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INFRASTRUTTURE

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ITALIA DIGITALE

ITALIA DIGITALE

Per sostenere il boom dei dati e dei servizi cloud, i colossi tecnologici come Amazon e Microsoft hanno intrapreso il cammino della sostenibilità. Ma restano alcune contraddizioni da risolvere.

DATA CENTER “VERDI”: SOGNO O REALTÀ?

Senza i data center, la stragrande maggioranza delle tecnologie che usiamo ogni giorno non potrebbero semplicemente esistere. Grandi o piccoli, interni alle aziende o nel cloud, questi luoghi conservano, elaborano, inviano e ricevono dati senza posa, garantendo il funzionamento di Internet, delle applicazioni aziendali, di innumerevoli servizi digitali, di reti di videosorveglianza, di trasporto e chi più ne ha più ne metta. Ma c’è una domanda scomoda che non possiamo più ignorare: tutto questo è sostenibile, per un Pianeta che deve riprendere il controllo sul cambiamento climatico per la sua stessa sopravvivenza? Vent’anni fa solo 500 milioni di persone, sul totale delle popolazione mondiale, utilizzavano Internet. A fine 2020, secondo le stime di DataReportal, l’utenza digitale aveva superato quota 4,6 miliardi (4,66 miliardi di utenti attivi nel mese di ottobre, per la precisione). La dimensione che Idc chiama “datasfera”, composta dalla somma dei dati creati, scambiati, archiviati e replicati nel mondo, nel 2020 ha raggiunto la soglia di 59 zettabyte. E nel triennio 2021-2023, a detta di Idc, verrà creata una quantità di dati superiore a quella prodotta negli ultimi trent’anni. Questi numeri rendono l’idea della crescita numerica e dimensionale dei data center nel mondo. Certo, le infrastrutture negli anni sono diventate sempre più ottimizzate nei loro consumi energetici: gli studi annuali dell’Uptime Institute mostrano che il valore medio di Pue (Power Usage Effectiveness, il tipico indicatore dell’efficienza energetica dei data center) nel 2007 era 2,5, nel 2018 era sceso a 1,6. L’analisi dei dati e l’intelligenza artificiale hanno permesso di ottimizzare l’uso dell’elettricità necessaria ad alimentare i server e a raffreddare gli ambienti, ma il merito va anche alle fonti rinnovabili. I grandi colossi tecnologici statunitensi, come Amazon Web Services (Aws), Apple, Facebook, Google e Microsoft, in patria e nel resto del mondo da anni impiegano un mix di

impianti fotovoltaici, eolici e idroelettrici, a seconda delle condizioni climatiche e territoriali più favorevoli.

I grandi impegni delle big tech

La sostenibilità è anche diventata un imperativo nelle strategie di medio-lungo periodo delle big tech. Già nel 2017 Google aveva raggiunto l’obiettivo del pareggio tra i propri consumi di elettricità annui e la quantità di energia rinnovabile acquistata. Microsoft , invece, ha recentemente annunciato il proprio impegno a diventare “carbon negative” entro il 2030: dovrà, cioè, non solo ridurre le proprie emissioni inquinanti ma anche contribuire a eliminare gas inquinanti dall’atmosfera attraverso attività di rimboschimento, stoccaggio del carbonio, assistenza a fornitori e clienti (affinché possano a loro volta ridurre il proprio impatto ambientale) e investimenti in nuove tecnologie per la cattura e la rimozione della CO2. L’azienda ha già pianificato il finanziamento di 26 progetti che permetteranno di rimuovere 1,3 milioni di tonnellate di anidride carbonica dall'atmosfera entro l’estate, e ha stanziato un miliardo di dollari per il proprio Climate Innovation Fund (fondo per lo sviluppo di tecnologie volte a combattere il cambiamento climatico). Intanto anche l’Europa guarda avanti: lo scorso gennaio è stato annunciato il “Patto per la neutralità climatica dei data center”, un accordo di autoregolamentazione inserito nella cornice del Green Deal. Vi hanno aderito, impegnandosi ad azzerare il loro impatto ambientale entro il 2030, ben 25 fornitori di servizi IT e cloud, fra cui Amazon Web Services (Aws), Google, Aruba, Ovhcloud e una lista di altri provider, oltre alle associazioni Cispe (Cloud Infrastructure Services Providers in Europe) ed Educa (European Data Centre Association). I progressi saranno monitorati dalla Commissione Europea due volte l'anno: le aziende dovranno dimostrare di aver raggiunto obiettivi misurabili di efficienza energetica, di acquistare energia al 100% priva di carbonio, di dare priorità alla conservazione dell'acqua, di riutilizzare e riparare server e di sviluppare sistemi di riciclo del calore. "I data center sono i pilastri portanti della quarta rivoluzione industriale”, ha sottolineato Apostolos Kakkos, presidente di Educa, “e come si è visto durante la pandemia di covid-19 sono infrastrutture essenziali non solo per l'economia digitale, ma per l'intera economia globale. È nostro dovere impegnarci in un'iniziativa di autoregolamentazione che contribuirà a garantire la disponibilità operativa, la sostenibilità e il futuro della nostra industria".

