, vestiti alla meno peggio. In mezzo alle poche, misere cose che i viaggiatori si portavano dietro ci stavano esigue quantità di pane raffermo (frise, biscotti) e companatico che dovevano bastare per l’intero tragitto; da consumare solo quando i morsi della fame si rendevano insopportabili. Companatico asciutto o frutta secca. Formaggi, qualche salume, olive, castagne infornate, fichi secchi, pere secche infornate, lupini, noci, mandorle. Anche nonno Scialàta aveva portato con sé alcune cose. Formaggi, ricotte salate, un capicollo, soppressate, dei biscotti, qualche bottiglia di vino, lui che era un grande bevitore. Ma in mezzo a quella desolazione si vergognava di mangiare e

SARVU SCIALÁTA Fuga in America

La dolorosa partenza oltreoceano per sfuggire a Bettina

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iorni dopo avrebbe saputo che quelli erano rappresentanti (affiliati) della “Mano Nera”. Gli venne educatamente chiesto se avesse dei parenti da attendere, quali fossero i motivi che lo avevano spinto a intraprendere il viaggio, e se potevano aiutarlo in qualcosa. Sarvu rispose che era venuto in America per iniziare una nuova vita, alla ricerca di nuove avventure; sul momento avrebbe avuto bisogno di un luogo dove trascorrere la notte e successivamente cercare e trovare un lavoro, imparando un’attività che gli consentisse di mantenersi potendo pagare vitto e alloggio. Alla richiesta di quali lavori avesse svolto in precedenza rispose che non aveva mai lavorato in vita sua poiché il padre era un facoltoso proprietario terriero e ciò gli aveva consentito di condurre una vita libertina di divertimento. L’unico impegno che gli aveva affidato il severo padre era stato di recarsi, di tanto in tanto, nelle varie proprietà a controllare coloni e pastori. Ogni qualvolta vi si recava lo attendevano grandi accoglienze. Erano festeggiamenti prolungati: grandi mangiate e grandi bevute, fino a notte fonda. Tutto questo non era affatto gradito a don Ago-

stino poiché i festeggiamenti distoglievano dal lavoro i dipendenti. Per tale motivo non lo costringeva minimamente a svolgere il compito assegnatogli. Gli affiliati gli trovarono, non molto distante dal luogo dello sbarco, un alloggio decoroso per la notte nella dignitosa casetta di un altro immigrato che, con grandi sacrifici, era riuscito a comprarsela.

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n grande, fortunoso regalo al confronto di ciò che era toccato a tutti gli altri poveri compagni di viaggio, di avventura ammassati come bestie in misere, luride baracche. In merito allo svolgimento di un’attività lavorativa gli era stato promesso che avrebbero fatto di tutto per trovargliene una adeguata alle sue esigenze. Li ringraziò, li salutò. Aveva bisogno di riposarsi, di stare da solo, di riflettere sul suo nuovo stato, di programmare il suo futuro imminente. Trascorse la notte in bianco tenendo accesa, ininterrottamente la pipa alimentata con tabacco di proprietà mentre la stanzetta diventava sempre più nera di fumo. Non chiuse occhio neanche per un momento. Era appena albeggiato quando tre sconosciuti bussarono alla porta dell’abitazione. Il proprietario li fece entrare e li condusse da Scialàta che era rimasto, vestito, sdraiato sul letto. Stordito per il mancato riposo e per i tanti pensieri che durante il corso della notte gli erano frullati in testa, si alzò in piedi e accolse i tre uomini, vestiti distintamente, che si presentarono come “compaesani”. Gli comunicarono che erano a conoscenza dell’incontro avuto la sera precedente con gli altri connazionali ed aggiunsero che la loro società (organizzazione), la “Mano Nera”, si occupava della sistemazione lavorativa, ma anche di alloggiamento, se necessario. Aggiunsero che per lui, se lo avesse trovato confacente, c’era già un posto di lavoro: una guardiania notturna in una grande fabbrica di legname (continua).


Aspromonte greco

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Antichi mestieri. La vita domestica tra tessitura, filatura, produzione del pane e bucato

LE DONNE

ROGHUDI ANTICA

IL RITRATTO

DELL’ASPROMONTE

«Un mito al quale la storia di questo territorio sarà eternamente riconoscente» di FRANCESCO VIOLI

S

e l’arte antica dei pastori dell’Aspromonte greco, ossia la lavorazione di manufatti e di oggetti in legno, ancora si rimanda di generazione in generazione, le tradizioni del lavoro femminile, invece, si stanno perdendo. Permangono, tuttavia, alcune sfumature tipiche della vita di un tempo dove la donna era al centro della vita familiare e sociale. Mentre i pastori erano intenti nel loro lavoro, le donne si occupavano principalmente di tutto ciò che era attinente alla vita domestica: curavano la casa e si occupavano dell’educazione dei figli, pensavano a fare la spesa e al rifornimento di acqua con le bumbuleddhe, producevano il pane, si occupavano di tessitura e filatura, erano addette alla raccolta di erbe selvatiche nei campi e di olive nelle campagne, si recavano alla fiumara per fare il bucato. LA DONNA GRECANICA era forte, energica e rappresentava un fulcro nella quotidianità della casa e della campagna. Innanzitutto era l’attrice principale dell’educazione dei figli, poiché a lei spettava il compito di insegnare e di tramandare le tradizioni culturali, sociali e gastronomiche. La giornata iniziava presto con la produzione del pane. Già dalla sera prima si preparava il levato che serviva da lievito per l’impasto. Dentro la maiddha le mani forti delle donne si alternavano, nell’intento di rendere la pasta pronta per avere una forma di pagnotta e quindi di essere cotta nel forno a legna. Chi non si occupava della panificazione, invece, poteva dedicarsi alla raccolta di erbe selvatiche lungo i dirupi e per le campagne. OGNI STAGIONE aveva i suoi frutti: in autunno le olive e i bergamotti, in inverno i pricomareddhi (una specie di cicoria), in primavera i carduni (cardi) e i caccioffuli, in estate il rigano (origano), la chiappera (capperi), i ficarazzi (fichi d’India) ed il finocchio selvatico. Ma se queste tradizioni ancora resistono al processo di latinizzazione e di modernizzazione, purtroppo del bucato alla fiumara e della filatura della ginestra non vi è più traccia. Le donne iniziavano il lavaggio del bucato con il sapone fatto in casa e sbattevano i panni da lavare sulle

pietre della fiumara; successivamente essi venivano disposti dentro la cofana (cesta realizzata con strisce di canna) e avvolti in un lenzuolo. SULLA SOMMITÁ della cofana veniva appoggiato un panno largo e sopra di questi veniva disposto uno strato di cenere e di niputeddha (un’erba selvatica simile all’origano) avente la funzione di sterilizzazione e di profumazione del bucato. Contemporaneamente, dentro la caddhara, era pronta l’acqua calda per essere versata sulla cenere e dentro la cofana mediante un lavamano. Terminata questa operazione si procedeva al risciacquo nella corrente della fiumara e si procedeva con la ghiampatura (stenditura) sulle pietre e sotto al sole. LA FIUMARA ERA protagonista anche della filatura della ginestra. Durante i mesi caldi di luglio ed agosto la ginestra veniva raccolta e fasciata in piccoli mazzi e messa a bollire dentro le caddhare. A bollitura ultimata, veniva trasportata alla fiumara dove veniva immersa sotto l’acqua corrente per circa una settimana. Da questo processo si otteneva una fibra grezza, la quale veniva posta su grosse pietre in riva al fiume e battuta con una mazza di legno allo scopo di setacciarla dal tessuto corticale. A questo punto il sole completava l’opera facendola diventare stuppa e quindi, attraverso il fuso e il telaio, si otteneva un filato pronto per essere lavorato. Le realizzazioni principali riguardavano i tappeti, alcuni capi di abbigliamento e soprattutto coperte alle quali venivano riservati alcuni schemi iconografici e geometrici: dal fricazzaneddhù (reticolo di rombi circoscritti) al biankisanu (concatenazioni di croci concentriche) passando dal mattunàricu (incrocio di esagoni convergenti intervallati da rettangoli). Tutt’oggi è possibile assistere a queste lavorazioni grazie all’opera di alcune associazioni e cooperative che producono manufatti realizzati con la ginestra, il lino e la lana di pecora: esse incarnano una delle tante modalità attraverso le quali rivivono le antiche tradizioni che fecero della donna grecanica un mito al quale la storia di questo territorio sarà eternamente riconoscente. *Nelle foto sopra le donne di Africo Antica (Petrelli, 1948)

di ALFONSO PICONE CHIODO

P

er ricordare la morte dell’ultimo abitante di Roghudi avvenuta l’anno scorso vorrei raccontare di un altro roghudese, anch’esso scomparso. All’inizio degli anni ‘90 cominciai a guidare gruppi di escursionisti in Aspromonte e Roghudi vecchio era una delle nostre tappe. Il paesino, in bilico sulla fiumara Amendolea, era stato dichiarato inagibile dal 1972 e quindi senza luce, acqua, ecc. Don Rafele (Raffaele Favasuli) era uno dei tre abitanti che non era voluto andare via. Giungevamo supportati da un paio di furgoni con viveri e attrezzatura da campeggio per 40 persone ma, nonostante questo dispiego di mezzi e la nostra preponderanza numerica, era lui il re di Roghudi. Dormivamo nella chiesa ormai sconsacrata che, anche se cadente, era uno dei pochi edifici in grado di offrire un tetto a tante persone. Era lui che mi consegnava le chiavi, dopo numerose raccomandazioni sul comportamento da tenere nell’edificio, per lui ancora sacro, ed in particolare per l’abbigliamento delle donne. Cercavamo di ricambiare la cortesia offrendo dolci od altro ma lui ci sopravanzava sempre. Entrava in una casa abbandonata e ne usciva fuori con un paniere colmo di ciliegie, da un’altra portava una cassa di birre fresche, da un balcone un cesto di fichi. Per non parlare delle cene consumate nell’unica piazza del paese (in 40 ci stavamo stretti) dove, appena la pasta era servita a tavola, passava con la ricotta salata grattugiandola così fitta che sembrava nevicasse. Era una gioia per lui vedere rivivere il paese, anche se solo per una notte. Ma la gioia più grande è stata la mia che ho potuto ammirare gli ultimi bagliori di una civiltà ormai scomparsa. *tutte le foto sono di CAIReggio

DON RAFELE


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Aspromonte settentrionale

inAspromonte Luglio 2014

IL PALAZZO DI DONNA C

«Il terrazzo di Taureana nasconde gelosamente i suoi misteri. Nei tre ettari del Par percepita nettamente dai visitatori proiettati all’improvviso tra cielo e mare, in uno di GIUSEPPE MAZZÚ

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La torre di guardia, nella metà del 1500, servì da sentinella per la sicurezza costiera

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Il popolo vi focalizzò la sede di un famoso tesoro: la chioccia dai pulcini d’oro

Nella foto sopra la torre di Taureana. Nella foto grande un dettaglio del quadro Donna Canfora e il Saraceno, autore: Carnevali.

C

hi vuole visitare un luogo in cui storia, leggende e miti si mescolano, lasciando cogliere un’atmosfera quasi mistica, che conferisce all’ambiente una certa sacralità, non può che percorrere il promontorio dell’odierna Taureana, una contrada del territorio di Palmi, a picco sul mare, dalla quale è possibile spaziare con lo sguardo da Capo Vaticano allo Stretto di Messina, con in mezzo le suggestive visioni dell’arcipelago delle isole Eolie, il promontorio della mitica Scilla e la punta siciliana di Ganzirri da tre anni trasformato in Parco archeologico dalla Soprintendenza e dalla Provincia, nel quale è presente una flora spontanea rigogliosa che, nei giorni scorsi, è stata protagonista della giornata “Erbacee”, organizzata da Italia Nostra di Rc in colaborazione con Coldiretti. QUI NACQUE, fiorì e si spense la storia plurimillenaria di Tauriana, città abitata dai Tauriani, una popolazione brettia che ebbe un rilievo importante nella storia degli insediamenti antichi tra il mare e l’Aspromonte, facendo da cuscinetto tra le colonie greche di Reggio e di Metauros e Medma, prima, tra greci e romani, poi. Per diventare, infine, “Municipium” ed avere un importante ruolo anche in età bizantina; ruolo che conservò fino al 950 d. C. quando fu distrutta dagli arabi. Qui a Tauriana, miti e leggende, però, si sono trasformati in storia. Il terrazzo che domina il Tirreno e appare ricoperto di spendida vegetazione mediterranea, di piante officinali e aromatiche tutte spontanee e di ulivi, custodi di antiche civiltà, in estate diventa il regno delle cicale che, col loro frinire, sembrano elevare un canto che conserva armonie antiche: un canto a volte assordante nei pomeriggi assolati; un canto che, ormai da secoli, ha sosti-

tuito quello dei monaci bizantini di San Fantino, la cui chiesetta, con la cripta antica, si apre all’inizio del pianoro. Il terrazzo, oggi, appare sovrastato dall’ultima delle costruzioni storiche, non quelle erette in cemento dall’uomo moderno ma una torre di guardia che, nella metà del 1500, servì a fare da sentinella per la sicurezza della costa. Le navi dei pirati turchi operavano, infatti, continue e improvvise incursioni, provocando stragi e distruzioni. Eppure dove adesso ci sono ulivi, sorgeva una città che, per quasi quattro millenni, fece da sentinella e, allo

vano il ritorno da Troia dei guerrieri achei, di cui il più celebre fu quello di Ulisse, che questi mari hanno visto passare. Nelle acque del vicino Petrace (antico Metauros) il mito vuole che Oreste abbia cercato la sua purificazione. A ricordare nei millenni l’esistenza di una città sul luogo ricoperto da vigneti e uliveti rimase un blocco massiccio di costruzione romana in pietra, cementata con pozzolana. Una costruzione che nessuno riuscì a smantellare e che solo il miraggio di antichi tesori, alimentato dagli affioramenti di reperti e di antiche monete durante lavori agricoli, riuscì a scal-

Come se i greci avessero preferito girare alla larga da questi posti tenendo solamente dei contatti di natura commerciale. Un dato, questo, che potrebbe confermare l’occupazione salda del luogo da parte della sua popolazione

stesso tempo, da porta allo Stretto di Messina, con il suo promontorio proteso, come prua di una nave, che s’incuneava nel mare e che i moderni, pensando di produrre nuova ricchezza, demolirono a suon di cariche esplosive, per costruire un porto che, fino a qualche anno fa, era rimasto interrato dai venti di Scirocco che spesso spazzano il mare. MA IL TERRAZZO sul quale nacque e fiorì l’antica città di Tauriana è oggi un luogo dell’anima. Quello spazio ricoperto dagli ulivi cresciuti tra le pietre delle fondazioni delle case italiche, romane e delle capanne circolari dell’età del bronzo, con le radici che hanno inglobato perfino il cosiddetto palazzo di Donna Canfora, è da secoli terra di miti e di leggende che si estendono dalla più lontana cultura della protostoria a quella dei “nostoi”, che racconta-

fire con l’impiego di martelli pneumatici. Poi, gli alberi di ulivo con le loro tenaci radici lo hanno avviluppato, quasi a voler tenere legata al terreno questa struttura, che presentava qualcosa di sacro, proprio nella sua tenace persistenza. Per i contadini divenne, invece, “il palazzo di Donna Canfora”, una leggendaria signora di un altrettanto leggendario regno che, secondo la tradizione popolare, rapita dai pirati turchi, preferì precipitarsi in mare piuttosto che essere trascinata via dalla propria terra. Una storia che ha trovato continuità nella raffigurazione dei giganti di cartapesta che, nelle feste, rievocano, a passo di danza, per la gioia dei bimbi, al suono frenetico dei tamburi, una sorta di corteggiamento del principe turco verso la bella castellana, finito poi tragicamente.

