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Cenni storico-artistici e suggestioni iconografiche. Ingredienti per la lettura di un inedito
DANIELA MAGNETTI
Questo testo vuole essere di accompagnamento a un viaggio che, attraverso le sale della Pinacoteca Albertina di Torino, giunge sino al Museo Borgogna di Vercelli, per ‘trovare casa’ a un’opera inedita di Gerolamo Giovenone, l’Adorazione del Bambino con i santi Francesco d’Assisi e Antonio da Padova, oggi nella collezione di Banca Patrimoni Sella & C. È il racconto di un dipinto, attribuito a Gerolamo da Massimiliano Caldera 1 , che dopo più di 450 anni, tra molteplici vicissitudini legate al mondo delle committenze e del collezionismo privato, ritrova, grazie a un mecenatismo virtuoso, una sua destinazione pubblica. Molto c’è ancora da scoprire sulla pala, sul suo autore e sul contesto, ma un buon inizio dà sempre spazio a speranze, come scrisse nel 1883 Giuseppe Colombo in uno dei primi libri sulla scuola pittorica vercellese:
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Intanto, io nutro speranza che qualcuno dei dotti Piemontesi, al quale non solamente l’ingegno e la perizia di materie artistiche, ma ancora abbondino le commodità della vita senza di cui è vano pretendere che altri possa metter mano a tali imprese, che richiedono viaggi e dispendi non pochi, si risolva egli stesso, coli’ aiuto dei materiali, che qui gli presento, e mediante le sue proprie ricerche, ad apprestarci una narrazione piena ed esatta, con quella ricchezza di particolari e con tutte quelle illustrazioni, che la moderna critica domanda, della vita e delle Opere dei Lanino, dei Giovenone e di qualunque più eminente artefi ce della Scuola Vercellese. Il paese, al certo, gliene sarà grato. A me, poi, è sembrato di fare opera non inutile, mandando innanzi ai Documenti, a modo d’Introduzione, un compendio della Storia dell’Arte Vercellese, dai secoli più remoti fi no a quello, in cui sorse Gaudenzio Ferrari 2 .
Contestualizzare un artista, in uno spazio e in un tempo che gli sono propri, consente di comprendere il suo operare quotidiano, i suoi rapporti con la società, le committenze possibili e quelle impossibili. Non è dato sapere l’anno di nascita di Gerolamo Giovenone, ma la critica concorda nel collocarlo intorno al 1490 in quel di Vercelli. Figli di Amedeo, carpentiere, fratello di Giovan Pietro, primogenito, e di Giuseppe detto ‘il Vecchio’, per distinguerlo dall’omonimo fi glio di Gerolamo, i fratelli Giovenone svolgono l’attività di pittore, come attesta un documento datato 23 maggio 1519:
Gerolamo, Giovan Pietro e Giuseppe fratres… pinctores promettono a Giov. Battista Avogadro di Valdengo di dipingere due ancone, rispettivamente per S. Marco e S. Eusebio e di affrescare una cappella in S. Eusebio. I tre fratelli lasciano quietanza per il pagamento dell’anticipo 3 .
Nelle schede Vesme si specifi ca: “Renuntiando magister Joseph benefi cio minoris aetatis” 4 : dunque, Giuseppe è il solo minorenne, che per l’epoca signifi cava avere meno di 25 anni. Ciò consente di collocare la sua data di nascita dopo il 1494. Un punto di partenza tra i tanti per raccontare la vicenda di una famiglia che per almeno tre generazioni è stata al centro della storia delle arti fi gurative vercellesi. Doveva essere un adolescente Gerolamo quando, ai primi del Cinquecento, “un viaggiatore lombardo, che tornava in patria attraversando il Piemonte, giudicò Vercelli ‘città... maggior’ di Torino e ‘assay grande’” 5 . Opinione già espressa nel 1428, quando Vercelli era appena diventata possedimento del duca di Savoia:
il segretario ducale Guillaume Bolomier, che vi giungeva per la prima volta, la scoprì con sor-
presa città “grande e notevole e molto migliore” di quel che aveva creduto, una città capace da sola di contribuire per quasi un decimo alle entrate complessive del ducato sabaudo, che pure si estendeva dalla Sesia fi n quasi a Lione 6 .