Le sfide irrisolte

Questi grandi impegni giustificano un certo ottimismo ma non azzerano il dubbio che la crescita dei dati, delle connessioni e delle applicazioni possa diventare, a un certo punto, non più sostenibile. I progressi dello storage, la miniaturizzazione dell’hardware, le tecnologie di deduplica saranno utili ingredienti nelle strategie di riduzione del footprint dei data center. Ma basterà tutto questo? A gennaio del 2020 un report di Greenpeace analizzava l’operato dei colossi tecnologici cinesi, assegnando punteggi non eccelsi nelle sue “pagelle di sostenibilità”: la sufficienza ad Alibaba (60), insufficienze a Tencent (52), Gds (48) e Baidu (52). La ragione dei bassi punteggi è la frequente mancanza di trasparenza di queste aziende in merito ai propri consumi energetici. “Di fronte a una crisi climatica globale”, scriveva l’attivista di Greenpeace Ye Ruiqi a inizio 2020, “c’è una necessità urgente di ripulire Internet. Il consumo di energia dell’industria di Internet cinese sta schizzando alle stelle ed è fondamentale che i colossi tecnologici cinesi facciano da guida nel mercato per liberarsi dalla dipendenza dal carbon fossile”. A proposito di carbon fossile, Greenpeace fa notare una scomoda contraddizione nelle attività dei grandi cloud provider: pur impegnati a ridurre le proprie emissioni di CO2, Amazon, Google e Microsoft sono anche i fornitori tecnologici di aziende del comparto energia, come Shell, Bp, Chevron ed ExxonMobil. Grazie ad applicazioni di analisi dei dati molto evolute, queste compagnie stanno incrementando l’attività di estrazione di gas e petrolio: risorse cloud e software di intelligenza artificiale permettono di realizzare ottimizzazioni dei costi e analisi dei rischi. E depositi considerati fino a ieri troppo rischiosi o costosi da utilizzare oggi vengono perforati. Secondo le stime di Accenture, gli advanced analytics e il cloud potrebbero generare per il settore dell’oil&gas un valore di 425 miliardi di dollari nel quinquennio 20202025.“I contratti tra le società tecnologie e le compagnie del settore oil & gas”, scrive Greenpeace, “riguardano ora ogni fase della catena produttiva e indeboliscono in modo significativo gli impegni sul clima presi da Microsoft, Google e Amazon”.

Valentina Bernocco

CIO SOTTO PRESSIONE

Studi di Gartner e Vanson Bourne svelano che i responsabili IT nel mondo sono ancora alle prese con vecchi problemi. Ma anche con nuove richieste, conseguenza della crisi pandemica.