MA LA MEMORIA popolare aveva localizzato su questo promontorio, anche la sede di un leggendario tesoro, quello della chioccia dai pulcini d’oro, una nidiata che abitava una grotta che, da sotto la torre, affondava nel cuore granitico dell’altura, per arrivare fino al mare o addirittura al di sotto di esso. Tra gli anziani contadini della zona sono in molti a giurare di aver visto i pulcini e di averli vanamente inseguiti, allorquando sparivano all’improvviso in questa grotta, di cui però non si trova più l’ingresso. Ma a raccogliere il messaggio delle leggende popolari e cercare di trasformarle in storia fu, sul finire dell’800, un medico-storico di Palmi, Antonio De Salvo, che delle radici del territorio divenne il cultore più approfondito. I suoi libri costituirono una preziosa fonte per quanti alla storia degli antichi centri della Piana si volevano e si vogliono accostare. Antonio De Salvo, nel 1886, con il libro Notizie storiche e topografiche intorno Metauria e Tauriana pose le basi per la futura ricerca, raccogliendo le fonti, disegnando una preziosa cartina delle emergenze antiche, che ha costituito il vademecum degli archeologi moderni. E un altro studioso, Vincenzo Saletta, negli anni 50, richiamò quella tradizione con Storia archeologica di Taurianum documentando le presenze sparse nelle “armacie” di una storia ridotta in frammenti. Al centro di quest’area, però, un altro punto di sacralità, dal quale promanava un’atmosfera miracolosa, appariva la chiesetta dedicata alla Madonna dell’Alto Mare, definita dalla fede popolare come la chiesa di San Fantino. Un edificio che, con la cripta sotterranea, ebbe una grande importanza nella città di età bizantina e la cui memoria è rimasta intatta, anche grazie ad un bios, una vita, scritta in lingua greca dal vescovo Pietro, nell’ottavo secolo d. C.


Aspromonte settentrionale

LA LEGGENDA

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S. Cristina d’Aspromonte. Padre Serafino e il regno dei Borbone

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pochi metri verso l’interno, sul costone roccioso che domina su quella parte della Tonnara di Palmi chiamata Pietrenere, e quasi a ridosso della Torre di Avvistamento del XVI secolo costruita contro le incursioni barbaresche, il podio nella parte sacra del Parco Archeologico di Taureana, probabile base di un tempio, è sempre stato identificato nella leggenda popolare, come il Palazzo di Donna Canfora. Qui viveva la bella gentildonna prima che le capitasse la sventurata vicenda che la portò ad una fine tragica ai tempi in cui i nostri litorali erano meta di improvvise incursioni provenienti o dalle coste siciliane in mano ai saraceni o dalle stesse coste del NordAfrica. Solo che questa volta la nave che approdò nella sottostante spiaggia aveva l’innocente aspetto di una imbarcazione commerciale e la connaturata curiosità delle donne, la spinse a voler ammirare, a bordo di essa, le molteplici mercanzie che il “mercante”, con fare rassicurante, la invogliava a voler apprezzare di persona. Tutto avvenne in un attimo! Già a bordo, la bella Canfora si accorse che gli ormeggi erano stati mollati e si prendeva il largo: non avrebbe più rivisto i suoi, la propria terra. Svincolatasi da chi la tratteneva, si gettò in mare e tanto si appesantirono per l’acqua i suoi abiti, che fu tirata a fondo tra gli sguardi impotenti della ciurma. Jean Leon Gerome

CANFORA

rco aleggia un’atmosfera magica, o scenario di grande suggestione» per celebrare la figura del santo guardiano di cavalli. QUESTO EDIFICIO è riuscito ad includere nelle sue strutture la storia di questo luogo. attraverso i vari rifacimenti delle costruzioni che si sono succedute sullo stesso sito, in epoche diverse, fin da quella italicoromana. La chiesa attirò sempre attorno a sé la fantasia popolare, anche se della cripta sottostante, si era persa col tempo memoria. Una cripta che si riempiva di acqua nelle stagioni fredde, impedendone l’accesso, nascondendola alla vista e, col tempo, distruggendo gli affreschi delle pareti costruite con mattoni antichi, marcati col nome della popolazione dei “Tauriani”, una gente forte e forse bellicosa. Fu nel 1952 che, per la prima volta, dalle leggende si passò al piccone: una squadra di operai diretti dal prof. Luigi Lacquaniti, Conservatore dei monumenti della Soprintendenza del tempo. Lo scavo condotto dal prof. Luigi Lacquaniti, finalmente, operava un primo squarcio nella misteriosa storia del pianoro, rivelando che la vità continuò anche dopo la distruzione della città di Tauriana. Continuità che le ricerche attuali hanno riconfermato, sia per la presenza di strutture ma anche per l’esistenza di un’area cimiteriale di varie epoche, che sta fornendo preziosi dati storici sulla diffusione del cristianesimo e sul passaggio dal rito greco a quello latino, in periodo nor-

manno. Proprio tali ricerche hanno consentito che l’edificio, ormai sconsacrato, potesse venire trasformato in un’area museale resa fruibile al pubblico, lasciando anche la possibilità della visione dei diversi strati che si sono sovrapposti alla volta della sottostante cripta romano-bizantina, con le zone pavimentali delle diverse chiese che su di essa si erano succedute. Oggi le ricerche degli archeologi hanno appuntato l’attenzione al contenuto del sottosuolo del pianoro. IL MASSICCIO quadrilatero in pietra locale, infatti, è stato interpretato come la base di un tempio italico: uno di quei templi, costruiti in età imperiale, che poneva la struttura religiosa su un alto basamento e al quale si accedeva da una scalinata posta su uno dei due lati brevi. La scoperta a breve distanza della strutture superstiti di un teatro romano ha consentito di avere un quadro più definito dell’antica città dei Taureani. Sotto gli ulivi sono state portate alla luce il tratto di una strada in granito e le fondazione di ben tre città sovrapposte, lontane nel tempo ma, strettamente connesse tra di loro, per l’esiguità degli strati che le separano. Inoltre sono affiorati i resti di capanne dell’età del bronzo e le fondamenta di età italica e romana. Il promontorio di Tauriana così, s’inseriva nel più vasto scenario archeologico che caratterizza le coste della Calabria, della Sicilia e delle isole Eolie.

IL PREDICATORE RILUTTANTE di GIUSEPPE GANGEMI*

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on Carlo Zerbi, Protopapa di Santa Cristina, vede come una rogna la predica della domenica successiva, giorno 3 luglio 1735. Si deve celebrare la nomina a re di Carlo di Borbone, figlio di Filippo V re di Spagna (nella foto sotto). Dopo il primo diniego del più vicino vescovo, Leone Luca della Diocesi di Oppido, chiede un predicatore al Vescovo di Mileto e Monteleone, don Marcello Filomarini. «Dovrà pure ricambiare in qualche modo i tanti fondi della Parrocchia che metto alla disponibilità sua e dei religiosi da lui designati!». Il vescovo Marcello non nega la sua disponibilità, ma sceglie tra tutti i predicatori, Padre Serafino, monaco domenicano, uomo di grande cultura e scarsa capacità di entusiasmare gli ascoltatori. Il monaco, riluttante, si trova ora in groppa a un’asina ed è diretto verso Santa Cristina, in mezzo alle montagne dell’Aspromonte. Andando, pensa, tra se e sé: «Carlo di Napoli e Sicilia si è conquistato sul campo, sconfiggendo gli Austriaci a Bitonto, il 15 maggio 1734, il diritto di essere re. Titolo che, subito, gli ha riconosciuto il padre, Filippo V, sovrano di Spagna. Cosa si è messo a fare di mezzo Papa Clemente XII, che gli ha rifiutato il riconoscimento del titolo?». Il nuovo giovane ed energico sovrano ha costituito una giunta e la fa presiedere dal giurista toscano Bernardo

Tanucci. La giunta ha concluso che l’autorizzazione del Papa non è necessaria in quanto l’investitura di un Re non è un sacramento. «E su questo non ci piove!». Il buon frate ha detto l’ultima frase ad alta voce. Sorpreso, si guarda intorno e si tranquillizza: lo ha sentito solo la sua asina. Padre Serafino ritorna ai propri pensieri: «Dal dire che l’investitura non è un sacramento al dire che il Papa non ha alcun potere nell’incoronazione dei sovrani, il passo è breve». I tempi sono brutti, pensa ancora Padre Serafino, con tutti questi portatori di lumi che contestano esplicitamente l’autorità papale. «A Napoli molto forte è l’influenza di quel quasi eretico di Pietro Giannone!» ha parlato ancora ad alta voce. Si guarda intorno, si vede solo e continua con i suoi pensieri: «Carlo di Borbone, re o non re, si è mosso circospetto e non ha affrontato di petto la questione. Non ha contestato in principio l’autorità del Papa, ma ha aggirato la difficoltà ricorrendo a uno stratagemma». Siccome la Sicilia gode di una particolare autonomia, in base a una Bolla emanata da Urbano II (il privilegio dell’Apostolica legatia), Carlo decide di farsi incoronare, a Palermo, re di due Sicilie: la Sicilia di qua e la Sicilia di là del faro. «Fa anche un gesto di esplicita sottomissione al Papa. A quattro giorni dall’incoronazione, il 29 giugno 1735, come consuetudine, invia al Papa il segno di vassallaggio abituale dei sovrani di Napoli: una cavalla bianca e una somma di denaro». Solo che lo stesso fanno gli Austriaci da Vienna. Preso dall’intrigo, prorompe ancora a voce alta il frate: «E cosa ti va a fare Clemente XII? Invece di accettare il dato di fatto emerso dalla guerra, accetta l’omaggio degli Austriaci sconfitti e rifiuta quello del vincitore Carlo di Borbone». Insomma, provoca lo sdegno del nuovo re. Questi chiede a religiosi e laici del regno di schierarsi dalla sua parte «Come?». Nelle messe cantate del giorno dell’incoronazione a Palermo, domenica 3 luglio 1735, i parroci o, comunque, i predicatori debbano osannare, nella messa cantata, la nascita del nuovo regno e la proclamazione del nuovo Re. «Ed è così che, passandosi la patata bollente dall’uno all’altro, io ho dovuto lasciare il mio convento, i miei amati libri e vado a Santa Cristina a predicare la trasformazione del viceregno in regno» così bofonchiando, Padre Serafino arriva a destinazione la sera tardi, fa una Università di Padova parca cena ospite del Protopapa e si Docente di Scienza reca presto a dordell’Amministrazione mire, in uno dei E-mail conventi della citgiuseppe.gangemi@unipd.it tadina (continua).

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Tra i boschi d’Aspromonte

GRIGIO AMERICANO Gli scoiattoli, allegri e colorati, sono considerati dei veri funamboli dei boschi

NERO CALABRESE di LEO CRIACO

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o scoiattolo non fa parte della mitologia né della favolistica greca o romana. È citato occasionalmente da alcuni autori per la caratteristica curiosa (secondo una credenza popolare) di farsi ombra con la coda nelle giornate assolate; da qui il nome greco “σκίουρος (skíoyros)” (da cui il latino “sciurus”) che significa letteralmente “che si fa ombra”. Secondo la mitologia norrena lo scoiattolo è sacro a Loki (dio del fuoco e del caos) per via del colore rosso acceso della pelliccia; per lo stesso motivo è anche caro a Thor, rosso di capelli. Nella simbologia pittorica cristiana del Medioevo lo scoiattolo rappresenta il diavolo, sempre per il colore rosso acceso della pelliccia oltre che per l’agilità e la rapidità.