È il 1427 quando Filippo Maria Visconti, duca di Milano e signore di Vercelli, si trova in guerra, a levante e a mezzogiorno dei suoi confi ni, con gli svizzeri, i veneti e i fi orentini: se a costoro si fosse aggiunto, da ponente, anche il duca di Savoia Amedeo VIII, la potenza dei Visconti non avrebbe potuto tenere fronte a tanti nemici contemporaneamente.
Filippo Maria decise di farsi alleato del savoiardo e perché l’alleanza fosse resa più stretta dai vincoli di parentela, chiese e ottenne in moglie la fi gliuola di lui Maria di Borgogna, cedendogli in perpetua donazione la città di Vercelli, unico suo dominio di qua dalla Sesia, con tutto il suo territorio 7 .
Amedeo VIII conferma gli statuti con cui la città si reggeva sotto i Visconti, felice di averla acquistata con un contratto che è unico nella storia, perché il duca di Savoia invece di dotare sua fi - glia ricevette dal futuro genero, come premio per le consentite nozze, una bella provincia in dono. Inizia così una nuova epoca della storia vercellese che vede la città legata alle sorti altalenanti del casato. Durante le guerre che imperversano nell’alta Italia nella prima metà del secolo XVI, Vercelli è sovente rifugio e difesa dei suoi sovrani che molto confi dano nella solidità delle sue mura e nella fedeltà dei cittadini. È una delle poche città del dominio sabaudo a non essere occupata dai francesi. Per questa ragione nel 1536 la corte ducale di Carlo II, fi glio del duca Filippo II, si trasferisce in città, seguita dal senato, dalla corte dei conti e dei maestri della zecca. Il duca Carlo II, dopo un lungo e costante soggiorno nella città insieme alla moglie Beatrice di Portogallo, vi termina la sua vita il 16 agosto 1553. La centralità culturale della città dagli inizi del XVI secolo resta ben evidente fi no agli anni cinquanta, complice, come si è detto, della presenza della corte ducale dei Savoia.
Piuttosto, giova osservare quanto abbia ben meritato dell’Arte la nobile e magnanima città di Vercelli, la quale, per sì lungo spazio di tempo, accolse dentro le sue mura, concedendo loro generosa ospitalità, una folla d’artisti d’ogni paese, e che per tal modo mantenne costantemente accesa la sacra fi amma del Bello, intanto che le altre città del Piemonte preferivano le aspre tenzoni della guerra o le lucrose cure dell’industria e del commercio 8 .
Il rapporto con Casa Savoia dei maestri e delle botteghe artistiche vercellesi, di cui in seguito si farà menzione, è ampiamente documentato. Sappiamo, ad esempio, che il primo ottobre del 1544 il duca Carlo II deputa Eusebio Oldoni a dipingere sulle porte delle città e dei castelli del Piemonte le sue armi, che erano state cancellate durante la guerra 9 . Al 10 dello stesso mese, Emanuele Filiberto, fi glio di Carlo, affi da lo stesso incarico per Asti e Ceva a Bernardino Lanino e a Gerolamo Giovenone 10 . Molti dei committenti del tempo sono uomini legati alla corte sabauda. Lo ricorda Giuseppe, fratello di Gerolamo, che realizza una predella per la chiesa di Villar Bagnolo (paesino non lontano da Pinerolo) dove sono raffi gurati episodi di storia sacra, ma anche gentiluomini e gentildonne nei loro costumi e nelle loro fattezze, nell’atto di adorazione della Madonna.