La crisi del covid-19 e gli imperativi della resilienza e della competizione hanno accelerato la trasformazione digitale delle imprese, un po’ in tutto il mondo. Ma hanno anche generato nuova pressione sull’IT. E il percorso da fare, per i chief information officer, nel 2021 sembra definito proprio dalle necessità della resilienza e della risposta alle sfide competitive in un ambiente incerto. Nel corso di un 2020 atipico come mai in passato, il ruolo dei Cio è stato determinante per garantire la continuità operativa, il supporto al lavoro remoto e l’implementazione di soluzioni digitali per il business. Nel report “L’agenda dei Cio per il 2021”, Gartner indica che “durante il lockdown, molti Cio hanno aiutato a salvare le aziende e questo ha fatto guadagnare loro una maggior attenzione da parte dei top manager. Il percorso delle imprese verso il futuro passa per l’IT e i consigli d’amministrazione ne sono pienamente consapevoli”. Abituati da anni a lottare per convincere i dirigenti della necessità di modernizzare e trarre pieno vantaggio dalla tecnologia, i Cio possono oggi sfruttare l’eliminazione di qualche barriera e la disponibilità dei consigli d’amministrazione a privilegiare sviluppi in direzione digitale.

Un IT carico di responsabilità

In un altro studio, intitolato “Global Cio Report” e realizzato da Vanson Bourne su un campione di 700 figure a livello mondiale, l’89% dei reloro tempo a identificare le cause di malfunzionamenti e a trovare i relativi rimedi. Vanson Bourne stima che questo costi circa 1,7 milioni di dollari all’anno alle organizzazioni, con impatti diretti sulla produttività. Per agire su tali inconvenienti e sollevare le strutture IT, lo studio preconizza cambiamenti nelle modalità di funzionamento delle imprese: in particolare, esse dovranno mettere a disposizione dei vari team una “lingua comune” unificante, che permetta di collaborare in modo più efficace. Il 95% dei Cio rileva che le decisioni sugli investimenti IT debbano essere fondate sui dati, al fine di garantire il massimo beneficio sia alle imprese sia agli utenti finali. Lo studio di Vanson Bourne arriva alla conclusione che l'impiego di strumenti di raccolta e analisi delle informazioni possa servire alle imprese per diminuire la pressione sull’IT e per consentire di innovare più velocemente, oltre ad assicurare una migliore collaborazione. R.B.

sponsabili tecnologici conferma che la trasformazione ha accelerato negli ultimi dodici mesi, mentre il 58% prevede che la velocità aumenterà ancora. Tuttavia, questo quadro apparentemente idilliaco cela una realtà assai più prosaica in cui i servizi IT aziendali sono sottoposti a una crescente pressione. Paradossalmente, diventa più difficile per le strutture informatiche rispondere alla nuova domanda di innovazione rapida e di migliori esperienze digitali. Il 46% dei Cio afferma che il proprio gruppo è più sollecitato che mai, ma il 93% fa notare che la capacità dell’IT di assicurare vantaggio resta frenata dalla permanenza di silos negli altri dipartimenti. Nel 49% dei casi le barriere sono presenti fra IT e mondo delle vendite, nel 40% la limitata collaborazione fra sviluppo e business disturba la capacità dell’IT di rispondere tempestivamente alle mutevoli esigenze del business.

Rivedere l’organizzazione e il suo funzionamento

I Cio affermano di passare molto tempo a cercare le informazioni necessarie per la risoluzione dei problemi. Il 74% ostenta la frustrazione di dover mettere insieme dati ricavati da una pletora di strumenti per valutare l’impatto dell’IT sul business. In media, i Cio trascorrono 12,5 ore alla settimana con i team commerciali per cercare di combinare dati destrutturati e identificare così possibili soluzioni. Le equipe passano il 16% del

EDGE COMPUTING, UNA STELLA NASCENTE?