Lo scoiattolo nero

«I pochi pastori aspromontani rimasti in montagna raccontano che spesso visita i loro jazzi (ovili) e si lascia facilmente avvicinare» Lo scoiattolo rosso

Lo scoiattolo grigio


Tra i boschi d’Aspromonte

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onostante tutti gli scempi ambientali (dighe, pale eoliche, inquinamenti, cementificazione selvaggia e incendi, discariche pubbliche e abusive, bruciatori), l’abbandono delle campagne e lo spopolamento delle zone interne, la particolare conformazione topografica e morfologica del nostro massiccio montano ha consentito, nel tempo, la conservazione di tutti gli ambienti presenti (boschi, macchia mediterranea, fiumare, pianori, zone pietrose, litorali ecc.), e la salvaguardia dell’intera fauna. IL MONDO ANIMALE che popola l’Aspromonte, per fortuna, è ancora ricco di varie e numerose specie di uccelli (stanziali e migratori), di anfibi, di insetti, di pesci, di rettili e di mammiferi. Questi ultimi occupano gran parte del nostro territorio, dagli ambienti litoranei fino alle sommità montane. Le specie più comuni di questa classe sono il cinghiale, il lupo, il ghiro, la volpe, il gatto selvatico, la lepre, il tasso, la faina e lo scoiattolo. Tra questi animali quello più avvistato e conosciuto, da chi

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1° PREMIO tablet Galaxy TAB3 LITE SM -T 110 al numero 1246 2° PREMIO fotocamera Nikon coolpixs 2700/S al numero 25 3° PREMIO libro Anime Nere di Gioacchino Criaco al numero 139 ama e frequenta le nostre montagne, è sicuramente lo scoiattolo nero. Questo grazioso roditore vive e si riproduce nei boschi di conifere (sopra i 700 metri s.l.m.) ma si trova spesso in quelli misti o di latifoglie. LO SCOIATTOLO (sciurus vulgaris) è lungo circa 50-55 cm, compresa la lunga e “pomposa” coda (20-30 cm); ha testa rotonda e muso breve, arti muniti di cinque dita con unghie ricurve che gli permettono di arrampicarsi agevolmente sui tronchi e di scendere a testa in giù, come le scimmie e i canguri ha gli arti posteriori più lunghi di quelli anteriori; i primi sono molto sviluppati, robusti e potenti, tanto da permettergli salti di 2-3 metri. Ha un peso che oscilla tra i 250 e i 350 grammi, vive normalmente 5-6 anni e solo pochi esemplari raggiungono i dieci anni di vita. Il mantello è di colore nero nella sottospecie meridionale, rossiccio in quella centro-settentrionale, il ventre è bianco. In alcune regioni della nostra penisola è presente un’altra specie di scoiattolo (sciurus

La composizione delle miscele SA.GI.CAF. è frutto di grande esperienza e di anni di lavorazione. La sapiente tostatura e la professionalità del torrefattore nell’amalgamare le diverse specie di caffè sono frutto di equilibrate ed armoniose scelte che mirano ad offrire sempre il profumo intenso e l’aroma inconfondibile dell’autentico caffè all’italiana. Tutte le fasi nella preparazione, fino al prodotto finito, vengono scrupolosamente e rigorosamente controllate per fornire al consumatore sempre la qualità migliore. La scelta di SA.GI.CAF è una scelta di qualità. Una scelta precisa di una industria italiana emergente che sa proiettarsi verso la conquista di nuove e più ampie fette di mercato.

carolinensis), importato dal Nord America e dalla Gran Bretagna. Si distingue dal nostro autoctono per il mantello di colore grigio e in pochi decenni è diventato un agguerrito e pericoloso competitore del vulgaris, schiacciandolo (spesso uccidendolo) dai suoi territori. Come si evince da questo caso, l’introduzione di nuove specie in un territorio nuovo può comportare la rottura degli equilibri naturali esistenti con gravi conseguenze per l’ambiente. CLAMOROSO è il caso dei conigli selvatici importati in Australia dai cacciatori inglesi, a metà del XVIII secolo. Le conseguenze furono disastrose: i conigli si moltiplicarono paurosamente, arrivando a numeri impressionanti (diverse centinaia di milioni di capi), favoriti dalla mancanza di predatori (rapaci, volpi, etc.). In pochi decenni divennero un vero flagello per gli agricoltori e i contadini, invadendo tutti i campi coltivati e distruggendo le colture che incontravano. Tutti i mezzi utilizzati per fermare

quella furia animale furono inefficaci. SOLO A METÁ del secolo scorso si pose fine a quel disastro ambientale grazie all’introduzione di una malattia, la mixomatosi, causata da un virus e trasmessa dalle pulci, dalle zecche e dalle zanzare. Il virus in poco tempo decimò il 98% circa dei conigli. Lo scoiattolo nero (nome locale: gattareglia i muntagna) si nutre di noci, castagne, radici, germogli, frutti del bosco, semi di conifere, insetti, funghi ed è molto ghiotto di uova e nidiacei di uccelli; mangia come la scimmia poggiato sulle zampe posteriori, usando le zampe anteriori per portare il cibo alla bocca. Di carattere vivace e curioso, è un animale socievole, e da piccolo è facilmente addomesticabile. I POCHI PASTORI aspromontani rimasti in montagna raccontano che spesso visita i loro jazzi (ovili) e si lascia facilmente avvicinare e osservare. Sulle piante si muove con eleganze e leggerezza come un ballerino, e non si ferma mai. È sempre in movimento e si sposta conti-

nuamente come un acrobata saltando tra i rami e passando, con lunghi balzi, da un albero all’altro. Scende a terra solo per trovare il cibo quando manca sugli alberi e in caso di pericolo risale velocemente arrampicandosi sul tronco più vicino. Scende anche per nascondere sottoterra i semi di varie piante (pinoli, noci, castagne, ecc.) per poi cibarsene. MOLTE VOLTE non riesce a consumarli tutti consentendo così la germinazione e la diffusione di molte essenze forestali, per questo motivo è molto utile alla natura. Lo scoiattolo, come erroneamente si pensa, non va in letargo; nei periodi più freddi, si muove poco e rimane nascosto dentro le sue tane, situate nelle cavità degli alberi, alimentandosi di tanto in tanto con le provviste raccolte nei mesi estivi. I nemici più pericolosi del vulgaris sono i rapaci diurni: il gatto selvatico, la volpe e la faina. Fino a pochi anni fa alcune popolazioni dell’entroterra aspromontano uccidevano questo roditore per cibarsi delle sue carni.


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Tra i boschi d’Aspromonte

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Montagne

Le Serre

Nella foto la piazza di Reggio Calabria nell’Ottocento

Dal Sebèto al Faro Cesare Malpica, il giovane rampollo napoletano che nel 1844 intraprese un “coraggioso” viaggio in Calabria

Fu la prima vera “guida turistica”, perché questa regione non può essere sempre descritta da «una classe di gente che, fingendo d’aver veduto ciò che non vide, vi da con viso imperturbato i suoi sogni come storia vera» di MIRKO TASSONE

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roppo intenti a coltivare la passione esterofila, il più delle volte, nel richiamare le avventure di viaggiatori in Calabria, ci si limita a citare le considerazioni, non sempre indulgenti, dei “turisti” anglofoni o francofoni dell’Ottocento. Poco importa, poi, se il loro giudizio sugli italiani in generale sia tutt’altro che obiettivo. In questa sorta di ansia di apparire peggio di come siamo e di come eravamo, si dimentica o si disconosce un’opera che descrive un’altra Calabria. Una “guida”, forse la prima della nostra regione, nella quale viene tratteggiata un’altra verità. A SCRIVERLA la penna versatile e prolifica di un giovane rampollo napoletano, Cesare Malpica, che nel 1844 intraprende un viaggio che descriverà nel volume Dal Sebèto al Faro. Un titolo che è un compendio dell’itinerario seguito. Il Sebèto era, infatti, l’antico fiume che solcava la capitale partenopea, mentre il faro era quello distrutto dal terremoto del 1908 che rappresentava la linea di demarcazione tra i territori del regno di Napoli. Prima della partenza, amici e conoscenti, tentano di dissuaderlo, ripetendogli con insistenza che ad attenderlo avrebbe trovato «monti orribili, strade impraticabili, masnadieri feroci, paesi desolati, rupi scottate dal sole». Una descrizione, cui si aggiungono le indicazioni, ancor meno rassicuranti, dell’ennesima “upupa della società”: «Oh, vada in Calabria ma dica per sempre addio a coloro che ama». RAPPRESENTAZIONI tratteggiate da chi in Calabria non c’era mai stato: «Ella v’andò?» chiede Malpica, «Io le veggo col pensiero quelle terre» è la risposta. Nonostante le raccomandazioni, Malpica s’imbarca sull’Ercolano, il battello a vapore che lo condurrà in Calabria. La prima impressione smentisce le tetre previsioni.

Da Paola, scrive alla moglie: di una «terra vestita di tanto sorriso dal Signore». Nel prosieguo del suo viaggio, incontra la «dotta» Cosenza, città dai «pittoreschi casali» e Catanzaro con il «magnifico» Duomo. Sulla strada verso Monteleone, l’attuale Vibo Valentia, s’imbatte, invece, in una scena che descrive in un pittoresco quadro di costume: «Veggo giungere un carro di que’ carri che ho già descritti. Sotto la tenda mollemente adagiati sovra cuscini seggono tre donne, un uomo e un fanciullo. Vengono dietro due asini con casse e materassi. Li guida un piccolo atleta, co’ sandali, colle brache nere a mezza gamba, col petto nudo, colle gote abbronzite, colle labbra sorridenti: un picciol tipo di forza, e d’intelligenza. Si fermano, scendono, tuffono nell’acqua il viso e le mani. Vi gettano dentro un mellone e quando è rinfrescato sel mangiano accompagnandovi del biscotto». A MONTELEONE viene colpito dalle «strade ampie e dritte»; mentre, lungo il percorso che da Villa San Giovanni lo conduce a Reggio «É tutto un giardino, di aranci, di cedri, di bergamotti, di gelsi, di palme, di fichi, di viti e di ricini». Il lungo viaggio termina a Reggio, la «bellissima», dove il viaggiatore crede di esser giunto «in una grande capitale». La Calabria di Malpica appare decisamente diversa da quella descritta da autori abituati a viaggiare «come un baule, senz’aver osservato e capito alcunché». Una Calabria segnata da: «Natura ubertosa, cielo ridente, siti incantevoli, scene svariate». In altri termini, una regione che, ieri come oggi, non può essere descritta da «una classe di gente che fingendo d’aver veduto ciò che non vide vi da con viso imperturbato i suoi sogni come storia vera: ve n’ha un’altra che ripete ciecamente ciò che gli altri dice».

«La pitta china è sfornata!» di FRANCESCO TASSONE

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a pitta è una focaccia tipica delle Serre, il cui ingrediente principale é “lu pipi di Maju”, ossia il fiore del sambuco, un arbusto selvatico con generosa fioritura primaverile, che esprime il suo massimo splendore nel mese di maggio. Un’esplosione di corolle bianche e in successione frutti violacei e lucenti che maturano a fine agosto. Diffuso ai margini dei boschi e lungo i corsi d acqua, si presta a molti usi in cucina; i fiori, ad esempio, vengono mescolati alla ricotta, alle olive schiacciate e racchiuse nell’impasto del pane per la cottura al forno: una ineguagliabile leccornia. Sempre con i fiori si preparano frittelle sia dolci che salate, nonché un infuso profumato che è un rimedio naturale antinfluenzale, per via dell’effetto sudorifero che i fiori provocano quando vengono utilizzati in tisane calde. Il fiore del sambuco è per questo definito aspirina naturale. I fiori, se messi a macerare con zucchero e limone, danno luogo ad uno sciroppo da utilizzare come base per la preparazione di bevande dissetanti. I frutti, riuniti nei caratteristici ombrelli di bacche scure, sono utilizzati per la preparazione di marmellate e gelatine, ottime per guarnire crostate e torte. Il suo maggiore impiego resta la preparazione della nota bevanda alcolica. I frutti del sambuco contengono carboidrati, proteine, fibre, molti sali minerali e vitamine del gruppo A, C e alcune vitamine del complesso B. Hanno proprietà antinfiammatorie e antinevralgiche, infatti in erboristeria trovano impiego nelle preparazioni per combattere le infiammazioni delle vie urinarie e delle vie respiratorie. La corteccia dell’arbusto, infine, ha proprietà lassative e diuretiche.

i s a mb d e s a b a e t t Rice

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Sorbetto

Ingredienti: 12 grappoli di fiore di sambuco, 8dl di acqua, 2dl di vino bianco frizzante, 350 gr di zucchero, 2 limoni, 1 albume d’uovo. Preparazione: in un recipiente unire l’acqua, il vino, lo zucchero e i fiori di sambuco. Coprire il tutto con la pellicola e lasciare riposare a temperatura ambiente 24\48 ore. Filtrare il composto e aggiungere il succo del limone. Mettere tutto nel congelatore e mescolare di tanto in tanto. Quando il sorbetto é quasi pronto aggiungere l’albume precedentemente montato a neve e riporre nuovamente in congelatore per altri 15 minuti. Guarnire con qualche foglia di mentuccia fresca e servire.

Sciroppo

Ingredienti: 2 litri di acqua, 2 kg di zucchero, 4 limoni, 15 corolle di sambuco, 50 gr di acido citrico. Preparazione: rimuovere le impuritá dai fiori e versarli in casseruola, coprirli con lo zucchero, aggiungere acqua, acido citrico e i limoni tagliati a metà. Lasciare in infusione per 24\48 ore mescolando di tanto in tanto. Filtrare lo sciroppo con un canovaccio di canapa e imbottigliare. Conservare al fresco.

Marmellata

Ingredienti: 1 kg di bacche, il succo di due limoni, 400 gr di zucchero, pectina. Preparazione: mettere le bacche in una pentola con mezzo bicchiere d’acqua e far cuocere per 10 minuti circa. Togliere dal fuoco e quando diventa tiepido passare al setaccio il composto. Rimettere sul fuoco e aggiungere il succo di limone, lo zucchero e la pectina. Far cuocere fino al raggiungimento della consistenza desiderata, quindi invasare.

Torta

Ingredienti: 3 mele, 1 limone, 1hg di bacche di sambuco, succo di mele, 2 uova, 1 cucchiaio di amido di mais, 1 bustina di zucchero vanigliato, 60 gr di zucchero, 350 gr di farina, 30 gr di crusca, lievito, 50 gr di burro, vino bianco. Preparazione: unire la farina al lievito e al sale, aggiungere il burro a pezzetti e impastare con le punte delle dita fino ad ottenere un composto a mo’ di briciole. A questo punto unire l’aceto e l’acqua e impastare fino a quando l’impasto non sará liscio. Lasciate riposare l’impasto per 30 minuti in frigorifero. Stendete l’impasto in una teglia (ricordarsi di bucherellare il fondo), grattuggiate le mele, spruzzatele con il succo del limone e disponetele sul fondo aggiungendo le bacche. In una terrina mescolate insieme il succo di mele, le uova, l’amido, gli zuccheri in modo da ottenere un composto cremoso da versare sulle bacche e le mele. Infornare per 40 minuti a 200 °C.


Tra i boschi d’Aspromonte

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In cammino con l’associazione... info Gente In Aspromonte Monte Perre (Samo)

Associazione escursionistica Gente in Aspromonte via Fontanella, 2 89030 Careri (RC) Tel. 348 8134091

www.genteinaspromonte.it info@genteinaspromonte.it

26 luglio

Tempo: ore 2.00 Dislivello: slm Difficoltà: E. Escursionistico Località: Drago (Samo) Comuni int.: Samo

notturna

Rocca del Drago Il crinale degli dei U T

n allegro momento conviviale accanto al fuoco tra canti e brindisi, seguito dalla classica passeggiata notturna nel bosco di Monte Perre. A conclusione dell’escursione, prima di entrare in tenda, un attimo per ascoltare il silenzio che scende su tutto, per accorgersi che le stelle si vedono meglio in montagna che in città, poi arriva il vento a soffiare sull’erba, il profumo della salvia, il mormorio dei campanacci.