Si tratta con molta probabilità di una pala votiva della famiglia Malingri, Feudatario del luogo di Bagnolo, che ebbe incarichi importanti alla corte del Duca Carlo III di Savoia, nelle persone di Cristoforo e Lodovico (scudieri, gentiluomini di camera; Lodovico anche governatore di Vercelli) 11 .
La situazione inizia a cambiare drasticamente dal 1559, quando la pace di Cateau-Cambrésis sancisce la restituzione dei territori fi niti in mano francese a Emanuele Filiberto. Questi, che come i predecessori aveva inizialmente scelto Vercelli come sede di corte, era però convinto della centralità e del peso politico di Torino e dunque nel
1563, ottenuta fi nalmente la piena restituzione della città dai francesi, vi entra solennemente per farne la propria capitale. Inizia qui, concretamente, il percorso politico che porterà Torino a quel ruolo di preminenza conservato sino al XIX secolo.
Quella che era stata forse la più sonnolenta delle città piemontesi, Torino, si trasformò in un’aggressiva capitale, e tutte le città che nel Medioevo erano state così dinamiche appassirono riducendosi a borghi di provincia 12 .
Il tempo dei Giovenone coincide con un periodo storico, tra Quattro e Cinquecento che, malgrado guerre, pestilenze e carestie, fu capace di generare una scuola pittorica riconosciuta come punta di eccellenza nel panorama artistico di quel territorio, il Piemonte, che era appena stato defi nito.
Usualmente il primo impiego del nome “Piemonte” per designare un’entità politica dai contorni relativamente defi niti viene fatto risalire al 1424, quando Amedeo VIII di Savoia conferì al fi glio primogenito il titolo di “principe di Piemonte”, che da allora in poi sarebbe stato destinato all’erede della corona ducale. Con “Piemonte” (Pedemontium) si intendeva l’insieme dei domini sabaudi situati al di qua delle Alpi, quelli che nei secoli dell’età moderna le fonti uffi ciali avrebbero comunemente chiamato “Stati di qua dai monti”, in contrapposizione coi domini transalpini di lingua francese 13 .
Assorbita dal ducato, prima luogo di rifugio e poi abbandonata per la nuova capitale, “solo nella pittura del Gaudenzio, degli Oldoni, dei Giovenone e dei Lanino pare trovare ultimo rifugio la spiritualità e la cultura vercellese” 14 . A Vercelli, infatti, si forma una scuola che, pur essendo di derivazione lombarda, sa esprimersi con modi autonomi attraverso la mano di numerosi maestri. I primi artisti che determinano la nascita della pittura rinascimentale vercellese si confondono nelle ombre incerte dovute alla mancanza di documenti e di opere autografe, mentre gli storici dell’arte concordano nel prendere come punto di riferimento l’opera di
Bonforte Oldoni, giunto a Vercelli dalla Lombardia nella seconda metà del XV secolo.
La scuola vercellese fu fondata da Boniforte Oldoni, nato a Milano nel 1412 e morto a Vercelli nel 1477. Il merito maggiore di tale artista fu di aver dato all’arte pittorica un regolare indirizzo e di aver avviate delle tradizioni in un paese ove i saggi di tale arte erano rari e individuali. Oldoni ebbe cinque fi gli, tutti pittori e nella sua famiglia l’arte ebbe così larga cultura da contare ben diciassette artisti in quattro generazioni 15 .