Sta ai margini, ma è tutt’altro che marginale. Si prevede un futuro florido per l’edge computing, cioè il calcolo “periferico”, dislocato nelle propaggini delle reti all’interno degli oggetti connessi. Oggetti di ogni genere: che trovano casa nelle reti di telecomunicazione e nell’edilizia, nell’industria e nella logistica, nel retail e nella Gdo, o semplicemente sui nostri polsi come smartwatch o sulle strade come automobili dotate di interfacce di connettività. In tutti i casi, questi oggetti non solo raccolgono dati e li trasmettono altrove, ma eseguono attività di calcolo in loco per ridurre la latenza delle applicazioni. Nel 2020 – inutile, quasi, sottolinearlo – le applicazioni più in ascesa nelle aziende sono state quelle legate a connettività remota, comunicazioni, collaborazione e tutto ciò che abilita lo smart working. Mentre il cloud era sotto i riflettori, di calcolo edge si è parlato ben poco nell’anno della pandemia. E invece da questa costellazione di tecnologie emergeranno applicazioni importanti nella società futura, in parte basate su una più capillare disponibilità delle reti 5G.

Un universo in espansione

“Ci aspettiamo che l’edge computing giochi un ruolo cruciale nella più ampia adozione e nel funzionamento di tecnologie come la realtà aumentata e virtuale, i veicoli a guida autonoma, l’IoT, i Content Delivery Network di prossima generazione, il cloud di prossima generazione e i giochi in streaming”, scriveva a fine 2020 la società di ricerca Reportlinker. Se il mercato mondiale dell’edge computing (considerando l’hardware, le applicazioni, i dati e i servizi) valeva 1,7 miliardi di dollari, ci si aspetta che questo valore debba crescere fino ai quasi 8,3 miliardi di dollari stimati per il 2025. “Sebbene attualmente non sia così diffuso”, prosegue Reporterlink, “ci aspettiamo che l’edge computing venga adottato nel periodo della nostra previsione da alcune grandi aziende, specialmente in settori come le telco e il manifatturiero e in relazione all’Internet of Things”. Altro settore trainante sarà quello di banche e servizi finanziari, nel quale la richiesta di applicazioni edge sarà alimentata dalla crescente diffusione dei pagamenti da mobile e blockchain. Vale la pena notare come non esista una definizione univoca del mercato dell’edge computing, cioè dei suoi confini: includendovi anche le piattaforme e le infrastrutture di data center dedicate alle applicazioni edge, MarketsandMarkets stima per il 2025 un giro d’affari mondiale di 15,7 miliardi di dollari. I numeri dunque non coincidono con quelli di Reporterlink, ma la tendenza pronosticata è sostanzialmente la stessa, quella di un universo tecnologico che ancora non ha sviluppato il suo potenziale e che si espanderà prepotentemente. A detta di Reply, nel prossimo quinquennio la Germania sarà il principale mercato europeo di destinazione sia per il cloud sia per l'edge computing, con una crescita di investimenti del 28% tra l’anno 2020 e il 2025.

I problemi irrisolti

Una spina nel fianco è ancora rappresentata dai rischi informatici correlati all’Internet of Things, e dunque anche alle applicazioni edge. L’architettura che sta alla base è strutturalmente più esposta ai cyberattacchi rispetto a quella di una rete fatta di Pc o server. Non si contano, negli ultimi anni, i casi di cronaca che raccontano di vulnerabilità o avvenuti attacchi con protagonisti router domestici, webcam, videocamere di sorveglianza, e nemmeno i videocitofoni e i baby monitor possono considerarsi sicuri. “Questi dispositivi”, scrivono gli analisti di MarketsandMarkets, “sono carenti in termini di protocolli hardware robusti, e dunque utenti che sanno poco o niente di sicurezza informatica potrebbero perdere dati critici e aprire la porta a malware che potrebbero eludere l’intera rete edge”. Come si esce da questi rischi? Oltre a eliminare le vulnerabilità software, i produttori di oggetti IoT con capacità di calcolo incorporata dovranno, in futuro, introdurre protocolli e sistemi di autenticazione integrati nei dispositivi. V.B.

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