Club Alpino Italiano 20 luglio

La scialata di San Giovanni di Gerace D. Fortugno con Alpinismo giovanile T

27 luglio

Tempo: ore 5.00 Dislivello: 1387 slm 1460 Difficoltà: E. Escursionistico Località: Drago (Samo) Comuni int.: Samo

22 luglio

Il sentiero della memoria (PnA) N. Evoli - D. Festa (ONTAM) con Associazione Libera T/E

ra maestose e secolari piante di rovere ti accorgi di essere in Aspromonte. Tutto il tracciato è dominato dallo stupendo panorama dell’acqua delle fiumare e della cornice dei monti che lo circondano. Un percorso abbastanza agevole, fatta eccezione per la salita su Puntone Galera, con splendide vedute su Croce di Dio, sul Ferraina, sull’Aposcipo e sulle cascate Forgiarelle con scivolo sottostante di oltre 70 metri.

27 luglio

Cascate Maesano (PnA) F. Cilione - D. Costantino con Associazione Libera T/E

Conferenza 7 agosto

“La tutela della biodiversità attraverso il controllo del commercio internazionale delle specie a rischio estinzione” Giuseppe Gullì, Corpo Forestale dello Stato Residence Il Bucaneve - Gambarie ore 17.30

in f o

C.A.I. - Club Alpino Italiano Sezione Aspromonte via San Francesco da Paola, 106 89127 Reggio Calabria Tel. 333 5354074 www.caireggio.it Aperto il giovedì dalle ore 21.00

Scialata di S. Giovanni

Green Mountain Onlus

OSSERVATORIO DELLE BIODIVERSITÁ DI CUCULLARO Come raggiungerci...

ENTEMOLOGICA... MENTE Attività teorica e laboratorio pratico per ragazzi dai 4 ai 20 anni

G

li insetti rappresentano una delle più vaste categorie sistematiche fra gli organismi viventi: a tutt’oggi, sono state classificate o descritte circa un milione e mezzo di specie, ma la stima ammonta a diversi milioni. L’obiettivo del laboratorio è quello di far conoscere la tipologia, la forma e i colori degli insetti presenti nel Parco; accompagnare i ragazzi all’osservazione di insetti vivi e nella manipolazione diretta di campioni biologici. PERIODO: 20 LUGLIO - 31 AGOSTO 2014 ORARIO: 10.30/13.00 - 14.00/18.00

- L’osservatorio si trova nel comune di Santo Stefano in

Aspromonte (RC); - il percorso di avvicinamento più indicato, per chi proviene da nord o da sud, è quello che dallo svincolo della A3 di Gallico porta a Gambarie. Superata la località Mannoli, percorrere la SP7 per altri 3 km fino a raggiungere l’ingresso dell’Osservatorio; - per chi si trova a Gambarie prendere la SP/ e percorrerla per 2,5 km in direzione Santo Stefano in Aspromonte.

Scoprendo i segreti del bosco Percorso naturalistico per tutti

C

ome nasce un albero? Gli alberi più grandi sono sempre i più vecchi? Quali sono le specie di alberi presenti nel Parco nazionale dell’Aspromonte? Come scoprire l’età di un albero? Troverete risposta a queste domande durante l’escursione lungo il sentiero botanico presente nell’Osservatorio della Biodiversità. PERIODO: 20 LUGLIO - 31 AGOSTO 2014 ORARIO: 10.30/13.00 - 14.00/18.00

Cascate Maesano

ITALOI, ERA PREISTORICA Attività teorica e archeologica per ragazzi dai 4 ai 15 anni

L’

Aspromonte è stato abitato fin dalla preistoria, ma come passavano le giornate i nostri antenati? I ragazzi conosceranno i misteri della vita quotidiana dell’uomo preistorico. Dopo il racconto della sua storia, si passerà alla pratica con l’archeologia sperimentale. I partecipanti potranno lavorare l’argilla, realizzare attrezzi con la selce, vivere l’avventura di un vero scavo archeologico. Potranno, insomma, immergersi nel mondo lontano e affascinante della preistoria. PERIODO: 01/31 AGOSTO 2014 ORARIO: 10.30/13.00 - 14.00/18.00

La biodiversità nel Parco (mostra fotografica)

L

a biodiversità è l’insieme e la varietà degli esseri viventi che popolano il nostro pianeta. Una varietà unica nel suo genere, fatta dalla totalità di tante specie ed ecosistemi diversi fra loro ma legati l’un l’altro indissolubilmente per un unico grande obiettivo: la sopravvivenza dell’intero pianeta. Per questo motivo, attraverso le immagini esposte, si vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di salvaguardare e rispettare la biodiversità, e apprezzare l’importanza degli ecosistemi che oggi sono a rischio di estinzione. Tema centrale della mostra è la biodiversità degli ambienti naturali del Parco dell’Aspromonte. Nella rassegna fotografica il concetto di biodiversità è declinato in tre eccezioni: 1) biodiversità genetica, le immagini mostrano le differenze tra gli individui di una stessa specie; 2) biodiversità specifica, le gigantografie illustrano la ricchezza delle specie esistenti nel Parco dell’Aspromonte; 3) biodiversità di ambienti, le foto esposte mostrano la varietà di ecosistemi che si trovano in Aspromonte. PERIODO: 01/31 AGOSTO ORARIO: 10.30/13.00 - 14.00/18.00

Gambarie

i n fo

GREEN MOUNTAIN ONLUS via Garibaldi, 9 89057 Gambarie (RC) Tel. 347 5943122 www.greenmountainonlus.it E mail: green.mountain23@yahoo.it


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CAI Reggio

inAspromonte Luglio 2014

I caselli forestali dell’Aspromonte, una grande ricchezza che le associazioni potrebbero recuperare

Casello di Farnia (San Luca)

Casello di Maesano (Roccaforte del Greco)

PATRIMONIO IN ABBANDONO

Sono oltre 60 le strutture che, nate tra il 1950 e il 1980 per ospitare gli operai forestali, giacciono inermi sulla nostra montagna. Lo stato di conservazione spesso è pessimo, ma la soluzione c’è: sono le persone Servizio e foto

di ALFONSO PICONE CHIODO*

É del 1866 la « realizzazione del primo rifugio del CAI. Oggi sono 774 (23.044 posti letto)

«

Alcuni sono vere opere di alta ingegneria, altri sono costruzioni essenziali, povere

*

CAI sez. Aspromonte Reggio Calabria

Per approfondimenti si rimanda alla pubblicazione Guida ai Caselli Forestali della Provincia di Reggio Calabria a cura di A. Picone Chiodo, C.A.I. Reggio Calabria, 2006 che si può acquistare presso il CAI o consultare in versione digitale dal sito http://www.caireggio.it/

N

el 1863, con la fondazione del Club Alpino Italiano, aumenta sempre più la frequentazione della montagna, all’inizio per motivi scientifici e poi per interesse di scoperta e conoscenza. I primi alpinisti necessitano di strutture che offrano riparo ed è del 1866 la realizzazione del primo rifugio del CAI, l’Alpetto al Monviso. Negli anni successivi molte sezioni del CAI, con uomini di grande capacità ed entusiasmo, provvedono alla costruzione di nuovi rifugi in grado di facilitare ascensioni, traversate e superamento di colli elevati. Oggi sono 774 i rifugi ed i bivacchi del CAI presenti sulle montagne italiane per un totale di 23.044 posti letto. Ogni rifugio ha una sua storia. Molti sono entrati nella leggenda dell’alpinismo. Alcuni sono vere e proprie opere di alta ingegneria: realizzati in luoghi difficili con materiali sofisticati. Altri sono semplici costruzioni, essenziali, povere. Alcuni possono ospitare centinaia di persone, altri pochissime. Alcuni sono custoditi, altri non hanno alcun gestore. Tutti sono una casa, un posto sicuro, un luogo protetto. La rete di rifugi e punti d’appoggio che si è sviluppata in circa un secolo e mezzo è, nelle regioni alpine, più che soddisfacente per l’alpinista e l’escursionista mentre nel resto d’Italia ancora attende di essere sempre più organizzata e definita. La sezione di Reggio Calabria del CAI possedeva una struttura, fin dal-

VISITARE L’ASPROMONTE

Casello di Licofossi Bova

l’anno 1933, ubicata a Gambarie (comune di S. Stefano d’Aspromonte) intitolato al socio Riccardo Virdia che il 29 gennaio 1967 perse la vita per prestare soccorso a degli sciatori. Per circa mezzo secolo, quando l’accesso a Gambarie era un’avventura, il rifugio del CAI fu luogo di aggregazione di centinaia di soci e appassionati anche siciliani degli sport invernali ma, nel 2007, l’Ammini-

Il rifugio del Cai Reggio (Gambarie) fu luogo di aggregazione di centinaia di soci ma, nel 2007, fu affidato ad un privato

strazione provinciale ha, con poca lungimiranza, disconosciuto il ruolo del CAI affidando la struttura ad un privato. Ora che l’escursionismo si è diffuso anche in Aspromonte diviene inderogabile l’individuazione di una serie di rifugi che consenta di offrire questa montagna ad una utenza più ampia ma rispettosa dell’ambiente. Paradossalmente la nostra montagna ha un numero notevole di strutture che potrebbero assolvere tale funzione ma nessuna adibita a rifugio. Unica eccezione è il rifugio “Il Bian-

Casello di Cano San Luca

cospino” ai piani di Carmelia 1267 mslm (Delianova) realizzato nel 2004 dalla guida Antonio Barca. Esistono oltre 60 caselli forestali (ma è una stima in difetto), alcuni gestiti dall’ex Afor, ubicati in gran parte nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, in siti che vanno dai 408 ai 1579 m. di quota, realizzati in epoche diverse, con tipologie e materiali vari, in uno stato conservativo da pessimo a buono. Gran parte di essi sono nati proprio per ospitare gli operai forestali negli anni tra il 1950 e il 1980, anni in cui la “forestazione” rimboschiva migliaia e migliaia di ettari di superficie degradata. L’origine e l’architettura di queste strutture è quindi assimilabile proprio a ricoveri attrezzi o a ripari per gli operai. Ma nel recente passato il CAI fu precursore dell’utilizzo dei caselli forestali quali punto d’appoggio per gli escursionisti. Nel primi anni ‘90 infatti, grazie anche alla promozione della quale beneficiò l’Aspromonte con l’iniziativa del Sentiero Italia, iniziarono i primi trekking nella nostra montagna da parte di alcune “coraggiose” sezioni CAI del Nord Italia. Tra le prime quella di Pinerolo che nell’aprile del 1992 pernottò nel casello di San Giorgio di Pietra Cappa ed in quello di Cano. Nello stesso periodo giunse la sottosezione Edelweiss di Milano che sostò a Pesdavoli, Polsi e Cano. Di anni ne sono passati da allora senza che siano stati fatti progressi ma continuiamo a pensare a un di-

verso modo di utilizzare alcune di esse, anche poche, ma scelte tra quelle la cui collocazione possa essere strategica per un ottimale utilizzo escursionistico e associativo. Proporre un utilizzo associativo con contratti di comodato d’uso che prevedano, attraverso dei “progetti”, sia i finanziamenti per le ristrutturazioni edilizie sia il successivo utilizzo per attività didattiche, informative e/o di

Proporre un utilizzo associativo, con contratti di comodato d’uso, ridarebbe vita a questo tipo di edilizia montana ospitalità, potrebbe essere la soluzione per ridare vita a questo tipo di edilizia montana ora in gran parte abbandonata. Sono varie e molto interessanti le attività che si potrebbero organizzare in alcuni di questi caselli, se sistemati in modo adeguato, consentendo anche in alcuni casi la creazione di piccole attività imprenditoriali e occupazionali, di cui il nostro territorio ha urgente bisogno. Però l’Afor è commissariata, l’Ente Parco tace e nel frattempo assistiamo all’inesorabile degrado delle strutture...

Casello di Carrà San Luca


Ambienti e città 3 luglio 2014

Il modo migliore per gestire i servizi

inAspromonte Luglio 2014

Il 70% della popolazione vivrà nei grandi centri

I

l presidente dell’Anci, Piero Fassino, chiudendo la sessione mattutina del convegno Anci sulle Città metropolitane ha dichiarato: «Con questa legge abbiamo de iure sanato una situazione de facto, perché le grandi aree metropolitane sono una realtà da tempo e rappresentano una condizione oggettiva in molte città dove trasporti, acqua, rifiuti e altri servizi sono già gestiti in ottica metropolitana. Le città sono il luogo dove si manifestano le maggiori opportunità di sviluppo ma anche il luogo dove si manifestano le criticità. Questa legge è indispensabile a fronte delle previsioni che per il 2050 stimano nel 70% la popolazione mondiale che si concentrerà nei grandi centri urbani».

Città metropolitana e fondi comunitari

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Legge n. 142 del 1990

L

a Città metropolitana è un livello di governo locale che sostituisce la Provincia e che verrà istituito a partire dal 1 gennaio 2015 nelle dieci maggiori città delle regioni a statuto ordinario (Roma, Torino, Milano, Bologna, Venezia, Genova, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria). Ad esse se ne potranno aggiungere altre nelle regioni a statuto speciale. La città metropolitana fu introdotta per la prima volta con la legge sull’ordinamento locale n. 142 del 1990, nel 2001 entrò a far parte dell’articolo 114 della Costituzione (“La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”) e finalmente verrà istituita in base alla legge n. 56 del 2014. Questa riordina anche le Province come enti di area vasta, i cui organi sono formati dai sindaci dei comuni che ne fanno parte e istituisce le unioni e le fusioni dei comuni.