Pietro Masoero, uno dei primi cultori del patrimonio artistico di quel territorio, sottolinea la necessità di riconoscere un preciso momento di svolta nel panorama artistico del tempo. La prima sala della collezione permanente della Pinacoteca Albertina, ci introduce tra alcuni dei più importanti protagonisti attivi a Vercelli all’epoca dei Giovenone. Un ruolo chiave occupa
1 Giovanni Martino Spanzotti, Madonna con Gesù bambino e due angeli, tempera e olio su tavola, 131,5 × 59 cm. Torino, Pinacoteca Albertina
2 Giovanni Martino Spanzotti, San Francesco,sant’Agata e un donatore, tempera e olio su tavola, 133 × 60 cm. Torino, Pinacoteca Albertina
3 Defendente Ferrari Adorazione del Bambino, olio su tavola, 249 × 170 cm. Torino, Pinacoteca Albertina
l’opera di Giovanni Martino Spanzotti, qui rappresentato con le tavole Madonna con Gesù Bambino e due angeli (fi g.1) e San Francesco, sant’Agata e un donatore (fi g. 2). Appartenente a una famiglia di pittori provenienti da Varese, suo padre già nel 1470 viene documentato a Casale Monferrato, così come il fratello di Martino, Francesco, a lungo attivo nella stessa città. Martino Spanzotti è citato in documenti che lo vogliono pittore in area ferrarese e bolognese negli anni settanta e nel decennio dal 1488 al 1498 a Vercelli, dove numerosa è la committenza in ambito di corte. I suoi rapporti con la Casa Savoia sono già consolidati nel 1507, stante la lettera dello Spanzotti alla corte torinese in cui informa di avere eseguito una tavoletta “con la ymagine de la Madona supra picto ala similitudine di quella fi orentina che V. S.ria me remise in le mane, la quale sta apreso di me iusta il mandato di Vostra Signoria” (lettera di Spanzotti a Carlo II di Savoia, 25 ottobre 1507): la tavoletta si riferisce alla piccola Madonna col Bambino, detta Madonna di Orléans dipinta da Raffaello nel 1506 circa e della quale parleremo in seguito. Nel 1513 Martino chiede e ottiene la cittadinanza a Torino e lo sappiamo in vita fi no al 1526. La sua opera costituisce un importante punto di riferimento per tutta l’arte piemontese dell’epoca. Oltre all’alunnato e alla collaborazione con Defendente Ferrari, ha un’infl uenza diretta sulla formazione di Gerolamo Giovenone, che sarà fedele al suo linguaggio almeno fi no a quando non avrà la possibilità di confrontarsi con Gaudenzio. Alla prima fi oritura della Scuola vercellese si forma anche Defendente Ferrari da Chivasso (1470- 1535), che diventerà il grande protagonista delle committenze per le chiese del Piemonte (area Torinese e Cuneese). La vicinanza del suo stile a quello di Giovenone, soprattutto nel periodo giovanile, ha generato in passato incertezze nell’attribuzione di opere all’uno o all’altro. Proprio per questa ragione, seppur di epoche diverse, di grande interesse è il raffronto dell’inedito della collezione Sella con la suggestiva pala realizzata da Defendente per l’altare maggiore di San Domenico a Biella, l’Adorazione del Bambino (fi g. 3) presente nella collezione della Pinacoteca Albertina di Torino. Datata tra il 1496 e il 1500, l’opera raffi gura l’atto dell’Adorazione: in primo piano, attorno al Bambino che giace a terra, sono raccolti Maria e Giuseppe in preghiera e un gruppo di santi tra i quali, da sinistra, san Giovanni Battista, san Domenico, san Francesco e sant’Agostino. La Vercelli dei primi decenni del Cinquecento è una città viva e aperta nei confronti dei movimenti artistici. Gerolamo, dopo la collaborazione con lo Spanzotti, mette bottega in proprio; il padre Amedeo e il fratello Giovanni Pietro sono dei “lignamari”, costruttori di cornici per i polittici allora di moda, il fratello minore Giuseppe nel 1521 inizia, per volontà del padre, il praticantato nella bottega di Gaudenzio. In famiglia, dunque, si respirano i gusti e le mode che si diffondono tra i committenti e ci si confronta con le altre botteghe. Non entro nel merito dell’attività artistica di Giovenone, esaustivamente raccontata nel saggio in catalogo di Simone Baiocco (pp. 35-43). Mi limito a guardare intorno.