REGGIO NEL TEAM DELLE GRANDI D’ITALIA? di FEDERICO CURATOLA

R

eggio Città metropolitana sta per concretizzarsi ma pochi, anche tra i più attenti, sanno davvero cosa sia. Qual é la vera finalità di questi nuovi “enti”? Lo scopo primario della loro istituzione é quello di introdurre anche in Italia, come è avvenuto da tempo negli altri Paesi europei, istituzioni speciali e differenziate per le principali aree urbane che permettano di governare comunità locali che si sono sviluppate oltre i confini amministrativi tradizionali e che hanno problemi comuni. Vi sono temi, quali l’ambiente, il governo del territorio, la mobilità, la sanità, lo sviluppo economico e sociale, per i quali i confini amministrativi dei comuni sono insufficienti e le province non hanno mai avuto la forza per produrre politiche efficaci e condivise. Alle Città metropolitane lo Stato e le Regioni, ciascuno per le proprie competenze, potranno attribuire ulteriori funzioni per differenziarle dalle province ordinarie e per dare poteri e funzioni più forti in linea con gli altri Paesi europei. Ed é proprio sul confronto con le altre Città, sulla competitività su scala europea che Reggio si gioca la partita più importante indossando questa nuova “casacca” di Città metropolitana. Rilevato che Reggio ed il suo ambito di influenza sono in forte ritardo rispetto alle altre città italiane, che già stanno sedute attorno al tavolo del dialogo e del confronto, vuoi perché manca il Sindaco, anche se nella loro funzione una e trina i Commissari dovrebbero sentire il peso di questo “ruolo” e di questa partita, vuoi per quella atavica tendenza, tutta reggina, a dilatare i tempi ed i modi della metabolizzazione di ogni novità, mi permetto di sottolineare alcuni punti nodali nella questione della costruzione della Città metropolitana. La nuova programmazione 20142020 sta entrando nel vivo. In forte ritardo, l’Italia ha sottoscritto l’Accordo di Partenariato per l’utilizzo dei fondi che individua tre priorità

REGGIO CALABRIA

strategiche: Mezzogiorno, Città ed Aree interne. Tra gli otto Programmi operativi nazionali inseriti nell’Accordo di Partenariato vi è il PON Città Metropolitane. Il Programma si pone l’obiettivo di rafforzare il ruolo delle grandi città attraverso la realizzazione di pochi progetti che perseguano comuni risultati attesi, quali la modernizzazione dei servizi urbani, attraverso piani di investimento per il miglioramento delle infrastrutture di rete e dei servizi pubblici, l’aumento della mobilità sostenibile nelle aree urbane, riduzione dei consumi energetici negli edifici e nelle strutture pubbliche o ad uso pubblico, residenziali e non residenziali, la diffusione di servizi digitali che permettano di ridurre gli spostamenti fisici e di accelerare i tempi di esecuzione delle pratiche a costi più bassi. In altre parole, il programma,

Un rischio da evitare L’assenza temporanea di organi “politici” alla guida del capoluogo, potrebbe vanificare gli sforzi profusi per l’inserimento di Reggio tra le Città individuate per legge di fatto, serve a finanziare le “smart cities”. Un treno importantissimo sta per passare dunque, ma in pochi sembrano preoccupati del fatto che questo treno rischiamo di vedercelo sfilare senza la possibilità di salirci e correre via dal sottosviluppo e dall’arretratezza. Mi pongo e pongo ai soggetti investiti dell’autorità e della competenza decisionale alcune domande circa lo stato di avanzamento degli atti necessari a rendere possibile l’impiego di Fondi comunitari in Calabria nei prossimi anni. Visto lo “stallo” istituzionale in cui

nelle foto sotto e a sinistra

Un libro-inchiesta, uscito nel 2007, che riporta sprechi e privilegi ingiustificati dei partiti politici italiani. Ha ottenuto un successo notevole superando il tetto di 1,2 milioni di copie vendute si trova la Regione, sarebbe utile sapere se e come è stato elaborato il Programma operativo regionale, strumento indispensabile per programmare la spesa in base agli obiettivi fissati dalla strategia comunitaria. Sarebbe altresì utile sapere, a livello più basso, se e come si sta elaborando il documento programmatico per la partecipazione di Reggio al Programma operativo nazionale “Città metropolitane”. L’assenza temporanea di organi “politici” alla guida dell’ente capoluogo, potrebbe vanificare gli sforzi profusi per l’inserimento di Reggio tra le

80/100 milioni di euro Sono le risorse destinate. Ma una Città senza Sindaco, in una Regione senza Governo, può farcela a perseguire così importanti e ravvicinati obiettivi?

Città metropolitane individuate per legge. Poichè ad ogni Città metropolitana saranno destinate risorse per 80/100 milioni, e poichè le priorità e gli obiettivi rappresentano esattamente ciò di cui la città di Reggio ha fortemente bisogno, mi chiedo se si stia lavorando in questo senso. Una Città metropolitana senza Sindaco, in una Regione senza Governo, può farcela a perseguire così importanti e ravvicinati obiettivi? Essendone stata rinviata, causa commissariamento, la sua istituzione, Reggio è da considerare fuori dal PON Città metropolitane?

La Provincia, che praticamente si trasformerà in Città metropolitana, sta interessandosi a ciò che dovrà gestire a breve? Le mie sono solo domande, rivolte da chi di queste cosa si occupa a chi queste cose dovrebbe metterle in moto attraverso la redazione di documenti, la partecipazione ai tavoli ministeriali, la scelta degli interventi da realizzare per il ridisegno e la modernizzazione dei servizi urbani, attraverso piani di investimento per il miglioramento delle infrastrutture di rete e dei servizi pubblici e con ricadute dirette e misurabili sui cittadini residenti e, più in generale, sugli utilizzatori della città. Mi auguro che le forze politiche, le organizzazioni (Confindustria, Camera di Commercio, ecc....), il Terzo Settore, i movimenti, facciano loro questo appello e rivolgano le stesse domande agli organi decisori ed eventualmente al Governo centrale, dal momento che Reggio è amministrata direttamente dallo Stato attraverso i Commissari, affinchè non vada perduta anche questa irripetibile opportunità.


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I

La nostra storia

inAspromonte

di GIUSEPPE GANGEMI

n data non chiara, probabilmente successiva al 1870, Lombroso scrive a lapis dentro il cranio di Villella, che presto finirà con il tenere sulla scrivania: “Individuo di anni 69 – alto 1 e 70 – Pelo nero, poca barba – ipocrita ladro per tre volte, l’ultima volta condannato a 7 anni di reclusione. Di carattere taciturno, violento, anche in prigione rubava a’ suoi compagni e negava sempre. Venne trasportato dalle carceri criminali affetto da tosse, tifo e diarrea scorbutica – moriva in Sala D si questo C[ivico] Spedale il giorno 16 agosto 1864. Fu condannato per aver distrutto un mulino e bruciato e rubatovi” (Milicia 2014, p. 20). NELL’ADUNANZA del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, il 12 gennaio 1871, Lombroso legge una comunicazione: «Occupandomi da qualche tempo dello studio dell’uomo criminale, nel visitare il penitenziario di..., fui colpito dalla vista di un tristissimo uomo, che vi degeva da pochi giorni. Era certo Villella di Motta Santa Lucia, circondario di Catanzaro, d’anni 69, sospetto di brigantaggio e condannato tre volte per furto, e da ultimo per incendio di un molino per scopo di furto. Uomo di cute oscura, scarsa e grigia la barba, folti i sopracigli e i capelli, di colore nero-grigiastri, naso arcuato, alto nella persona (1,70): però, in grazia di non so bene se di acciacchi reuma-

Luglio 2014

LE VERITÁ SU VILLELLA

CESARE

LOMBROSO Uno scienziato dalle grandi contraddizioni. Il suo museo: un’offesa ai meridionali

ilSaggio LE RICERCHE DEL PROFESSORE GANGEMI

U

n cranio è, da qualche anno, conteso tra il Comitato “No Lombroso” che lo vorrebbe restituito al paese d’origine (Motta santa Lucia) e il Museo “Cesare Lombroso”, che ne ha il possesso, e che intende tenerlo esposto nelle proprie sale. Trattare il tema del cranio del calabrese di Motta Santa Lucia, Giuseppe Villella, significa affrontare diversi livelli di analisi che, per una trattazione adeguata, hanno bisogno di essere affrontati separatamente. Quella esposta è solo una parte dell’indagine ancora in corso.

«

Lombroso si presentava impreparato rispetto al protocollo tipico dello scienziato

«

Andrea Verga ricorda che la fossetta occipitale era nota agli studiodi, e non era così rilevante

«

Assicurazioni Lombroso non poteva darne: non era stato lui ad eseguire l’autopsia su Villella

tici, o che altro, era tutto stortillato, camminava a sgembo, ed aveva torcicollo, non so bene se a destra o a sinistra. Ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di religiose pratiche, negava di aver commesso alcuna disonesta azione, ma era in fatto così appassionato per furto, che derubava fino i compagni del carcere. Questi, cui interrogai a lungo, mi dissero, che nell’intimità loro non si mostrò punto libidinoso; raccontava, sì, di qualche oscenità commessa nella prima gioventù, e di aver usato con donne sodomiticamente, ma non più che nella prima gioventù, e non più che sogliano gli altri uomini di quella risma; del resto i suoi discorsi erano d’uomo di senno maturo e calmo di passioni; mai si mastrupò, giammai attentò ai compagni, e non mostrò agilità muscolare straordinaria, né ferocia, né spirito vendicativo. Morì in poco tempo per tisi, scorbuto e tifo” (Milicia 2014, pp. 35-36).

un luminare accademico, Andrea Verga, docente di Anatomia, ricorda al pubblico degli antropologi che la fossetta era nota agli studiosi, che egli la descriveva persino nelle sue lezioni di Anatomia agli studenti e che non l’aveva mai considerata così rilevante.

VI SONO alcuni elementi spiazzanti in questa comunicazione: la descrizione di Villella in vita, con dei particolari così caratterizzanti la figura che non possono essere dimenticati, suggerisce, ma non dice, che Lombroso avrebbe conosciuto il soggetto durante la sua degenza al Civico Spedale. Non è, come vedremo, affatto vero. Come in molti altri casi, ma non in tutti, la capacità di spiazzare il pubblico è la virtù del ricercatore impreparato. Lombroso, infatti,

Nella foto in alto a destra Cesare Lombroso, nella foto sopra il cranio di Giuseppe Villella

si presentava decisamente impreparato, cioè carente, rispetto al protocollo abituale dello scienziato. Nella sua completezza, questo protocollo prescrive che si individui un particolare anatomico nella struttura ossea, che si sia osservato cosa sorreggesse o ci fosse dentro quel particolare anatomico di carne, sangue e nervi, cioè che il ricercatore avesse fatto una autopsia o che avesse una relazione particolareggiata dell’autopsia e, infine, che si fosse fatta una indagine sul suo stile di vita prima della degenza. Al momento in cui scrive, su questi ultimi due punti, Lombroso è impreparato perché non è stato lui a fare l’autopsia. Chi l’ha fatta (Giovanni Zanini) è prematuramente morto nel 1867, prima che Lombroso scoprisse la fossetta occipitale e non sa ancora niente delle abitudini di vita del “sospetto di brigantaggio”, altro particolare spiazzante inventato da Lombroso. Esattamente negli stessi termini, la descrizione viene ripresa nei Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere (Esistenza di una fossa occipitale mediana nel cranio di un delinquente, S. II, vol. IV, parte I, pp. 17-

41). NEL TESTO L’uomo bianco e l’uomo di colore, di fine 1871, così Lombroso descrive Villella: «d’anni 69, contadino, figlio di ladri, ozioso e ladro egli stesso, fino da giovani anni era famoso per l’agilità e gagliardia muscolare, cosicché si arrampicava per i monti con prede pesanti su ‘l capo, e vecchio settantenne resisteva all’assalto di tre robusti soldati: moriva nelle carceri, ove per la quarta volta era stato gettato e donde io potei esportare la testa. Uomo di cute oscura, di scarsa barba, di folti sopraccigli...” (Milicia 2014, pp. 42-3). Tra questo secondo testo pubblicato e i due precedenti c’è almeno una grossa contraddizione (camminava sgembo o era agile?). Inoltre, comincia a sorgere qualche dubbio tra i colleghi. Uno di questi chiede a Lombroso di mostrare le sue carte, cioè dimostrare che ha seguito un rigoroso protocollo scientifico e che, per usare una espressione del gioco del poker, non sta bluffando: nel 1872, dal momento che le tesi di Lombroso stanno prevalendo ed egli viene presentato come lo scopritore della “fossetta”,

CONCLUDE sostenendo che le deduzioni di Lombroso erano arrischiate perché la fossetta da sola non bastava ed era necessario dimostrare che in quella fossetta “si annicchiasse un terzo lobo del cervelletto” (Milicia 2014, p. 40), cosa che solo con l’autopsia si poteva dimostrare. Nel passo successivo, Verga avanza una precisa richiesta: «Io pertanto non ho il coraggio di dividere un’opinione così arrischiata e... avrei bisogno che il Prof. Lombroso e il Prof. Zoja mi assicurassero di aver veduto questo terzo lobo, o lobo medio del cervelletto, con i loro occhi» (Milicia 2014, p. 40). Questa assicurazione Lombroso non poteva darla per via diretta (non è stato lui a fare l’autopsia di Villella) e nemmeno per via indiretta (la morte prematura di Zanini, che ha firmato il certificato di morte di Villella e, presumibilmente, ha fatto l’autopsia, gli impedisce di acquisire informazioni indirette su quanto chiede Verga). LOMBROSO capisce di dover sviluppare l’alternativa di rendere più autorevoli e precise le informazioni

su Villella in vita. Lo fa nel 1874, negli Annali Universali di Medicina (Raccolta di casi attinenti alla medicina legale. VIII. Deformità cranica congenita in un vecchio delinquente, vol. 227): a) nella prima parte del testo, attribuisce al Villella 60 anni, non 69. Non potendosi fare, al tempo, operazioni di taglia e incolla, questo può anche essere un errore di stampa; b) come parte finale del testo, aggiunge la fonte delle sue informazioni su Villella in vita, una fonte che è autorevole perché si tratta del Procuratore del Re di Catanzaro; le informazioni ricavate da interviste ai suoi compagni di carcere, in particolare, e vedremo che la cosa è importante, sui suoi costumi sessuali; un particolare, l’ultimo, relativo a come lo hanno fermato i carabinieri, che ha tutta l’aria di essere stato direttamente ricavato dal verbale della cattura, tanto è particolare e difficile (a meno di una fervidissima fantasia) da inventare. LA PARTE aggiunta di testo è la seguente: «Questi [i suoi compagni di cella], cui interrogai a lungo, mi dissero, che nell’intimità loro non si mostrò libidinoso; raccontava, sì, di qualche oscenità commessa nella prima gioventù, e di aver usato con donna sodomiticamente, ma non più che nella prima gioventù, e non più che sogliano gli altri uomini di quella risma; del resto i suoi discorsi erano d’uomo di senno maturo e calmo di passioni; mai si mastrupò, giammai dimostrò ferocia né spirito vendicativo. Il Procuratore del Re di Catanzaro cortesemente m’informava risultargli che non erasi dimostrato libidinoso, che maritato ben trattava la sua donna, che dimostrò fin negli ultimi anni una grandissima agilità correndo pei monti colle pecore rubate sulle spalle e resistendo a tre robusti carabinieri che se ne poterono impadronire solo col comprimergli i testicoli» (Lombroso 1995, p. 236). NEL 1876, Lombroso descrive Villella ne L’uomo delinquente e lo presenta solo come ladro. Nelle edizioni de L’uomo delinquente, Villella non è più presentato come sospetto di brigantaggio (a differenza di come ha fatto nelle prime presentazioni di quell’opera). Dopo trent’anni, nel sesto congresso di Antropologia criminale, tenutosi nel 1906, leggendo in francese il discorso inaugurale, Lombroso comincia a parlare di un brigante non più di un sospetto di brigantaggio; afferma di “avere trovato nel cranio di un brigante tutta una serie di anomalie ataviche, soprattutto una enorme fossetta occipitale mediana...” (Milicia 2014, p. 45). NEL 1906, nella Illustrazione Italiana (Il mio museo criminale, a. XXXIII, n. 13, 1° aprile, pp. 302306), insiste: «Fu in una di queste macabre ricerche che mi vidi aprirsi d’un tratto i nuovi orizzonti dell’antropologia criminale; fu quando nel dicembre del 1870, facendo l’autopsia di un brigante calabrese nelle carceri di Pavia, vi rinvenni un cervelletto mediano ed una fossetta occipitale mediana così sviluppata come nei rosicchianti. E da qui partii (non senza audacia e non senza errore) all’ipotesi che tutti i fenomeni di criminale-nato, così i somatici come gli psicologici, tatuaggio, cannibalismo, impulsività, ecc. si dovessero al riprodursi in costoro di fenomeni normali presso popoli ed animali inferiori» (Lombroso 1995, p. 326). Dice una cosa nuova, che non aveva detto al prof. Verga: che ha fatto l’autopsia del cadavere di Villella (sappiamo che non è vero).


La nostra storia

inAspromonte Luglio 2014

19

Vino greco e genti di Calabria. Fu il dominio dei Borbone ad inaridirne le ricchezze

GENIALITÁ E SUBORDINAZIONE

Tutti conoscono il vino greco di Bianco, qualcuno persino il greco di Gerace; ma quasi nessuno sa che il “greco” fu, nei secoli passati, un’eccellenza bovalinese di PINO MACRÍ

«

É probabile che si accendano animate discussioni tra “mantonicisti” e “grecisti”

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Gerace godeva di una certa rinomanza per un suo “greco” di cui è rimasto solo il nome

«

La Calabria ricevette alla fine del Seicento una ferita grave, e non si riprese più

Sopra il dio Bacco. Nella foto in alto l’uva del greco di Bianco sul tavolo di essiccazione. Nella foto a destra l’enologo Luigi Veronelli

Q

uando il grande enologo Luigi Veronelli, nella celebre e molto seguita rubrica che tanti anni fa teneva su L’Espresso, recensì il Mantonico di Bianco, così ebbe ad esprimersi: «É un vino da bere in ginocchio, in adorazione». Non penso ci sia qualcuno, nella Locride, che non conosca ed apprezzi le elevate vette di bontà attinte da questo vero e proprio “nettare degli dei” (a meno che non sia completamente astemio e refrattario a qualsiasi tipo di bevanda alcolica). Tutt’al più, è molto probabile che si accendano animate discussioni fra “mantonicisti” e “grecisti”, magari per il gusto tutto calabrese (a volte del tutto incomprensibile) di volere per forza stabilire una primazia fra due vere e proprie eccellenze, stavolta in campo enologico (e sempre a patto che non spunti qualche sostenitore del terzo partito, quello dell’Alicante...). In molti sapranno anche che fino a non molto tempo addietro anche Gerace godeva di una certa rinomanza, grazie ad un suo “greco”, di cui ad oggi è rimasto forse soltanto il nome. E non solo il greco, di Gerace, era rinomato: il 26 ottobre 1746 un prelato di Catanzaro, tal Giuseppe Cicala, chiedeva al vescovo Del Tufo “un po’ di moscato di Gerace”, in margine ad un biglietto col quale gli rinnovava i sensi della propria deferenza. Pochi, invece, sanno che la fattura di una così pregiata bevanda non era, in fondo, un’esclusiva della Città dello Sparviero o della “Terra del Bianco”, e che una non trascurabile produzione proprio di “greco” sia esistita anche a Bovalino. Una testimonianza in tal senso proviene da Daniele Spinola, filosofo e matematico genovese, appartenente ad un ramo cadetto della stessa celebre famiglia di mercanti e banchieri che, tra ‘500 e ‘600 (e anche oltre), impiantarono profondi e proficui interessi economico-commerciali in

Calabria. Di lui, in particolare, è nota l’amicizia con Galileo Galilei, e, soprattutto, lo stretto rapporto con i galileiani di Sicilia, che gravitavano attorno al matematico ed astronomo Maurolico. Spinola, forse parente dei Del Negro (titolari del feudo dal 1650 al ‘77), e, quindi, arrivato a Bovalino al loro seguito, vi soggiornò per un certo periodo (forse due anni, tra il 1650 ed il 1652) per curare gli interessi della famiglia. Nell’epistolario intercorso fra Spinola ed i corrispondenti siciliani, pubblicato qualche anno fa dal prof. Moscheo, insigne storico dell’Università di Messina, vi sono diversi riferimenti al pregiato liquore: «Vi mando le due cantinette piene di greco, e ciascun di voi piglierà la sua» (lett. N. 3);

Del Negro e le vigne «Vi erano in frutto 7 mila viti di nuovo impianto» che producevano «tra greco ed altri vini: melaini 32, che danno ducati 12:04:00» «Il caso poi vi ha fatto delle sue col far venire il greco guasto, di che io non so penetrar la causa» (lett. N. 4); «Se venendo qua qualche felluca voi haveste cervello di rimandar qualche cantinetta, io haverei forse di empierlavi di greco che non fosse tristo: e vado pensando, che bisogna che io ficchi il naso a tutte le cose che voglio che camminino bene. Ma voi m’accennaste non so che, di mandar greco a non so chi, a cui per entrare in corpo vorrei diventar greco io [...]» (lett. N. 5). Appena qualche anno dopo (1657), Giovanni Geronimo Del Negro, nuovo signore della Terra di Bovalino dopo Sigismondo Loffredo, nel denunciare le entrate feudali relative

all’anno di morte del genitore, ci dà anche un’idea delle dimensioni della pregiata coltura («Vi erano in frutto 7 mila viti di nuovo impianto», il vino delle quali «si conserva nelle cantine del castello dove abita il Barone») e della relativa produzione («Vino dalle vigne, tra greco ed altri vini: melaini 32, che a carlini 20 lo melaino danno Ducati 12:04:00»). Peraltro, che il centro jonico vantasse una buona tradizione vitivinicola, ce lo riferiscono, oltre al solito Barrio («Dein est Bovolina oppidum cum vino bonitate praecipuo» - 1571), anche altri studiosi moderni del settore («Nel 1400 si annoveravano vini assai considerati come il Santa Venerina, Santo Noveto, Bovolina, Bianco, Castrovillari, Fiumefreddo, ecc.» - B. Pastena, Trattato di viticoltura italiana, Bologna, 1991), mentre, più specificatamente, F. Melis dà conto di una non meglio identificata produzione di vino bianco a Bovalino addirittura nel Medioevo (I vini italiani nel Medioevo, Firenze, 1984). Appena un secolo dopo la signoria dei Del Negro, però, i dati del Catasto Onciario (1745, feudatari i Pescara di Diano) riferiscono di una coltura ancora, sì, ben radicata, ma del tutto frammentata in una serie di piccole vigne: su 341 ben 323 hanno un’estensione inferiore ad 1 ettaro (3 tuminate circa) e, di esse, in 190 sono inferiori ad una tuminata. Solo in tre casi si superano (di poco) i tre ettari, ed in tutt’e tre, in realtà, si tratta di colture miste (vigne e frutteti). Si tratta, cioè, di piccole vigne ad uso e consumo strettamente personali, e non più destinate a produzione e vendita esterne al nucleo famigliare. Della superba vigna dei Del Negro, che probabilmente copriva una superficie non inferiore a 6 ettari, più nessuna traccia! La storia raccontata, si badi bene, non è e non vuole essere una delle tante, stucchevoli, operazioni di recupero nostalgico delle antiche glo-

rie del paesello: tutt’altro! Sicuramente, infatti, dalle ricerche che gli storici locali hanno fatto e continuano a fare, emerge una intera Calabria sempre più ricca di potenzialità, che, però, la rapacità o l’inettitudine di tutta una serie di classi dirigenti, sia “estere” che locali, ha colpevolmente dissipato (si pensi alla grande tradizione della produzione della seta: in merito, CarlAntonio Pilati, un acuto statista trentino che visitò la Calabria nel 1775, annotò di come il governo borbonico, invece di incoraggiare quella produzione, caricava assurdamente di tasse l’intiera filiera, tanto da indurre i proprietari di terre a soppiantare via via ovunque la coltura del gelso con quella dell’ulivo) o soffocato sul nascere (accanto alle potenzialità viti-

Le tasse assurde Emerge un’intera Calabria ricca di potenzialità che, però, la rapacità di tutta una serie di classi dirigenti ha consapevolmente dissipato vinicole, è bene ricordare come le camere di commercio francesi nei primi del Novecento assegnavano alla Calabria il secondo posto nella produzione olivicola), tanto da indurre uno storico calabrese a dire che «la Calabria ricevette verso la fine del Seicento una ferita gravissima, e da allora non è stata più in grado di riprendersi». Parafrasando Giuseppe M. Galanti, l’integerrimo ispettore mandato dal re Borbone nel 1791 per prendere visione dello stato delle Calabrie, si potrebbe allora anche dire che «il popolo calabrese, per le angherie che è stato, ed è tuttora, costretto a sopportare, è, in fondo, meno facinoroso di quel che dovrebbe essere».


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Libri e scrittori

inAspromonte Luglio 2014

L’anno

Alla mia terra. Alla sua paziente attesa...

dei

limoni Seconda parte

«Un insieme di storie di uomini e donne d’Aspromonte. Protagonista della maggior parte delle storie è Fante Francesco, che è esempio d’esistenza cristallina, uguale all’esistenza di milioni di miei conterranei» di VINCENZO CARROZZA

C

armelo sedette accanto al fuoco spento e poggiò la borsa per terra, vicino alla sedia di corda. Trovò un pezzo di legno e rovistò la cenere che svelò tracce di brace, e vi poggiò sopra il legno. Tirò fuori dalla giacca una pipa e del tabacco con cui la caricò. Spinse col pollice giù il tabacco compattandolo e prese il legno poggiato sulla brace e lo gravò sopra la pipa. Aspirò forte una, due, tre volte fino a che non soffiò fuori dalla sua bocca un filo di denso fumo azzurrognolo. Allora allungò le gambe e si sgranchì, distendendosi lungo lungo sulla sedia. Fece un altro paio di tiri dalla pipa per essere proprio sicuro che non si spegnesse, e aspettò ad occhi semichiusi che qualcuno entrasse dalla porta. Non aspettò molto. LA NOTIZIA del suo ritorno era giunta veloce alle orecchie di Fante Francesco e della moglie che lasciarono i lavori da fare in campagna ad Antonio, a Caterina, a Gino, a Tanino, a Marisa, a Federica per rientrare a casa prima del solito. Fante Francesco spinse la porta con il cuore che batteva forte. Ricordava bene zio Carmelo nonostante avesse solo pochi anni alla sua partenza. Lo ricordava sorridente, con gli occhi luminosi mentre lo prendeva in braccio e lo lanciava in alto per poi riprenderlo con un grande “Alé” di gioia. Ricordava i pianti della nonna quando questo e gli altri figli erano partiti. Ricordava la tristezza del padre. Ci aveva pensato di tanto in tanto a questo zio lontano, mentre cresceva e ascoltava le poche lettere arrivate dall’Argentina e dagli altri posti sconosciuti lungo le rive di tanti mari e dei molti fiumi veduti. LETTERE recitate da Don Fulgenzio ad una nonna a testa china, con l’immancabile fazzoletto in mano. Pensava alla sua vita sulle baleniere, nei porti ai confini del mondo, nella Terra del Fuoco. Aveva pensato anche in guerra a quella solitudine, a quel coraggio, per darsi forza, per dirsi che non era certo il solo a dover soffrire, a lottare contro mille avversità. Entrò in casa, e Carmelo gli parve un tronco d’albero fumante

messo di traverso con le gambe e i piedi, divenuti radici, che quasi affondavano nella cenere del camino in cerca del calore rimasto. Era un uomo antico, dai gesti lunghi e misurati, dallo sguardo avvolgente e profondo. Era proprio come l’aveva sempre immaginato. Partito contadino d’Aspromonte era tornato uno sciamano indiano che parlava con gli occhi e con le grandi mani nodose. Si alzò zio Carmelo ad abbracciarlo, ad abbracciare la moglie. «É vero che qui non si muore né ci si ammala?» disse con voce leggermente ironica. Lo disse come per gioco guardando negli occhi il nipote. «Così sembra» rispose Fante Francesco, e risero tutt’e due abbraccian-

nude in Normandia, in Scandinavia, in Scozia. Delle foche appiattite sulle spiagge a godersi il sole freddo dell’artico e dei delfini che seguivano la nave come una grande madre, di notte, di giorno. Degli alberi che danno frutti grossi come angurie e banane piccole come dita di bambini. Parlò degli alberi alti con pochi ciuffi di foglie in cima, che danno frutti legnosi con dentro il latte. Disse di scimmie furbe come gatti e di gatti grossi come leoni che fanno le fusa. Di serpenti lunghi e grossi come querce, capaci di ingoiare un bue intero. E poi parlò delle balene che cantano alla luna. Delle balene inseguite per giorni prima di essere arpionate. Delle balene che non

Carmelo era un uomo antico, dai gesti lunghi e misurati, dallo sguardo avvolgente e profondo. Partito contadino d’Aspromonte era tornato uno sciamano indiano che parlava con gli occhi e con le grandi mani nodose

dosi forte. Anche i ragazzi rientrarono a casa prima del solito orario quella sera. La novità della presenza aveva messo il fuoco nelle loro braccia e nelle gambe che avevano mulinato più del solito. Tutti si misero intorno al fuoco, nonostante la strana stagione fosse diventata più calda, a cuocere le patate e le uova sotto la cenere, a parlare e, soprattutto, ad ascoltare zio Carmelo ed i suoi racconti di terre lontane che, forse, mai avrebbero visto. E lui parlò.