4 Bernardino Lanino San Francesco, olio su tavola, 73 × 38 cm. Torino, Pinacoteca Albertina
5 Pier Francesco e Gerolamo Lanino Gesù con gli apostoli Giacomo e Filippo, olio su tavola, 200 × 137,5 cm. Torino, Pinacoteca Albertina
Contemporaneo di Gerolamo è Gaudenzio Ferrari di Valduggia (1471-1546), il maggior pittore del Cinquecento piemontese. Lavora in Valsesia, nel Vercellese, nel Novarese e in Lombardia lasciando opere di rara bellezza tra cui ricordiamo le pitture e le sculture del Sacro Monte di Varallo, i polittici di Sant’Anna e gli affreschi di San Cristoforo a Vercelli, il grande affresco della cupola di Saronno. Vasta fu localmente l’infl uenza della pittura gaudenziana, nella cui scia si posero vari pittori, tra cui, non fra i minori, Eusebio Ferrari da Pezzana. Pur non possedendo opere pittoriche, né di Gerolamo né di Gaudenzio, la Pinacoteca Albertina di Torino vanta, di questi artisti e delle loro botteghe, un numero straordinario di cartoni preparatori. Documenti unici e preziosi per comprendere il linguaggio stilistico e l’evoluzione artistica dei pittori vercellesi; è proprio l’uso degli stessi cartoni da parte di mani diverse che rafforza il concetto di scuola. Nel saggio di Enrico Zanellati (pp. 83-95) il racconto di questa straordinaria collezione di ‘strumenti di lavoro’ cinquecenteschi, giunta in Accademia Albertina nel 1832 grazie alla donazione di re Carlo Alberto. Seppur solo cronologicamente, ultimo importante maestro della pittura vercellese presente nella prima sala espositiva con quattro tavole è Bernardino Lanino (circa 1512 - 1546), pittore fecondissimo, anch’egli seguace di Gaudenzio Ferrari, di cui elaborò forme, colori e ritmi in una propria originalità (fi g. 4).
Dipinse a Varallo, Novara e Milano, ma la sua mag
gior residenza fu Vercelli, da dove mandava tavole in tutta la provincia. Numerosissime sono le chiese di paesi e di confraternite rurali che possiedono tavole di questo maestro, nella diocesi vercellese, e molte altre, sia per il prezzo pattuito, sia per le troppe ordinazioni, sono ripetute o inferiori alla fama e alla valentia del loro autore. Condusse in sposa Dorotea fi glia di Gerolamo Giovenone. Ebbe tre fi gli pittori Cesare, Pietro Francesco Gerolamo 16 .
Di questi la grande tavola Gesù con gli apostoli Giacomo e Filippo, 1586, nella collezione della Pinacoteca Albertina di Torino (fi g.5).
Non essendo competenza di questo saggio addentrarsi nelle specifi che analisi stilistiche dei singoli pittori, quanto scritto sia utile a sottolineare quella familiarità generazionale all’arte della pittura: i fi gli, i generi e i nipoti di questi artisti continuarono l’arte dei padri anche dopo la loro scomparsa, ma la produzione, sebbene vastissima, è accomunata da una piatta uniformità tecnica e artistica, con qualche modesta eccezione. E così, nei primi decenni della seconda metà del XVI secolo la scuola di Vercelli inizia a sfi orire. “Con la scomparsa di Bernardino Lanino la scuola volse rapidamente al tramonto. I fi gli e i nipoti di Giovenone, Lanino e Oldoni non furono che degli imitatori e ben presto l’arte loro degenerò in produzione commerciale” 17 . Penso alle infi nite ragnatele di storie di tutte le numerose famiglie citate in questo racconto: al percorso di formazione degli artisti, all’attività produttiva delle botteghe, ma anche all’amore, forse, ai matrimoni, in ogni caso, che ne hanno tessuto indiscutibilmente le trame. Non mi è giunta voce di donne nel panorama artistico vercellese coevo ai Giovenone: solo fi glie, prima, e spose, dopo. Uno tra gli ultimi pittori che lasciò opere discrete fu Giorgio Alberini di Alessandria. Condusse in moglie la fi glia di Amedeo Giovenone, fi glio di Gerolamo. Compì gli studi e si domiciliò a Casale Monferrato lavorando sovente con Guglielmo Caccia detto il Moncalvo al quale era legato da amicizia. Anche Moncalvo “fu pure un prodotto della Scuola Vercellese” e non è un caso che l’ultima opera del percorso espositivo della Pinacoteca Albertina, prima di accedere alla meravigliosa sala dei cartoni dove trova momentanea collocazione l’opera inedita di Giovenone, sia una sua raffi gurazione dell’Arcangelo Michele (fi g. 6). Ultima no, penultima. A fi anco una Madonna col Bambino della fi glia Orsola Maddalena (fi g. 7). Ripenso a lei, Orsola, fi glia pittrice 18 , raro segno femminile di quel modus operandi, capace di coltivare e tramandare il mestiere del pittore per generazioni, che ha caratterizzato, tra le tante, anche la scuola vercellese del XVI secolo.