PARLÓ DELLE tartarughe giganti nelle terre aride di pochi arbusti del sud-ovest dell’America meridionale. Del mare in tempesta e delle onde alte due, tre volte la nave, che si abbattevano sui ponti e sembravano spezzare in due ogni cosa. Specie la volta in cui il suo capitano si mise in testa di doppiare Capo Horn. Dei ghiacci del mare del nord, azzurri, alti e profondi quanto lo stesso mare. Parlò delle maree che si alzavano e si abbassavano coprendo chilometri di terre per poi lasciarle nuovamente

vogliono morire e di come, disperate, si immergono nel profondo del mare sperando, insieme a loro, d’immergere la nave intera con il suo equipaggio. Delle balene che si arrendevano infine all’uomo, e di come erano issate inermi sulla nave. Della gioia dei marinai che le catturavano e della tristezza negli occhi spenti dei grandi animali mentre l’uomo ne apriva i segreti. E tutto accadeva a Sud, il più a Sud che la mente umana può immaginare. Tanto a Sud che, a volte, il sole si dimenticava di calare e restava fermo, sospeso in cielo come un pellegrino in preghiera fino a che, rassicurato dal perdono, riprendeva il suo eterno cammino. I bambini di montagna erano ancora ad occhi e bocca aperta quando iniziò a raccontare delle cacciatrici di balene, delle donne che come gli uomini cacciavano i giganti del mare, sfidando il vento e le tempeste. Delle amazzoni del mare che cavalcavano l’acqua con l’abilità di delfini, cacciando le prede in mari e posti che gli uomini evitavano per paure antiche.

PARLÓ DI una baleniera affondata a testate dal capodoglio che si voleva catturare, e disse che era proprio vero. Accadeva, spiegò, che queste grandi anime lottassero contro le stesse navi pur di sopravvivere, era proprio vero ripeté. E per provarlo tirò fuori da un sacco una copia del diario del capitano di quella nave, uno dei pochi sopravvissuti, il suo nome era Owen Chase. Inforcò degli occhiali rotondi, grandi, da tartaruga di mare e si mise a leggere un passo del diario: «Dopo 3.500 miglia, dei venti naufraghi sopravvissuti all’affondamento della mia nave, eravamo rimasti solo in otto. Chi non era servito come cibo per la mia sopravvivenza e di quel che rimaneva del mio equipaggio, era stato gettato in mare per alleggerire la scialuppa. Ancora dopo molti anni penso che l’odiosa scelta di cibarci dei compagni morti fosse l’unica possibile per sopravvivere». Durante la lettura del breve passo, tutti i bambini, pieni della paura del racconto, ebbero un brivido che gli fece venire la pelle d’oca per tutto il corpo. Fortunata e Gino si avvicinarono e si aggrapparono alla gonna di Cata per sopportare il resto del racconto. «Era dura la vita sulle baleniere» concluse zio Carmelo, come a giustificare la crudezza della narrazione. CARMELO chiuse il diario del Capitano Owen e, tenendolo in una mano, con le dita dell’altra elencò quanto si tirava fuori da una balena: grasso, olio, candele ancora richieste specie in oriente. Stecche per corpetti che ancora venivano spedite a certe case di moda, e ad alcuni commercianti con una clientela esigente. Disse proprio così, esigente. Ma la maggior parte della balena andava nei piatti degli orientali, dei giapponesi, dei coreani, dei russi della lontana penisola di Sakalin. Abitò, ci disse, per un periodo anche a New Bedford, nella casa di un famoso capitano che aveva armato il più grande veliero-baleniera alla metà dell’Ottocento. La casetta era ancora in buone condizioni ed aveva, appesi ai muri, le foto del capitano e della famiglia sorridenti davanti al veliero: un tre alberi che assomigliava molto

ad un Clipper. Vedendo la faccia perplessa di tutti gli ascoltatori, tirò fuori una foto che ritraeva un uomo vestito da marinaio con accanto una donna e due bambini che si tenevano stretti alla gonna della madre, e sullo sfondo era chiara l’immagine di un tre alberi con una striscia blu in mezzo alla fiancata di sinistra. Poi spiegò orgoglioso, come fossero stati suoi, che i Clipper erano velieri più leggeri delle altre navi che correvano per i mari trasportando il tè inglese e qualcuno, per la sua velocità e facilità ad essere manovrato, fu alla fine usato per la caccia alle balene. Parlò poi di quello che era il suo mestiere sulla baleniera. «Io ero, sono, un arpionatore» si corresse subito. Si vedeva che era orgoglioso d’essere stato un arpionatore: l’uomo che lanciava il ferro acuminato e ricurvo verso la balena, quello che la cacciava realmente, che finalizzava la fatica di decine di marinai, che dava valore alle miglia di mare solcati dalla nave. E tutte queste cose erano nel gesto del lancio dell’arpione, erano nell’arpione che si conficcava nel corpo pesante e agile della balena. «Ero ben pagato - disse - quasi come un capitano» e tirò forte dalla pipa ancora accesa. Ingoiò il fumo, e il suo torace si espanse e divenne la vela piena di vento della baleniera. Il collo divenne l’albero maestro della nave che teneva a sé la vela e gli occhi, irritati dal fumo, si fecero azzurro chiaro, e sembrava che una balena potesse, da un momento all’altro, saltare fuori da quelli occhi pieni di mare. I BAMBINI andarono a dormire appena finito il racconto. Fu allora che zio Carmelo chiese, a Cata, di Marianna. La ricordava ancora. Bionda con gli occhi neri a mandorla e i lineamenti del volto gentili. Marianna, col tempo, era diventata un piccolo dolore al centro del suo cuore. Nonostante i lunghi anni e le tante donne conosciute per il mondo, non aveva potuto dimenticarla. Era entrata tutta intera nel suo cuore e c’era rimasta, e non sapeva spiegarsi né come, né perché. Al mattino era il suo primo pensiero e alla sera l’ultimo (continua).


Libri e scrittori

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Il restauro di San Leo

«É stata un’occasione per riscoprire particolari interessanti sia sull’opera d’arte poco nota, sia sulla figura del monaco italo-greco che, pur non essendo mai stato consacrato santo dalla chiesa cattolica, come tale è venerato in tutto l’Aspromonte. Il testo sonda il perpetuarsi di un culto antichissimo, e la vita del santo boscaiolo»

I

l volume Del Santo Padre Nostro Leone di Africo. Storia di un monaco, di una reliquia e di un reliquiario scritto da Pasquale Faenza, a seguito del restauro del busto reliquario di San Leo, è stato commissionato dalla parrocchia e dall’amministrazione comunale di Africo. L’intervento sull’eccezionale opera di argenteria messinese del 1739, trasportata nella chiesa del Santissimo Salvatore di Africo nuovo dopo che l’alluvione distrusse il centro di Africo vecchio, è stato occasione per riscoprire particolari interessanti sia sull’opera d’arte poco nota, sia sulla figura del monaco italo-greco che, pur non essendo mai stato consacrato santo dalla chiesa cattolica, come tale è venerato in tutto l’Aspromonte. Il testo sonda infatti il perpetuarsi di un culto antichissimo, entrando nel vivo della querelle sulle origini di San Leo, il santo boscaiolo noto per aver miracolosamente trasformato la pece in pane per sfamare i poveri. Completano il libro i saggi di Rosa Maria Filice, funzionario della BSAE della Calabria, e di Francesco Caridi, responsabile del Dipartimento di Fisica e di Scienze della

I segreti delle Serre

«Mirko Tassone ci accompagnerà attraverso dei misteri, scegliendo un argomento che è più indefinibile di molti altri; e a buon diritto, perché la Certosa è per se stessa un mistero, questa forse l’ultima tra le grandi istituzioni monastiche latine che, negli anni fecondi del Medioevo crearono l’Europa come sarà nei prossimi secoli» U. Nisticò

I

l libro ripercorre le tappe degli episodi più misteriosi e avvincenti legati alla Certosa di Serra San Bruno. Il monastero, fondato da Bruno di Colonia alla fine dell’XI secolo su un territorio donato dal conte Ruggero il Normanno, sorge nel cuore della Calabria, in provincia di Vibo Valentia. La sua fondazione ha avuto notevoli implicazioni politiche, poiché rappresentò un importante caposaldo per condurre a compimento l’opera di rilatinizzazione della Calabria centro meridionale, all’epoca influenzata dalla presenza greco-bizantina. Il volume si apre con una cronologia dei fatti salienti legati alla Certosa. Tra le tante vicende delle quali si ricostruisce la genesi storica: il mistero del rito degli “spirdati”, ovvero gli indemoniati che, in occasione della Pentecoste, venivano condotti a Serra, affinché San Bruno li liberasse dagli spiriti maligni; i miracoli di San Bruno; l’attribuzione a Leonardo da Vinci della facciata della vecchia Certosa distrutta dal terremoto del 1783. Il cenobio è stato, inoltre, teatro di episodi e fatti singolari che hanno contribuito a creare una fitta aura di

mistero. Nel 1844, un certosino, padre Arsenio Compain viene trovato morto con il cranio fracassato a pochi metri dalla sua cella. Nel 1975, desta scalpore il suicidio del padre Priore, Willebrando Pnemburg. Nello stesso anno, tra il 31 agosto ed il 7 settembre 1975, su La Stampa, Leonardo Sciascia, dopo aver visitato la Certosa, pubblica una serie di articoli da cui verrà tratto il “giallo” Il caso Majorana, con il quale verrà rilanciata l’ipotesi che il monastero abbia dato ospitalità al grande fisico siciliano. Ad alimentare ulteriormente la possibilità che lo scienziato, sparito misteriosamente nel 1938, possa aver trovato ospitalità in Certosa, l’inedita rivelazione dello storico dell’arte Silvano Onda il quale sostiene di aver parlato con un misterioso padre Antonio. La vita del monastero è legata, inoltre, ad altre misteriose presenze, quali quelle dell’aviatore che avrebbe sganciato l’atomica su Hiroshima; dell’economista Federico Caffè ed infine dell’arcivescovo Emmanuel Milingo. Queste vicende alquanto singolari trovano, forse, una conferma nella visita di Giovanni Paolo II nel 1984 e di papa Benedetto XVI nel 2011.

Nota biografica

Mirko Tassone, nato a Milano nel 1974, vive Tra Serra San Bruno e Roma. Collabora con diverse testate giornalistiche ed è corrispondente de Il Quotidiano della Calabria. Nel 2008 ha pubblicato il saggio Neofascismo e R.S.I. Il mito della Repubblica Sociale Italiana nella memorialistica e nella pubblicistica (Edizioni Settimo Sigillo), Nel 2012 ha vinto il concorso letterario “Avventurosi sogni fantastici” (Roma) con un racconto dal titolo Il vecchio delle castagne.

Terra dell’Università di Messina, rispettivamente incentrati sugli aspetti storico-artistici e sui materiali costitutivi del busto di San Leo, custode dell’unica reliquia rimasta ad Africo dopo la traslazione del corpo del monaco dal monastero dell’Annunziata a Bova. Le fotografie di Enzo Galluccio nonché le prefazioni del soprintendente Fabio de Chirico e del sindaco di Africo, Domenico Versaci, coronano il volume, pubblicato da Iiriti editore e frutto del comune impegno alla conservazione e valorizzazione di un patrimonio che fa dell’Aspromonte un contenitore privilegiato di storia, di arte e di fede. Diversamente da Bova, dove il santo si celebra il 5 maggio, gli africesi festeggiano San Leo all’ottava della sua morte, forse per dimostrare tutto il dissenso della iniquia spartizione delle reliquie del monaco, da sempre conteso tra l’antica sede vescovile di Bova e il suo piccolo casale. Il titolo stesso del volume è spunto per esaminare l’antichissima contesa delle reliquie di San Leo; contesa che tuttavia sembra da sempre unire, più che dividere, le due comunità dell’Aspromonte orientale.

Nota biografica

Pasquale Faenza, laureato in Conservazione dei Beni Culturali nell’Università della Tuscia di Viterbo (2001), si è specializzato in Storia dell’Arte Medievale e Moderna presso la Scuola di Specializzazione dell’Università la Sapienza di Roma (2005), concludendo il suo percorso formativo occupandosi di museografia per il Ministero per I Beni e le Attività Culturali di Roma. Tra il 2000 e il 2007 ha collaborato con il Museo Preistorico ed Etnografico, Luigi Pigorini di Roma. Ha coadiuvato importanti restauri di materiali archeologici, come il sito di Mella (II sec. A. C.) nei pressi di Oppido Mamertina (RC), o il pavimento musivo tardo antico della sinagoga ebraica di Bova Marina (RC) e di pregevoli opere d’arte, quali il busti reliquari in argento del Sei e Settecento di San Leo, conservati rispettivamente a Bova e Africo Nuovo, sempre in Calabria. Da anni collabora con l’AIAB, occupandosi attivamente contro la costruzione della Centrale a Carbone di Saline Jonica.


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Cinema

inAspromonte Luglio 2014

Il senso dei luoghi, il difficile rapporto col nostro passato e il Sublime nascosto persino nelle asprezze i luoghi sembrano finiti. Ritrovare i semi della vita proprio là dove l’uomo ha rischiato di smarrirsi, perdendo i suoi luoghi e i rapporti con essi». Ma attenzione, perché la ricerca del tempo perduto nasconde molte insidie: “ferisce” se provoca piacere; “uccide”, se provoca dolore; perché viene a mancare “il secondo respiro”, la via della fuga.

Quello che ieri ai locali e ai forestieri appariva “troppo pieno” oggi è divenuto praticamente vuoto, vacanti. Anche centri ancora vitali contengono al loro interno una parte disabitata, case vuote, rughe morte, che li trasformano talora in luoghi inquietanti, sospesi, in attesa del peggio... di GIOVANNI SCARFÓ

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Mammina mammina, è arrivata la mia mammina…» il bambino corre sul prato per raggiungere la mamma, ma la meta sembra assai lontana. È inquadrato in campo lungo e in campo medio; poi la mdp lo segue di spalle mentre giunge su una piccola altura. Il bambino continua a correre mentre il dolly ci svela tutta intera la grande madre Russia abbracciata dal grande coro dell’armata rossa. Il bambino diventa sempre più piccolo. «Mammina mammina è arrivata la mia mammina…» e si presenta la commozione. Non lo so perché (e invece lo so) e non solo oggi, ma anche trent’anni fa, quando ho visto per la prima

«

Ci sono dei film che hanno la capacità di rappresentare il paesaggio dell’anima I luoghi hanno « sempre una loro

storia, anche se non sempre decifrabile, e hanno una loro vita volta. La visione di quella immensità mi assale come l’Infinito di Leopardi. Quando sono andato in Russia ho cercato di ri-vivere dal vivo quell’emozione a contatto con la realtà, ma è stato possibile solo in parte e di sfuggita. CI SONO DEI FILM che hanno la capacità di rappresentare il paesaggio dell’anima, quel paesaggio che è dentro ognuno di noi, ma che il più delle volte diventa un’esigenza di falsa estetica, una percezione esteriore, buona solo per essere fotografata che niente ha a che fare con la Bellezza di cui ho già scritto ma che non mi stanco di ripetere. Quello che si riferisce al concetto di Bellezza argomentato dal cardinale Gianfranco Ravasi quando scrive che «la bellezza è anche nell’oscurità, è persino all’interno del “male”, del dolore, della lacerazione». Si parla di Bellezza sublime, quella che capace di “sconvolgere di destabilizzare”, che entra in ognuno di noi senza chiedere permesso. Lo ha anche scritto il mio amico Raffaele Gaetano (Sull’orlo dell’invisibile): «Il sublime ha rappresentato sin dalla classicità una stimmate lancinante nel cuore della bellezza, as-

«Come al contatto dell’aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzò così questa vita. È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi c’è nato, il maggior numero di memoria» Corrado Alvaro

LA PORTA Nella foto il regista di Oblomov (film tratto dall’omonimo romanzo) Nikita Mikalkov (Mosca, 1945)

PROPRIO COME Oblomov, metafora, secondo Mikhalkov, non di un pigrone e di un apatico, ma di chi aveva sempre in sogno il paradiso perduto di Oblomovka, dove ha vissuto l’infanzia: un uomo che non riusciva, non voleva adattarsi al nuovo modello di vita rappresentato dal suo amico d’infanzia Stoltz che pur tanto ammirava, intrecciata alla sua fin da bambino nell’altalena dei ricordi, con il rischio di non riuscire a dare un senso al tempo perduto/ritrovato, come quello di alcune scene del film. Come scrive Piero Citati: «Siamo nell’Eden, ma in un Eden di dolcissima pigrizia, dove si è invischiati e inghiottiti in una specie di miele corroborante. Ogni mattina la balia o il servo mettono le calze e le scarpe al bambino, gli lavano il viso, lo pettinano, gli infilano la giacca, attenti a fargli passare le braccia nelle maniche senza disturbarlo, nel minimo modo. Nessuno disturba l’uniformità di questa vita: il padre va su e giù nel salotto, ascoltando il rumore dei propri passi, la madre cuce e ricama, e avverte un lievissimo fruscio, il pendolo rintocca sempre eguale nella

«

Ho avuto sempre una grande attrazione per gli orti, essi avvicinano alla terra, agli affetti

DEI RICORDI «

sestandole in epoca moderna il definitivo colpo di grazia. Infatti il sublime è ciò che scuote e stordisce per la sua intensità abbacinante; se il bello conserva al suo fondo una sua regolarità geometrica, che è il frutto della capacità umana di immaginare e realizzare forme perfette, il sublime ricerca le variazioni improvvise, l’asprezza, le deformità, l’orrore». É riconosciuta la differenza tra “il senso dei luoghi” della nostra modernità e il “sublime” che suggestionò in primis i viaggiatori del Gran Tour in Calabria: il dramma che stiamo vivendo purtroppo è che è venuta a mancare la capacità (ma c’è mai stata?) di farsi trascinare da almeno una delle “due emozioni”.

LO HA RICORDATO anche Domenico Stranieri scrivendo (in un articolo precedente, a proposito della distruzione della grotta di San Floro): «Siamo statici spettatori del nostro futuro, ci lamentiamo e non riusciamo a liberarci dalla nostra vecchia rozzezza. Quando non ci vede nessuno normalmente distruggiamo qualcosa. Per di più, amiamo usare espressioni frequenti nei discorsi o negli articoli, come “eravamo la Magna Grecia” oppure “lo dobbiamo alle nuove generazioni”. Proprio mentre il vuoto si sostituisce ai segni della presenza umana ed un mondo si spegne, inesorabilmente, senza aver dato un senso alle sue cose». Il libro di Vito Teti, Il senso dei luo-

ghi andrebbe distribuito e studiato nelle scuole, se vogliamo riprenderci la possibilità di salvarne “il senso”, appunto, dei nostri luoghi. Ha scritto Teti: «I luoghi hanno sempre una loro storia, anche se non sempre decifrabile, hanno una loro vita, vengono abbandonati, possono morire e possono rinascere. Poche terre come la Calabria, segnata da abbandoni e ricostruzioni, possono raccontare la mobilità e la storicità dei luoghi». In un recente articolo ha scritto, parlando dei paesi interni: «Quello che ieri ai locali e ai forestieri appariva “troppo pieno” oggi è diventato praticamente vuoto, vacanti. Anche centri ancora vivi e vitali contengono al loro interno una parte disabitata, case vuote, rughe morte, che li trasformano talora in luoghi inquietanti, sospesi, in attesa del peggio» (Non aprite quella porta!).

I PAESI SONO STATI luoghi in cui è vissuta la maggior parte della popolazione mondiale (in Italia 5000 paesi hanno un numero di abitanti inferiore a 5000, ma sono quelli in cui si producono la maggior parte dei prodotti tipici italiani che fanno grande e diversificata la nostra cucina). «Gli orti, le campagne vicine all’abitato erano sistemi produttivi ma anche abitativi e culturali» (anche alla Casa Bianca hanno sentito la necessità culturale di realizzare un orto, sicuramente con lo scopo di umaniz-

zare simbolicamente la vita della metropoli). Ho avuto sempre una grande attrazione per gli orti (e finalmente ce l’ho anch’io), una produzione “anziana” fino a pochi anni fa, ma che oggi necessariamente ha il significato di un luogo che ci avvicini alla terra e agli affetti dei nostri genitori e dei nostri nonni. Una delle domande che più ha angosciato i calabresi è stata: parto o resto? E quando vedevi gli altri partire ti sentivi in colpa perché restavi; e quando eravamo noi a partire ci sentivamo in colpa perché andavamo via. «Chi vive fuori - scrive Teti - scorge una vicinanza impensabile con il luogo in cui vive, mentre chi resta si misura con lontananze e solitudini inaspettate». E quindi? Già, e quindi? Secondo Teti dobbiamo «riguardare i luoghi con la levità di chi non vuole farsi soffocare dal passato, abbandonando gli aspetti grevi e deteriori legati a una storia di miseria e di oppressione».

HA PERFETTAMENTE ragione: è triste quando qualcuno vede un rudere, in paese o in campagna, magari avvolto dalla vegetazione, e pensa a qualcosa che andrebbe abbattuto, perché “è vecchio”, non riuscendo a capire nulla di cosa significhi memoria del vissuto; perché i «segni della memoria vanno rintracciati non già nei luoghi abitati, ma proprio là dove

Siamo nell’Eden, ma in un Eden di dolcissima pigrizia, dove si è invischiati e inghiottiti nel miele

stanza da letto. L’arrivo di una rarissima lettera turba, sconvolge, provoca terrore, e la lettura viene indefinitamente rinviata, come se contenesse una sciagura o un esplosivo. Oppure qualcuno, chissà perché, ride. Il riso si propaga. Passa nell’anticamera e nella camera delle serve, si impadronisce clamorosamente di tutta la casa. Sembra interrompersi, comincia a tacere, tace, e poi riprende con una forza sempre maggiore, senza che nessuno capisca le ragioni e il significato di quest’allegria incontenibile». Il mio pendolo batte le 8.00, sento i miei passi nella stanza e rido. Chissà perché. P.S. Mentre scrivo in televisione sta andando in onda una puntata della famosa serie di telefilm americana degli anni ‘60, dal titolo Ai confini della realtà: un uomo, un dirigente televisivo, non riesce ad adattarsi ai ritmi del “quinto potere” in funzione pubblicitaria e sogna “un luogo e un tempo dove si possa vivere a misura d’uomo”: già “ai confini della realtà”. Mammina mammina, è arrivata la mia mammina…


Cinema

inAspromonte Luglio 2014

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Africo e Bianco, i comuni e la gente che più hanno creduto nel regista romano

ANIME NERE, L’ULTIMO CIAK

di GIOACCHINO CRIACO

Munzi c’è riuscito, ha dimostrato che nella Locride si può realizzare un prodotto di alta qualità, che si possono trovare professionalità artistiche e artigianali per lavorare, che ci sono attori, comparse e lavoratori, come in qualunque altro posto. Bastava cercare, Munzi lo ha fatto...

A

metà giugno l’ultimo ciak per le vie di Amsterdam; le riprese del film Anime Nere sono terminate. Inizia il conto alla rovescia per l’arrivo nelle sale della pellicola. Probabilmente sarà per metà settembre, il 17 di quel mese ci sarà l’esordio in Francia. Già da ora si possono tirare le prime somme, incrociando le dita per un futuro, possibile, successo di pubblico. Un risultato lo si è già ottenuto: decine di ragazzi calabresi hanno esordito nel cinema, decine vi hanno lavorato materialmente e l’intero territorio della Locride è stato coinvolto nelle riprese.

IL REGISTA Francesco Munzi ha vinto la prima parte della sua scommessa: ha rinunciato a un progetto milionario per imbarcarsi in una sfida molto meno remunerativa dal punto di vista economico e carica, per convinzione di molti, di ostacoli che avrebbero reso impossibile l’impresa. Munzi c’è riuscito, ha dimostrato che nella Locride si può realizzare un prodotto di alta qualità, che in zona si possono trovare le professionalità artistiche e artigianali per lavorare, che ci sono attori, comparse e lavoratori, come in un qualunque posto normale. Bastava cercare, Munzi lo ha fatto per quattro anni in cui ha

praticamente vissuto da noi e andando oltre il suo ruolo di regista ha creato una squadra il cui risultato lo si vedrà a settembre. É stato un grande, prezioso amico della Calabria, ha sfatato e sfaterà tanti luoghi comuni sulla nostra terra. Lo ha aiutato la gente, quella comune che si è sentita partecipe, lo hanno aiutato le piccole istituzioni locali, i comuni di Africo e Bianco che non avendo a disposizione risorse economiche hanno messo in campo tutto il sostegno morale possibile e agevolato il superamento degli ostacoli burocratici. Lo ha aiutato l’Arma dei Carabinieri, rispondendo a tutte le esigenze di propria competenza. E lo ha affiancato il Parco Nazionale d’Aspromonte, che vedrà ripagato il sostegno ammirando le splendide immagini del massiccio calabrese, dipinte dalla macchina da presa di Vladan Radovic. UNA GRANDE mano è arrivata dalla stampa locale che ha esaltato il progetto nei momenti di difficoltà. Degli altri, delle istituzioni che hanno preferito sostenere le sagre del cinghiale o non hanno concesso manco un appuntamento non ne parliamo, per ora, sperando che della loro miopia facciano tesoro in futuro.

Di tutti quelli che hanno dato l’anima per Anime Nere, vorrei parlare dei ragazzi esordienti che hanno avuto ruoli importanti nel film, quelli per cui ci si augura si possa aprire una strada importante nel futuro. Loro sono la vera scommessa che per quanto mi riguarda si dovrà vincere. LA RAGIONE e il senso del mio scrivere stanno nella dimostrazione che in Calabria non si nasce geneticamente tarati, si viene alla luce in un posto che offre meno opportunità rispetto ad altri, ma quando le occasioni ci sono anche i nostri sanno coglierle e se solo fossimo in grado di crearne di più risolveremmo tanti problemi. Il senso dei miei libri e il film, per parte mia, nascono dalla convinzione che esiste in Calabria un sistema di potere che ha tutto l’interesse a instradare i nostri ragazzi sugli ignobili sentieri del crimine. Questo è il male vero che bisogna combattere e a questa lotta i veri calabresi si dovrebbero dedicare per difendere con unghie e denti i propri figli. E io non credo di aver fatto una grande impresa, ho solo dimostrato che i ragazzi delle rughe hanno le qualità per essere persone normali.

ASSOCIAZIONE VOLONTARI “LUPI DELL’ASPROMONTE” DIRETTORE RESPONSABILE

Antonella Italiano

antonella@inaspromonte.it DIRETTORE EDITORIALE Bruno Criaco bruno@inaspromonte.it Redazione Via Garibaldi 83, Bovalino 89034 (RC) Tel. 0964 66485 – Cell. 349 7551442 sul web: www.inaspromonte.it info@inaspromonte.it Progetto grafico e allestimento Alekos Chiuso in redazione il 15/07/2014 Stampa: Stabilimento Tipografico De Rose (CS) Testata: in Aspromonte Registrazione Tribunale di Locri: N° 2/13 R. ST.

DIFENDI LA MONTAGNA

SI ORGANIZZA PER SETTEMBRE “GIORNATA ECOLOGICA IN MONTAGNA” PER ADERIRE ALL’INIZIATIVA SCRIVERE A info@inaspromonte.it (giorno e sito sono da stabilirsi e verranno comunicati sul prossimo numero)


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inAspromonte Luglio 2014

6 luglio 2014

Casello di Canovai

Cosimo Sframeli

Soci dell’Ass. “Lupi dell’Aspromonte” Rocco Mollace e Leo Criaco

“Brigante” Nicola De Agostino

La quercia millenaria a Furrajna

Grazie all’Associazione volontari “Lupi dell’Aspromonte”, per l’organizzazione e la gestione dell’escursione. Grazie al CFS e a Rocco Mollace per l’assistenza e la guida sulle biodiversità

Grazie a quanti hanno condiviso per un giorno il nostro “cammino”


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