6 Guglielmo Caccia detto il Moncalvo San Michele Arcangelo scaccia i demoni, olio su tela, 247 x 171 cm. Torino, Pinacoteca Albertina
7 Orsola Maddalena Caccia, Madonna col Bambino, olio su tela, 117 x 77 cm. Torino, Pinacoteca Albertina
Non necessariamente una mostra deve seguire un criterio cronologico, stilistico o scientifi co. In questo caso sono le suggestioni iconografi che suggerite dalle opere esposte nelle tante sale della collezione permanente della Pinacoteca Albertina che mi hanno indotta ad approfondire la lettura del particolare prima che dell’insieme. Seppur lontani cronologicamente e stilisticamente, i dipinti presenti evocano tematiche utili per focalizzare l’attenzione su un dettaglio della pala di Giovenone della collezione Sella e per approfondirlo. Temi come la Natività e l’Adorazione, i tanti angeli dai capelli dorati, le iconografi e dei santi che si susseguono senza sosta nel tempo dell’arte, lo sviluppo delle architetture e dei paesaggi di fondo, benché di epoche molte diverse, sono tutte tematiche ben presenti nel nostro inedito che, grazie a queste suggestioni di sala, possono essere sviluppate singolarmente attraverso una attenta lettura stilistica e diagnostica 19 . Osservando un dipinto antico, magari rapiti dall’equilibrio delle forme e dall’eleganza dei colori, raramente ci soffermiamo a rifl ettere su quanto quel risultato straordinario sia l’esito di un lavoro lento ed estremamente complesso che richiede tempi, competenze e abilità eccezionali. Un esempio, tra le tante opere scelte, è lo spunto offerto dalla bellissima tela San Luca pittore, opera dell’artista piemontese Vittorio Amedeo Rapous. Lo scopo è proprio quello di rifl ettere sul processo creativo dell’opera d’arte, quel lento cammino che parte dai colori preparati sulla tavolozza per giungere sino al dipinto fi nito. Nella tela è ritratto san Luca, ritenuto della tradizione cristiana autore del primo ritratto alla Vergine e quindi eletto patrono di tutti i pittori. Il santo regge un’ampia tavolozza sulla quale sono ordinatamente disposti i colori miscelati e pronti a fi nire sulla tela. L’inizio, insomma, della fase più importante del processo creativo. Per altro nessun luogo potrebbe essere più adeguato a suggerire una rifl essione sul processo tecnico che sta alla base della creazione artistica della sede che ci ospita, l’Accademia Albertina di Torino, fra i più importanti centri di insegnamento e tradizione pittorica dell’Ottocento e del Novecento italiano. Per raccontare di Gerolamo e della sua straordinaria produzione artistica, un’altra occasione ci viene dalla sala delle copie, dove fanno bella mostra di sé una Sacra famiglia con san Giovannino, copia da Andrea del Sarto, una Vocazione di san Matteo, copia da Caravaggio, e una Educazione di Bacco, copia di Pieter Paul Rubens. È un’epoca in cui si copia volentieri ciò che “è bello” e di cui si dispone, senza pregiudizio alcuno. Copia non è sinonimo di falso! Un esempio, tra i tanti, la vicenda della fortuna piemontese della Madonna di Orléans di Raffello (Chantilly, Musée Condé) si ricollega alla bottega di Martino Spanzotti nella quale, come abbiamo detto, si formano sia Giovenone che Defendente. La vicenda fa riferimento a una lettera del 25 ottobre 1507 nella quale lo stesso Spanzotti scrive al duca Carlo II di Savoia che la Madonna fi orentiva veniva restituita al duca insieme a una copia realizzata dal pittore piemontese, aggiungendo: “Credo che vostra signoria troverà questa meglio dell’altra”. Dal 1507 per quasi quarant’anni il modello di Raffello ha avuto larga fortuna tra i pittori piemontesi. In particolare, la critica ha potuto riconoscere almeno quattro versioni della Madonna di Orléans realizzate da Gerolamo Giovenone, tra cui quella esposta in mostra proveniente dalla collezione di Palazzo Madama (fi g. 7 a p. 41), e una datata 1526 attribuita a Defendente Ferrari, oggi al Rijksmuseum di Amsterdam. Dunque nessuna riconducibile alla mano dello Spanzotti ma soltanto a quelle di due suoi allievi in quel momento presenti nella sua bottega. Le repliche, più scorrono gli anni, più si allontanano dalle dimensioni dell’originale. Di Gerolamo, oltre a quella indicata, datata circa 1540, se ne conoscono altre tre versioni: una tavola (32 × 23 cm) collezione privata; una seconda tavola (30 × 22 cm) conservata al Walters Art Museum di Baltimora (fi g. 9 a p. 42); una terza (56 × 38 cm) passata all’asta da Sotheby’s a Londra il 9 luglio 1998 (lotto 168). Non è stato possibile rintracciare una ulteriore versione, un tempo nella collezione Cook a Richmond (Surrey)
e restituita a Giovenone da Berenson, che risulta essere su rame, di 31 × 22 cm 20 . Il complesso fenomeno della copia, legato alla fortuna di un artista o di un’opera, rientra nella storia del gusto e del collezionismo. Da sottolineare la differenza tra copia e replica, ripetizione, da parte dello stesso autore di una propria opera, anche apportandovi varianti. Ciò che rende interessante un’analisi comparata dei dipinti degli artisti della scuola vercellese è la certezza, grazie alle numerose copie e repliche dello stesso soggetto, che spesso prendessero spunto dagli stessi disegni preparatori. Molti disegni dei cartoni cinquecenteschi conservati alla Pinacoteca Albertina ne sono prova. Questa è la ragione per la quale si è pensato di esporre la pala nella sala dei Cartoni della Pinacoteca Albertina. La pala Sella, infatti, si colloca all’interno della produzione di Gerolamo Giovenone e della sua bottega non come un esito isolato e autonomo, ma come il frutto particolarmente felice di una ricerca artistica estremamente coerente: una produzione che, fra arte e artigianalità, ripropone e rielabora con sapiente costanza gli stessi elementi. La fi gura della Vergine e del san Giuseppe, il bambino adagiato sulla paglia e sorretto da un angelo genufl esso, le fi gure di santi alle spalle, come chiaramente messo in luce dagli altri contributi di questo catalogo, sono modelli ricorrenti nella produzione dell’artista e della sua famiglia, riproposti quasi identici o con poche varianti iconografi che nel corso di molti decenni. Questi modelli rappresentano la cifra stilistica e iconografi ca fondamentale dei Giovenone, il loro tramandarsi attraverso gli anni è affi dato proprio ai cartoni. Non semplici materiali ancillari destinati all’abbandono e alla distruzione una volta che l’opera maggiore prende corpo e colore, ma studi preparatori considerati di altissimo valore, conservati con cura all’interno della bottega. Matrici, potremmo dire – benché non vengano mai utilizzati come spolveri – dalle quali hanno origine tutte le opere uscite dalla prolifi ca bottega del Cinquecento piemontese. Nelle grandi carte paglierino vergate a matita e quasi celate dalla luce tenue della sala che le ospita, troviamo la prima idea, o talvolta la rielaborazione e l’evoluzione, delle scene, delle pose e dei personaggi che compongono la pala Sella. I cartoni della scuola di Giovenone, Lanino e Gaudenzio Ferrari ci presentano, scomposti o ricombinati, tutti gli elementi che compongono la nostra Adorazione, che troverà prossima destinazione tra le opere pittoriche dei tanti artisti citati, presenti con le loro opere nella ricca collezione del Museo Borgogna di Vercelli 21 .
1 Si veda il testo in catalogo di Massimiliano Caldera (pp. 27-33). 2 G. Colombo, Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi, Vercelli 1883, p. 4. 3 O. Santanera, Il pittore Giuseppe Giovenone il Vecchio, in “Bollettino Storico Vercellese”, XI, 18, 1982, p.135. 4 Colombo, Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi cit.; A. Baudi di Vesme, Schede Vesme. L’arte in Piemonte dal XVI al XVIII secolo, vol. IV, Torino 1982, pp. 1333-1364; S. Baiocco, voci in Dizionario Biografi co degli Italiani, vol. LVI, Roma 2001: Giovenone, famiglia (pp. 410-412); Giovenone, Gerolamo (pp. 412-415); Giovenone, Giuseppe (pp. 415-417). 5 A. Barbero, Quando Vercelli era più grande di Torino, in “La Stampa”, Torino, 26 gennaio 2017. 6 Ibidem. 7 A. Treves, Cenni storici, in Vercelli nella storia dell’arte, Vercelli 1910, p. 20. 8 Colombo, Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi cit., p. 6. 9 Archivio di Stato di Torino, Prot. Ducali, vol. 219. 10 Ibidem. 11 Santanera, Il pittore Giuseppe Giovenone il Vecchio cit., p. 166. 12 Cfr. G. Levi, Come Torino soffocò il Piemonte, in Centro e periferia di uno Stato assoluto. Tre saggi su Piemonte e Liguria in età moderna, Torino 1985.
13 C. Rosso, Gli incerti confi ni del Piemonte orientale, in Letteratura di frontiera: il Piemonte Orientale, a cura di R. Carnero, atti del convegno (Vercelli, 2001), Collana di Studi Umanistici 16, Vercelli 2003, pp. 383-400. 14 R. Ordano, Le tipografi e di Vercelli, Vercelli 1983, pp. 29-30 15 P. Masoero, La scuola Vercellese, in Vercelli nella storia dell’arte cit., p. 40. 16 Colombo, Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi, p. 47. 17 Masoero, La scuola Vercellese cit., p. 49. 18 Cfr. Orsola Maddalena Caccia, a cura di P. Caretta, D. Magnetti, catalogo della mostra (Castello di Miradolo, 3 marzo - 29 luglio 2012), Savigliano 2012. 19 Un contributo, quello dato dall’analisi dignostica, a cui è stato sottoposto il dipinto durante le diverse fasi del restauro, che ci consente di conoscere un microcosmo capace di fare chiarezza sui tanti misteri della storia dell’opera. Si veda, in proposito, il saggio in catalogo di Thierry Radelet (pp. 61-65). 20 Per il riepilogo della questione delle varie repliche piemontesi dal prototipo raffaellesco, con la bibliografi a relativa, rinvio a S. Baiocco, Una Madonna di Gerolamo Giovenone, in “Palazzo Madama. Studi e notizie”, I, 0, 2010, pp. 143-149. 21 Si veda il testo in catalogo di Cinzia Lacchia (pp. 45-53).